PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Direzione ed Amministrazione : GENOVA, Via Lomellini 11 La puttlicazione esce sotto gli auspici del Municipio e della R. Università di Genova, della R. Deputazione di iStoria patria per la Liguria e del Municipio de La iSpezia. Abbonamento annuo: Per l’Italia Lire 36 - Per l’Estero Lire 70 Un fascicolo separato Lire 8 - Doppio Lire 16 SOMMARIO Robert L. Reynolds - A. E. Sayous - Mattia Moresco, Gli studi americani sulla storia genovese, pag. 1 — D. Guglielmo Salvi, Castel Franco di Finale, pag. 28 — Ferruccio Sassi, Riviera di Levante e Lunigiana nella 'politica navale genovese dopo lo sfacelo della Marca (continuaz. e fine), pag. 45 — Mario Battistini, Il monumento sepolcrale degli Spinola nella chiesa di Notre Dame de la Chapelle a jBruxell-es, pag. 54 — RASSEGNA BIBLIOGRAFICA : R. Ciasca, Storia colo-niale delVItalia contemporanea, (Vito Vitale) : Ugo Oxilia, il periodo napoleo-nico a Genova e a Chiavari (1795—1814) (Vito Vitale) : Vincenzo Bandini, Ap· punti sulle corporazioni romane (Mario Celle) : Aldobrandino Malvezzi, Cristina di Beigioioso, vol. Ili (Leona Ravenna) : Mario Ferraris, ìl generale Carlo Corsi (Riccardo Maineri) : Carlo Pisacane, Epistolario (Costantino Panigada), pagg. 60-76 — Renzo Baccìno, Spigolature e Notizie, pag. 77. GASSA DI RISPARMIO E MONTE DI PIETÀ’ DI GENOVA Sede Centrale: GENOVA - Via Davide Chiossone, 5 FILIALI GENOVA - GENOVA GENOVA GENOVA GENOVA GENOVA GENOVA GENOVA GENOVA GENOVA CEN™iif,C!," SÌ SAMPIERDARENA SESTRI PEGLI V0LTR1 RIVAK0L0 B0LZANET0 P0NTEDECIM0 NERVI MOLASSANA ALASSIO ALBENGA ARENZANO B0R0IGHERA BUSALLA CAMPOLIGURE CHiAVARI FINALE LIGURE IMPERIAONEGLIA L0AN0 M0NT0GGI0 NOVi LIGURE PIETRA LIGURE PIEVE DI TECO RAPALLO RECCO REZZOAGLIO S. REMO §. MARGHERITA LIGURE SESTRI LEVANTE TAGGIA TORRIGLIA VARAZZE VARESE LIGURE DEPOSITI A RISPARMIO - CONTI CORRENTI - TUTTE LE OPERAZIONI Di BANCA SCRITTI EDITI ED INEDITI DI GIUSEPPE MAZZINI POLITICA, LETTERATURA ED EPISTOLARIO EDIZIONE NAZIONALE, a cura dello Stato, in 100 volumi, in-8 (di cui 75 già pubblicati), corredati daiUuetr. arricchiti da preg. introduzioni e note. Decretata dal Governo del Re, nel marzo del 1904, quale a solenne attestazione di riverenza e gratitudine dell’Italia risorta, verso VApostolo dell’unità.... Durevole e doveroso omaggio alla memoria di Lui....» e che il Governo Fascista ha voluto accelerare in modo da essere completa entro il 1941, costituisce un’opera grandiosa per il suo altissimo valore storico, politico e letterario ed insieme un capolavoro editoriale. Ne forma completamento IL PROTOCOLLO DELLA GIOVINE ITALIA IN 6 VOLUMI IN 8° Preziosissima, incalcolabile miniera di notizie per chi voglia addentrarsi a studiare quel periodo che costituisce la preparazione al primo atto grandioso per cui l’Italia s’awiò armata per la via dell’unità, nazionale. Scritti e Protocollo vengono editi in due tipi : l’uno del costo medio di L. 10 il volume, l’altro su carta a mano a L. 40 il volume dalla COOPERATIVA TIPOGBAFICO-EOITRICE PAOLO GALEATI DI IMOLA Anno XIV - 1938-XVI Fascicolo I - Gennaio-Marzo GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Direttore: ARTURO CODIGNOLA Comitato di redaziojie : CARLO BORNATE - PIETRO NURRA - VIIO A. VITALE GLI STUDI AMERICANI SULLA STORIA GENOVESE (Risposta a A. E. Sayous) (*) M. André E. Sayous si è dedicato, durante l’ultimo decennio, allo studio della storia delle istituzioni economiche medievali. Con la sua lunga esperienza nelle analisi di problemi economici, egli ha esaminato materiali conservati, per la maggior parte, negli archivi di Barcellona, di Marsiglia, di Genova, di Venezia, senza trascurare quelli di altri centri italiani, e ci ha dato numerosi articoli, brillanti ed utili, sulla banca, sulla finanza in generale, e sulle forme dell’attività mercantile, specialmente nel secolo decimoterzo. Le sue vedute sono larghe, e il suo campo di studi si va vieppiù ampliando. A lavoro completo, il Sayous ci darà senza dubbio un’opera degna di stare a fianco ad altri lavori di sintesi. Per un periodo di tempo un po’ più lungo il Prof. E. H. Byrne, già docente alPUniversità del Wisconsin, ora a Columbia University, coadiuvato da alcuni dei suoi discepoli, ha coltivato lentamente e modestamente un angoluccio del campo di studi del Sayous. Grazie alla generosità del Governo Italiano e all’aiuto finanziario provvisto dalPUniversità del Wisconsin, un numero considerevole di co- (!) Professor Giuseppe Rossi of thè Department of Italian Language and Literature of thè University of Wisconsin has kindly refashioned into Italian tlie stiff English text of thè article which I originally submitted to this domale. On his behalf I beg thè considération of its readers, for by officious help in keeping thè translation as nearly literal as possible I greatly hampered his efforts to give it literary form. Incidentally, my tone in thè English version was intended to be reserved and frigid. I am afraid thè Italian version is warmer. 2 ROBERT L. REYNOLDS pie fotostatiche di protocolli di notai genovesi dei secoli decimosecondo e decimoterzo, venne depositato nella- biblioteca di questa Università. In tal modo si ottennero tutti i materiali del secolo decimo -secondo, ad eccezione di pochi folli, e buona parte dei folti del secolo decimoterzo. Fin dal principio il Prof. Byrne e i suoi discepoli si resero conto della natura limitata del loro campo di ricerche — una collezione di documenti su una singola parte di un vasto campo — mar contenti di studiare a fondo quella collezione, essi si sono limitati a pubblicare ogni tanto degli articoli sul commercio genovese per terra e per mare, come risultava dai documenti esaminati. Essi si sono limitati a pubblicare ogni tanto degli articoli sul commercia genovese per terra e per mare, come risultava dai documenti esaminati. Essi erano convinti che questa loro attività fosse ben giustificata dal fatto che la maggior parte degli studi sul commercio antico si era basato, specialmente per ciò che concerne il secolo decimosecondo, su frammentarie, e a volte difettose, pubblicazioni proprio dei documenti ora riuniti nella biblioteca dell’Università del Wisconsin. Una ognor crescente familiarità con l’insieme di questa collezione convinse gli studiosi del Wisconsin della necessità di nuovi articoli che bilanciassero, correggessero, o completassero i lavori già esistenti. È stato con grande sorpresa e, diciamolo, risentimento che ho letto la violenta critica di tutto il lavoro della « scuola di Byrne », pubblicata da Sayous in un recente numero del Giornale Storico e Letterario della Liguria. In detto articolo il Sayous getta sulla bilancia tutto il peso della sua autorità e della sua ben meritata fama, contro le conclusioni degli studiosi americani. In una magnifica prosa, generosamente cosparsa di frasi e aggettivi derisori, il Sayous si compiace di analizzare le prove della nostra cecità, di rilevare i nostri errori di fatto, e di proclamare la nostra, poca attendibilità (*). Fra studiosi le violente diatribe di carattere personale sono piuttosto rare, e non sono mai considerate di valido ausilio alla chiara comprensione di un .dato gruppo di fatti o di fenomeni. C’è però la costumanza di analizzare criticamente una data affermazione, specialmente se concernente dati di fatto, e la costumanza da parte dello scrittore criticato di difendere il punto di vista da lui avanzato. È nello spirito di questa costumanza che sento il dovere di rispondere. Mi propongo quindi, nel presente articolo, di prendere in esame le asserzioni del Sayous (lasciando da parte quelle di na- O) Per un riassunto dei primi lavori del Byrne nel campo della storia genovese, si consulti Atti della Società Ligure di Storia Patria, voi. 52, (1924),. pp. 367-395. GLI STUDI AMERICANI SULLA STORfA GENOVESE 3 tura· retorica) nell’ordine stesso in cui appaiono nella sua recensione degli studi americani, ribattendole nel limite della mia capacità. In ogni caso citerò il Sayous. Sayous, p. 82 e segg. Robert L. Reynolds a fait, incidemment, cette observation : « L’Italie, Gênes comprise, était un territoire qui avait une unité de vie et de technique commerciales ». (Nota : R. L. Reynolds, Genoese Trade in thè Late Twelfth Gentury (Journal of Economie and Business History), May 1931, p. 363, note). Tout au contraire, les villes maritimes et les villes à l’intérieur des terres de l’Italie avaient une «vie» et une ((technique» nettement différentes.... Secondo l’affermazione del Sayous, elaborata in parecchi successivi paragrafi, sembrerebbe che io qui sia caduto in serio errore. Il Sayous cita, in appoggio alla sua tesi, quattro articoli propri (senza dare referenze specifiche ai passaggi pertinenti alla questione) pubblicati tutti da uno a quattro anni dopo la preparazione del mio articolo ! Ammetto però che dove la mia affermazione manchi di base, questo fatto non costituisce una scusa. Ma vediamo se il mio pensieri· viene riportato scrupolosamente dal Sayous. Egli cita una frase presa da una nota. Questa nota si riferiva a un paragrafo di introduzione generale mirante a.disegnare a larghi tratti il quadro dell’organizzazione commerciale dell’Europa verso la fine del secolo decimosecondo. A questo punto particolare io paragonavo l’area transalpina (francese) con la tosco-lombarda. In questo articolo io studiavo il commercio fra Genova· e la Sciampagna, descrivendo i traffici attuali tra le due regioni senza indulgere in analisi economiche d’ordine teorico. Qual’è la mia asserzione? Ha essa fondamento nelle fonti studiate? Ecco il testo e la nota relativa nella loro interezza ; « Commerce between Genoa and lier neighbors (Milan, Pavia, ecc.) seems to ha ve con-formed in character to thè common Lombard-Tuscan technique of trade- (Note) : This is everywhere evident in thè documents of thè merchants of all Italy left by them in Genoa when in thè city on business. The methods of Romans, Sienese, Lucchese, Pisans, Florentines, Milanese, etc., are all of a single pattern. Italy, Genoa included, was an area with one business life and technique ». Non vedo alcuna ragione per modificare la mia asserzione. Ed a questo riguardo mi piace citare un paragrafo del dotto studioso Koberto Lopez che dopo aver studiato centinaia di protocolli notarili genovesi asserisce : « Negli uffici dei nostri notai formicolano italiani d’ogni regione; e se anche i borghesi delle città marittime possono esservi malvisti come pericolosi concorrenti, con quelli delle città interne i Genovesi vivono in una stretta simbiosi. E di fronte a contratti che ci parlano di commende concesse per la Provenza e la Siria da Genovesi a un Astigiano, o di denari depositati in Francia da Genovesi in una. banca Senese, o di un borghese « 4 ROBERT L. REYNOLDS di Portovenere che si obbliga con un Senese a favore d’un Milanese alla presenza di testimoni d’Orvieto di Parma di Firenze, vien quasi da pensare che nell’economia e nel commercio lo spirito unitario Italiano sia penetrato inconsciamente prima ancor di cominciare a farsi luce nell’animo dei poeti ». (Nota) : « E gli esempi si potrebbero moltiplicare ». (Roberto Lopez, I/Atti/oità economica di Genova nel marzo 1253 secondo gli atti notarili del tempo, Atti, voi. 64, (1935-XIII), p. 178). Sayous, p. 84 : Aussi malheureuse est la fréquente insistance de Reynolds sur l’existence de « nobles » parmi les commerçants à l’époque de l’histoire de Gênes étudiée par lui (fin du XII siècle). Pour s’en rendre compte, le mieux est de lire notre étude sur « l’aristocratie et noblesse de Gênes » (non ancora apparso negli Annales d’Histovre Economique et Sociale) où nous avons fait ressortir la rareté de la noblesse féodale, la formation bien lente d’une classe nouvelle par la participation au Consulat et à d’autres charges. A Gênes, l’influence de la fortune gagnée dans les affaires s’est excercée dans le domaine politique plutôt que l’on constate une influence inverse. È un po’ difficile discutere la definizione di nobile genovese del Sayous, perchè essa non è ancora apparsa a stampa (*). Ma da quanto si può capire da questa citazione, sembra che la sua osservazione sulla nobiltà genovese sia all’incirca la stessa di quella classica fatta nel secolo decimosecondo da Ottone di Freising a. proposito della nobiltà lombarda. Si è preso per dato e concesso che nel chiamare « nobile » un genovese della fine del secolo decimosecondo, non s’intendesse una necessaria esclusiva referenza alla nobiltà feudale. Nel mio articolo ho chiamato nobili membri delle famiglie de Volta, Malfilia-ster, Cavaruncus, Spinola e Malocellus. Son certo ch’essi si consideravano tali verso la fine del secolo decimosecondo. A pagina 375 del mio articolo io dico che ogni tanto dei nobili prendevano parte al commercio terrestre con la Sciampagna in qualità di compratori in Genova. Le referenze citate si riferiscono a documenti concernenti membri delle famiglie succitate. Se essi non erano nobili (e il Sayous lo proverà nel suo futuro articolo) dovrò ammettere che in questo punto il mio articolo è in errore. Ma questo è un punto d’importanza secondaria, giacché quando" ho accennato, di sfuggita, ai nobili (cinque volte - frequente insistence?) 0) Dopo aver scritto il presente articolo mi è pervenuto il saggio del Sayous. Confesso candidamente che non capisco perchè egli vi abbia alluso come a uno scritto che avrebbe corretto o modificato quel che io dissi nel 1930. Si tratta di un saggio d’indole generale che si basa, almeno per quel che tratta del secolo decimosecondo, su lavori noti e arcinoti di altri studiosi, e che non contiene nemmeno la più lontana allusione che possa controvertere il mio uso della parola « nobile ». Ho avuto lo stesso inconveniente nel controllare altre citazioni del Sayous. GLI STUDI AMERICANI SULLA STORIA GENOVESE 5 li ho considerati un elemento secondario nel commercio che descrivevo. Io m’interessavo veramente delle attività dei « ricchi genovesi » che vendevano merci importate d’oltremare a mercanti astigiani che trafficavano con lo Sciampagna.. A dinotare questi ricchi genovesi, dopo aver descritto la natura dei loro affari, io ho usato il termine « grat importerà ». E questo mi porta all’articolo seguente del catalogo d’errori importanti da me commessi. Sayous, p. 84: Autre exagération relative aux « grands commerçants génois », « tous riches ». La roue de la fortune tournait vite à Gênes vers la fine du XII siècle, et souvent à l’envers! I miei dati non sono qui messi in dubbio. Sembra che si tratti di una questione di logica più che altro. I miei dati mostrano che un gruppo di ricchi genovesi si dedicava a una determinata specie d’attività. Era forse necessario dichiarare che, in caso di fallimento, un ricco genovese cessava d’esser ricco e automaticamente veniva eliminato dal quadro di attività che ho cercato di descrivere? Non capisco come ci entri la ruota della fortuna, nel mio articolo! (Cf. p. 366 del mio scritto). Sayous, p. 84 : Première trace de la confusion du nom de la famille Banchero avec la profession de « banquier » ! Rimando la discussiose di quest’accusa a più tardi, discutendo il lavoro di Miss Margaret W. Hall, quando anche il Sayous riprende la. quistione. Sayous, p. 84 : Comparaison malheureuse presque à tous les points de vue, du traffic, par terre entre Gênes et les Foires de Champagne avec celui par « caravane » ! Ma io non intendevo paragonare questo traffico al traffico carovaniero. Io lio detto, invece, ch’esso era traffico carovaniero. (Cf. p. 374, e nota 1, p. 375 del mio articolo). Dopo aver dato una tirata d’orecchi al sottoscritto, il Sayous passa al Professor Byrne. Egli fa due appunti specifici ai lavori del Byrne, oltre all’accusa generale che il Byrne è troppo meticoloso nei suoi metodi di pubblicazione. A pp. 84-86 egli nega le conclusioni del Byrne in riguardo alla priorità della forma d’investimento \sooietm su quella di accomendatiio; e a pp. 86-87 egli rigetta sprezzantemente il lavoro del Byrne sulla quistione dei loca di navi nel periodo che corre all’incirca tra il 1150 e il 1250. 6 ROBERT T.. REYNOLDS Il secondo appunto, quello concernente i loca, sarà discusso minutamente. Per quanto riguarda il primo, sono io stesso incline ad accettare le conclusioni del Sayous O). Non pertanto non posso fare a meno d’esprimere un senso di sorpresa per la maniera della sua presentazione. Per esempio, il Sayous complimenta quasi l’eccellente studioso A. Scliaube per aver sostenuto, in vari periodi di tempo, due differenti punti di vista sul soggetto. Lo Scliaube arrivò a « conclusioni rivedute » dopo la pubblicazione di circa venti .nuovi documenti proprio della collezione genovese, la nostra « source merveilleuse » (2) ! Byrne riesaminò le conclusioni di Schau-be, Goldsclimidt, ecc., dopo aver studiato altre centinaia di questi documenti I Le sue conclusioni saranno discutibili ma non certo da rigettarsi sol perchè dei documenti di Barcellona del secolo decimoterzo presentano un quadro differente, come sembra opini il Sayous. Ripeto che secondo me il Sayous in generale ha ragione, ma ritengo altresì che le ragioni date per condannare il Byrne siano molto deboli. E sento il dovere di aggiungere, che prima di poter assumere una posizione dogmatica su questo argomento bisognerà saperne molto di più di quel che si conosce ora. *E veniamo al secondo appunto del Sayous. Confesso· che qui con difficoltà riesco a. vincere la tentazione di esaminare ad uno ad uno gli errori di cui il Sayous ha infiorato la sua discussione. Ma mi rendo conto, d’altronde, che siccome le conclusioni originali del Byrne, (conclusioni recisamente negate dal Sayous), se accettate, sono della massima importanza per la storia delle istituzioni finanziarie mercantili, il lavoro positivo di ristabilire la validità della tesi del Byrne è molto più importante di quello· di riveder le bucce al Sayous. Seguirò lo stesso ordine seguito dal Sayous, indicando, quan- (!) Baso questa mia osservazione sul fatto che mentre da una parte i vecchi documenti studiati dal Byrne confermano il quadro del commercio levantino da lui descrittoci, nuovi documenti mostrano dall’altra che l’accomandati^ occupava un posto molto più importante nel commercio del Mediterraneo occidentale, specialmente nel Nord Africa. Il Prof. Hilmar C. Krueger ha studiato questa quistione, ma il suo lavoro non è ancora pronto per la pubblicazione. (2) Schaube si è occupato di circa una ventina di documenti genovesi nel suo « Rechtsgeschafte und Rechtsstellung der « Lombarden » in der iilteren Zeit ihres Auftretens in Frankreich », Zeitschrift fiir das gesamtc Handles-recht und Konkursrecht, vol. LXI, 1908, p. 302 (la referenza è del Sayous). Lo Schaube si mostra felicissimo che uno studioso genovese abbia per caso pubblicato due documenti vertenti suWaccomendatio terrestre, datati 1191 e 1198. La leggera modificazione apportata dallo Schaube alle sue vedute, si limita a includere nel quadro delle attività da lui anteriormente esaminate, quelle descritte in questi nuovi documenti. Le sue prime osservazioni si riferivano alla accomendatio marittima la quale, insieme alla societas maHs, costituisce il soggetto studiato dal Prof. Byrne. Cfr. Byrne, Commercial contracta of tlie Genoese in thè Syrian trade of thè Twelfth Gentury, « Quarterly Journal of Economies », vol. XXXI, (nov. 1916), p. 136, nota 1. GLI STUDI AMERICANI SULLA STORIA GENOVESE 7 do necessario per la retta comprensione del Byrne, alcuni punti in cui il nostro critico non sembra aver inteso bene il testo inglese o le citazioni latine. Sayous, p. 86: Byrne a cru faire une autre découverte sur les parts (loca) de bateaux et, plus spécialement, sur leur nombre; elles auraient dépendu du nombre de marins à embarquer ou embarqués. Il a cité, à l’appui de sa thèse, quelques textes qui ne visent nullement ce point. Sayous (nota) : « Atti della Società Ligure di Storia Patria », vol. II, parte II, p. 127 (decima de mari) e vol. XVIII, p. 163, 271 (blé remis en paiement de transport). L’uso a cui il Byrne ha adibito questi documenti è abbastanza modesto. In una parte d’una nota, a pagina 16, a prova dell’affermazione fatta nel testo che il numero dei loca e il numero dei marinai sulla nave per molto tempo era stato identico, Byrne dice: « In corroberation of this I fìnd thè équation of loca and mariners implied in documents published in thè Atti.... » (citando la stessa referenza data dal Sayous) (*). Sayous asserisce che i testi citati non hanno a che fare con la quistione, perchè si riferiscono alla decima de mari, e al « blé remis en paiement de transport ». Ma proprio perchè si riferiscono alla decima maHsy i testi sono di grande importanza per la tesi del Byrne. Essi si riferiscono, è vero, al « blé » e « transport », ma non hanno nulla a che fare con i noli, come sembra che opini il Sayous. Vediamo prima di tutto qual’era la natura della decina de mari o decima maris (2). Nella prima, metà del secolo decimosecondo una decima di questo nome era riconosciuta come di pertinenza del Vescovo (più tardi Arcivescovo) di Genova e della sua Curia. L’importanza di questa decima sembra sia stata notevolissima, a giudicare dall’attività esplicata nel difenderla (e forse nell’estenderne l’applicazione dovunque arrivasse il potere genovese) in cause portate per l’intero secolo seguente e oltre davanti alle autorità cittadine. L’elenco delle rate l1) La critica del Sayous si limita alla correlazione tra il numero dei loca e quello dei marinai che il Byrne ritiene esistere nella marina genovese alla fine del secolo decimosecondo e al principio del decimoterzo. Essa non ha necessaria relazione con la posizione presa dal Di Tucci il quale non accetta l’ipotesi avanzata dal Byrne che i loca costituissero azioni di proprietà (cfr. R. Di Tucci, Le navi e i contratti marittimi; la Banca privata (Torino, 1933-XI) pp. 24-5 e seguenti, specialmente pp. 42-3. Il Di Tucci accetta ed elabora la relazione vista dal Byrne tra locum e marinaio, mentre il Sayous. rigettando questa relazione, accetta la posizione del Byrne che i loca rappresentassero azioni di proprietà. (2) Sulla storia della decima maHs, ved. Atti, vol. II, fase. I (1870), pagine 458-476. 8 ROBERT L. REYNOLDS della decima (la quale veniva pagata su certe importazioni marittime di grano e sale), si trova pubblicato nelle prime pagine dell’inventario dei beni del Vescovato, 1143, nel Registru/m Curiae Archiepiscopalis Januae, Atti, vol. II, parte II, pp. 9-11. I Consoli della città, ripetevano quest’elenco in forma identica, e ne riaffermavano la validità nel 1175, Atti, XVIII, pp. 456-7. Ad eccezione di questi due elenchi di pagamenti, tutti gli altri documenti che toccano la quistione delle decime — documenti pubblicati nei due volumi degli Atti che includono l’edizione Belgrano dei registri della Curia — trattano di laudes di consoli e di aLtre autorità giudiziarie emesse a sostegno dei diritti vescovili. Byrne riferisce esclusivamente a questi laudes che incontriamo in una serie abbastanza continua : 1117, 1145, 1159 (tre documenti), 1163, 1166, 1194 (cinque documenti), 1195 (due), 1199, 1203, 1205, 1209, 1214, 1228 (tre), 1256, 1257. Come si calcolava questa decima? Ora entriamo nella quistione del locum-marinaio. Negli elenchi di rate, e nella maggior parte dei la/udes (nei quali vi è quasi intiero l’elenco di rate in extenso), si trova una terminologia ambigua: ogni homo a bordo era tenuto al pagamento, oppure pagamento era dovuto per ogni homo a bordo della nave. Questo può intendersi variamente. Era l’unità per il calcolo della tassa per ogni anima a bordo? Oppure per ogni mercante? Oppure ogni « uomo » dell’equipaggio della nave, vale a dire, ogni marinaio? Evidentemente qualunque altro metodo di calcolo, eccetto l’ultimo, offre delle difficoltà. Solo seguendo questa ipotesi si ottiene una base equa per cui una nave di una certa capacità di carico pagherebbe lo stesso ammontare versato da altre navi della medesima capacità. In altri termini, dove il testo latino parla di tassa per hominem, il significato giusto sarebbe che la capacità della nave era calcolata in base al numero degli uomini d’equipaggio ; essendo il numero dei marinai o di altre persone addette al servizio di una nave, proporzionato alla capacità di trasporto. Una tassa calcolata su tale base ha il vantaggio di colpire ugualmente tutte le navi ; è facile ad assegnare; e rende impossibile la parziale evasione da parte di grandi navi che non trasportassero che pochi mercanti e passeggeri. L’ipotesi viene confermata da un’attenta lettura dell’intera serie dei documenti (*). Lo si può inferire dal fatto che in alcuni dei più antichi di essi, il nauclerms (capo dell’equipaggio) non era incluso nel totale. Poi, in documenti più recenti, l’equazione di homo (agli scopi della decima) e mwrvnarius diventa specifico. Non c’è possibilità d’errore. Si è forzati alla conclusione che la grande decima maris di Genova veniva calcolata in base al numero dei marinai di (i) Ved. Appendice I. GLI STUDI AMERICANI SULLA STORIA GENOVESE 9 ogni nave. È a credere che per la classifica delle navi, gli ambienti marinari, usassero tale equa base nel modo stesso in cui oggi si usa il tonnellaggio. Ma se gli agenti fiscali del vescovado classificavano le navi in « navi da dieci uomini », « navi da sessanta uomini », e via dicendo, usavano essi indifferentemente, e come equivalenti, i termini di « navi da dieci loca », « navi da sessanta loca »? I notai, i consoli della· città e i litiganti adoperano il termine locum. in casi in cui ci sarebbe invece da aspettarsi Uomo o marvruarius? Questo è proprio il caso in due dei documenti citati dal Byrne (proprio quelli che il Sayous dice trattare di « blé remis en paiement de transport »), e in un terzo (vol. XVIII, p. 270), non citato dal Byrne. È sufficiente? Sayous, a p. 86 (continuando nel succitato paragrafo) dice : Deux seulement (dei documenti offerti dal Byrne in appoggio alla sua tesi) peuvent être retenus, dont un seul net et précis : le protocole d’un notaire génois, en date del 1224, contenant la déclaration d’un marin qu’il y avait vingt-six parts {loca) d’un bateau, parce qu’il y avait vingt-six marins à bord (pro quilibet loco erat unus niarvnarms) ; d’un des participants nourrissait même le marin choisi par lui « à sa table ». Il ragionamento del Sayous è sorprendente! Non riesco a vedere che relazione ci sia tra le parole del Byrne e l’osservazione del nostro critico. Se si pensa che il testo del Byrne non è che una traduzione letterale di un passaggio latino che il Sayous evidentemente conosce (giacché lo cita), le parole del Sayous diventano incomprensibili addirittura. Per chiarire la quistione non c’è di meglio che citare il Byrne di nuovo, dando il testo latino in nota. Byrne, p. 15 : « A lawsuifc; involving thè ownership of shares in a vessel sold in Syria, occured in Genoa in 1224. In thè mass of testimony from owners, ex-consuls in Syria, and common seamen, one of thè latter who had been employed on thè ship, was asked how he knew there were twenty-six loca in thè ship. He replied’tliat he had heard it said on thè said ship and he saw there twenty-six mariners and that for each locum there was one mariner and well he knew that Guglielmo de Rampono had two loca in said ship because he himself had heard this said by Guglielmo and by tlie scribe of thè ship and that thè same Guglielmo fed two mariners on said ship at his table, namely him and another and I heard it said by thè scribe of tlie ship that Guglielmo alone was to carry us as expenses for two loca » (x). (i) Atti della Società ligure di Storia Patria, vol. XXXYI, Liber Magistri Salmonis (ed. A. Ferretto), p. 314. (Titolo II, nell’interrogatorio, p. 309) : Item ex eo quod dicto tempore, ipse Guillelmus habebat solumodo in ipsa navi loca duo, et erat ipsa navis locorum XXVI). Item de secundo titulo dixit ut in titulo Interrogatus quomodo scit quod 10 ROBERT L. REYNOLDS È evidente ohe questo documento sia d’indiscutibile ausilio alla tesi del Byrne. La citazione successiva è dal Sayous trattata identicamente. Sayous, a pagina 86 (e continuando ancora nello stesso paragrafo) : Quant à l’autre texte, il traite du renvoi de marins engagés, lors de la vente de parts d’un navire : on devait renvoyer d’abord ceux qui avaient été choisis par les vendeurs de parts; ce qui démontre qu’un participant pouvait désigner un homme d’équipage, non que le nombre des participants était égal à celui des marins. Ma il Byrne non si è mai sognato di avanzare l’assurda ipotesi che il numero dei partecipanti sia uguale al numero dei marinai. Anzi, proprio alla pagina opposta a quella citata, il Byrne, sia nel testo che nelle note, mostra come spesso un partecipante possédés se parecchi loca della stessa nave. Anche in questo caso il testo del Byrne consiste in una semplice parafrasi di una versione latina, facilmente accessibile al Sayous. Mi permetto di offrire di nuovo al lettore le parole del Byrne col testo latino in nota (2). Byrne, p. 16 : « The close connection between shareholders and mariners appears also in one of thè few fragments of Genoese sea-law of thè thirteenth century. The law provides that if some sliares erat illa nAvis imperatrix viginti sex locorum dixit quod Audiebat dici in predicta nAvi et videbat ivi viginti sex mArinArios et quod pro quolibet loco erat unus mArinArius et bene scit quod dictus Guillelmus de rampono hAbebat duo loca in dieta nAve quia ipse Audiebat hoc dici ab eo Guillelmo et A scriba nAvis et quod ipse Guillelmus pascebat duos mArinarios in dicta navi Ad suam tabulam videlicet se ipsum et Alium et Audiebam dici A scriba nAvis Guillelme tantum oportet nos facere expensas pro duobus locis. (2) Atti della Società Licture di Storia Patria, vol. I, p. 80. (Secondo C. De-simoni, ibid., pp. 93-99, appartiene ai primi anni del secolo XIII). De marinariis ad statutum termvnum aceptis. Si quis ianue ciuis qui nauem habeat locauerit et ceperit siue conduxerit marinarios ad certum terminum et ad certum uiagium si in terminum ipsum uel uiagium nauem ipsam uendiderit et aliam forte comperauerit pro eadem mercede et precio quo locati fuerunt uiagium complere teneantur (et) usque ad terminum constitutum ei exhibere (seruitia) pro constituta mercede nisi forte ipsius licentia remanserit uel eis uiandam subtraxerit. Si uero plures fuerint participes et partes eorum uendiderint et alteram partem retinuerint {marinarii qui) tangerent eos qui partem nauis retinuerint secundum eorum partem et numerum cum eis remaneant et ut prefinitum est seruitium nauis faciant. Reliqui uero qui tangunt eos qui uendiderunt secundum partem quam uendiderunt cum eis remaneant et seruitium.... in altera naui si forte comperauerit exhibeant ut predictum est nisi eorum licentia remanserit uel uictum subtraxerit eis. Et si alteram nauem uel partem in altera naui (non) comperauerit remaneant marinarii cum illo uel illis qui nauem retinuerint. Si uero uenditor de nouo uoluerit quod marinarii sui in illa naui retinere debeant teneantur emptori secundum quod tenebantur uenditori. excepto si nauis fuerit uendita sarracenis. Si marinarii communiter sint accepti et pascantur fiat diuisio sorte secundum loca nauis siue per loca.... GLI STUDI AMERICANI SULLA STORIA GENOVESE 11 in a ship are sold (abroad?) and some are retained by their originai owners, thè mariners who pertain to thè latter, must remain on thè ship and perforai thè services contracted. Those mariners who pertain to tlie shares sold must serve thè owners of those shares on another ship if they acquire an interest therein, unless released from their contract or unless their food is withheld, If thè shareholders do not buy shares in another ship thè mariners must remain witli thè vessel on which they sailed, and may be required to do so by thè sellers of shares unless thè purchasers Avere Saracene. On thè other hand, if tlie mariners have been liired and are being fed in common by thè owners as a group, division of thè mariners in case of sale of shares must be made by lot according to thè shares in thè ship ». È chiaro? Sayous, a pagina 86 (secondo paragrafo della sua analisi del problema dei loca) : Avant d’examiner le documento principal, il convient d’observer qu’il est isolé, unique, tandis que nous possédons des centaines d’actes ou protocoles de notaires de la même époque, ou antérieurs, rélatifs aux parts (carati) de bateaux, et que tous laissent l’impression très nette que chaque associé y prenait une part d’après ses moyens disponibles et selon son désir de diviser ses risques. Il che è proprio ciò che dice il Byrne alle pagine 14 e 15 della sua monografia. Vero è che il Byrne (encore un historien qui a abordé l’histoire des institutions économiques sans préparation suffisante) ha omesso l’osservazione lapalissiana che l’investitore investiva a seconda delle proprie risorse, forse non risultandogli dalle fonti studiate. Sayous, p. 86 (fine del paragrafo) : Roberto Lopez vient de publier un contrat pour l’exploitation des mines de Sardaigne, en date de 1253, qui a les mêmes bases capitalistes. È veramente curioso notare come il Sayous incautamente si richiami a questo documento, nella certezza che esso danneggi la posizione del Byrne. Nel corso dei suoi studi sull’antica marina mercantile genovese il Byrne venne costretto a dinteressarsi dei loca9 come un aspetto della quistione del finanziamento e della proprietà delle navi, ed ebbe l’impressione che i loca costituissero un fattore di notevole importanza nello stabilire il sistema di proprietà per azioni in tutte le altre intraprese capitalistiche. Il lavoro di Lopez ora comincia o provare come fatto quel che otto anni fa Byrne suggeriva come probabilità (*). Ecco qualche frase del Byrne presa proprio dal passaggio analizzato dal Sayous. _ f i1) Accenno al documento pubblicato dal Lopez in base a quanto ne dice il Sayous, non avendolo potuto riscontrare direttamente. Presumo che l’interpretazione del Sayous sia corretta. 12 ROBERT L. REYNOLDS Byrne, p. 14 : « Ownership by loca eliaracterized the entire field of Genoese shipping until about thè middle of the thirteenth cen-tury.,.. »; ibid., p. 21: « So pervasive had been thè system of loca in what was one of the most important fields of capitalistic endeavor, and so familiar was it to every class of Genoese society for more than half a century that one is tempted to conclude that it may have exercised a significant influence upon financial opérations of a different and wider type of coopération.... ». Il Sayous, di nuovo, a pag. 86. Rien n’empêchait qu’un bateau appartînt, pour partie ou totalité, à des marins ou anciens marins et que, par suite des traditions et connaissances professionelles de ceux-ci, ils ne se fissent représenter dans une oeuvre de coopération. La meilleure preuve que tel était le cas dans l’exemple unique de Byrne, c’est que l’un des marins vivait « à la table » de celui qui l’avait engagé, et que ce dernier travaillait à bord ! È possibile. Anche oggi un marinaio che disponesse di qualche capitale potrebbe acquistare un interesse finanziario in una compagnia di trasporti marittimi. Niente di strano che qualche cosa di simile avesse luogo nel secolo decimosecondo, per quanto sarebbe difficile trovare prove documentarie in numero sufficiente da giustificare una seria ipotesi sia per quel secolo che per oggi. Ma ciò non interessa il Byrne. Quel che importa rilevare nel succitato paragrafo è che il Sayous ammette, forse involontariamente, che ci sia una correlazione tra marinai e azioni di partecipazione. Il che è la tesi del Byrne. Sayous, p. 87 (quarto paragrafo delle osservazioni su loca) : Ce texte n’aurait un vrai intérêt pour prouver l’origine des associations entre propriétaires de navires dans les associations entre marins en vue de la navigation, que s’il était possible de lui trouver des précédents et d’en trouver d’assez nombreux exemples; or, nous n’en possédons pas. Il convient des lors, jusqu’à preuve du contraire, de voir là, non comme Byrne, un document de large portée, mais un cas isolé ou presque, excéptionnel, d’une valeur très limitée. Ma Byrne non intende affatto trattare il problema delle origini delFistituzione ; egli non fa che spiegarne il carattere, mentre il Sayous comincia col negarne resistenza. Per quel che concerne la tesi in quistione, questo documento prova sufficientemente il punto che interessa al Byrne. L’isolamento di questo documento sembra preoccupi molto il Sayous. Già si è accennato a qualche caso che lo mostra non tanto isolato e unico. E ci sono parecchie altre prove della stessa natura. In primo luogo, proprio nel corpo del testo del Byrne così attentamente analizzato dal Sayous, troviamo il seguente passaggio: GLI STUDI AMERICANI SULLA STORIA GENOVESE 13 « In anotlier instance I find a» receipt for 89 bezants given ‘for the expenses and wages of two mariners which fell upon me to pay for two shares which I hold in the ship ». Una metà della nota che il Byrne dà a piè di pagina, viene criticata dal Sayous con l’osservazione che si è portati a parlare della decima, maris. Ecco la nota, del Byrne : Archivio di) S(tato), G(enova), Not. Veggio, reg. II, fol. 228r., occasione expensa/rum et conducti duorum mari/nariorum que contingebant micli/i ad solvendam pro locis duobus que lvabeo in nave quet dicitur Oliva. II Sayous passa, poi ad esaminare brevemente una parte del lavoro del Di Tucci. Nella sezione in cui il Di Tucci parla delle navi, troviamo (pp. 43-44): Ego.... uccepi.... XXIIII partem navis.... Si predicta pars tue navis vendetur vel na/ulizabitur quicquid inde habuero bona fide in tua vel tui certi missi potestate mittam·, eo salvo facto viagio de ulwamwre, si navis aliud vmgium quod debeo de hoc quod de tua parte exierit tantum unus alius marinarius habuerit pro conducto et servire unum locum. (Corsivo del Di Tucci da eo salvo in poi). Il Di Tucci, nel suo commento su questo documento, dice : « Al ritorno si trasformerà in un marinaio, avrà la paga che spetterebbe ad un marinaio, se-' dici bisanti di Accone, e dovrà servire u/num locum. Ad un locum corrisponde, pertanto, un marinaio : e questa osservazione è stata fatta per la prima volta dal Byrne, il quale per altro non se ne è reso ragione, perchè aveva assimilato i loca alle partes ». (L’ultima osservazione si riferisce ad un problema che sia il Di Tucci che il Byrne vanno ora investigando). Nè l’uno nè l’altro di questi passaggi viene rilevato dal Sayous, che forse li include nel numero dei testi rigettati senza discussione. A me sembra ch’essi siano di notevole appoggio all’intera tesi del Byrne, e che meritino accurata valutazione in relazione a questo problema. Il Sayous quindi si volge al Prof. Calvin B. Hoover. Sayous, p. 87. Calvin B. Hoover est l’auteur d’un assez long article sur le prêt mari time à Gênes au XIIe siècle. Il y a établi des distinctions sans grand intérêt et consacré un passage aux opérations de cette nature « masquant l’usure » ; il a évidemment compris dans celle-ci des « prêts d’assurance ! ». Il Sayous si riferisce a una parte dell’articolo del Prof. Hoover, pp. 520-25. Essendo di cinque pagine, il testo di Hoover è di una lunghezza che non ci permette di citarlo (*). Ed è un peccato, perchè Finterà parte ha un significato quasi diametralmente opposto a Calvin B. Hoover, The Sea Loan in Genoa in the Twelfth Ocntury, « Quarterly Journal of Economies », vol. XL (may, 1926), pp. 495-529. 14 ROBERT L. REYNOLDS quello attribuitovi dal Sayous. Rimando il lettore del presente saggio ai passaggi riferentisi dell’articolo di Hoover, con la speranza ch’egli si prenda la briga di rileggere al tempo stesso il succitato passaggio del Sayous. Sayous, pp. 87-88 (fine dello stesso paragrafo). Ayant publié deux seuls textes qu’il jugeait particulièrement typiques, il a, en ce qui concerne l’un d'entre eux, commis une erreur grave d’interprétation, de nature à inquiéter sur la valeur du travail dans son ensemble; il a vu un prêt maritime dans une stipulation d’une commande imposant au commandité de payer une certaine somme dans un port éloigné avec le produit de la vente de marchandises emportées par lui. Le texte est très net, et d’autres documents de l’époque contiennent une disposition semblable. E il Sayous conclude col giudicare l’articolo di Hoover « oeuvre de jeunesse ». E in questo ha ragione. Hoover (pp. 510-20) intendeva stabilire una di quelle distinzioni senza grande interesse che il Sayous ha. sdegnato di studiare, mettendosi quindi nella posizione di non capire il problema discusso da Hoover. Nella· parte precedente Hoover aveva discusso il prestito marittimo nella sua forma pura. Egli quindi passava a. un tipo di contratto (di cui dava un testo come illustrazione) che presentava le caratteristiche dell’accomendutio, di cui conservava pure la maggior parte della fraseologia, ma che conteneva anche una clausola importante che rimetteva il pagamento del capitale o degli interessi relativi al fausto arrivo dell’intrapresa alPestero, la clausola sa/na eunte navi vel mcoioi'i parte rerum na/vis, che costituisce proprio la caratteristica più saliente del contratto di prestito marittimo (*). A conforto del Sayous mi permetto di aggiungere che se egli avesse riscontrati negli archivi gli originali dei due documenti citati da Hoover, avrebbe notato che questi, studioso di economia legale, non era che un dilettante paleografo. Hoover in pochi mesi improvvisò una certa preparazione in paleografia sufficiente per la consultazione di testi che gli avevano detto trovarsi nei protocolli notarili. Nei due testi pubblicati la sua trascrizione delle parole e frasi fondamentali è corretta, ma quella di punti particolari, special-mente dei nomi propri, è piuttosto scorretta. Il Sayous, storico delle istituzioni bancarie italiane, si mostra molto seccato dal tentativo fatto dalla signorina Margaret W. Hall 0) In questa parte del suo articolo Hoover discute assennatamente i caratteri di questo particolare tipo di contratto (da lui chiamato « pùjnus-loan ») che lo riavvicinano alVaccomendatio (pp. 513-16). Passa poi ad esaminare la clausola sana eunte, per determinarne la possibile validità. Egli esamina la validità della stessa clausola nella terza sezione (sea-loan masking or evading usury). In quest’ultima parte egli discute ampiamente gli « Insurance loans » allo scopo di dimostrare che questi « prestiti mascheranti l’usura » non erano veramente prestiti-assicurazioni. GLI STUDI AMERICANI SULLA STORIA GENOVESE 15 (li investigare i primordi delle attività bancarie in Genova. Il sno punto di vista è chiaramente presentato in quattro paragrafi clfe mi permetto di citare completi, giacché in questo caso il commento dev’essere dettagliato per aver valore. Sayous, pp. 88-89. Miss Margaret Winslow Hall s’est servie, de la nombreuse série de photographies de protocoles génois réunie par Byrne à l’Université de Wisconsin, pour insister sur des documents de la fin du XIIe relatifs, croyait-elle, à des banquiers, ainsi que Reynolds l’avait déjà fait. Sur cette base, elle a prétendu faire remonter au siècle précédent les observations que nous avions présentées sur les banques italiennes au XIII*. Notre première impression a été que des possesseurs ou locataires de « bancs », plutôt des changeurs,, avaient eu une activité commerciale, assez mal spécialisée, dès la fin du XIIe siècle. Mais ces textes, déjà connus du professeur Alexandre Lattes, lui avaient paru si extraordinaires qu’il s'était demandé si cette mention « ne s’était pas transformée en titre de qualité ». Des recherches dans les Archives et les Bibliothèques de Gênes devaient seules élucider ce point. La bibliothèque civique Berio nous a vite fourni la clef du mystère : les Ban-cheri étaient de « nobles cittadini de Genes » (parliamo qui di nobiltà feudale?), originaires de Clavarezza, à l’intérieur des terres de la direction nord-nord-estr et établis à Genes vers 1150; ils y ont d’ailleurs, encore des descendants portant leur nom. Il s’agit donc, non d’une profession, mais d’une famille, pour le moins très souvent, le plus souvent : en ce qui concerne les protocoles du notaire Scriba, aucun doute pour Baldo, Ingo, Giberto, Albertone, Banchero; de même, par la suite pour Anfosso, Rossi (Rubeus), Alcherio, Bernardo, Ansaldo, Alfonso, jusqu’à Enricus Bancherius (vers le milieu du XIII)e Sur les cinquante trois protocoles qui contiennent le mot banclierius, et que Raffaele Di Tucci a publies, dont plusieurs ne semblent pas faire partie de la « série Byrne », il bliés, dont plusieurs ne semblent pas faire partie de la « série Byrne », il n en resta à peine neuf qui peuvent viser des « banquiers », encore ne s’agit-il sans doute que de trois personnes, possesseurs de « bancs » de changeurs. D après di Tucci, le mot banclierius commence dans les documents par une petite lettre, non par une majuscule; on peut donc, supposer que la conviction de Miss Hall de tenir la vérité était d’autant plus ferme qu’elle ignorait qu’à l’époque, c’était, en général, le cas pour les cognomina. Il Sayous assume che la signorna Hall sia ingenua al punto di non sapere che a quel tempo i cognomina erano scritti con la minuscola. Tengo ad informarlo che la Hall, al tempo in cui scriveva la sua tesi, stava trascrivendo in extenso dalle copie fotostatiche degli originali circa duemila documenti notarili genovesi, lavorando alla preparazione per la pubblicazione ora imminente, del corpus degli antichi notai genovesi. In questi documenti, a rari intervalli, ed a casaccio, si trova adoperata l’iniziale maiuscola nei cognomi. Anche i nomi Doria, Spinula, sono scritti con la minuscola. L’osservazione del Sayous porta acqua alla fonte e legna al bosco. Ma passiamo al punto principale. Se la critica del Sayous avesse la minima base, il lavoro della Hall dovrebbe giudicarsi peggio che inutile. Ma erano veramente i lancherii della Hall (e del Di Tucci) membri della famiglia Banchero anziché hancherii di professione? 16 ROBERT L. REYNOLDS Avendo la Hall condotte le sue investigazioni sotto la mia direzione, sono in grado di indicare il procedimento che essa ha seguito per arrivare alle sue conclusioni. 1) Prima di tutto la Hall prese degli appunti dettagliati, di solito includenti la trascrizione completa, di ogni documento avente una relazione anche remota con un bancherius. Anche in casi in cui il bancherius non appariva che come testimone di qualche contratto di altri, essa prendeva nota della data, della natura dell’atto, delle parti interessate, per ottenere tutte le possibili indicazioni sulle sue relazioni con altri gruppi di negozianti, per controllare se un dato bancherius fosse personalmente a Genova al tempo in cui ai termini dei suoi contratti, era tenuto a far dei versamenti in qualche altra città, e così via. Essa esaminò tutti i documenti della collezione notarile pel secolo decimosecondo eccetto il piccolo numero di, folii di un protocollo non accessibile, come pure parecchie centinaia di folii dei primi del secolo decimoterzo. Prima di scrivere la sua tesi essa quindi aveva sotto mano quasi tutti i documenti notarili pertinenti al soggetto. 2) Il problema della designazione professionale vs. cognomen fu il primo ad essere risolto. Anticipando l’eccellente suggerimento del Sayous, la Hall adottò il principio d’includere nella sua lista di bancherii nel senso professionale, solo quei bancherii che dai documenti risultassero possessori di banco. Ciò veniva determinato da varie indicazioni, come l’accettazione da parte di un banchiere di un deposito di moneta i/n banco suo, la dichiarazione che il documento era stato redatto in ba/nco Riobei, e così via dicendo. 3) Dopo aver elencati questi bancherii, già identificati nel modo su indicato, la Hall prese ad esaminarne le attività professionali nel mondo degli affari, accettazione di depositi, contratti di cambium, ecc., mettendole a confronto con le attività professionali di un certo numero di altri mercanti genovesi, e rilevandone così le attività caratteristiche che distinguevano questi bancherii di professione dagli altri mercanti. 4) Dopo aver così acquistata una competente conoscenza della professione di bancherius, la Hall scrisse una tesi di circa 160 pagine che non potè pubblicare per ragioni finanziarie. L’articolo in The Economie History Rewiew non è che un riassunto condensato di parecchie parti della sua tesi. E passiamo ora ad esaminare l’elenco dei membri della famiglia Banchero dato dal Sayous. Baldo, Ingo, Giberto e Albertone appaiono nei protocolli di Giovanni Scriba. I dati forniti dallo Scriba, erano già stati studiati da molti anni, essendo facilmente accessibili a tutti. L’ultimo studioso dello Scriba ha pubblicato i primi risultati delle sue ricerche quando la Hall aveva già completato la sua tesi, sebbene parecchi anni prima della pubblicazione del suo articolo. GLI STUDI AMERICANI SULLA STORIA GENOVESE 17 Questo studioso è proprio il Sayous il quale accenna, sebbene con riserve, ai hanchern (di professione) Baldo e Ingo. Ora siccome queste fonti erano già state esaurientemente studiate, la Hall ha preferito studiare fonti poco note, datate approssimativamente tra il 1179 e il secolo decimoterzo. Di Baldo, Ingo e famiglia (?) la Hall non si è occupata affatto, e noi seguiremo il suo esempio. La Hall dette mano al suo lavoro di sintesi con un elenco di circa venti bancherii il cui stato professionale era stato controllato nel modo su indicato. Tra questi vi erano Rosso (Rubeus, Ruffus), un suo nipote e socio Bernardo, Alcherio ed Enrico. I due fratelli An-fosso (è Alfonso una variante dello stesso nome?) e Ansaldo, e, nel secolo decimoterzo, i loro figli Simone di Anfosso, e Guglielmo e Vassallo di Ansaldo, non poterono essere nettamente identificati. Le loro attività erano le tipiche della professione, eccetto che essi sembravano avere un interesse maggiore dell7usuale nel commercio al-l’ingrosso. Considerando i su menzionati individui di classificazione incerta, i materiali a loro pertinenti furono dalla Hall usati in maniera supplementare, e mai addotti a prova di punti fondamentali della tesi. Nell’articolo pubblicato la Hall non dedica che una frase sola ad Anfosso, e non parla affatto di Ansaldo. Riassumendo. Se la quistione finisse qui, si avrebbe da, una parte la mia asserzione, che quattro importanti òancherii (tra i venti e più usati dalla signorina Hall) tenevano banchi di cambio; dall’altra quella del Sayous e del suo manoscritto genealogico, che li fa invece membri della nobile famiglia Banchero. E il problema dovrebbe restare insoluto fino alla pubblicazione del corpus di tutti questi atti. Fortunatamente però cfè già la pubblicazione del Dì Tucci. Nella sua critica dello studio della Hall il Sayous fa un accenno al recente lavoro del (Di Tucci sulla banca privata in Genova, e afferma categoricamente che dei 53 documenti illustrativi ivi pubblicati non più di nove trattano di banche. Devo supporre che il Sayous elimini tutti gli altri documenti, come concernenti gli affari della nobile famiglia Banchero. Egli afferma che solo tre dei personaggi del Di Tucci tenevano « bancs de changeurs ». Consultiamo ora la lista del Di Tucci. Nei soli primi diciotto documenti (e mi limito ai primi diciotto, ritenendo il numero sufficiente a provare il mio’assunto), si trova quanto segue: TESTO I. Nos Sibilla.... locamus tibi Beltrame Bertaldo et Oberto fratri eius.... banchum quem pro nobis estis soliti tenere 2 II. Rufus bancherius (compra una casa) III. Wm. Ferrarius et Jacobus bancherii.... ad baruium predictorum creditorum ' 2 18 ROBERT L. REYNOLDS IV. Nos.... accepimus a vobis Rufo bancherio et Bernardo bancherio tantum cambium.... di pagare in moneta di Pavia. Actum in banco Rufi 2 V. (Rufus e Bernardus bancherii accettano una promessa di paga- mento) VI. (Rufus e Bernardus accettano una promessa di pagamento) VII. Ego Enricus bancherius accepi a vobis.... in societate.... Cum ista societate debeo laborare in terra et m banco. i (Enricus — questo ha luogo verso la fine del secolo decimosecondo — era minorenne. Difatti egli ha bisogno del consenso materno per questo atto. Troviamo il suo nome ripetutamente per parecchi decenni successivi. Immagino che questi sia l’Enrico del geneologo) Vili. Ego Rufus b. accept.... in societate libras XX quas teneo in banco. IX. Obertus bancherius de Pollanexi.... accepisse libras L in aceomen- dacione.... quas debeo tenere ad bancum et mercari.... (Abbiamo qui un altro Oberto?) (1?) X. Nos Bandinus Mussus de Orto et Guillelmus de Moneta bancherii confitemur accepisse nomine depositi.... ad banewm et tabulam nostram.... XI. (Rubeus b. promette de ripagare VII lire a un servions di un nor bile, a 15 giorni dalla data della domanda). XII. (Alcherius bancherius accusa ricevuta per danaro avuto, e pro- mette ripagarlo in valuta pavese).... Actum in banco Alcherii predicti 1 XIII. (Alcherius b. promette di ripagare la somma). XIV. (Alcherius b. promette come sopra). XV. Ego Bernardus b. confiteor me accepisse.... libras XX quas teneo m banco ineo. XVI. (Bernardus b. promette di ripagare una somma (in valuta stra- niera ?) XVII. (Bernardus b. promette di ripagare una somma su domanda di quindici giorni). XVIII. Ego Bernardus b. accepi a te Maria Sarda libras.... XI quas teneo in banco meo. (Promette di ripagare a otto giorni dalla domanda, e promette di corrispondere un interesse annuo del 10 per cento per il tempo in cui detiene i fondi). (L’articolo della Hall dà una parafrasi di questo documento, includendo l’accenno al fatto che Bernardo tiene banco proprio). E questo credo basti a provare il mio assunto. Il Di Tucci ha pubblicato 53 documenti che trattano di affari bancari. Verso la fine del secolo decimosecondo la parola bancherius, in Genova, dinotava una persona che era bancherius di professione. Il nome, se tanti membri della stessa famiglia (oltre venti ! Î) esercitavano la stessa professione, può benissimo aver assunto il carattere di cognome. Un’ultima osservazione. Nel primo paragrafo del suo commento sul lavoro della signorina Hall il Sayous non è troppo modesto. Egli vede nel lavoro della Hall una pretesa di applicare al secolo precedente le osservazioni già da lui fatte sui banchieri italiani del secolo decimoterzo. Posso assicurare al Sayous che la Hall non ha affatto avuto l’intenzione di seguire le sue conclusioni, per l’eccellente ra- GLI STUDI AMERICANI SULLA STORIA GENOVESE 19 gione che le fonti da lei esaminate la portavano a conclusioni differenti. Senza intenzioni di far Fipercritica, la Hall infatti è costretta : 1) A osservare che il Sayous non fa che riassumere e discutere pochi documenti e studi previamente pubblicati sul soggetto (Nota iniziale, p. 73) ; 2) A dichiarare nell’ultima frase che riassume la parte del suo articolo sul credit banlcing : « Sayous seems to have gone too far in assigning to credit banking a place of equal importance with locai money-changing as the starting point of early banking ». 3) E a concludere, dopo aver presentato prove di deposit banking : « All this casts serious doubt on Sayous’ theory that deposit banking developed last of the three fundamental branches of banking, being preceded by and in large part dependent upon the development of credit banking. It is evidently only chance in the préservation and publication of documents which determined that the first considérable evidence of deposit banking known to Sayous is of the second half of the thirteenth century ». Robert L. Reynolds Appendice I: Locum■Martinaì'ms e la Decima Maris di Genova Questa nota sulla decima nvaris con le relative prove ch’essa veniva computata per hominem o per marmariuni o per locum è di una lunghezza da potersi dare solo in appendice. Il lettore vorrà scusarne la lunghezza e il numero rilevante di citazioni in essa riportate da fonti già esistenti a stampa. Siccome la quistione è stata sollevata, a· me sembra che si richieda un lavoro definitivo sull’argomento. Meno che in casi specificatamente indicati, le citazioni seguono letteralmente il testo degli Atti pubblicati da L. T. Belgrano, vol. II, parte II, e vol. XVIII. L’elenco delle rate si trova alle pp.9-11 del vol. II, 2, e viene ripetuto in forma quasi identica in alcune laudes del 1228 nel volume XVIII, pp. 450, 452, 455. Le rate variavano a seconda della ragione di provenienza del carico, nel modo seguente : 1. De ultramarinis o de pelago (Soria, Impero Bizantino, Egitto, Africa del Nord, Spagna): Tassa per nave, 22 soldi, 6 denatii a meno che più della metà del carico fosse di grano, nel qual caso la rata era una mimi per hominem. 2. Dalla Sicilia: ogni nave, sol. 11, den. 3; se più della metà del carico era grano, 1 rama di grano per hominem. 3. Corsica: ogni nave, sol. 7; ο 1 mina per hominem. 4. Sardegna: ogni nave sol. 0; ο 1 mina» per hominem. 5. Calabria o Provenza (eziandio descritte come provenienza di là da Porto Pisano e Monaco) : carichi di grano pagavano 1 quartinum per hominem; due nauclerii per nave erano esentati. 20 ROBERT L. REYNOLDS 6. Vi erano poi parecchie rate speciali per navi addette al traffico tra Genova e le fiere lungo la Riviera, e per quelle addette allo scambio di sale sardo per grano corso. 11 sale proveniente dalla Sardegna e dalla costa vicino a Genova era soggetto ad altre tasse speciali che venivano tutte computate per hominem. La seguente è una lista, in ordine cronologico, di referenze illustranti il metodo di computo (numeri 1-8, Atti, II, 2 ; 9-27, Atti, vol. XVIII). 1. 1117, pp. 56-57:.... ille naves que venerint a mercato sancti i'a/phahelis vel a frizurio in quibus habuerint usque ad octo homines det per ununiquenv-quem.... minam unam frumenti, et ille naves que habuerint usque ad duodecim homines det.... minas duas. Que vero habuerint ad duodecim in sursum, det per unumquemquem hominem quartinum unum.... 2. 1143, pp. 9-11: (e. g. rate per la Calabria e la Provenza, p. 10) ....unusquisque homo de ipsis navibus debet dare quartinum unum grani preter duos nauclerios.... 3. Marzo, 1159, p. 391 :e (Navi provenienti dall’Egitto). 4. Novembre, 1159, p. 127 : (II nauclerius di una nave proveniente dalla Sicilia carica di grano, vien citato per rifiutato pagamento. La tassa vien chiamata decima grani, calcolata per unumquemque hominem in ea venientem). (Questo è uno dei documenti riferiti dal Byrne; come il Sayous dice, è sotto il titolo di De Decima de Mari). 5. Stessa data, pp. 127-12S : (Causa per riscossione della decima su un carico di sale proveniente dalla Sardegna, computata a minas tres salis per unumquemque hominem quem in ea venerat.... exceptis duobus nauclei'vis. Titolo : De Decima de Mari). 6. 1163, pp. 12S-129 : (Causa per determinare metodi di pagamento su cari chi di grano portati in cambium dalla Corsica. Decima chiamata decima maoris nel testo; rata.... minam una/m grani.... per singulos homines qui in partem venerunt in illo ligno....). 7. 1166, p. 389: (L’Arcivescovo reclama il pagamento della decima dagli abitanti di Voltri e Pegli, i quali contendono che la decima sia di computarsi a 1 mina prò quoque temone, cioè a due mvìide per nave su grano dalla Sardegna, mentre la Curia sostiene il diritto per unumquemque hominem qui in nave illa venerant minam unam grand pro decima maris. La Curia vince la causa). 8. (Un simile tentativo di evasione da parte degli abitanti di Portovenere — o da parte della Curia di estendere l’applicazione della decima — si trova a p. 396, in data 1178). 9. 1175 ,νοΐ. XVIII, pp. 456-457. L’elenco su riferito. 10. 1194, febbraio, pag. 210: Consules de placitis.... condempnantes Man-fredum Canevarium domino Bonifacio archiepiscopo.... laudaverunt quod ipse Ma n f redus dare teneatur et det eidem domino archiepiscopo et curie sue tres partes minarum quinquaginta salis.... eo quod' ipse venerat in nave quadam de Sardine a honerata sale, que dicitur Gattus, unde erat nauclerius IS/ichola de Vulturi, in qua venerunt homines XVIII, qui tenebantur ex consuetudine curie.... tres minas salis prestare, exceptis duobus naucleriis, de quo siquidem tres partes, erant Manfredi predieti.... (Redatto dal notaio Ottobono). 11. 10, marzo, pp. 271-272: (Questo è il documento citato dal Byrne che, secondo il Sayous, tratterebbe di blé remis en payment de transport) Consules condempnantes Eriricum 'Nevitellam iwniorem domino Bonifacio.... laudaverunt quod ipse Enricus teneatur dare et det eidem domino.... minas quatuor.... Quod autem ideo factum est, quoruiam cum presbiter Ugo inatiuensis canonicus ipsum Enricum, iamdicti domini.... nomine, convenisset, petens ab eo APPENDICE 21 quantitatem predictam pro locis 1111 que ipse habebat in navi que venit de Sicilia lionerata grano, hoc ideo quia curia.... consuevit ita habere.... (Notaio, Marino di Guidone). 12. 20 marzo, 1194, pp. 270-271: (Redatto in termini identici, eccetto che il condannato è un Guelfus f. q. Rubaldi Guelfi, possessore di 14 loca in una nave carica di grano, dalla Sicilia ; condannato al pagamento di minae 14 di grano). (Marino di Guidone, notaio). 13. 10 giugno, 1194, pp. 269-270: Consules.... condempnantes Bocherium de Arenzano domino Bonifacio____ laudaverunt quod ipse Bocherius dare teneatur et det eidem domino.... quartinos grani decem et octo— ex illo videlicet quod venit de Provintia in galea Arenzani de qua erat nauclerius ipso Bocherius, eo quia Archiepiscopus, et curia sua habere consuevit et habere debet pro unoquoque homine veniente de Provintia in ligno honerato grani quartin/um unum grani, et pro quibus omnibus naueleri/us tenetur— (Marino di Guidone, notaio). 14. 10 giugno, 1194, pp. 272-273: (Un altro nauclerms di Arenzano condannato in termini quasi identici ; lo stesso notaio). 15. 2 agosto, 1195, pp. 265-266: Consules,.... condempnantes Johannem de Marino domino Bonifacio.... laudaverunt quod ips,e dare teneatur et det eidem domino.... minas frumenti novem.... Quod ideo factum est, quoniam cum presbiter Ugo____ convenisset ipsum Johannem de Marino petens ab eo pi edictam quantitatem grani, pro drictu sive pro decima maris quam Archiepi-scopus sive curia sua solet trahere de navibus, que veniu/nt de Pelago lione-rate grano.... (Marino di Guidone, notaio). 16. 8 agosto, 1195, pp. 266-267: (Sentenza contro Ingo Spinula redatta in termini identici, per l’ammontare di 15 mina). (Marino di Guidone, notaio). 17. 1199, pp. 163-164: (Un altro citato dal Byrne. e creduto dal Sayous riferirsi a blé remis____). Consules condempnarunt Nicholarn Segnorellum cori mm domino Bonefacio.... Laudantes quod ipse Nicholas teneatur dare et det domino Archiepiscopo et curie sue mimas grani quinque.... Quod ideo factum est, quoniam cum Wilielm/us Manduca panem cum missis domini Archiepiscopi ipsum Nicholarn, nomine domini Archiepiscopi et curie sue, convenisset, petens ab eo quantitatem predictam pro locis decem que ipse habebat in nave que venit de Maritima honerata grano.... quia cuna domini Archiepiscopi consuevit ita liabere de extraneis cum navigant cum ianuensib%s— (Bongiovanni, notaio). 18. 1203, pp. 260-261: (Margarito di Savona e socii, importatori di un carico d’orzo dalla Spagna, contestano i diritti della Curia al drictu maris) quem consuevit liabere de lignis que veniunt de Pelago id est minam unam ordei seu grani vel alicuius biave pro unoquoque homine qui in lignis ipsis.... veniunt. (Condannati al pagamento delle IS minae reclamate dalla Curia). (Guglielmo del fu Bongiovanni, notaio). 19. 1205, pp. 287-288: Consules.... condempnaverunt Lanfrancum Rubeum domino Ottoni ianuensi archiepiscopo in minis nonaginta· salis.... Quod autem ideo factum est quia cum pfièsbiter Johannes capellanus domini Archiepiscopi, nomine curie sive Archiepi scopa tus, ageret contra'■ Lanfrancum Rubeum, et peteret ab eo minas salis nonaginta, et hoc pro dricto sive decima maris quam consuevit habere Archieplscopus de lignis que veniunt honerata sale de Provintia, et hoc maxime quia idem Lanfrancus emit ç provimtiali-bus ultra Monachum honus salis quinque lignorum, que ipse fecit duci ivu portu Januç, et in quibus venerunt homines sexaginta, de quibus debet habere pro unoquoque quartinos tres sjalis.... (Guglielmo da Cassino, notaio). Abbia* mo qui per la prima volta il caso di un individuo, solo possessore dei carichi di cinque navi, tenuto al pagamento dell’intera decima. È evidente che il pagamento non era computato per mercante). 20. 1209, pp. 305-307: (Un individuo di Ventimiglia e socii avevano con- 22 ROBERT L. REYNOLDS testato fin dal 1203-1204 il diritto alla decima su un carico di sale importato dalla Provenza, e ciò in base a un laus in loro favore emesso dagli assessori di un precedente Podestà. Il sindicus dell’Arcivescovo qui ottiene sentenza favorevole.... Tandem probato ex parte s indi ci per documenta publicis huius civitatis, quod Archiepiscopus pro d ricto tua ris habet et percipit pro unoquoque homine venente in ligno salem de Provincia Januam deferente quartinos tres salis, exceptis naucleris duobus....) (Guglielmo del fu Bonigio-vanni, notaio). 21. 1214, pp. 352-3: (Qui per la prima volta in questa serie troviamo esplicitamente dichiarato che tutte le rate della decima maris, finora espresse in termini per hominem, o per locum, si computavano per matri narium).... Johannes, sindicus.... Archiepiscopi.... agit contra Raimundum Restagnum de Arie, et petit ab eo.... très minas grani, quia medietas lioneris seu car rici unius bucii est ipsius, Raimundi Restagni, et in ipso bucio marinarii XV fuerunt.... quia dictus Archiepiscopus, seu eius curia-, pro quolibet marinario habere debet quartinum unum grani ab hominibus extraneis navigantibus cum ianuensibus, secundum tenorem laudis quem inde habet Archiepiscopus,.... (Guglielmo del fu Bonigiovanni, notaio). 22. (Due frammenti del 1227. pp. 447-8, trattano della decima maris, e il secondo la calcola prò unoquoque liomine). 23. 12 gennaio, 1228. pp. 448-51: (La decima è chiamata decima, drictu, introitus maris).... Guilelmus clericus, actor et procurator atque sindicus Archi-epìscopi.... dicto nomine, postulati a vobis domino Algiso consule.... a Bono J oh an ne de Oglerio de Portu Veneris faciatis fieri solucionem de quartmis XII grani communalis, pro decima et drictu maris, de grano delato in Janua in quadam galea ipsius Boni Johannis, de qua ipse Bonus Johannes fuit nauclerius.... al) ultra Portum Pisanum de Maretima.... cum dictum palacium hinc retro consuetum sit habere et laudatum per consules.... quod habere debeat.... de qualibet navi seu ligno veniente de ultra Portum pisanum vel Monacum honerato grano, vel pro maiori parte, pro quolibet marinario veniente in ipso ligno, excepto pro duobus naucherii, quartinum unum grani. Quaie pio predictis, et quia in ipsa galea venerunt Xll marinarii et plus.... 24. Stessa data. Termini identici, pp. 451-3. 2σ. Stessa data. Termini identici, pp. 453-5. 20. 1256, pp. 431-5: (Causa relativa ad uno carico di sale importato dalla Provenza.... quartinos tres salis pro qualibet persona, veniente in nave, sive bucio, sive tarida, sive galiota, sive sagitea, que venerit Januam de Provincia cum sale.... Ti si specifica che la nave era di 60 uomini). 27. 1257, pp. 435-7 (Titolo: Pro Grano Galearum Drictus Maris. Corrado Porco, Genovese condannato a pagare.... quartinos^ sexdecim gì ani, pro duabus galeis eius que venerunt Januam de Provincia, vel de ultra Monacum, cum grano et cetera.... quia ipsa dominus Archiepiscopus, curia et palacium ipsius habere debet.... quartinum unum grani pro qualibet persona veniente in nave, sive in bucio, sive tarida. sive galea, sive sagitea vel alio ligno navigabili quod venerit januam de Provincia vel de ultra Monacum, cum grano, et ita percepi consuevit per longum tempus. I nde cum due galee dicti domini Conradi venerint Januam de Provincia cum grano, vel de ultra Monacum, et, in qualibet ipsarum venerint marinarvi et servientes octo preter nauclerws, et edam plures; ideo (spndicus) agit et petit ut supra....). Credo che la serie su riportata· costituisca ampia dimostrazione di quanto è detto nel corpo dell’articolo. C’è un ultimo documento che prova chiaramente come la relativa grandezza delle navi venisse APPENDICE 23 espressa dal numero loca : un investitore insiste che il suo investimento in una accomendatio non sia trasportato che in navi da 24 o più loca : Ego Lafrancus Lasagna confiteor accepisse in accomendatione a te Giiar-nerio Judice libras LXXIIII et solidos XVII et denarios IIII januenses, implicatas in vintenis et in expensis consulatus. Cum qmbus Septam (Ceuta) gratia mercandi ire debeo. Et inde ubi ibo oum aliis rebus quas porto, in nave que sit a locis ΧχΐΙΙΙ supra-. (Not. Pietro Ruffo, fol. G4v; 27 agosto, 1212). Appendice II : La scuola di Byrne Da molti anni fiorisce una vigorosa scuola di studiosi di storia genovese. Numerosi articoli su questo argomento sono apparsi negli Atti e in altri giornali eruditi. Al tempo stesso un piccolo gruppo di studiosi degli Stati Uniti si è dedicato a investigazioni su gli stessi o simili problemi, studiando fondamentalmente gli stessi documenti. Intendo riferirmi agli studi sul periodo che corre tra il secolo XII e il secolo XIV. Sfortunatamente capita spesso che i giornali eruditi in cui noialtri americani di solito pubblichiamo i nostri studi, non sono facil mente accessibili in Genova, dove si ha notizia del nostro lavoro dopo lunghi ritardi e per via indiretta. Dall’altra parte, alcuni dei migliori lavori genovesi sono pubblicati in modo tale, che noi negli Stati Uniti ne abbiamo notizia dopo molto tempo, nonostante i nostri sforzi per tenerci al corrente dei lavori usciti dalla penna di genovesi o di altri scrittori italiani. Noialtri in America abbiamo fatto dei lavori che gl’italiani sono poi stati costretti a rifare per conto proprio, a causa dell’inaccessibilità dei nostri studi, e viceversa. Questa· è una situazione piuttosto seccante per tutti, e che rallenta notevolmente il progresso dei nostri comuni studi. Mi propongo quindi di elencare qui sotto, a benefìcio degli studiosi genovesi, delle informazioni generali sugli studiosi americani, i rispettivi indirizzi, e una bibliografia degli studi da loro pubblicati, nella speranza che in un prossimo futuro si pubblichi una completa bibliografìa degli studi italiani nello stesso campo. Il professor Eugene H. Byrne è ora Preside della Facoltà di Storia in Barnard College, Columbia University, New York. Nell’anno 1913 cominciò a studiare i protocolli dei notai genovesi. Ottenne i fotostati, adesso nella Biblioteca dell’Università del Wisconsin, nell’anno 1921 e in seguito diresse gli studi di Krueger, Reynolds e Hall nel suo seminario in detta università. I suoi studenti in New York non hanno ancora pubblicato studi sul detto soggetto. Miss Margaret W. Hall prese parte al seminario del Byrne ma completò la sua tesi sotto la mia direzione. Dall’anno 1934 è stata istruttrice di storia nel Wellesley College, Wellesley, Massachusetts. 24 ROBERT L. REYNOLDS Ora maritatasi (Mrs. Cole), ha lasciato la carriera accademica; è probabile che non pubblicherà più studi particolari sulla storia genovese. Però tre anni fa, in collaborazione col Professor Krueger e con me, preparò la prima trascrizione dei protocolli del notaio Guglielmo Cassinese, 1191-92, adesso nelle mani della commissione editrice della E. Deputazione di Storia Patria per la Liguria. Il professor Calvin B. Hoover, prima di conoscere il Byrne, aveva cominciato i suoi studi nel campo giuridico-economico. Non prese mai parte al seminario del Byrne, dal quale però venne addestrato nella lettura di documenti notarili. Dopo studi di soli pochi mesi, dedicati a problemi legali, scrisse la sua tesi. Fece uso, in parte, di documenti notarili, e dopo qualche tempo, pubblicò i due studi qui riferiti. Durante gli ultimi dieci anni è tornato agli studi di problemi moderni d’ordine politico-economico. Non si crede ch’egli pubblicherà più articoli sull’economia genovese medievale. Il professor Hilmar C. Krueger fece con me gli studi preparatori nel seminario del Byrne. È Preside della Facoltà di Storia, L^ni-versity of Wisconsin Extension Center, Milwaukee, Wisconsin. Sempre in cooperazione con me, egli intende proseguire nel futuro, come già fece nel passato, i suoi lavori sulla storia commerciale di Genova. Il mio indirizzo è : Department of History, University of Wisconsin, Madison, Wisconsin. Io mi occupo adesso, e conto di continuare a occuparmi per parecchi altri anni, dei lavori della R. Deputazione, sulla pubblicazione dei protocolli dei notai del Duegento. BIBLIOGRAFIA E. H. Byrne - Commerciai Contracte of thè Genoese in the Syrian Trade of the Ticelfth Century, « Quarterly Journal of Economies », XXXI. (1916-1917), 12S-170, --Easterners. in Genoa, «Journal of the American Orientai Society», XXXYIII, (191S), 176-187. --The Genoese Trade with Syria in the Ticelfth Century, cc American Hi- storical Review», XXV. (1920). 191-219. —> — Genoese Shipping in the Ticelfth and Thìrteenth Centuries, (Mono-graphs of the Mediaeval Academy of America, η. I), Cambridge, Massachusetts.. 1930. --The Genoese Colonies in Syria, in « The Crusades and other Historical Essays, presented to Dana C. Munro by his Former Studente », New York, N. Y.. 1928. 139-182. --Some Medieval Gems and Relative Values, a Speculum, a Journal of Mediaeval Studies, published quarterly by the Mediaeval Academy of America », X. (1935), 177-187. Margaret W. Hall (Cole) - Early Bankers in the Genoese Xotarial Records, « The Economie History Review », VI, (1935), 73-79. Calvin B. Hoover - The Sea Loan in Genoa in the Ticelfth Century, « Quarterly Journal of Economies », XL, (1926), 495-529. --Economie Forces in the Evolution of Civil and Canon Lave, a Southwest era Politicai and Social Science Quarterly », X, (1929), 1-14. BIBLIOGRAFIA 25 Hilmar C. Krueger - Genoese Tra de with Northtcest Africa in the Ticelth Century, « Speculum », Vili, (1933), 377-395. --The Routine of Commerce between Genoa and Northwest Africa, «The Mariner’s Mirror » (London), XIX, (1933), 417-438. --T Y ares of Exxchange in the Genoese-African T raffio of the Twelfth Century, « Speculum », XII, (1937), 57-71. Robert L. Reynolds - The Market for Northern Textiles in Genoa, 1179-1200, « Revue Belge de Philologie et d’Histoire », VIII, (1929), S21-S51. --Merchant s of Arras and the Overland Trade with Genoa, Twelfth Century, « Revue Belge de Philologie et d’Histoire », VIII, (1929), 821-851. --Genoese Trade in thè Late Twelfth Century, Particulari y in Cloth from the F air s of Champagne’, « Journal of Economies and Business History », Cambridge, Mass., III, (1931). 362-381. —1 — jSome English Settlers in Genoa in thè Late Ticelth Century, « Economie History Review » (London), IV, (1933), 317-323. --Two Documents on Education in Thirteenth Century Genoa, « Speculum », XII, (1937), 255-256. --Genoese Sources for the Twelfth Century Hisfory of Liège, with special attention to John of Liège, in «Etudes d'Histoire dédiées a la Mémoire de Henri Pireune», Brussels, (1937), 291-298. Replica di Sayous Mr. R. L. Reynolds oppose, d’abord, ainsi que nous Vavons fait, la méthode de l'école historique de VUniversité de Wisconsin — limitée, plus prudente sans doute, en apparence tout au moins, mais, en réalité, dangereuse pour ne pas reposer sur une connaissance large du sujet et, ainsi, ne pas permettre d’écarter les cas exceptionnels — avec la méthode traditionnelle en Europe qui utilise les éléments les plus divers d?appréciation. Ne reprenons que les points principaux. La distinction entre « villes maritimes » et « villes à Vintérieur des terres » parait bien étrange à M.r Reynolds: il ne trouve rien de pareil dans les histoires de Gênes écrites par des Génois — remarque prouvant quelque naïveté! — Les trois grandes villes italiennes de l'a intérieur des terres » au moyen-âge étaient Sienne, Florence et Plaisance. La seule autorité à invoquer a disparu, Enrico Bensa, auteur de Francesco di Marco, beau livre avec force pièces annexes sur le Datini de Prato; encore n'avait-il pas étudié les grandes sociétés en nom collectif, aux membres très nombreux. Prochainement, cette distinction sera précisée dans un chapitre que nous avons écrit sur les méthodes et les institutions commerciales au moyen-âge et qui paraîtra, en anglais dans une histoire économique. Nous protestons plus que jamais contre le lien établi par M.r Byrne'entre le nombre des paris (loca) de bâteaux et le nombre des marins embarqués sur ceux-ci. Il ne peut s’agir que de cas tout a fait exceptionnels. La meilleur preuve en est que le Consulat de la Mer, peu postérieur, s’occupant des situations de fait dans la- Medi- 26 ANDRÉ E. SAYOUS termnée, n’en a parlé en nul endroit. Les centaines de documents sur les parts de navire qui nous sont parvenues indiquent des par-tecipations capitalistes d’après l’argent disponible des divers associés. Lorsque nous avons trouvé à Marseille un nombre considérable, et non minime, de textes rélati f s à une assurance maritime réciproque, nous sommes empressé de constater le caractère exceptionnel de cette pratique qui l’a rendue éphémère. L’erreur d’interprétation que nous avons relevée dans l’étude de M.r Hoover', eut été évitée si celui-ci avait lu les documents marseillais dru XIII siècle publiés par Louis Blancard; ils l’auraient mis, de suiteT sur la voie. Nous avons surtout relevé l’étra/ngé. confusion qu’a commise Miss Margaret Winslow Hall, du nom de famille Bancheri avec la mention de la profession de banquier. M.r Byrne a là quelque responsa-bilité pour avoir patronné cet article auprès de la revue anglaise, sans exercer le moindre contrôle. M.r Reynolds nous apprend que la question sera étudié; n’aurait-il pas mieux fait d’attendre que tel fut le cas; nous prenons ce demi silence pour un aveu, l’aveu que Miss Hall a commis une faute des plus ridicules, parcequ’elle a travaÀllé <( sur photographies », non selon les principes solides de la méthode historique, profondément circonspecte. M.r Reynolds tient beaucoup au mot « banc », qu’il trouve dans les textes, pour prouver qu’il s’agissait de « banquiers »; le « banc » était non seulement un banc, mais un étale, en un lieu généralement publie, donc « banc » de marchand de viande ou de poissons aussi bien que de changeurs. Les explications de M.r Reynolds prouvent surtout une très médiocre habitude d’utiliser les textes du moyen-âge relatifs aux questions économiques. Et c’est pour cela que nous disons, une fois de plus, que les affirmations des Américains sur le commerce de Gênes au milieu du moyenAge sont à contrôler. Andrb-E. Sayous NOTA A UNA POLEMICA I lettori del « Giornale » sanno che esso è organo della Deputazione di Storia Patria per la Liguria soltanto in quanto ne pubblica le comunicazioni ufficiali. Pel rimanente, il solo fatto di essere un periodico « letterario » oltre che « storico », giustifica ancora — come già per un lungo passato — la piena autonomia della sua Direzione, e, nella reciproca cordiale stima, distingue i rispettivi compiti. Se così non fosse, la pubblicazione dell’articolo di A. E. Sayous, che ha dato inizio a una polemica che ora riceve il suo svolgimento, sarebbe stata — pur rendendo omaggio alla illustre personalità scientifica dell’autore, e riconoscendo l’utilità di una libera discus- NOTA A UNA POLEMICA 27 sione sui risultati di diversi metodi storici — accompagnata da parte nostra con una dichiarazione di esplicita riserva. • E ciò non già perchè la Presidenza credesse di dover prendere partito su particolari e opinabili questioni storico-economiche, ma perchè l’intonazione dell’articolo del Sayous non poteva che sembrare in contrasto con le benemerenze che tra noi si riconoscevano agli Storici americani (se ne veda la, prova negli Atti della Società Ligure, LII, 1924; LXIV, 1935; nella Rw. M Diritto Commerciale-, 1927; nel 6Horn. Stor. Lett., 1931; nella Rivista Storica Italiana, 1937, fase. IV), e non poteva che contrastare con l’alta reciproca considerazione dalla quale già era nato un proposito di collaborazione tra la nostra Deputazione e la. Sezione Storica dell’Università di Wisconsin. Il Byrne, il Reynolds e i loro collaboratori non soltanto hanno il merito di avere riaffermato in modo costruttivo la eccezionale importanza dei cartolarli notarili liguri, facendo eseguire la riproduzione di parecchie decine di migliaia di atti (ciò che, pel grave progressivo deterioramento di quelle carte, poteva forse voler dire salvarle nell’interesse veramente universale della Scienza) e dedicando poi a quella fonte ricchissima uno studio ormai ventennale; ma hanno altresì il merito, non appena è loro giunta notizia che la Deputazione ligure voleva pubblicare i cartolari più antichi, di aver messo a. sua disposizione con migliaia di fotografìe, anche le trascrizioni di uno dei registri, e di aver generosamente comunicato il risultato di accuratissime analisi, dirette alla palingenesi dei notularii originali, scompigliati — a quanto dice la tradizione — dal bombardamento francese del 1684. La Commissione creata dalla Deputazione per quell’edizione non ha potuto che ammirare la serietà e l’acume di quei lavori preparatorii. Se per la riprova di particolari ricostruzioni di fenomeni storici può essere facilmente ammessa l’utilità di una conoscenza estensiva di essi e di una comparazione fra più ambienti attraverso l’anteriore produzione storiografica internazionale, è però proprio dell’indole di una Deputazione, quale la nostra, di credere nell’efficacia dello studio approfondito ed intensivo delle fonti di un unico centro, e di aver fiducia nel contributo che anche un tale metodo può offrire all’indagine storica generale. Rimosso ogni apodittico esclusivismo, e reso omaggio all’altruismo e alla lealtà di chi intende, pubblicando, mettere a disposizione di tutti un inestimabile tesoro ed offrire a tutti la possibilità di un controllo delle proprie tesi, non c’è, naturalmente, motivo di deprecare che la critica svolga la sua inesauribile funzione. Mattia Moresco Presidente della R. Deputazione di Storia Patria per la Liguiia CASTEL FRANCO DI FINALE I marchesi di Savona, che estendevano i loro possessi dalla parte occidentale della loro marca sino al fiume Finale, non avevan potuto fare a meno di fortificare, secondo i criteri del tempo-, nell’entro-terra le valli, vie naturali assai pericolose per una incursione, e sul mare le punte avanzate, per assicurare le spiagge allora abitate. I castelli di Orco, Perti, Pia, Quiliano e Segno, cui si aggiunse più tardi quello di Varigotti, costituivano questo apparato difensivo rudimentale. Fermandoci ai castelli del Finalese, osserviamo che quel di Orco dominava la valle di Cornei ; quello di Perti, da non confondersi con la rocca di Perti, cui accenna il Filelfo H, dominava la valle dell’Aquila. I castelli di Pia e di Varigotti erano baluardi eretti a proteggere i paesi omonimi, sul mare. L’estrema punta del contrafforte, chiamato Gottaro, che ha ai lati le due valli del Pora e dello Sciusa, aveva visto sorgere il castello di Pia, in tempo, che non possiamo determinare. La sua storia, come quella dei castelli di Orco, Perti, Quiliano e Segno, si delinea, fra le tenebre medioevali, nella notizia tramandataci dal documento, da cui sappiamo che nel 1162 esso aveva la sua curia ; quindi, oltre che centro di difesa, era sede di un amministratore dei beni marchionali ed esattore dei balzelli imposti alla popolazione (2). Certo in esso non abitava un visconte, che, rappresentante del marchese, risiedeva in città capitale di comitato, ma solo un ga-staldo. Correva, adunque, calma e serena ivi la vita, quando non veniva turbata da pericoli guerreschi: allora i sudditi, atti alle armi, vi accorrevano per guardarlo, mettendovisi a difesa dei diritti marchionali e ad offesa dei nemici. Questo ordinamento civile e militare rimase in vigore, finché le città di Savona e Noli sottostarono airautorità dei signori feudali; (!) Bellum Finariense, Anno Christi MCCCCXLVII coeptum, alidore Joanne Mario Philelpho, Nunc primum prodit, ex manuscripto codice clarissimi viri Martini Colae, Regii Fisci patroni in curia mediolanensi, in Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, Ediz. 1738, Vol. XXIV, col. 1187. (2) Moriondus, Monumenta Aquensia, Taurini, 1789, ex Typ. Regia, Vol. II, col. 330. CASTEL FRANCO DI FINALE 29 ma, quando uno spirito di libertà aleggiò su di esse, dando loro la forza di costituirsi a libero reggimento, e i marchesi furono costretti a ritirarsi nel contado, le cose cambiarono. La camina-ta da essi costruita alle falde del Bechignolo 0), nella breve piana chiusa dai fìumicelli Aquila e Nelogno, portò seco la creazione di una nuova città, che si disse Finale, prendendo nome dal fiume vicino, e preludiò alla fabbrica di un’altra caminata sul Govone (2), ove si accentrò la potenza dei marchesi, per titolo, di Savona, e di Finale, per residenza. Palazzo marchionale e castello, imprendibile per posizione e per arte, irradia il suo dominio sulle terre, di proporzioni ridotte, prima divise sotto diverse subalterne autorità; e gli antichi castelli di Perti e di Orco vengono abbandonati. Quello di Pia, più fortunato degli altri, conserva la ragione della sua esistenza, ora che il commercio marittimo assume maggiore sviluppo. La spiaggia magnifica, sebbene troppo aperta, ravvivata dalla crescente attività, ha bisogno di una difesa (a Varigotti si è sentito il bisogno di crearne uno di pianta): quindi attira, le cure dei marchesi, che ne sperimentano l’efficacia nel 1242. Una nave salaria, sfuggita all’inseguimento di navi genovesi, dall’isola di Albenga, si rifuggia sotto la protezione di quel baluardo (3). Dopo questa data non troviamo altra notizia su Castel Pia e, per giustificare la sua fine, ci si affacciano due ipotesi. La prima, la meno probabile, che, lasciato inoperoso, a poco a poco, deteriorandosi, cadesse a terra; la seconda, che i Genovesi, vincitori dei marchesi, lo rovinassero, come fecero nel 1341 per la fortezza di Ca-stellaro presso Taggia e per quella di Varigotti (4). Ad ogni modo è certo che in questa circostanza tutta la Liguria, eccetto il castello di Monaco, tenuto dai Grimaldi e da alquanti fuorusciti, venne assoggettata al doge, compreso Finale. Infatti nel 1343 Genova vi aveva eletto, come podestà, Giacomo Pico (5). Castel Franco fu edificato in luogo di castel Pia solo verso il 13G5, quando « i marchesi di Finaro facevano cose assai contro le convenzioni, e furono richiesti a comparire alla presenza del Duce e ricusarono di venire; per il che la Repubblica mandò contro di i1) Bernardo Gandoglia, Documenti Nolesi, in « Atti e memorie della Società Storica Savonese», Vol. II, pag. 5S1. (2) Liber Jurium Reijrublicae Gemien$tis, in Historiae Patriae Monumenta. Vol. I, col. 588. (3) Cesare Imperiale di Sant’Angelo, Annali Genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori, Vol. Ili, pagg. 133 e 34. (4) Agostino Giustiniani, Annali della repubblica di Genova scritti da mon-signore — corretti ed illustrati, Genova, 184G, Vol. II, pag. 70. (*) Federico Federici, Dizionario Storico, Ms. alla Biblioteca Universitaria, B. VI, 17, c. 39. 30 D. GUGLIELMO SALVI loro eserciti di cavalli e di pedoni, dei quali era capitano Francesco degli Embriaci, e non stette troppo in uffizio, o perchè fosse pigliato a sospetto, o perchè non si portasse bene, e fu messo in suo luogo Bartolomeo di Via » i1). Queste differenze si prolungarono e si complicarono per l’intervento di Bernabò Visconti. Il trattato di pace, conchiuso il 3 luglio 1367 per intromissione, a nome del papa, di fra Marco di Viterbo, cardinale di S. Prassede, rappresentato da fra Giovanni di Arezzo, abate di S. Maria di Firenze, ci fa vedere che i combattenti avevano fabbricato dei fortilizi per rafforzare le proprie posizioni : così il Visconti a Busalla ; così i Carretteschi a Finale. I Genovesi nello stesso Finale avevano eretto Castel Franco. Strana la disposizione ivi adottata : che le altre opere dovevano essere distrutte e solo Castel Franco, se i marchesi non venivano ad una ratificazione del trattato, doveva esser conservato libero al comune di Genova (2). Rimaneva, per conseguenza, quel castello come un pruno negli occhi dei Carretteschi, tanto più che, sia come opera militare, sia " come istituzione civile, si metteva contro gl’interessi di questi ultimi. E difatti lo stesso nome di Castel Franco accenna a quei centri privilegiati, che servivano di richiamo alle popolazioni, per abbattere la potenza dei signori feudali, e, nel caso nostro, per fare contrapposizione al Borgo di Finale. E che il castello fosse destinato a protezione di un aggregato di case, cui si vuole dare un nuovo sviluppo ci si fa palese, quando nel 1395 alle case già appartenenti a Pia, poste presso di esso, si dà il nome pomposo di Burgum Maris: Borgo del Mare (3), mentre poco prima i marchesi sono ob bligati a fare un decreto, che concede favori a quanti si recassero ad abitare nel loro Borgo e suo territorio (4). Non fa quindi meraviglia se da parte dei marchesi ogni occasione è buona per spingersi contro Castel Franco e dalla parte di Genova non si lascia sfuggire veruna circostanza per affermare su di esso il proprio diritto. Nel marzo 1378 i marchesi « a persuasione di Bernabò Visconti e di Veneziani occuparono a tradimento Albenga, Noli e Castel Franco » (5), che poi restituirono nel 1379 (6). Il lodo di Antoniotto Adorno del 21 marzo 1385 assegnava alla repubblica una metà di Finale ; e in quella metà si vuole compreso (!) Giustiniani, Op. e Voi. citt., pag. 101. (2) Liber Jurium cit., Vol. II, col. 745 e segg. (3) Liber Jurium cit., Vol. II, col. 1213. (4) Statuta et decretu et ordvnes Marchionatus Fvnarii, Cap. LXXXIX. (s) Giustiniani, Op. e Vol. citt., pag. 117. (6) Giustiniani, Op. e Vol. citt., pag. 119. CASTEL FRANCO DI F7NALE 31 Castel Franco con il suo territorio. Infeudandosi, poi, a Lazzarino e Carlo del Carretto la stessa metà di Finale, viene riservato a Genova Castel Franco. Sorge, però, in questa circostanza alla mente del doge la possibilità che il castello, origine, in sì breve volgere d’anni, di non pochi guai, debba essere gettato a terra ; ed allora si fa obbligo ai detti marchesi di mandare i proprii sudditi alla sua distruzione, qualora si fosse venuto ad una tale decisione i1). Trovo che nel 1390 il doge Antoniotto Adorno « con gli altri cittadini si contentarono di lasciare liberamente a Georgino del Carretto la terra di Castelfranco vicina a Finale » ; ma, essendosi messo questo marchese, con Antonio del Carretto, contro l’Adorno, per sostenere le parti del nuovo doge Giacomo Fregoso nel 1391, non fa meraviglia che ne fosse cacciato quando in questo stesso anno Antoniotto tornò al governo di Genova (2). Avemmo allora un’altra sommossa, a cui non fu estraneo Antoniotto Adorno, cacciato nuovamente dal dogato ; e Castel Franco fu occupato dai Carretteschi. Il 17 agosto 1394 Nicolò di Zoagli, doge, venne ad un accordo coi ribelli e gli audaci marchesi restituirono Castel Franco, che fu destinato alla rovina. Ma il 24 maggio 1395, tornato al potere l’Adorno, preferì di infeudarlo ai marchesi Lazzarino e Giorgino del Carretto, piuttosto che demolirlo (3). Anzi, per accordo intervenuto fra questi ultimi, con permesso del doge, Lazzarino restò unico padrone di Castel Govone e Giorgino, unico .padrone di Castel Franco, prima posseduti da essi in indiviso (4). Fu in questa circostanza che Giorgino da Castel Govone si portò ad abitare a Castel Franco, risiedendovi poi abitualmente (5), e vi si ridusse anche Antoniotto Adorno, quando fu privato definitivamente del dogato, morendovi di peste nel 1398 (6). Finché Giorgino ebbe in condominio il Finale, Castel Franco ebbe l’onore di essere la residenza di uno dei signori del marchesato. Quando nel 1428 egli fu deposto da Filippo Maria Visconti ed i suoi diritti passarono a Galeotto (7), il castello fu adibito a difesa della spiaggia e delle valli, nel cui imbocco si trova. Forse ebbe a sperimentare l’ira nemica nella prima guerra, che (x) Liber Jurvum cit., Vol. II, coll. 965-971. (2) Giustiniani, Op. e Vol. citt., pag. 171. (3) Liber Jurium, Vol. II, coll. 1213 e segg. (4) Liber Jurium, Vol. II, col. 1229. (5) Historia Montis-Ferrati ab origine marchionuvn illius tractus usque ad annum MOOOCXC auctore Benevenuto de Sancto Georgio comite Blan-drate in omnium comodum nunc recusa, in Muratori, R. I. S., Vol. XXIII, col. 629. (6) Giustiniani, Op. e Voi. citt., pag, 196. (7) Controversie Finarienses adversus senatorem Lagunam Cyrologia, Ra-phaele de Turri auctore, Parte II, pag. 165. 32 D. GUGLIELMO SALVI i Genovesi mossero a Galeotto; ma. il suo momento epico ricorse fra gli ultimi giorni del 1447 ed i primi del 1448, nella seconda guerra finalese, quando stabiliti gli accampamenti sulle alture, che lo sovrastano, i Genovesi lo batterono con artiglierie, fino a distruggere la torre situata nel suo mezzo, costringendo i suoi difensori alla resa. 1 vincitori, nel proseguimento della lotta, ben presto ripararono, i guasti prodotti, in modo che se ne poterono servire come centro delle loro operazioni. Finita la guerra con la vittoria dei Genovesi e la distruzione di Castel Govone e del Borgo, doveva prendere maggiore importanza Castel Franco, anche perchè, a dare alloggio ai rimasti senza casa, si decise di costruire un nuovo paese ad occidente di esso, la cui estensione non passava però il Garisano, che segnava i confini orientali di Vigna donna (*). Ma così non fu. Ad evitare spese il 27 maggio 1450 si decretò la sua rovina, anche contro il parere del doge, stanziandosi per ciò la somma di lire 100. 11 29 si torna sui proprii passi, per stabilire, invece, di conservarlo ; affidandone la guardia a Bartolomeo dOria. fu Giacomo, dietro cauzione di 10.000 fiorini (2). Questi lo prende in consegna il 2 giugno (3). Ma Giovanni del Carretto , fratello di Galeotto, rientra vittorioso nel marchesato, vi ricostruisce il Borgo e Castel Govone e qualche anno dopo riesce a togliere Castel Franco al D’Oria, che di questo fallo, che gli si imputava, il 9 agosto 1457, ottiene assoluzione, lui ed i suoi garanti, visto che per restar fedele ai suoi obblighi aveva esposto a repentaglio la vita; (4). Così, non ostante il patto, con cui Genova, facendo pace con Giovanni del Carretto, si era riservato Castel Franco, questo le veniva tolto e rientrava di fatto a costituire una parte integrante del territorio marchionale, in modo che, quando Andrea d’Oria, capitano generale del Mediterraneo, diventato curatore di Alfonso II, per avere sposato la vedova di Giovanni II, Peretta, ottenne, in data 5 novembre 1536 un’investitura da Carlo V per il suo pupillo, vi fu compreso anche Castel Franco, col suo distretto e territorio, tanto sul mare, che nella terraferma (5). Non sappiamo però se in quel tempo il castello fosse ancora in piedi, probabilmente era già stato demolito, come lo troviamo nel 1558. Difatti, venuti i genovesi sotto colore di sedare la rivoluzione mossa contro Alfonso II, ma in realtà per impossessarsi del marche- O) Archivio di Stato, Genova, Fin-ale, Filza 49. (2) Archivio di Stato, Genova, Diversorum, Reg. 50, c*. 44 v. e 45 v. (3) Archivio di Stato, Genova, Diversorum Communis Januae, Filza 18, n. 181. (4) Archivio di Stato, Genova, Diversorum, Reg. 07. (5) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 54. CASTEL FRANCO DI FINALE 33 sato, prima, loro cura fu di ricostruire Castel Franco, per rafforzarsi sulla riva del mare. Pietro Ravaschiero, commissario, fin dal’8 agosto, stando a Noli scriveva alla signoria: « poiché con la prima istruzione le S. V. Illustri mi comettono espressamente che io procuri pigliare la possessione di quello parteneva a loro di detti lochi, io penso dover domani andare in tutto lo stato et fare Patto delPaprehensione, reservato in ultimo il loco della marina di Pia et dello Castello Franco i1). Il 10 agosto, sempre da Noli, domandando Pinvio delle galere con 200 fanti, vuole si aggiunga « un maestro, capo d’opera, con tre o quattro casole, acciochè si possi racconzar Castello Franco, come si farà subito, essendo fin preparato la calcina et Paltre cose necessarie, tal che si potrà guardar con lo favor delle galere et delli soldati (2). Lo stesso 10 agosto « dalle Vezollo » comunica la sua andata a Finale : « In questa serà sarò alla Marina di Finaro con tutti questi uomini et 50 soldati i quali ho scritto a Savona alli signori com-missarii che subito mi mandino, et questa note Castel Franco si guarderà in nome delle S. V. Illustri, perchè subito si metterà doi o tre cento de questi homini con zappe et badilli e fare il spaso delle ruine et con qualche tavole si farà un poco di capanuza. per 25 soldati » (3). Di queste notizie restava contento il governo di Genova e gli faceva rispondere il 12 agosto : « piaceno che havessi preso la possessione del Castel Franco e che dovessi cominciare a farli un poco de reduti intorno et in questo non potete fali-re a far che gPhomini, li quali volunteri se li afaticherano a ridurlo, lo faccino quanto più presto in termine che non possi esser forzato così facilmente, et questo possiano con bon animo farlo, fabricando nel nostro chiaro, ma fatte vedere se li resta alcun vasso d’aqua dentro che se potesse riempire » (4). Il muratore o capomastro mandato per adattare alle nuove esigenze le rovine di Castel Franco, fu mastro Antonio Rodero, che il 7 agosto fu sul posto e, visto il· da farsi, fu rimandato a Genova, per riferire « nel termine che si ritrova [il castello] e il modo di metterlo, in maniera che si possi guardare » (5). Frattanto il Ra va schiero cercava fra le rovine la bocca della cisterna, che, a detto di tutti, doveva essere « assai grande et bon vaso ». Ad ogni modp aveva anche previsto il caso che essa fosse insufficiente, facendo progetto di adattare a deposito di acqua « un (!) Archivio di Stato, Genova, Ffnœle, Filza 3, n. 5. (2) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 3, n. 6. (3) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 3, n. 7. (4) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 3, n. 8. (5) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 3, n. 13. 34 D. GUGLIELMO SALVI torrone fabricato sopra un scoglio sopra mare, il quale ha una volta, la qual, anclior sia un poco rotta al desopra., si pottrà facilmente acconciare » (*). Mastro Antonio Rodero, il 24 agosto, partiva da Genova, per tornare a Finale, ed era. raccomandato presso i commissarii di Savona, Demetrio Pinelli e Benedetto Cicala Casanova, per avere da essi gli strumenti necessarii all’opera da iniziarsi (2). Il 30 si annunzia il suo arrivo a Finale. Era con lui un mastro Battista da Savona. Un mastro Tomaso ed un tal Fructuoso de Costa, venuti col Rodero prima, erano rimasti a Finale. Questi,, tutti insieme — scrive il Ravaschiero — « hanno riveduto lo Castel Franco et suo sitto, di novo preize misure et dissegnato il lavoro che si ha da fare et a giudicio mio starà molto bene, nè li an-derà molta spesa....et in pochi giorni si ridurà detto castello in bona forma ». Mastro Antonio e Battista furono di nuovo a Genova per fare approvare i disegni, mentre .a Castel Franco si metteva mano « a nettare la. boca della cisterna » (3). Il 5 settembre alle ore 12, trovata la bocca, si constatò che la cisterna era piena di acqua (4). Il 9 si invoca il ritorno del Rodero, perchè era tempo di cominciare le opere in muratura e bisognava avere davanti il progetto. L’acqua contenuta nella cisterna aveva un’altezza di 14 palmi, ma nel fondo si sentiva un ingombro di pietre e calcinacci ancora per due o tre palmi (5). Mastro Rodero arrivò il 10 settembre, ordinò il lavoro da farsi e ritornò a Genova (6), mentre gli altri davano inizio al restauro. Risorse cosi il castello, che aveva già una sua storia. Quando il marchese Alfonso II, ricorrendo aìl’imperatore, per essere stato — come lui diceva — scacciato da Finale, e si lamentava che i Genovesi rifabbricassero Castel Franco, questi, rispondendo, fecero sapere che lavoravano sul proprio territorio (7)· Ma non ostante questa ed altre ragioni, vagliate dall’impera tore col parere delle principali università italiane, si dovette venire ad una restituzione. Il 17 febbraio 1564 fu a Finale il magnifico Messer Francesco Cattaneo Tagliacarne, dottor di leggi, con altri colleghi, per consegnare il marchesato a Giovanni Alberto del Carretto, signor di Gor-zegno, procuratore di Alfonso ; ma il giorno prima Castel Franco era stato raso al suolo e il 18 si potè fare la consegna solo delle sue rovine (8). (*) Archivio di Stato di Genova, Finale, Filza 3, n. 15. (2) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 3, nn. 21 e 22. (3) Archivio di Stato di Genova, Finale, Filza 3, n. 32. (4) Archivio di Stato di Genova, Finale, Filza 3, n. 42. (5) Archivio di Stato di Genova, Finale, Filza 3, n. 58. (6) Archivio di Stato di Genova, Finale, Filza 3, nn. 67 e 68. (7) Archivio di Stato, Genova, Finale, Reg. 54, c. 52 v. (8) Archivio del Marchese Del Carretto di Balestrino, Albenga. CASTEL FRANCO DI FINALE 35 Nella, seconda rivoluzione suscitata contro il marchese nel febbraio 1566 i ribelli decisero di fortificarsi su quelle rovine, mettendovi delle artiglierie (*). Un anonimo vedeva l’importanza di questi progetti e ne scriveva a Genova : « detti capi dissegnano et hano per fondamento della loro impresa sopra il forte, sito sul scoglio alla Marina del stato predetto, che si chiama Castel Franco, messo in fortezza con due meze col ombrine et altri pezzi de ferro, guardato a nome delP imperatore da dua thedeschi, et ne tiene protettone il detto Governatore, sendo differente dalle fortezze del Borgo, affossato con rempari et fianchi, in giro di mura et cortine da 300 passa, con una buona et profonda cisterna, con loggiamenti, che anco in un meze se farebbe in maggior fortezza, sendoli anco le roine di due bastioni col terreno et legni assai apresso » (2). In una lettera del 17 novembre 1579 scritta dalPimperatore al barone Dorimberg, governatore di Finale, si comanda di portare *i 25 il numero dei soldati da porsi al suo presidio, sotto il comando di Ruggero Bongiovanni (3) ; e questo ci dice chiaramente che si era già proceduto al suo restauro. Ma chi si mise ad abitarlo con tutta la famiglia fu il barone Bec caria, quello stesso che nel 1602 dovette consegnare il castello, non senza protesta per il fatto lesivo dei diritti imperiali, ch’egli rappresentava, a· Ruggero Marchiano, mandato a Finale dal conte di Fuetens (4). Sotto il governo spagnuolo il nostro castello ebbe le sue più grandiose trasformazioni. La « mezzaluna » posta ai suoi piedi sembra sia stata fatta fin dal 1604 (5) ; ma l’ingrandimento, che cambiò nome alla località, detta prima Castello e poiv Castelli fu posteriore assai. Diede occasione ad esso la guerra combattuta fra la Francia e la Spagna, alle quali nazioni si era unito il Piemonte. Anzi uno dei condottieri era Tomaso di Savoia, che, schieratosi prima colla Spagna, finì poi per collegarsi con i francesi. Il governatore di Finale, don Giovanni de Castro, ordinò le prime fabbriche, stipulando un contratto, il 25 giugno 1640, con Giacomo Ponsello, impresario genovese. In esso si stabilì che il Pon-sello doveva : « di qui per tutto il mese di luglio prossimo venturo fortificare et consignai* fortificata la muraglia di Castel Franco verso Pia attaccato alle case di solita habitatione dell’alfiero, comin- (x) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 3, n. 103, (2) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 0. (3) Biblioteca Vittorio Emanuele, Roma, Fondo Vittorio Emanuele, numero 896, c. 111. (5) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 74. (6) G. A. Silla, Una memoria della dominazione spaglinola nel marchesato di Finale, Savona, Tipografia Savonese, 1930, pag. 39. 36 D. GUGLIELMO SALVI dando dalla cima di dette case sino al fondo, dove è la cappella di detto castello, ingrossando al piede del fondamento sino a nove palmi di grossezza, dandoli il terzo di scarpa, qual si anderà diminuendo in proporzione sino alle finestre di dette case, ove si fortificherà il cordone in forma solita a tali fortezze. « Attaccato alla meza luna di detto castello.... fare et consignar fatta in fine di detto tempo una trinciera o sia strada coperta, di grossezza palmi tre con la sua scarpa alla parte ove farà bisogno, conforme ordinerà detto signor governatore. « Fare et consignar fatto in fine di detto tempo un recinto in forma di ridotto trincierato sopra il montino, che si trova all’in contro di detto castello, nel loco designato di grosezza parmi tre con il quarto di scarpa alla parte ove farà bisogno, conforme ordinerà il medemo signor governatore » i1). Altri lavori si progettarono nel 1642. Si trattava, nientemeno, di occupare gli oliveti e terre del Dottor Giovan Girolamo Caniccio, del Capitano Tomaso Burlo, di Nicolò Spereri, di Lorenzo e Giulio fratelli Spereri, di Brigida Pastorino e di Domenico Giordano. La terra di Giovan Girolamo Casiccio si trovava « a confini di Castel Franco per il zerbo che resta verso ponente, della strada publica di sopra detto Castello dal monte o sia tramontana, di Nicolò Spererò per altra terra o siino fascie olivate da levante et del detto Cascicci da mezzo giorno ». L’11 marzo 1643 Lorenzo e Giulio Spereri sentendo « che per servizio di S. Maestà Cattolica, nostro Signore, nella fabbrica di Castel Franco e nel posto della S.ma Annunciata convenga prenderle novo sito sulla terra olivata », domandano estimo di essa. E difatti il 15 aprile successivo Francesco Cremata e Domenico Toso furono a stimare « le ulive site nel posto della S.ma Anonciata apresso Castel Franco nella Marina di Finale d’ordine del Sig. Governatore Don Giovanni De Castro ». Stimarono ancora « altra terra olivata apresso Santo Fretoso nel sudetto posto, quale terra è delli sudetti Spereri ». Nicolò Spereri, che aveva ricevuto parole dilatorie in risposta ad una sua simile dimanda, incoraggiato dall’esito ottenuto dai parenti, la rinnovò il 17 aprile dello stesso anno, per la terra che gli si doveva occupare « per la fabbrica nova da farsi a Pia vicino a Castel Franco.... al bricco della Nunziata ». Ma gli stimatori, sebbene eletti il 17 aprile 1643, procedettero a svolgere il loro compito solo il 18 aprile 1644 e stimarono in scudi 138 le olive, onde si arricchiva « il posto della S.ma Anunciata sopra Castel Franco nella Marina di Finale ». Pure il 18 aprile 1644 si stima l’oliveto di Nicolò Spereri « nel Archivio di Stato, Genova, Finale, Reg. 64, c. 466. CASTEL FRANCO DI FINALE 37 posto della S.ma Annonciata sopra Castelfranco nella Marina di Finale, sotto confine di Lorenzo Spererò e fratello da levante e giovo e la strada da mezzogiorno » ; il 2 maggio 1’« oliveto detto dal pino » di Bernardina Giribalda, « dove si fabbrica il castello nuovo forte di S. Antonio ». Il 20 maggio dello stesso anno una supplica, fatta da Brigida Pastorino, vedova di Vincenzo, da, Giribalda del fu Damiano, da· Giulio, Lorenzo e Nicolò Spereri, comincia a reclamare il pagamento delle terre occupate per la « nova fabrica » e l’estimo del « rimanente delle dette terre olivate ivi contigue et già incorporate con dette fortificazioni » i1). Fabbricati, come abbiam visto, i forti di S. Antonio e dell’An-nunziata fra il 1642 e 1644, ricevettero con Castel Franco il battesimo del fuoco. Tomaso di Savoia, che era stato col suo esercito a Cassine e Spigno, « s’incamminò verso il Finale ; onde il marchese di Velada incontanente diede ordine che s’allestisse la gente per andare a soccorrere quella piazza, quando il nemico avesse sopra di esso fissato rocchio » (2). Nei nostri documenti il fatto ha la sua ripercussione. Sono i possessori di terre presso i castelli, che per le nuove esigenze avevan ricevuto danni e ne domandano la reintegrazione. Essi espongono nei loro ricorsi le più minute particolarità, dalle quali si viene a sapere che i tre castelli si stavano congiungendo con una « strada coperta », che avrebbe formato di essi un unico recinto fortificato. Giovanni Girolamo Casiccio domanda pagamento « per una fascia et fasciolo di terra olivata con due muraglie di calcina, il tutto restante sino a dette muraglie della terra, che le fu presa parimenti li mesi passati et quale tutta entrò nella nova fortificazione di Castel Franco dove che detta fascia et fasciolo serve per la strada coperta ». Questo terreno, come dicono i periti, restava « dalla parte di levante di detto Castel Franco et tra mezzo detto castello et detto forte dell’Annunziata » e confinava verso mezzogiorno con altre l'a-scie del detto Sig. Dott. Cascicci. Lorenzo e Giulio Spereri espongono « qualmente doppo che l’anno 1643 del mese d’aprile che le fu occupata una parte di una lor terra olivata in quali si è fabricato il castel della S.ma Nuntiata, che fu estimato per ordine del Sig. Governatore, come dalli atti di mezzo, e [in] progresso della fabrica di detto forte delle fabbricazioni di Castel Franco, et con l’occupasione della fabrica del forte i1) Archivio di Stato, Milano, Feudi imperiali, Comuni: Finale, 279, 4. (2) Oli Annali di Alessandria di Girolamo Ghilini annotati e documen tati, editi a cura della società dì Storia della Provincia di Alessandria, vol. III, pag. 273. 38 D. GUGLIELMO SALVI di S. Antonio et della strada coperta o sia reunta, che si fa. per congiungere insieme li sudetti forti di Castel Franco, Anonziata et S. Antonio et anche con l’occasione che venne l’armata del Prencipe Tomaso di Savoia è stata tagliata una moltitudine d’olivi per ordine del Sig. Governatore, quali li fece tagliare sì per levar l’occa-sione all’inimico di mettersi fra dette piante et accostarsi a detti castelli, sì anche per introdure le dette legne e rami d’olive in detti castelli per uso de forni per la fabbricatione del pane de soldati ». La loro terra si trovava « fra detti forti di Castel Franco, S.ma Anontiata e S. Antonio e dentro le strade coperte o sia congiontioni di dette fortezze, a confini del detto forte dell’Anontiata da mezo-giorno, di S. Antonio da giovo et Nicolò Spererò quondam Pietro da levante ». Per questi danni desideravano estimo e pagamento. Nicolò Spereri fa altrettanto. Egli ricorda la supplica inoltrata il 20 maggio 1644 insieme a Brigida Pastorino e poi soggiunge: « oltre le olive che le sono state tagliate, come in dette preci, con Poc-casione della nova fabrica del forte di S. Antonio, della venuta dell’armata francese in questo marchesato et della muraglia che si fa per congiunger detti forti di Castel Franco e Anontiata con S. Antonio, li è stata tagliata in la medema sua terra una quantità d’arbori d’olive con li frutti pendenti ». La terra di Nicolò Spereri era situata « tra mezzo detti posti della Nontiata et S. Antonio, più di sotto verso la valle di Pia a confine delli detto forte della Nuntiata da mezogiorno et levante et Giulio fratelli Spereri da ponente et levante ». Sebastiano Bocciardo determina anche lui i suoi danni : « possedendo un pezzo di terra nella Valle di Pia, vicino a Castel Franco, parte boschiva et la maggior parte olivata, chiamata il pezzo grande delle olive de Bocciardi, sotto confini di Giovanni Andrea Grasso da tramontana, la strada publica da levante et li fratelli Laurentio et Giulio de Spereri da mezogiorno, con l’occasione che si fabbricò il nuovo forte di S. Antonio sopra detto Castello si occupò la parte boschiva di detta terra », « ultimamente che venne l’esercito inimico sotto il comando del Sig. Prencipe Tomaso di Savoia, per invadere questo marchesato, avvicinandosi a detto forte furono incontinenti d’ordine del Sig. Mastro di Campo, Governatore del detto marchesato e castelli, per poter meglio tenere la diffesa del sudetto et altri! castelli vicini, tagliati tutti l’albori d’olive con frutti pendenti ». Nicolò Ruffino si fece avanti per terra olivata « a confini di Antonio Bergallo da ponente, la vedova Brigida Pastorino da levante, da mare e giovo la strada et resta tra mezzo detto Castel Franco et S. Antonio, dalla parte verso tramontana et anche dentro la strada coperta alla muraglia di congiuntione delli detti forti, che si va facendo, eccetto che un poco di detta terra resti fori ». CASTEL FRANCO DI FINALE 39 Brigida Pastorino per altra terra posta « fra detti forti di Castel Franco, Annontiata et S. Antonio, per dentro le strade coperte, la parte boschiva in una parte del Castel S. Antonio verso tramontana, da ponente a confini di Nicolò Ruffino, da mare il fosso di Castel Franco e Bernardina Giribalda ancora da ponente e tramontana e Giulio e Laurentio fratelli Spereri da levante e la via ancora di sotto ». Finalmente Giovanni Andrea Grasso per la sua terra boschiva ed olivata sopra Castel Franco ; la boschiva presa in parte « nel formar la pianta del Castel S. Antonio » e l’olivata distrutta « nell entiar che li mesi passati fece Pinimico in questo marchesato nella vai e di Pia ». Questi documenti hanno la data 8 gennaio 1445 C). Ma le esigenze militari seguitano a reclamare rovine intorno a quei forti. Si scriveva infatti il 10 luglio 1445: « S. E., per il dubbio che il nemico possa invadere cottesto marchesato e per assiemare a piazza di Castel Franco, ha ordinato che si stimino le case del Borgo del detto Castel Franco, acciò, quando la necessità inescusabile lo richieda per diffesa pubblica e salvezza di quei popoli, si possano demolire, ma intende che ciò segua senza pregiudizio de que’ vassalli padrone (sic) delle dette case » (2). In omaggio a questi ordini « il Sig. Dott. Alessandro Campione, mattematico maggiore », deputato come sopraintendente alla bisogna, fin dall’agosto decise di demolire alcune case esistenti nella· Marina e Pia. Èsse erano : di patron Gian Battista Rossano, di patron Antonio Bergallo, di patron Giuseppe Bergallo e del capitano Vincenzo Casatroia « nella Marina verso ponente a Castel Franco » ; di patron Gian Battista Finale, di Domenico Giordano, di mastro Antonio Accame e di Giovanni Ambrogio e Battista, suoi figli, di Gaspare Narancio, di Alessandro Asnardo, di Giacomo Rochero, di Francesco Pellero, « nella contrada di Pia verso levante a Castel Franco » (3). Altri documenti ci parlano ancora della casa grande e magazino di Ottavio Casatroia alla Marina (4) e della, casa di Catarinetta Burone « posta nella contrada di nostra Signora di Pia verticalmente a Castel Franco » (5). 11 2 gennaio 1G47 l’impresario generale delle regie fortificazioni del Marchesato, Antonio de Silva, prometteva che per la metà di aprile avrebbe consegnato il magazino per la custodia delle muni- (!) Archivio di Stato, Milano, Feudi imperiali, Comuni: Finale, 279, 4. (2) Archivio di Stato, Genova, Finale, Reg. 64. c. 1012. (3) Archivio di Stato, Genova, Finale, Reg. 49. (4) Archivio di Stato, Genova, Finale, Reg. 64, c. 1039. (5) Archivio di Stato, Genova, Finale, Reg. 64, c. 1047. 40 D. GUGLIELMO SALVI zioni, di cui Alessandro Campione aveva fatto il progetto. Lo stesso impresario, sempre a Castel Franco, aveva eseguito già altri lavori (*). Fra il forte della Nunziata e Castel Franco sorsero pure quattro grandi edifìzi per dare alloggio alla guarnigione, come risulta da diverse piante di codeste opere militari. Come abbiam visto, però, questo gruppo importante di fabbriche erano state innalzate non già seguendo un disegno originale, ma sovvenendo volta per volta alle deficienze che il primitivo Castel Franco presentava in vista dei nuovi bisogni. « Da più eminenti ingegneri, da lui (il duca di Fuentes) e dai suoi successoli mandati a visitare il posto, fu sempre giudicata inutile qualunque agionta di fortificazione, che si havesse voluto fare al sudetto Castel Franco, anzi dovessi esserle pregiudiciale, atteso la natura del sito e predominato da colli; così l’effetto l’ha dimostrato, perchè tantosto si diede principio a spalegiare con nuova fortificazione dalla parte della collina di Castel Franco, che solamente può servire, per diffesa della spiaggia, senza però determinatione, nè minimo pensiero d’ingolfarsi nell’accrescimento e machina che poi ina-vedutamente per riparare i diffetti che s’andavano scoprendo, il caso ha apportato, si comprese che restava predominato dai colli che lo scoprivano e battevano, onde per riparo di quanto si era cresciuto fu poi necessario aggiungere altri due forti, uno chiamato S. Antonio che da uno predomina Castel Franco l’altro, l’altro la Nonciata che lo fiancheggia dall’altro e per distanza l’un dall’altro farli un recinto di larga, circonvallazione » (2). Raimondo Montecuccoli, andato a Finale per ricevere in nome dell’imperatore Leopoldo I la sposa Margherita Teresa, figlia di Filippo IV di Spagna, nell’attesa va a visitare — siamo nell’anno 1666 — le fortificazioni anzidette e trova che esse « hanno le dif-fese corte et elle però difficile a discoprirsi al piede. Gli angoli esterni — segue — sono ancora molto acuti, massime al Castelfranco lungo il mare dove le due punte possono essere battute dall’artiglieria nimica. Egli è ben vero che nel resto sono la più parte fuora di batteria per l’abbasso, se non è S. Antonio il quale ha un monte vicino, che lo domina un poco ; ma si consulta di occuparlo con qualche strada coperta, oltre la distanza è tale, che in mura grosse non può far breccia, e poi egli è anche difficile l’accostar visi » (3). (x) Archivio di Stato, Genova, Finale, Reg. 73. (2) Archivio di Stato, Genova, Finale, Reg. 73. (3) Raimondo Montecuccoli, I Viaggi, opera inedita pubblicata a cura di Adriano Gimorri e preceduta da una notizia sulla vita e spille opere dell’autore, Modena, Società Tipografica Modenese, Antica Tipogr. Soliani, 1924, pagine 182 ed 83. CASTEL FRANCO DT FINALE 41 Fatto sta che a riparare l’inconveniente, cui accenna il Monte-cuccoli, si ideò altra fabbrica, dispendiosa assai, perchè la sua effettuazione costò lire 45.203 e denari 4 di Milano. Fece il progetto Fingegner Berretta e la cappella ivi innalzata fu benedetta, dal vicario foraneo Gian Bernardo Brichieri, il sabato santo del 1681 i1). Venne su in questo modo il forte chiamato Legni o Legnino e si completò Finsieme delle opere militari descritteci dal colonnello Lorenzo Maria Zignago il 14 ottobre 1713, nell’anno cioè in cui il marchesato era stato ceduto a Genova dall’imperatore. È prezzo dell’opera riferire il documento. « Descrizione delli forti e fortificazioni della Marina. « Del Castel Franco. « Fu Castel Franco fondato sopra una rocca, che è parte dell’estremità d’un monte, il quale, sino dal colmo de giovi, viene a terminare vicino alla spiaggia della Marina del Finale, dilatandosi ivi per qualche tratto, con molti promontorii, li quali, essendo stati riconosciuti per perniciosi alla sicurezza di detto forte, gli hanno posti in militar clausura, formando figure irregolari e capricciose a misura del sito, che occupano, e vengono dimandati la Nunziata, il posto di Leganes, la Ferraria ed il Portone ; e, perchè posti con le piattaforme comprese nello stesso recinto di Castel Franco, non difendevano, per la loro altezza, lo sbarco della soggetta spiaggia con tiri radati ed a fior d’acqua, eressero sotto li medesimi una cortina, con due informi e piccoli bastioni, che li chiamarono Tenaglie, e sotto di essi vi formarono una specie di controscarpa con strada coperta, per mezzo della quale può il tiro del focile battere da quella parte efficacemente il sottoposto lido. L’istesso forte poi rivolge verso terra una fronte composta d’una cortina e due piccolissimi bastioni con angoli acutissimi e di niun valore. « Delle linee del Portone e della Nunziata. , « Il descritto recinto di Castel Franco non viene disgionto dalla falda più superiore dello stesso colle, che per un fosso poco profondo, laonde per liberarlo da simil soggezzione, hanno cinto di ripari e parapetti l’estremità laterali della medema falda, construen-dovi nel mezzo di essa quartieri capacissimi, per alloggiarvi soldati, con una porta che ha la sua communicatione libera e fuori del primo castello. Li suddetti ripari compongono una specie di circonvallazione a quel tratto di montagna, che rinchiudono, e restano compresi sotto due linee l’una verso occidente e principia dal Castel Franco e gira circa 200 passi andanti; l’altra guarda l’oriente e parte dal posto della Nunziata e si estende circa 250 passi simili et ambedue vanno a rinserrare il forte di S. Antonio. « Del forte di S. Antonio. (1) G. A. Silla, Op. cit., pag. 41. 42 D. GUGLIELMO SALVI « Questo forte, che sovrasta alla descritta linea, a Castei Fran co e a tutti li altri posti della Marina sinora mentovati, resta ancor esso irregolare, angusto e di pochissimo momento, atteso che li lati del suo proligonio sono ineguali e curtissimi e per ciò le fronti, fianchi e cortine, che hanno procurato di cavarli, sono incapaci di una resistenza. Il simile può dirsi d’altri due posti, che vi hanno costrutto, uno su la dritta, l’altro su la sinistra, nominati la Maddalena ed il Paradiso, ambidue rivolti verso il forti di Ligni, e sono compresi nell'accennata- linea di circonvallazione, contigui e sottoposti ma disgiunti dal suddetto forte S. Antonio, il quale verso la montagna viene cinto di fosso e strada coperta con alcune traverse. « Del forte di Lignì con sua lìnea et ogliota. « Ma, essendosi avveduti che il rifferito forte di S. Antonio poteva ancor esso essere dominato da un’alta sommità, vennero in pensiero di fortificare parimente quella con ergervi un ridotto di figura quadra, denominato il forte di Lignì, col suo fosso, strada coperta e due piccole controguardie all'angoli della fronte, che si oppone all’altezza soprastante delPistessa montagna, della quale, scorgendone pure il dominio, stimarono d’andarvi al riparo, col ta gliare al piede della medesima nel vivo scoglio un fosso, che servisse d'ostacolo a chi tentasse di passarlo, per avvicinarsi al detto ridotto, il quale, rimanendo separato dalle sopradescritte fortificazioni di S. Antonio e linee adiacenti, vi aprirono la comunicazione con un passaggio o sia linea, la quale munirono da ambi li lati di un parapetto con palificate, valendosi al detto effetto della strada dell’istesso monte, che, sempre salendo, guida da un forte all’altro. « Riflessioni sopra Je descritte fortificazioni della Marina del Finale. « Dalla descrizione fatta chiaramente si comprende che le sopraccennate fortificazioni ebbero per ogetto il mantenersi nel pos sesso del luogo della Marina e spiaggia sottoposta, sopra le false idee che ne avevano concepite e che a tal fine s'impegnarono ad ergere tanti forti e a circondare di tanti ripari e parapetti il vasto giro delle falde di quel monte, da cui temevano poter essere molestati. Non di meno non potevano conseguire il loro intento, se non arrivavano sino alla cima de giovi, dove l’istesso monte ha la sua più sublime eminenza, con un’estensione di molte miglia, altrimenti averebbero incontrato sempre altezze maggiori di quelle, che andavano occupando. Ed infatti il forte di Legni, che è il più alto posto che sinora avessero fortificato, viene dominato e battuto da un altro superiore a lui. « Si deve parimente riflettere che il difetto, che hanno li sudetti forti, d'avere dominij a tiro efficace sopra di essi, non è il maggiore CASTEL FRANCO DI FINALE 43 clie abbiamo, per quanto sia notabilissimo, stante che io ve ne con sidero degl’altri niente inferiori e sono : Tessere angusti, mal fiancheggiati, senza sotterranei a botta di bomba, e che non ostante, per custodirli vi abbisogni un forte e numeroso presidio, massime in tempo d’attacco, per li tratti longhissimi di montagna, che è convenuto circonvallare per rinserrarli e darli la communicazione fra di loro. La onde, quando io debolmente intendo, li giudico di sommo impegno e di poca difesa. Mi sottopongo però al più pesato esame che ne averanno fatto altri ufficiali di maggior capacità » (1). Genova, divenuta padrona del Finale, decise di gettare a terra tutti i castelli, escluso solo Castel Franco, per evitare le spese di manutenzione, ma forse a prendere questa decisione avevan contribuito oltre che i motivi finanziari, anche quelli sentimentali. Anche Castel Govone, l’antica sede dei Carretteschi, e Castel S. Giovanni, fabbricato dagli spagnuoli, furono condannati ad esser rasi al suolo. Il Govone fu distrutto in 15 settimane, dal 13 maggio al 19 agosto 1715, sotto l’assistenza del Capitano Gian Battista Zerbino e vi si vspesero lire 17884.13 ; S. Giovanni in 8 settimane, dal 21 mag gio al 28 luglio, sotto l’assistenza di Domenico Acquasciati e vi si spesero lire 2541.5.4; Legnino, S. Antonio e l’Annunziata in 10 settimane dal 13 maggio al 23 luglio, sotto l’assistenza dell’ingegnere Langlande e vi si spesero lire 13170.1.4 (2). Castel Franco rimase in piedi per vedere i tristi tempi che misero i finalesi contro Genova. Quei popoli si credevano oppressi dalle gabelle, che il Banco di S. Giorgio aveva imposto al loro commercio. La lite suscitatasi per questo, già portata innanzi alla corte imperiale, andava per le lunghe : si decise la rivoluzione. Essa cominciò il 18 maggio 1734 ed ebbe il suo punto culminante nel sequestro della persona del governatore e nella occupazione di Castel Franco, custodito dal colonnello Robach con 30 soldati, più il bargello e gli otto famigli, che colà si erano rifuggiati. Genova aveva pensato di assoggettare il paese con la forza ed il colonnello Matteo Yinzoni aveva fatto un piano, in cui dovevano operare 500 soldati ; ma poi tutto finì in una assoluzione generale (3). Il 28 febbraio 1738 si contratta in linea di diritto su un pozzo, che si trovava ad oriente della mezzaluna di Castel Franco. Da esso pozzo attingeva acqua il Rev. Gio Antonio Ramondo fu Bartolomeo. Genova voleva chiudere la mezzaluna con un muro per assicurare il deposito della polvere. Si stabilisce adunque che il Ramondo faccia a sue spese il muro che doveva avere 15 palmi di (!) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 21. (2) Archivio di Stato, Genova, Finale, Reg. 92 bis. (3) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 23. 44 D. GUGLIELMO SALVI altezza, « con cui si chiuda dalla detta parte di levante la detta mezzaluna fino allo scoglio sotto detto deposito e resti proprietà della Camera » ; il Ramondo vi poteva appoggiare un « angeto o sia toppia », dichiarandosi che il sito intermedio, ove è il pozzo di( palmi 10 in 12, come piramide della nuova muraglia, sia del Ramondo (*). Ma altre lotte si avvicinano. Il 13 settembre 1743 il Finale veniva ceduto al duca di Savoia dall’imperatrice Maria Teresa. I genovesi, prima per via diplomatica, poi colle armi, vi si opposero ; e in un bombardamento fatto il 27 settembre 1745 da quattordici navi inglesi contro quella costa si diportarono brillantemente, ributtando il nemico con aggiustati colpi sparati specialmente da Castel Franco. Lo stesso governatore Paolo Viale era presente alla difesa con il fior fiore dei finales! (2). Fu l’ultimo avvenimento, cui il nostro castello prese attivissima parte. Negli anni successivi andò perdendo sempre più di importanza a motivo degli innovati mezzi guerreschi. Ebbe ancora per qualche tempo dei custodi e funzionò pure da carcere. Ultimamente fu ridotto ad infermiera del reclusorio, che ha la sua sede principale nel Borgo, fra le mura dell’ex convento dei Domenicani. Ora, vuoto di abitatori, gode il sole, che tutto lo investe, o è sbattuto dalle acque scrosciani della tempesta, in un torpore, che infonde malinconia, ed attende che nuovi grandiosi progetti vengano a togliergli quell’aspetto, che ancora gli rimane, non so se più di carcere o di fortilizio. D. Guglielmo Salvi (!) Archivio di Stato, Genova, Finale, Filza 49. (2) Emanuele Celesia, Il Finale Ligustico, Ediz. Bolla, Finalborgo, pag. 54. RIVIERA DI LEVANTE E LUNIGIANA NELLA POLITICA NAVALE GENOVESE DOPO LO SFACELO DELLA MARCA (Continuazione e fine). L’anno 1145 appare veramente pieno di un’attività eccezionale, qui in Riviera. Genova dà effettivamente l’impressione di voler spiegare tutte le forz# di cui può disporre nell’intento di sottomettere la classe feudale, di tenerla a freno, di esigere a tutti i costi la pace e la tranquillità più assolute. Anche in queste occasioni vediamo regolarizzata una situazione di fatto, come nel caso di Portovenere; ma anche ora ad essa si fa luogo con uno scopo ben preciso. Particolarmente i Conti dovran servire « per mare, in terra di cristiani o d’infedeli » a loro intere spese Ed allora tutta la condotta del Comune appare in luce meridiana: non si tratta che della continuazione della organica politica marinara, di cui la politica rivierasca getta in questo caso, anziché esserne la conseguenza come nel caso di Portovenere, le premesse indispensabili. È il tempo in cui già si sta allestendo — accompagnata da rinnovate relazioni d’amicizia col Conte di Ventimiglia — la spedizione triennale sulle coste di Spagna dal 1146-1148, avente come obbiettivi immediati la conquista di Almeria e di Tortosa. Nella presenza delle squadre, o almeno nel rumore sugli armamenti in corso — sul vero obbiettivo dei quali nulla era forse trapelato — possiamo trovare la logica spiegazione dell’atteggiamento della· classe feudale rivierasca. Politica navale : e potremmo aggiungere anche coloniale, senza tema di offender alcuno, se in definitiva erano presi di mira in questo periodo regni e popoli moreschi. E, per contrario, politica solo occasionalmente antifeudale; sostanzialmente essa non avrebbe potuto essere diversa, qualunque fosse stato il regime politico-sociale della Riviera di Levante e della Lunigiana, appunto perchè subordinata al conseguimento degli obbiettivi politici, navali, commerciali che i reggitori del Comune si erano prefissi. 46 FERRUCCIO SASSI V. L’eccezionale attività svolta da Genova nel periodo che si chiude col 114S, e cioè con la conclusione della campagna spagnuola·, aveva prodotto — come ci narra l’imperiale nella sua bella ricostruzione citata —- gravissime conseguenze sulla saldezza del l’economia e della finanza pubblica. La situazione, non più florida dopo le iniziative rivierasche, era andata sempre più aggravandosi sia durante la spedizione, sia dopo che le conquiste effettuate si erano mostrate vantaggiose pel Comune nel campo politico-militare per la fama derivatane, ma non nel campo economico ; chè anzi, data la difficoltà di difendere le posizioni raggiunte, queste si mostravano piuttosto fonte di continue spese e di preoccupazioni, anziché sorgente di lucro. Riepiloghiamo brevemente le notizie dateci dalTA. All’appalto della zecca avvenuto nel 1141, seguiva nel 1144 l’impegno venticinquennale del dazio sul vino a favore d'un consorzio di capitalisti : quindi la cessione per 15 anni del dazio sui pesi e misure, quella di 29 anni del dazio sulle rive e sugli scali, l’appalto per ugual durata dei Banchi e della zecca delle monete d'oro e d'argento; e poi l'imposizione di fortissimi dazi sui generi di maggior consumo (sale, vino, olio, miele), e persino sulle navi e cioè sulla più sicura fonte di prosperità del Comune. Seguivano ancora in un vertiginoso incalzare la cessione ad una società privata di tutti i possessi di Tor-tosa, la cessione della regia del sale per 20 anni nonché d'un infinito numero di pedaggi, ed infine rinfeudamento per 29 anni agli Em-briaci dei possessi genovesi del Levante. Essiccate ormai le fonti medesime dei redditi, la crisi raggiungeva il culmine nel 1154, nel qual anno il debito del Comune era asceso alla cifra per allora enorme di 15.000 lire genovesi, pur avendo impegnato tutti i proventi rilevantissimi ritratti dalle cessioni e dai prestiti. Oltre la metà di detta somma, e precisamente 8.600 lire, erano dovute a banchieri piacentini. Sono senza dubbio ammirevoli la tenacia ed il coraggio non comuni, dimostrati nel perseguire una politica di largo respiro, quale appunto quella praticata direttamente da Caffaro od almeno da lui ispirata, e nel parseguirla ostinatamente malgrado le tremende difficoltà trovate nel compimento d’un'impresa altrettanto onorevole quanto praticamente inutile. Ed ancor più notevole il fatto, che proprio nel periodo di crisi il pensiero dei reggitori tomi a pensare alle necessità politiche, e subordini ancora e sempre a queste, le necessità economiche del Comune e dei singoli cittadini : anzi trovi nel successo politico un'arma per contrapporsi, seppur velatamente, alle probabili o possibili aspirazioni del maggior creditore, e per ga- RIVIERA DI LEVANTE E LUNIGIAN A ECC. 47 rantirsi Γavvenire. È certamente un bell’esempio di quanto possa la volontà contro il predominio della bruta forza economica. Ci attesta lo Schaube i1) del notevole grado di floridezza e di prosperità raggiunto in questo tempo dalla città di Piacenza, favorita dalla splendida ubicazione geografica sulle vie, allora molto battute, che collegavano l’emporio commerciale genovese all’alta Italia e quindi alle terre d’oltr’Alpe. Di pari passo con lo sviluppo economico era andata crescendo l’influenza politica e, sotto questo aspetto, meritano un cenno particolare gli anni dal 1141 al 1145. Dalla convenzione con i Pavesi, alla concordia con i potenti signori di Cornazzano ; dall’influenza acquistata nella vecchia giudicai ia longobarda di Mezzano in seguito al giuramento di fedeltà dell’Abbate Giovanni, all’acquisto con la forza dell’alta giurisdizione sul castel- lo e sulla curia di Compiano e di Felina (a seguito del qual fatto i Marchesi Guglielmo ed Opizzone Malaspina divengono feudatari del Comune), è un costante irraggiarsi del Comune piacentino verso i valichi appenninici. Nell’agosto del 1141 1 intera λ al di Taro è percorsa « hostiliter » dai Piacentini : serbatoio e vivaio di prodotti naturali e di uomini validissimi (da allora un milite armato per ogni casa servirà nelle schiere comunali), poderoso rinforzo almeno per la guardia dei passi, se proprio non ancora piattaforma per ulteriori sbalzi giù verso quel mare che già sin d allora molti cittadini piacentini percorrevano come privati mercanti, dediti esclusivamente ai loro pacifici traffici. Sbalzi resi ad ogni modo possibili dopo che, con la cessione dii parte del Marchese Oberto Pela vicino dei beni allodiali e feudali avvenuta nel 1145 per riceverli e riconoscerli in feudo dal Comune, era definitivamente tramontata ogni ragione di preoccupazione nelle zone del piano (2). La posizione dei Malaspina, rimasti abbarbicati come possono in una stretta zona a cavallo degli Appennini, appoggiate le spalle alla loro Lunigiana, è ora alquanto scomoda. Ma essi hanno ancora la possibilità di liberarsene coiracconsentire a gravitare in una o nelPaltra direzione a seconda delle pressioni materiali e morali che ricevono. Orbene, mentre per alquanti anni le carte genovesi serbano il più assoluto silenzio snlleattività svolte in Lunigiana. vi ritornano quasi con uno scoppio improvviso di fulmine nel 1150, in una posizione che a prima vista sarebbe sembrata insospettabile e lontana dal giuoco ormai tradizionale della politica genovese. Dagli abitati di Ceparana e di Bolano una vecchissima strada risaliva per le vette retrostanti sino al Monte Gottero, per ridiscendere al passo di Centocroci e di lì avviarsi verso Parma e Piacenza. (J) Op. cit., passim. (2) Registrum Magmim del Comune di Piacenza, docc. η. 271-253-112-159-155-95-156-157. 48 FERRUCCIO SASSI Sulla vetusta via rifluiva forse in quel tempo una rinnovellata corrente di vita; dal Gottero una strada scendeva per quel di Zeri verso Pontremoli; altra, in fondo valle verso Varese Ligure, sboccando in quella scendente direttamente allo stesso centro dal valico-di Centocroci (*). In tutta quella parte {quarterio) della pieve di Varese Ligure compresa fra i torrenti « Coloana » e « Stadura » (gli attuali Corvana e Stora), dal loro sbocco nel Vara fin su al crinale di Centocroci, i figli del noto Cona di Vezzano, i figli di Oglerio di Lagneto e i domini di Salino godevano da tempo di una quarta parte delle decime della pieve (2). Sono tutti casati e personaggi a noi ben noti per le loro vicende rivierasche e pei loro rapporti col Comune di Genova ; la zona ha poi una particolarissima importanza geografica. Lassù, in posizione militarmente ottima, a guardia delle strade scendenti a Varese da Centocroci e dal Gottero, sorgeva appartato il castello di Teviggio, tenuto da uno dei domini di Salino e da un consorzio dominicale assumente il proprio predicato dalla località, probabilmente sciamato da uno altro ramo degli stessi « de Salino ». È appunto questo il castello preso di mira : naturalmente si tratta di una donazione, e — perchè l’atto sia giuridicamente perfetto — la donazione si estende al colle sul quale sorge il castello stesso, come a necessario complemento ed appendice. E non meno naturalmente, come già molti anni prima i Passano pel cartello di Frascati, i domini mantengono e confermano la fedeltà verso i loro signori : non in tutto veramente, perchè una piccola eccezione si fa (curiosa fedeltà davvero!) pel castello di Teviggio. Anzi, per quest’ultimo, la decantata fedeltà si spinge al punto che i domini — evidentemente____ per scrupolo di coscienza — s’impegnano a riferire subito al Comune di Genova ogni macchinazione contro il detto castello, e forse anche contro altri, sorgenti nella zona, che eventualmente pervenisse al loro orecchio. Segno, questo, della vitale importanza che Genova annetteva a quel braccio buttato laggiù, sotto al crinale, per serrare la stretta attorno al comitato di Lavagna ed a quel che restava, da Val Gra-veglia- alla catena appenninica, ai semi-spossessati Marchesi. Ma anche cacciato sin là per troncare ogni eventuale velleità di discesa verso il mare al Comune piacentino o magari parmense. Seguirà poi l’acquisto della quarta parte del monte di Leriçi, ceduta dai domini di Vezzano al Console Ido di Carmandino nel 1152 (8) ; e la penetrazione sarà perfezionata nel 1153 col trattato C1) Cfr. M. Giuliani, Note di topografia antica e medievale del PontremG lese, in « Arch. Stor. Prov. Parmensi », XXXV, N. S. (2) Registro Arciv. cit. (sj LAì). JurI, col. 103- RIVIERA DI LEVANTE E LUNIGIANA ECC. 49 di amicizia· e commercio stipulato con il Comune di Pontremoli (l). L’intera Lunigiana è ormai assicurata al dominio diretto od all’influenza genovese, e nessun nuovo rivale potrà più minacciare il pacifico dominio del Ma,r Ligure su tutto Parco di costa da Genova a Capo Corvo : così come la sottomissione di Savona avvenuta nello stesso anno 1153 (2) conferirà a Genova sicurezza militare e politica sino al mar di Provenza e di Catalogna, e donerà piena tranquillità al traffico diretto verso occidente. Invano per tutti questi anni il Comune di Piacenza tentava di riportare sul terreno la questione dei debiti : promesse molte ; parole buone senza dubbio; qualche sorriso anche, nella forma e nello stile caratteristico degli Orientali, appreso da qualche contatto av venuto nei bazar levantini.... Relazioni cordiali, basate su intensificate relazioni commerciali, fors’anche su chieste e facilmente accordate agevolazioni nei trasporti.... ma nulla più almeno per allora. Ma nel 1154 la situazione è molto cambiata in favor di Genova, e non sono più a temersi ormai ricatti di sorta nel campo politico quale compenso per una sistemazione finanziaria. Sistemazione che invece, ammortizzati o in corso di ammortamento i prestiti contratti all’estero mediante le pattuizioni del gennaio 1154 (3), prevedenti un pagamento rateale e, in parte, un pagamento in natura, viene rapidamente raggiunta con i soli mezzi ordinari a disposione del Comune. E ci stiamo così avvicinando al coronamento dell’edificio costruito con tanta pazienza in lunghi anni di attesa, di lotte formidabili, di vittorie e di scoraggiamenti. Dal 1155 al 1157 è uno straordinario fervore di opere costruttive. Sono nuovi patti stipulati con i borghesi di Montpellier; è il trattato di commercio e d’amicizia con l’imperatore d’Oriente, che tanto lustro doveva recare al Comune unitamente alla possibilità di vedersi aprire nuovi ed immensi sbocchi ; sono altri accordi con Guglielmo di Sicilia e col suo figlio Ruggero, e con le città di Tortona e di Milano. E contemporaneamente un’intensissima ingerenza nelle cose di Riviera e di Lunigiana : rinnovazione di giuramenti di fedeltà dei Nasso, Passano, Lagneto e Lavagna; obbligo ai feudatari di custodire le strade da Brugnato a Val Graveglia ; dovere di rivelare eventuali congiure contro i castelli ; imposizione dell’arbitrato dei Consoli genovesi nelle beghe intestine ; obbligo di osservare in pieno le modificazioni strutturali dell'ordinamento sociale ormai introdotto nella stessa pieve di Lavagna (« tenere compagnam et consulatum in plebe Lavanie (') II)., col. 171. (2) lì)., col. 1G6. Cfr. anche G. Sforza, Memorie e documenti per sei'vire alla storia di Pontremoli. Firenze, Franceschìnì, 1904. (3) Uh. Jur., I, col. 171. 50 FERRUCCIO SASSI ad mandatum comunis Janue ») ; obbligo di conservare « scaritum et guarnitimi » il castello di Frascaro e quello di Frascarolo, nonché la torre, il domignone ed il borgo, con esclusione dai medesimi di qualsiasi ingerenza marchionale (« bailiam et potestatem »). E nel- lo stesso anno 1157 la donazione fatta da Guido Guerra, Conte di Ventimiglia, dei luoghi e castelli suoi, ed il conseguente giuramento di fedeltà prestato dal Conte medesimo e da tutti i suoi uomini, sanciva in modo definitivo l’incontrastato dominio del Mar Ligure occidentale (*). Febbrile attività diplomatica che trova riscontro in Genova stessa nell’ardore, col quale si sistemano opportunamente poderose difese della città dal lato di terraferma ed all’ingresso del porto : l’ul-tin^o atto che conclude il ciclo politico delPespansione genovese in Liguria, e che consentirà ai legati genovesi di ergersi fieramente sui piani di Roncaglia, negando il diritto al Barbarossa di esigere tributi dal Comune. L’edifìcio è ora compiuto; forte della sua marina, Genova potrà affermare clamorosamente per bocca di Caffaro una propria autonoma politica navale: anche a costo di sollevare i sospetti pisani, e di affrettare l’epoca delle rinnovate lotte pisano-genovesi ed il proprio trionfo finale nel Tirreno. « Nam ab antiquo concessum et confirmatum est per Romanos Imperatores, ut ab omni angaria vel perangaria habitatores civitatis Janue debeant perpetuo excusari, solamque fidelitatem Imperio debeant, et maritimarum contra Barbaros tuitionem, nec in aliis possint nullo modo cogi, ut Divinitate propitia Barbarorum impetus at insultos, quibus tota maritima a Roma usque Barchinonam quotidie vexabatur, procul dubio expellerent, ut ab eis quisque securus dormiat et quiescat » (2). È all’incirca questo il tempo in cui, sull’altra sponda d’Italia, ad opera dell’altra Dominante geograficamente più fortunata, lo stesso concetto — sugli inizi essenzialmente politico, e soltanto in seguito rivestito a fini polemici di formule giuridiche — va maturandosi e delineando i propri precisi contorni nella definizione del « mare chiuso ». Tra i due mari, impossibilitata a raggiungere da un lato l’Adriatico o ad affermarvisi, od a traboccare verso il Mar Ligure e il Tirreno dall’altro superando i valichi appenninici, la politica delle città e successivamente dei ducati dell’interno si svolgerà per secoli avvenire, gradualmente contenuta, repressa, smorzata in una na turale tendenza verso la ricerca di un equilibrio politico : sovente, (!) Ih., col. 182, 183, 190, 191, 192, 193, IH 190, 197, 201. (2) Caffaro, Annales, ad annum. RIVIERA DI LEVANTE E LUNIGIANA ECC. 51 ed anche contro ogni sua volontà, costretta a fornire come il letto — contenuto da due troppo ripide sponde — del canale convogliante invasioni straniere. Anche il piccolo dimenticato castelluccio di Teviggio aveva avuto modo di dire la propria modesta parola per determinare il corso degli avvenimenti. * * * Mentre i trattati con gli Almoadi di Spagna, del 1154 e del 1161, e l’alleanza stipulata· nel 1167 con Alfonso II d’Aragona e successor del Conte di Barcellona, avevano definitivamente consacrato il predominio politico di Genova nel Mediterraneo occidentale, in Riviera le ultime tappe del cammino genovese sono dirette, com’è naturale, all’ulteriore consolidamento delle posizioni raggiunte : si passa cioè più specialmente nel campo della politica interna, essenzialmente antifeudale, della quale basterà ricordare pochi aspetti tra i più caratteristici. Tale ad esempio, nel 1166, la trasformazione del già instaurato regime consolare delle pievi di Lavagna e di Sestri, con l’imposto predominio numerico, nel corpo consolare, degli elementi di nomina comunale o dipendenti dal Comune « ratione officii » : in Lavagna, di fronte ai due Consoli di nomina comitale, se ne contano due scelti dai Consoli genovesi oltre il Castellano di Rivarolo, vero funzionario elei Comune genovese; in Sestri, la medesima composizione col Castellano di Sestri. La vigilanza è completa, così nel campo sociale come in quello militare (*). Rientra in queste direttive la forzata sottomissione, nel 1168, dei Marchesi Malaspina accettati come vassalli dall’Arcivescovado del Comune, con obbligo di limitare ad una sola persona per ogni casa lo « jus arimannorum » (cioè il potere politico marchionale) di ritenere nullo od abrogato — se tale sarà, la volontà della controparte, manifestata con l’abbandono delle terre — ogni diritto nascente dal manentatico su terre dominicali, di « donare » quanto ancora occorre perchè siano portati a uno stato di perfetto assetto i borghi, il castello, i fossati di Monleone : del castello cioè da poco tempo eretto a cura· del Comune (in seguito alle lagnanze dell’Ar-ciprete di Cicagna e di una Commissione di parrocchiani recatisi appositamente a Genova) per tenere a freno le schiere marchionali e quelle dei domini di Cicagna. Alcuni dei quali, pochi anni più tardi, saranno ben facilmente indotti a vendere al Comune la propria quota di diritti sul castello e sulla pieve, con rinunzia alT« honor » nascente dai rapporti di commenda e di arimannia (2). (J) Lift. Jur., I, col. 222. (2) Oberto Cancelliere, Annales, 1164; Lib. Jur., I, col. 235, 24 novembre 1184. FERRUCCIO SASSI Implacabile, sopravviene, nello stesso atto del 11GS, rimposizio-ne del foni, del diritto e della consuetudine genovese in tutte le ver teuze giudiziarie che avessero ad insorgere, non solo tra gli elementi ancora organizzati uel sistema feudale ed i cittadini genovesi, ma addirittura fra i Marchesi ed i loro vassalli, tra essi e gli arimanui o comandi o manenti, ovvero tra questi ultimi « inter be *>, Ed i Marchesi stessi dovranno rispettare o far rispettare le sentenze nel le cause di diritto feudale o no, che fossero |**r volontà d’uua parte fioriate al foro genovese, anche se pronunziate tra essi Marchesi e abitanti di località non fortificale dove esigesse uu semplice consolato approvato dal Coniane genovese (*). 1/importanza della di* spedizione è tale che quando — durante la nota, infelice levata di scudi del 1173 — i Consoli genovesi intendono colpire nel vivo i ribelli* non avranno che da accordare la libertà a sudditi dei Conti, sottrattisi all'autorità comitale, « honore, commodo ac benefit io floride civitatis romane » (*). Per quanto ben sicuro alle s|mlle, dalla Val del Hisagno alla Val di Vara, il Comune non ceneri però di tener attentamente d’occhio le vicende politiche lunigianesi, come dimostra il favore accordato alla nota « tregua » del 1172; apparentemente, per ragioni di affinità nella costituzione politica col Comune di Pontremoli, il maggior esponente della « tregua » medesima, in realtà, anche |*er tener a bada — oltre al Vescovo di Litui e ai Malaspina — temute simpatìe rampollanti in Pontremoli verso il Comune di Piacenza, manifestatesi non molto tempo prima (e confermate di 11 a non molto! con ben chiare pattuizioni formali (*). Ma già la feudalità minore veniva piegandosi definitivamente al nnoro stato di cose, e i domini di Passano ne danno l'esempio accettando in pieno la trasformazione in reddito annuo, di natura patrimoniale, dei proventi un tempo derivanti ad ensi dall’esercizio dei pubblici poteri in quello che era stato il loro feudo (4). Piìl tardi ancora sopravverranno le sottomissioni di piccole con sortene delle Cinque Terre, i domini di Ponzò, di Conrara e di Ver nazza. già ammaestrati del resto — dalla l»en ideata spedizione di Himone I>oria del lltó — circa ì salutari effetti delle sorprese prò* venienti dal mare (*>. E poi altre saltuarie ribellioni, di maggior (*) Uh. Jmr.. I, eoi. 23M. (*1 /6., eoi. SM, Anno 1173. C*fr. «fui min memoria su I Tr*çw*mi rfr Lmrncjmm*. in «Gian», fttor. Left. Ucmia ». 1863, II. fi /&.. 2R£2«5. anno 117L f*> (miro rjxGEfxum, Anmulrg. anno llfiS. Cfr V. MaZZIM. l imdr M ra*UlU, 4i Carpanti aino *11* rrrrwinnr. In * Glntn. Hi dell* f,nniff1ana ·« 15*22 V. jet le minori r^tworteric Uh. Jmr.. I. col. 54^S(7-V^>T2e®, ecc. IVI rapporti del Comune di Genova roti le terre, le conforterie e eli nomini ddrAnoraili, V fterm, lì éMrrilo CMotori mmn*o e meéletmte, f, rhiarari. Tip Colombo. 1W. riviera di levante e lunigiana ECC. 53 ° Jwiuor conto, ma sempre con effetti transeunti : chè ormai, si andava radicando nell’animo dei Genovesi la coscienza della vitale importanza strategica delia Riviera e della Lunigiana, se fin dal- 1 epoca della guerra pisano-genovese del 11G2 Portovenere ci appare non più, come per il passato, il porto d’armamento della galea di guardia alla Riviera di Levante, ma in funzione di vera e propria base navale : la più indicata ad esercitare sia una funzione difensiva della Riviera e di Genova contro nemici provenienti dal mezzogiorno, sia una funzione offensiva contro le coste toscane e delle isoli*. Che se non sempre, nelle successive guerre pisano-genovesi del secolo XII, questa duplice funzione avea potuto svilupparsi con tutto il suo peso, come invece in molte vicende del secolo seguente, ciò era dovuto talora ad imperfetta percezione dei comandanti nella condotta generale delle operazioni, ma soprattutto a cause interne, psicologiche! covanti nel cuore dei Genovesi: le stesse cause, cioè le intestine discordie, che avevano reso molto incerto l’esito delle campagne pisano genovesi della seconda metà del secolo XII. Fhuhuccio Sassi IL MONUMENTO SEPOLCRALE DE. Filippo Carlo Federico, conte di Bruay, di Andre, «ignore di Calonne sulla Lys e di Viefville, graude di S|«igna, nato nel IO) da Carlo Ippolito Filippo, morto a Bruxelles liel 1G70 a 58 anni e che era «tato governatore «li Lilla, e da Frantela Cor rad ina de Grave de Fretin, combattè lungamente a sentalo della Spagna contro la Francia ed il 4 agosto 1693 fu fatto prigioniero alla battaglia di Xeerwinde.it· Liberato dopo .la campagna del 1603» fu nominato governatore di Namur e nel 1706 luogotenente generale. Dal matri monto contratto con Albertina Isabella Hhingrave, nacque, nel 1688 Giacinto Cottimo Gabriele Giuseppe, il quale fu poi colonnello d’un reggimento di fanteria tallona e mori a Donai il 30 agosto 1712 in seguito a ferite riportate sotto le mura di quella città. Il padre lo aveva già preceduto nel sepolcro il li> ottobre 1709 (*), provvisoriamente apertogli nella chiesa dei Carmelitani scalzi di Bruxelles, e nel quale il corpo del tiglio* ricondotto a Bruxelles, trovò pure l'ultimo rifioso. Alla morte del padre, il superstite figlio, dopo avere regolato con la madre alcuni interessi relativi specialmente ad una somma di 68 mila fiorini C>. per mezzo d’un procuratore regolar mente delegato, faceva procedere aU’inventario di tutto quanto si trovava nel ricco e vasto palazzo Spinola, ponto non lontano dalla chiesa de la Chapelle; atto il quale mostra quale su n tu osa dimora &ve»*e la grande famiglia degli Spinola (*). (*J Cfr. IV*otx. LVglUr 4r .Vofrr hamr .Ir I* rk*f#n*>, Bruxelles. 192H. i>» AfTh. Co*»neÌf BrwieUfà, Atti «li denwwo. Chle»« di N*. D. de Is Chapelle. re*.. 17IK471*, c Ufi v. 1*1 ,|rrA Hrvtrllrt. V4arlle. fili* IrtlT. notaro Adriani, alto del 18 uonmbft' 1?® <«i %rrk., cit. e filza dt.. atto del 1^28 novembre ITO®. IL MONUMENTO SEPOLCRALE DEGLI SPINOLA ECC. 55 Ma se i rapporti fra il tiglio e la madre furono sempre improntati alla più sincera deferenza ed affezione, alla morte del giovane, apjiena ventiquattrenne, al dolore della perdita irreparabile.si aggiunse, alla straziata madre, quello di non poche divergenze con la famiglia dei Montmorency, la quale per mezzo del Magistrato d’Arras faceva, il 14 febbraio 1713, obbligo alla contessa di Bruay di consegnare tutto quanto, in beni titoli o documenti, avesse in possesso o si riferisse al defunto liglio (*). Quella, dopo aver dichiarato di non posseder niente che fusse stato proprietà del defunto giovane, faceva redigere, il 20 marzo 1713, l’inventario di tutto quanto si trovava nel proprio palazzo, come già aveva fatto alla morte del marito (2). Forse i grandi dolori influirono fortemente sulla salute della contessa, la quale già ai primi di gennaio del seguente anno 1714 non si trovava in condizioni di potere uscire dalla propria abitazione (a), ed un anno dopo, il 29 gennaio 1715 scendeva nel sepolcro |K*r suo espressa volontà eletto nella chiesa di N. D. de la Chapelle (*). Infatti, con testamento dell’ll aprile 1714 ella aveva disposto che nella cappella del SS. Sacramento della suddetta chiesa, fossi· eretto un monumento sepolcrale, nel quale, col proprio, fossero ripoeti i corpi dello sposo e del figlio, in memoria dei quali vo leva fossi· celebrato un annuo mortorio, nel giorno anniversario della morte, obbligando per questo il palazzo Spinola « posto nella strada che va dalla chiesa dei IT. Gesti iti fino alla Guida Stradst di faccia alle scuole o collegio degli stessi l’adri » (fj. Con altra disposizione deiril agosto 1711 poi nominava sua erede universale la signorina de Mont fort, che viveva con la testatrice (·). In seguito al citato testamento furono redatti, il 7dicembre 1716, due regolari contratti notarili, in baee a’ quali Pierre Denis Plumier scultore e Jean Andrt· Anneessens, architetto, ambedue di Bruxelles, s'impegnavano ed elevare il monumento sepolcrale nella cappella del SS. Sacramento, monumento che fu rapidamente condotto a termine (r). La composizione d’esso, complicata e bizzarra, mostra la statua del Tempo, la migliore scultura che rabbellisce, personificato in un vecchio che regge un medaglione, rappresentante Filippo Carlo Spinola, che il Tempo vuole consegnare alla Fama, mentre la (i) Arch., dt. fil?λ 1018, stesso notaro. Arrh. <* fWza 101* dt. (*) Arrh. Stelo BnireUet, flfea 1018 dt., atto del 5 gennaio 1714. \rch. Com. tìrurcUm, rry. decent dt., c. 197: « Depoaitae In sepulturam R. I». Frapporti!, jw^ca sepultae in nova cavea In dioro Ven. Sacramenti ». <*) Arrh. Stalo dt., fllfca 101» dt-, atto del » febbraio 1715. Arrh. Sialo dt.. fll&a 1018, Atti del β febbraio e «lei 9 inarco 1715. Inventario gioielli ed altri oggetti di valore. Appendice, Doc. nn. 1 e 2. 56 MARIO BATTISTINI Morte vuole impadronirsene. Inginocchiata, in preghiera, dinanzi al medaglione è la statua rappresentante la contessa Albertina Isabella, statua, come quella della Famay di mediocre fattura. 11 monumento, pel quale i due artisti dovevano ricevere 3600 fiorini d’argento ciascuno, dette luogo ad una contestazione, la quale fu definitivamente regolata FU giugno 1717 (*). Il gruppo ed il busto, posto in alto d’una piramide, che forma il fondo del mausoleo, sono in marmo bianco, la tomba in marmo nero, il rimanente in marmo screziato, con ornamenti primitivamente dorati, che il tempo ha fatto scomparire. Sulla drapperia che ricuopre la tomba si legge l'iscrizione seguente : Ό. Ο. M. Philippo E Ippolito Spinola / aurei velleris equiti / aciei instruendae Praefecto / Insularum Duaci et Orchies / Gubernatori obiit / Philippo Car olo Spinola / aciei struendae Praefecto / Gubernatori comitatus / urbisque Naamircensis a Caesere /. In basso, nello zoccolo: Ad pacem Ultrajectensem cum potestate Legato obiit 19 octobris 1709 / Hyacintho Spinola magnati Hispaniae primae classis / Tribuno peditum qui in obsequio Imperatoris ut flos oriens / decoro vulnere cecidit propugnans contra Gallos Duacum / ob. 30 aug. 1112 / Ultimo ex comitibus de Bruay / Hanc memoriam posuit celsa et potens Domina / D. Albertina Isabella nata Rheni comes> uxor Philippi Caroli. Ob. 29 januarii 1715. / seguono i versi : Dum corpora huc inferantur / quae Paradisus Eliamis inexorabilis hactenus detinet / Si vero huc inferantur non memoriam tantum sed et monumentum. / R. I. P. Nella cappella, in cornu epistolae, nella muraglia, scolpita su una lastra di marmo, si leggeva un’iscrizione, scomparsa non sappiamo in qual tempo, forse all’invasione francese. (!) Appendice, Doc. n. 3. IL MONUMENTO SEPOLCRALE DEGLI SPINOLA ECC. 57 D. Ο. M. Haute et puissante Darne Albertino isabelle née Rhingrave, comtesse Douariere de Bruay a fondé en cette Eglise trois anniversaires solemneles à perpétuité. Le premier à été célébré à tous les ans le 29 jour de janmer, jour de son trépas. Le second le 30 d’aoust jour dhi deces de Messire Cosme Gabriel Hippolit e SipMola comte de Bruay son filz unique. Et le troisième le 18 d’octobre jour du deces de Messire Philippe Charles Fréderique Spjinoiacomte de Bruay son époux, respectivement pour le repos dt leurs ames. Ses executeurs testamentaires ayant sur ce passé contract au profit de la dite Paroisse par devant le notaire Adriani le 9 februier 1715 et fait mettre la presente inscription pour une éternelle mémoire afin que la dite fondation ne se neglige pas selon qu’elle l’a oi'donnà jmm son testament (r). Però il solo corpo della contessa Albertina Isabella trovò pace nella sepoltura da lei voluta e nella quale fu effettivamente trasfe rito, come abbiamo detto. Il corpo del marito e del figlio, i qua/li avevano avuto provvisoria sepoltura nella chiesa dei padri Carmelitani (2) e quello di Carlo Ippolito Spinola, suocero della testatrice, non poterono esservi riuniti, essendosi opposti, ignoriamo il motivo, i padri Carmelitani, come lo attestano i versi latini riferiti (3). Mario Battistini 7 dicembre 1716. Pierre Denis Plumier, maistre sculpteur de son art à Bruxelles fera la sculpture du mausolée ordonnée par le testament de la Dame comtesse de Bruay, à ériger en l’église parochiale de la Chapelle à Bruxelles. Ledit sculpteur entend de faire la sculpture dudit mausolée de marbre blanc dit communément marbre statuaire selon le modéele en cire dont la réduction au grand se trouvera par la petite échelle tellement que deux pouces du pied de Bruxelles feront un pied du model, et aussi la figure répre-sentant le Temps sera de sept pieds de hauteur y compris la plainte et le reste à proportion du modèle scavoir la figure que répresente madame la comtesse de Bruay, la Renommée, la Mort e le Virtù comme aussy la médaillé répre-sentant le dernier comte de Bruay le sont au dire des gens connaisans et entendus et à condition que s’ils y trouvaient du deft'aut ledit entrepreneur sera obligé de le corriger à ses fraiz et despens, toutes lesquelles pièces le (!) Le grand théâtre sacré du duché de Bradant. La Haye, 1734, tomo 2°, parte 2a, p. 229. (2) Arch. Comimale Bruxelles, reg. cit. dei morti, c. 115 e 187. (3) Nessuna traccia abbiamo trovato nei registri dei morti delle varie parrocchie di Bruxelles di Carlo Ippolito Spinola, già governatore di Lilla che si dice morto nel 1670. 58 MARIO BATTTSTINI même entrepreneur sera obligé de placer et poser sur le mausolée ou tombeau comme le modèle le désigne, a ses fraiz risques et périls et aussy livrer la trompette de cuivre doré de la Kenommée, le tout pour 3600 florins argent courant, ecc. (Arch. Stato Bruxelles. Notarile, prot. 1018. Notaro Adriani di Bruxelles). 7 dicembre 1716. Jean André Anneessens, maistre tailleur de pierre et architecte à Bruxelles fera l’architecture du mausolée ordonné par le testament de la feu madame la comtesse de Bruay, à ériger en l’église parocliiale de la Chapelle à Bruxelles. Ledit tailleur et entrepreneur sera obligé d’executer toutte l’architecture dudit mausolée suivant le modelle fait en bois et coloré de la couleur comme les marbres doivent être, scavoir la couleur noire du tombeau et la piramide et le panneau du piédestail devront être du marbre noir ou pierre de Namur. Que le reste de l’architecture qui est coloré rouge et vainé de vaines blanches doit etre du même marbre comme celuy qui est posé à l’escalier du choeur de l’Eglise de S. Gery, scavoir les quattre piédestaux et les appuis. Que la réduction du modelle au grand se trouvera par la petite echelle tellement que deux pouces du pied de Bruxelles fairont un pied de la modelle. Que les pilastres doivent estre faites d’une seule pièce dans la hauteur scavoir depuis la base jusques dans l’architrave, et la longeur comme dans le modelle. Que la corniche cintée doit estre d’une seule pièce sans y comprendre la profondeur de la douvelle de. l’arcade ou voussoir, laquelle douvelle se pou-rat faire en plusieures pièces, et pour les austres pièces l’entrepreneur sera obligé de faire les pièces tellement, que les joints se fairont comme l’architecture le permet, et qu’il ne chocque pas à la vue. ; Que l’entrepreneur doit faire et livrer les vases et les armes aux armoiries de marbre blanc comme il est coloré dans le modelle. Que l’entrepreneur doit la placer, maçonner, polir etc. Que l’entrepreneur sera obligé de livrer le bronze des pièces qui sont dorées en le modelle et les trophées sur les pillastres et que lesdittes pièces des trophées devront estre dorées en feuille d’or fin comme cela se pratique ordinairement. Que l’entrepreneur sera aussi obligé de graver dans le marbre touttes les lettres de l’inscription que luy sera délivrée et les dorer dans le panneau du piedistal letout parmy la somme de 3600 florins argent courant, etc. (Arch. Stato Bruxelles. Notarile, filza 1018. Notaro Adriani). 17 giugno 1717. Comme il étoit sourvenue difficulté au sujet de l’archi tecture du mausolée de feu madame la comtesse de Bruay dont avoit été convenu par contract passé par devant moy notaire le 7 décetabre 1716, d’entre le sieur Adrien de la Chambre avocat du Souverain conseil de Brabant en qualité d’exécuteur testamentaire de feu la ditte Dame eit le sierus Jean André Anneessens, bourgeois, maitre tailleur de pierre et architecte en celle Ville d’autre part, notamment sur ce qu’il n’avoit pas été spécifié audit contract le nombre des trophées et des roses qui doivent être applicquées sur les piastres et sur la douvelle de l’arcade non plus que la forme et grandeur d’iceux et sur ce IL MONUMENTO SEPOLCRALE DEGLI SPINOLA ECC. 59 qu’il avoit aussi été obmit d’etre marqué et spécifié la profondeur ou enfoncement que devoit avoir ledit mousolée dans le millieu entres les deux pilastres, les dittes parties sont comparues et nous ont dit et déclaré d’etre convenues touchant lesdittes difficultés en la forme et manière suivantes. Premièrement que ledit Anneessens sera tenu et obligé de faire en sorte que ledit mausolée ait vint pouls de profondeur ou renfoncement dans le millieu entre les dits pilastres.... mais à condition que le panneau du plede-stal soit fait du même marbre comme il a été convenu pour ledit contract, scavoir rouge et veiné semblable à eeluy qui est posé à. l’escalier du choeur de l’église de Saint Gery et que l’inscription se fera sur une pierre façoné et à ce propre sur le tombeau au dire des gens entendues, en sorte qu’il n’y ait de marbre noir que le dit tombeau, et la pyramide, et la ditte pierre façoné. Secondement que le même Anneesens devra faire à ses fraiz quatres trophées, et les applicquer sur les pilastres deux à la face et deux dans la profondeur et sept roses suivant les modèles qui ont été pour ce signez des deux contractants, et mis entre les mains dudit Anneesens les quels quatre trophées et sept roses pouront etre faites de plomb, mais «devront etre dorées de double or fin et sur trois couches de couleur dans l’église après qu’ils serout attachés et appliqués et que l’ouvrage de l’architecture sera posé le reste des dorures dont avoit été fait mention dans le dit contract pouvant aussi etre fait de plomb moyenant qu’elles soint dorés comme dessus pour et en considération de tout quoy le dit Anneesens se devra contenter de trois mil cinq cent florins en lieu de trois mille six cent dont avoit été convenu par ledit contract pour avoir été trouvé après d’une estimation que les dits ouvrages de plomb lui coûteront moins à proportion de la ditte somme et de ce qui luy pouroit toucher pour l’entourement dont il s est chargé cy dessus, etc. (Arch. Stato Bmxelles. Notarile, filza 1019. Notaro Adriani). RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Raffaele Ciasca, Storia coloniale dell’Italia contemporanea, Hoepli, Milano, Collezione storica Villari, 1938-XVI, pag. 557, con nove carte geografiche fuori testo. Nel riferire al terzo congresso di studi coloniali, tenuto a Firenze nell’aprile XIV, intorno agli studi di storia coloniale italiana, il prof. Raffaele Ciasca dell’Università di Genova rilevava che i molti e valorosi nostri scrittori della materia, che avevano esposto e narrato episodi e periodi, singole vicende o generali avvenimenti, avevano dato una storia documentata ricca e viva dell’attività coloniale italiana, composta spesso entro il più ampio quadro della nostra politica africana. Ma ora, aggiungeva, conveniva fare un passo avanti, inserire quella storia e la nostra politica coloniale entro il ben più vasto e movimentato quadro della politica europea. A questo criterio è appunto ispirato il suo recentissimo volume. La letteratura storica coloniale, specialmente negli ultimi anni e per ragioni che non hanno bisogno d’essere ricordate, è stata abbondantissima e ha assunto talora un elevato tono scientifico e, anche nelle opere di divulgazione, un’attitudine severa e serena, fuori dal dilettantismo impressionistico e dalla vacua rumorosità verbale. Mancava tuttavia un lavoro serio, largamente informato, che narrasse tutta la storia coloniale italiana dai primi tentativi e barlumi, quando ancora l’unità nazionale non era compiuta, sino alla conquista e all’ordinamento dell’impero, un’opera cioè che, per il lettore desideroso di conoscere tutta la linea e il processo delle vicende nostre coloniali, tenesse il posto di un’intera biblioteca raccogliendone il succo e presentandolo sotto un aspetto organico, strettamente connesso a tutti i lati e gli aspetti della vita nazionale. Anche se l’espressione assume ormai l’aspetto di luogo comune, bisogna dire che il denso, solido, informatissimo studio del Ciasca riempie questa lacuna e riassume e coordina un’infinità di studi anteriori dando dei fatti e dei momenti diversi i caratteri e i lineamenti essenziali. Una esposizione più particolareggiata e minuta avrebbe richiesto parecchi volumi, avrebbe forse corso il rischio di perdere di vista la linea generale e l’idea informativa; il lettore desideroso di più ampie notizie particolari sui singoli argomenti troverà per ogni capitolo e paragrafo un’ampia e sistematica bibliografia, non elenco RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 61 farraginoso di libri disparati e probabilmente mai veduti, ma cernita ragionata e indicazione consapevole delle opere meglio utili e adatte a informare sulle singole questioni. Ciò significa che questa vasta opera di sintesi è stata preceduta dalla minuta analisi diligentissima di una immensa produzione, analisi che si manifesta spesso nella esposizione di fatti ignoti o mal noti, nel non fermarsi e quasi ipnotizzarsi soltanto su alcuni dati ed avvenimenti di maggiore risonanza, costituenti le tappe principali e le pietre miliari della vita coloniale italiana, ma nel lumeggiare anche i momenti e i periodi intermedi che rappresentano la necessaria saldatura tra i fatti più noti e di più vasta risonanza. ' Esemplificare significherebbe riassumere il volume, impresa molto ardua dato il suo carattere di narrazione serrata vigorosa e con catenata; ma è certo che a molti che ignorano o hanno dimenticato può riuscire nuova, la esposizione delle difficoltà e delle complicazioni che hanno accompagnato la modesta occupazione di Assab, avvenuta per l’insistente e appassionata iniziativa del ligure Sapeto, quando l’Inghilterra — fin da allora ! — cominciava ad « impensie rirsi dei passi italiani » lungo la « corda sensibile » ; come torna opportuna la rievocazione del fatto che, quasi predestinazione di eventi futuri, i pionieri — esploratori, viaggiatori, missionari (e quanti liguri tra essi !) — che primi hanno conosciuta, percorsa, resa nota l’Abissinia, sono stati tutti italiani. È anche equo aver mostrato che la debolezza della politica italiana- coloniale non è derivata da basso calcolo egoistico o da ignobile timore di rischio ma da una specie di concezione romantica della libertà, da preoccupazioni morali, da rispetto del diritto, sia pure inteso in senso astratto e antistorico. Mentalità ingenua, derivata da un astratto sentimento di giustizia che rendeva perplessi spesso anche gli uomini migliori ; condizione di cose che sarebbe ingiusto e pericoloso giudicare con odierni criteri ma per la quale bisogna riportarsi alle sopravviventi vibrazioni romantiche del risorgimento e alle reali difficoltà tra le quali il nuovo Stato si dibatteva. C’erano tra quelli che avevano tanti scrupoli coloniali uomini dal passato eroico e benemerito ; nè mi sentirei, come altri ha fatto, di definire « ameno » il deputato Cavalletto che invocava « il più assoluto rispetto per l’indipendenza degli africani » pensando che chi pronunciava, queste parole era un reduce delle galere asburgiche. Spiegare non significa giustificare ; ma la rievocazione di questo passato rende anche maggiore la coscienza della maturità politica e dell’accresciuta capacità storica italiana. Anche allora, tuttavia, non mancavano uomini che avevano una diversa e meno ingenua e più realistica visione storica; basta per tutti Francesco Crispi che nel 1882 deplorava mancasse al governo d’Italia il coraggio che non era mancato al piccolo Piemonte. Venendo a tempi posteriori, ai molti non specialisti, lettori fret- 62 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA tolosi e distratti dei giornali quotidiani, la politica coloniale fascista in Libia e in Somalia, prodromo e preparazione necessaria a più grandi eventi conclusivi, apparirà materia nuova, almeno come organica sistemazione. Nella politica clie precede la prima Adua si parla sempre dei due opposti metodi personali del Crispi e del Di Rudinì : tra questi va inserito quello che fu in realtà il più deleterio, il metodo e la politica del primo ministero Giolitti. E Pesemplificazione potrebbe continuare. Ma ciò che più importa nell’opera del Ciasca è Paspetto nuovo al quale è informata. La. politica coloniale, cioè, vi è inquadrata non soltanto nella storia e nella vita dei popoli e delle terre conquistate, nelle nostre necessità politiche, economiche, demografiche ma anche e sopra tutto nella politica estera italiana. L’autore è giustamente partito dal concetto che la storia coloniale di un paese è anzitutto la storia della sua politica coloniale attraverso le varie epoche, nelle sue cause, nei suoi metodi, nei suoi risultati, vista dalla metropoli e dalle colonie ; e poi anche la storia dei rapporti di quello Stato con gli altri paesi civili, relativamente alle colonie e ai problemi coloniali e ai problemi di equilibrio politico, militare, economico che che vi sono più o meno strettamente connessi. Egli ha studiato perciò ed espone il giuoco della politica coloniale entro la trama della politica italiana nella politica europea dalla quale è stato spesso condizionato. Ad Assab ci siamo trovati di contro non tanto l’Egitto quanto (guarda combinazione !) la Gran Bretagna. Dalla presa di Massaua alla occupazione della Libia abbiamo incontrato resistenze ed ostilità non di eritrei e di turco-arabi ma di Stati europei schierati in un sistema di forze politiche del quale noi non facevamo parte o ai cui interessi contrastavamo. L’atteggiamento francese alla corte del negus tra lo sbarco di Massaua e la pace di Addis Abeba, l’atteggiamento delle potenze europee a proposito del richiesto passaggio di nostre truppe a Zeila durante la guerra etiopica del 1895-96, stanno a ricordare che gli avvenimenti di quelle lontane terre africane erano seguiti in Europa con attenzione molto più viva: ed avevano agli occhi dei dirigenti della politica europea importanza incomparabilmente maggiore di quanto a prima vista si potrebbe ritenere. Le relazioni tra la conquista imperiale e la politica europea e mondiale sono troppo recenti per aver bisogno di essere ricordate. Ma la spedizione etiopica ha appunto mostrato chiaramente quanto gli avvenimenti africani siano condizionati e connessi agli intrecci della politica europea : e l’esperienza· della guerra imperiale ha insegnato a vedere sotto questo angolo visuale, meno particolare e ristretto, la politica coloniale italiana. Maturata in tale esperienza, l’opera del Ciasca è perciò anch’essa, rassegna bibliografica 63 in certo modo, una conseguenza e un indice del nuovo spirito imperiale ed è insieme, appunto per questo, una delle più belle manifestazioni della nuova storiografìa italiana, dotata di largo e ampio respiro, degna di una storia che si è svolta in vastissimo piano, nel pieno circolo del mondo. Vito Vitale Ugo Oxilia, Il periodo ivapoleomco a Genova e a Chiavavi (1797- 1814). Genova, Casa Editrice Apuana, 1938-XVI, pag. 136. In una seduta della Società Ligure di Storia Patria, or sono alcuni anni, discutendosi di possibili lavori di storia ligure, uno dei presenti uscì a dire che non esisteva una storia dell’età della Repubblica· Ligure e del dominio napoleonico a Genova. Gli fu osservato che, se non esisteva con questo titolo preciso, pure una storia di tale periodo era compresa in non poche narrazioni recenti e meno recenti. L’osservazione aveva tuttavia il suo fondamento. Ed ecco che come opera a sè, come studio di quel momento, isolato da altre vicende o altri elementi anteriori e posteriori, appare ora il lavoro del prof. Oxilia. Simpatico lavoro, spigliato, ben delineato e condotto, informatissimo della bibliografia anteriore, adoperata con una scrupolosa probità che fa quasi meraviglia perchè non si può dire che sia di troppo generale consuetudine. Si può affermare che tutto quanto si sa del periodo qui è raccolto e sistemato e organicamente esposto. Dalla preparazione rivoluzionaria che si manifesta negli ultimi anni della repubblica aristocratica, alle vicende del 22 e 23 maggio 1797 che hanno offerto al Bonaparte il desiderato pretesto d’intervento a trasformare la repubblica in democratica e farsene più sicuro e obbediente strumento, al governo provvisorio e poi ai vari periodi della torbida e turbolenta repubblica, minacciata dalla reazione e oppressa dalla proteziose francese, al famoso assedio dell’SOO, sino al passaggio della Liguria all’impero e quindi al tentativo della restaurazione repubblicana e all’annessione al Piemonte, tutti i momenti e le fasi di quell’esistenza così torbida e agitata sono esposti in capitoletti scorrevoli, pieni di notizie accuratamente vagliate e sagacemente collegate. Onesta, dunque, riassuntiva, utile e opportuna, raccolta e sistemazione del materiale edito e degli studi sinora compiuti sull’argomento. C’è anche una parte nuova, intorno alla quale è venuto ad intessersi tutto il resto del lavoro ; ma questa, rappresentata da una cronaca contemporanea e da altri pochi documenti chiavaresi, riferendosi a fatti particolari di interesse locale, se dà pennellate che servono alla pittura del tempo e dell’ambiente, non reca elementi nuovi di giudizio per la storia generale della regione. 64 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Lo studio dell’Oxilia è così una buona sintesi ma, come, del resto, ogni lavoro, è una sintesi provvisoria. Esso fa anzi accrescere il desiderio e rinnovare il voto che un periodo storico così importante, e tanto indagato per le altre regioni d’Italia, sia ricercato su nuove e più ampie basi. L’Archivio di Stato di Genova ha in proposito un materiale immenso e prezioso e sinora poco adoperato ; mi sia permesso ricordare che ne ho dato un cenno sommario in questo Giornale (1937-XV, pag. 90 e segg.). Il solo periodo dal giugno 1797 al dicembre 99 ha offerto materia alla Dott. Margherita Castello per un’ampia· tesi di laurea che meriterebbe di essere pubblicata. Per l’età dell’annessione all’impero è invece necessario ricorrere agli Archivi Nazionali di Parigi ricchissimi di materiale relativo a Genova e alla Liguria. Soltanto ricerche in profondità ed esplorazioni sistematiche in questi fondi preziosi permetteranno di dare una visione non generica e superficiale ma sicura e soddisfacente della amministrazione, dell’economia, della vita politica, del pensiero ligure in un momento che, comunque si voglia giudicare, ha importanza fondamentale nella storia italiana e sulle origini del risorgimento nazionale. Vito Vitale Vincenzo Bandini, Appunti sulle corporazioni romane. Milano, Doft. Antonio Giuffrè, Editore, 1937-XV. In queste pagine, che l’autore chiama modestamente appunti, è il quadro completo della formazione e dell’evoluzione delle corporazioni romane in rapporto naturalmente con tutti i problemi che presenta questo campo di studi di somma importanza per la conoscenza della vita sociale, giuridica e politica di Roma, e che come osserva l’A., può costituire una preziosa esperienza anche per la nostra epoca moderna. Per questo motivo appunto se ne fa cenno in questa Rivista perchè il libro, come quello che sintetizza la più varia e recente critica sulle associazioni di mestiere e in genere sulle collettività di cittadini del mondo romano, è un buon contributo di informazione agli studiosi del medioevo e a tutti coloro che nei secoli successivi all’impero studiano gli elementi nuovi nella forma di vita: e negli istituti rispetto alle sopravvivenze dell’antica civiltà romana, problema che spesso si impone all’esame per la nostra regione. « Molti sono stati, specialmente in questi ultimi anni gli studi dedicati a questo argomento. Ma quasi tutti hanno considerato lo sviluppo delle Corporazioni in Roma dai primordi fino al diritto giustinianeo come se si trattasse di un unico istituto, senza avvertire la profonda differenza fra l’antica corporazione e la corporazione del Basso Impero, espressione questa di un nuovo sistema pubblicistico ed amministrativo ». RASSEGNA bibliografica 65 Tenuto conto di questa distinzione, il Bandini raccoglie tutti gli elementi di più probabile accettazione per studiare la natura delle antiche associazioni di carattere privato e di quelle di carattere pubblico e tracciare poi a grandi linee la classificazione, la vita e la funzione dei corpora e dei collegia del basso impero, facendo notare Pimportanza della novità nella funzione di tali associazioni rispetto allo stato dopo il terzo secolo. Lo studio del Bandini presenta l’interessante particolareggiata documentazione di questa premessa : « In Roma, fino dalle origini, vivono nettamente distinte, con peculiari caratteri politici e giuridici, associazioni private (.sodalitates) ed associazioni pubbliche. In un momento successivo lo stato si presenta come unico ed esclusivo regolatore delle attività del singolo. Partendo da questa premessa, lo Stato coordina gli individui e le più svariate forme associative di essi ; le associazioni private che prendono il titolo di collegia tenuiorum, in cui ogni membro conserva, intatta la propria individualità e personalità giuridica ed in cui non si ha la creazione di ente distinto dai membri, cadono anch’esse in regime di autorizzazione ». Distinte da queste sono le altre associazioni che fino al-Pinizio si dicono tecnicamente collegia. Per collegium i Romani intendono un insieme di individui uniti per uno scopo unico, superiore alPinteresse individuale, alludono ad una figura che corrisponde press’a poco alla nostra moderna nozione giuridica di collegio. Scopo di una collettività per il pensiero romano non può essere che Putilità pubblica. Le associazioni di questa specie vivono sempre in regime di autorizzazione, mai in libertà. Dopo aver detto delle più attendibili testimonianze sui « sacra publica » e i « sacra popularia », i « sacra » delle curie e i « saera » dei vici, il Bandini classifica le associazioni romane dei primi sei secoli nelle seguenti forme : « collegi sacerdotali », composti di sacerdoti che al servizio dello Stato vengono nominati dai sommi organi di questo e con la forma della coaptatio — « sodalità gentilizie », comprese nella curia, formate da più famiglie o gentes, probabilmente discendenti da uno stesso capostipite — « i vicini » che formano fratellanze, dove all’elemento gentilizio se ne sostituisce un altro dato dalla comunanza di interessi e le « sodalità » propriamente dette che non assumono mai una veste giuridica, restando sempre associazioni di fatto. Un interessante capitolo è dedicato alla questione delPorigine dei collegi professionali o collegi di mestiere alla quale si collegano i quesiti sullo scopo dei primi collegi, se essi sorgano per iniziativa privata o per iniziativa, dello Stato, se il loro numero era limitato, se faceva bisogno di un’autorizzazione, a quale classe appartenessero i membri, il problema della libertà di associazione nella Repub- 66 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA biica e le misure repressive degli ultimi anni, richieste dalla frequenza con cui dovevano sorgere le associazioni di mestiere per molteplici cause d’ordine politico-economico e la conclusione che i primi collegi professionali sorgono dalle associazioni di mestiere. Queste e quelli rispondevano allo stesso scopo. La loro utilità pubblica, consisteva nella* considerazione di una attività necessaria alla vita dello Stato. I membri del collegio di mestiere potevano essere artigiani o meno. Lo Stato si limitava a comprovare Futilità della professione e la necessità che questa avesse continuità. Troviamo poi, opportunamente limitata ai dati che permettono le più attendibili ipotesi, l’illustrazione della politica di Cesare e di Augusto in questo campo della vita civile, per arrivare, infine, all’accennato studio delle corporazioni nel secondo e terzo secolo dopo Cristo, quando i « collegia » perdono il carattere di organizzazioni destinate a raggiungere interessi di una collettività di cives e spariscono di fronte alla sempre più invadente attività dello Stato, o si trasformano in organi pubblici. Trasformazione che è il frutto di una lunga evoluzione la quale si manifesta già matura all’epoca di Costantino. L’origine, i limiti e le vicende del vocabolo corpus rispetto alle associazioni e in confronto di collegium, la costituzione e la funzione delle curie e dei municipi, le corporazioni in particolare e le condizioni dei membri di una corporazione, la personalità giuridica e gli effetti della personificazione e, in ispecie, la questione della personificazione dei « collegia tenuiorum » sono altrettanti temi di utili e importanti considerazioni e deduzioni condensate in questi dotti « appunti », frutto dell’acuto studio delle fonti epigrafiche e letterarie e del coscienzioso vaglio di una ricca bibliografia. Mario Celle Aldobrandino Malvezzi, Cristina di Beigioioso, III, Pensiero e Azione, Milano, Treves, 1937. Di particolare interesse, in questo terzo volume — dal sottotitolo così tipicamente mazziniano — è ciò che il Malvezzi può dire di nuovo e di chiarificatore intorno ai rapporti tra il Mazzini e lai Beigioioso. Per farci conoscere quale concetto avesse il grande Genovese della Principessa lombarda possono servire le lettere ch’Egli le scrisse e che, finora inedite, troviamo adesso in questa pubblicazione. Lo spicciativo giudizio sulla Beigioioso dato dal Mazzini nel ’50, in un colloquio del tutto familiare con la Madre, non persuade perchè non risponde nè alla complessità della giudicata, nè alla sagacia psicologica del giudicante. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 67 È vero che questo dai suoi informatori, veniva erudito soprattutto sulle cronache scandalistiche, d’origine poliziesca e mondana, tali sempre da calunniare quella gentildonna; è vero che il Mazzini, male informato sulle reali possibilità economiche di lei, le rimproverava — anche se non apertamente — di non aver dato e di non dare di più per la causa nazionale; è vero ancora che l’unitarismo monarchico e le tendenze riformistiche della Beigioioso non erano fatti per cattivarle le simpatie del Repubblicano rivoluzionario, ma è altrettanto vero che il Mazzini fu sempre onestamente pronto a riconoscere la verità. E una verità era l’opera molteplice dell’esule signora a vantaggio della causa comune ; l’attività giornalistica che, comunque orientata, rivelava ingegno e animo di non comune valore. fyleglio e più di giudizi dati a terzi, vale per comprendere la verità, cogliere nelle parole scritte alla. Beigioioso il genuino sentimento del Mazzini. Leggiamo dunque le lettere che il Malvezzi ci consente, ora, di conoscere. La prima è del 24 agosto 1848, in risposta alla Principessa. Il tono è amichevole, ma vigilato. Contiene una richiesta di da.naro, evidente anche se non è nè esplicita nè diretta. Il 4 settembre, ne segue un’altra : « Ricevo la vostra con gioia uguale a quella con cui la scriveste » e continua con un accento più spontaneo e cordiale: «io.... sapeva.... che non avreste, potendo, aspettato invito per sacrifìci. Vogliate credere che tra i conforti che io ho nelle condizioni presenti non è ultimo quello di avervi amica e attiva con noi ». E più avanti: « Voi giovate intanto alla buona causa anche con la vostra penna. Siete d’animo abbastanza colto e generoso.... ». Quell’anche e quell’abbastanza non sono davvero di un adulatore, ma sono d’una. sincerità, come dire? cameratesca e prova di stima anch’essi, a loro modo. Quegli stretti limiti segnati alla coltura e alla generosità della colta e generosissima signora, infatti, non l’adombrarono menomamente : segno di sicura superiorità di spirito, nota al severo giudice. Il quale, il 23 settembre, le scrive un’altra lettera dove il lungo sfogo ch’egli vi fa ha quel caldo abbandono che si permette solo con le persone che rispetta e ha care. E contiene anche.... un’assoluzione e una schietta dichiarazione di stima: « .... v’ho sempre separata, nël passato, da quei che seguivano la stessa parte, e che oggi mi par in voi d’avere non solamente una cooperatrice nel lavoro Nazionale, ma un’amica franca e leale ». Egli la sente nel suo ordine di’idee e perciò P8 gennaio 1849 da Marsiglia le scrive invitandola a collaborare alVItalia del Popolo che 68 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA sperava far uscire in quel mese a Firenze. « La questione sulla quale bisogna oggi insistere è quella della Unità, e a voi caldissima propugnatrice della Unità, anche quando altre questioni ci dividevano non lio bisogno di raccomandarla ». E prosegue, dopo aver accennato alla progetta ta rivista : « Non ho bisogno di dirvi che sarò lieto d’avervi con noi ». È palmare che non per considerazioni opportunistiche, non per secondi fini — sia pur nobilissimi — il Mazzini dimostrava alla Beigioioso una considerazione, una stima veramente adeguata ai suoi meriti. L’antica sovvenzionatrice della spedizione di Savoia, l’antagonista delPagitato ’4S milanese è ora, veramente la collaboratrice sicura, capace, efficace. Come sia avvenuto il mutamento del Mazzini nei riguardi della Beigioioso è detto in questo volume. E non è, naturalmente, solo determinato dal ritorno della Principessa alPidea. e al programma monarchico da cui Paveva allontanata la triste vicenda del ’48. Ma la sottile trama delle delusioni, degli ostacoli, delle diffidenze, delle denigrazioni, delle incomprensioni e degli equivoci malintesi che portarono nello stesso glorioso episodio della repubblica romana al definitivo distacco tra quei due spiriti, pur tanto simili nello slancio e nella dedizione alPidea, è narrata con ricchezza di particolari al libro. Il capitolo : « L’epopea romana » è, al riguardo, particolarmente utile. Quanto la Beigioioso, Direttrice generale delie ambulanze militari, fece, a vantaggio dei feriti e dei morenti patrioti, il Malvezzi dice assai bene e assai ampiamente. La rivendicazione che egli fa alla generosa signora d’aver costituito « il primo corpo di infermiere militari volontarie, quattro anni prima che lo facesse sui campi di Crimea Florence Nightingale » non solo rientra in quella numerosa serie di altre documentate rivendicazioni che in quest’opera s’incontrano e ne costituiscono un pregio caratteristico, ma è doverosa verso la Beigioioso e onorevolissima per essa e per l’Italia. In questo volume l’opera della patriota lombarda appare nella sua piena luce anche perchè non è più chiusa nel segreto delle congiure ma si svolge libera nelle colonne dei giornali che la principessa fonda, sostiene e alimenta, con un coraggio, una valentia, una capacità davvero ammirevoli. Il forte ingegno, la solida conoscenza delle questioni politiche, sociali, economiche; il calore delle convinzioni, l’equilibrio singolare con cui essa riesce a dominare intricate e oscure situazioni fanno di lei una giornalista quanto mai dotata. Qualche volta è un gran buon senso che l’aiuta ad arrivare là dove uomini, assai maggiori di lei, trascinati dalla passione, non * RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 69 arrivavano. Sorprende in quella vita agitata, movimentata, in quel-l’assorbimento di occupazioni diverse tanta disciplina di lavoro, tanta costanza di ricerche e di studi e, miracolo anche maggiore, il mantenersi intatta la sua grazia e la sua fragile femminilità ansiosa di bellezza, d’eleganza, di bontà. Della donna, dell’intimo suo mondo affettivo, molto il Malvezzi tace. E non si saprebbe — per questo — lodarlo abbastanza. S’è limitato a dimostrare la falsità di tante calunniose voci accusatrici, non escludendo umanissime possibili debolezze. Pur apprezzando la delicatezza di un silenzio che non vuol essere complice, ma comprensivo, si deve osservare che se una penetrante analisi psicologica, per certi momenti ed eventi della vita della Beigioioso illuminasse alcune pagine, gioverebbe alla biografia. Perchè, nonostante la messe copiosa dei documenti a disposizione del Malvezzi e la dimostrata capacità dello stesso nel servirsene, manca alla sua opera la vivacità e il calore che un continuato vigile esame psicologico avrebbe dati. E se la Beigioioso è dal suo biografo scagionata delle molte colpe di cui fu accusata, non è da questi, con altrettanta pienezza, seguita, intesa nella ricca complessità della sua anima. Notazioni qua e là si colgono che indicano, tuttavia, come egli cerchi di comprenderla per rappresentarla nella sua essenza. Ma anche con le immancabili mende l’opera completa è veramente degna di plauso : la vita di Cristina Beigioioso si snoda in queste mille pagine ampia e scolpita. La documentazione è pienamente soddisfacente per la quantità, qualità e l’uso che di tanti importanti nuovissimi documenti vi si fa. Documentazione che porta a un radicale mutamento nei giudizi e nella valutazione della grande Italiana, accresce la storiografia nostra d’un’opera solida che non sarà possibile ignorare e restituisce all’Italia una sua grande figlia. Leon a Ravenna Mario Ferraris, Il generale Carlo Córsi, sociologo e letterato. Casa editrice G. Gambino S. A. Torino, 1937-XV, pag. 96. È il titolo di un libro testé uscito per opera del Dott. Mario Ferraris, con prefazione di S. E. il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio del Sabotino Duca di Addis Abeba, il quale afferma che questo pregevole saggio critico mette nella sua giusta luce la vasta opera storico-letteraria dell’illustre e compianto Generale. Il Ferraris giustamente lo definisce una tra le migliori personalità del nostro Risorgimento. 70 RASSEGNA B1*BL 10GRAFICA Carlo Corsi nacque a Firenze il 21 ottobre 1826 da famiglia patrizia trasmigrata dalla Corsica in Toscana alcuni secoli prima. In questo diligente studio l’autore procura, attraverso gli scritti del Corsi, di individuarne il carattere, il pensiero, le idee in fatto di metodo nell’educazione militare del soldato, di conoscere la sua opinione in materia politica e le sue convinzioni religiose. Illustra ancora e commenta i suoi scritti sui vari problemi che travagliavano la nazione ai suoi tempi. Dimostra come nel collegio Cicognini di Prato i saggi insegnamenti di Atto Vannucci ebbero una grande influenza sulla formazione culturale del giovane alunno, esercitando ancora un grande ascendente sul suo animo, avendogli inculcato sani principi i quali valsero a farne un ottimo soldato, un esemplare cattolico osservante e un ardente patriota. Da discepolo divenne ascoltato maestro nel Collegio militare di Firenze, alla scuola di Cavalleria di Pinerolo e alla scuola di guerra di Torino. Furono, tra molti altri suoi discepoli, Luigi Cadorna, il Duca d’Aosta, il Conte di Torino e numerosi insigni militali, stranieri, che si distinsero più tardi nelle loro patrie. Poeta sino dai primi anni di studio, cultore di scienze sociali, man mano che progredì nella sua carriera aumentarono gli incarichi affidatigli dal Ministero della Guerra ; e con essi l’acquisto di cognizioni utili, arricchirono la sua mente. I suoi scritti infatti assumono sempre più particolare interesse, sia che si riferiscano alla Storia militare, alla guerra Franco-Germanica (1870-1871), all’Italia (1814-1869), alla tattica militare, alla campagna del 1866 in Italia, allo studio storico politico sociale sulla Sicilia, o a particolari argomenti di indole politica, sociale, economica. Di alcuni di essi si fecero varie edizioni, in lingua italiana e in lingue straniere ; altri adottati come testo nelle scuole militari. L’elenco di essi si ritrovano nella nota bibliografica posta dal Ferraris alla fine del volume. Lasciò anche romanzi inediti nei quali il Ferraris rintraccia le idee sociali del Corsi. Sono, più che romanzi, ritratti, o quadri e considerazioni sulle odierne condizioni della società nostra, frutto dei suoi studi e meditazioni e della sua esperienza. Il Corsi seguì in parte la maniera dello Scott, del Manzoni, del Cantù e di molti altri autori italiani e stranieri, creatori del romanzo storico, ma nelle sue opere si scorge il carattere, il brio, la purezza di lingua del fiorentino. Dal Re Umberto I ebbe l’incarico di volgere dal tedesco in italiano l’opera redatta in 20 volumi dello Stato Ma-ggiore Austriaco « Le campagne del Principe Eugenio di Savoia ». Scrive il Ferraris : « Egli non si limitò a tale lavoro ; bensì volle con profonda co- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 71 «scenza della missione dello storico e del letterato e con ammirevole fatica, ricompilarla in gran parte, per adeguarla in tutto alla verità e darle una forma degna della nostra lingua ». Non tardò il lusinghiero compenso. Sua Maestà, con lettera autografa del 15 dicem bre 1891, fece pervenire al Corsi l’espressione del suo alto gradimento. Egli assolse inoltre una difficile missione nel 1870-1871 in Germania e in Francia, per studiare il teatro della guerra fra le due nazioni e scrisse le sue impressioni (in versi e in prosa) dell’assedio di Parigi e della Comune. I canti di guerra dei Prussiani che cingono d’assedio la metropoli francese, mentre infuria il terrore comunista rivelano una non comune capacità di assimilazione, oltre una conoscenza profonda della lingua tedesca. Scrive il Ferraris : <( Ogni qual volta questi grandi avvenimenti prendono rilievo nel pensiero corsiano, si hanno pagine di profondità e originalità notevoli ». Il Corsi tenne quasi un biennio con onore il difficile Comando militare dell’isola di Sicilia. Colà giunse pensoso delle condizioni del proletariato siculo e delle mene sovversive, all’alba di quei moti, dei Fasci siciliani, che motivarono le repressioni inevitabili del 1894, con tempestivi provvedimenti dei governanti d’allora. Nel sistema politico sociale del Corsi la disciplina aveva la massima importanza e la libertà non doveva mai andare disgiunta ; egli prevedeva che alla prevalenza, nel secolo decimonono, delle libertà sulla disciplina, avrebbe fatto seguito, nel ventesimo, quella della disciplina sulla libertà. Il Corsi si preoccupava in particolar modo delle conseguenze perniciose e deleterie per la coesione morale degli Italiani inevitabili per il propagarsi del socialismo fra le masse e per la lotta fra lo Stato e la Chiesa. Egli proponeva ai governanti, saggi provvedimenti atti a portare riforme politico-sociali : urgeva inoltre per lui concludere un trattato bilaterale fra Stato e Chiesa. In materia di politica internazionale segnalava la necessità, per ie nazioni in genere e per l’Italia in particolare, di tenersi pronti ai grandi cimenti bellici, per premunirsi contro una eventuale guerra, che egli prevedeva in un tempo non troppo lontano, essendo convinto che « la guerra è nell’istinto degli uomini e dei popoli : le cause di essa possono mutarsi, non cessare; avranno carattere economico, non più dinastico; ma guerre vi saranno ancora ». Il Corsi aveva raggiunto una maturità politica degna di un uomo di Governo. L’autore scrive che non gli mancarono le offerte di candidature, ma per la dirittura del carattere di soldato ebbe una naturale avversione per il mondo parlamentare e giornalistico, deplorando il reciproco logorio dei partiti e l’arrivismo interessato. 72 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Combattente nel 1848, prima a Curtatone, nel battaglione dei volontari fiorentini, e poi nell’esercito sardo, all'assedio di Peschiera, per un decennio, e cioè fino alla fusione nel 1SG0 con quello piemontese, fece parte dell’esercito toscano. Durante la campagna del ’59 lo troviamo Capitano di Stato Maggiore addetto al V Corpo d’Armata francese (Principe Gerolamo Bonaparte). Altri dati di servizio : Medaglia d’argento all’assedio di Ancona ; Croce di Savoia alla battaglia del Garigliano; altra Medaglia d’argento si guadagnò a Custoza e numerose onorificenze estere, ricordate dal Ferraris. Moriva in Genova il 30 maggio 1905, serenamente confortato dal pensiero di ricongiungersi, egli, sinceramente credente, alla consorte eletta, che l’aveva preceduto nelPal di là un anno e mezzo prima. (Essa discendeva dalla famiglia Carletti, dalla quale quattro secoli prima era uscito un Beato gloria della Chiesa). Il Corsi lasciò morendo vasta eredità di affetti, e chi gli era stato discepolo non potè non rimpiangerne gli ammaestramenti di alto valore dottrinale, animati da tanto fervore patrio e militare. Il Ferraris afferma : « Ognuno di questi personaggi della storia più recente conservò sempre il ricordo riconoscente e affettuoso dell’antico maestro. S. M. il Re Vittorio Emanuele III volle in varie circostanze attestare al nostro Generale la sua soddisfazione di essere stato, quando era Principe Ereditario, e Carlo Corsi aveva il comando del Corpo d’Armata di Napoli, fra i suoi Generali. Nel passare in esame il carteggio dell’illustre Scomparso, intercorso fra lui e i numerosi suoi estimatori, « trovansi lettere che meriterebbero di essere conosciute per il valore di chi le scrisse e i pensieri che vi sono esposti ». L’autore conchiude dando rilievo alla antiveggenza del Corsi in fatto di polìtica e riforme sociali. In fatti egli aveva pronosticato la grande guerra che avrebbe portato ai naturali confini del Brennero i Bersaglieri d’Italia. Egli aveva un profondo sentimento di devozione alla dinastia di Savoia, che definiva « più su dei partiti, ferma come un faro sul mare tempestoso del parlamentarismo ». Mario Ferraris, con questo suo studio, ha reso un meritevole con tributo alla storia del nostro Risorgimento. Noi genovesi che nel cimitero di Staglieno, in una tomba donata dal Comune, abbiamo raccolto le sacre spoglie del grande Scomparso, e che in Genova Sestri al suo nome abbiamo intitolata una via, siamo lieti di avergli data tangibile prova di riconoscimento dei suoi meriti. Riccardo Maineri RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 73 C. Pisacane, Epistolario a cura di Aldo Romano, Milano, Soc. Ed. D. Alighieri; Albrighi e Segati, 1937. Se per la folla di coloro tutti, grandi e piccoli, potenti ed umili, nobili e popolani, che nell’età del Risorgimento, con la penna o con la spada, con forza di pensiero nutrito di coltura o con animo innamorato del giusto, molto o anche poco, perchè il più era impossibile, fecero per l’Italia, sentiamo ammirazione alletto gratitudine, più simpaticamente ci sentiamo attratti da quelli, che nell’azione propria furono guidati da spontanee doti capaci di puramente elevare e nobilitare la natura umana. Sono essi, inconsciamente, i maestri più autorevoli, perchè ognuno non cattivo ne può diventar discepolo, purché credente nella verità che gli ideali più elevati hanno pure in sè qualcosa di necessario agli uomini. Abbiamo detto maestri, ed essi lo sono tanto più, quando, come il Pisacane, alPamore in tali’ ideali associano la fede proprio nell’efficacia della educazione. Il Pisacane ha una natura ardentissima d’amore : ciò che gli è caro, e per cui nessun altro può vantare diritti fondati sull’equità, e che può fare la felicità o sua propria o d’altrui, deve trionfare. Deve trionfare l’amore per la donna da lui amata contro ogni ingiusta prepotenza che offende le più sante leggi della natura, anche se protetta da false convenzioni umane; deve trionfare la libertà nella terra dove si è nati, nè alcuno ha il diritto di limitarla, o d’offendere i sentimenti di coloro a cui tale terra appartiene. Pel Pisacane questa terra è Napoli, è l’Italia, e poiché tutti gli uomini hanno il diritto al trionfo della giustizia, è il mondo politico del tempo. L’Italia deve risorgere, l’Italia è capace di farlo con forze proprie, e risorgerà. « .... Tutti quei cittadini che s’intendono di guerra, sono tutti di accordo che l’Italia non deve fidarsi in nessun aiuto straniero : che l’Italia deve e può far la guerra a’ suoi nemici e vincere ; che l’Italia dev’essere la prima a dare il segnale della rivoluzione, e poi seguiranno gli altri popoli. La quistione è di scegliere il punto ove cominciare: questo punto dev’essere il più lontano dagli eserciti stranieri, il più forte per popolazione, il più che possiede mezzi militari appena rovesciato il governo: questo punto lo vedono anche i ciechi, è Napoli » (ad un ignoto, luglio o agosto 1852). È naturale che nell’amore vasto e grande per l’Italia, un palpito di particolare intensità fosse per la piccola patria, ed è naturale che a riguardo di essa cerchi di togliere ogni credenza che l’offenda. Gelosissimo dell’onore e della dignità propria vuol salvare anche il buon nome dei suoi concittadini, e scrive al Fanelli: « .... sappiate che non vi è angolo d’Europa e direi del mondo, che non conosce le nefan- 74 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA dezze di questo governo e, quel che è peggio, incolpano noi napoletani di una codarda pazienza » (19 febbraio 1856). Ma ancora quando è alfiere del Corpo reale del genio nell’esercito borbonico, nel 1844, mostrando già di saper dare alle nozioni tecniche e particolari un’ampia e salda base con considerazioni e riflessioni in campo più generale, scrive a Carlo Filangieri : « Coloro i quali senza rimontare alle cause, si fermano alle prime impressioni, giudicano i napoletani non buoni soldati, altri per contrastare quest’idea cercano richiamare alla memoria le antiche gesta dei nostri antenati ricorrendo ad epoche assai remote. Ma parmi che tanto gli uni come gli altri cadano in errore: il valore come tutte le altre virtù spirituali, non è certamente ereditario, ma è figlio dell’educazione : e perciò, secondo i tempi, vediamo le nazioni ora fiorenti ora cadere nelPignominia· ». « Centomila uomini in armi alla nostra frontiera fanno testa a duecentomila invasori ». E tale fede li eli’efficacia dell’educazione lo sosterrà fino all’estremo tentativo suo. Poiché in lui l’amore alla milizia, se fu pur portato dall’inizio della carriera sua nell’esercito napoletano, venne poi a fondersi con la necessità del trionfo degli ideali che arsero nell’animo suo. Si veda con quali parole si rivolge ai suoi antichi commilitoni : « Noi vogliamo combattere per una ragione che ci commuove ed accende, e però pessimi soldati regi, siamo fatti per essere invincibili soldati della libertà » (ottobre 1815). « Combattere per ubbidienza è la più degradante delle azioni, vi rende simili al mastino che al grido del padrone azzanna la preda. Chi deve spendere la propria vita in difesa di una causa, ha il diritto di giudicarne, discuterne, prima di decidersi in suo favore. I romani, primi guerrieri del mondo, discutevano da cittadini in piazza sull’utilità e la giustizia della guerra da intraprendersi, quindi trasformati in militi combattevano. Essi furono, sono e saranno per noi e pei posteri esempio di militar disciplina ». E si veda anche il principio di una lettera d’istruzione da lui come Capo di Stato Maggiore inviata al colonnello Mezzacapo il 25 aprile dei 1849, in un’ora di epico risveglio di sentimenti patri e d’energia guerresca, particolarmente forte perchè comune a governo, a soldati ed a popolo, uniti e concordi. « Credo che Ella saprà essere sbarcati in Civitavecchia ottomila francesi. Questa orribile violazione dev’essere punita. Se dobbiamo cedere alla forza bisogna cedere da forti. Roma, il Popolo, il Governo è animatissimo — il grido di guerra è unanime — la lotta va principiando ». Talvolta dalle lettere del Pisacane s’esplica una forza intima di difesa della coscienza propria quale esplicazione del diritto non diminuibile d’ogni individuo," che è capace di drizzarsi a difensore dei diritti di ciascuno. Ed al fratello che voleva far passare per un successo per i borbonici la fazione di Velletri, scriveva il 18 settembre 1849 : « Del resto terminiamo a parlare di ciò. Io provo il biso RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 75 gno di pensare liberamente, di parlare liberamente, di essere sicuro della mia libertà individuale, pronto ad impugnare la spada per l’Italia, onde arrivare ad un punto che il nome italiano sia apprezzato : odio gli stranieri, sono sempre per le leggi e pel popolo. Tu non provi tutti questi bisogni, senti solamente il bisogno di essere l’istrumento del più vile di tutti gli esseri.... basta, bando alla politica ». Ed ogni atteggiamento, che può sembrare affermazione di intransigente superiorità su altri, da qualunque parte venga lo urta e lo irrita; come manifestano alcuni periodi delle lettere sue al Cattaneo a proposito di Mazzini e dei Mazziniani « nemici della discussione e della critica » ; ma quell’irritazione pare determinarsi principalmente per riflesso, poiché non è che nella corrispondenza col federalista milanese, e rivela nello stesso tempo, per gli anni in cui appare, il 1851 e il ’52, tutta Ja forza che ai patriotti italiani occorreva per nutrirsi di speranze e di fede. Ed infatti nella lettera del 31 luglio 1851 al Cattaneo confessava: « Io sono pienamente d’accordo con voi che in Italia non siavi alcun’idea e concetto rivoluzionario tranne il desiderio di migliorare, ma io vedo nella plebe un elemento che potrebbe da un momento all’altro ingigantirsi, ed oltre a questo non veggo alcuna speranza ». Ma quando viene preso da un bisogno irresistibile di azione, quando sente tutta la necessità di gettarsi subito nella lotta per affrontare e debellare, oltre il Borbone, murattisti e monarchici, allora si rivolge al Mazzini, lo vuole alleato, anzi consigliere, ne chiede aiuto, ne riconosce tutta la potenza morale. « Produrre un effetto magico pel nome lo potrebbe solo Mazzini.... » (a G. Fanelli 16 aprile 1857). Egli è riuscito a far rivolgere Mazzini verso il sud, ed a Nicola Fabrizi il 21 aprile 1857 scrive : « La ragione principale dei nostri disaccordi è che Mazzini ed io vediamo la faccenda sotto un aspetto diverso da quello che lo vedi tu e Kilburn (G. Fanelli). Voi dite.... che bisogna preparare il terreno acciocché la riuscita di rivoluzione sia quasi certa ; noi diciamo che la rivoluzione non dipende dagli uomini in particolare ; nè tu, nè io, nè alcuno al mondo è nella possibilità : (neanche Napoleone I con un esercito, il quale poteva conquistare il paese ma non già rivoluzionarlo). In questo mi trovo precisamente di accordo colla politica di Mazzini. L’ha egli stesso scritto a Kilburn nelFultima che gli ho inviata col passato vapore : gli individui possono menare a termine una congiura, la quale sia la cagione che faccia divampare un fuoco latente quando vi è ». Il programma egli l’ha già tracciato con poche parole : « Il puro tricolore senza formule di sette ; senza stemmi di municipio o di dinastie è riconosciuto dalle Alpi al Lilibeo, quella è la nostra bandiera, nessuno la rinnegherà (al Fanelli senza data, ma del 1856). S’è visto come il Pisacane scrivendo al Cattaneo dichiarasse l’u- 76 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA unica speranza sua in un ingigantirsi della, plebe : in realtà il pensiero suo politico si associa a speranze di rivolgimento sociale, instauratore di maggior giustizia : nelPEpistolario non si hanno che brevi tracce, come in altra lettera al Cattaneo del 9 luglio ’52. « 11 germe della futura rivoluzione è nato in Francia, ed anche se le circostanze dessero ad un’altra nazione l’iniziativa materiale, la rivoluzione sarà sempre sociale, epperò francese ». Ma se nella mente sua la questione sociale confondevasi con quella politica, nelPazione, e l’Epistolario è, dirò così, tutta azione, prende esclusivamente posto la seconda. Il Romano, riconosciuti i meriti dei suoi predecessori nella trattazione del tema, e particolarmente del Falco e del Rosselli, dichiara nella prefazione la cura posta nella ricerca diligente e continua di documenti riguardanti la vita del Pisacane e gli ultimi anni del regno di Ferdinando II : e di ciò beù fa attestazione questo preziosissimo volume nel quale, con quelle già correttamente edite, sono numerose lettere o del tutto inedite, o pubblicate incomplete o scorrette. Note opportune e copiose spiegano particolari delle lettere. Seguono infine due appendici, di cui d’importanza· grandissima la seconda, cotituita dall’istrumento con cui la signora Rosa Morici Dragone, che per quattro giorni, due settimane prima della spedizione di Sapri, aveva ospitato il Pisacane, dà notizie intorno al Comitato segreto napoletano, ed alle cause del fallimento subitaneo dell’impresa. È novella luce che si diffonde su una pagina commovente ed istruttiva della nostra storia. Costantino Panigada SPIGOLATURE E NOTIZIE STORIA ANTICA E MEDIOEVALE A. Lopez : Le relazioni commerciali tra Genova e la Francia nel Medioevo, Estr. da « Cooperativa intellettuale », Roma, 1937. C. Carducci : Nuovi lavori al teatro di Libarm in « Alexandria », novembre 1937. [Da notizia dei nuovi scavi che, sotto la direzione della S. A., si stanno compiendo fra i resti della vetusta città ligure. Ottime le foto]. L. Balestreri : Come fu decisa e preparata l’impresa del lllft contro Almeria in « Il Nuovo Cittadino », 5 gennaio 1938. L. Balestreri : La presa) d’Almeria in « Il Nuovo Cittadino », 14 gennaio 1938. Lo Duca : I Liguri nel Mondo : Incontro con Caffaro in « Giornale di Genova », 8 gennaio 1938. R. Baccino : Sosta pres.so l’urna d’un milite stradale in « Giornale di Genova », 12 gennaio 1938. E. Sciaccaluga : Vele genovesi verso Terrasanta in « Giornale di Genova », 4 febbraio 1938. E. Noberasco : Savona e la romanità, presso Tip. Ital., 1936, Savona. [L’A. traccia un breve ma sagace profilo della Savona romana, dando notizia della storia e dei reperti archeologici e paleontologici che confermano l’appellativo di romano al-1’« oggido alpino» di Livio]. N. Lamboglia : Il trofeo di Augusto alla Turbia. Bordighiera, 1938. [Agile e nel contempo dotta monografìa sul famoso mausoleo che eterna le vittorie di Augusto sui popoli alpini]. MODERNA E CONTEMPORANEA 'Navigatori, esploratori, mercanti. R. Lopez: La colonizzazione genovese nella storiografìa più recente in «Atti III Congresso di Studi Coloniali», Firenze, aprile 1937; In «Rivista di storia economica », Torino, dicembre 1937, si cita il saggio di A. E. Sayous su Les travaux des Amerîcaii/ns, sur le commerce de Gênes etc., apparso nel fascicolo II, 1937, del nostro « Giornale ». L. Balestreri : Genova e Francia durante la guerra di successione d’Austria in « Il Nuovo Cittadino », 4 dicembre 1937. V. Vitale : Economia e commercio a Genova nei secoli XII e XIII in « Rivista Storica Italiana », dicembre 1937. [L’A. compie un’ampia ed acuta rassegna degli studi americani intorno al commercio genovese del XII e XIII secolo e dà notizia della iniziativa della R. Deputazione di S. P. per la Liguria di pubblicare i documenti relativi al sec. XII conservati nell’Archivio di Stato]. A. Cappellini : Gianvvncenzo PvnelU in « Il Lavoro », 6 gennaio 1938. [Rievocazione della vita d’un mercante genovese a Padova]. RISORGIMENTO F. Geraci : L’epistolario genovese di Carlo Pisaeane in « Giornale di Genova », 6 febbraio 1938. U. V. Cavassa : Il manoscritto inedito d’un fantaccino di Custoza in « Genova », Rivista Municipale, gennaio. In « Corriere Emi- 78 SPIGOLATURE E NOTIZIE liano » del 2S novembre 1937, si recensisce lo studio su Nino Bixio di C. Pa-riset, apparso nel nostro « Giornale » nel fase. II, 1937. Giuseppe Garibaldi : Sulla campagna del 1866 in « Camicia rossa ». settembre 1937. [Pagine postume del Generale su la campagna del 1S66 contro l’Austria]. A. Cadorin : L’olocausto dei volontari genovesi della compagnia dei a diavoli rossi» in «Giornale di Genova», 21 gennaio 193S. M. Scurto : Agata Sofia Sassemò e il suo grande amore per Vitalia in « Corriere Mercantile », 17 gennaio 1938. MISTICA ED ECCLESIASTICA Fra Galdino : Ritorna Sant’Ampelìo in « Il Nuovo Cittadino », 13 febbraio 1938. L. De Simoni : Una chiesa tra i grattacieli in « Il Nuovo Cittadino », 13 febbraio 193S. [La chiesa dei Servi]. R. Maineri: I Genovesi alla Madonna del Pilone (Vall’Ermena) in « Il Nuovo Cittadino », dicembre 1937. G. Descalzo : Santuari di Liguria : Opere nuove fra antiche leggende in « Giornale di Genova », 22 gennaio 1938. A. Cappellini : L’oratorio di Sant’Antonio abate in piazza Sarzano in « Il Lavoro », 23 gennaio 1938. E. B. di Santafìora : La beatificazione di un genovese : Carlo Giacinto di S. Maria fondatore della Modan-netta in « Corriere Mercantile », 29 gennaio 193S. CORSICA Santu Casanova. [È stato raccolto in volume, a cura della Rivista « Corsica antica e moderna », ciò che nel fascicolo 5-6 anno 1936 di detta Rivista, fu scritto in onore del poeta italianissimo di Corsica]. B. Poli: Cause della rovina economica della Corsica in « Il Telegrafo », 23 novembre 193S. Rartholi Sabade F. : Le générai Bonapart à Ajaccio in « Revue de la Corse ancienne et moderne », août 1937. V. S. T. : Documenti di storia corsa in « Il Telegrafo », 6 ottobre 1938. C. Bornate: Due piaghe della Corsica alla fine del 400 : Banditi e Pirati in «Archivio Storico di Corsica», dicembre 1937. V. Vitale: La Corsica e la « Patetica Alleanza » in « Archivio Storico di Corsica », dicembre 1937. E. Michel : Mire f rancesi mi possesso deU’ispla di Capraja (1777-1783) in « Bollettino storico livornese », settembre 1937. Savelli De Guido : Villages sarrasins de Bal ange in « Revue de la Corse », août, 1937. R. Baccino : Come la Corsica divenne francese in « Giornale di Genova », 6 gennaio 193S. Una conferenza del prof. Moresco sul trapasso della Corsica in « Il Lavoro », 7 gennaio 1938. R. R. Petitto : Chiese di Corsica in « Il Telegrafo», 26 genuaio 19:38. G. Branca : Vannina e Sampiero in « Giornale di Genova », 6 febbraio 1938. V. Vitale: Genova e Corsica in «Giornale di Genova», 11 febbraio 193S. A. Petrucci : 169 armi d’oppressione francese iti Corsica in « Il Telegrafo », 16 febbraio 1938. GENOVA E LIGURIA Angelus: Acquarelli genovesi: Portovenere in «Il Grido d’Italia», 30 settembre 1937. S. Gotta: Portofino in «Le Vie d’Italia», gennaio 1938. A. Delle-piane: Antichi teatri genovesi: Il Falcone in «Il Lavoro», 13 gennaio 1938. Novest illustri dimenticati in « Il Secolo XIX », 19 gennaio 1938. L. De Simoni : La dove l’aquila covò dei conti di Lavagna in « Il Nuovo Cittadino », 30 gennaio 1938. A. Po. : La terra del Finale in « Il Secolo XIX », 20 gennaio 1938. G. Allegri: Ad Apricale in «Il Lavoro», 4 febbraio 1938. Breve istoria di S. Pietro alla Foce in « Il Secolo XIX », 10 febbraio 1938. SPIGOLATURE E NOTIZIE 7i) PITTURA E SCULTURA G. Petronilli : Visita alla III Mostra Sindacale d’Arte della Spezia in « II Lavoro », 5 gennaio 1938. — V. B. : De-Salvo, pittore in « Il Nuovo Cittadino », 13 gennaio 1938. Riva: Mostre d’Arte: G. B. De Salvo in «Giornale di Genova », 23 gennaio 1938. Ang. : La mostra provinciale d’Arte a Palazzo Rosso, in « Il Lavoro », 20 gennaio 1938. A. po. : La II Mostra del sindacato provinciale in « Il Secolo XIX », 23 gennaio 1938. Ang. : Tre pittori toscani : Pignotti), Toschi, Pagliazzi in « Il Lavoro », 26 gennaio 1938. A. po. : Artisti che espongono : G. B. De Salvo in « Il Secolo XIX », 27 gennaio 1938. A. F. : La Mostra provinciale d’Arte nel Palazzo Rosso in « Il Nuovo Cittadino », 27 gennaio 1938. Riva : Mostre d’Arte : La II Mostra provinciale in « Il Giornale di Genova », 2 febbraio 1938. Riva : Le Mostre d’Arte : Marcello BarU e Giuseppe Viviam in « Giornale di Genova », 9 febbraio 1938. A. Dellepiane : Dipinti del ’500 : Un « Sa/n Francesco penitente » di A. Va/n DyTcf in «Il Lavoro», 12 febbraio 1938. A. po. : Artisti che espongono : Marcello Barli in « Il Secolo XIX », 6 febbraio 1938. R. Calzini : Il Concorso per i premi S. Remo in « Popolo d’Italia », 13 febbraio 1938. A. po. : La Mostra di pittura e scultura del premi Sa/n Remo in « Il Secolo XIX », 13 febbraio 1938. G. Mazzoni : L’inaugurazione della II Mostra di pittura e scultura a San Remo in « Giornale di Genova », 13 febbraio 1938. G. Descalzo: Artisti liguri: Oscar Saccorotti in « Giornale di Genova », 16 febbraio 1938. La proclamazione dei vincitori dei premi San Remo in « Giornale di Genova », 27 febbraio 1938. ARCHITETTURA E RESTAURI La porta del Molo sarà restaui'ata? in « Il Secolo XIX », 6 gennaio 1938. r. r. : La lanterna in « Corriere Mercantile », 10 gennaio 1938. L’inizio dei lavori di restauro al palazzo del Governo in « Giornale di Genova », 13 gennaio 1938. M. C. : Importante problema archeologico storico attinente al Duomo di Genova in « Il Nuovo Cittadino », 23 gennaio 1938. Co'tne verrà restaurato il teatro del Falcone in « Il Secolo XIX », 2 febbraio 1938. Il palazzo Prìncipe in « Il Secolo XIX », 5 febbraio 1938. « Architettura » di gennaio 193S pubblica un breve articolo con molte illustrazioni di E. Te. su « Il ristorante S. Pietro a Genova » disegnato dall’Arch. Mario Labò. NOTE LETTERARIE Lina Gasparini : in « Archeografo triestino », recensisce ampiamente ed acutamente il volume : Paganini intimo, di A. Codignola. A. Cappellini : Stelle Genovesi, compendio biografico, Genova, 1937. M. G. Celle: Visioni liguri del Petrarca in « Genova », Rivista Municipale, gennaio 1938. Genova e il Ban-dello in «Giornale di Genova», 4 gennaio 1938. Un busto a Malinverni in «Il Secolo XIX », 6 gennaio 1938. A. Cappellini : Paolo Malinverni in « Giornale di Genova», 6 gennaio 1938. M. Bettinotti : Genova a Malinverni'. Il Poeta e V uomo in « Il Lavoro », 9 gennaio 1938. A. Gismondi : La poesia dialettale di Carlo Malinverni in « Il Nuovo Cittadino », 9 gennaio 1938. L. Perasso : Cec-cardiana : Dall’Antologia al Ritratto in « Il Lavoro », 13 gennaio 1938. li. Balestreri : Il giornalismo genovese dai primordi al 1815 in « Il Ts*uovo Cittadino », 18 gennaio 1938. Lo Duca : Annotazioni genovesi di Paul Valéry in « Giornale di Genova », 26 gennaio 1938. Umberto Cavas,sa vince il premio Savoia Brabante in « Il Lavoro », 3 febbraio 193S. G. Balestreri : G. Giacomo Cavalli in « Il Lavoro », 9 febbraio 1938. 80 SPIGOLATURE E NOTIZIE TOPOGRAFIA, TOPONOMASTICA, INDUSTRIE, COSTUMI In « Rivista di Storia Economica », dicembre 1037, e in « Il libro italiano », settembre 1937, si recensisce il saggio di G. Pappaianni apparso nel nostro « Giornale » nel fase. II, 1937. C. Astengo : La consacrazione di Genova a Maria e il cambiamento di tipo monetale nel 1637 in « Numismatica e scienze affini », ottobre 1937. Arco : A. Ghìglione in « Genova *», Rivista Municipale, gennaio 193S. M. C. Ascari : Topografia di Genova-Quarto in « Genova », Rivista Municipale, gennaio 193S. A. Dellepiane: Evocazioni di Genova manifatturiera : l'antica arte della seta in « Genova » Rivista Municipale, gennaio 1938. G. Marchi : Tradizioni genovesi : Capodanno d’altri tempi in « Giornale di Genova, 1 gennaio 193S. Lo Duca: Da Albissolu a Nevers (Per lo studio della majolica italiana) in «Giornale di Genova», 1 gennaio 193S. L ardesia orobruno della Fontanobuona in « Il Secolo XIX », 6 gennaio 1938. Un Museo dei Gracidi genovesi in «Il Secolo XIX», 9 gennaio 193S. Marbet: Un’ora al Museo G. Doria in « Il Lavoro », 18 gennaio 193S. G. Carraro : Toponimi liguri in « Il Nuovo Cittadino », 5 febbraio 193S. C. m. : A proposito di monete trovate in Liguria in « Il Nuovo Cittadino », 8 febbraio 1938. A. Panario : Beneficenza genovese in « Il Nuovo Cittadino », 9 febbraio 193S. Renzo Baccino Direttore responsabile : ARTURO CODIGNOLA Stabilimento Tipografico L. CAPPELLI - Rocca S. Casciano, 1938-XVI. LO ZUCCHERO NEL LAVORO E MEGLI SPORTS Dato l’attuale ritmo della vita, lo zucchero dovrebbe essere Falimento di elezione in ogni campo della vita pratica e intellettuale, dove si lavora e dove si pensa, nelle fabbriche e nelle scuole, nelle caserme e nello sport, là dove necessita attuazione pronta di energia e di velocità. Quando si lavora, il lavoro risulta fisiologicamente più economico se viene eseguito dopo un pasto ricco di zucchero, che dopo un pasto in cui abbondano grassi e carne. E ciò, non solo perchè lo zucchero scalda meno i congegni del nostro organismo, ma perchè è l’alimento proprio e più indicato nel lavoro dei muscoli. Lo zucchero è il vero carbone del motore animale, e carbone di prima qualità, anche perchè non dà scorie, nè origina, nel suo ricambio, alcuna sostanza tossica. Si comprende, quindi, come, ingerendo zucchero durante il lavoro, si possa dare un maggior rendimento e come esso possa giovare nel ristoro dopo la fatica. Sono classiche le ricerche eseguite dal Mosso e dalla sua scuola, e dal Harley, sul potere ristoratore dello zucchero nelle ascensioni alpine ed, in genere, negli sports violenti. Scrive Angelo Mosso nella “ Fisiologia dell’uomo nelle Alpi : €€ Lo zucchero ha il potere di aumentare la forza dei muscoli. Dal muscolo affaticato può ottenersi una più grande energia bevendo semplicemente una soluzione di zucchero nell’acqua. A che cosa è dovuta l’improvvisa caduta di forze, la défaillance che, a volte, coglie l’atleta nel fervore della gara o l’alpinista che ascende la montagna ? Indagini moderne hanno dimostrato che dipende da una discesa di zucchero nel sangue, da una ipogìicemia. Basta allora mangiare un po’ di zucchero, bere uno sciroppo, per sentire rinascere le forze e l’energia di proseguire Lo zucchero, alimento fisiologico, deve essere consumato sopratutto dai lavoratori e dagli sportivi. Dalla pubblicazione del compianto Prof. Gaetano Viale, Direttore dell'istituto di Fisiologia della R. Univereità di Genova : Lo zucchero nell'alimentazione, nella terapia., negli sportnel lavoro. (Genova, 1933, Barabino e Graevc). SOC. AN. ITALIANA LIPS-VAGO MILANO STABILIMENTO E AMMINISTRAZIONE VIA VALLAZZE 106 - TEL. 292-209 - 290-359 CASSEFORTI IMPIANTI DI SICUREZZA PER BANCHE - MOBILI METALLICI PER UFFICIO ED APPARTAMENTI SCAFFALATURE METALLICHE PER BIBLIOTECHE ED ARCHIVI ARREDI PER NAVI OSPEDALI E COLLEGI PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Direzione ed Amministrazione : GENO V A, Via Lomellini 11 SOMMARIO Raffaele Ciasca, Affermazioni di sovranità della repubblica di Genova neZ secolo XVII, pag. 81 — Carlo Volpati, Paolo Giovio e Genova, pag. 92 — P.S. Pasquali, Postille toponomastiche lunigianesi, pag· 100 — Mario Pedemonte, Pa-qaniniana: Vambiente musicale genovese nel settecento, pag. 105 Enrico Ter-racini, U vittore Oscar Saccorotti, pag. 115 — VARIETÀ: Camillo Pariset, Un ricordo dei poeta genovese Gasvare Ivrea, pag. 122 — Antonio Giusti, Appunti sul dialetto liqure, pag. 124. — Comunicazioni della E. Deputazione di storia patria per la Liguria, pag. 129 — RASSEGNA BIBLIOGRAFICA: Emilia Morelli, Mazzini in Inghilterra (Costantino Panigada): R. Ciasca, Genova nella relazione d un inviato speciale alla vigilia del bombardamento del 1684 (Renzo Baccmo): A. Accame, Pietra Ligure, (Renzo Baccino): Renato Giardelli, Saggio di una bibliografia generale della Corsica (Leona Ravenna) : H. Ricolfl, Vauban et le gerite militaire dans les Alpes Maritimes (Leona Ravenna): Cassiano da Langasco, Qh Ospedali degli Incurabili (Leona Ravenna): Piero Barbieri, Studio di un piano regolatore e di diradamento della Genova medioevale (Mario Labò): Piero Barbieri, Le piazze urbanistiche di Genova (Mario Labò): Caterina Marcenaro, Æa/nfre-dino d’Alberto (Mario Labò): Marziano Bernardi, Arte piemontese (Mario Labò): Luisa Becherucci, L'architettura italiana del Cinquecento (Mario Labò) pagg. 131" 149. — Renzo Baccino, Spigolature e Notizie, pag. 150; Leona Ravenna, Ap· punti per una bibliografia mazziniana. CASSA DI RISPARMIO E MONTE DI PIETÀ’ DI GENOVA Sede Centrale: GENOVA - Via Davide Ch'ossone, 5 FILIALI GENOVA - CENTRO {{{“J g> GENOVA - SAMPIERDARENA GENOVA - SESTRI GENOVA - PEGLI GENOVA -VOLTRI GENOVA - BAROLO GENOVA■BOLZANETO GENOVA -PONTEDECIMO GENOVA - NERVI GENOVA -MOLASSANA ALASSIO ALBENGA ARENZANO BOROIGHERA BUSALLA CAMPOLIGURE CHIAVARI FINALE LIGURE IMPERIA ONEGLIA LOANO M0NT0GGI0 NOVI LIGURE PIETRA LIGURE PIEVE DI TECO RAPALLO RECCO REZZOAGLIO S. REMO S. MARGHERITA LIGURE SESTRI LEVANTE TAGGIA TORRIGLIA VARAZZE VARESE LIGURE DEPOSITI A RISPARMIO - CONTI CORRENTI - TUTTE LE OPERAZIONI DI BANCA SCRITTI EDITI ED INEDITI DI GIUSEPPE MAZZINI POLITICA, LETTERATURA ED EPISTOLARIO EDIZIONE NAZIONALE, a cura dello Stato, in 100 volumi, in-8 (di cui 75 già pubblicati), corredati da illustr. arricchìl· da preg. introduzioni e note. Decretata dal Governo del Re, nel marzo del 1904, quale «solenne attestazione di riverenza e gratitudine dell’Italia risorta, verso Γ Apostolo dell’unità.... Durevole e doveroso omaggio alla memoria di Lui.... » e che il Governo Fascista ha voluto accelerare in modo da essere completa entro il 1941, costituisce un’opera grandiosa per il suo altissimo valore storico, politico e letterario ed insieme un capolavoro editoriale. Ne forma completamento IL PROTOCOLLO DELLA GIOVINE ITALIA IN 6 VOLUMI IN 8° Preziosissima, incalcolabile miniera di notizie per chi voglia addentrarsi a studiare quel periodo che costituisce la preparazione al primo atto grandioso per cui l’Italia s’avviò armata per la via dell’unità nazionale. Serirti e Protocollo vengono editi in due tipi : l’imo del costo medio di L. 10 il volume* l’altro su carta a mano a L. 40 U volume dalla C00PEKAT1VA TIPOGRAFICO-EDITRICE PAOLO GALEATI 1)1 IMOLA Anno XIV - 1DH8-XVI Fascicolo II - Aprile-Giugno GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Direttore: ABTURO CODIGNOLA Comitato di redazione : CARLO BORIVATE - PIETRO NURKA - VITO A. VITALE AFFERMAZIONI DI SOVRANITÀ’ DELLA REPUBBLICA DI GENOVA NEL SECOLO XVII. La storia di Genova posteriore al 500 è spesso rappresentata come quella d’una città in continua, irreparabile decadenza. Grave aftievolimento politico, mediocre efficienza militare, ritirarsi frettoloso da tutti i porti le piazze mercantili, decadenza nel costume, infiacchimento degli animi, pusillanime piegare a destra e a manca, verso la Spagna e verso la Francia, condotta troppo remissiva verso tribunali ecclesiastici, ordini religiosi, chierici privilegiati ed immuni, incapacità assoluta d’uno almeno di quegli atti di ribellione all’autorità delle somme chiavi, di cui andava famosa la repubblica di San Marco, che in un celebre frate aveva trovato il battagliero sostenitore dei diritti statali contro l’ingerenza della Curia; sono i rilievi comunemente fatti dagli storici a proposito di Genova negli ultimi due o tre secoli della sua vita autonoma. Storia convenzionale e falsa ; perciò da rivedere, come si è cominciato fortunatamente a fare, con migliore ripensamento o approfondimento degli aspetti della politica, della cultura, della vita sociale, del costume e soprattutto dell’attività economica, disseppellendo o meglio utilizzando il ricchissimo materiale documentario degli archivi e delle biblioteche genovesi. Certo : irradiazione dei genovesi fuori della patria assai minore nel 5 e 600 di quella vera esplosione che caratterizzò l’attività mercantile, bancaria, armatoriale dei genovesi sino a quasi tutto il secolo XV ; attività un tempo incontrastata, o pienamente vittoriosa nella gara con altri centri italiani, con Marsiglia, con Barcellona. Ma anche lotta, spesso fortunata, per mantenere posizioni acquisite in Francia, nelle Fiandre, in Germania, in Inghilterra, nella peni- 82 RAFFAELE CIASCA sola Iberica, in Spagna sopra tutto, i cui documenti, ma n ma no che vengono resi noti al pubblico in nostre pubblicazioni e nella monumentale «Colleccion (le documentos ineditos », ci ricordano, pur nel massimo fiore della potenza politica ed economica spagnuola, numerosissimi nomi di genovesi illustri per nascita, per solidità finanziaria, per giro di affari, di armatori e di imprenditori, di navigatori e di mercanti, di organizzatori di società, di accaparratori di materie prime, di venditori di generi fini e di prodotti industriali. Anche per molti decenni dopo che fu del tutto spostato l’asse politico ed economico del mondo, e irreparabilmente rotto il tradizionale equilibrio commerciale e politico del medioevo, Genova, da Andrea Doria in poi, fu elemento attivo e determinante del nuovo equilibrio mediterraneo durato per quasi tutto il secolo XVII. Se di fronte al martellamento continuo della potenza ottomana e alla furia barbaresca, sotto i colpi della vicina, invida monarchia francese, dovè nel '500 e nel '000 ritirarsi dal Levante, cedendo fatalmente ad una forza che intimoriva e paralizzava l’intera Europa cristiana, trovò nell'intenso traffico entro la. penisola iberica e fra questa e i vastissimi territori dipendenti della nostra Penisola e dell’Europa, nello sfruttamento delle colonie americane e nella tratta dei negri, nn campo di attività e di guadagni forse non inferiore a quello derivante dal commercio con le colonie levantine ; il suo impero coloniale tenacemente difeso con le armi, con la diplomazia, con Li forza del danaro e col credito politico; e lo difese con fortuna, giacché potè serbare l'ultimo residuo dei vasti possessi coloniali fin ψηΐΝΪ al tramonto della propria indipendenza politica. Per quanto nel '500 e nel '«00 si venisse gradatamente accorciando il raggio di azione della nostra città, e questa perdesse^ a paragone dello slancio giovanile delle monarchie unitarie dell’Europa occidentale, genovesi continuarono a schiudere le nuove vie — non essendosi del tutto svigorito quel gagliardo impulso e quell’audacia che avevano spinto ai celebri e folli viaggi transmarini ; genovesi coraggiosamente valicarono le infocate arene del Sahara e dettero la mano a popoli remoti, estranei tino allora al consorzio civile. Ancora nel '500 e '»>00. Genova era in grado di trai· vantaggio dalla sua privilegiata posizione geografica e dall’energia fattiva dei suoi abitanti che la rendevano punto «rincontro di uomini e di prodotti. Dal suo porto partivano i suoi abitanti, recando la loro attività e 1 impronta del loro carattere fin nei più remoti paesi ; lì convenivano genti varie, partecipando al ritmo febbrile della sua vita, e quella accelerando. Nè solo italiani di ogni regione, chiamati quasi a fraterna collaborazione, se pur in concorrenza economica, ma anche stranieri di paesi affacciantisi sul Mediterraneo e Sull’Atlantico, e più tardi di olandesi, di inglesi, di svedesi. E se Genova non potò più nel secolo XVII come per l’addietro, considerare il Mediter- AFFERMAZIONI DI SOVRANITÀ DELLA REPUBBLICA DI GENOVA ECC. 83 raneo settentrionale come un mare proprio, vivace essendo divenuta la concorrenza soprattuto di Marsiglia, e contando ben per qualche cosa la fiotta olandese, la inglese e la toscana — rimaneva essa però ancora centro di scambi marittimi, continuava ad accaparrare quasi tutti i grani delle Puglie, della Sicilia, della pianura emiliana e padana destinati all’esportazione, era cardine del movimento mercantile fra la Spagna, le isole tirreniche e l’Italia, ed era tra i primissimi porti del Mediterraneo per il trasporto delle mercanzie, (lei passeggeri e della posta di buona parte dell’Europa civile. Se Genova non potè, in nome proprio, sviluppare una politica di espansione di là dall’Oceano e di accaparramento delle nuove immense terre di fresco scoperte, i suoi cittadini industriosamente, nonostante i divieti, seppero, senza parere, inserirsi nel giro del commercio colle colonie, continuarono ancora a fornire capitani ed ammiragli, il più illustre tra questi Ambrogio Spinola; ingegneri e tecnici e architetti militari genovesi lavoravano in mezza Europa, prima ancora che francesi e fiamminghi, messisi a scuola da noi, apprendessero a fare da sè e a correre sulle vie segnate loro dagli italiani; genovesi continuarono a costruire navi e ad armare galere e flotte intere che ponevano a servizio del miglior offerente, così come i capitani di ventura offrivano il loro braccio e le proprie compagnie all’uno o all’altro signore; assentisti privati genovesi — quali i Doria, i Centurione, gli Imperiale, i Grimaldi, i Lomellini, i Sa.uli, i Di Negro, i De Mari, infoltirono le squadre di altre potenze, costituirono il meglio delle loro forze e, non infrequentemente, furono elemento decisivo nella lotta pel dominio dei mari. E genovesi tiranneggiarono nelle fiere a lungo, fin nel tardo 700, continuarono a prestare a Papi e a Imperatori, a case di Spagna e di Francia, e accordando e negando prestiti, spesso giungevano ad imporsi finanche ai potentissimi sovrani spagnoli ; appaltando imposte ed acquistando titoli di rendita pubblica, ne controllavano la finanza e la intera vita economica. Tale persistente attività genovese obbliga a riguardare la storia di Genova dei secoli XVI e XVII con occhio assai diverso da quel che in generale si è fatto finora. Argomento comunemente assunto per affermare l’assenza di virtù civili e militari, la mancanza di disciplina del popolo, di devozione alla patria — premessa alla inevitabile decadenza politica — è il pullulare continuo di congiure, di torbidi interni, di intestine dissezioni, di cui è fatta, in gran parte, la storia di Genova del ’500 e del ’600. Si compiacciono taluni storici di allineare nomi e date; dalla, congiura dei Fieschi in poi, e di notare che in agguato, dietro i congiurati, vi erano sempre le mire del duca di Savoia, meglio armato, poggiante su popolo disciplinato e devoto, premuto dalla ne cessità di raggiungere un più comodo e più vicino sbocco sul mare, o i progetti ambiziosi e i calcoli superbi del Re di Francia, cui il pos- 84 RAFFAELE CIASCA sesso di Genova era condizione necessaria per il dominio dell Italia. Ma una osservazione, elementarissima, si presenta ovvia : (li quelle congiure la repubblica fu sempre vittoriosa ; tutte furono spente sul nascere o stroncate nel loro sviluppo, i congiurati furon sempre tolti di mezzo, furon distrutte le loro case, confiscati i loro beni, perseguitate le loro famiglie, condannato ad eterna infamia il loio ii~ cordo. La repubblica non si lasciò mai intimidire dalla violenza di nemici lontani e vicini; non sorprendere dall’astuzia. Alla forza oppose la forza ; all’astuzia e alla frode oppose l’accortezza e la prudenza dei suoi informatori, dei suoi rappresentanti diplomatici, dei suoi Collegi ; la voracità degli uni mollificò con donativi e con quell’universale argomento che è l’oro; le pretese degli altri rintuzzò con calcolata fermezza. Forgiò negli Inquisitori di Stato, istituiti dopo la congiura del Vacherò, un magnifico strumento, atto a prevenire i malintenzionati e i corrotti, a dissipare la più lontana minaccia di sedizione. E come, da un lato, seppe risparmiare alla propria citta saccheggi e violenze di barbareschi e di squadre ottomane —— pur mentre erano depredati ed arsi non pochi centri costieri del lineno alto e basso e del Mediterraneo occidentale, pur mentre la Fi ancia non riusciva sempre a tener lontano dalle proprie coste il flagello di quei maomettani d’Africa, che troppo spesso dimenticavano il loio dovere di alleati per ricordare soltanto Tessere loro di pirati, e la Spagna comprava la pace pagando tributi ai bey di Algeri e di Tunisi — dall’altro lato, il governo genovese seppe tenere m rispetto la potenza e la prepotenza di un Carlo V, di Re cattolici e di lie cristianissimi, avversandone tenacemente, e con fortuna, i meditati disegni di egemonia e di asservimento. E se nel 1684 Genova subì l’oltraggio del bombardamento e della resa a discrezione di Luigi XIV, essa piegò solo dopoché l’Olanda era umiliata, l’impero era m crisi, la Spagna era paralizzata dalla violenza e dalla temeraria sfida del potentissimo monarca francese, solo dopoché gli appelli al ponte ce erano rimasti inascoltati e s’erano rivelati sterili i tentativi pei unii e l’Italia in un fascio di forze. E quando pel nerbo militare la repubblica del Tirreno non potè più stare alla pari con le forti monarchie dell’Europa occidentale, salde nella loro compattezza e nel iaggiunto accentramento politico, militare ed amministrativo, le giova rono l’accorta politica e il credito raggiunto e mantenuto con tale abilità, da destare l’ammirato elogio di un Napoleone Buonaparte. E se dovè acconciarsi alla tirannica volontà dell’imperatore che e ritoglieva il Finale, comprato in moneta sonante nel 1713 e riconosciuto trent’anni dopo col trattato di Worms, Genova, governo e po polo, quell’imposizione imperiale intese come iniquo sopruso, e lo ricordò bene nel gesto del Balilla e nel suo atteggiamento politico an-timperiale di quasi tutto il secolo XVIII ; e quell odio contro 1 impero austriaco sopravvisse anche alla perdita dell’indipendenza, su- AFFERMAZIONI DI SOVRANITÀ DELLA REPUBBLICA DI GENOVA ECC. 85 però quello, pur secolare e tenace, contro Torino, e quietò solo quando potè umiliare e respingere dagli augusti confini d’Italia e prostrare nella polvere l’implacabile nemico che, da Carlo Magno in poi, non aveva cessato di pretendere omaggi di sudditanza dalla repubblica di San Giorgio. Nonché rassegnarsi ad umiliante subordinazione, proprio in quel secolo XVII, che troppi ancora si ostinano a presentare come periodo di grande decadenza, Genova, mentre si abbelliva di capolavori e si arricchiva di monumentali costruzioni, mirò a superare la primitiva organizzazione municipale, l’angustia ereditata dall’antico comune e ad affermare i propri diritti di stato sovrano, sciolto da riconoscimento, anche formale, di qualsiasi autorità laica od ecclesiastica. Avendo a ridosso la severa cortina di monti digradanti e sul davanti le due riviere quasi curvantisi in un amplesso, Genova vide fin dall’inizio condizionata la sua vita e le possibilità del suo sviluppo al dominio dei valichi e delle strade che la collegavano con la Luni-giana, con la Lombardia, col Piemonte, e alla sicurezza del mare che le si apriva davanti. E tutta la sua azione politica e il suo nerbo militare volse, per secoli, a sbarazzare le vie tra i confini di Provenza e le terre di Toscana da intralci e da prepotenze di marchesi, conti, signori, feudatari di qualsiasi grado e titolo, da repubbliche e da comuni emuli, da vescovi e da uomini d’arme, e tutte le sue imprese sui mari mirarono a rendere rispettata la bandiera di San Giorgio : da quella prima spedizione contro i mori, che segna l’ingresso di Genova fra le grandi potenze marinare d’Europa dopo il mille, al chiudersi vittorioso del contrasto cruento con Pisa pel dominio della Corsica e della Sardegna — antemurali della penisola italiana e necessari punti di appoggio con il Levante e con l’Africa — alla lotta contro l’Aragona e contro Venezia, alla formazione di numerose, ricche colonie nell’Egeo e nel Mar Nero. Risultato di questo oscuro e faticoso travaglio secolare fu la formazione di uno Stato abbracciante le due Riviere, dominante la massima parte dei valichi appenninici ed affacciantesi, di là dai monti, verso la pianura padana. Formazione non dissimile da quella cui avevano lavorato i comuni di Milano, di Firenze, la repubblica di Venezia, intesi a liberare da ostacoli di qualsiasi sorta le vie del loro traffico, a subordinarle ai loro interessi, a dominarle militarmente e politicamente. Costruzione non perfetta e neppur ultimata, ma già molto avanti nel GÜ0, e promessa di più ampio avvenire, specialmente dacché, conquistata Savona, Genova ebbe eliminata una vicina, fastidiosa e pericolosa, dacché ebbe frustrato il tentativo ispano-lombardo di un concorrente porto a Va rigotti. Costruzione non perfetta ; chè tino al 1713 rimaneva fuori il Finale, posto « quasi nelle viscere stesse dello Stato », imminente alla, città e alla fortezza di Savona, non 86 "RAFFAELE CI ASC A molto discosto dalla- stessa Genova; il Finale, pel cui possesso — condizione assoluta di sicurezza per Genova — questa contrasse alleanze, entrò in guerra, lottò con tutte le sue forze, volse le astuzie della sua diplomazia e il peso della sua politica, spese non poche centinaia di migliaia di ducati. Uno stato, territorialmente fra i più cospicui della penisola, importantissimo per la sua posizione geografica, con un porto naturale di prim’ordine nel Mediterraneo, porta della Lombardia, del Monferrato, del Piemonte e della Valtellina, chiave di volta della posizione militare e politica settentrionale, non poteva durare nella condizione giuridicamente subordinata in cui era a lungo vissuta. Eco di secoli ormai troppo remoti era il ricordo dell’azione militare e politica svolta da Genova a fianco di grandi feudatari del Sacro Romano Impero, agli ordini del vicario imperiale, per finalità ed interessi formalmente dell’impero. Anacronistico doveva apparire ai genovesi del secolo XVII il conio della sua moneta sulla quale erano incise, come in secoli remoti, Pimmagine d’un imperatore del sacro romano impero e la scritta « Chonradus rex ». Stridente contrasto fra la tradizione e la realtà presente, fra i modesti inizi e la effettiva importanza di Genova dei secoli XVI e XVII, apprezzata, richiesta e sollecitata pei suoi armatori e pei suoi assentisti, per la robustezza finanziaria dei suoi cittadini, per il valore e la perizia dei suoi marinai, la bravura dei suoi capitani, l’accortezza dei suoi uomini politici. Nel conflitto tra l’antico ed il moderno, era fatale che prevalessero le forze vive e operose e presenti dello Stato, e che i nuovi ideali di assoluta indipendenza cancellassero finanche il ricordo della originaria dipendenza, sia pur formale, dall’impero. Questo momento il governo genovese preparò di lunga mano, con tenacia di propositi e con accortezza tanto maggiore, in quanto toccava direttamente l’essenza della vita della repubblica. Dette anzitutto l’avvio a memorie e trattazioni dei suoi segretari, di funzionari, di scrittori patri; alimentò poi una vivace propaganda a stampa, volse tutta la sua azione diplomatica sottile ed accorta per preparare l’opinione delle Corti e del pubbico a far accettare la nuova affermazione d’indipendenza. Scritti, trattati e poemi, che oggi potrebbero apparire private elucubrazioni cortigianesche, furono in realtà sollecitati o almeno ben visti dalla repubblica, in quanto servivano ad affermare e a popolarizzare quel concetto di indipendenza. Così è, per esempio, del poema di Gaspare Muzio della Stella, notaio e cancelliere del comune di Savona, pubblicato nel 1570, che si proponeva di « descrivere e cantare » « fonte di nobiltà — e l’immortal valor, l’invitta gloria — la fama inestinguibil e il vanto — l’honor, la degna fama e la vittoria — di genovesi, nominati tanto — in bian- ^ AFFERMAZIONI DI SOVRANITÀ DELLA REPUBBLICA DI GENOVA ECC. 87 ca carta, ed in gentil historia » (*). Così del poema « Paride e Vienna » dell’anno seguente, di Mario Teluccini, in ottava rima, osannante al mecenatismo e alla potenza di molte famiglie nobili liguri (2) ; così del Paschetti, che parlava della bellezza di Genova e della Liguria e degli uomini che la onoravano (3). Fra le trattazioni sui diritti sovrani di Genova ve ne è una che risale alla penna di un alto magistrato della Repubblica, Raffaele della Torre, e che oltre ad essere fra le più antiche, è per ampiezza di impostazione una delle più notevoli. S’intitola: «Esame delle preeminenze Reali pretese dalla repubblica di Genova nella corte di Roma ». Parte essa dal concetto che (( la sovranità dei Principi è quel carattere che rendendoli nell’uf-iicio similissimi a Dio, dal quale solo e immediatamente riconoscono Pautorità, si sollieva in dignità sopra tutti quei che non l’hanno ; nè si acquista ella o si mantiene con maestà di titoli, o con la chiarezza del sangue, o si misura con l’ampiezza delle dominate provinole ; nè più si confà con il principato di un solo che con quello di più o di tutti, ma prende le sostanze da una piena ed illimitata indipendenza dovutale di ragione et esercitata di fatto nell’amministrazione della repubblica, siasi pur essa di forma aristocratica o democratica, oppure di monarchia ». L’indipendenza definisce e segna il limite del concetto di sovranità. Questa, non ammette gradazioni : « un principe sovrano non può dirsi più sovrano dell'altro ». Dopo questa discussione teorica, si passa ad esaminare la particolare situazione di Genova. A giudizio del memorialista, la repubblica genovese possiede tale sovranità con ogni « pienezza, non pur di fatto come dar leggi a soggetti et apportar guerra e pace a stranieri indipendentemente da ogni altro, ma di ragione tanto chiara, che non si può trovare in esso un minimo neo di dipendenza, non di vassallaggio, non di aderenza, non di protezione. Altri presìdi non tollera fuori dei propri e dipendenti assolutamente da lei, altre funzioni non fa, fuorché de7 membri delle parti che la compongono ». E rincalza : « Possedendo la Repubblica genovese la sovranità nel più eminente grado, ninno potentato, per grande che sia, può sdegnarla compagna et eguale nella dignità ». I titoli della, sovranità le derivano « dalla antichità e celebrità delle origini e dalla chiarezza dei fatti dei maggiori » : i genovesi dettero « nobilissimo principio alla sovranità loro » quando, dal secolo X in poi, « per loro stessi e senz’altro aiuto fuori quello di Dio », cacciarono i ladroni di Arabia, i (1) Gaspare Mutio della Stella, Fonte di nobiltà. Genova, Antonio Bel- lone, 1570. (2) Sul Telanctni, cfr. Tsuccolò Giuliani, Notizie sulla tipografìa ligure sino a tutto il secolo XVI, in « Atti Società Ligure di Storia patria », vol. IX. (3) Le bellezze di Genova, dialogo del P. Bertolomeo Paschetti. Genova, Zabata, 1583. 88 RAFFAELE CIASCA nemici comuni del cristianesimo dalla Liguria, dai suoi scogli e dai suoi mari che i Carolingi, gli Ottoni e gli Enrichi avevano abbandonato, perchè incapaci di difenderli. Quella sovranità* e libertà essi si fecero riconoscere da Federico I, pur vittorioso e trionfante della Lega lombarda e « tutto ancor consparso d’alta polvere per l’eccidio di Milano ». Ingrandirono il loro dominio non « per retaggi materni », ma « con forza di giustissime armi ». E il regno difesero validamente e sempre, sia quando la città era « poco men che sfasciata di mura », sia dopoché furono « innalzate alle stesse le mura sovra quelle stesse eminenze alla città sovrastanti, dalle quali, nei tempi passati, prendean le mosse più impetuose contro di lei gli oppugnatori » : quelle mura che, baluardi insuperabili, permisero ai genovesi di passare dalle fatiche e dalle lotte sul mare alle arti pacifiche, e che fecero della città la sicura porta marittima d’Italia, « onde non mai alcun potentato straniero conservò in essa le acquistate provincie senza l’amicizia dei genovesi, nè mai fu discacciato senza le loro ostilità ». Genova, continua, il memorialista, può ora, senza grande sforzo, armare cento galere ; è tanto ricca, da prestare a tutti i potentati stranieri; possiede con giusto e continuato titolo di settecento anni la Corsica, posta nel centro del Mediterraneo, isola ricca di porti, abitata da gente bellicosa. Per tutto questo, Genova deve essere posta tra i sovrani indipendenti, fra quelli cioè « che, avendo ottenuta (l’autorità immediatamente da Dio, altro superiore non riconoscono in terra » ; ha nel suo presente essere prerogative tali, da stare alla pari con qualunque altro supremo potentato. Le danno diritto Tessersi mantenuta immacolata da macchie di eresia e di scisma aver poste le proprie armi a difesa della fede e a servizio degli imperatori come capi della cristianità nelle crociate, aver dato i natali a otto papi e a numerosissimi cardinali, aver esercitato per secoli il dominio su tutto il mare Ligustico, sulla Sardegna, sulla Corsica e su Cipro, aver avuto un impero coloniale fino al Tànai. Quanto precede porta a concludere che Genova può a buon titolo pretendere onori regi da qualunque potentato, e fin dallo stesso Pontefice, « non per gratia, ma in cognitione dei rilevanti servizi ». Se quei regi onori le fossero denegati, « riceverebbero piaghe mortali non pure la prudenza e la gratitudine, ina da più di un lato la giustizia di quel santo Padre che fu lasciato in terra vicario del Redentore nostro » (*). Fin qui, il memoriale che riassume egregiamente argomenti giuridici e titoli storici messi avanti dalla repubblica. Gloriose im- l1) Copie dello Esame delle preeminenze Reali pretese dalla Repubblica di Genova nella Corte di Roma sono, oltre che nell’Archivio di Stato di Genova, anche nella biblioteca Brignole Sale (Manoscritti, 105, C, 6; cc. 180-202 t), nell’Archivio Vaticano, fondo Bolognetti, voi. 60, cc. 180-203, con lievi varianti formali. AFFERMAZIONI DI SOVRANITÀ DELI A REPUBBLICA DI GENOVA ECC. 89 # prese, dunque, dominio esercitato di fatto per secoli sul mare Ligustico e nel Mediterraneo, grandi servigi alla causa della cristianità e della civiltà, tradizioni di indipendenza e di fierezza antica, sono i giusti titoli, perchè Genova affermi la sua sovranità piena ed assoluta. Questi argomenti furono ripresi e sviluppati in numerosissime pubblicazioni, in prosa ed in verso, di natura giuridica e di contenuto storico, da parte di privati cittadini e di funzionari della Repubblica. La conclusione è sempre la stessa : Genova ha diritto ad onoranze regie. Tutto giovava a questa conclusione : la regia maestà del suo doge, la dignità del suo arcivescovo, l’ornamento « davvero regale » dei suoi cittadini, i suoi « palagi superbi che dalle tettoie piovono le meraviglie », le « suntuosissime pubbliche fabri-che, le vie, le muraglie, i moli che abbelliscono, fortificano, difendono Genova, la posizione della città, la straordinaria bellezza delle sue ville »____ L’impeto lirico spesso prendeva la mano sull’indagine giuridica, nè sempre era rispettata la verità storica. Ed ecco il Federici, in una lettera del 5 febbraio 1634 raccogliere quanti più brani di autori antichi e di cronisti potè, per dimostrare che Genova non fu mai soggetta ad alcuno, che per secoli fu signora del mare Ligustico e di terre e di contrade vastissime, che non ottenne mai nulla gratuitamente da re e da papi, che gli imperatori non fecero che riconoscere la sua sovranità e libertà antica : tutto ciò per concludere che Genova ha diritto a regie onoranze i1). Ed ecco Pietro Battista Burgo riprendere ed ampliare e rinforzare le ragioni già sostenute dal giureconsulto Raffaele della Torre, sul diritto incontrastato della repubblica sul mare Ligustico (2). Rievocava egli, cinque anni più tardi, in forma latina magniloquente, le glorie della patria, ritraendo i genovesi sempre « vigilantes, fortes, officiosi, strenui, magnanimi » nel rivendicare le proprie libertà, nel difendere la fede apostolica, nel propagare l’impero della repubblica, nel difendere le libertà proprie e della Chiesa « adversus Sarracenorum incursiones. Germanorum irruptiones, Gallorum impetus, Mediolanensium conatus » ; celebrava le vittorie marittime e terrestri contro levantini ed occidentali, numerava i possedimenti coloniali, i duci illustri, i navarchi insigni sui mari, da. Tedisio Doria a quel « nautarum princeps, Oceani domitor ille Columbus, Christophorus inquam », i pontefici, le parentele di famiglie genovesi con sovrani ed imperatori, i (1) Federico Federici, Lettera nella quale si narrano alcune memorie della Repubblica genovese con le postille e prove in fine di essa, ampliate e riviste dallo stesso autore. Genova, per Gio. Maria Farroni, Niccolò Pesagni e Pier Francesco Barberi compagni, 1041. L'esemplare della K. Biblioteca Universitaria di Genova ha note marginali ed aggiunte di mano dell’autore. (2) Pietro Battista Burgo, De dominio serenissimae Genuensis Reipuhlicae in Mari Ligustico, Romae, Dominicus Marcianus, 1641. 90 RAFFAELE CI ASCA 1 concittadini illustri nelle lettere, nelle arti, nel commercio, nella vita civile. Tutto ciò come premessa alla conclusione che la dignità della repubblica « regia agnoscatur » t1). Pochi anni dopo, G. B. Yeneroso riprendeva gli stessi motivi, dimostrando che i genovesi non furono mai sudditi, nè « soggiogati da veruno » (2) ; Gerolamo De Marinis (3) e Gualdo Priorato (4) contrapponevano alFoscurantismo barbarico gli splendori di Genova. Ed un oscuro verseggiatore, Pao- lo Ronca giganti cantava in terza rima la congenita libertà di Genova: « Libera nacque, e visse in libertade », — « .... e lo sarà finché sarà l’aurora — nunzia del sol, perchè incapace il fato — la fece di servir, nè per breve hora » (5). Buona occasione per affermare la propria sovranità, sembrò la pubblicazione della celebre bolla di Urbano ottavo del 1630, che faceva obbligo a tutti, salvo che alle teste coronate, di attribuire ai Cardinali, agli Elettori ecclesiastici, al Gran Maestro dì Malta il titolo di Eminenza. Il governo genovese che da alcuni decenni aveva cominciato a dare titolo di « serenissimo » al doge (6), si affrettò a dichiarare la repubblica testa coronata, avendo questa a lungo governato i regni di Cipro e della Sardegna, ed essendo tuttora signora della Liguria e del regno di Corsica ; e poco dopo insorto qualche dubbio sulla fondatezza di quell’argomentazione, dispose che non avrebbe inviato ambasciatori di obbedienza ai nuovi Pontefici, se questi non venissero ricevuti, per la pubblica udienza, non già nel solito posto, ma nella « sala regia ». Analogo atteggiamento tenne Venezia — emula anche in questo di Genova — perchè già padrona di vastissime contrade in Levante e tuttora in Terraferma e signora di Candia. Il duca di Savoia, avanzando suoi diritti antichi sul re- (1) Pietro Battista Burgus, De dignitate Serenissimae Genuensis Rei pu-blicae disceptatio, Genuae, I. M. Farronus, 1G4G, pp. 09-102. (2) Venero so, Genio Ligure risvegliato, Genova, G. D. Peri, 1050, pp. 4-5. (3) Hieronimus De Marinis, Genuae sive Dominii, Gubernationis, Potentiae. Dignitatis Rei publicae Genuensis, Genuae, P. I. Calenzanus, 1666. (4) Gauleazzo Gualdo Priorato, Relatione della città di Genova e βμο Dominio, Colonia, Pietro de la Place, 1668. (5) L'epitome de’ successi più memorabili della serenissima repubblica di Genova, di Paolo Roncagiganti, un verseggiatore cui se mancò l’estro poetico, non fece difetto l’arnor patrio, è stampato in fondo alla Carta del Ilustrissimo Seiior Federico Federici, en que se refieren algunas memorias dQ la republica, de Genova\ con jrruebas y anotationes en Castellano. Lisboa, en la Officina de Henrique Valente de Oliveira impressor del Rey, 1659. La Carta altro non è che la traduzione della Lettera del Federici, cit. nella nota 5; e, come risulta dal carteggio del Paggi esistente nel R. Archivio di Stato di Genova, fu eseguita, dietro suggerimento di Carlo Antonio Paggi, console genovese a Lisbona, da Nicola Micone, capo di una importante casa commerciale di quella città. (6) Esattamente nel 1587. Cfr. Accinelli Fr. M., Compendio delle storie ■di Genova, dalla sua fondazione sino all’anno 1ΊΊ0. Genova, presso l’editore Angelo Lertora, Piazza Serra vicino a Campetto. 1851, vol. I, pag. 98. AFFERMAZIONI DI SOVRANITÀ DELLA REPUBBLICA DT GENOVA ECC. 91 gno di Cipro, rizzò il diadema regio sulle sue insegne ed impresse sulle monete il titolo di Re di quell’isola. Nè da meno volle essere il Granduca di Toscana, in quanto sovrano di Pisa già signora della Sardegna. Ma il passo decisivo, nel senso di spezzare tutti i vincoli di formale dipendenza, fu compiuto dal governo genovese nel 1637, allorché acclamò la Vergine Maria « signora e regina della Repubblica Serenissima e di tutti i suoi stati ». Genova attraversava allora un difficile momento politico. Tesi erano i suoi rapporti finanche con la Potenza che veniva riguardata come l’unica amica, la Spagna. Questa era diventata intrattabile e prepotente. La. sua armata, due anni prima, aveva scorazzato da padrona fra Vado e La Spezia, si era inoltrata fino alla Corsica, aveva catturato navigli francesi carichi di mercanzie destinate a Genova. Il governo genovese aveva reclamato presso il Re Cattolico e dimostrato quanto ingiustamente fossero predate quelle navi. Portando la questione davanti a-1 tribunale della pubblica opinione, un giure-consulto della repubblica, Antonio Maria Malagamba, con argomenti e autorità di leggi e^ di scrittori aveva dimostrato che la pretesa delParmata spagnola di corseggiare nel mare Ligustico, ancorché rizzasse bandiera propria e recasse commissioni imperiali, era pregiudizievole alla sovranità della Repubblica (*). Il Re Cattolico, non volendo arrendersi all’evidenza di quelle argomentazioni, si appigliò al comodo e dilatorio espediente di deferire Pesame della controversia al Consiglio d’Italia. Appena due anni dopo, si fu daccapo. Nuova e più grave violazione per la cattura di navi olandesi nelle acque territoriali della repubblica. Ancora una volta, la Dominante oppose i suoi reclami, chiarì i suoi diritti sul mare Ligustico e sul Finale, affermò la sua libertà e indipendenza di fronte alla Spagna ed a qualunque altra terrena autorità. (continua) Raffaele Ciasca (i) Casoni, Annali della Repubblica di Genova del secolo XVII, Genova, Casamara, 1800, vol. V, pagg. 225-226. PAOLO GIOVIO E GENOVA In quella· specie di viaggio attraverso la penisola intrapreso da Paolo Giovio verso Tanno 1528, allo scopo di una ricognizione e rassegna delle più insigni dame e delle amorose usanze del tempo — viaggio ossia rassegna che forma il contenuto dell’inedito dialogo « Intorno alle donne illustri » (3) — anche Genova ha, naturalmente, il suo posto. E tal posto è anche di notevole importanza per quanto si riferisce al costume in fatto di rapporti sessuali, sapendosi come la vita in Genova, nel secolo della Rinascita, abbia presentato — appunto in materia di rapporti tra i due sessi — lati particolarmente interessanti. I quali potrebbero anche essersi protratti nei secoli successivi, dando luogo nel Settecento a manifestazioni che meritarono alla Superba lo scettro della galanteria italiana, così come offersero al cicisbeismo un terreno più d’ogni altro propizio al suo sviluppo. Ben meritano perciò di essere conosciute le pagine scritte dal Giovio su tale argomento, costituendo esse un documento di notevole valore e interesse, sia per la fama dello scrittore sia: per la curiosità e la autenticità delle cose descritte. Non sarà però inopportuno, avanti di riprodurre quelle pagine, di accennare quali furono le relazioni del Giovio con Genova. Parecchie volte lo storico comasco visitò la metropoli ligure, ammirandone le singolari attrattive della posizione e dell’edilizia. Se ne ha una prova, anche nel dialogo intorno alle donne insigni, dove il panorama· della città e Pornamento delle ville sono efficacemente descritti : « Costruiscono (i Genovesi) con passione inesauribile e spese folli, in angusti poderi e luoghi aspri, ville eleganti e meravigliosamente le abbelliscono con boschi di alberi salutiferi e cedri e con verdeggianti aiuole di giardini. Di esse tanto, nel raggio di quattro miglia, è fitto il numero che a coloro che navigano verso il porto e che dall’alto mare s’avanzano con rotta perfettamente diritta, sembra di vedere una sola città ininterrotta e grandissima, cinta dalle sue mura. È anche la città imponente per l’alta rocca, insigne per l’altezza delle case e dei campanili, e bellissima per il curvo molo, pieno di movimento e sul promontorio di sinistra ostentante, con le macerie dell’abbattuta rocca, la ricuperata libertà e in fine, per (i) Cfr. quanto su tale opera del Giovio scrissi in «Roma», XI (1933), pp. 501-516; «Archivio Veneto», XV (1934), pp. 130-156; «Nuova Rivista Storica, XX (1936), pp. 347-362. PAOLO GIOVIO E GENOVA 93 tutta la prospettiva, sia del superbo porto sia dell’adorno lido, così degna d’ammirazione, che non senza ragione chiamarono Genova la Superba, coloro, che per giuoco diedero alle più illustri città d’Italia adatti soprannomi, ispirati dalla realtà ». Osservatore attento dell’indole del popolo ligure e conoscitore esperto della vita e delle imprese di esso, il Giovio, come ammirava l’intraprendenza e l’ardimento in mille occasioni dai Genovesi dimostrati, così ne deprecava, la fatale tendenza alla divisione in partiti e l’accanimento nelle lotte politiche. Scriveva infatti, al principio delle « Istorie»: « .... i Genovesi, scorrendo già tutti i mari, lasciando per tutto testimoni] di chiarissime vittorie, per ogni tempo in gloria navale avanzarono l’altre nationi, mentre che in casa seditiosi e discordi furono sommersi da crudelissime onde di par-tialità____ Travagliati così dalla discordia e indebolite le forze, finirono per perdere la libertà e Lodovico Sforza stabilì la propria signoria e tenne la propria guardia nella rocca.... » p). Nè meno che nelle vittorie della flotta e nel valore delle ciurme -e degli ammiragli, s’a-ttestava la. gloria navale dei Genovesi nell’ardimento dei navigatori, tra i quali la grande figura dello scopritore del Nuovo Mondo splendeva già allora in luce immortale. Movente alle grandi esplorazioni da questo compiute era stato, secondo il Giovio, un nobile desiderio di gloria congiunto ad un profondo amor di patria. « D’ingegno superbo, e ostinato » si legge nella pagina dedicata negli « Elogi » a Colombo, invidiava a Francesi e Portoghesi la gloria d’importanti scoperte geografiche, « havendo per male che i Genovesi, i quali d’antica riputatione, et lode di disciplina navale avanzavano tutte le nationi, preoccupato l’ardire dall’altre, fossero spogliati dell’occasione d’acquistarsi un gran nome ». E 1’« elogio », che è tutto una efficace narrazione della straordinaria impresa, il Giovio concludeva con queste memorabili parole : « Talché il Colombo in ogni modo può parer degno d’essere honorato da’ Genovesi (i quali hoggi più tosto si maravigliano delle cose presenti che delle vecchie) d’una bellissima statua in Genova ». In attesa del monumento (che doveva aspettare ancora più di tre secoli) il Giovio, che, nel suo Museo, raccoglieva i documenti iconografici dei più grandi uomini dell’antichità e dei tempi successivi, provvide a. mettersi in possesso d’un ritratto del grande scopritore quanto più fedele al vero. E vi riuscì, ottenendolo per mano di bravo pittore, in modo che esso è tuttora il ritratto più veritiero dell’immortale Genovese giunto sino a noi e forma ima delle maggiori preziosità del Civico Museo di Como. Se non consta che il Giovio abbia personalmente conosciuto il (i) Giovio P., Istorie. P. I (Venezia, 1555), p. 0. 94 CARLO VOLPATI Grande Navigatore, personale conoscenza, anzi amicizia, egli strinse però con molti altri illustri genovesi del suo tempo. Fra essi al primo posto possiamo ricordare Andrea Doria. Del quale il Giovio, insieme coi molteplici meriti d’ammiraglio, assai apprezzò anche l’opera politica, specialmente quello che il Doria — passato nel giugno 1528, col patto della libertà di Genova, alle parti di Carlo V imperatore — compì con la riforma delle leggi della repubblica, assicurando con la sua autorità di primo cittadino, anzi quasi di signore, la pace tra i vari ordini e le varie fazioni della cittadinanza. Di ciò a, lungo discorre il Giovio nelle « Istorie », analizzando le circostanze esteriori (tra cui il disegno della Francia di fare di Savona un proprio porto) e i motivi ideali che determinarono la grave decisione. Fra i quali ebbe massima importanza l’amore del Doria per la patria: egli voleva, sì, «cacciare i Francesi dalla città, ma non perciò mettervi un nuovo principato, nè di casa Fregosa. che prima egli aveva tanto favorita, nè di Adorni, che pareva aver odiato, ma- « acciò che, rifiutata ogni signoria straniera, la patria stata lungo tempo afflitta e oppressa dalle discordie civili, non vi mancando mai tiranni, bora col mezzo di lui in libertà ritornasse ». Determinato nei cittadini, col proprio arrivo in Genova, un fermo proposito di concordia, il Doria un altro felice successo subito dopo ottenne e fu la vittoria su se stesso, quando, eccitato da alcuni dei primi cittadini a farsi signore di Genova, egli seppe, soffocando la voce dell’ambizione e dell’interesse personale, rifiutare quel « grandissimo dono ». « Egli giudicava — spiega il Giovio — che non vi fosse cosa alcuna degna di più vera lode, nè di più honorata dignità, nè finalmente più ferma, e più splendida alla felicità del resto della vita, che dopo bavere di sua mano gittato a terra il giogo d’una lunga servitù, dirizzare in piazza, et nella memoria degli huo-mini un trofeo della sua eterna cortesia verso la patria liberata da lui » (2). Con entusiasmo più che mai vibrante il Giovio esprimeva al Doria la sua ammirazione e il suo plauso negli Elogi, a lui rivolgen dosi con questa veemente apostrofe : « Guardivi lungo tempo Iddio, fortunato vecchio, illustre per la suprema gloria d’haver messa in libertà la patria vostra, perpetua e invitto nemico de’ corsali, e celebrato per molte vittorie acquistate in mare. Iddio vi conservi, e vi mantenga nella fortezza di questa vigorosa vecchiezza. Percioché credesi che voi siete nato per beneficio dell’immortale Iddio alla difesa della contrada marittima, il quale unico consideratore del cielo e delle nuvole, havete rivelati a questo secolo i decreti della disciplina navale ; insegnandoli con (1) Giovio P., Istorie (ediz. cit.), pp. 88-92. PAOLO ίίΐυνίο E GENOVA 95 quali artificii essi potessero sprezzare la furia del mare adirato, e le minacce de’ venti crudeli, i quali ardiscono ancora entrare in mare nella terribile stagion del verno. Restavi liora questo per l'ultima fatica, che secondo la, vostra antica virtù, vigilanza e pietà, ha vendo voi fatta la patria vostra veramente libera, e fiorita di ricchezze, e cancellati i nomi de gli antichi tiranni ; mantenendo hora in concordia i cittadini, lungo tempo la conserviate e la facciate salva e ben avventurata » (x). Con viva simpatia il Giovio considerava anche il nipote di Andrea Doria, Gianettino, il quale per tempo aveva mostrato — combattendo contro i Turchi e i Barbareschi e nell’impresa di Algeri (1541) contribuendo a salvare le truppe imperiali — ottima tempra di soldato, animoso ed accorto. La sua morte perciò, avvenuta uel gennaio 1547, per un colpo d’archibugio tiratogli da chi, per invidia di rivale — o per ragioni intime, gli era nemico — destò nella maggior parte sdegno e rimpianto. Il Giovio, che dovè provare tali sentimenti con particolare intensità, volle trascrivere in un suo zibaldone l’epitaffio del prode uomo d’arme, così formulato: Joannei Ligurum invictae Dux Auria classis A consanguìneo sibi Principe commendatae Hic situs est. Tutum mare praestitit, impia mersit Navigia, hesperios late infestantia tractus. Nunc illum scelerata inimici fraude peremptum Aeternum mœrens jxitria, et domus inclyta luget. Un altro uomo politico, per il quale il Giovio ebbe molta ammirazione e grande amicizia, fu Gerolamo Adorno. Lo ricorda spesso nei suoi scritti, chiamandolo ora « divini ingenii vir », ora « liuomo .singolare per virtù d’animo e per isperienza delle cose di guerra », ora « huomo di grandissimo valore », ora « giovane di grande virtù, e perciò d’incomparabile aspettatione ». Com’è noto, l’Adorno, dopo avere insieme col fratello, lottato aspramente contro i Fregoso per la supremazia nella città natale, s’era dal 1520 povsto ai servizi di Carlo V, al quale aveva saputo, nel 1522, evitare l'ostilità di Alfonso d’Este e l’anno dopo, a \renezia, si era efficacemente adoperato per procurare l’alleanza della Repubblica. A Venezia il Giovio si trovava pure in quel tempo e ciò fu occasione per lui onde rinsaldare il vincolo d’amicizia con l’illustre Genovese. Anzi, quando verso il 10 marzo l’Adorno ammalò, egli prestò anche all’amico la sua opera di medico. Non ebbe però la consolazione di vedere le sue cure coronate da successo, chè, dopo appena una diecina di giorni di degenza, l’Adorno, ancora in giovane età, cessò di vivere. Ai di (!) Giovio IV, Elogi.... dii uomini..., di guerra (Vinegia, 1557), pp. 336-7. 96 CARLO VOI PATI lui funerali, che ebbero luogo il 22 marzo, il Giovio prese parte, come « corozoso », stando dietro il feretro, al fianco del vicedoge Andrea Magno. Per PAdorno il Giovio compose anche un’impresa e le circostanze in cui ciò avvenne sono dallo stesso scrittore comasco così narrate (*) : « Esso, come giovane arditamente innamorato d’una gentil donna di bellezza e pudicizia rara, la quale io conosceva, et an-chor vive; mi richiese ch’io gli facessi un’impresa di questo tenore, che pensava e temeva per certo, che l'acquisto delPamor di costei, liavcsse a esser la contentezza e '1 principio della felicità sua; o che non Pacquistando fusse per metter fine a’ travagli, che haveva sopportati per Paddietro, sì di questo amore, come delPimprese di guerra e prigionia'con affrettargli la morte». Il Giovio, ispirandosi ad una nozione attinta in Giulio Obsequente, immaginò un’impresa ov’era raffigurato il fulmine e il motto expiabit aut obruet. L’impresa piacque molto alP Adorno, fu lodata dal N a vager o, disegnata a colori dal Tiziano e ricamata da Angelo di Madonna, poco prima della morte dell’Adorno. Del quale una benemerenza di cui il Giovio dovette far gran conto è quella dallo stesso Giovio ricordata a proposito della presa di Genova da parte del Marchese di Pescara (2). « Opportunamente ancora essendovi egli corso, pregandolo e scongiurandolo di ciò, il sig. Gierolamo Adorno, fu salvato il Catino di quel grande e mara-viglioso smeraldo, il quale si conserva nella sagrestia della chiesa maggiore». Si allude al « sacro catino » di cristallo verde, già creduto di smeraldo, col quale, secondo la tradizione, sarebbe stata consumata la Sacra Cena. I Genovesi se ne sarebbero impadroniti alla presa di Cesarea nel 1101 durante la prima crociata e lo conservano tuttora nel tesoro della Cattedrale ricomposto però ccn arte, essendo andato in pezzi al ritorno dalla Francia, dove l’aveva mandato il primo Napoleone. Dico che il Giovio faceva gran conto delPaccennato intervento delPAdorno, perchè, come del resto tutti al suo tempo, considerava, il « catino » una delle maggiori preziosità esistenti nel mondo. E nello stesso dialogo « sulle donne insigni » (p. 23) facendone menzione come termine di similitudine per chiarire un concetto riguardo al valore della pudicizia femminile, così lo descrive: « Ha la forma d’una coppa a- sei angoli con piccoli manichi sporgenti dall una e dall’altra parte, col fondo coronato "di bellissimi cerchietti e di straordinaria capacità e tutta meravigliosamente trasparente agli orli parimente larghi e di fuori e di dentro egregiamente polita, così. (1) Giovio P., Dialogo delie imprese (Lyone, 1574), p. 84. (2) Giovio P., Vite di.... huomini illustri (Venetia, 1561), p. 204. PAOLO GIOVIO E GENOVA 97 che sembra superare del tutto una spesa di fasto regale e ogni follia di stima umana ». Eppure, continua il Giovio, « quella tazza così famosa e gemma così ammirata, che si crede generalmente superare da sola la ricchezza di tutti, non riuscì mai d’aiuto in alcuna difficoltà dello Stato, che agli occhi di tutti è sospetta l’insolita grandezza della preziosissima gemma e del bellissimo piccolo vaso, nè, per l’entità dell’immenso valore, si può levare il sospetto dalle menti degli uomini ». Veramente si narra (*) che una volta, cioè nel 1319, quando Genova fu assediata dai Ghibellini, avendo la necessità di difendere lo stato obbligato a ricorrere a prestiti, il sacro catino fu impegnato presso il cardinale Luca Fieschi per la somma di 9500 lire, equivalente a 1200 marchi d’oro ; ed undici anni dopo lo si svincolò col pagamento di quella somma. Amici affezionati e costanti furono al Giovio anche Ottobono e Sinibaldo Fieschi. Col primo l’amicizia si stabilì quando essi erano ancora giovinetti, risalendo l’inizio suo al tempo in cui il Giovio — come è accennato nello stesso Dialogo sulle donne illustri (p. 48) — fece in Genova parte de’ suoi studi. Ottobono divenne poi sacerdote, « nobilissimo e ottimo », come dice il Giovio, il quale, nel libro Dei pesci romani, ricorda che una volta egli fu ospite in casa di Ottobono, partecipando ad un banchetto di gentildonne, nel quale « lor fu messa davanti una lecchia lunga tre cubiti » (2). Segno dell’intima relazione d’affetti che unì lo storico di Como coi due Fieschi ci restano anche le imprese che il primo compose per quegli illustri suoi amici. Di quella composta per Sinibaldo — che era in materia d’amore, « il quale fiorisce meglio per la pace dopo la guerra » — il Giovio stesso c’informa diffusamente (3) : « Amava questo signore » egli ci racconta « una gentildonna, et ella era incominciata a entrare in gelosia, veggendo che il S. Sinibaldo andava molto intorno, all’usanza di Genova, burlando trattenendosi con varie dame. La onde gliele rinfacciava spesso ; dolendosi della sua fede, di come poco netta, e leale. E volendo egli giustificarsi appresso di lei, mi richiese d’un’impresa a questo proposito. Et io gli feci il bussolo della calamita, appoggiato sopra una carta da navigare, col compasso allegato; e di sopra il bussolo d’azuro a stelle d’oro il ciel sereno, col motto che diceva : aspicit uxam. Significando che, se ben sono molte bellissime stelle in cielo, una sola però è guardata dalla calamita ; cioè, fra tante, la sola stella della tramontana. E così si venne a giustificare con la sua Dama, che da lui era amata iidelmente ; e, che quantunque egli andava vagheggiando delFaltre* (*) Bossi C.. Observations sur le sacro catino (Turin, 1807), p. XIX. (2) Giovio P., Lettera sul vitto umano (Como, 1808), p. 5. (3) Giovio P., Imprese (ediz. cit.), p. 90. \ 98 CARLO VOLPATI non era per affetto, ma per coprire il vero col simulato amore. L’im presa parve anche più bella per la vaga vista, e fu assai lodata da molti, e fra gli altri dal dottissimo M. Paulo Pansa suo segretario ». Che anche sia stato in relazione con Paolo Giovio, Ottaviano Fregoso, non risulta. Anzi, tenuto conto che egli fu avversario del-ΓAdorno, dal quale fu poi spodestato, parrebbe poco probabile. Di lui parla il Giovio naturalmente in varie occasioni nelle Istorie ed è notevole che, seppure con qualche riserva, lo giudica « uomo d'animo intero, e costante », « huom d’eccellente ingegno, et instrutto in molte buone arti ». Anche d’un’impresa del Fregoso, assunta durante la guerra di Bologna e Modena, il Giovio c’informa. Consisteva in « una gran filza della lettera O nero in campo d’oro, nel lembo dell’estremità delle barde »; erano degli zeri e volevan significare che, mentre da- soli non valgon nulla, preceduti da un numero, assumevano valore di milioni. Il che era anche espresso con la frase: « Hoc per se nihil est, sed si minimum addideris maximum fiet ». Voleva con ciò significare che « con ogni poco d’aiuto, liaverebbe ricuperato lo stato di Genova il quale fu già del S[ig.] Pietro suo padre, e vi fu ammazzato combattendo; essendo S. Ottaviano al-l’hora come fuoruscito, quasi niente appoggiato al Duca d’Urbino, ma in assai aspettatione d'esser rimesso in casa come fu pei da Papa Leone.... » (*). Il che, come ognun sa, avvenne nel 1513, (quamdo. vinti i Francesi e cacciato il governatore Antoniotto Adorno, Ottaviano fu fatto doge. Numerose, come è naturale, le conoscenze del Giovio con gli uomini di lettere, tra i quali il Bracelli e Agostino Giustiniani. Parlando del primo, autore di una storia della guerra di re Alfonso « in stile assai più grave di quello di quanti scrittori erano stati poco prima di lui », il Giovio prende occasione per esprimere un interessante giudizio circa le attitudini dei Genovesi in fatto di lavoro letterario : « Si vede apertamente pe '1 chiaro essempio di costui, che gli ingegni de’ Genovesi non sono però così aspri, che con lo studio delle tenere Muse non si possino alle volte render molli ; quantunque da molti sieno assomigliati a duri sassi di quella lor’indiavolata regione.... » (2). Un merito riconosce poi il Giovio ai Genovesi riguardo allo studio ed all’uso del latino in Italia, che, rilevando lo stato di decadimento in cui esso si trovava (a Venezia si trattavano in volgare le cause giudiziarie e i municipali scrivevano in volgare leggi, trattati, ecc.), osserva : « .... uni prope Ligures Latinae linguae consuetudinem in publicis et privatis rationibus servant, quum aliter cor· (1) Giovio P., Imprese (ediz. cit.), ι>. 83 sgg. (2) Giovio P., Le iteriti ioni sotto le i mar/ini degli h uomini famosi in lettere. trad. da Hippolito Orio [Venetia, 1558), p. 230. PAOLO GIOVIO E GENOVA 99 ruptissimi sermonis patrii sonum tam paucis elementis exprimere nequeant ». Le Muse non pare che abbiano reso molle Agostino Giustiniani, frate domenicano, poliglotta. Pubblicò la Bibbia in ebraico, greco e caldeo, profondendo grandi somme di denaro, ma senza ottenere molta lode, che, come informa il Giovio, quegli « altissimi volumi » trovarono rarissimi compratori. Divenuto vescovo di Nebbio, il Giustiniani compose la storia di Genova, ma anch’essa non ebbe lieto esito: anzi il suo autore fu « da ognuno biasimato per la troppa fretta, con cui l’aveva data alle stampe ». Un’ultima jattura gli capitò navigando da Genova in Corsica : durante una tempesta non fu più veduto, nè si seppe se fosse caduto in mare o preso dai corsari (*). Conobbe il Giovio anche Filippo Sauli, vescovo di Brugnato, col quale doveva sentirsi in particolare armonia di gusti e tendenze. Egli era infatti « umano e mite d’indole e lontano dalla triste severità d’una- vita troppo religiosa, nè alieno da quella soavità di eleganti studi della quale, nell’azione delle umane cose, gli uomini nobili e d’animo soprattutto tranquillo si dilettano con lode ed onesto piacere » (2). (continua) Carlo Volpati (1) Giovio P., Le iscrittilo ni etc. (c. s.), p. 243. Del Giustiniani il Giovio fa menzione anche nel « Dialogo sui poeti » (edito dal Tiraboscuii nel t. Ili [Modena, 1792] della Storia della letteratura italiana, p. 1703) ma solo per dichiarare d’averne letta l’opera « ingenio multoque labore excusam ». (2) Giovio P., Dialogo sui poeti (1. e p. cc.). Λ POSTILLE TOPONOMASTICHE LUNIGIANESI, III* TALAVORNO, NON TAVOLORNO Chi legga il recente bel volume che la Banti ha dedicato a Luni e al suo territorio (*) incontrerà di frequente come nome di luogo Ta/i)olorno (2), che figura per di più in una cartina archeologica inserta nel libro (3). Ma Tavolonio non esiste : o meglio esiste unicamente nelle carte dell’istituto Geografico Militare (4). Di lì è passato in qualche scritto, e finalmente nel volume della Banti. È strano però che la signorina Banti, la quale nel lavoro citato e in altri minori (5), della toponomastica tiene pur conto, non si sia accorta dell’errore. C'è invece una località di nome Taìavorno, che fa parte della frazione di Groppoli in comune di Mulazzo, noto, se non alle carte dell'istituto Geografico. Militare, a tutti i repertori dei comuni del regno d’Italia e delle loro frazioni (6). (*) La I su « Le vanto non Lèva ufo » fu pubblicata nelle « Memorie dell’Accademia Lunigianese di Scienze», a. XIV. 1933. La II apparve, sotto il titolo Nochmals iiber Ber su la, nella « Zeitschrift fiir Ortsnamenforschung » di Monaco, B. XI, 1937. fase. I, pagg. 111-112. i1) Luisa Banti, Luni. Firenze, 1937. (2) V. alle pagg. 23. 27, 171, 17S, e indice s. v. (3) Alla pag. 24. (4) V. specialmente la carta Mulazzo, Foglio 95 della Carta d’Italia 1 al 25000 (I N E), 1877, ingr. da 50000, ricon. 1904. Costituisce il n. 148 (pag. 30) del Saggio Bibliografico di Cartografia Lunigianese di U. Mazzini; La Spezia, 1923. Estr. dalle « Memorie dell’Accademia Lunigianese di Scienze ». IV, 1923. fase. I. Così in tutte le altre carte dell’/stituto Geografico Militare. (5) Nella II parte del vol., spec. alle pagg. 59-66, e nello studio Via Pia-<‘cntia-Lucam, in «Atene e Roma», 1932, ma su cui v. anche quanto ha scritto I’Oliyieri, in « Bollettino Storico Piacentino », XXIX, 1934, fase. I. (6) Ho qui fra mano il Xuovissimo Dizionario dei Comuni e Frazioni del Regno d’Italia compilato da A. Gnaccolini e A. Sghdeppati sui dati del censimento del 1911; Milano. 1913. V. a pag. 712. L'ufficiale addetto alla compilazione della carta probabilmente intese Ta-lavorno come una forma dialettale errata di un derivato da « Tavolo » e la.... corresse nel modo che sappiamo. Ma anche presso gli altri cartografi il n. di Taìavorno non ha avuto fortuna: o lo si è dimenticato, o lo si ha regolarmente storpiato. Nella carta, ad es., che va unita al volumetto del filattierese D. Bernakdo Zampetti, La geografia e la scoria.... della provincia di Massa POSTILLE TOPONOMASTICHE LUNTGIANESI 101 È Taluvorno un ridente villaggio allineato nel piano di Groppoli sulla riva destra della Mangiola, un po’ al di sotto del punto in cui il rio di Cra villa (detto più in alto rio di « ceragós »), influisce nella Mangiola. Le sue case presentano segni d’antichità; due di esse sono decorate da rustiche, ma graziose sculture del secolo XVII. Il villaggio, che è attraversato dalla strada che congiunge 1’Annunziata e quindi Pontremoli con Villafranca (*), strada che ora ha perduto assai dell’antica importanza, di fronte all’altra che corre invece lungo il fianco sinistro della Magra, deve la propria origine alla sua posizione presso gli antichi guadi della Mangiola e della Magra. Ad ogni modo questo territorio fu abitato già in epoca molto antica : infatti è proprio a Talavorno che furono trovate in vari tempi numerose tombe a cassetta — l’ultima scoperta è del 1917 (2) — che la Banti attribuisce all’immaginario Tmolorno (3). Ma è proprio sul nome di Talavorno che vorrei attrarre l’attenzione dei lettori, in quanto esso è uno dei più rari e meglio conservati rappresentanti degli strati toponomastici preindoeuropei in Lunigiana. * * * Talavorno (dial. talavorrì) risale ad una base « mediterranea » *TALAYA « morphème de valeur topique » (*). *TALA (5), alternante con *TEL- (lat. TELUUS ; cfr. *NAVA, *NEVA « valle »), e Carrara, Parma, ISSO (— ignota al Mazzini, Saggio bibl., cit.), è divenuto: Talaverio. Non più fortunato è stato il nostro ni. presso il Repetti, di solito così accurato. Troviamo difatti Talavorno trasformato in Taìaverna, nel V voi. del suo Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana. Firenze, 1S43, pag. 499. O) Per questa strada e le altre vie di comunicazione della zona, v. : M. Giuliani, Note di topografia antica e medioevale del Pontremolese, Parma,, s. d., pag. 22 e n. 1; estr. dal vol. XXXV, N. S. dell’« Archivio Storico per le Provincie Parmensi ». (-) V. : U. Mazzini, La· necropoli apuana del Baccatoio nella Versilia, in « Memorie della Società Ijunigianese G. Cappellini », IV, 1923, fase. 1-2, pagina 70. V. a pag. 09 per altre scoperte archeologiche nello stesso Comune. Il Mazzini, che conosceva benissimo la Lunigiana, scrive regolarmente Talavorno. (3) C. Banti, Limi. pagg. 34, 171 e 17S. (4) Cfr. : V. Bertoldi, Problèmes de substrat, in « Bulletin de la Société de Linguistique de Paris», T. XXXII, 1931, fase. II. pag. 166; e C. Battisti, I derivati neolatini del mediterraneo j>r e indoeuropeo PALA. Udine, 1933, estr. dal «Ce Fastu? », a. IX, n. 1-2, pag. 8 deirestr.. nota 14. (5) Su questa base v. particolarmente: V. Bertoldi, Antichi filoni nella toponomastica mediterranea incroeiantisi in Sardegna. in « Revue de Linguis tique Romane», IV, 192S, pagg. 222-250; Problèmes de substrat, cit., pag. 99, n. 1, 150-152; Relitti etrusco campani, in «Studi Etruschi», VII, 1933, pagina 289 n. ; B. Gerola, ne «L’Universo», XVII, 1935, pag. 65; C. Battisti, La posizione linguistica delVEtrusco, in «Scientia», a. 29, maggio 1935, pag. 372; 102 P. S. PASQUALI con *TARA (( terra » (*) (questa, a sua volta, alternante con TERRA), a vrebbe il significato di « t e r r a ghiaiosa», «ghiaia d’alluvione» (2), appropriatissimo alla località ove sorge Talavorno. Quanto al formante locativo in -VA ; cfr. : *PALA — ^PALAVA (donde bavar. tirol. bal f en, paìven; li g. Paravenna) (3) ; CALA — la mia Toponomastica del Comune di Filattiera, Milano, 193S, n. «43; e Battisti, ne « L’Italia Dialettale », VIII, 1932, pag. 237. O) Y. partie. : C. Battisti, Tarraco-Tatracina e alcuni toponimi del Nuovo Lazio, in «Studi Etruschi», VI, 1932, pagg. 287-33S. V. anche: Alessio, La base preindoeuropea *Kar(r)a/*Gar(r)a, in « St. Etr. », IX, pagg. 4-5 del-l’estr., e pag. 20. L’alternanza l con r è frequente nelle voci preindoeuropee ; cfr. : SAL-, SAR-; TALPA, DARBO; BALMA, BARMA; KLAPP-, KRAPP-. Da *TARA nella toponomastica lunigianese s’ha Tarasco (dial. tavàsk) n. di una frazione di Dobbiana, che il Maocarone, Di alcuni parlari della Media Valle di Magra, in «Archivio Glottologico Italiano», XIX, 1923, pag. GG del-l’estr., § 20. derivava da un «terrasko »', vedendovi -àsJc- in applicazione quasi peggiorativa. Come Tarascj il nostro ni. figurava già nell’elenco dei nomi uscenti in -asca del D’arbois de Jubainvuxe; ed ora lo si ritrova in quello di André Bertjtélot, uell’art. Les Ligures, in «Revue Archéologique», S. VI, T. II, 1933, pag. 282. Analogo al nostro v. il ni. corso Tarasco, attualmente inidentificabile, ma figurante in giuramento di fedeltà a Genova prestato il 17 luglio 1289 da G. Cortinco; cfr.: Hi st. Patriaie Monum., T. II, pag. 211, e Xavier Poli, La Corse dans Vantiquité et dans le Haute Moyen-Age, Paris, 1907, pag. 31, η. 1. V. anche Gino Bottiglioni, Elementi prelatini nella toponomastica corsa, Pisa, 1929, pag. 42. Cfr. pure il cognome « Tarasco » a Genova .-Johannes Ta-rascus, in Chiaudano e Moresco, Il cartolare di Giovanni Scriba, Roma (Reg. Chart. Italiae), 1935, T. II, pag. 405, anno 1180. (2) Cfr. per questo sign. : Bertoldi, Antichi filo ni, cit., pag. 249; é Probi, de substrat, pagg. 150-152. (3) V. bibl. alla nota 5 della pag. precedente. Per le voci tirolesi aggiungi ora: B. Gerola, I nomi locali del comune di Laion, in «Archivio per l’Alto Adige », XXXI, 1930, P. I, pag. 205, n. 624, e pagg. 210-217, anche per nuovi dati bibliografici. Lo studio più importante su questa base è però sempre quello del Battisti, cit. (I derivati.... del med.... PALA). Sulle voci tirolesi, v. anche, per le notizie bibliogr. aggiornate fino al 1931, alle pagg. 21 e 27 della Bibliographie zur Ortsnaimenlzunde der Ost alpenlànder di Georg Buchner, I Fort-setzung, Miinchen, 1931. Dati bibliogr. Su PALA, posteriormente al lavoro, pubbl. nel « Ce Fastu? » del Battisti, v. : Siena Zambra, Ricerche di geografia linguistica italiana, Budapest, 1934 (0° dei «Lavori di linguistica romanza dell’Università di Budapest » diretti da C. Tagliavini), pagg. 8-9. Degli scritti antecedenti, con particolare riguardo al territorio dei Liguri antichi, v. : B. A. Terracini, Spigolature liguri, in «Archivio Glottologico Italiano», XX, 1920, sez. Goidanich, spec. alle pagg. 125 e 149. -Per PALA in Lunigiana, v. oltre il mio vecchio lavoro su II nome di Palmario,, in « Memorie dell’Accademia Lunigianese di Scienze », XI, 1930, fascicolo II ; il n. 343 della mia Toponom. del Com. di Filattiera, cit. ♦PALAVA + -ENNA; nella media Val Lerrone (com. di Garlenda) in quel d’Albenga; cfr.: Nino Lamboglia, Aravenna e Paravenna, in «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per la Liguria, Sez. Ingauna e Intemelia », II, 1930, fase. II, pagg. 285-2S9. Ma perchè non ^PARAVA + ENNA? POSTILLE TOPONOMASTICHE LUNIGIANESI 103 "CALAVA ; *CANDA — *CANDAVA (*) ; *MAR(R)A — *MAR-(R) AVA « slavino » > sardo mwragoni « fessura di roccia » (2) ; T ALA VA, T ALA VUS (in Sardegna, e nelPIberia) (3), ecc. ÿ*er il suffisso -omo (-URN-) (4) cfr. : Salorno « *SALA ; « canale »? (5) ; Taburnus monte (< *TABA « montagna » (6) ; Ga-vorno (74. Cfr. anche: Ribezzo, in «Rivista Indo-Greca-Italica », IV, pag .231; K. VON ËTTMAYER, Der Ortsfiam « Luzern », in « Indogermanische Forschungen », XLIII, 1925, spec. alle pagg. 19-20; Br. Guyon, in «Rivista Indo-Gr.-It. », X, 1926, pagg. 265-266; A. Trombetti, Saggio di antica onomastica mediterranea, in « Arkiv za arbanasku starimi, jezik i etnologiju»; Belgrado, 1926, a. Ili, fase. 1-2, pagg. 53 e 85 86 § 60; e del med. : La lingua etnisca e le lingue preindoeuropee del Mediterraneo, in « St. Etr. », I, 1927, pag. 333, (3) y. questo nome, spec. : Battisti, I nomi locali del comune dì Salarilo, Bolzano, 1935, pagg. 43-48. Sulla base SALA, e sul suo significato ancor oggi non ben chiarito, v. oltre lo scritto ora cit. : . Battisti, La voce prelatina SALA e le sue possibili sopravvivenze, in «St. Etr.», VII, 1933, pag. 266-277; Bertoldi, Probi, de substrat, cit., pag. 161; C. Tagliavini, Il dialetto del Li-vinallongo, Bolzano, 1934 (estr. dal T. XXVIII dell’« Arch. per l’Alto Adige »), pag. 176; Zambra, Ricerche, cit., pag. 21 e 40; Etel Nyitray, I nomi di luogo delle valli di Luson e di Funes( (Alto Adige), Bolzano, 1935, pag. 36, n. 109. (6) Della base ΤΑΒΑ mi occuperò prossimamente a lungo. Mi riserbo dì dare allora tutta la bibl. ad essa relativa. (7) Cfr. : Bertoldi, Gawa e derivati nelVidronimia tirrena, in « St. Etr. », III. Per le polemiche suscitate da questo scritto e per la bibl. ad esse relative v. al n. 454 della mia Topon. del Coni, di Filattiera. (β) V.: Probi, de substrat, cit., pag. 99; Battisti, I derivati.... di PALA, cit., pag. 6. 104 P. S. PASQUALI derivati di *TALA illustrati dal Bertoldi è morfologicamente isolato (*). Il caso geograficamente più vicino credo sia dato dal ni. Calavorno versiliese : (ponte «-), Calavurna in cat. del 1260 per cui il Pieri scriveva (2) : « Potrebbe essere calle fumi.... ridotto alla desinenza sng. fem. e poi alla maschile. L’a* di seconda prot. si spiegherebbe perciò, che la prima parte del composto, allorché il nome era ancor feminile, s’assimilasse alla seconda. Il vicino Fornoli del BMz. [Borgo a Mozzano] favorirebbe per avventura questo etimo. Ma viene a far concorrenza Vavorno v. laburnum ; onde avremo come a dire un cal [le] laburni. E come escludere poi che questo nome sia in parentela con Vornoy cui v.? Così un intimo senso m’induce a diffidare di tutte queste ipotesi ». E in ciò il Pieri aveva ben ragione, poiché Vorno par d’origine germanica (3), e Calavorno risale invece ad una. base *CALAVA < *CA~ LA, sul cui significato molto s’è discusso, ma che pare abbia voluto indicare : da un lato « slavino », dall’altro « pente abritée » « a-bri » (4). P. S. Pasquali (J) La base panni però poterla ravvisare in altri toponimi. Y. al n. 643. della mia Topon. del Com. di Filattiera. (2) Cfr. : Silvio Pieri. Toponomastica delle Valli del Serchio e della Lima, 2p βφζ., Pisa, 1937 (in «Atti della R. Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti», (N. S., T. IV), pag. 199. (3) Cfr. le forme antiche Eowurno ed Eov., Eo Yurno, Wur-n ο. V. Pieri, op. cit., pag. 224. (4) Sulla varia evoluzione semantica di CALA e dei suoi derivati, v. : J. Jud, Dalla storia delle parole lombardo-ladine, in « Bulletin de Dialectologie Romane», III, 1911, pag. 10-11; Paul Aebisoher, Études, toponomastiques valdòtaines, Torino, 1921, η. 1 Challant, pag. 5 (estr. da « Augusta Praetoria »,. nn. δ-6-7-8, 1921); e Albert Dauzat, Cala, dans la toponymie gauloise et espagnole, , in « Zeitschrift fiir Ortsnamenforschung », II, 1926, pagg. 216-221. Ma cfr.: Jullian, in «Revue des Études Anciennes», XXIX, 1927, pag. 310; e Auguste Vincent, Toponymie de la France, Bruxelles, 1937,^n. 235, pag. 09. P AGrANINI AN A L’AMBIENTE MUSICALE GENOVESE NEL SETTECENTO LA MUSICA IN CHIESA Il repertorio delle cappelle genovesi nel settecento, come ci rivelano in parte le musiche radunate nella Biblioteca del Civico Liceo Musicale Pareggiato « Nicolò Paganini », deve essere stato ampio e sceltissimo. Si potrebbe anche dire che vi furono accolti i più bei nomi della, musicalità europea del tempo, sebbene oggi alcuni tra i più significativi manchino all’appello. Le vicende attraverso le quali la raccolta è giunta sino a noi, e la certezza che tale raccolta non è Tunica nè la maggiore ci confermano l’ipotesi, confortata da altri indizi, che molti degli assenti di oggi furono allora presenti e bene in evidenza. Che la vastità e l’eccellenza del repertorio siano realmente funzioni della remota, assidua, intelligente preparazione artistica degli esecutori e dell’appassionata partecipazione del pubblico, dovrebbe essere senz’altro riconosciuto; ma riusciremo anche a trovarne qualche prova più convincente, o almeno cercheremo di dare un opportuno ed efficace risalto ai molteplici indizi su cui basano le varie ipotesi, segnalando di volta in volta le circostanze significative da cui l’indizio sboccia od è avvalorato. Una prova di notevole importanza, perchè capace di rendere più convincenti le constatazioni successive, ce l’offrono i minuscoli e rari accenni alla musica in Genova, reperibili nelle memorie di viaggio compilate da forestieri, venuti a visitare l’Italia nel settecento. Trascrivo quelli che sono riprodotti nel noto studio del Roberti, pubblicato in « Rivista Musicale Italiana », anno VII e Vili. Il padre domenicano Giovanni Battista Labat, che fu missionario alle Antille, ha visitato l’Italia nei primi anni del ’TOO, ed ha. narrato il suo viaggio nel volume « Voyages en Espagne et en Italie », Amsterdam, 1731. Egli ci racconta di aver assistito in Genova ad una messa solenne, la cui musica definisce « très savante ». Indubbiamente l’impressione che ne ha riportato deve essere stata molto profonda, perchè, rifacendosi a Lulli, esprime la sua convinzione che i francesi lianno imparato la musica dagli italiani. Ma anche l’esecuzione gli è rimasta bene impressa ; infatti, dopo una 106 MARIO PEDEMONTE breve digressione sul timbro indefinibile della voce di sopranisti e • contrattisti, constata la loro meravigliosa agilità nelle « roulades », e conclude: « Il y avait nombre de voix fort bonnes, mais ce qui me parut meilleur ce fut la symphonie ». Notevole in questo breve appunto Tac-cenno ai virtuosi dell’ugola, che in Genova furono sempre molto apprezzati; ma più interessante l’apprezzamento conclusivo riguardante gli strumentisti genovesi, i quali, già all’inizio del settecento, avevano costituito un insieme la cui mirabile fusione era riuscita più convincente dello smagliante virtuosismo canoro. Un identico parere esprime, molti anni dopo, il marchese d’Or-bessan, venuto in Italia verso la metà del secolo. Nel suo volume « Mélanges historiques », pubblicato a Tolosa nel 1768, vi è un capitolo « Voyage d’Italie », dove, parlando della musica sentita a Genova, dice: «La symphonie de l’orchestre est plus brillante que de coutume ». Naturalmente il vocabolo sinfonia assume in ambedue i casi il significato preciso di fusione orchestrale, senza tuttavia escludere la presenza di solisti eminenti, i quali, essendo veri artisti, capivano che la loro eccellenza brillava tanto più fulgida, quanto più compatto riusciva l’insieme. Infatti il Sig. Pierre Jean Grosley di Troyes, il cui viaggio si é compito tre anni prima di quello del marchese d’Orbessan, nelle sue « Lettres sur l'Italie » afferma che i violinisti genovesi suonavano « avec tous les harpégements et tous les demanchements », e che nelle chiese della Liguria « l’office a tout l’air d’un concert, chacun y chantant sa partie selon la portée de sa voix, et l'orgue formant par de sons pleins et soutenus la basse de toutes ces parties ». Ed anche questo si deve riconoscere un preciso riferimento alla; perfetta fusione delle esecuzioni. Infine il notissimo presidente Carlo De Brosses, che a Genova ha dovuto accontentarsi di sentire solamente un’umile orchestrina di teatro di prosa, ha trovato una frase densa di significato per confermare la mia interpretazione degli accenni precedenti. Egli ha scritto : « À Gênes j’ai commencé à goûter les plaisirs de la musique italienne », cioè a. Genova ha cominciato a sentire esecutori perfetti di nobilissima musica italiana. È vero, cotesti autori hanno serbato un ricordo incomparabilmente più vivo ed entusiasta della musica ammirata in altre città, in modo particolare di quella gustata a Venezia, a Roma, a Napoli, e per tali ambienti musicali hanno scritto pagine e pagine, accumulando notizie, dettagli, considerazioni, forse meno significative delle brevi frasi scritte per Genova, ma più ricche di spunti per il commento. Il fatto ha una spiegazione diversa e lontana dalla musica, che per ora è inutile indagare. Si potrebbe soggiungere che il barone di Montesquien ha lasciato scritto : « Les théâtres de Venise PAGANINI ANA 107 ne valent pas plus que ceux de la plupart des autres villes », ma non è il caso di insistere in confronti poco simpatici. Ammettiamo pure che le altre città d’Italia, e particolarmente Venezia, Roma, Napoli siano state e siano ancor oggi più musicali di Genova, ma non neghiamo una musicalità spontanea, nobile, intensa, fervida anche a Genova. La strana similitudine di Pierre Jean Grosley : « L’Italie peut-être comparée à un diapason dont Naples tient l’octave », ha un suo preciso riferimento a tutta l’Italia, quindi anche a Genova e Liguria, che hanno sempre vibrato commosse ed entusiaste nell’immenso diapason italiano. Un breve commento alle musiche di alcuni protagonisti nel repertorio delle cappelle genovesi potrà dare una base abbastanza solida alle ipotesi già formulate e a quelle che ci verranno suggerite da nuove concordanze probabili. La serie degli autori eseguiti nelle chiese di Genova durante il secolo decimottavo si inizia coi nomi di Arcangelo Corelli, Antonio Vivaldi. Nicolò Porpora, Alessandro Scarlatti, Giorgio Federico Haendel, Francesco Durante, Leonardo Leo. L’ordine non è stretta-mente cronologico, ma si dispone secondo le necessità del commento, il quale nota subito che la rappresentanza è innegabilmente significativa. Manca, è vero, Giovanni Sebastaino Bach, ma la cosa è spiegabilissima. Anzitutto il grande cantore di S. Tommaso fu il musicista tipico della chiesa luterana ; poi, durante tutto il settecento, la sua fama neppure in Germania fu quale egli si meritava; infine gli stessi suoi figli non si preoccuparono di diffonderne l’arte e la rinomanza. Ne vedremo tra poco una prova non dubbia. Mancano anche gli organisti francesi e particolarmente .Francesco Cou-perin, ma, siccome nella raccolta del Liceo Paganini la musica organistica è proprio poca, la loro presenza potrebbe esser rivelata da altri archivi finora efficacemente occultati alla curiosità del ricercatore. Di Arcangelo Corelli i genovesi radunarono quasi tutta la produzione, dimostrando però, come suggeriscono certi duplicati, una particolare predilezione per le sonate da chiesa col basso numerato per Porgano. Se i violinisti genovesi del primo settecento, e naturalmente i loro successori prossimi e lontani, avevano un’intima famigliarità colla musica; di Arcangelo Corelli, nè essi, nè il loro pubblico erano privi di gusto e di cultura musicale. Le composizioni del maestro, che fu veramente l’annunciatore dell’arte violinistica, e in questo caso il proverbio antico — nomen omen — è verificato in pieno, richiedono esecutori diligenti, intelligenti, coscienti; un pubblico di gusto fine, un ambiente spirituale elevato ; quindi Genova anche all’inizio del secolo, çhe vide nascere Nicolò Paganini, come fu prima e come fu poi, vantava un’aristocrazia musicale molto più numerosa e fattiva di quanto si suol credere. Se in più aggiungiamo 108 MARIO PEDEMONTE che nel settecento le chiese furono le uniche sale di concerto aperte al popolo italiano; e di questo ebbe allora la sensazione precisa appunto in Genova Pierre Jean Grosley, è lecito riconoscere nel popolo genovese un innato buon gusto musicale, se esso capiva, gradiva, sentiva la musica di Arcangelo Gorelli. Le stesse deduzioni si possono ripetere per i concerti di Antonio Vivaldi e le sonate a tre di Nicolò Porpora, che i violinisti genovesi nei loro programmi per le solennità religiose alternavano con le composizioni di G. Battista Somis, di Carlo Tesserini, di Giuseppe Matteo Alberti e di altri meno noti. Di Alessandro Scarlatti e di Giorgio Federico Haendel nella raccolta del Liceo Paganini, almeno per quanto riguarda la musica ila chiesa, si trovano soltanto poche pagine, forse improvvisate dai due maestri in Genova stessa, dove si sono indugiati alcuni giorni durante il loro viaggio attraverso le principali città del F Ita lia superiore (*). Queste poche pagine costituiscono certamente un omaggio richiesto da prima al solo musicista siciliano, allora famosissimo anche tra i genovesi, ma lo Scarlatti deve aver presentato il giovine, compagno con parole di così viva e sincera ammirazione, da far nascere nelPanimo di chi aveva richiesto l’omaggio il desiderio di ottenere dall’allievo quanto il maestro aveva di già concesso. L'ipotesi non è pura fantasia, sebbene la copia giunta sino a noi non sia autografa e sebbene non si possa ancora affermare se tali composizioni siano state e siano ancora una esclusività genovese. Limitando la considerazione alle sole composizioni di Giorgio Haendel, è facile constatare che la loro esuberanza, pur rivelando una scioltezza disinvolta, abile, sicura, le conferma opere giovanili e per «li più improvvisate. Ad ogni modo prendiamo subito nota che i genovesi conobbero, eseguirono e gustarono molta altra musica di Alessandro Scarlatti e di Giorgio Federico Haendel, e anche di Domenico Scarlatti, che certamente era della comitiva. Di quest’ultra musica parleremo più a lungo nelle prossime puntate trattando della musica da camera e ne riuscirà un’altra notevole constatazione di buon gusto e di fervore musicale in Genova. Francesco Durante, secondo un’opinione molto diffusa e 1m»ii radicata, è stato uno tra i più significativi rappresentanti della musica sacra italiana nel primo settecento; anzi Adelmo Damerini nel suo studio « Lo spirito della musica religiosa nei settecento italiano », afferma che solamente tre maestri di quel tempo, Francesco Durante, Antonio Lotti, Benedetto Marcello, hanno scritto musiche degne di essere classificate sacre. Indubbiamente la musica da chiesa di Francesco Durante si presenta con un’inconstieta austerità (*) Vedi 11 mio scritto: Settecentisti minimi: Antonio Mangiarotti, in « Kos* #eo occupa un posto ancora più significativo nel repertorio della musica da camera genovese, se sarà il caso, ne diremo più ampiamente i meriti nella prossima puntata. Il secondo gruppo di autori eminenti che i musicisti genovesi predilessero e fecero amare e preferire dal loro pubblico, comprende i nomi di Giovanni Battista Martini, Baldassare Galuppi, Giovanni Battista Pergolesi, Nicolò .Tornelli, Giuseppe Tartini. È spiegabilissimo che a Genova sia giunta subito la fama e la musica del dotto minorità bolognese, date le numerose case francescane sparse per tutta la Liguria. Potrei soggiungere che la musica La musica sacra di Balda**,are Galluppi, in ® Rassegna Dorica», au-.110 VI, n. 7. 110 MARIO PEDEMONTE sacra italiana del settecento lia nel Padre Martini il suo rappresentante più nobile eil ispirato, ma, come ho giù detto, questo argomento non è per noi di importanza capitale. Piuttosto possiamo mettere in relazione la musica, eminentemente corale, del Padre Martini col periodo del marchese di Orbessan, citato al principio di questa puntata e dedurre che le cappelle di Genova verso la metà del settecento vantavano 1111 complesso di cantori magnifico per potenza e fusione. La musica di Baldassare Galuppi fu certamente fatta conoscere a Genova dal suo allievo Andrea Adolfati, chiamato a Genova a diligere la cappella dell'Annunziata verso il 1750. Chi abbia chiamato PAdolfati a Genova resta per ora una domanda senza risposta. La Chiesa deir Annunziata era dei Padri Conventuali e solo nel 1783 S. 8. Pio VI l'ha dichiarata Chiesa gentilizia dei Lomellini, quindi si potrebbe concludere che Andrea Adolfati fu chiamato dai Padri Conventuali. Senoncliè si può ammettere che in precedenza la Chiesa godesse la protezione dei Lomellini e forse anche dei (.'biavari, allora proprietari del fastoso palazzo costrutto di fronte alla Chiesa, quindi il maestro sarebbe stato agli stipendi dell'ima o delPaltra famiglia e forse anche di ambedue. Ma vi è una circostanza che pare contrasti con questa seconda supposizione. Mentre nella raccolta, che mi suggerisce questi appunti, vi è moltissima musica sacra di Baldassare Galuppi, non ve n'è di Andrea di Adolfati, presente invece con molta musica profana, anche in duplice e triplice copia. Scartando l'ipotesi che Andrea Adolfati non abbia scritto musica sacra, oppure che tale musica sacra sia andata jjerduta, si può pensare che la musica sacra di Baldassare Galuppi e la musica profana di Andrea Adolfati, giunta sino a noi nella raccolta del Liceo Paganini, 11011 apparteneva alle famiglie protettrici deirAnnunziata, le quali non hanno permesso al loro direttore di cappella di far eseguire in altre chiese la musica scritta per la loro chiesa. Ilo già detto che le composizioni sacre di Baldassare Galoppi, che concorrono in modo straordinario a render preziosa la raccolta del Liceo Paganini, sono molte; soggiungo che sono tutte degne di studio e (ÏT ammirazione. Non credo necessario per ora trascriverne* l’elenco e abbozzarne un’analisi ; solamente dell'unico mottetto, esistente nella raccolta, forse il primo di una lunga serie composta da numerosi maestri posteriori, mi pare interessante trascrivere il testo e unirvi qualche riferimento alla musica, perchè tali coni posizioni, dati i molteplici cenni che se ne trovano un po' dapertutto, ebbero una grande voga in Genova e costituirono il pezzo di parata per i virtuosi dell’ugola, i quali, come I10 già detto, hanno certamente esercitato un irresistibile fascino sul giovinetto Paganini. Tali mottetti hanno preso il posto delle antiche sequenze, almeno così mi suggeriscono i testi che I10 raccolto, ma i poeti di questi sono ben altra cosa di quello che fu Adamo di S. \ ittore. PAGA NINI AN A 111 Musicalmente parlando questi mottetti hanno la forma di una < antata profana, alternata di arie, ariosi, recitativi, e, se proprio non tutti, molti sono garbati, ispirati, spontanei, vivi. 11 testo invece è stiracchiato, melenso e spesso addirittura squallido. Per darne un esempio trascrivo quello musicato dal Galuppi, che è uno dei migliori. 7» Parte. Sub mumbra laeta, amoena — posât columba amata et philomela grata — dulce cantando stat. Orta procella irata — fugiendo tacent aves, languent in campo flores —* nec rosa odorem dat. Crudeles inter fluctus — est navis agitata, et nauta, elata voce — infelix poscit vitam. Intermezzo. Ita ego in lioc fallaci — vitae damnoso mari saevis iactatus undis — ad te, mi Jesu, clamo, ad te semper suspiro — et ad coelum, flendo, lumina giro. Parte. Sicut cerva vulnerala — ejuerit fontem anelando, sîc te sempin* suspirando — dolet cor in poena amara. Ali! tu. Dive, consolare; — cor ad ii ictum in dolore gemit semper in ardore; — adiuvare, spes mea cara. Sed longe fletus, luctus, — eia procul abite; mortales exultemus — et laeti decantando iubilemus : Alleluia ! II latino è molto alla buona, ma il verso fluisce con una certa spontaneità, offrendo al musicista un abbozzo di programma, non privo di risorse. I musicisti italiani di quel tempo avevano un loro particolare segreto per colorire simili quadri, e Baipassare Galuppi vi è riuscito con un’incredibile semplicità di mezzi. Le prime tre strofe seul dette e ripetute in un aria venuta di getto, e. sebbene il musicista 11011 sembri preoccuparsi troppo del testo, ^li basta un opportuno atteggiamento modula torio per creare con una naturalezza sorprendente uiratmosfera distinta ai due stati d'animo, e offrire all'abilità dell’esecutore molteplici risorse per animare il quadro lineato dal poeta. L’intermezzo è recitato con una declamazione non priva di solennità e di decoro, a cui segue la seconda parte vivace, briosa, infiorata di gorgheggi e di roulades, che solo una voce perfettamente educata poteva affrontare, e si conchiude con una grandiosa stretta finale per l’alleluia. Su questo schema formale, suscettibile di infiniti adattamenti, furono composti molti altri mottetti da maestri illustri ed oscuri fin verso il 1830; dopo i mottetti son passati di moda, 11011 certo perchè erano scomparsi sopranisti, contraltisti, tenoristi, che nel caso 112 MARIO PEDEMONTE si sarebbero potuti sostituire con soprani, contralti, tenori autentici, ma forse perchè erano scomparsi i mecenati disposti a pagare gli esecutori di tali acrobazie canore. Conferma la viva passione dei genovesi per i mottetti il grande numero di essi esistente nella raccolta, del Liceo Paganini, circa un centinaio, composti da celebrità, da poco noti, da sconosciuti, da anonimi. Probabilmente la passione dei genovesi era alimentata dai virtuosi, e a Genova devono esser venuti tutti i più grandi acrobati canori, anche le donne, tra cui la famosissima Bastardella ; infatti il suo nome è scritto su molte copertine delle musiche esistenti nella Biblioteca del Paganini. Di tale passione abbiamo anche una prova indiretta e forse completamente sconosciuta. Tutti sanno, almeno per averlo sentito dire, che Antonio Sac-chini era irriducibilmente contrario alla pur minima condiscendenza-verso gli elefanti canori. A questo riguardo sono degni d’esser ricordati i versi del Parini: .... Ma tu, del non virile gregge sprezzando i folli orgogli e l’oro, innalzasti il decoro della bell’arte tua, spirto gentile, .... Ebbene a Genova anche Sacchini ha scritto un mottetto che, come testo, è all’incirca eguale agli altri, come acrobazia vocalistica, non la cede certo. Che il mottetto sia stato scritto in Genova e per Genova è una mia sensazione, anche perchè tra tanti è Punico dedicato a Maria Santissima, e perchè la copia pare sia autografa. Eccone il testo : ia Parte. Sacro in Olimpi Throno — gaudent superni Amores, et placidi victores — spirant in sancta spe. Recitativo. Anima generosa — super astra triumphat; terrena blandimenta, —1 vanitates, amores, illa sempre calcavit — ad gaudia sempiterna aspiravit. Parte. Salve, o pulchra, et spira in pace in tua stella coronata, laeta vive et fortunata in hac luce et alta spe. Virtutes et splendores — te cingunt, filia Sion, tua portenta narrando — et montes immortales exultando ; Alleluia ! Ho segnato anche i nomi di Pergolesi, Jomelli, Tartini, che, alighe senza commento, confermano Peccellenza raggiunta dalle canto- PAGANINI AN A 113 rie e dalle orchestre delle cappelle di Genova, le quali continuarono per tutto il secolo ad accogliere nel loro repertorio ogni artista divelluto famoso od anche soltanto segnalatosi per qualche lavoro notevole. Così tra i nomi famosi troviamo in seguito Anfossi, Traetta, Guglielmi·, Piccinni, Sarti, Cimarosa, Cherubini, Paër, Pugnani, Nardini, Viotti, Boccherini. Tra costoro avrei dovuto comprendere anche Giovanni Cristiano Bach, l’ultimo figlio del grande Sebastiano, che una certa rinomanza ha raggiunto e conservato, almeno tra i musicologi ; ma per lui credo conveniente un breve appunto. Questo maestro, nato nel 1735, è stato direttore di una cappella di Milano dal 1755 al 1759, e fu indubbiamente in intima relazione coi musicisti genovesi, perchè nella raccolta del Liceo Paganini è presente quasi tutta la sua produzione, tra la quale ve n’è molta da chiesa. Siccome dalla raccolta è assente Giovanni Sebastiano Bach, si può supporre che il figlio non ha mai parlato del padre, che altrimenti i musicisti genovesi, curiosi com’essi erano, avrebbero ricercata, studiata ed eseguita la musica del grande cantore di S. Tommaso, e particolarmente la messa in si minore, che vanta meravigliose pagine dì virtuosismo canoro. Forse il giovanotto, venuto a vivere in un’atmosfera musicale ben diversa da quella in cui era nato, entusiasta delle nuove mete verso le quali era allora avviata la musica., avrà considerata la produzione paterna lontana dal gusto del suo tempo, e, per evitare un’accoglienza fredda, si è astenuto dal parlarne. Potrebbe anche darsi che neppure il figlio conoscesse intimamente la produzione del padre. Ho parlato dei compositori più noti, presenterò ora rapidissimamente i minori e gli sconosciuti. Tra costoro meritano il primo posto Nicolò Rinaldi, Matteo Bisso, Carlo Sturla, Francesco Gnecco, Luigi Cerro e Luigi Degola, genovesi e direttori di cappelle genovesi, che hanno lasciata molta musica sacra, degna di attenta considerazione. Seguono Carlo Angelotti, autore di oratori, completamente sconosciuti ; Giacomo Arighi di Cremona ; Domenico Bai-duino, che fu a Genova a dirigire una cappella; Gaudenzio Batti-stini ; Pietro Beretta ; Vincenzo Bidognetti ; Carlo Bigatti ; Giuseppe Bornio, viennese, ma di origine italiana e allievo del Conservatorio di Napoli, famosissimo maestro di virtuosismo canoro; Giovanni Maria Cappello ; don Nicola Caretti ; Pier Vincenzo Chiocchetti ; Francesco Colombi; Giov. Battista Costanzi; Vincenzo Gabellone; don Quirino Gasparini ; Luigi Gatti ; Giuseppe Gazzaniga ; Filippo Ghe-rardeschi ; Pietro Antonio Giacomelli ; Tommaso Gilardoni ; Giuseppe Giuffra ; Carlo Lancellotti da Rimini ; Francesco Lenzi ; Giovanni Liberati; Giuseppe Manghenoni da Bergamo ;.Antonio Mangiarot-ti ; Antonio Nenci ; Nazario Novella ; Bernardino Ottani; Angelo Pa-gni ; Giovanni Battista Pattoni da Mantova; Nicola Petrucci; Domenico Reali; Giov. Francesco Radicchi di Montepulciano; don Car- 114 MARIO PEDEMONTE lo Baspini ; Francesco Suzzarri ; don Vincenzo Testi ; Saverio Valenti ; Gabriele Vignali ; Francesco Zanetti ; Giovanni Zanotti ; Giovanni Battista Zingoni. Questo incompleto elenco di nomi richiede un ampio commento, ed io spero di compilarlo in collaborazione con qualche lettore, che sia a conoscenza di notizie particolari per uno o alcuni dei maestri elencati. Ripeto così l’invito alle persone di buona volontà, fiducioso e sereno ; se nessuno risponde, lavorerò da solo. La probabile osservazione : Ë tempo perduto occuparsi di minori e di sconosciuti, non mi distoglierà dal continuare, confortato da un antico proverbio tedesco : Man kann die Beriihmte nicht verstehen, wenn man die Obsku- ren nicht durchgefiillt hat. Mario Pedemonte IL PITTORE OSCAR SACCOROTTI Oscar Saccorotti, nativo di Roma e per antonomasia pittore ligure, militare nell’areonautica della grande guerra, quando volare sui vecchi Farman era impresa eroica quanto rischiosa, privo di studi accademici e per questo meritevole di maggior lode, è uno dei pochissimi artisti della Liguria ^(neanche le dita di una mano), che ha saputo con costanza pari all’amore per la pittura, rivelare una personalità propria, una significativa, virilità di maniera pittorica, una accentuazione preziosa il cui sapore un poco francese nel senso sano della parola, in parte si collega, con dignità poetica e con rara acutezza formale, all’espressione più alta dell’attuale pittura italiana ed europea. Se la sua vita è esemplare in quanto il Saccorotti come artista ha coltivato i poeti, come uomo ha sempre attinto alla poesia, ed ha vissuto con fermezza non disgiunta dall’eroismo, qualche volta disperato. Fame, freddo, camere sparute e desolate al lume di baluginose candele, quella luce smorzata di sere precocemente invernali, residui di un romanticismo ottocentesco, lo ebbero compagno per anni ed ancor oggi lo hanno amico ; ma la fatica più dura non lo sconcertò nè lo spinse a ricercare vani effetti, o una pittura chiassosa fuori della sua arte, delle sue nature morte silenziose e pie, della sua poetica e dolce visione del mondo, degli uomini, degli oggetti, delle cose più disparate. L’artista, pur quando il suo mondo pittorico non era risolto con completezza di termini plastici, rimase sempre fedele a se stesso, e sempre ricercò i soli valori tonali nelle cose che veniva tracciando sulla tela, semplificando magari la visione e ricercando solo l’immediata corporeità fisicopittorica dell’oggetto ; in un certo senso il Saccorotti possiede un’arte che collima con quella dello scrittore Giovanni Comisso per una sensualità accesissima nel vedere le cose secondo la loro relazione coll’uomo, impreziosite per contro con accenti acuti, che scaturiscono in parte dalla classica arte del poeta Camillo Sbarbaro. Non si creda, peraltro, che questo ricorrere a nomi di qualche valore nell’odierna letteratura italiana, abbia in sé una diminuente critica, o che quanto meno si vogliano insinuare elementi extrapittorici nell’arte del Saccorotti. La letteratura non ha nulla a che fare col pittore, e se la sua pittura è squisitamente moderna., e talvolta 116 ENRICO TERRACINI persino decadente nella ricercatezza squisita dei toni più lievi e più sgargianti, in realtà l'artista non lia mai cercato, fin dalle prime mostre personali (1925 — Galleria Valle — catalogo con prefazione del poeta Adriano Grande) elementi cerebrali o letterari. In sostanza il succo della sua pittura — la dolcezza dei toni e la conquista della superficie clie sono gli elementi più suadenti — poteva giungere già allora (1927 — Mostra alla Galleria Milano di Milano, assieme al pittore Rodocanachi, allo scultore Micheletti — catalogo con prefazione di A. Grande) alla poesia, anche quando (vedi II mostra del 900 italiano) il Nostro abbandonava per un momento la propria natura, che lo ha sempre invitato a vedere le cose colla sensualità dolcissima e la grazia soave dell’uomo sereno. La brezza novecentesca che lo faceva vibrare in modi affatto contingenti, era completata ed acuizzata sensibilmente da una raffinatezza superiore, da rabeschi ardui e voluttuosi, che donavano lucide e poetiche realtà alla materia pittorica. Giova quindi insistere, ancora una volta, sulla concreta plasticità di quella Ragazza in tram, opera esposta nel 1928, in cui se il complesso dell’opera poteva aderire ad una moda, per contro determinate parti erano singolarmente terse nel travaglio pittorico della superficie, per non dire espresse colla poesia che intuisce e sviluppa i reali ed unici valori pittorici. L’evoluzione del Nostro proseguì lentamente, si sperdette lungo il suo cammino, quasi che il pittore della topaia di Via Lavinia, come ebbe a chiamarlo Camillo Sbarbaro, temesse che il concretare anzitempo una materia pittorica, troppo consona alla propria natura che scopriva ammirato uccelli, boschi, pesci, fiori, frutta, muri crepati, le arse luci senza tempo del paesaggio ligure (senza per questo appartenere alla corrente che prendendo spunto da Tosi ha pensato bene di ritornare in retorica il paesaggio italiano), potesse procurargli una specie di arrochita maniera, una pittura troppo lieve nel tessuto pittorico che, pur esprimendo la sua visione di un mondo sereno senza dramma e senza ideologie, non avesse sufficiente virilità e soprattutto non prendesse corpo, nella più scanzonata maniera pittorica. Per questa rara coscienza di· artista e per questo rigore autocritico, forse il pittore trascurò a tratti le piccole tele, in cui i paesaggi esprimevano un tono ed uno stato d’animo, quasi timoroso della propria facilità nell’inventare i più variati giochi cromatici, ed i più raffinati cieli sfaldantisi in ebbrezza di luce, e volle narrare (vedi Biennali Veneziane di questi ultimi anni) la propria pittura in ampie opere impegnative, senza che per questo impegno la plasticità della forma umana non rivelasse uno sforzo troppo costruttivo per possedere sicure basi poetiche. Può darsi che questa mancata capacità di esprimersi, allora, attraverso sicuri ritmi, possa attribuirsi alla già denunciata assenza T 118 ENRICO TERRACINI di studi accademici, ma a noi, più che i difetti di un tempo, interessa vedere come, pure in quel periodo, il Saccorotti conquistasse duramente la sua superfìcie pittorica, eliminando costantemente la più remota ricerca di effetti ed il gioco chiaroscurale. Rammentiamo, a testimonianza di quanto veniamo dicendo : « Il figlio del giardiniere », opera forse difettosa nell’impostazione e sopratutto nel taglio, di cui certi particolari si alzano ad un tono di lucida e lieve perfezione di tavolozza e di lavorata superfìcie, emotiva cromaticamente ; e rammentiamo pure le « Pescivendole della Foce », opera un poco impacciata ed acerba, che a Venezia suscitò più di una discussione per la mancata composizione e per l’esasperato realismo formale, che pure donava una certa impressione d’inventiva cromatica, nella conquista tutta personale di toni e di nature morte, frammenti ammirati per la loro freschezza e per la loro maturità stilistica. Ci sembra che, in questo distinto capitolo dell’evoluzione pittorica del Nostro, l’artista ondeggiasse paurosamente ed un poco fatalmente, fra l’esasperazione di una realtà formale ed umana che non sentiva perchè troppo umana, e la lucida perfezione di una superficie pittorica duramente conquistata, in cui si approfondivano i toni, si delineavano i corpi, ed in cui l’accento misurato e la concretizzazione di uno stato d’animo in un piccolo paesaggio, dava a vedere quanto l’artista potesse alzarsi ad una pittura ricca e preziosa, in cui la tensione del sentimento realizzava un attimo di arte personalissima. Ed infatti nelle opere in cui l’artista si misurava con minor impegno stilistico e formale, ma con più sincero abbandono alla sua natura ed alla sua sensibilità, là appunto il Saccorotti, senza narrare, riusciva a conquistare ineffabili momenti di commozione plastica. Se oggi « Sera che cade » è pittura in cui l’acuta accentuazione del tono esprime uno stato d’animo, ieri nelle mostre personali, tali stati d’animo già si alzavano ad un lirismo non manieristico, anche se la materia pittorica era inquinata da certi impacci tecnicistici, determinati più da svogliatezza che da immaturità, ed una sostanziosa pennellata chiara e raffinata, realizzava una pittura trasognata e senza tempo, quasi senza leggi nel contatto coll’umanità, perchè transumanata nella sua dolcissima cristallizzazione di delicati tocchi coloristici. Ci sembra in realtà che il Saccorotti (per giungere a parlare dell’ultima mostra alla Galleria Vitelli) non abbia mai tradito se stesso, il che in tempi di funambolismi eclettici e di mode programmatiche, è la miglior lode da farsi ad un artista ; e che se già allora trova va la sua miglior poesia nella realizzazione delle nature morte, accorte quanto liriche, meditate quanto persuasive (tanto è vero che in un certo senso avvaloriamo la definizione di Saccorotti pittore eli na- IL PITTORE OSCAR SACCOROTTI 119 ture morte), pure a quei tempi, e cioè tra il 1932 ed il 1936, ci sembra sia d’attribuire la conquista assai suadente di misurati elementi spaziali, in cui più che all’arsa e forse sterile conquista volumetrica (il volume pittorico fu una moda, si noti) si badò ad esprimere piccoli paesaggi, in cui la luce spiove, paesaggi lievi come sogni, lirici nella fusione tonale, estremamente raffinati nella soggettiva realizzazione. Rammenteremo all’uopo quel « Giardino sul mare », opera che deve figurare, se non erriamo, nella collezione della Confederazione Nazionale Artisti e Professionisti, in cui gli elementi paesaggistici — un poco d’erba piegata dal vento marino che giunge a rapide folate, una balaustra scarnita, un cielo fra il sereno ed il tempestoso, nn po* di mare che s’intuisce oltre il chiuso orizzonte — riuscivano ad esprimere, naturalmente in tono minore, la poesia dell’infinito. Certo il Saccorotti non sempre riuscì ad astrarsi da determinate maniere o da influenze assimilate senza volerlo, in quanto la sua sincerità di uomo e di artista è fuori discussione ; ed infatti, fatalmente direi, la sua arte fu lievitata, intramata di elementi ottocenteschi, soprattutto dell’Ottocento francese (ma vedi anche certi accostamente cromatici nettamente settecenteschi) e da un vago impressionismo paesaggistico che echeggiò nella Mostra della Galleria Genova, che più sopra abbiamo rammentato, onde stendere il curriculum vitae del Nostro. Ma come si può negare che il suddetto impressionismo non abbia donato alla pittura Saccorottiana una freschezza nuova di accenti, ed una poesia che il pittore non aveva ancora espresso? In realtà non si può dubitare della modernità di un artista quando la visione del suo mondo è sempre lirica., anche se più che esprimere un’accentuata pittura polemica che tiene conto delle ultime conquiste pittoriche, si collega ad una tradizione che, se oggi è la meno sentita (escluso naturalmente Cezanne), può ancora portare un peso salla pittura europea. L’ammonimento che oggi ci dà il Saccorotti è sintomatico e significativo, ed il trovare in lui l’ardua conquista preziosa di felici elementi sentimentali e lirici, già dimenticati, può essere la giusta misura per individuare con serenità di giudizio, la maturità di un artista assai nobile, che mai volle lasciarsi adescare dalle lusinghe del mestiere o dalle varie mode. Vuoisi confermare peraltro che le doti, più che i difetti su cui ci siamo dilungati, oggi affiorano e determinano il linguaggio del Nostro, che non ricerca più equivoche affermazioni stilistiche, ma che conquistato il suo stile, si compiace dello stesso e si abbandona con gioia ai momenti in cui riesce a fermare concretamente l’oggetto sulla tela. Forse, ancora in questa ultima Mostra che rappresenta la più solida conquista del Saccorotti, il suo maggiore pericolo è la fa- IL PITTORE OSCAR SACCOROTTI 121 cilità nel senso dell’invenzione e dell’immediatezza lirica ed i toni un poco ricchi e talvolta sgargianti a cui 1’artista a tratti si abbandona dimentico della sobrietà e dell’umiltà possono preannunciare il pericolo di esprimersi in modi nettamente decadenti. Ma accanto a questa materia pittorica, consumata e raffinata, tale da creare l’opera come una enorme miniatura (vedi « Meriggio », opera squisitamente tersa e linda, ma indubbiamente troppo preziosa) o quanto meno come un’espressione calligrafica (con elementi di natura troppo disegnatila. per essere aderenti alla personalità coloristica del Saccorotti), per fortuna nostra e dell’artista si possono notare opere in cui la serena commozione, rumano tono lirico (vedi Nature morte), o la persuasiva limpidità della materia (vedi i Fiori), o l’acuta espressione fisionomica del ritratto umano, giunto oggi a completa maturità interiore e stilistica possono far attribuire al Nostro quelle qualità del dolce e lirico pittore che si attribuiscono a pochi. E se è vero che mancano nel Saccorotti quelle doti della composizione e della costruttività architettonica (vedi ad esempio il Nudo opulentissimo, con ricerca esasperata di motivi decorativi nei rossi drappi che cadono alla rinfusa nel secondo piano dell’opera), questo rilievo vuole confermare il fatto che l’artista, non ricercherà, se non occasionalmente, quella pittura troppo impegnativa che non può esprimere. Noi non crediamo che, data la sua personalità di pittore in tono minore, l’artista giunga a conquistare altri elementi che possano arricchire il contenuto della sua pittura ed il tessuto della sua materia plastica, ma comunque giova avvertire i zelatori impenitenti della polemica avventata ed inane, che se l’arte del Sacco-rotti non è pittura pura certamente è pura pittura. Enrico Terracini VARIETÀ UN RICORDO DEL POETA GENOVESE GASPARE IVREA Nel 1905 levava rumore a Milano un libro di versi « Olympia » volteggi, salti mortali, ariette e varietà : libro di satire delle quali facevano le spese gli scrittori più noti. In esso Remigio Zena (ossia il marchese Gaspare Ivrea genovese) ci faceva assistere a una quantità di volteggi, di salti mortali e di altri consimili giochi, da parte dei nostri scrittori che egli camuffava come tanti' artisti da circo e da caffè chantant, rinnovanti gli spettacoli dell’antica Olympia di pindarica memoria. A Gaspare Ivrea accenna Guido Mazzoni nel suo L’Ottocento (Milano, F. Vallardi) e dedica il seguente trafiletto Teodoro Rovito nel suo Dizionario bio-bibliografico, Letterati e giornalisti italiani contemporanei (Napoli, 1922) : « Ivrea marchese Gaspare (Remigio Zena), poeta agile e simpatico, romanziere, umorista. La sua poesia è tutta improntata alla più schietta originalità, è limpida, spigliata, caratteristica : come prosatore ci ha dato volumi pregevoli, nei quali predomina la nota finemente umoristica, argutamente satirica. Notiamo, tra gli altri suoi lavori: Le pellegrine poesie; Olympia; L’Apostolo ; La bocca del lupo, romanzi ». Egli, Remigio Zena, è come il cloirn cui spetta di presentare al « colto » e all’« inclita » nonché alla « studiosa. » gli altri compagni di fatica. Egli ricorda che un tempo era pur lui poeta (il poeta delle Poesie grigie e della Pellegrina), ma essendo rotolato giù dal Parnaso, fu costretto a far 1’« acrobatico esercizio ». Però il suo libro se pur ha mutato genere, fu molto garbato, e la sua burla fu tale da non poter offendere del prof. Trombetti il glottologo.... Colui che oscura, colui che oscura IJe Gubernatis, la inenarrabile dottrina e la decanta Remigio Zena, narrando ai popoli che il Trombetti Parla tutte le lingue morte e vive, E non solo le parla, anche le scrive! Ma non tanto (soggiunge) I UN RICORDO DEL POETA GENOVESE GASPARE IVREA 123 .... Minerva a lui sorrise Nell* insegnar gli, come attesta l’Ascoli, A dire — lo t’amo ! — in ottocento guise, Quanto nel dono, che ogni dono offusca, D’afferrar l’odïerna lingua etnisca, Quella in ispecie di Giovanni Pascoli. Qui si noti la grande finezza della satira la quale prende al tempo stesso due piccioni a una fava : il Trombetti e il Pascoli. Di quest’ultimo ci dice il nostro Remigio che egli, .... Comprende Come nessuno al mondo Le voci degli alati, E ne sviscera il senso E ne afferra le minime Sfumature e ne modula Le evanescenti sillabe, Traducendole in rima Come nessun poeta; sia più grande dell’aquila la quale « secondo una credenza tartara, assai più diffusa dai più remoti dell’Estremo Oriente », è poliglotta. Re l’aquila conosce e ripete ogni fischio, ogni strido; ogni zirlo, ogni cinguettio, il Pascoli — canta lo Zena — .... ha il privilegio E l’orecchio sì fino Da intender l’idioma Delle farfalle (persino l’idioma delle farfalle) Massime se dipinte Sui paraventi e sui Ventagli giapponesi Di Madama Butterfly. (l’anno precedente, nel 1904, Madame Butterfly del Puccini, aveva avuto un clamoroso successo, riapparsa al Teatro Grande di Brescia). Anche qui la satira è fine e biricchina a un tempo. I poeti, romanzieri, commediografi, critici e giornalisti colpiti da Remigio Zena., menarono buone all’autore di « Olympia » le sue punture : tanto più che egli, giunto alla « stretta finale » chiedeva umile perdonanza, come già il buon Jacopone da Todi, a tutti, e dichiarava a ogni modo di non aspirare al minareto della fama. Ma, se non la gran fama, almeno un simpatico ricordo merita ancora il poeta genevose Remigio Zena, a torto dimenticato. Camillo Pari set APPUNTI SUL DIALETTO LIGURE 1. Tran de Din « tnono di Dio» è un’espressione assai comune, che ricorre in certe esclamazioni come : vani aw tran de Diu «va alla malora », m il z i k a du tran de Din « musica del malanno » ecc. Tron de Diéu è pure una caratteristica ed energica esclamazione provenzale, cfr. Mistral, Mirèi ο V 63. 2. Snll’ongine dell’espressione giovenaliana gallinae films albae (XIII 141) — origine che Labriolle e Villeneuve (Jnvénal, Satires, Paris « Les Belles Lettres » 1921, p. 163) dicono oscura, mentre altri editori delle satire (cfr. per es. The Satires of Juvenal, with Introd. and Notes by A. F. Colk, London 1906) si accontentano di ... non dir niente — interrogai l’amico prof. Vianello, noto studioso di Giovenale, che mi diede preziose informazioni. Una nota, che risale al 400, chiama l’espressione proverbium vulgare : è troppo poco. Commenti dal 1500 in poi dicono: tibi videris supera alios feliciter natus vel quia felicia omnia dicuntur alba, vel respicit ad gallinam, quam raptam aquila in gremium Liviae demisit ; il poeta perciò alluderebbe, come voleva Erasmo, alla gallina bianca, che teneva nel becco un ramo d’alloro, e che un’aquila avrebbe lanciato cadere sulle ginocchia di Livia (Svetonio, Galba 1). Ma giustamente il Vianello mi scrive di non potersi caparitare che Giovenale abbia avuto l’occhio all’aneddoto di Livia, per il v. 142: tu privilegiato e noi nati da uova infelici. Non rimane, e in ciò non concordo col Vianello, che dar retta a Columella (Vili 2,7), secondo il quale le galline bianche non erano tenute in molto pregio perchè d;inno un minor numero d’uova (1), onde rari sono i figli della gallina bianca. E che questa sia la miglior interpretazione, lo dimostra il provenzale, ove il proverbio compare appunto così « un uovo della gallina bianca » (cfr. Mistral, Mirèio VII 12 acò's Viòu de la poulo bianco !) per significare una cosa rara e pie/iosa, alla quale si tiene molto. In una nota anonima del poema di Mistral, stampato a Parigi presso la Bibliothèque-Charpentier nel 1928, leggo a p. 308: «gli stre- (1) Può darsi che il colore abbia contribuito a tale valutazione. Così in Omero si dà la preferenza alla pecora nera (cfr. Iliade X [215 sg.) perchè la si crede migliore; Aristotele (Problem. ined III 31, ed. Didot) dice cl.e il latte delle pecore nere è più dolce e Columella (VII 2, 4) scrive sunt etiam suapte natura pretio commendabiles pullus atque fuscus (cfr. anche Odissea IX 426). APPUNTI SUL DIALETTO LIGURE 125 goni, nelle notti Innari, andavano con una gallina bianca nei crocicchi, ed evocavano il diavolo con questo grido ripetuto tre volte : per la vertu de ma poulo bianco ! » Il proverbio è comunissimo nel genovese: ése u figu da gallila ganka « essere il figlio della gallina bianca»; il Casaccia spiega « esser fortunato, aver il vento in poppa, aver ogni cosa favorevole e seconda *. Non trovo citato il proverbio nella pregevole e diligente raccolta di Ida u. Otto von Düringsfeld, Spriclirvòrter der geriti, u. rom. Sprachen, H. Fries Leipzig 1872. 3. In due poesie di Carlo Malinverni ricorre, con diversa grafia, il vocabolo § i l i d Ó u . In Domenega grassa (« Due Brocche de viovetta », Libreria scolastica G. Bacchi Palazzi, Genova 1908, p. 26) : Còse diggo ? — l’oa chi passa a m’ha faeto perde u fi.. . çigaa, lascia sta carassa, no annoja co tò gri-gri, * se ti veu che ! scilidoi no te mettan tûtti a-i loi ; e in Baciccia (« Bolle de savon » Libreria Ed. Moderna, Genova 1921, p. 181): sto nomme a Zena o l’è un’istituzion : e chi dixe Baciccia dixe Zena : comme torta, Lanterna, menestron, comme Togno, Cattaen, Steva, Manena ; e in mëzo a-i boschi e in mëzo a-i xilidoi scinn-a o merlo o scigoa : Ciccia di coi ! La parola § i I i d Ó il non è comune in Liguria, e molti liguri, da me richiesti, nonché conoscerne il significato, non ne sospettavano neppure l’esistenza ; d’altra parte i due passi del Malinverni non sono certo adatti a meglio illuminarci. Soltanto a Cogoleto (ma non credo che sia questa Tunica località, ove il vocabolo compaia) trovai ancor vivo SilidÓu nel senso di « contadino ». D'onde venne lo strano vocabolo Î Si sa che sant’Isidoro è il patrono dei contadini, e si sa pure «he in tutte le religioni, non esclusa la cristiana, molte volte il nome del dio o d’un santo era tntt’uno con quello dei suoi adoranti o fedeli (cfr. O. Gruppk, Griecliisclie Mythologie, München 1902, p. 732 η. 1 e R. Pettazzoni, La religioìte nella Grecia aulica, Bologna, p. 73), così che non può far meraviglia che un giorno i contadini fossero detti « i sant’Isidori ». Ora l’espressione sanctus Isidorus potè essere abbreviata in se. Isidorus (cfr. A. Cappelli, Dizionario di abbreviature latine e italiane, Milano 1899, p. 310), che dal volgo era naturalmente letto e pronunziato scisidorus. Coll’assimilazione del s in r e conscguente d.ssimilazione del r in 1 (cfr. Parodi in « Arch. Glott. » XVi 343) si ebbe, attraverso un * sci· ridorus, la forma scilidorus. che diede il nostro SilidÓa; sulla formazione scilidorus potè anche influire l’espressione sancti Sili per Siri (cfr. Parodi 126 ANTONIO GIUSTI in « Arch. Glott. » XIV 7). A conferma di quanto sopra ho detto sta il fatto che oggi a Cogoleto, mentre gli Isidori son chiamati s i d Ó i Sant* Isidoro invece è detto san S i 1 i d o u , essendosi perduta completamente la nozione suH’origine del vocabolo. 4. Al vocabolo sieln il Casaccia spiega: «trastullo da ragazzi consistente in un marrone forato nel suo mezzo da due piccoli buchi, l’uno alquanto discosto dall’altro, entro de’ quali si fa passare un’agata di refe che si aggruppa alle due estremità; indi, collocato il marrone aUa giusta metà di essa, si fa bene attorcigliare il filo, il quale poi tirato fortemente in senso opposto fa che il marrone giri co la massima celerità. Dicosi ronzella dal ronzio che fanno il mar one e il filo mentre girano »; e ancora «frullino: altro trastullo da ragazzi formato da un piccolo fuscelletto, che si piglia da una parte coi polpastrelli del pollice e dell’indice, si fa girare dandovi una torta come al fuso per torcere il filo ». Si élu è voce onomatopeica e indica lo « strumento che fa zi zi» (cfr. s i ΰ «far tss », Gius. Flechia, Appunti lessicali genovesi, estratto dal « Giorn. stor. e lett. della Liguria », 1903, 9); è composta da s’i e dal suffisso -é lu (dal lat. -ellus, che in origine era diminutivo, cfr. Grandgent, Lat. volg., Mi-Inno 1914, i ag. 25), analogamente a àigwélu «zufolo» da sigorellus cfr. Rossi, Glossario medioevale ligure, Torino 1896, p. 59 e Giov. Flechia in « Arch. Glott. ». Vili 404). 5. Il vocabolo gabibbu s’incontra in parecchie zone della Liguria (per es. La Spezia, Cogoleto ecc.) e indica un uomo scaltro e senza scrupoli, a volte manesco e prepotente ; viene dall'arabo cabib « capo ». Non posso far a meno di pensare al protagonista di quel film « Il bandito della Casbah », che gli indigeni di Algeri chiamano appunto cabib ; l’eroe del romanzo cinematografico ha non poche caratteristiche del ligure gabibbu. 6. Anche l'espressione genovese a ή dà a b a g a § e ha il significato metaforico, che il Prati (in « L’Italia dialettale » 1937, 109 sg.) osserva in quella emiliana andar a putàn, e cioè « andar a finir male ». Vedi per es. i modi di dire: tüttu va a b a g a § e «tutto va male», va a bagaàe! «va alla malora ! » ecc. 7. Il Meyer-Lübke, Rew. 9578 a., riconduce al franco *wurkjo « lavoratore » l’afr. garse o garce « ragazze ». A questo bisogna aggiungere anche il gen. sgarselina opp, sgarsulifia, che ha lo stesso significato di garce. In un’antica scrittura genovese è detto « scarsellare le gumene », e il Rossi nel suo Glossario, citando questo passo, registra il verbo scarsellare ma non ne dà il significato. Giuseppe Flechia (App. less., p. 8), che s'è occupato del vocabolo, scrive a questo proposito; «l’odierno genovese ha un verbo, che non trovo nei vocabolari e che è proprio del linguaggio dei lanaiuoli ; sgarzellà (ad es., sgarzellà e cuverte), che significa, come ebbe a dirmi un operaio, «togliere il pelo cogli sgarzin», voce anche quest’ultima non registrata nei vocabolari, ma che senza dubbio si connette con garzo, sgarzo, cardo, cardare, ecc. Se l'antico scarsellare ha il valore dell’attuale sgarzellà, viene tolta ogni oscurità nel passo citato ». Il Flechia fa osservazioni pru- APPUNTI SUL DIALETTO LIGURE 127 denti e caute conclusion ; ciò non ostante non riesco a togliermi il dubbio che l’antico scarsellare e l’odierno sgaréelà (o forse s g a r s e 1 A) abbiano la stessa origine di garce e sgarselina, e cioè derivino da un # desgar-selare « sverginare », ossia metaforicamente « togliere il pelo » ; per l’arditezza dell’immagine puoi confrontare Mistral, Mirèio IX 17 desvierginavon de soun or, de sa flour, e la terrò e Vestiéu « sverginavano del suo oro, del suo fiore, e la terra e l’estate ». Anche il Montaigne (Essais III p. 181, ed. Flammarion, Paris) crea da garce un verbo desgarcer, ma per indicare che i dolori della pietra non lo portavano a sognare di donne come capitò a quel tale, di cui Cicerone (de divinat. II 69) racconta cum in somnis complexu venerio iun-geretur, calculos eiecisse. 8. Da * guttea o * guttia (cfr. Korting, Lat.-rom. Wort, 3817 cfr. anche * guttiare Meyer-Lübke, Reto. 3829 e Parodi in « Arch. Glott. » XVI 336) deriva il gen. g u s s a « goccia » e g u s â (per es. a Cogoleto) « gocciolare ». Ad un vocabolo * sticia è da riportarci probabilmente il gen. stissa « stilla », s t i s â « stil are », st i s ί n , s t i s i η i ù ecc. (v. Casaccia) ; cfr. anche il piem. stiça, e stiçè, il nap. stizza, stizze fare, e il sic. stizza, stizziari. Il supposto * sticia proviene dal tema stic-, che è probabilmente suono onomatopeico a somiglianza del greco σταγών « goccia » dal tema σταγ-; il Boisacq (Dict. etym. de la langue grecque, Paris 1823) non prende in considerazione, per σταγών, l’ipotesi dell’onomatopeia. Non convincente mi pare l’ipotesi di Giov. Flechia in «Arch. Glott.» Vili 393, il quale pensa potersi congetturare che il nome stissa fosse da stilla * stilitela, promosso forse da stillicidium. e ne venisse, con trasposizione d’accento e conseguente sincope, * stilcia * stilza come a un di presso filza da filo filitia. 4. Al suono onomatopeico pai (cfr. Meyr-Lübke, Rew. 6138 b,) risale anche il gen. pacugn «intruglio, imbratto, imbroglio, garbuglio, guazzabuglio » (Casaccia), pacügâ «imbrogliare» ecc., paciigun «imbroglione » ecc. 10. Accanto all’ancon., vie. e poi. scufiòto « scappellotto » (cfr. A. Prati in « L’Italia dialettale » 1937, 112 sg.) è da aggiungere anche il gen. sku-fi 5 tu nell’identico significato ; un caso di passaggio — dice il Prati — da Meyer-Lübke,, Rew. 2024. 11. Al fr. briquet (cfr. Meyr-Lübke, Rew. 1300) risile certamente il gen. briketta « fiammifero, solfanello»; metaforicamente briketti son detti i « tronchetti » e cioè quella « pasta da vermicellaio per uso di minestra, e son penne (fidé da penna) tagliale curte quasi un dito » (Casaccia). 12. A plautus « dai piedi piatti * il Meyer-Lübke, Rew.. 6589, fa giustamente risalire il gen. cota «graffiare»; bisogna anche aggiungere cóta « branca, zampa con le unghie da fer re, granfia del gatto » (cfr. Parodi in « Arch. Glott. » XVI 358). La forma * plauta «pianta del piede, zampa », derivata da plautus, è passata nella Gallia transalpina e in lspagna in * pauta, * patta in parte per analogia col latino volgare * p attire « marciare », derivato anch’esso da una forma germanica. Ma il germanico * pauta, tedesco Pfoie ha la sua origine nel gallo-romano. Cfr. J. Bruech, Ber Name Plautus und das deutsche Pfoie in «Wiener Studien » 1936, 176-180; Meyer-Lübke, Reto. 6301 e 6309. 128 ANTONIO GIUSTI 13. A campus (cfr. Meykr-Lübkb, Rew. 1563) risale il gen. k a ù p i\ «guardia campestre », che anche uel patois valdostano è chiamata catnpier, campè, o tsampé, cfr. Abbé Henry, Vieux noms patoie de localité valdôtaines, Aoste 1936, p. 7. 14. Madonus « mattone » registra il Rossi nel suo Glossario (p. 62), cfr. anche Giov. Flechia in « Arch. Gl· tt. » IV 373, Nigra in « Arch. Gio t. » XIV 289 e Gius. Flechia, Postille· al Gloss. med. lig. di Gir. Rossi, Nervi 1900, p. 4. Oggi si dice m u ή (cfr. Meyer-Lübke, Rew. 5271 e Parodi in « Arch. Glott. » XVI 124), ma in quel di Spezia si trova ancora la forma m a d u ù. Antonio Giusti COMUNICAZIONI DELLA R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA Sotto la presidenza del Senatore Mattia Moresco si è riunita sabato 11 giugno alle ore 1C, ΓAssemblea generale della R. Deputazione di Storia Patria con l’intervento di molti soci e di rappresentanti della Sezione Savonese e dell’Ingauno-Intemelia. Il Presidente ha illustrato l’attività scientifica dell'istituto, che si è svolta per gran parte intorno alla grandiosa progettata impresa della pubblicazione dei registri notarili genovesi del secolo XII, i più antichi che si conoscano e di importanza capitale non soltanto per la storia di Genova e della Liguria, ma anche e sopratutto per la storia del commercio e del diritto, specie del diritto marittimo, di tutto il Mediterraneo. Ha presentato anzi ai convenuti il volume di recentissima pubblicazione Per V edizione dei notai liguri del secolo XII, che comprende una relazione sul lavoro preparatorio e il programma generale della pubblicazione, redatti con la collabo-razione del prof. Gian Piero Bognetti della R. Università di Genova. Il volume ha già avuto nel campo delle scienze storiche e giuridiche le più liete accoglienze. Ma questa, dice il senatore Moresco, è soltanto la prefazione dell’opera che è in corso : nei prossimi mesi saranno editi almeno tre volumi. Ormai è un impegno d'onore l’assolverlo, e metterà la Deputazione ligure in prima linea tra le consorelle italiane ponendo a disposizione degli studiosi un materiale prezioso che non ha riscontro. I documenti da pubblicare sono conservati nel R. Archivio di Stato : il lavoro può essere condotto avanti alacremente in grazia della cordiale e fervida collaborazione del Sopraintendente dell’Archivio, comm. Felice Perroni, al quale rivolge un vivo ringraziamento. Com’è naturale, un’opera di così vasta mole, comprendente non meno di dieci o dodici volumi, richiede mezzi finanziari adeguati, anche se l'onere è condiviso con altro Ente che partecipa all’impresa, la Collezione dì documenti e studi per la scoria, del Commercio e del diritto Commerciale Italiano, diretta da S. E. Patetta e dal prof. Chiaudano. Il Presidente espone il piano finanziario e i propositi per attuarlo: tra l’altro propone che, essendo andato deserto il concorso quinquennale bandito dalla Società di Storia Patria nel 1933, il relativo premio sia devoluto alla nuova collezione. L’Assemblea, che ha ascoltato con viva compiacenza l’esposizione del Presidente, ne approva le proposte. Rimane anche stabilito che i volumi di questa serie speciale siano dati agli appartenenti alla Deputazione a prezzo ridottissimo come contributo dei soci al compimento dell’opera. Dopo l’approvazione del bilancio preventivo per l’anno XVII e l’esposizione fatta dal segretario prof. Vitale, dei lavori ordinari — è imminente la pubblicazione del volume LXVII degli Atti — il Presidente presenta a nome del prof. Revelli, assente per doveri d’ufficio, il poderoso volume Cristoforo Colombo e la scuola cartografica genovese, pubblicato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche che l’autore offre in dono; e ne illustra con alte parole l’importanza e il valore. Il prof. Nurra prendendo occasione dalle prossime celebrazioni dei grandi liguri, propone che riprendendo opere ormai antiquate e iniziative non condotte a termine, sia compilato un Dizionario degli uomini illustri della Liguria, indicando anche le fonti cui si potrebbe attingere. Dopo breve discussione, ri- 130 COMUNICAZIONI DELLA R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA ECC. mane stabilito che in una prossima Assemblea sia presentato un piano concreto per l’esecuzione deli-opportuna iniziativa. Infine su proposta del nob. Riccardo Maineri che, riferendosi ai dati esposti nel bilancio, lamenta la diminuzione del numero dei soci, mentre Genova conta tanti appassionati cultori della sua storia e delle patrie memorie, è costituita una Commissione, composta del Maineri stesso, del comm. Canevello e del gr. uff. conte Puccio-Prefumo presidente, con l'incarico di presentare al Consiglio Direttivo concrete proposte in proposito. A norma della deliberazione dell'Assemblea tenuta Γ11 giugno, il volume Per l'edizione dei notai liguri del secolo XII, è distribuito agli appartenenti alla Deputazione, verso il pagamento di cinque lire (oltre quando ne sia il caso le spese di posta in L. 0,60) cioè con la riduzione del 75 % sul prezzo di copertina. Il ricavato di queste quote, che la Presidenza si augura numerose, costituirà un fondo speciale a vantaggio dell’impresa che la Deputazione si è arditamente assunta. A coprire il posto rimasto vacante per la morte del compianto prof. Leopoldo Valle, S. E. il Ministro dell'Educazione Nazionale, su proposta del Presidente, ha chiamato il Sopraintendente del R. Archivio di Stato, comm. Felice Perroni, al quale il Presidente, a nome della Deputazione, lieta di averlo efficace collaboratore, ha rivolto un cordiale e deferente saluto. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Emilia Morelli, Mazzini in Inghilterra. Felice Le Monnier, Firenze, 1938-XVI, pag*. 190. (Studi e documenti di Storia del Risorgimento. Coll, diretta da G. Gentile e da M. Menghini). Un uomo politico inglese, il Chamberlain, per difendere, il due maggio millenovecentotrent’otto, alla Camera dei Comuni, Fazione propria con cui mutava la politica seguita dàl governo di Londra da qualche anno in un atteggiamento favorevole ad accordi con l'Italia, ai suoi avversari di principi liberali e democratici rammentava i tempi del risorgimento, in cui l’Inghilterra aveva avuto « rapporti
  • ELLi (vol. I, pag. 123) e da altri cronisti e storici di Genova. (*) Istruzioni del 22 ottobre 1858 a Giorgio Doria, Lazzaro Grimaldi ed altri, oratori a Sisto V. Arch. di Stato, Genova, Ms. Franzone, vol. II, p. 2222. AFFERMAZIONI DI SOVRANITÀ DELLA REPUBBLICA Di GENOVA ECC. 177 zioni, a detrimento della Repubblica. Ed ora, ad esempio, incarcerava su semplice sospetto e teneva per anni interi prigionieri degli accusati, senza iniziare il processo a loro carico e senza permettere Pingerenza degli Inquisitori di stato; ora armava servi e famigli del suo tribunale e minacciava la scomunica al bargelli) del comune, che secondo il concordato, li voleva disarmati (l) ; ora tentava di eliminare dai processi i « Protettori della repubblica »; ora rivendicava al tribunale dell’Inquisizione i processi cosidetti « mixti fori » — quelli di poligamia, per esempio — riguardati di prerogativa sia dello Stato, che dell’Inquisizione ; ora faceva firmare ordini e sentenze da un notaio Irate — e ognuno intende il motivo della preferenza _ invece che da un notaio laico, come il concordato prescriveva (2). Un giorno, PInquisitore — frate Michele Pio Passi, nativo di Bosco di Alessandria, « piccolo borgo ignobile, se non fosse stato illustrato dai natali di Papa Pio Y », è detto in una fonte del tempo — PInquisitore che fino allora aveva mostrato zelo eccessivo e non di rado assoluta intemperanza, fece affiggere sulle porte delle chiese di Genova un decreto della Congregazione delPIndice, firmato, non come di dovere dal notaio laico del S. Officio, ma da un frate. L’atto, compiuto, dopo otto lunghi anni di lotta or dissimulata ora aperta, ma sempre serrata fra Inquisitore e Governo, proprio mentre si svolgevano delicate e penose trattative con la Curia romana a proposito di antiche usanze violate dalPInquisitore, parve un nuovo attentato alle prerogative della Repubblica ed una provocazione. La notizia, riferita al Minor Consiglio, produsse una «straordinaria commozione negli animi dei consiglieri che riconobbero non essere stato provvisto con opportuno rimedio ed essersi proceduto con troppa dolcezza verso il padre Inquisitore » (3). Dopo breve discussione, fu deciso di espellerlo. Il Senato, senza far trapelare nulla, citò PInquisitore a palazzo. In presenza di due domenicani che servissero da testimoni (*) A. S. G.. Juriçjilictwnalium et Uccles, ex parte, filza 4-1404. (2) L Inquisitore fra Pietro Riccardi, ad esempio, pretendeva che i « secolari » della « famiglia » del Santo Officio portassero armi, non ostante il divieto della Repubblica. La tensione degli animi giunse a tanto, che il governo genovese chiese ed ottenne la remozione di lui, sostituito da fra Giovanni Battista da Sestola. Cfr. M. Aocinelli, Compendio, cit., I, 106. (·ι) 1 n tentativo di usurpazione dei poteri laicali compiuto dall'Inquisitore nel li>iH> e raccontato da Achille Neri. I/Inquisitore aveva fatto stampare un editto nel quale non piacquero alcune frasi, contrarie alla podestà laicale. Il governo ordinò di ritirare subito tutte le copie e di bruciarle, presenti due senatori a ciò deputati. E questi ebbero ordine di chiamare il tipografo, redarguirlo per aver egli contravvenuto al decreto del 1584 intorno alla revisione delle stampe da parte del governo, con libertà di sospendergli' il privilegio della tipografia, e di carcerarlo alVoccorrenza, secondo le risposte. Niello stesso tempo era avvertito l’Iuquisitore di pubblicare l’editto colle modificazioni introdotte dal governo. A. S. G., Jurisdictionalium et ecclesiasticorum ex parte, filza 1. Neri, cit., GS0-G87. 178 RAFFAELE CIASCA e di due procuratori perpetui rappresentanti del governo, il segretario della Giunta di giurisdizione cominciò a leggere il decreto di espulsione. Il padre Passi lo interruppe, allegando vizi formali di quella procedura. Rabbonito e ripresa la lettura, dette in escandescenze. Dategli nuove spiegazioni, e ripreso per la terza volta il segretario a leggere, si alzò d’impeto dal seggiolone dov’era a sedere, si turò le orecchie per non ascoltare l’intimazione, si dette a correre per la sala come un forsennato, si.lanciò verso la porta per aprirla e uscire di palazzo. Avendo il segretario fatta buona, guardia presso l’uscio, l’altro protestò, gridò alla violenza, lanciò la scomunica contro il segretario che gli impediva, di uscire. Fu guardato a vista, ma vanamente si tentò di calmarlo. S’interpellarono allora i teologi sul da fare. Su conforme parere, il Minore Consiglio decise il bando entro la serata. La. notizia di quel diverbio s’era intanto diffusa per la città. Molta gente s’era raccolta nel cortile del palazzo per curiosare, pei* dare animo al Governo, per far commenti sull’accaduto. I più non avevano mai visto con simpatia nè ΓInquisizione, nè quel tipo bollente ed intransigente di padre Passi. Questi intanto continuava. a protestare e a gridare di non voler assolutamente partire, di voler piuttosto subire il martirio a Palazzo, perchè si compisse lo scandalo. Quando, sul fare della sera, un sotto ufficiale di fanteria lo invitò a partire, riprese a protestare a voce più alta. Alle insistenze, forse non troppo rispettose, di quel soldato, l’Inquisitore lanciò la scomunica contro di lui e contro quanti erano andati ad arrestarlo ; finché continuando a rifiutarsi di levarsi dalla sedia do-v’era, fu « tirato a forza » e spinto in una bussola ; e sotto buona scorta di soldati tedeschi per garantirlo dalla furia popolare, fu portato, la notte stessa, di là dalle frontiere e fatto poi accompagnare da facchini al convento del Bosco (*). Fatto indubbiamente grave, che parve poi alquanto precipitoso ; chè altro era il diritto — indiscusso ! — della Repubblica di frenare i conati d’indipendenza del bollente padre Passi, altro sbrigativamente cacciarlo dal territorio della Repubblica, nelle circostanze e nel modo con cui fu cacciato. Ma, come dicevo, Genova era intrattabile ogni volta che, anche indirettamente, fossero in giuoco la sua indipendenza e la sua libertà. Difendeva la sovranità, non la discuteva. E come, cacciato appena l’Inquisitore, il governo ordinò ai giusdicenti di Savona, Sas-seilo, Novi, Ovada, Voltaggio e di altri centri del territorio, di vigilare con ogni cura per impedire il ritorno di padre Passi, così quei vecchi signori del Consiglietto, di fronte alla collera di Clemente IX (i) Lettera dei Serenissimi Collegi al Durazzo in Roma, deim maggio 1669; A. S. G., Jnrisdictionalium, filza 2-1403. AFFERMAZIONI IH SOVRANITÀ DELLA REPUBBLICA DI GENOVA ECC. 179 e all ira del Scinto Officio, ri muserò fermissimi nei loro propositi dichiarando che « bisognava fissare il chiodo, finché è tempo o almeno continuare ad intestardirvisi » (*). L’ ambasciatore Durazzo, che le fonti genovesi contemporanee presentano come mite uomo 'e di molto tatto, inviato a Roma per una mediazione col Pontefice alle recriminazioni di un Cardinale circa quella cacciata, ribatteva coraggiosamente che, in caso di recidiva, la Repubblica non avrebbe mandato via il Passi o altro Inquisitore « con li soldati, ma con le sassate, e senza gran consulta » (2). E tre anni dopo, ad un nuovo affronto del successore del Passi nell’Ufficio delPInquisitore, il governo di Genova non esitò a rompere, nonostante le minaccie deîla Curia, i rapporti diplomatici con la Santa Sede, lasciò cadere la mediazione, sollecitata dalla stessa Curia, del re Luigi XIV, dichiarando non doversi « assoggettare tutti gli affari della Repubblica all'arbitrio di Francia » (3) ; e solo dopo quattro anni di discussioni e di trattative, si chiuse, con piena vittoria di Genova, la questione aperta nel 1669 con la cacciata delPinquisitore Passi. È tempo di concludere. Non vorrei che rimanesse nei lettori Pimpressione che i rappresentanti del governo fossero mossi da animosità contro frati e preti, o da spirito di irreligione. Sarebbe impressione inesatta. I Dogi e i serenissimi Signori che con tanta decisione combattevano il domenicano Inquisitore e resistevano al Papa, erano uomini pii, sentivano profonda mente la religione, praticavano il culto per intimo, veracissimo bisogno dello spirito. I senatori e i membri del Consiglietto, che così fermamente sostenevano a palazzo la legittimità della resistenza alle rivendicazioni giurisdizionali della Curia romana, era- / no gli stessi che si raumilia.vano picchiandosi il petto nelle funzioni religiose e nelle processioni, che si preoccupavano perchè la Chièsa i1) Lettera dei Ser.mi Collegi al Durazzo in Roma del 24 maggio 1669· A. S. G., Jurisdictionalium, 2-1403. (2) Lettera del Durazzo da Roma del 9 luglio 1609; A. S. G., Lettere Mi-, nìstri Roma, 33-2374. (3) Relazione del Minor Consiglio del 30 novembre 1672; A. S. G., Jurìsdictio-naìium, 1 bis-1402. In seguito alle istruzioni impartite da Luigi XIV circa I affare dell Inquisitore, i Collegi avvertirono i deputati di esporgli che l’Inquisitore aveva recato pregiudizio « con violenze, con artifici poco sinceri e con forme poco appropriate » e che il governo voleva « non impedire Γesercizio della giurisdizione al Tribunale del S. Officio, ma invigilare che sotto pretesto di Inquisizione non si introducesse una sovranità a tutti i laici distrettiva della libertà e del principato», e raccomandava di «suggerire in questi sensi non solo per far conoscere i pregiudizi della Repubblica, ma anche generale di tutti i principi ; affinchè un Re tanto giusto, come 8. M. Cristianissima rifletta alla giustizia della Repubblica in questa causa, e conosca che non vi è luogo a inoltrarsi a promuovere le pretensioni di Roma, onde venga da sè stessa a cadere la pratica e svanisca il proseguimento del negozio ». Appunti storici e documenti nella R. Biblioteca Universitaria di Genova, vol. IV. c. 191. 180 RAFFAELE CIASCA non riguardasse come giorno festivo quello della Natività di Maria. Ma essi non potevano nello stesso tempo non ricordare di essere i custodi della sovranità e della maestà dello Stato, cioè, in definitiva, delle pubbliche libertà. Ho detto: delle « libertà ». E come la Repubblica volle affermare quel concetto, sciogliendo dalla catena gli uomini al remo, di servizio sulle galere ed istituendo le « galee di libertà » (χ), così lo stesso concetto affermò coraggiosamente — una volta fra mille — in una fierissima lettera al re Cattolico, che riproduco nella parte sostanziale, a conclusione del mio dire. Per 1’intelligenza di essa, è da premettere che. per certe minacce a un capitano delle fanterie genovesi, per delle lettere poco riguardose dirette al magistrato delle armi, per istigamento alla diserzione di soldati al servizio della repubblica, il governo di Genova aveva fatto carcerare Filippo Spinola di Giulio; ma, al momento dell’arresto, quest’ultimo, per evitare la pena in cui era incorso, aveva allegato di essere stato nominato maestro di campo di Sua Maestà Cattolica. E già i ministri di Spagna, il governatore di Milano e il viceré di Napoli iniziavano pressioni per salvare lo Spinola, prendevano occasione a molestare quei cittadini dai quali egli si era ritenuto offeso, cercavano di conoscere i nomi di quelli che non erano favorevoli alla Spagna, per travagliarli nelle rendite e nei beni posti nelle terre dipendenti dal Re Cattolico. Ciò premesso, ecco quanto scriveva il governo genovese, nel 10 gennaio 1635, a proposito di quella faccenda, a Giacomo De Franchi, ambasciatore presso la Corte del Re Cattolico : « Poiché, doppo Dio, non habbiamo cosa che maggiormente ci prema che il mantenimento della libertà, dignità e giurisdizione pubblica, perciò vi habbiamo, per altre nostre, significato che per queste caose intendiamo che nelle occasioni liberamente et animosamente parliate ». Ricordato poi i motivi che avevano originato l’arresto, gli uffici dei ministri del Cattolico e i propositi del governatore di Milano e del viceré di Napoli, continua : « Noi difficilmente crediamo queste cose, come molto aliene dalla ragione; e in ogni caso, stimiamo che sia contro alla Serenissima mente di Sua Maestà Cattolica. Ma se simili novità fossero in fatto sosistenti, ci dariano occasione di istraordinario sentimento, perchè sono velenose, minacciano contro alla libertà, et repugnano alle deliberazioni nostre, per le quali intendiamo di potere e volere castigare li nostri cittadini delinquenti, e massime li originarii, ancorché ufficiali o ministri di qualsivoglia altro Principe; nè sappiamo come alcuno possa persuadersi e stimare che l’accidente del ministero verso un prencipe straniero, debba prevalere alla ragione et obligo dell’origine e nascita di qualsiavoglia dei nostri cit- (i) Cablo Varese, Storia della Repubblica di Genova dalla sua origine sino al 181 Jt, Genova, Gravier, 1836, vol. VI, pag. 347. AFFERMAZIONI DI SOVRANITÀ DELLA REPUBBLICA DI GENOVA ECC. 181 tadini. Et di più vogliamo clie in questa repubblica li consiglieri non habbino libertà nelle opinioni, nelle sentenze e nelli giudici] senza che siano obbligati o alligati ad altra parte o fazione che alla giustizia et al dovere, e piuttosto perdano quanti beni hanno, che perdere, in questo o in altro, pure una minima goccia di libertà la quale deve antiporsi a ogni bene esterno, mentre non si può chiamare felice quella grandezza che non è congiunta con la prosperità della patria.. E sebbene, seguendo le pedate dei nostri maggiori, siamo sempre per desiderare e cooperare alla conservatione della monarchia di Sua Maestà e mostrare, con vivi effetti, quanto sia devota et ossequente la repubblica nostra verso della sua reai Corona, non è, per questo, che siamo per soffrire simili novità tanto perniciose al nostro stato ».... Conclude, rivolto all’ambasciatore : « Se voi, senza introdurre questa pratica, ne udirete trattare...., vivamente porgerete le ragioni della Repubblica, mostrarete la premura e gelosia che habbiamo in questo negocio, rapresentarete che non siamo per tollerare cosa alcuna che sia repugnante alla libertà, et che li cittadini nostri sono risoluti di vivere liberi o di morire, et in somma difenderete con ogni vigore la giusta caosa nostra, accompagnando la difesa con quelle efficaci parole e sentimento, che la prudenza, l’importanza del negocio, il luogo e la materia vi detteranno, a comodo e dignità della Repubblica » (x). È questo un documento di grande fierezza e di indiscusso amore alla libertà. Questo amore per la libertà, che il popolo sentì non meno del suo governo e che a più riprese dimostrò nelle sottili schermaglie giùrisdiziona 1 iste e nella pugna sul campo di battaglia, spiega perchè la repubblica del Tirreno visse non ingloriosamente lunghi secoli dopo il suo sfolgorante meriggio e fu tra le repubbliche illustri del nostro medio-evo l’ultima a declinare. (continua) Raffaele Ciasca (!) Lettera del governo di Genova a Giacomo de Franchi, del 10 gennaio 1635, ambasciatore presso il Re Cattolico; A. S. G., Lettere Ministri Spagna, 31-24-10, Libro dei negotij co’ Ministri di Spagna del Mg.co Gio. Batta Pastori dall’a. 1629 in 1635. PAOLO GIOVIO E GENOVA (Continuazione e fine - V. numero precedente) Amico fu il Giovio probabilmente anche di Federico Fregoso — fratello del doge Ottaviano — del quale fecero gran conto il Castiglione (che lo introdusse come interlocutore nel Cortegiano), YAriosto (che lo ricorda nel suo poema), il Bembo, il Sadoleto e altri maggiori letterati del tempo. Fu davvero un personaggio di grandi qualità, tanto che seppe unire il ministero del prelato (fu dal 1507 arcivescovo di Salerno e dal 1539 cardinale) con razione dell’uomo d’arme : ammiraglio pontifìcio, sconfìsse, nel 1516, a Biserta il corsaro Cortogli. Il Giovio lo ricorda nel già citato Dialogo intorno ai poeti, con queste parole : « Ammirano gli uomini più dotti anche Federico Fregoso, arcivescovo di Salerno, nel quale si pareggiano la grande nobiltà dei natali, la conoscenza altissima dell’una e dell’altra lingua, e la gravità dell’animo forte e la calma nel sopportare la iattura dell’esilio », allusione — quest’ultima — alla rinuncia alla carica arcivescovile, cui il Fregoso fu costretto dagli Spagnuoli. Un altro Fregoso, che unì l’attività politica al culto delle lettere, fu Battista (II). Creato doge nel 1478, dovette cinque anni dopo ritirarsi dalla carica, sopraffatto dallo zio Paolo, contro il quale egli si scagliò nel trattato De dictis et factis memor aòilvbus. Il Giovio, ricordandolo — negli « Elogi dei letterati » — fa appunto menzione di questa opera, dicendo che in essa il Fregoso, scacciato dalla signoria di Genova da disleali parenti suoi, « haveva raccolto esempi d’ogni secolo con sommo studio e con grande diligenza ». Aggiunge che siccome « ei non possedeva troppo bene lo stile latino, gli scrisse in lingua volgare e il milanese Camillo Ghilini li tradusse di lì a poco in latino » (*). Di parecchi Genovesi illustri il Giovio s’era anche procurati per il suo Museo, consacrato al culto dell’individuo, i ritratti. Vi figuravano — oltre il già ricordato di Cristoforo Colombo — quelli di Andrea (2), di Filippo (3) e di Giannettino Doria (3), di Gerolamo Adorno (3) e di Francesco Spinola (4). (!) Giovio P., Le iscritioni sotto le imagini degli huomini famosi in lettere (ediz. cit.), p. 240. Di Battista Fregoso, il Giovio fa parola anche nelle Istorie, P. I. (ediz. cit.), p. 101. (2) Dipinto dal Bronzino; si trova ora nella Pinacoteca di Brera in Milano (v. Rovelli L., I/opera.... di Paolo Giovfo (Como, 1928), p. 178, n. 136. (3) Rovelli L., o. c., p. 190, n. 312-314. (4) Fu fornito al Giovio da Giulio Romano (Rovelli L., o. c., p. 188, n. 289). PAOLO GIOVIO E GENOVA 183 * * * Con vivo interesse il Giovio si occupò anche della parte femminile della popolazione genovese, dedicando ad essa parecchie pagine del dialogo « Sulle donne illustri ». Dove, con brevi tocchi così ne tratteggia, anzitutto, il tipo fìsico e il carattere : « I volti * sono in grandissima maggioranza assai piacevoli per un dolce colorito, senza bisogno di molto belletto, e per l’espressione improntata a tenerezza. Nessuna ha ingegno inetto ; tutte si distinguono per arguzia di motti, per facezie e sali e, quantunque il discorrere sembri fluire alquanto guasto e impacciato dalla lingua un po’ blesa, insinua, tuttavia nelle orecchie, che si siano abituate, un certo languore e una specie di voluttà, più dolce d’ogni elocuzione per quanto toscanamente perfetta ». L’affabiltà e l’amenità del conversare sono pregi delle Genovesi che loro riconosceranno molti altri intenditori (1). Tra i quali, nel Cinquecento, il Vecellio dichiarò che esse sono « le più affabili et piacevoli donne nel conversare di tutta Italia, poiché negociano pubblicamente con tanta pratica et amorevolezza che par che siano sorelle di tutti quelli con i quali negociano traffichi o mercan-tie.... » (2). Matrone insigni e gentili donzelle dell 'élite genovese il Giovio conobbe in gran numero, frequentando le casate della maggiore aristocrazia della metropoli ligure. Di tali conoscenze egli ci ha tramandato il ricordo, facendone cenno nel dialogo sulle donne illustri. È però da rilevare con rammarico che, a differenza di quanto fece per le gentildonne di Venezia e di Roma, egli non si fermò a tratteggiare di nessuna genovese il ritratto in tutti i particolari; ma si accontentò di sommarie indicazioni e di brevi tocchi. Di una Genovese il Giovio parla a lungo, ma lo fa nelle Vite dei Visconti e la donna appartiene al medio evo. È Isabella Fieschi. la bellissima figlia di Carlo, sorella di Antonio Fieschi, vescovo di Luni, terça moglie di Luchino Visconti (1292-1349). Il Giovio accenna i di lei figli adulterini, l’amore incestuoso per il nipote Galeazzo « il quale vinceva tutti gli altri huomini di bellezza di corpo », lo scandaloso viaggio a Venezia svoltosi nel 1347, e l’amoroso incontro in quell’occaione effettuatosi con Ugolino Gonzaga (del quale s’era. innamorata l’anno prima, quando egli era venuto a Milano per tenere al sacro fonte i di lei figli Luchino e Giovanni e poi col Dandolo, doge di Venezia. (1) Pandiani E., Vita privata genovese nel Rinascimento (Genova, 1915), p. 167. (2) Giovio P., Vita di.... huomini illustri (ediz. cit.), p. 38. 184 CARLO VOLPATI Ecco la pagina del Giovio : « Isabella detta per soprannome Fosca [era] della famiglia dal Flisco, nobilissima in Genova e chiarissima per li due papi Innocentio et Adriano, e più che trenta Cardinali, onde ella con poco honesto portamento e volto ne mostrava e superbia e pompa. Avanzava costei le gentildonne Milanesi di bellezza, (li leggiadria, di delizie, et massimamente di fecondità di corpo.... Ma questa donna di sua natura disonesta et leggiera, essendo confinato Galeazzo, et ammalato il marito per le gotte, desiderando di veder la città di Venetia stupenda non pur per lo sito, ma molto maravigliosa ancora : nella festa dell’Ascensione di Cristo per li giuochi navali, et per la mostra delle ricchezze pubbliche et private, concedendo ogni cosa Luchino all’importuna moglie, con poca difficultà ottenne d'esser menata con una ornatissima armata per il Po, avendo tolto in sua compagnia alcune nobilissime donne, della cui onestà si dubitava molto, nè i lor mariti curavano gran fatto l'onore. Ora il fine di quella lussuriosissima navigazione fu questo, ch’ella se ne tornò con una singolare infamia d’aversi fatto abbracciare da Ugolino Gonzaga, et dal Dandolo, Principe di Venetia, riportandone ancora la medesima infamia alcune donne illustri di quella compagnia ». Nel dialogo intorno alle donne illustri la prima rappresentante del gentil sesso che il Giovio rievoca, con parole dove si sente un’intima commozione, è una fanciulla della famiglia Giustiniani, probabilmente Violantina, dotata di eccezionale bellezza, della quale pure è fatta menzione da altri elogiatori di donne del Cinquecento, come il Betussi, il Ribera e il Domenichi. Il Giovio, che conobbe la Giustiniani, quando, ancor giovanetto, aveva soggiornato a Genova per motivo di studi, dice che essa aveva nell’aspetto qualche cosa di divino e che, morendo (la morte era avvenuta già da molti anni) aveva lasciato nei Liguri grande desiderio di sè e fama d’immensa bellezza. . Al secondo posto ricorda il Giovio, come superiori alle altre, Teodora Spinola, maritata a Sebastiano Sauli, fratello del cardinale Bendinello, e Pellota Grimaldi, maritata a Gerolamo Doria. Di esse — egli dice — « la bellezza e l’eleganza splendettero uniche a quel tempo in cui Giuliano de Medici, fratello di papa Leone X, conducendo dagli Allobrogi [cioè dalla Gallia Narbonese] a Firenze la moglie, fu ricevuto dai Genovesi con grandissimo onore ». Il che avvenne nel 1515. Ma adesso, mentre il Giovio scrive, « avendo Teodora per i molti parti perduto il vivo ornamento della bellezza e crudeli fati avendo rapito la Pellota », il primato era passato ad un’altra gentildonna, cioè a Caterina Spinola, soprannominata, per la deliziosa festività, Melibea. Aggiunge il Giovio a suo riguardo : « La vedemmo sopra altre onorata per le molte sue doti desiderabili del corpo e dell’animo. È infatti il suo animo elevato, libe- PAOLO GIOVIO E GENOVA 185 pale, gentile, pudico; non è seconda a nessuna per la leggiadria del volto, riuscendo con facilità prima in ogni raffinatezza o d'illustri costumi o di poesie toscane o anche di squisite eleganze ». Un’altra signora della quale il Giovio ci delinea il profilo è M. Gentile. « In essa — egli scrive — la gioventù stupita ammira il decoro d’una perfetta bellezza e d’un’esimia statura e il fulgore dei neri occhi e le rosee guance e le labbra non spalmate di rossetto ». Non aveva però altrettanto raffinate qualità dello spirito, colpa una manchevole educazione : i suoi modi erano, cioè, un po’ rustici e piuttosto rozzi e l’educazione di lei era stata rigida e poco liberale. Pareva però al Giovio di poter pronosticare che, se essa fosse stata affidata — per essere dirozzata e istruita secondo l’uso cittadino — alle matrone e alla gioventù, le maniere di lei avrebbero potuto farsi dolci e aggraziate i1). Altre donne di cui il Giovio fa quindi, in forma più o meno ampia, menzione, sono Argentina Centurione, le due sorelle Tamesine. la Camogenia e Lucrezia Gentile. Della prima — figlia di Martino, ambasciatore di Carlo V — dice il Giovio che conservava ancora la dignità della bellezza, sostenuta dalla soavità dei costumi, soavità fatta, di cultura. Le due Tamesine appartenevano alla casa Sauli — « ornatissima per ricchezza, splendore, cultura e ogni virtù », ed erano entrambe nel fiore dell’età. L’una si chiamava Lomellina, l’altra Spinola e s’erano sposate a due fratelli, « la prima a Nicola Mensario, uomo di somma fede e attività; l’altra a Domenico, cultore tanto d’ogni eleganza e delle ottime lettere, quanto, e soprattutto, della pubblica libertà». Poi il Giovio aggiunge: « La Spinola, per un certo puro e sempre eguale candore del corpo e dell’animo e per l’insigne pudicizia, è cara al marito e a tutti. Ma la Lomellina, più felice nella particolare bellezza di tutto il volto e degli occhi, è d'indole così mobile e spesso anche orgogliosa, che nulla si giudica più fragile della sua grazia e famigliarità ». Della Camogenia (= donna di Camogli?), il Giovio si limita a dire che « con l’inesprimibile fulgore dei dolci occhi colpì la vista ed arse i cuori di parecchi uomini illustri ». Infine Lucrezia Gentile è presentata come ricca di pregi della persona e di spirito, e si dice che « assai finemente addolcì la soavità del patrio costume coi romani sali » ; che aveva « bellissimi occhi, guance rosee senza bisogno di belletto; una pienezza in tutto, punto eccessiva e molto distinta per un tal quale nitore argenteo ». Occupandosi dei costumi genovesi nel riguardo dei rapporti fra i due sessi, così il Giovio delinea anzitutto il carattere e le tendenza della parte maschile : « Gli uomini sono tra loro faziosi, valenti (!) Il passo relativo a M. Gentile appare posteriormente cassato. ί 186 CARLO VOLPATI d'ingegno, operosi, diligenti, lontani da ogni austerità quando soprattutto si dedicano alle sostanze e agli affari ; però in certe ore e in certe circostanze s’abbandonano abbastanza liberamente ai piar ceri e prima d’ogni altra cosa si dilettano degli amori delle donne ». Delle quali così il Giovio descrive le abitudini e le inclinazioni : « Tutta la loro forma di vita è certo elegante, raffinata, dedita al piacere, liberale, giacché non fu mai per una matrona nè indecoroso nè disonesto lasciarsi guardare apertamente, venir assiduamente corteggiata e anche con passione vagheggiata ». Ed ecco una situazione in fatto di rapporti tra i due sessi abbastanza significativa per un giudizio circa la pubblica moralità : « Avviene per un singolare senso di equità e d’indulgenza da parte dei coniugi e dei parenti, che si esercitino spesso amori alterni, come se i voleri, per una specie di fatalità, si siano tra loro messi d’accordo ». Un’avvertenza però soggiunge subito il Giovio per prevenire da parte del lettore un’errata illazione : « Non bisogna credere che quella mirabile, assai vivace, giocondità di vita possa o nuocere al pudore od offuscare coi sospetti una chiara reputazione, chè in tanta pubblica facilità di andare e di parlare, vediamo molto spesso che ai convegni occulti ed impudichi più si tolgono o si precludono, che non si procaccino, gli aditi tutti, e certo in così tenera consuetudine le concepite libidini si dissolvono in sussurri e chiacchiere abbastanza lunghe, diversamente da quello che avviene nelle matrone custodite con rigore, le quali, appena allontanati i testimoni, siano state un po’ più blandamente intenerite all’orecchio e toccate anche leggermente con la mano, finiscono per credere cosa inumana il resistere ai cupidi amanti o l’opporsi un po’ aspramente in una cosa dolcissima ». Occasione quanto mai propizia agli amoreggiamenti offrivano le veglie invernali. Con abili tocchi è quindi delineato un quadro di soggetto amoroso, assai interessante per la storia del costume in Genova: « D’inverno si tengono in tutta la città, pei un’antica consuetudine, prolungate veglie notturne, atte più di quel che si potrebbe credere, a favorire gli amori. Chè da ciascun vicinato, onorando le donne di grado inferiore quelle più nobili, in gran numero si radunano, siedono al lume delle lucerne come se occupate a cucire tele ed ivi aspettano, dagli usci aperti, gli amanti e i vagheggiatori. Questi, indossando sopravvesti fornite di cappucci e scendenti fino ai piedi, si mettono sulla faccia un sottile velo di seta, guardano attraverso due forellini, si siedono su poltrone ed espongono a benigni orecchi i teneri loro pensieri ». Ma anche l’estate aveva le sue felici risorse e deliziose opportunità per il giuoco dell’amore. In primo luogo le ville, per le quali già abbiamo visto quanta ammirazione il Giovio nutrisse. E d’estate PAOLO GIOVIO E GENOVA .187 e in ville le gite in barca costituivano il momento culminante per le dilettose schermaglie e le piccanti avventure : « Nessuna maggiore libertà di darsi all’allegria e di rivolgere la parola alle donne in modo abbastanza procace che quando le matrone trascorrono su barchette e lidi e per amor del pescare si portano in alto mare : allora infatti è lecito anche ai più bassi omiciattoli di sollecitare all’atto, rinfacciare le libidini e con oscene richieste ferirne il pudore ». Un uso che ricordava (e il Giovio ne fa cenno) quello in vigore a Napoli, ove, durante la vendemmia, i portatori di brenta si permettevano notevoli libertà verso le signore anche di grande casato. In ogni ordine sociale, in ogni età, in ogni tempo, l’amore faceva sentire in Genova il suo imperio : « Non v’è donna appena distinta per costumi e per bellezza che non abbia un suo, e, naturalmente, ragguardevole, amante; non c’è alcuno così misero, così vecchio e così premuto dalle sue occupazioni, che non corteggi una donna o nella speranza di possederla o per diletto dello spirito o a sollievo degli aiìari e dei pensieri tutti ». Parimente « le donne non interrompono mai, in qualsiasi stagione, nè le esercitazioni amatorie, nè i piaceri di genere onesto, non essendo impedite dalle noie della famiglia, chè le cure delle faccende giornaliere sono affidate a rozze cameriere e all’altra servitù ». E anche le cameriere « comprate dagli Sciti e dai Numidi » (ossia provenienti dall’Oriente d’Europa o dall’Africa settentrionale), professavano, al pari delle padrone, il culto di Venere : « impiegano — dice il Giovio — i giorni festivi negli amori, si esercitano in so lazzi abbastanza, lascivi e libere danze presso il forte amatorio e sulle verdeggianti rive del Feritore »,' ossia, come oggi si chiama, del Bi-sagno. Si sa che certe località, sia in Genova che fuori, erano dal governo interdette ai balli delle fantesche. Concludendo : « In nessuna parte del mondo si passa la vita o in più molle libertà d’animo o in più sicura possibilità di vita facile ». Sia la conclusione, che il quadro precedente costituiscono da parte del Giovio un interessante complemento e un’autorevole conferma a quanto si trova scritto suirargomento presso altri autori del tempo. Basti ricordare, riguardo alla reciprocità degli amori adulteri e alla bramosia d’amare, quello che si legge in certe pagine dell’Atesano e di Enea Silvio Piccolomini, che, tra l’altro, non esitò a proclamare Genova il « paradiso delle donne » e il « paradiso delle delizie » (*). Riguardo alle veglie e ai corteggiamenti che vi si praticavano, offre opportuno riscontro quello che si desume dalla commedia di Paolo Foglietta, « Il Barro » (2). (1) Pandiani, o. c., p. 169-170. (2) Pandiani, o. c., p. 170-1. CARLO VOLPATI Per le veglie e l’uso delle maschere la descrizione del Giovio ha. anche il pregio di documentare un’altra volta la ben nota inefficacia delle leggi contro certe abitudini, essendo notorio che, contro le veglie e le maschere, il governo genovese fin dagli anni 1442 e 1449 emanò prammatiche allo scopo appunto di farne cessare l’uso e l’abuso f1). Anche all’abbigliamento delle Genovesi si volge la. curiosità del nostro storico, nonché vescovo. Il quale, con visibile piacere, si trattiene a discorrerne così : « Portavano le Genovesi pochi anni fa piccole vesti bianche di seta, che lasciavano uscir le braccia nude nè scendevano tino ai piedi, così che apparivano i bei piedini, le dipinte scarpette e i piccoli calzari impressi con ferro infocato. Coprivano con altissime sottovesti i seni e la parte superiore del petto, il che era indecoroso e sconveniente. Con piccole cinture si allacciavano tre catenelle d’argento, dalle quali pendeva una quantità di cose: borsellino di seta, due coltellini dai manichi cesellati con forbicetta e una noce per unzioni, chiusa in un globetto d’argento a reticella, da usare contro la nausea ». Questo il figurino d’una volta. Al tempo in cui il Giovio scriveva un’altra foggia, meglio corrispondente alle più raffinate esigenze del buon gusto e della galanteria, s’era. imposta : « Ma ora quel modo di vestire — continua il nostro informatore — è cominciato ad essere motivo di vergogna, come meschino e goffo per quelle d’una certa nobiltà. Queste, infatti, portano sopravvesti di velluto di porpora, con strascico; adornano di monili gemmati i seni scoperti e ricercano, per sfoggio insaziabile di lusso, ornamenti costosissimi d’ogni sorta ed anche le delizie dei profumi ». Confrontati con quanto dicono altre fonti della moda femminile genovese nei primi decenni del secolo XVI, i cenni del Giovio risultano parte confermati, parte contenenti nuovi dati. Che il color bianco fosse dalle Genovesi preferito per le loro vesti è concordemente affermato dagli scrittori che in quel tempo ebbero motivo di occuparsi di tale argomento (2). Per altri particolari basti ricordare, ad esempio, che il fiorentino Ridolfi, nel 1480, scrisse delle Genovesi che esse « comunemente cingonsi in su le poppe con collari alti » (3), che Jean d’Auton (1502) parla di «vesti corte giungenti soltanto sino a mezza gamba» (4), e il Ve-cellio osserva che « .... si scopre la gamba per essere la veste più succinta che non usano ai nostri tempi » (5), cioè alla fine del secolo XVI. In proposito già nel 1506, in una legge suntuaria, le vesti mu- (1) Pandiani, o. c., p. 174. (2) Pandìaxi, o. c., p. 124. (3) Pandìaxi, o. c., p. 120. (i) Pandiani, o. c., p. 121. (5) Pandiani, o. c., p. 122. PAOLO GIOVIO E GENOVA 189 liebri erano giudicate troppo corte « et distantia a terra contra honestatem muliebrem », sicché per l’avvenire si decretava che il vestito delie donne non fosse « alto da terra più di mezzo palmo » (r). E quanto all’« andar mostrando con le poppe il petto », nel 1512 una nuova lègge suntuaria stabiliva che le donne dovessero « de chi avanti andare cum lo pecto coperto et similimenti le spale.... » (2). Pure per gli ornamenti d’oreficeria e di pietre preziose, quanto accenna il Giovio è confermato da Jean d’Auton, il quale parla di monili e pietre preziose, di cui le genovesi s’ornavano la fronte, il collo, le braccia (3). Nè contro gli oggetti d’oreficeria mancarono disposizioni nelle ricordate leggi suntuarie del 1506 e del 1512 : nella prima si vietava l’uso di braccialetti d’oro e d’argento, permettendosi soltanto una catenella d’oro al collo, nella seconda si po-nevan freni all’abuso dei gioielli (4). Quanto agli oggetti che le signore tenevano appesi alla cintura, quel che dice il Giovio trova solo in parte riscontro presso il Vecel-lio, in quanto questi fa menzione di una borsetta, pendente dalla cintura e dove le signore tenevano denaro « con alcune cosette molto necessarie alle donne, cioè bussoletti de achi et detali [il così detto « gusellaro »], seta- et quello suole far spesso alla cura delle case loro'» (5). La notizia del Giovio trasforma un oggetto di uso casalingo in un grazioso ammennicolo per l’eleganza e l’estetica femminile, che avvicina di molto le Genovesi del secolo XVI alle loro concittadine Novecento. Carlo Volpati (1) Pandiani, o. c., p. 160. (2) Pandiani. o. c., p. 161. (3) Pandiani, o. c., p. 158. (4) Pandiani, o. c., p. 160. (5) Pandiani, o. c., p. 122. RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA NEL SEC. XVII E GIO. BERNARDO VENEROSO L Primi rapporti fra Genova e Venezia per la guerra di Candia (1645) : G. B. Della Rovere e R. Della Torre. — 2. Giuliano Spinola. — 3. Un cardinale e un mercante : giudizio dell’ambasciatore di Francia. — 4. Deliberazioni del Governo genovese (1640). — 5. Le trattative di Raffaele Giustiniano nel 1647. — 6. G. B. Yen eroso e il suo primo progetto di armamento per Venezia (1048). —* 7. Nuovo progetto del Yeneroso per il 1649. — 8. G. B. Yeneroso Governatore della Corsica e la stampa del suo «Discorso». — 9. Il causidico veneziano Ippolito Maruffi (1650). — 10. Altri tentativi per raccordo fra le due Repubbliche. — 11. Ritorno del Yeneroso dalla Corsica e suoi nuovi negoziati (1651). — 12. Fallimento delle trattative. — 10. Nuova attività del Yeneroso a favore di Yenezia. — 14. Italianità di Gio. Bernardo Yeneroso. Gio. Bernardo di Geronimo Yenéroso va ricordato come una figura del mondo politico genovese del seicento degna di rilievo. Appartenente a cospicua famiglia dell'albergo dei Lomellini, che diede alla Repubblica due Dogi — il figlio stesso ed il nipote del nostro gentiluomo —, capitano di galee e senatore, uomo di azione e di saggia eloquenza nei Consigli, ricoperse con lode molteplici magistrature e prese attiva parte all'esame dei più vitali problemi della sua patria : la quale egli, fiorendo in un perìodo clie parve e fu di risveglio e d'incremento delle più feconde energie dello Stato, sognò forte e risorta a nuovi destini. Qui noi vogliamo considerarlo sotto un particolare aspetto della sua attività — peraltro il più significativo e il più nobile — in quanto cioè egli fu in Genova uno dei più caldi sostenitori della necessità di un'unione cordiale con la Repubblica di S. Marco. Debbo pertanto riprendere nel presente studio un argomento altrove ampiamente trattato (l), integrando e sviluppando, sulla scorta di altri documenti (2), alcuni punti o brevemente svolti o appena Oì O. Pastine, La polìtica di Genova nella lotta veneto-turca dalla guerra di Candia alla pace di Passaixncitz. in «Atti della R. Deputazione di Storia Patria vol. Ili (LXYIIÌ, pp. 1-154, 193S-XYI. (-) Ad eliminare troppo frequenti e particolari annotazioni, ricordo una volta per sempre che i documenti di cui mi valgo nel presente studio e che non vengono diversamente indicati, si trovano nel R. Archivio di Stato ix Genova, Politicorum. busta 10/1656, fase. 23, 38. 54, 71. 93, e Secretorum, filza 1S/1573. RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GJO. BERNARDO VENEROSO 191 accennati, ed aggiungendo ancora qualche nuova serie di fatti a quelli già da me rintracciati ed esposti. È necessario però, anzitutto, soffermarci alquanto sui preliminari della questione che ci interessa : si potrà in tal modo meglio intendere e valutare l’azione del Yeneroso, e mi si presenterà nella stesso tempo anche l’opportunità di completare le notizie precedentemente raccolte intorno ai primi tentativi di accordo fra le due Repubbliche allo scoppiare della guerra di Candia. 1. - I contatti fra l’uno e l’altro Governo ebbero inizio subito dopo l’arresto del bailo veneto a Costantinopoli e la mossa turca su l’isola. Da Yenezia il Senato con dispaccio dell’8 luglio 1645 ordinava al residente in Milano, Taddeo da Vico, di notificare quei dolorosi eventi all’Ill.mo Gio. Batta Della Rovere in Genova, il quale, « come figliolo di S. Marco bene intentionato », avrebbe dovuto — mentre si sarebbe ricorso anche agli altri Principi — farsi intermediario presso la Repubblca di S. Giorgio per ottenerne i maggiori aiuti possibili i1). La lettera del residente veniva infatti rimessa dal destinatario ai Sei*.mi Collegi, che con deliberazione del 17 luglio facevano subito rispondere dal Della Rovere stesso di non poter egli assumere l’ufficio affidatogli, in quanto un precedente decreto vietava ai cittadini genovesi di trattare negozi di Principi forestieri. Contemporaneamente da Roma 1' inviato straordinario Raffaele Della Torre, sollecitato fin dal maggio perchè ottenesse la partecipazione di Genova ad una eventuale lega dei Principi cristiani, trasmetteva il breve di Innocenzo X (12 luglio) invocante il concorso delle forze liguri nella lotta contro il comune nemico. Il Della Torre, mandato alla Corte papale per proseguire la vecchia pratica relativa alla concessione della « sala regia » agli ambasciatori genovesi; valorizzava ora la sua richiesta di fronte a quella pontifìcia degli aiuti navali. Ma la Repubblica veneta in realtà avrebbe desiderato ricevere i soccorsi direttamente, e neppure era favorevole a condurre trattative in Roma, come, per semplice convenienza di luogo, avrebbe preferito il Governo genovese. In fondo entrambe le Repubbliche erano propense all'unione immediata delle loro forze: senonchè fin da questi primi approcci già (i) G. B. Della Rovere è padre di quel Giulio Della Rovere, di cui parlai in La polìtica di Genova ecc.. cit., cap. II. §§ 6. 7. Per i primi rapporti con Yenezia. ai quali qui mi riferisco riportando soltanto i fatti non ancora esposti. e per la questione degli « onori regi » subito dopo ricordata, si veda per intero il cit. cap. secondo. 192 ONORATO PASTINE emergevano quelli che furono gli elementi essenziali del perenne dissenso. Venezia non intendeva rivolgersi direttamente al Governo genovese per non dare a quel Doge l’ambito titolo di « Serenissimo » ; tale titolo, poi, e le altre pretese prerogative voleva in ogni caso patteggiare, onde cercò sempre di valersi dell’opera di intermediari per accertare, prima di ogni eventuale concessione da farsi con l’apertura di negoziati, la possibilità di conseguire un congruo contributo di armi o di denaro. Genova ripeterà dal canto suo con ostinata insistenza il solito motivo : domandare anzitutto ciò di cui si abbisognava nei termini che si esigevano per giustizia e con le garanzie richieste dalla dignità pubblica, sia riguardo al trattamento degli ambasciatori, sia per il posto dovuto allo stendardo, a fine di ottenere, in un secondo tempo, quanto si sarebbe stati in grado di offrire. Da questo contrasto, in apparenza di semplice carattere procedurale, scaturiva una sempre più viva diffidenza fra i due Governi. Dubitava Venezia che, una volta compiaciuti i Genovesi, non si volesse o potesse poi contribuire in tutto quello che si desiderava, come compenso della buona volontà dimostrata ; e temeva Genova che, col precisare l’offerta del soccorso prima che si riconoscessero le prerogative bramate, si pensasse poi di accordare queste soltanto parzialmente, o di farne dal profitto dipendere la concessione per via di mercato, mentre esse venivano pretese per puro diritto. E siffatta diffidenza, se talvolta si direbbe dissimulare da una parte la poco buona inclinazione ad accondiscendere contro le ripetute amichevoli dichiarazioni, dall’altra quella stessa intenzione di mercato o, se vogliamo, di ricatto che si ostentava di sdegnare, finì per rimanere essa stessa ragione fondamentale della mancata unione. Alla reciproca inflessibilità si congiungeva o sovrapponeva in tal modo il vicendevole sospetto. Gli uni e gli altri temevano di essere burlati e frodati : i Veneziani nel vivo interesse degli aiuti concreti di cui abbisognavano ; i Genovesi in quello delle preminenze onorifiche alle quali aspiravano. Ma in realtà, tanto per Venezia come per Genova, due erano gli interessi in giuoco, assumenti per ciascuna un valore antitetico : materiale Tuno,' formale l’altro. E quest’ultimo si traduceva nell’ambizione (non del tutto vuota, del resto) di conservare o di conquistare una più alta dignità di rango ; il primo si realizzava nel conseguire o fornire (differenza non lieve) aiuti di navi o di denaro, i quali, per necessità diverse ma ugualmente plausibili, era naturale che da una parte e dall’altra si cercasse di ricevere o di dare rispettivamente nella maggiore o minor quantità possibile. RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. BERNARDO VENEROSO 193 2. - Mentre a nulla approdavano in Roma i ripetuti colloqui del Della Torre col Pontefice e F abboccamento fra i ministri delle due Repubbliche (12 novembre 1015), a Venezia si svolgevano altre pratiche^ delle quali ebbi già occasione di fare un breve cenno 0) e che siamo ora in grado di ricostruire integralmente. Il 28 ottobre 1645 il M.co Giuliano Spinola, residente in quella città, informava che il Savio di Terraferma, Luigi Molin, « soggetto stimatissimo », discorrendo con lui delle turbolenze di Candia, gli aveva manifestato la sua sorpresa, perchè il Governo genovese, dopo aver promesso al Papa l’aiuto delle sue galee, non l’avesse poi mandate; al che lo Spinola aveva risposto che questo invio si sarebbe effettuato quando fossero stati concessi i trattamenti richiesti e dovuti. Il Veneziano, pur dichiarando di parlare di sua iniziativa, affermava allora che si sarebbe fatto autorizzare dal Collegio — che sapeva del tutto favorevole — a pregarlo di interporsi presso il suo Governo, perchè fosse egli stesso incaricato di procurare l’aggiustamento del cerimoniale. Riferendo subito quanto sopra, lo Spinola aggiungeva pure di avere inteso che anche nei Pregadi si era discussa la cosa con propositi di concedere le soddisfazioni desiderate. Alla risposta del Segretario di Stato, G. T. Podio, il quale smentiva la pretesa promessa al Papa e mostrava la piena inclinazione verso la Repubblica veneta e l’intenzione di condurre Paffare in Roma, replicava (18 novembre) il gentiluomo Spinola che quei Signori desideravano accordarsi in Venezia e non nella città eterna, non essendo, quella del trattamento fra le due Repubbliche, materia che interessasse il Pontefice, cui solo riguardava la questione della « sala regia ». E poiché ancora il Segretario, pur riconoscendo la diversità delle due pratiche, insisteva sulla maggiore comodità degli abboccamenti fra i due ministri in Roma, gli veniva riferito (28 nov.) che, a notizia del predetto Savio di Terraferma, quel Collegio aveva « uno ore » risoluto che soltanto in Venezia si dovessero svolgere le trattative. Mentre intanto si ponderava in Genova il modo di rispondere al breve pontifìcio, e non mancava chi sarebbe stato favorevole ad un concorso disinteressato, lasciando cadere per il momento le pur giuste pretensioni degli onori regi, da Venezia il M.co Giuliano Spinola ripetutamente scriveva per avere alle sue lettere una qualche risposta, colà vivamente sollecitata, assicurando risultargli che quei Signori erano « vogliosi » delPaggiustamento invocato. Il Governo Ser.mo, certo nelPattesa delle deliberazioni in corso, non diede alcun riscontro alle varie richieste ricevute fino al dispaccio del 15 gennaio 1646, con cui si ribadiva quello che rimase sem- / (i) La polìtica di Genova, ecc., cit., capp. II, 7; IH. 1, 2. 194 ONORATO PASTINE pre suo principio incrollabile in questo affare, e cioè che sarebbe stato possibile alla Repubblica di S. Marco il togliere Punico impedimento al negoziato col dare il titolo di Serenissimo, poiché in tal modo essa avrebbe trovato in Genova « buona disposizione in tutte le occasioni di suo commodo ». Ma dopo questa risposta, gli indugi vennero ora da Venezia. Che da questa parte persistesse la resistenza ad ogni concessione lo prova anche il contegno degli ambasciatori veneziani che si seguirono in Roma nella seconda metà del 1645, come già altrove vedemmo. L'uno dichiarava che non ci sarebbe stata possibilità di trattare delle preminenze in parola nè « adesso nè mai » ; Paltro incolpava la Repubblica di S. Giorgio di non restar paga ai titoli antichi. Quanto al Molin, dopo la lettera del Podio cominciò egli a tergiversare, accampando più volte, a giustificazione, le occupazioni^ i negozi gravissimi del Collegio e persino il Carnovale, dicendo infine che sperava di poter dare una risposta il secondo giorno di quaresima. Così riferiva lo Spinola (10 febbraio 1646), aggiungendo di essere a conoscenza che vi era volontà di dare il titolo, ma soltanto dietro l’assoluta certezza delPaiuto che Genova avrebbe fornito per la futura campagna, mentre nei Pregadi era stato considerato che PImperatore aveva concesso appunto il titolo stesso « per il sborzo » (x). Emergeva così fin da principio quella diffidenza a cui accennammo qui sopra e quel carattere di mercato che Venezia intendeva dare alla pratica contro la suscettibilità di Genova, che esigeva il riconoscimento per giustizia e quindi precedente ad ogni deliberazione. 1 3. - In quello stesso tempo, fra il gennaio e il febbraio del 1646, anche il card. Donghi mostrava il suo interessamento per quest’affare. L’Ill.mo Agostino Pallavicino comunicava infatti (10 gennaio) aver quel porporato espresso, con lettera al M.co Bartolomeo Donghi, il suo desiderio di aggiustare tutte coteste difficoltà. Ed i Collegi anche a lui facevano rispondere che la Ser.ma Repubblica amava e stimava quella di Venezia, la compativa nei suoi presenti travagli e « vivamente » avrebbe voluto « cooperare alla sua difesa » ; onde se si fosse aperta « strada per qualche negotiatione » Pavrebbe abbracciata « sempre volentieri », nè reputava esservi a tal fine mezzo più accetto di quello del cardinale, e per la sua destrezza e per lo zelo mostrato verso la patria. Lo stesso prelato informava inoltre da Ferrara, il 2 febbraio, che era passato di là certo Gio. Batta Dotto, negoziante genovese residente in Venezia, diretto alla volta della sua città natale, col pensiero di far proseguire quel trattato. Da lui aveva appreso che « la (i) Cfr. La politica di Genova ecc., cit., cap. I, 8. / RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. Bl·RNARDO VENEROSO 195 difficoltà si restringeva nel pontiglio delle proposte », ossia se dovesse precedere l’offerta del soccorso o la concessione del titolo. Era questa di fatto la formulazione esatta del dissenso, e il cardinale riteneva — stando così le cose — che 11011 fosse difficile trovare un qualche ripiego. Secondo il Dotto, poi, sarebbe stato sufficiente a tal uopo cbe la Repubblica decretasse come « ricorrendo nelle debite forme quella di Venetia per aiuto se li dovesse assistere ». Riassumeva e commentava chiaramente la situazione, in una sua lettera privata del 27 gennaio ad un gentiluomo genovese, l’ambasciatore di Francia a Venezia : la cosa era giunta a conclusione _ egli scriveva — quando da entrambe le parti era subentrato un sùbito raffreddamento. Si dubitava a Venezia che i Genovesi « ha vendo una volta spontato i pretesi titoli, non corrispondessero poi con quei effetti si poteano desiderare » ; ed era « veramente una gran cosa che in tempo di tal bisogno si stesse con tante durezze, e che i pontigli pregiudicassero la somma delle cose ». Certo Venezia avrebbe avuto maggior vantaggio dal soccorso di dieci galee che non pregiudizio da « qualsivoglia sorte di titoli », non trattandosi in definitiva che di « vanità e cose aeree » ; mentre a Genova sarebbe riuscito sicuramente di utilità e di gloria vincere il suo punto « se ben dovuto », ed arrestare i progressi del comune nemico; giudicava pertanto necessaria in entrambi i Governi una « maggior disposizione ». 4. - I Ser.mi Collegi, infine, pressati da tante parti, decisero di sottoporre il tutto al Minor Consiglio per una formale deliberazione. Fra il 19 e il 22 febbraio 1616 si tennero varie sedute e diverse proposizioni furono esaminate e sottoposte a votazione, sempre col vincolo del segreto. La conclusione fissava definitivamente il punto di vista della Repubblica. Si respingeva la proposta di provvedere senz’altro all’armamento spendendo « quello che bisognava », nell'ipotesi che, una volta fatto ciò, si sarebbe negoziato « con maggior vantaggio » ; e neppure riportava i due terzi prescritti dei suffragi (ottenendo solo 66 voti contro 41) l’altra proposta di procedere, previa la concessione dei tffoli, al massimo armamento possibile, purché non superasse le « quindici galee già deliberate », galee che furono effettivamente armate nel 1646. In quell’atmosfera di reciproco sospetto si tendeva ad arretrare piuttosto che a- progredire. Nel luglio precedente — come altrove vedemmo — Collegi e Minor Consiglio avevano offerto esplicitamente al Pontefice dodici galee e sei vascelli; ora la proposizione approvata con 78 voti contro 35 era così genericamente concepita, senza quella precisazione a cui tanto teneva il Governo veneto : « corrispondendo i Venetiani a i meriti della Ser.ma Repubblica col titolo 196 ONORATO PASTINE dovuto ad essa e a suoi ambasciatori per li mezzi e termini che si stimeranno più honorevoli per la Repubblica si mandino le Galee in aiuto de Venetiani in quel numero e nella maniera e sotto quei modi e mezzi che si dichiareranno da Ser.mi Collegi e Minor Consiglio ». . . Le richieste erano poi fin d’ora precisamente formulate : titolo di « Serenissimo » al Doge e di « Eccellenza » agli ambasciatori, che dovevano ricevere trattamento di parità ; precedenza allo stendardo da collocarsi subito dopo quello del Papa e delle due Corone. Le due parti si erano così irrigidite sulle rispettive posizioni, e il negoziato, che per altro non aveva assunto alcuna veste ufficiale, si arrestava a questo punto, ordinando il Governo genovese al nI.co Giuliano Spinola, verso la fine di marzo, di non prendersi « altro fastidio » in questa pratica (*). 5. - Le trattative non furono riprese che un anno dopo, e questa volta con più spiegata formalità, essendo intermediario il M.co Raffaele Giustiniano, nobile genovese dimorante a Λ enezia e al soldo di quella Repubblica. Anche su questo personaggio dobbiamo indugiare un poco, interessandoci esso per le relazioni che ebbe in seguito col nostro V e-ueroso. All’episodio che stiamo per esporre e che già ricordai sommariamente altra volta (2), parecchi particolari si possono qui aggiungere, dai quali si rileva il procedere accorto del mediatore, tendente, con spirito mercantesco, sebbene senza pratici risultati, ad ottenere il più che gli fosse stato possibile. Egli, che del resto, come potremo in seguito vedere, era un convinto assertore della convenienza di quell’unione a cui più volte dedicò la sua attività, doveva evidentemente agire in conformità delle istruzioni ricevute e dalle quali restava di necessità vincolato, men tre d’altra parte era naturale che aspirasse a rendere l’opra sua meritoria verso il Governo da lui servito, pur ritenendola altresì utile alla sua patria, che certo sinceramente amava. Il Giustiniano, venuto espressamente a Genova, nella prima udienza ottenuta dal Doge, secondo quanto riferiva questi ai Collegi il (!) Il dubbio da me espresso nello studio cit. (p. 46), se si trattasse di un arresto delle trattative o di uno spostamento verso altri diretti rapporti, è risolto ora chiaramente nel primo senso dai nuovi documenti presi in esame, dai quali risulta una effettiva interruzione di negoziati, anche se in^ Roma il ministro genovese continu ava a discorrere della cosa con Innocenzo X. Per i riguardi verso Venezia usati in questi tempi da Genova nelle relazioni con Costantinopoli, vedasi: La politica di Genova, ecc., cit., capp. I, 7 e III, 3, 4. (2) S-tudio cit., cap. III, 3. RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. BERNARDO VENEROSO 197 15 febbraio 1647, si esprimeva ancora nei vecchi termini già respinti, e sulla base di informazioni avute — egli diceva — da « qualche senatore » : dare certezza degli aiuti per ottenere gli onori richiesti. La risposta fu quindi molto generica ; nè poteva essere diversa, come alle sue lagnanze gli si faceva osservare, dal momento che il Governo veneto non aveva « detto cosa alcuna ». Dichiarava egli allora che era stato « mandato a posta a trattare di tal negozio » di cui a Venezia già nel Collegio era stato discorso, e che aveva ordine di promettere il titolo per il Doge e gli ambasciatori ed anche l’appoggio a fine di ottenere eguali preminenze dal Papa e dalle due Corone, se fossero stati concessi aiuti adeguati. Intorno a questi, numerosi furono gli scambi di proposte e controproposte anche con i deputati all’uopo eletti, gli 111.mi Gio. Luca Chiavari e Agostino Pallavicini, riducendosi da ultimo la richiesta a « quello fosse possibile farsi ». Caratteristica la domanda di poter armare in più, a spese di Venezia, alcune galee di gente libera, per le quali si era già avuta « l’offerta da alcuni gentiluomini, che in questa occasione havrebbero servito » : e certo fra questi era compreso anche il nostro Gio. Bernardo Veneroso. Affermava infine il Giustiniano che si attendeva, per portare la pratica nei Pregadi, o la determinazione per decreto o l’assicurazione da parte sua di quello su cui i Signori Veneziani potessero far calcolo. Frattanto, nella seduta del 21 febbraio, il Minor Consiglio, dopo che si fu « lodato quasi da tutti il soccorrere i Veneziani », prendeva analoga decisione con 106 voti favorevoli e 12 contrari ; mentre il giorno seguente deliberava la concessione di dieci galee e due galeoni e la levata di due mila, fanti, fìssa restando però la precedenza dello stendardo nell’armata (*). Data di ciò comunicazione dai Deputati al Giustiniano, questi, ben assicuratosi che le spese per ciurme e soldatesche fossero a carico di Genova, soggiungeva che tosto ne avrebbe fatto scrivere lettere di ringraziamento. Senonchè, comprendendosi subito che in tal modo si tentava d’impostare la cosa secondo il punto di vista dell’altra parte, gli si osservava che non vi era luogo a ringraziamenti ; ma che si doveva cominciare da principio la pratica col domandare i soccorsi. Non mi dilungo qui a ricordare, avendone già trattato, la pronta partenza del M.co Raffaele per Venezia e il suo ritorno a Genova con lettera di domanda in data 7 marzo « scritta in cartina » e recante il titolo di « Serenissimo » ; la rilevata mancanza della sicurezza per il trattamento degli ambasciatori e il luogo dello sten- (x) Sei case genovesi si erano pure offerte in nota per contribuire nelle spese. 198 ONORATO PASTINE dardo ; i ripieghi suggeriti per quest’ultima questione, che si presentava la più ardua a risolversi ; l’esigenza di credenziali per la definizione di punti così essenziali. Di tale esigenza il Giustiniano si mostrò come offeso col dire che « essendo mandato se li dovea far credito » ; chiese quindi in restituzione la copia della lettera data a Sua Serenità, e poiché ciò fu subito eseguito, egli si accinse a ritornare a Venezia, pur manifestando nello stesso tempo il desiderio che si procedesse ugualmente alParmamento deliberato e alla elezione dei capitani delle galee. Nè il Governo genovese abbandonava il suo proposito veramente sincero, dando ordine al competente Magistrato di considerare « il modo più facile di armare prontamente, quando occorresse, dette Galee » da mandare in Levante, assieme ad altra da tenere in porto per i bisogni ordinari ; e di esaminare l’opportunità dell’elezione dei Governatori e Capitani. A metà aprile si presentava di nuovo il Giustiniano a Sua Serenità, affermando che gli ordini per l’aggiustamento si trovavano presso il residente veneto a Milano (cosa di cui non risultò poi nessuna traccia) ed esponendo nuovi espedienti, che urtavano però tutti contro la legge del 1611, riguardante l’impossibilità d’inviare galee senza la garanzia del luogo dovuto allo stendardo. Di qui la ricordata risposta — garbata ma recisa e nella forma consueta — dei Ser.mi Signori, i quali a questo punto mandavano al loro ministro Cattaneo in Roma la lettera di ragguaglio del 20 aprile che già conosciamo. Aggiungerò invece qui che il Giustiniano, sebbene non fosse rimasto per nulla soddisfatto della risposta che gli era stata consegnata in iscritto, fece allora gli ultimi tentativi per ottenere almeno qualche cosa. Dapprima chiedeva infatti mille fanti con quattro vascelli « generosamente senz’altro patto », e più tardi (8 maggio), visto il rifiuto avuto a tale richiesta (in quanto — gli si disse — altro non rimaneva ormai che attendere da Venezia la risposta allo scritto datogli), pregava si volesse concedergli in grazia una levata di due mila fanti « più per apparenza che per effetto.... pronto a dar parola di non servirsene », e ciò evidentemente per non ritornarsene del tutto a mani vuote. Gli si rispose, come è naturale, ancora in senso negativo e nei soliti termini, rimanendo così anche questa pratica sospesa. Ricercando le ragioni di tale rottura ebbi già ad accennare alle difficoltà derivate dai torbidi esterni e alle speranze per l’apertura di trattative di pace : e le prime avranno peso, come vedremo, nei successivi negoziati ; le seconde saranno portate da Gio. Bei-nardo Veneroso quale causa del fallimento di prossimi tentativi di accordo. Ritenevo però più probabile trattarsi delle « solite contrarie RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. BERNARDO VENEROSO 199 esigenze, che non trovavano adeguata formulazione » ; opinione che riceve conferma da una supplica posteriore del Veneroso stesso, dove, riferendosi a queste trattative, si parla soltanto delPostacolo relativo allo stendardo, e in una lettera di certo Cassinelli, agente del Duca di Parma, in cui, calcando un po’ le tinte, è ricordata la « mala impressione » lasciata dal Giustiniano in Genova « della mercantila più odiosa che poteva fare, anzi come altri la vogliono inferire all’ufficio del diavolo che disse : haec omnia tibi dabo si cadens, adoraveris me » (*). Ma non è a credere che con questo il M.co Raffaele desistesse da altri tentativi per raggiungere lo scopo. Al contrario, l’esposizione tìn qui fatta era appunto necessaria per portarci al centro del nostro argomento, in quanto i rapporti del M.co Gio. Bernardo Veneroso con Venezia si svolsero precisamente attraverso la mediazione del Giustiniano stesso. G. - Poiché ostacolo principale all’accordo, oltre le modalità della richiesta e dell’offerta, era stata l’osservanza della legge intorno al posto da assicurarsi allo stendardo, occorreva intanto eliminare tale difficoltà. L’armamento privato, senza partecipazione dello stuolo pubblico, sembrava mezzo adeguato. Pertanto, a principio del 1648, Gio. Bernardo Veneroso « nutrendo — come si esprime una relazione del tempo — spiriti generosi d’avanzarsi nella navigazione », in un convegno con Raffaele Giustiniano tenutosi a Reggio, s’impegnava ad armare da quattro in sei galee di gente libera (2) a carico di Venezia, ma con una spesa che si calcolava ridotta a meno di un terzo di quella consueta, salvo sempre l’autorizzazione del Governo genovese, che doveva concedere l’uso degli scafi. Al Governo stesso il Veneroso presentava sùbito la relativa supplica, « portato — come egli diceva — da un vivo desiderio di giovare alla patria, et alla reputatione del nome genovese, e da un zelo ardente d’esporre la sua vita, l’azenda, e l’honore nel servitio di Dio e della Christianità ». Esponeva in essa i vantaggi dell’impresa: verrebbero riacconciate e conservate le galee del Nuovo Armamento -(3) che «andavano in rovina », rifatti « i bastimenti (vettovaglie) ch’erano rosicati da sorci », pagati i « frazzi » o deterioramenti degli attrezzi e corredi di bordo; si sarebbe inoltre « smorbata » la città di tanta gente, che in quei tempi di carestia avrebbe potuto prendere una cattiva piega, mentre in tal modo molta gio- (!) Archivio di Stato in Parma, Carteggio famesjiano, Genova, busta 6. (2) Quelle normali a servizio dello Stato avevano ciurma di gente forzata ed erano dette « di catena » o « di servitù ». Si armarono in questo tempo anche galee con ciurma mista, « legata » e libera. (3) Per questo « Armamento » cfr. La politica di Genova ecc., cit., cap. II, 1. 200 ONORATO PASTINE ventù, tolta all’ozio, sarebbe stata ridotta in disciplina e fatta abile a difendere nei bisogni la patria. Finalità superiori erano poi la possibilità di rinnovare « la memoria delle attioni gloriose degli antichi Genovesi », rendere « più ragguardevole la riputatione de’ presenti» ed obbligare la Repubblica di Venezia ad una reciproca corrispondenza ed amicizia. I Collegi demandarono tosto la pratica agli 111.mi Procuratori e questi ai ì)ue di settimana, i quali, a loro volta, stabilito col Λ e-neroso che, per evitare le competizioni con Malta, non avrebbe egli portato stendardo, ma solo semplice gagliardetto sulla capitana, davano parere pienamente favorevole. I Ser.mi Collegi, infine, il 6 febbraio deliberavano che si preparassero per il M.co Veneroso sei scafi di galere del Nuovo Armamento con i rispettivi corredi ed attrezzi, accordando al gentiluomo di far leva di gente da. remo, marinai, soldati e ufficiali, ed insieme compera delle vettovaglie e munizioni occorrenti. Al Veneroso stesso, poi, per il gover.no delle galee si sarebbero date lettere patenti « con quel più honorevole titolo » che le loro Signorie Ser.me avrebbero stimato cc convenirsi alla dignità pubblica, et al buon indirizzo di questa prattica ». Furono inoltre fissate per detta concessione le seguenti condizioni o scisse : 1) che il Veneroso fornisse cauzioni, da stabilirsi dai Collegi, per dover restituire, ad ogni semplice richiesta, le galee con ogni loro corredo ; 2) che fosse pagato prontamente qualunque deterioramento a giudizio dei Collegi ; 3) che le suddette galee e loro armamenti non dovessero impiegarsi se non contro il Turco ; 4) che « ad ogni cenno e comandamento di loro Signorie Ser.me » il Veneroso fosse pronto a ritornare con le galee completamente armate «senza dilatione alcuna, servire, andare e stare, in tutto conforme porterà l’esatta ubbidienza de’ comandi » ricevuti ; 5) che nessun atto venisse iniziato, se prima i Λ eneziani non avessero cc con li dovuti· termini e modi date le dovute gì atie e pei la levata della gente fatte le richieste » che si stimavano necessarie. È da notarsi in particolare fra queste clausole quella riguardante l’eventuale richiamo delle galee per servizio dello Stato ; clausola che si vorrà costantemente fissata in tutte le trattative di questi anni, in conseguenza delle precarie condizioni di sicurezza dell Italia per la lotta tra Francia e Spagna prima e dopo la pace di Westfalia e a causa dei particolari rapporti di Genova con dette Potenze. 7. - La presente pratica non ebbe però esecuzione, data — come afferma il Veneroso — « la brevità del tempo, che non lasciò, che si accordasse ogni cosa in soddisfazione di tutti ». RAPPORTΓ FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. BERNARDO VENEROSO 201 Ma la tempesta che pochi mesi dopo colpì la flotta veneta nel-FArcipelago, stimolava ancora il Veneroso a riprendere in anticipo il trattato per la campagna ventura (1049), e dopo molti scambi di lettere col M.co Raffaele Giustiniano, aveva infine da costui, con l’assicurazione che i Signori Veneziani avrebbero scritto nelle forme volute, Finvito a mandare addirittura una minuta della lettera così come sarebbe stata gradita dalla Repubblica. Nello stesso tempo però il Governo veneto, ricordando la generosa offerta del 1646, esprimeva, per mezzo del Giustiniano, il desiderio di ottenere qualche galea di più a spese di Genova. Senonchè,( ricordata dal Veneroso la difficoltà dello stendardo, alla quale si sarebbe in tal caso ritornati. Fi-stanza veniva mutata nel senso che fosse data facoltà di assoldare a proprio carico un maggior numero di galee e una certa quantità di soldatesca, concedendosi insieme alcune navi a spese del Governo genovese. Tutto ciò avrebbero quei Signori domandato, quando si fosse dato loro « qualche sicurezza che per questa volta le loro richieste non restassero vane ». A tal fine appunto il M.co Gio. Bernardo rivolgeva nuova supplica ai Collegi, dichiarando, in vista dei loro ben noti umori, che non ricercava con questo « alcun obbligo e deliberatione positiva.... ma solo-di havere tanto in mano di potere senza nota di temerario o di mancatore dare un fondamento a quelle intentioni » che fossero stimate più salutari alla Repubblica. Si cercava evidentemente di contemperare e conciliare le contrastanti esigenze. Al M.co Raffaele Della Torre, che si era egli pure intromesso nella faccenda, desideroso sempre di giovare alla causa dell’unione, il Giustiniano aveva scritto il 30 agosto 1648, rilevando la necessità di « giocar col pegno in mano » se non si voleva affannarsi invano, venendosi alla fine ad urtare, come al solito, nel « duro scoglio » della domanda, dei titoli e delle prerogative ; « sin che — aggiungeva — Iddio benedetto vi metta come spero la sua santa mano con queste due Republiche, le quali levati questi intoppi e diffidenze reciproche serviranno a sostentare la libertà d’Italia ». Bisognava quindi far confermare il decreto già stabilito o prendere altra simile deliberazione, mutando magari le galere in vascelli, per schivare la differenza con Malta per lo stendardo. « Ma il pensare — scriveva ancora — che qui si cerchino dette galere, che offerisce il Sig. Veneroso, e pagarle questi Signori, e dar titoli senz’al-tra sicurezza lo stimo al mio credere /sicuramente frustato-rio », Il Veneroso aggiungeva alla sua supplica una esposizione esplicativa per gli 111.mi Procuratori Deputati, dove, insieme con le solite considerazioni, precisava il suo pensiero, proponendo che venissero offerti sei vascelli di alto bordo « ben corredati, all’ordine » e a spese pubbliche (visto che non si potevano inviare le galee « di servitù » per il contrasto con Malta), e si concedesse la facoltà di 202 ONORATO PASTINE far leva nel Dominio di due sino in quattro mila fanti e di prendere a soldo un maggior numero di galee « di libertà », oltre le sei che doveva, armare egli stesso. Suggeriva pure le formalità che si sarebbero dovute seguire per evitare i soliti ostacoli, secondo una prudente e conciliante procedura che ricorderemo tra poco. Egli insisteva pertanto, nella sua esposizione, sul motivo ormai preponderante della reciproca diffidenza. In definitiva, diceva che si sarebbero praticate tali cautele da impedire che Genova dovesse « esporsi a risico alcuno di esser burlata » ; ma che d’altra parte a lui occorreva avere la certezza dell’offerta per poter assicurare i Veneziani che, quando avessero scritto nei termini richiesti, non sarebbero rimasti « defraudati dell’in-tentione » nè essi stessi « burlati » da lui « e molto meno da Ser.mi Collegi, i quali erano soliti procedere con ogni candore ». Ora i Ser.mi Signori, pur accogliendo anche questa volta benevolmente la supplica del Veneroso, decretavano il 19 novembre un allargamento della concessione fatta, soltanto nel senso che si accordavano dieci galee di libertà invece delle sei già stabilite. Ciò non equivaleva effettivamente all’istanza presentata. Il Giustiniano rilevava in una lettera a Raffaele Della Torre (30 novembre) che la mancata deliberazione dei vascelli e il non aver sottoposto all’approvazione del Minor Consiglio le spese, come sarebbe pur stato inevitabile, rendeva, con « l’incertezza dell’evento », difficile la conclusione. Più tardi (20 dicembre) al Veneroso stesso, che dovette rimanere un po’ scoraggiato del risultato ottenuto, scriveva ancora : « la prego instantemente a non abbandonarsi, poiché le imprese grandi e diffìcili vogliono le fatiche proporzionate ». Suggeriva inoltre, data la stagione già avanzata, di limitare l’oblazione alle sei galee e di procurare, in cambio delle altre quattro, una levata di due mila fanti, facendo pure formare il decreto per i vascelli. Egli confermava che la disposizione della Repubblica di S. Marco non poteva essere migliore ; « ma il portare materia tanto delicata — continuava — e sopra un’offerta di un particolare con pretese e senza qualche maggior apparenza di bene, dove vi concorrono molti plicità di persone, e di humori, ad alcuno non dà l’animo di farlo ». A Venezia intanto si profondeva l’oro nell’armamento, mentre l’economia sarebbe stata sensibilissima col sistema proposto dal Veneroso, eliminandosi anche la spesa dell’inverno e limitando la rimanente al solo tempo del servizio. Pochi giorni dopo, in altra lettera del 28 dicembre al M.co Gio. Bernardo, il Giustiniano, dando nuove e provocate assicurazioni sul promesso riconoscimento delle note prerogative, s’incaloriva in modo insolito, preso com’era in quella schermaglia alquanto uggiosa e formalistica, irta di puntigli e di sussieghi, fluttuante in ondeggiamenti RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. BERNARDO VENEROSO 203 continui, in monotone ripetizioni dei medesimi motivi, delle consuete lamentele e ritenutezze, degli stessi meschini sospetti. Egli dava sfogo ai suoi sinceri sentimenti di patriota e, diciamo pure, anche di italiano. Di patriota un po’ disgustato, però, per gli ostacoli che taluno anche in Genova, opponeva alla sua azione. Da buoni cittadini di Repubblica — egli diceva — e per il bene di questa, non dovrebbero « gli altri » creare difficoltà ma « camminar dritti » ; nè dire « esser indecenza nostra il concedere avanti di esser richiesti », chè io so bene che cosa portai a Genova altra volta contro semplici parole; e «se non vogliamo giocare a ingannarci.... dobbiamo procurar tutti di accordare, e non discordare il suono ». Non si facciano più nuovi decreti, ma si venga ai fatti « per haver una volta la buona corrispondenza fra due Republiche, le quali unite havereb-bero forza di contrastare con la maggior potenza d’Europa ». Deprecava infine che il Diavolo si interponesse in quest’affare « per simili vanità » e che si tralasciasse « un tanto bene per diffidenza così leggiera »; e sebbene egli riconoscesse di aver « ritrovato sèmpre più credito con persone straniere che con suoi cittadini », pregava di volerlo credere « questa volta », e di inviargli le assicurazioni necessarie, chè avrebbe sperato di comparire presto a Genova egli stesso « con li recapiti desiderati ». 8. - Anche questa volta però la pratica di Venezia rimaneva — « more solito » — interrotta. Il Governo genovese infatti, per necessità proprie, nominava proprio allora Gio. Bernardo Veneroso governatore della Corsica, dove questi risiedette per i due anni del suo ufficio. Egli resse la difficile e delicata carica con molta saggezza e abilità, accaparrandosi la stima di quelle fiere popolazioni. Ne è testimone, più ancora che l’iscrizione dedicatagli nella sala della, fortezza di Bastia (χ), il fatto che i Calvesi lo elessero, ultimata la sua (!) « D. Ο. M. Jo. Bernardo Yeneroso pio, prudenti, forti, Corsicae regno gratissimo, D. D. posuere MDCLI ». — L’atteggiamento del M.co Gio. Bernardo verso la Corsica prelude a quello del più famoso governatorato di suo figlio, il Ser.mo Gerolamo, il quale, ricoprendo tale ufficio (1730) all’inizio di quel torbido e lungo periodo di ribellioni che portò alla perdita dell’isola, fu esponente di una illuminata politica di comprensione e di mitezza, che finì però per essere ripudiata, e che, pur essendo difficile dire a quali risultati pratici avrebbe potuto condurre, rimane sempre a testimoniare l’animo generoso e nobilissimo di chi apertamente la professò. È degna di rilievo la disinteressata simpatia di questi patrizi genovesi per Venezia e per la Corsica : segno di un orizzonte mentale più largo e di un non comune senso di italianità, divenuto quasi retaggio familiare. Per un tale accostamento, ricordando le voci che abbiamo più volte incontrate nelle nostre ricerche, auspicanti un’unione feconda fra le due Repubbliche, ci vien fatto di pensare — guardando a Venezia — le parole del Tivaroni dedicate alla Corsica : « Genova e Corsica unite e concordi avrebbero potuto tener alto 204 ONORATO TASTINE magistratura, loro Protettore ; cosa che non garbò del tutto al Governo Ser.mo. In questo tempo, poi, il M.co Veneroso stampava in Genova il suo discorso : Governo ligure risvegliato, molto diffuso fra i suoi concittadini. Raffaele Giustiniano, nella sua calda lettera sopra ricordata, aveva esortato il gentiluomo con queste parole : «e però queste due righe rozze scritte da soldato può V. S. 111.ma con la sua facondia, e con le sue opere parteciparle con quelli, quali son buoni Republi-eliisti, poiché essendo tali sono sicurissimo, che il suono si accorderà, e si farà buon concerto, che sarà ammirato, e stimato da tutti li principi amici et nemici ». Si direbbe quasi che queste espressioni dovessero stimolare il Yeneroso a meditare il suo scritto, se non sapessimo che Fra Gio. Tomaso Pozzobonelli, revisore dell’opera, aveva rilasciato dichiarazione favorevole alla sua stampa già in data 24 ottobre 1648. La composizione cade dunque nell’anno delle pratiche per Venezia qui sopra. esposte. La stampa fu ultimata però in Genova soltanto nel 1650, mentre Pautore trovavasi al governo del Regno di Corsica, come egli stesso avverte, scusandosi degli errori tipografici dovuti alla sua assenza. Ora, se questo discorso, magnificando la Genova rinnovata della prima metà del seicento con i suoi « superbi acquedotti », le « mura inespugnabili », le « nuove armate navali », le « maravigliose moli nella profondità delPonde instabili stabilmente fondate », mira a ribadire le prerogative sovrane della Repubblica e a giustificare il proclamato diritto agli onori regi, certo il movente principale alla sua composizione fu precisamente la questione dell’alleanza con Venezia per la lotta contro il Turco. Leggiamo infatti nella Prefazione : « Di qui è che vedendosi nel nostro secolo più che mai dilatata la Potenza Ottomana, e sentendosi in questi dì nuovi sforzi guerrieri fatti dalla medesima per abbattere quelPinvitta- Repubblica [di Venezia], che con essa da se sola cozzando, raccorda à Christiani in un tempo medesimo, ed il proprio valore, e la viltà del nimico, hò intrapreso il discorrere di quelParmamento maritimo che potrebbe non meno à favore di tutta la Christianità, rintuzzar Porgoglio d’un si potente Avversario, che recare opportuni soccorsi alla combattuta Regina dell’Adria, e rinovare le antiche glorie della nostra Liguria » (1). nel secolo, il nome d’una nazione caduta in universale disprezzo per la mollezza degli altri stati; ma non era lecito agli Italiani rimanere uniti e concordi fuorché nel detestarsi a vicenda ». (!) Genio ligure risvegliato, discorso di Gio. Bernardo Veneroso. In Genova,, sotto la Directione di. Gio. Domenico Peri, 1650. Prefazione. RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. BERNARDO VENEROSO 205 L’autore credeva intravedere ormai il declinare e la rovina di quell’impero Ottomano, contro il quale i Veneziani facevano da soli così « gloriosa resistenza per mare e per terra », palesando ai Principi cristiani quanto sarebbe stato facile sterminarlo (1). Ed aveva certezza che i suoi concittadini avrebbero dimostrato anche in questa occasione la propria pietà, come il mondo poteva esserne testimone, dopo aver visto nelle loro « deliberazioni, anche non ricercate, prontezza in acconsentire » le proprie galee e la vita dei sudditi (2). Chiara è in queste parole l’allusione ai fatti da noi esposti e la fiducia che le forze genovesi dovessero congiungersi con quelle di S. Marco per la comune impresa liberatrice. Nè tale fraternità 'd’armi era nuova nella storia, come il Vene-roso cerca di provare in altro punto, dove, parlando degli aiuti prestati da Venezia ai diversi Principi, si sofferma a enumerare quelli che aveva ricevuto da essa Genova stessa nei secoli passati, compiacendosi di mettere in rilievo che «non solo furono riconosciuti ben disposti gli huomini Venetiani verso i Genovesi, ma dalle donne ancora ogni pietosa cortesia ricevettero i nostri prigioni del 1380 sendo stati provisti da esse di vestimenti, e d’ogn’altra cosa necessaria » (3). Il discorso fu pertanto apprezzato anche a Venezia, e lo troviamo più volte ricordato dai suoi ambasciatori. Il Veneroso, poi, durante la lontananza in Corsica, non aveva affatto abbandonato l’idea della sua impresa in Oriente, e appena fece ritorno in patria, riprendeva alla fine del 1651 le vecchie pratiche, che erano tuttora « in piedi più vive che mai », mentre era in lui stesso, come si esprimeva, « più vivo che mai il desiderio di meritare qualche d$sa con detta Rep.ca Ser.ma [di Venezia], e molto più per cooperare al servizio di Dio e della Christianità ». 9. - Ma prima di esaminare questa nuova attività del Veneroso, dobbiamo accennare ad altri rapporti passati fra Genova e Venezia in questo tempo, per meglio renderci conto della situazione attuale. Nè l’una nè l’altra Repubblica aveva rinunciato effettivamente al proposito di un accordo e di un’unione d’armi. Così il 26 novembre 1650 si era presentato a Sua Serenità in Genova un certo Ippolito Marruffì, causidico veneziano, inviato da alcuni nobili allora membri del Governo « per penetrare più espressamente le intentioni » dei Signori genovesi circa i soccorsi che avrebbero potuto fornire per la campagna del 1651. Pur non essendo munito di credenziali, aveva C1) Op. cit., nn. 164, 259. (2) Ibid., p. 34. (3) Ibid., n. 432. 206 ONORATO PASTINE egli portato la minuta di una lettera da servire per l’eventuale apertura dei negoziati, con i famigerati titoli e la promessa di tutte le preminenze nell’armata. La minuta aggiungeva ancora di offrire « nelle contingenze » delle loro Signorie Ser.me quelle forze con cui la Repubblica Veneta aveva « saputo assistere con le profusioni ben note, e senz’altro riguardo, che à quello della pietà, della giustizia e della ragione, sino a rimettere in stato li più alti potentati » e mediante le quali ora sapeva resistere da sola in una guerra così lunga « all’impareggiabile potenza, si può dire, dell’universo ». Due giorni dopo i Collegi deliberavano di proporre al Minor Consiglio la concessione di dieci galee ben armate con gente mista di catena e libera, purché si accordasse quanto era stato pattuito nel 1647, e ove non si fosse verificata la necessità d’impegnare detto armamento « per difesa dello Stato o altro urgente bisogno ». Frattanto, presentato dai Deputati Benedetto Viale e Gio. Giorgio Giustiniano il calcolo preventivo della spesa, ed esposto il tutto al Minor Consiglio, avendo quasi tutti gli oratori « lodato » di soccorrere Venezia, la proposta veniva approvata con voti 73 contro 30 (18 gennaio 1651). Noteremo che la persistente riserva di poter usare a proprio servizio le forze offerte in caso di urgente bisogno era sempre giustificata dalle precarie condizioni della situazione mediterranea, fra i pericoli incombenti della sempre crescente e minacciosa potenza francese e i contrasti vivaci con Madrid (*). Anche per queste ragioni vi era in Genova taluno che avrebbe voluto una politica più raccolta e guardinga ed era perciò contrario a distrarre comunque le forze della Repubblica. Altri poi suggeriva di servire Venezia riducendo la prestazione di navi e- di milizie nei limiti delle forze e delle contingenti esigenze dello· Stato, e soccorrendola piuttosto e prevalentemente col denaro privato, il quale costituiva il vero nerbo della potenza genovese. Comunque, del negoziato condotto dal Marruffi non trovai altra traccia e la deliberazione presa rimase senza seguito, forse principalmente per la solita questione dello stendardo. 10. - Ma altre fila venivano tese contemporaneamente, altri mezzi ed approcci venivano tentati quasi a gara in quest’anno 1651. Tralasciando di proposito un simultaneo intervento del Duca di Parma, di cui mi riserbo di parlare altra volta, dirò che, come risulta dalle discussioni avvenute nei Collegi, una parte dei Signori Ser.mi era propensa a favorire trattative che si erano allora iniziate in Roma. Colà il Principe Giustiniano, nipote di Papa Innocenzo, era in rap- O) Per questi contrasti cfr. lo studio cit., cap. IV, 6. RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. BERNARDO VENEROSO 207 porti, per la pratica (li Venezia, con suoi confidenti in questa città, fra cui il M.co Raffaele Giustiniano, il quale a sua volta corrispondeva in Genova, oltre che con il Veneroso e il Della Torre, anche con il suo congiunto Gio. Giorgio Giustiniano, uno dei deputati eletti in questo tempo allo studio della pratica stessa (r). Inoltre il residente genovese presso la Corte pontificia, Lazzaro Maria Doria, per mezzo dei cardinali delle due nazioni, Raggi e Vidmann, aveva fatto sapere all’ambasciatore veneto che, se avesse usato con lui « i complimenti ragionevoli » della visita, gli avrebbe fatto « offerta tale che si sarebbero aggiustate » le differenze fino allora non superate. Anche questo negoziato fallì ; e quando Raffaele Giustiniano comunicava da Vicenza (9 aprile) di aver appreso con dispiacere che esso fosse « andato in fumo per cosa di poco rilievo », egli stesso aveva già riferito pochi giorni prima (19 marzo 1651), in lettera privata ad un senatore, su certo abboccamento avuto con rEcc.mo Procuratore Morosini, inviato come ambasciatore ad incontrare l’imperatrice. Il Morosini, fratello del Patriarca di Venezia, cavaliere ricchissimo, « una delle principali teste dello Stato e authorevole », aveva mostrato con lui « gran passione » perchè non si fosse raggiunta l’unione « tanto necessaria per il ben comune et per la libertà d’Italia in tempi così calamitosi ». Il M.co Raffaele gli aveva fatto presente come detta unione fosse ambita e desiderata dalla sua patria, rilevando le note diffidenze, le difficoltà che l’avevano impedita fra cui principale quella del luogo da assegnarsi allo stendardo, i suoi sforzi per raggiungerla ; e il Veneziano aveva dimostrato « grandissimo desiderio » che tali sforzi egli rinnovasse ravvivando quella pratica, nella speranza che si potesse trovare un qualche ripiego. Prendeva quindi questa occasione il Giustiniano per perorare ancora una volta calorosamente una tale causa, che era di sommo vantaggio per entrambe le parti: i decreti erano fatti; bisognava eseguirli per il prossimo anno, « et in tanto far una reciproca lega offensiva e defensiva per li stati d’Italia, e dar li soccorsi stabiliti al tempo debito ». Così supplicava « in visceribus Christi.... per grandezza della Patria e confusione dei nemici », offrendo tutta l’opera sua indefessa e non trovando altro ostacolo, in fondo, che quello dello stendardo. In aprile, a stimolare indirettamente l’accordo, si affacciava an- (!) Gio. Giorgio Giustiniano fu Generale dello stuolo della Repubblica. Nel 1647, uscito con una flotta di undici galee ben munite di soldatesca per purgare il mare dai pirati ed operare, eventualmente, contro i Barbareschi in Africa, concorse a sedare il tumulto della plebe in Messina. (Casoni, Annali, VI). 208 ONORATO PASTINE che un’altra delicata questione, quella di un bandito che si voleva avere fra le mani. Forse si tratta di G. Paolo Balbi, rifugiato a Venezia con altri profughi, quali Tobia Pallavicino, G. B. Giustiniano ed altri. Come è noto, sul Balbi, che tentò ripetutamente di congiurare contro la patria, invano intrigando col Mazzarino e con la Spagna, pesava la condanna capitale ed una grossa taglia i1). Da Venezia si scriveva insieme e della pratica dell’unione e di quella — come si diceva — di « concedere l’amico » (8 aprile 1651). Per questa ultima era stata concordata con l’Ecc.mo Savio Badoero la forma della richiesta, approvata pure dalla consulta., sebbene quel Governo professasse per principio di non consegnare mai nessun bandito ; ciò era stato negato infatti anche al Governatore di Milano, per quanto ora, dopo i soccorsi forniti per la guerra contro il Turco da Sua Maestà Cattolica, egli avrebbe potuto forse ottenere quanto bramava. E da Vicenza, il giorno dopo, Raffaele Giustiniano ammoniva, parlando dello stesso argomento : « l’amico in casa dell’ambasciator non mi piace, vi pensino in gratia e stieno oculati » ; ed aggiungeva che « per riaver la sodisfatione si desiderava sarebbe stato molto bene fussi seguita l’unione tra le due republiche, tanto necessaria per la. libertà d’Italia » ; offriva ad ogni modo i suoi servigi anche per quest’affare. Fra l’aprile e il maggio seguirono nei Collegi e nel Minor Congiglio numerose adunanze, discussioni, consulte e votazioni molteplici. I Ser^mi Collegi erano decisamente favorevoli a prestare aiuti direttamente, fornendo otto galere o almeno soldatesca e denaro. Il Minor Consiglio, approvando in massima e quasi unanimemente di dover soccorrere, era incerto sui mezzi e sulle forme da seguire : di qui le laboriose e prolungate deliberazioni, nelle quali una minoranza più o meno oscillante impediva di raggiungere, per una definitiva decisione favorevole, i due terzi necessari dei suffragi, pur molte volte quasi sfiorati. 11. - Ritornava intanto, come vedemmo, dal suo governatorato di Corsica il M.co Gio. Bernardo Veneroso infervorato più che mai nel desiderio di agire in prò’ di Venezia. Egli entrava ancora in relazione con Raffaele Giustiniano. Questi il 27 agosto 1651 gli scriveva da Vicenza esaltando la vittoria-delie armi venete, riportata senza alcun concorso di navi ausiliarie, C1) Nel novembre 1G52 Agostino Grimaldi riferiva che G. P. Balbi passeggiava liberamente a Venezia armato di pistole; che aveva riunito Intorno a sè duecento o trecento facinorosi, la maggior parte fra gli esuli napoletani delle ultime rivolte, essendo assistito dal danaro del Fonseca e dalla protezione dell'ambasciatore spagnuolo. (A. S. G., Politicorum, 10/1650, n. 55). RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. BERNARDO VENEROSO 209 certo che tutta Genova l’avesse appresa « con estraordinario contento ». Ed osservava che se alla povera Repubblica fosse stato dato soccorso da chi professava la legge di Cristo, senza dubbio essa avrebbe potuto ricuperare il perduto ed insegnare ai barbari a non molestare per un pezzo la Cristianità ; ma — aggiungeva — « vorrei pure che la nostra patria in avvenire fusse a parte di queste vittorie acciò li annali, che legeranno li nostri posteri fussero testimonio che la pietà genovese, non ha mancato coadiuvare alla causa comune ». Egli aveva già più volte cercato di conseguire lo scopo, ma ogni qual volta credeva di essere giunto in porto rimaneva invece arenato. E rivolgendosi al suo corrispondente : « So — scriveva — che ancora Λ7. S. 111.ma affatica et va operando per questa benedetta unione » ; e certo bisognerebbe riflettere che essa riuscirebbe di grande giovamento non solo a Venezia che, posso farne fede, la desidera da molti anni, ma anche a Genova, essendo grande onore e buona politica avere obbligata una Repubblica tanto magnifica che si può dire l’antemurale d’Italia. « Perchè ancora noi non siamo benvoluti da tutti », nè possiamo dubitare della nostra libertà, finché abbiamo libera la 'via del mare, nè v’ha chi non veda che nessun Prencipe avrebbe maggior comodità di soccorrerci, in caso di bisogno, che i Signori Veneziani, mentre l’amicizia fra le due Repubbliche renderebbe entrambe più considerate e rispettate dai Barbari. Raccomandava quindi di nuovo di « affaticarsi » a un’opera così meritoria, assicurando Sua Serenità e tutti i Signori Ser.mi che l’unione era a Venezia da tutti « sommamente desiderata al maggior segno » : tolto l’impedimento dello stendardo, sperava di portare egli stesso a Genova lettere con titoli per il Doge e i Senatori, e di poter stabilire anche il trattamento di parità per gli ambasciatori. In quel tempo appunto Gio. Bernardo Veneroso presentava al suo Governo altre suppliche. Ricordate le concessioni già ottenute nel 1648, domandava autorizzazione a concludere trattato per passare nel 1652 al soldo della Repubblica di Venezia secondo le forme precedentemente fissate. Faceva presente che, in ogni caso, lo Stato avrebbe ricavato dalla cosa grande vantaggio, perchè, ove perdurassero, come era da attendersi, le condizioni attuali di pace, quell’armamento sarebbe riuscito di utilità ai popoli e di riputazione per il Pubblico; mentre se si fosse presentata la necessità di impiegare dette forze per proprio conto, la convenienza sarebbe stata anche maggiore, dato che in tal modo, senza urtare la suscettibilità di nessuno, il Governo le avrebbe trovate già approntate col denaro e con l’industria degli altri. E poiché i Signori Ser.mi avevano dichiarato di non avere nulla in contrario all’istanza presentata, il Veneroso questa meglio precisava, ricordando come nel novembre del 1648, alla richiesta di qual- ( 210 ONORATO PÀSTINE che maggior soccorso in levata di soldatesche e in navi o galeoni a spese pubbliche, erano state invece portate le sei galee concesse al numero di dieci. Ora supplicava che, non intendendo egli impegnarsi per più di sei galee, volessero le loro Signorie Ser.me permettere che Venezia, invece delle altre quattro, potesse assoldare nel Dominio due mila fanti volontari, sempre con la riserva che, in caso di necessità, dovessero essi servire ai bisogni dello Stato, e purché così la levata come le galee fossero richieste nei modi dovuti. Sottoposta detta supplica all’esame dei Collegi il 6 settembre 1651, essa veniva accolta a unanimità. Pochi giorni dopo (17 nov.) il Veneroso conveniva in Reggio con Raffaele Giustiniano, dal quale riceveva, scritto di suo pugno, un « Modo di concerto da prendersi per l’unione delle due Ser.me Repubbliche con la qualità de’ soccorsi da concedersi dalla Genovese ». Il M.co Gio. Bernardo, tornato a Genova, dava relazione egli stesso della pratica nei Collegi, che eleggevano all’uopo tre Deputati, gli Ecc.mi F. M. Lomellini, Tommaso Franzone e l’IlLmo Benedetto Viale per regolare col Veneroso tutte le formalità dell’accordo. Si stabiliva infatti, come da relazione di detti Deputati, che, riguardo alle scisse già fissate in massima nel 1648, fosse data sicurtà per la restituzione delle galee da persone di Banchi, secondo l’approvazione degli 111.mi Procuratori; si impegnassero al pagamento dei « frazzi » lo stesso Veneroso con i fratelli Giacomo e Cesare ; valesse la capitolazione già preparata per quanto si riferiva all’obbligo di non servirsi delle galee se non contro il Turco, e di ritornarle prontamente a richiesta per servizio urgente della Repubblica « e non d’altri ». Circa le modalità da seguirsi, tutto si sarebbe regolato secondo gli accordi fìssati in Reggio, come da scritto autografo di Raffaele Giustiniano ; il quale aveva nel frattempo anche assicurato che al titolo : « Ser.mo Duci et Ex.mis Gubernatoribus » non verrebbero aggiunte le parole : « amicis nostris carissimis » a Genova non gradite perchè non adeguate i1). Qualche modificazione formale veniva pure apportata al predetto scritto del Giustiniano. (continua) Onorato Pastine: O) Si tratta del consueto formalismo; anche il Governo veneto esigeva invece del termine: «Ser.mi Signori» quello di «Ser.mo Principe». UN EPISODIO IGNORATO DELLA POLITICA INGLESE DEL RISORGIMENTO ITALIANO Non è la prima volta che PInghilterra, per la politica adottata nei riguardi delPItalia· e contrastante con le sue aspirazioni, ha dato luogo a tensione di rapporti e a proteste del popolo italiano. L’episodio a cui mi riferisco, conseguenza di un passo diplomatico minaccioso, fatto dall’Inghilterra al governo del Re di Sardegna, ricordato in due documenti inediti, gli appunti di un diario attribuito ai Parra (i) e una lettera del Montanelli (2), è poco conosciuto, se non del tutto ignorato, essendo rimasto circoscritto al Piemonte e alla Liguria. Ragioni d’ordine politico consigliarono, probabilmente, il governo piemontese a che non si diffondesse l'accusa mossa dai circoli patriottici e dalla stampa alla politica inglese, di giocare una doppia carta negli affari italiani. Nel marzo del ’48 le costituzioni date da Carlo Alberto per il Piemonte il 4 marzo ; da Pio IX il 14 ; dal Granduca Leopoldo il 17 ; avevano riaccese le speranze degli italiani. Seguirono : la rivoluzione di Modena (20 marzo) ; la liberazione di Milano attraverso l’eroismo delle Cinque Giornate (18-22 marzo) ; la rivoluzione di Venezia il 22; quella di Parma il 23, etc. Gli avvenimenti, cominciati fino dai primi del mese, culminarono nell’occupazione armata dei territori degli ex stati Estensi, ordinata il 21 dal Governo Toscano e nel proclama del 23 di Carlo Alberto, preceduto dalla partenza di volontari liguri e piemontesi e seguito dalla decisione presa da Carlo Alberto di inviare un corpo di « osservazione » in Lombardia (3). La risoluzione di questo intervento armato nel territorio del Regno Lombardo-Veneto non era, a quanto sembra, nel programma (1) Anonimo, Appunti di diario del V/8 (Mss. pag. 3, Arch. Stor. Bibl. It., Docum. Montao. 4). Una nota, lo attribuisce a uno dei fratelli Parra. che in quei giorni si trovavano a Genova. (2) Lettera IV de\V Epistolario. (Cfr. U. Mondello, Epistolario di Giuseppe Montanelli dal 22 marzo al 29 mappio 19J/8 (in « Rassegna Storica del Risorgimento », ann. XXIV, fase. Vili, agosto 1937). (3) La deliberazione fu presa in una adunanza del Consiglio dei Ministri indetta da Carlo Alberto nel pomeriggio del 19 marzo e resa nota dal se- 212 U. MONDELLO desiderato dall'Inghilterra. Il ministro inglese presentò immediatamente una nota al governo Sardo, che concludeva con un veto da parte dell'Inghilterra; all'invio di truppe piemontesi in Lombardia. Il brusco intervento inglese, divulgato da una breve notizia del giornale « La Lega Italiana » (*), in cui si diceva che il ministro d Inghilterra accreditato presso il Governo Sardo, aveva minacciato il bombardamento di Genova se le truppe piemontesi avessero varcato il confine per dare assistenza alla rivoluzione di Milano, fu giudicato come un tradimento dell’Inghilterra alle aspirazioni italiane. L intromissione e la minaccia inglese sollevarono le più vivaci proteste, e a Genova un senso di esasperazione, che assunse le maggiori proporzioni per le voci che circolavano, di movimenti sospetti della flotta inglese che si trovava in quel porto e per il ritardo frapposto alla partenza dei reggimenti « Savoia », di stanza a Genova. Nonostante una smentita del console inglese, apparsa nel « Corriere Mercantile » il giorno seguente alla notizia data dalla « Lega Italiana », il popolo genovese non si sentì tranquillo : la smentita aveva un tono incerto e sibillino (2). Si formarono senz’altro cortei di protesta contro l’Inghilterra, che, tumultuariamente, si portarono fino alla porta del consolato per abbattere lo stemma britannico. Tali, in riassunto, il passo diplomatico compiuto dall’Inghilterra e la protesta genovese, di cui fanno cenno gli appunti attribuiti ai Parra e la lettera del Montanelli (3). Nei primi si legge: guente comunicato, divulgato da un supplemento della « Gazzetta Piemontese»: « Oggi 19 marzo S·. M. ha adunato il suo Consiglio dei ministri alle ore una pomeridiane. In seguito a tale deliberazione il ministro della guerra ha spedito gli ordini necessari per radunamento di un esercito di osservazione suUe nostre frontiere orientali ». (Cfr. Supp. « Gazz. Piemontese » li) marzo 1848). O) La « Lega Italiana », politico quot. Genova, 24 marzo 1848. (2) La smentita pubblicata dal «Corriere Mercantile» è la seguente: «Il console britannico in Genova non ha avuto diretta comunicazione col ministro di S. M. britannica, ma dichiara essere nella ferma convinzione che il paragrafo comparso nella « Lega Italiana » di ieri e di altri giornali di Torino, asserente che il ministro inglese a Torino aveva minacciato il bombardaménto di Genova, qualora fosse stata prestata assistenza a Milano, è tutt’afYatto falsa ». (Cfr. « Corriere Mercantile » poi. quot. Genova, n. 70, 2ó marzo 1848). (3) Il Montanelli insieme a Giovanni Prassi, al conte Luigi Pantoni e ai fratelli Antonio e Pietro Parra (sui Parra, sul Fantoni e sul Prassi : efr. Diz. Storico del Risorgi merito, diretto da Michele Rosi, vol. II. A. Vallarci!, Ed., Milano, 1933; U. Mondello, Sulle ammiratrici di Carlo Troja, in « Rassegna del Risorgimento», vol. XVIII, 1931, fase. II-III), si trovava a Genova in quei giorni, diretto a Milano, per organizzare i volontari toscani che si recavano in Lombardia e per preparare il movimento insurrezionale nel Tirolo. UN EPISODIO IGNORATO DELLA POLITICA INGLESE ECC. 213 «23 marzo: La dimostrazione del popolo genovese è stata imponente, ma il giubilo (proclama di Carlo Alberto) è stato turbato dalla notizia che circola di un’opposizione dell’Inghilterra. « 24 marzo : Le voci di ieri sono vere. L’Inghilterra non vuole l’intervento del Piemonte in Lombardia. Minaccia nientemeno che il bombardamento di Genova ! La popolazione è esasperata e ovunque si odono imprecazioni contro l’Inghilterra. Si dice che la flotta inglese abbia levato l’àncora per bombardare la città. Che fede! E chiede armi, armi.... « 25 marzo : I genovesi hanno minacciato il consolato inglese : volevano abbattere lo stemma. Il console inglese ha smentito, ma la smentita è stata giudicata una nuova ipocrisia. Si grida al tradimento ». Il Montanelli, giunto in quei giorni a Genova, probabilmente il 24, ricorda gli avvenimenti e in particolare la protesta del popolo genovese in una lettera da, Genova del 25 marzo, quarta del suo diario, diretta alla Laura Parra (*). Il futuro Triumviro del governo rivoluzionario toscano del ’49, scrive testualmente : « Che esempi di entusiasmo nazionale in questo popolo ! Si assicura che l’Inghil-terra abbia minacciato di bombardare Genova se milizie piemontesi entravano in Lombardia. 11 popolo genovese andò sulle furie appena lo seppe e voleva gettare a terra lo stemma inglese. « Bombardi pure la nostra città » — diceva il popolo — « ma noi dobbiamo difendere i nostri fratelli oppressi », e così dicendo, partivano ». L’agitatore toscano, che si recava in Lombardia per fini politici, a contatto quindi con personaggi del governo sardo e con agitatori genovesi, era in grado, meglio di altri, di sapere su quale fondamento di verità si fondava la voce della minacciosa richiesta inglese che aveva provocate le dimostrazioni anti-inglesi del popolo genovese. Il Montanelli, assunta la convinzione che la notizia data dalla «Lega Italiana», era effettivamente vera, si affretta a comunicare alla Parra la sua opinione scrivendole nella citata lettera : « Benché la voce della pretesa e della minacciata rappresaglia inglese sia stata smentita da qualche giornale genovese, la ritengo verissima avendola appresa da persona che ha parlato con l’ambasciatore inglese a Torino ». Quantunque 1 affermazione del Montanelli, per chi, attraverso i suoi scritti, ha avuto modo di apprezzare l’equanimità con cui egli era solito pronunziarsi, sia più che sufficiente di per se stessa per togliere ogni dubbio che potesse sorgere leggendo la smentita inglese apparsa nel « Corriere Mercantile » del 24 marzo, l’infram- (!) Laura Parra, vedova del conte Giuseppe di Lupo Parra, detta più co munemente Lauretta, collaboratrice e poi moglie del Montanelli, prese viva parte alla preparazione del movimento imitano e fu in relazione col Mazzini, col Guerrazzi, con Carlo Troja, col Poerio e con i più in vista del Risorgimento italiano. (Cfr. : U. Mondello, Op. cit., a nota 6). 214 U. MONDELLO mettenza delPIngliìlterra negli affari italiani, e più esattamente la contrarietà ohe si risolveva in un vero e proprio ostacolo alle aspirazioni italiane, è confermata da un resoconto parlamentare della Camera dei Lords (l). . Nella seduta della Camera Alta dell’ll aprile 1848, veniva discussa un’interrogazione presentata da lord Iìroucliam (-), appoggiata da lord Aberdeen (3), sull’intervento del re di Sardegna in Lombardia. La risposta data da lord Lansdowen conferma in alti 1 termini la voce che provocò gli incidenti genovesi. La risposta di lord Lansdowen (Enrico di, n. 1780, ni. 1862), cdn-eelliere dello Scacchiere, tradotta dal resoconto parlamentare del « Times » del 12 aprile 1848, dice : « Sulla questione di Sardegna, rispondendo all interrogazione di lord Broucham, dirò che la decisione presa dal re di Sardegna di invadere gli stati austriaci, è tale da eccitare dei gravi rammarichi. Il governo della Regina non ha veduto con occhio indifferente que-sta°condotta, ma nello stesso tempo non ritengo di pronunziarmi severamente sull’operato di quel Sovrano col quale l’Inghilterra è stata sempre in relazione di amicizia. « Il ministro di S. M. britannica a Torino aveva, ricevuto 1 ordine di esprìmere l’opinione sfavorevole che conserverebbe l’Inghilterra sull’invasione del territorio Lombardo. Non dirò di più per adesso, ma non penso che il Governo della Regina debba intervenire con la forza per respingere quell’intervento ». A lord Aberdeen rispose: « Sebbene 1 Inghilterra non abbia alcun trattato con l’Austria per aiutarla a conservare la sua sovranità sul Lombardo-Veneto, il Governo della Regina ha consigliato Carlo Alberto a tenere la neutralità ». Le risposte di lord Landsdowen escludono ogni dubbio sulla veridicità della notizia propalata dal giornale piemontese « La Lega Italiana » e confermata dalle informazioni assunte dal Montanelli. Quantunque le ultime parole della risposta escludano ogni azione (1) Cfr. Atti del Parlamento inglese : Resoconti della seduta della Camera Alta dell’ll aprile 1848. ^ (2) Lord Henry Broucham in. a Edimburgo, il 0 settembre 1< dei mari, nella tradizione inglese era, come è, il cardine progrwmmatioo della sua politica. Se il sentimento di liberalità del popolo inglese volgeva per l’indipendenza e l’unità italiana, l’Inghilterra, politicamente, si opponeva a che questa Unità fosse tale da dar luogo in un futuro prossimo a una nuova potenza capace di turbare, in un dato momento, o prossimo o lontano, la tranquilla preponderanza inglese politica e commerciale. L’Inghilterra, come ci è chiaramente rivelato dalla politica adottata in quello stesso periodo, per tutelare, in una seconda fase della rivoluzione siciliana, la integrità del governo Borbonico delle due (!) Il Montanelli, che, da osservatore e da parte in causa, seguiva gli avvenimenti, vede il sopravvento dell’Austria se rinforzi immediati non accorrono in Lombardia : « Bisogna stringere queste forze che ha ora l’Austria nel Regno Lombardo-Veneto prima che ne possano venire delle nuove », egli scrive alla Parra in una sua lettera datata da Genova il 2f> marzo. (Cfr. U. Mondello, Epistolario di G. Montanelli, etc., op. cit., not. 2). (2) Il trattato di Vienna (9 giugno 1815) stabiliva: «Ristabilimento del Regno di Sardegna secondo la circoscrizione del 1792 con l’aggiunta dell’ex Repubblica di Genova; creazione del Regno Lombardo Veneto con sovranità dell’Austria; sovranità su Modena, Reggio, Massa e Carrara, etc., alla Casa Austro-Estense; i territori di Parma, di Piacenza e Guastalla aH’imperatrice Maria Luisa; il Ducato di Lucca all’infante Maria Luigia; il Granducato di Toscana aH’Arciduca Ferdinando d’Austria ; ristabilimento dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie con sovranità di Ferdinando IV. (Cfr. «Atti del Congr. di Vienna»). (3) Lord, Minto (Gilberto Elllot Murray conte di, n. 1782, m. 1859), fu incaricato, sul finire del 1847, di una missione in Italia allo scopo preciso di incoraggiare Carlo Alberto, il Pontefice e gli altri Capi di stato, alle riforme liberali, ma senza turbare però il trattato di Vienna. UN EPISODIO IGNORATO DELLA POLITICA INGLESE ECC. 217 Sicilie, se da un lato appoggiava l’unità spirituale dei popoli italiani, dall’altro non ne voleva quella politica. L’accresciuta simpatia verso Carlo Alberto, che tendeva a far tacere divergenze dottrinarie e di forma e di assetto politico della nuova Italia, turbava grandemente quel piano che l’Inghilterra, per un fine del tutto particolaristico, si era tracciato nei confronti della questione italiana. La missione di lord Minto, intorno a cui si eran fondate le speranze del popolo italiano, e che aveva valso a indirizzare i governi dei vari stati italiani verso le più liberali riforme, doveva però mantenersi fedele alle tradizioni inglesi della sua secolare supremazia internazionale : la missione di lord Minto non doveva andare oltre un certo limite e non poteva quindi che opporsi alle mire del Piemonte che con la decisione di Carlo Alberto del 19 marzo assumeva, di fatto, la direzione del movimento Unitario Italiano. La protesta della diplomazia inglese al governo del re di Sardegna, ora rievocata, a cui si ricollega l’episodio dimostrativo di Genova, non fu perciò che il primo, ma il più platonico atto compiuto da 11’Inghilterra nei confronti delle aspirazioni italiane, atto consono allo spirito della politica inglese di mantenere, cioè, intatta la sua supremazia nel Mediterraneo e sui mari. U. Mondello I NOSTRI LUTTI ADOLFO BASSI Percosso come da folgore s’è abbattuto nella notte del 27 febbraio 193S Adolfo Bassi, educatore socratico, studioso acuto, nobilissimo spirito, ricco di umana comprensione, e di una bontà senza limiti. Era· nato a Firenze il 1 gennaio del 1872. Dopo una vita dedicata tutta all’insegnamento degli studi classici in Genova, da lui idolatrata tanto che rifiutò il posto di preside in una. scuola di Tripoli, egli temprò Panimo dei giovani alle più alte idealità patrie, e dei suoi allievi, immolatisi nella guerra 1915-1918, non solo conservò un vivo culto, ma lo tramandò ai posteri, dedicando loro una particolare monografìa. Appassionato cultore di discipline varie, egli aveva raccolto perse non solo una scelta biblioteca, ma anche una ricca messe di documenti di cui intendeva servirsi per portare a termine varie opere cui da anni attendeva. Agli amici confidava questi propositi che avrebbe tradotti in atto nella quiete della sua villa a Sarissola, acquistata non appena collocato a riposo per limiti d’età, pochi mesi prima della sua dipartita. La vivacità giovanile del suo spirito e del suo corpo non lasciavano gli amici suoi dubbiosi sull’importanza di queste opere annunciate da lui, specialmente di due quasi condotte a termine: una su Niccolò Bacigalupo — il notissimo Saio Regin na — e l’altra su Antonio Figari, pioniere coloniale genovese fra i più importanti e meno noti. L’inesorabile Parca che lo rapì all’amore dei suoi congiunti ed all’affetto e alla stima dello stuolo numerosissimo dei suoi amici, non permise ch’egli godesse di un meritato riposo e coronasse l’opera sua di studioso. Il Giornale storico e letterario della Liguria ha perduto un prezioso collaboratore ed un più prezioso amico. BIBLIOGRAFIA 1. Un processo di spionaggio nel 1792 a Torino. (Estratto da «Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino », vol. XXXIV, Torino, Clausen, 1899). 2. Il viaggio da Parigi a Venezia di J. J. Rousseau e la sua sosta a Genova nel nifi. (Estratto da « Arte e Scienza », Rivista mensile lett., Genova, anno II, nn. 9-10-11, 1904). Z. Un sonetto di G. B. Marino e le sue fonti (in «Atti della Soc. Ital. per il progresso delle Scienze », tip. propria. Roma, 1913, pag. 891). ADOLFO BASSI 19 4. La Casa dei Piola (in «Gazzetta di Genova», Rassegna mensile, 1021). 5. La data della morte di Bramante (in « Marzocco ». Firenze, 4 settembre 6 I nostri Eroi. (Memorie storiche e biografiche sugli allievi del R. Liceo Ginn. A. D’Oria, fra il 1897 e il 1918, caduti nella IV Guerra nazionale). (A cura del R. Liceo Ginn. A. D’Oria, Genova, 1920). 7. Aggiunte a Nostri Eroi (in « Annuari del D Oria », 1923-24, 1924-2o). S. Estratti da I Nostri eroi, con giunte : Guido De Benedetti, Giuseppe Bianchi, Camillo Cresta. 9. Il R. Liceo Ginnasio « Andrea D’Oria » di Genova. Notizie storiche sulla sua sede e sulla sua istituzione (in « Miscellanea Pandiani », Genova, Gnecco, 1921). . . 9 bis. Il R. Liceo Ginnasio a Andrea D’Oria'». Notizie storiche sino al 19o2, seconda edizione con ritocchi e giunte (in « Annuario del R. Liceo Ginn, classico A. D’Oria », Genova, anno 1923-24). 10. L’Italia nel 1571, secondo un atlamtino contemporaneo di derivazione or-' tdiana (in « Atti del IX Congresso Geografico Italiano », Genova 1924, vol. I, pag. 263). . ,T 11. Di un probabile influsso di Plinio Secondo sulla configurazione dell Italia, dataci dalVOrtelio e dai cartografi del Cinquecento. (Ivi: vol. II). 12. L’insegnamento della cartografìa nelle scuole secondarie in rapporto ai nuovi programmi. (Ivi: vol. II). . 13. Dalla salita S. Caterina alla via A. M. Maraghano (in « Istituto Vittorino da Feltre, nel XXV anno di vita, ecc. », Genova, 1925). 14. Articoli di aritmetica razionale e geometrica euclidea (in « Dizionario di cognizioni utili », in X voli. Unione Tip. editr., 1S98). 15. La Germania fisica e politica nel 1912 (dalla lettera K) (in « Dizionario Geografico », Ant. Vallardi, Milano, 1914). » « 16. Annuario del R. Liceo Ginnasio « Andrea D’Oria » di Genova, 19.13-2). (Stab. Artisti tip., Genova, 1925). 17. Annuario, del R. Liceo Ginnasio a Andrea D’Ona » di Genova, 19^-19^0. 18. L’T/mo9del D’Oria, parole di A. Bassi, musica di F. MompelUo. (Stamp. Musicale R. Leo, Genova, 1925). . . Recensioni, novelle, versi, sparsi in varie riviste letterarie : « Classici e neolatini », «Il Ventesimo» «Gazzetta di Mondovì», « Caffaro », ecc. 19. Armi ed amori nella giovinezza di Ugo Foscolo. (Studio Editoriale Genovese, Genova, 1927). . . 20 La consortia dei forestieri di N. S. della Misericordia, detta poi di S. Bar-bara, in S. Maria de’ Servi a Genova, 1393-1608 (in « Giornale Storico e Letterario della Liguria », Genova, 192S. 21. Il centenario di G. Mameli in Italia (Studio critico) (in « Mens Italica», Rivista mensile di diffusione della coltura italiana in America, Chicago Illinois, U.S.N.A., 1928). 22. Musa contemporanea ligure (Studio critico) (ivi). 23. La giovinezza di Leone X (Studio critico sull’opera di egual titolo, di G. B. Picotti, Milano, Hoepli, 1927, in « La Rassegna N. S. », anno XXXVI, n. 1-2). 24. Recensioni varie: Gio. Semprini, L. B. Alberti. - Rod. Della Torre, Ugo Foscolo. - Luigi TONELLi, Manzoni. - Giusetpe Checchi a, Il « Cinque Maggio » nel suo motivo essenziale e nella chiusa. - Alessandro Manzoni, La storia della Colonna Infante, cur. da Zino, in « La Rassegna », 1927 e 192S. 25. Glorie e ricordi genovesi di cent’anni fa (in « Vita e Scuola », a. Ili, n. 1, Genova, 1 gennaio 1928). 26. Annuario III e IV del R. Liceo Ginn. A. DfOria di Genova, 1925-26, 19%b-xi. (Stab. Tip., Genova, 1928). 220 ADOLFO BASSI 2<. Nuove aggiunte a I nostri Eroi (Allievi del «D'Oria» caduti nella IV Guerra Nazionale), (ivi). 28. Tra la schiera dei Mille: Nino Bixio, Stefano Canzio e i Garibaldini ex Alunni delle Scuole Civiche e del Ginnasio Civico, oggi «D’Oria», (ivi) 29. Recensioni vane: E. Casabona, Storia del teatro Carlo Felice di Genova. -G. Monleone, / Cento anni del Carlo Felice (in «La Rassegna» di A. Pel-lizzari). - Morale pratica e saggezza antica (sul volume: E. Curotto, Monumenta latinitatis, in «Corriere Mercantile», 30 maggio 1930). - Un pozzo di sapienza (sul volume stesso), in « L’Italia letteraria », 24 maggio 1931. -La nuova Chiesa di Magone (sugli affreschi di Giovanni Bevilacqua), in «Nuovo Cittadino», 25 settembre 1930. 00. Le relazioni tra il Ducato di Savoia e la Repubblica di Genova, ai tempi di Emanuele Filiberto. (Industrie poligrafiche Nava, Bergamo, 1930. Estrat-to dal «Giornale Storico e Letterario della Liguria», N. S., a. VI, fase. II. 01. Le onoranze al Preside Pandiani (in «A Compagna», Rivista mens, illustr., a. Ili, η. VI, giugno 1930). 32. A G. B. Pandiani. Traduzione in distici italiani dei distici latini del prof, dott. Luigi Illuminati. 33. La vita famigliare dei Raffini e dei Curio nella loro dimora in Genova (in « Miscellanea Ruffini », pel cinquantenario della morte di Gio. Ruffini. Co mitato Regionale Ligure della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento, Genova, 1931). 34. 1 ritratti di Eleonora Curio Ruffini e dei fratelli Ruffini (con un ritratto inedito di Jacopo). Saggio di iconografia dei Ruflini (nella «Miscellanea» precedente). 35. Recensioni varie: Fra Ginepro, La famiglia dei Ruffini e un padre Cristo-foro del Risorgimento (in « Giorn. stor. e lett. della Liguria », N. S., a. VII, fase. II. - Tacchini A., Michelet e Montanelli. - F. Ê. Morando, Un genovese spirito bizzarro: Michele Canzio (ivi, 1931, fase. IV). 36. I moti del ISSI in Italia, attraverso le pubblicazioni fatte in occasione del Centenario. Studio (ivi. 1932, fase. I-II). Revisione critica contemporanea dei valori letterari del Settecento Italiano. Studio (a proposito del volume: Giulio Nataxi 11 Settecento), (in «La Rassegna» di A. Pellizzari, 1933). 38. Recensione del volume di Antonio Monti, Gli Italiani ed il canale di Suez, in «Giornale storico e letterario della Liguria», fase. III, 1937. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Giuseppe Piersantelli, La penetrazione commerciale genovese nel Sahara a mezzo il secolo XV. (« Il contributo dei Liguri alla conoscenza dell’Africa »), con prefazione di Paolo Revelli, con 2 appendici e 3 tavole. Genova, Cassa di Risparmio e Monte di Pietà di Genova, 1937-XV, pp. 72. Dacché Carlo De La Roncière abbe scoperta la relazione di Antonio Malfante che, primo tra gli europei, penetrò nel Tuat e diede notizia del bacino del Niger, le indagini si sono moltiplicate intorno all’ardito viaggiatore genovese pioniere dell’esplorazione commerciale del Sahara e hanno messo in luce l’importanza dei Liguri nella conoscenza delPinterno dell’Africa. Tra le sparse notizie che ci rimangono dei viaggi africani e delle conseguenze che ne sono derivate, la relazione Malfante occupa un posto eccezionale; si comprende perciò che sulle orme del De La Roncière un numeroso stuolo di studiosi se ne sia impadronito, commentandola, inquadrandola nelle vicende commerciali del tempo, ricercando notizie della vita e dell’ambiente famigliare del viaggiatore. Sono venuti così gli studi del Di Tucci, particolarmente benemerito per quanto riguarda l’indagine documentaria sulla vita e la famiglia del viaggiatore, dello Schiarini, del Gauthier, del Lefè-vre, del Lopez, cui si aggiunge ora il dott. Piersantelli. Il punto più controverso negli studi sul Malfante consiste nella ricerca degli intenti che hanno mosso il commerciante genovese al suo viaggio avventuroso. Secondo il De La Roncière quel viaggio avrebbe rivestito carattere ufficiale ossia sarebbe stato incoraggiato dalla Repubblica nella speranza di trovare nuovi sbocchi che surrogassero quelli dei quali, per le vicende del commercio e delle colonie orientali, vedeva prossima la fine. Questa tesi generica fu ripresa e chiarita dal Lefèvre, secondo il quale l’impresa fu dovuta alla ricerca dell’oro e in diretta connessione con la nota crisi monetaria del 14:47 ; anzi il Malfante sarebbe stato un emissario del Centurione nella ricerca dell’oro destinato a riparare a quella crisi. Anche il De La Roncière lini con l’aderire press’a poco a questa spiegazione. Per il Di Tucci e per il Lopez invece non si tratta affatto di una impresa a carattere, neanche segretamente, ufficiale, ma di iniziativa privata ; secondo il Lopez allo scopo di scambiare le mercanzie dell’Europa, i panni che egli vedeva, con l’oro del Bambuk; secondo RASSEGNA BIBLIOGRAFICA il Di Tucci non per la ricerca dell’oro nè per alcun rapporto col Centurione, ma allo scopo di un’esplorazione commerciale, nell'interesse di un gruppo amico, nella quale gli elementi di successo erano fiduciosamente previsti come ne erano calcolati i mezzi. La relazione Malfante consiste infatti in una lettera a Percivalle Marihoni ; il viaggiatore insomma avrebbe messo a repentaglio la propria vita e una parte dei suoi averi per offrire un nuovo mercato ai Marihoni importatori ed esportatori di tessuti, avrebbe messo cioè lo spirito avventuroso tipico dell’individualismo genovese a servizio dei suoi soci e lontani parenti. Queste spiegazioni non paiono soddisfacenti al Piersantelli che, dopo aver esposto in un perspicuo quadro le condizioni politiche e commerciali di Genova a mezzo il secolo XV e riassunto tutto quanto si sa della vita e delle vicende del Malfante, riprende in esame le diverse tesi e in particolare quella del Di Tucci dacché questi aveva a sua volta confutato le precedenti. Intanto, egli afferma, l’esame dei documenti non ci consente di conchiudere che il Malfante viaggiasse per aprire un mercato ai Marihoni, per quanto suoi amici e parenti ; nè che essi fossero, come pensa il Lopez, associati al suo commercio. L’individualismo genovese è fatto di un egocentrismo ben inteso e pratico ; non è nel suo spirito mettere a repentaglio la propria esistenza e i propri averi, in regioni sconosciute e inospitali, solo per procacciare il bene degli amici. Questo conviene forse agli eroi dell’umanitarismo, non ad un commerciante, per il quale, genovese di stampo, era già squisita gentilezza scrivere dal suo lontano osservatorio all’amico Marihoni, ragguagliandolo minutamente sul viaggio compiuto. Antonio Malfante non è emissario del gruppo commerciale Marihoni nè, attraverso questo, del più potente gruppo Centurione, come vuole il Lefèvre ; l’impresa, conchiude Piersantelli, è tutta sua, pensata e attuata con rapidità; con capitali e merce propria, che egli perde in parte, dando lode a Dio e colpa a nessuno. E soltanto di sua iniziativa, lontano dalla patria da molto tempo, non ignorando la- condizione delle colonie del Mar Nero, tenta di arginare il danno prodotto dalla loro perdita procurandole nuovi mercati. Ci troveremmo dunque di fronte a un fiero individualismo di natura patriottica,. In altri termini il Piersantelli restringe e ingrandisce ad un tempo i confini dell’opera del viaggiatore. Il quale non è un geografo, non ha intenzione di fare lo scopritore, nè di segnalarsi per gesta eroiche ; mira solo ai suoi affari, ha· presenti i propri interessi, si reca nella; regione reputata idonea, individua con occhio sagace ed esperto i futuri mercati e né dà con amichevole senso comunicazione ai Marihoni che l’avevano assai favorito e che ora, per RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 223 circostanze contingenti, possono dire di aver ricevuto il suo testamento spirituale. Queste conclusioni appaiono persuasive così dal lato storico come sotto l’aspètto psicologico. Il Malfante è andato in Africa, come molti altri, da semplice commerciante, senza alcuna missione ufficiale, senza essere agente o socio di alcuno ma trascinatovi dalla corrente dei traffici, desideroso di scoprire per sè nuovi mercati. Ma tutto questo, che mi pare indubitabile, mette un po’ nell’ombra l’aspetto che il Piersantelli chiama patriottico dell’impresa; se mai, si tratterebbe di un patriottismo inconscio e involontario, in quanto, lo dice lo stesso autore, « operando da sè e per sè, ha, cionondimeno, aperto la via agli altri che, sull’orma sua, nei secoli avvenire, si spingeranno in quelle lontane contrade ». Patriottismo indiretto, poiché, come non si propose di essere scopritore e lo fu in pratica, così, siccome la ricchezza di una nazione poggia sui vari apporti di ricchezza individuale, egli ha largamente contribuito alla potenza economica del suo paese, al quale ha procurato una nuova, cospicua fonte di ricchezza. Esempio tipico dell’individualismo mercantile genovese del secolo XV quando, come ha mostrato il Lopez nella sua recentissima storia delle colonie genovesi, si era fatto sempre maggiore e più profondo il distacco tra l’iniziativa individuale e l’ingerenza e l’interessamento dello Stato. Vito Vitale Paolo Revelli, Cristoforo Colombo e la Scuola cartografica genovese, con 81 tavole fuori testo. (Consiglio Nazionale delle Ricerche), Genova, Stabilimento italiano Arti Grafiche, 1937. Poderosa l’opera che Paolo Revelli, l’illustre geografo della nostra .Università, pubblica per cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche su Cristoforo Colombo e la scuola cartografica genovese. Veramente singolare coincidenza che questo volume compaia tra tanto rifiorire di studi genovesi, in quest’anno di esaltazione della antica e della nuovissima Genova, a riaffermare con eloquente documentazione e con formidabile dottrina, fornita di tutte le armi della bibliografìa e della critica, la stretta connessione tra l’ambiente genovese e il suo massimo prodotto, il navigatore che « divinato un mondo lo avvinse di perenni benefìci all’antico ». Di carattere rigorosamente scientifico, l’opera· che viene ad assumere una posizione speciale e un’importanza di prim’ordine nella immensa bibliografia colombiana, è tutta corsa e sostenuta da una fervida passione fatta di convinto entusiasmo che anima e riscalda la dotta materia. Si tratta in realtà di un Colombo visto da un an- 224 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA golo visuale nuovo o inconsueto ; si tratta sopra tutto di una connessione nuova tra lo scopritore e l’ambiente genovese che riesce a una. duplice rivendicazione : della cultura nautica e della esperienza marinaresca di Colombo da un lato, della tradizione culturale genovese dall’altro, assai più viva e profonda di quanto generalmente si creda, massime nel campo cartografico e cosmografico. Le sventure di Colombo, già così gravi e dolorose in vita., si sono moltiplicate dopo morte, anzi i due momenti di maggiore denigrazione hanno corrisposto, come il Revelli documenta nella parte che studia la fortuna dello scopritore, ai primi decenni dopo la sua scomparsa e alla celebrazione centenaria della scoperta, nel 1892. In realtà la grande Raccolta Colombiana, allora ordinata e in gran parte compilata da studiosi genovesi con alla testa i due maestri della storiografia ligure, Belgrano e Desimoni, avrebbe dovuto schiarire tutti i dubbi e risolvere tutte le questioni. Ma quell’opera veramente colossale ebbe il torto di essere troppo ampia e voluminosa e di non aver dato luogo a un sunto agile e persuasivo. Essa ebbe perciò minore efficacia di quanto avrebbe meritato ; le discussioni ripresero e le questioni si aggrovigliarono sempre più sino a formare fitta selva inestricabile nella quale gli studiosi, fatte poche eccezioni, come il nostro Pessagno, hanno recato elementi di dubbio e di confusione anziché di chiarificatrice certezza. È vero che a rischiarare di luce solare il punto fondamentale è venuto il magnifico volume edito dal Comune di Genova col quale, per le appassionate e saggie ricerche storiche e archivistiche di Giovanni Monleone e di Giuseppe Pessagno, è stata dimostrata in maniera documentaria e decisiva la « ge-novesità » di Colombo. La questione del luogo di nascita non può più essere riproposta in sede scientifica ; può essere, se mai, materia di discussione soltanto per i romanzieri della storia o per i fanatici testardi ; e il Revelli, che riassume e corrobora di nuovi dati quella dimostrazione, è indotto dalla stessa serietà scientifica del suo studio a non tener conto di questi rimasticatori che ripetono con la monotonia dei maniaci i medesimi argomenti cento volte dimostrati falsi e inconsistenti. La verità è una sola : Colombo è nato a Genova tra l’agosto e il novembre 1451. Ma non basta. Assodato questo punto capitale, restano infinite altre e gravissime questioni ; i suoi rapporti col Tosca-iielli e la prima origine del grandioso proposito, la capacità stessa di Colombo a concepire e ad attuare il piano che egli si attribuì e che gli fu attribuito. Enrico Vignaud, per esempio, ha impiegato un’intera esistenza e una cospicua serie di scritti maggiori e minori alla pretesa di dimostrare che Colombo era non solo affatto ignorante in materia cartografica e cosmografica, e quindi nell’impossibilità di formulare il piano grandioso della navigazione oceanica verso l’Asia, ma anche un voi- t RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 225 gare impostore perchè tutto ciò che egli ha scritto intorno alla sua corrispondenza col Toscanelli è soltanto una tardiva falsificazione, un postumo e visibile tentativo di giustificare coll’autorità indiscussa (lei grande cosmografo fiorentino la concezione dell’immenso proposito, al quale egli non pensò mai prima del 1492, onde la scoperta fu effetto del caso o, se mai, dell’abilità di altri, lasciati da lui volutamente nell’ombra. Il curioso è che il Yignaud ha sempre sostenuto la genovesità dello scopritore, ma, come nota acutamente il Revelli, la sua opera di svalutazione sistematica ha avuto il risultato che gli altri mettessero in dubbio anche la sola affermazione colombiana da lui ritenuta veritiera ed autentica ; la nascita in Genova.. Tutta l’opera del Revelli è una confutazione formidabilmente armata di erudizione e di dialettica di queste critiche negatrici ; è lo sgretolamento dell’arbitraria, singolare figurazione di un navigatore che, privo di cultura e povero di esperienza marinaresca, pur sarebbe riuscito ad assicurarsi dal sovrano di Castiglia e d’Aragona i mezzi necessari all’attuazione della più difficile e rischiosa spedizione di cui serbi ricordo la storia. La capziosa rete di sospetti e denigrazioni che intorno alla cultura, agli scritti e alla stessa figura morale di Colombo si è intessuta sfruttando sino all’inverosimile alcune spiegabili sue reticenze o incertezze o le,reali o apparenti contraddizioni dei suoi primi biografi, si infrange contro la concezione unitaria della vita e dell’opera di 1111 uomo che, se anche non potè essere immune da errori di visione e d’azione, resta, per il complesso della sua vita, degno non soltanto di rispetto ma della venerazione delle genti. Questa concezione unitaria deriva dall’esame critico, condotto con ricchezza esuberante di discussione e di documentazione, della cultura di Colombo, cultura tecnica non inferiore a quella di qualsiasi navigatore, cultura letteraria perfettamente analoga a quella dei più sperimentati cartografi del suo tempo, quale è attestata in prove dirette, concretate in documenti ineccepibili, e in tutta una serie di prove indirette che costituiscono nel loro complesso una suggestiva dimostrazione. Tra le prove indirette ha particolare importanza l’ambiente. Da questo Colombo ha derivato la cultura marinaresca e cosmografica e l’attitudine singolarissima a delineare carte marine e planisferi, cosicché, se effettivamente il suo piano è maturato nella, penisola iberica, nulla vieta di credere che la prima idea gli sia balenata anche prima e si sia formata sulle carte genovesi che rivendicano il primato italiano nella conoscenza geografica dell’ultima età medievale. Su tutte le navi genovesi si trovavano, è certo, rappresentazioni cartografiche dei mari e delle coste del mondo allora conosciuto ; è possibile che Colombo, il quale già a 18 anni navigava verso Scio, non le abbia vedute? Da quella visione è nato, si deve credere, il primo, forse indistinto, barlume dell’impresi meravigliosa. 226 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA La seconda parte dell’opera. del prof. Revelli è una. dotta e appassionata rivendicazione dell’importanza della scuola cartografica genovese. Già celebre all’età di Dante per opera di Pietro Vesconte e Giovanni di Carignano, essa assicurò all’Italia il primato nella rappresentazione dei mari e fu di esempio a quelle stesse figurazioni che si sogliono indicare come servite a Colombo, e continuò ininterrotta per secoli da Pietro Vesconte a Matteo Vinzoni. Si può anzi affermare che per circa mezzo millennio a Genova è fiorita una. grande scuola cartografica che ha contribuito efficacemente nei suoi primi tre secoli di vita ad affermare il primato geografico degli italiani. Questa dimostrazione pone sotto una nuova luce Γimportanza che Genova ebbe nella storia della cultura rivendicandole il primato in un campo strettamente connesso con la sua più tipica attività navigatrice e mercantile. La dimostrazione documentaria, inoppugnabile della dipendenza del disegno colombiano dall’ambiente genovese e dalla sua cultura cosmografica non c’è nell’opera del Revelli e non voleva nè poteva esserci; ma la suggestiva tesi, che porta un elemento nuovo, quasi di necessità ideale, alla « genovesità » dello scopritore, è di una avvincente efficacia persuasiva. Vito Vitale Dr. Corrado Astengo, La consacnazione di Genova a Maria Santissima ed il cambi-amento di tipo monetale nel 1637. (Estratto dalla Rivista « Numismatica e scienze affini », n. 4-5, luglio-ottobre 1937). Il dott. Corrado Astengo è un caratteristico esempio dei non pochi genovesi e liguri che, pur non essendo studiosi professionali, dedicano alle ricerche storiche e ai ricordi del grande passato del proprio paese il tempo, spesso limitato, che le occupazioni della loro vita consueta di funzionari, di professionisti, di commercianti, lasciano libero. Egli ha rivolto in particolare la sua attenzione agli studi della numismatica ligure, un campo che da qualche tempo sembra interamente trascurato da coloro che fanno professione di studi storici ; da anni negli Atti della Società di Storia Patria — ora R. Deputazione ligure — si cercherebbero invano indagini o contributi in questa materia. Tanto più benemerita e benvenuta perciò la breve memoria del-l’Astengo, in cui traendo occasione dalla ricorrenza centenaria della proclamazione del Regno di Corsica e dell’offerta che Genova fece di sè a Maria Santissima, è studiata la trasformazione del tipo monetario compiuta dalla Repubblica in quella occasione. È noto che la proclamazione della Madonna a sovrana di Genova ha un valore politico come ultimo termine della costante aspirazione RASSEGNA B1 ELIOGRAFICA 227 genovese di sottrarsi a ogni esterna autorità e ogni dipendenza, anche formale, dall’impero. Lo scudo d’argento coniato nel 1637 con l’insegna di Maria Vergine e con la scomparsa del nome, sin allora serbato, di Corrado II, che aveva concesso il primo privilegio di battere moneta, rappresenta il conseguimento della piena sovranità indipendente anche in questo campo. L’innovazione monetaria non trovò ostacoli (gravi invece per altri aspetti della nuova dignità assunta dal Doge) e l’Astengo segue con molta diligenza e perizia la serie delle monete successivamente coniate, sino alla fine della Repubblica, con la nuova immagine, raccogliendo anche i dati rèlativi in alcune tavole di perspicua evidenza. Questi dati gli sono stati forniti dal « Corpus Nummorum Italicorum », il loro controllo ha portato tuttavia alla rettifica di qualche svista materiale sfuggita alla grandiosa e ben nota opera regale. Vito Vitale A. CuTOLO; Gaspare Rosales - Vita romantica di un mazziniano, Milano, Hoepli, 1938. Fatto di grande importanza per comprendere e valutare le forze operanti nel nostro risorgimento, è quello verificatosi in diverse riprese, ora più ora meno intensamente, nel gruppo dei seguaci mazziniani. La defezione, in alcuni casi, evoluzione in altri, involuzione in altri ancora di questi discepoli che si staccano dal Maestro della loro gioventù per passare nell’opposto campo fino allora combattuto è argomento degno d’attenzione. E offre larga materia al psicologo che vi scorge spesso tutto ciò che l’umana natura, con la sua debolezza e la sua malvagità, con la sua] virtù e la sua grandezza può produrre. Allo storico dà prove abbondanti dell’opera educativa svolta dal Mazzini, evidente anche in coloro che lo abbandonarono. K una folla di transfughi : e ci sono di gran nomi : alcuni sono tra i più belli dell’eroismo e patriottismo italiani, ce ne sono dei mediocri e degli insignificanti. E spesso le vicende particolari ci fanno penetrare il movente di quello che fu — non di rado — nn tradimento. Perciò, ogni volta che un ex-seguace del Mazzini ci viene presentato, il nostro interesse si volge al modo con cui s’è analizzato e spiegato quel distacco. Poiché questo è il punto nevralgico che ci dà la possibilità d’intendere il valore morale e intellettuale dell’uomo che si vuol studiare. Non mi pare che il Cutolo, narrandoci la « vita romantica di un mazziniano » com’egli definisce la biografìa di Gaspare Rosales, riesca a spiegarci — per il suo eroe — quel punto. 228 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Nè mi pare che il Cutolo sia riuscito a darci una figura, a tutto rilievo, viva, umana. L’esposizione sbiadita, in una scrittura sciatta (quei « potette » e « potettero » come infastidiscono !) senza nerbo e senza calore, toglierebbe evidenza anche a una biografìa ben più densa e avventurosa e drammatica di quella del Rosales (*). Il quale di per sè non ha caratteri gran che risentiti e vigorosi e avrebbe avuto bisogno, per apparire quale in realtà fu, di un biografo assai diversamente dotato da quello che la sorte gli ha concesso. Avendo potuto attingere all’Archivio privato della famiglia Rosales, lo storiografo del marchese Gaspare ci può fornire notizie e informazioni copiose ed interessanti intorno alla vita del suo eroe. In questo sta il pregio del lavoro. Il Cutolo segue, attraverso i documenti, il Rosales : brevi i cenni sull’infanzia e l’adolescenza e, pur assai rapidi, quelli sulla famiglia del futuro mazziniano. Maggiore spicco avrebbe potuto dare il C. alla figura, del padre : Luigi Rosales, devotissimo a Casa Absburgo e antifrancese di fierissima tempra. Come da siffatto ceppo sia germinato un ramo così diverso, per quali vie, nel giovinetto che apriva, cuore e intelletto in tale ambiente, si sia formata una coscienza liberale e più, di cospiratore ribelle, non si vede nel libro, dove invece con tanta dovizia di particolari, si parla della giovanile fiamma presto divampata in così vaste proporzioni da sfidare le giuste ire del parentado e le gran ciarle del mondo, quando la giovanissima contessa Maria Dal Verme lasciò la casa del marito per seguire Gaspare Rosales. Fu una passione che durò, senza consumarsi, tutta la vita, e potè, solo negli ultimi anni, aver la benedizione della Chiesa e la sanzione della legge. Carattere energico e agile mente, oltre che un cuore capace di forte sentire, ebbe la giardiniera Maria Cigolini Dal Verme e tali qualità dimostrò in tutte le contingenze della sua non facile vita; davanti a un indagatore sottile ed esperto quale lo Zaiotti, che dovette arrendersi di fronte all’abile signora; nelle privazioni e nei pericoli dell’esilio, nella solitudine che la. presenza dei figli bam- (!) Nel volume del C. non mancano sviste e singolari informazioni.... che vanno rilevate, almeno quelle più appariscenti. Per es. a pag. 74 si accenna a una fallita spedizione in Savoia nel 1831 ; a pag. 209 e 210 si legge : « Massimo D’Azeglio (che già Vanno prima aveva cercato di sollevare le Roma-gne).... Non lo sapevate, vero? Consoliamoci, non lo seppe nemmeno il D’Aze-glio. E nella stessa pag. 210 si dice: «Mentre Carlo Alberto, dopo.... essersi fermato a> Milano (dove il suo arrivo suscitò pericolose discussioni tra i re-pubblicani) ». E non è pericolosa questa scioltezza di fantasia che crea persino una sosta milanese di Carlo Alberto nella primavera del ’48? A pag. 229 è detto che a Genova, nel ’49, si dovette « proclamare uno stato d’assedio » per dar modo al IM Marmora di « ricondurre gli animi alla normalità ».... RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 229 bini o appena adolescenti, rendeva anche più difficile a· viversi, nelle tremende ansie per la vita del Rosales da essa sopportate con fiera dignità. Di lei mi piace ricordare una felicissima espressione scritta il 26 marzo 1848 : « Milano conta tanti eroi quanti ne sono gli abitanti ». Giudizio semplice, schietto, sulPepopea milanese che non n’ebbe di più belli. Nel volume del C. troviamo il racconto dei rapporti che il Rosales ebbe con la Carboneria, del suo arresto e degl’interrogatori subiti, del provvido intervento imperiale che lo liberava dal carcere condannandolo al « confino » in Milano, della sua fuga in Isvizzera, della sua azione a fianco e agli ordini del Mazzini. Così pure vi troviamo notizia sul contributo finanziario notevolissimo dal Rosales dato alla spedizione di Savoia, (finanziata, in gran parte, da due membri del patriziato lombardo: Rosales e Beigioioso); i primi dubbi sull’efficacia dell’azione mazziniana; l’accettazione deH’amni-stia imperiale, l’opera svolta nel fiammeggiante ’48, i rapporti con la Blondel D’Azeglio, i fatti del ’53, il distacco aperto e definitivo dal · Mazzini, e, infine, gli ultimi anni e la fine di questo non trascurabile patriota. E, pur presentata nella maniera che s’è detto, la materia del racconto interessa. Le caratteristiche morali del Rosales, la sua generosità nel dare prodigalmente, e nel non rinfacciare mai nulla; la finezza del dare prodigalmente, prevenendo spesso la domanda, e nel non rinfacciare mai nulla ; la finezza del suo tratto che non vien meno, neanche nelle circostante più difficili e nei contatti più urtanti, risaltano in ogni momento della sua vita. Nel Rosales, il cuore vale più della mente — peraltro non volgare — e questo — forse — spiega il silenzio del Mazzini che sull’antico seguace non diede nè al momento dell’abbandono nè poi, giudizio alcuno. Dissi — forse — e lo ripeto : giacché i silenzi nel Mazzini sono frequenti — nei casi di apostasia — e di natura diversa. Generoso il Mazzini anche verso quelli che non stimava — non li bollò mai pubblicamente tanto quanto avrebbe potuto. Con le nature come quelle del Rosales irrequiete e appassionate, ma miti, impressionabili e suscettibili agli effetti deprimenti delle delusioni patite e dell’abile propaganda avversaria, capaci di bene, ma non dotate di quella forza morale nei convincimenti — che è solo di pochi eletti — il Mazzini è più generoso che mai. Del resto, un Rosales senza gli entusiasmi giovanili, senza la fede abbracciata forse (altro forse che la prudenza suggerisce anche contro l’evidenza di alcuni indizi) senza prima vagliarla e certo senza adeguarvisi, avrebbe servito poco alla Causa, poiché il danaro che ancora avrebbe potuto dare, sarebbe stato, per chi lo riceveva, più umiliante che utile. 230 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA E che il Rosales non abbia — com’altri fece — inveito contro colui che abbandonava, lo si comprende quando si pensi alla sua indole che il Mazzini definì « generosa, leale, cavalleresca ». Poiché molto spesso certi clamori polemici son dovuti più a mancanza di educazione che a fervore di credenze. È ben naturale, dunque, che nessuna polemica siavi stata tra ΓApostolo ligure e il gentiluomo lombardo. Nel silenzio amico dell’uno, in quello reverente dell’altro, è il migliore elogio d’entrambi. Leona Ravenna Nino Salvaneschi,, Un violino, ventitré donne e il dia/volo. La vita ardente di Niccolò Paganini. Edizioni Corbaccio, Milano, L. 12. Renée De Saussine, Paganini le magicien. Préface de Jacques Thi-baud. Editions de la Nouvelle Revue Française, Gallimard, Paris, Frs. 24. Nino Salvaneschi nel Preludio, elencando alcuni tra i più nobili scopi a cui deve tendere una biografìa degna di tal nome, trova questa espressione convenientissima al soggetto : « Ogni vita è una sinfonia, bisogna analizzare i motivi che la reggono ». Letti con attenzione e soddisfazione i due libri che son lieto di presentare e consigliare, mi è venuto spontaneo soggiungere : Arturo Codignola ha individuato gli autentici motivi della sinfonia, Nino Salvaneschi e Renée de Saussine, ciascuno secondo la propria sensibilità, hanno ricomposta la sinfonia, rielaborando con gusto, con nobiltà di intenti, con acuta intuizione psicologica temi e motivi selezionati, ritmati e armonizzati in efficacissima sintesi dal Codignola, utilizzando in più qualche spunto secondario, ricavato da altre fonti. Nino Salvaneschi immagina di esporre racconto e commento ad una giovinetta americana, vivace e pensosa, la quale, con opportune interruzioni, segnala, suggerisce, corregge atteggiamenti particolari dei singoli temi da cui germina e si sviluppa agile, conseguente, suggestivo ogni episodio dell’artistica elaborazione. Nella giovinetta l’autore ha indubbiamente personificato la gioventù moderna, la quale, come Doris, « sotto il sorriso, talvolta un po’ ironico, nasconde una vena di romanticismo ». I due libri, l’italiano ed il francese, ciascuno con seduzione diversa, rivelano una generosa vena di sano romanticismo attuale, presentano la realtà schietta e sincera, idealizzata da un luminoso alone di commossa poesia. Doris, la giovinetta americana, dice : « Dovete parlarmi di lui senza alterare la verità e senza dimenticare la leggenda, compiendo RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 231 tutte le variazioni che credete, ma permettendomi tutte le interruzioni e le domande, affinchè la sua figura sorga viva ». E la figura morale di Niccolò Paganini sorge viva e vera dalla esaltazione, profondamente convinta, che ne fa Γitalianissimo scrittore. La De Saussine inizia la sua premessa colla frase nella quale Goethe ha inciso la sua meraviglia, il suo stupore, il suo sbalordimento dopo aver sentito il violinista genovese: « Il me manque une base pour cette colonne de flammes et de nuées, j’ai simplement entendu quelque chose de météorique et je n’ai pas pu me rendre compte ». Come Goethe i singoli e le folle non hanno saputo rendersi •conto ed è sorta e si è diffusa la leggenda ; mancava un tèrmine di paragone, lo si è cercato nel soprannaturale. Adunque la leggenda è un elemento costitutivo della biografìa pagani niana e anche la De Saussine, come Nino Salvaneschi ne ha tenuto il debito conto. Così, elencando le fonti a cui essa ha attinto, la De Saussine soggiunge : « C’est donc à l’aide de matériaux historiques, mais aussi légendaires, que cette étude tentera de ranimer autour du violiniste génois . Fr. : L’Imperatrice Maria Luisa in «Nuovo Cittadino», 1 settembre 11*38. R. Scriptor: Leone Gambetta e il suo soggiorno in Riviera in «11 Lavoro». 13 settembre 1938. U. Degli Uberti: I tt ammiraglio genovese (GraiYagni) in «Giornale di Genova», 17 settembre 1938. Μ. M. Martini : Goffredo Mameli in « Giornale di Genova », 22 settembre 193S. R. Baccino: Come Francesco Rullo riuscì a sbarcare in Sicilia nonostante la polizia in « Giornale di Genova ». 1 ottobre 193S. MISTICA ED ECCLESIASTICA P. M. Raffo : Tradizioni e leggende [S. Siro] in «Nuovo Cittadino». 7 luglio 1938. L. De Simoni: La Madonna di Porta Pila in «Nuovo Cittadino», 31 agosto 193S. E. Badino: La montagna, la ralle, la basilica [N. G. della Guardia] in «Nuovo Cittadino», 2S agosto 1938. Jacopo da Varazze: Jacopo da Va ragine in « Corriere Mercantile », 1 settembre 193S. L. De Simoni : La Santa Bambina e Prè in «Nuovo Cittadino», 7 settembre 193S. P. M. Raffo: Il Balilla e la· Madonna della Guardia in «Nuovo Cittadino», S settembre 193S. D. Ardito: in emulatore di S. Carlo a Genova: VAbate P. S. Franzoni in « Nuovo Cittadino », 11 settembre 1938. CORSICA G. Gallico: Come i francesi conquis ta rotto la Corsica in «Il Telegrafo», 13 aprile 1938. M. Grossi: In Còrso [Pompeo Giustiniani patrizio genovese 1569-ltilGJ in «Il Telegrafo», 12 maggio 1938. Revue de la Corse ancienne et moderne. Juin 1938 [da segnalare: Ambrosi A.: Au lendemain de Voccupation de la Corse par le Français]. R. Peliegri: Come i francesi conquistarono la Corsica, in «Il Telegrafo», 22 giugno 193S. P. T. Alfonsi: L'italianità della Corsica in «Corsica antica e moderna», giugno 1038. Fra Ginepro: L'incontro di S. Leonardo da Portomaurizio con ribelli e banditi còrsi in a Nuovo Cittadino», 17 luglio 193$. V. Vitale: Genova e Sampicro in «Giornale di Genova», 19 agosto 193S. F. Noberasco: Un saggio di bibliografia còrsa in a Cronache savonesi», agosto 193S. (Recensisce il a Saggio di una bibliografìa generale sulla Corsica », di R. Giardelli, pubblicato dal nostro giornale]. « Il libro italiano», agosto 193S e le «Recentissime pubblicazioni italiane», agosto 1938, segnalano il Saggio di una bibliografìa generale della Corsica del Giardelli con prefazione di A. Codignola. La a Bibliofilia », Firenze, agosto-settembre 1938, recensisce ampiamente il precitato saggio del Giardelli sulla Corsica. PAGAN INTANA A. Cappellini: 3Γ. Paganini a Parma in «Il Lavoro», 21 settembre 193S. G. Marchi: La munificenza di Paganini in «Giornale di Genova», 6 settembre 1938. La malattia di Paganini in « Piccolo della Sera », 1 settembre 1938. GENOVA E LIGURIA Antiche famiglie fiorentine e genovesi a Cosenza in « Brntium » organo della R. Deputazione di S. P. per la Calabria e la Lucania, n. 3, 1938. V. Vitale: Gli studi di Storia Ligure nell'ultimo ventennio in a Archivio Storico Italiano ». dispensa I, 1938. Ranieri Porrini : Appunti per la storia di Gioragallo, Genova, Tip. Sordomuti, 1937. [Glovagallo e un piccolo borgo della Lunlgiana e questa spigolature e notizie 239 pubblicazione uscita postuma, ne tratteggia efficacemente i lineamenti nel tempo]. R. Majolo: C amo gli in «Nuovo Cittadino», 3 luglio 1938. Sara: Circonvallazione per Paravanico in « Il Lavoro », 27 luglio 193S. L. g. r. : Uomini e vicende di Cornigliano Ligure in « Il Nuovo Cittadino », 6 luglio 1938. E. Lan-zarotto : La Riviera ligure di Levante nelle pagine d’un romanziere tedesco in « Il Lavoro », 29 luglio 1938. — A. Porati : Andora, la valle degli oleandri, in « Giornale di Genova », 22 luglio 1938. Viator : Dalla Bocchetta a Voltaggio in «Il Nuovo Cittadino», 31 luglio 1938. F. M. : Rossi: Alla scoperta della fonir tana del Papa in « Giornale di Genova », 28 luglio 1938. Viator : Dal Santuario di Velia a Varese Ligure in « Nuovo Cittadino », 25 luglio 1938. A. Cappellini : Biagio in Valpolcevera in « Nuovo Cittadino », 31 luglio 1938. Fumeri : Il Belvedere dell’alta Polcevera in « Nuovo Cittadino », 6 agosto 1938. I grandi liguri in « Nuovo Cittadino », 18 agosto 1938. L. De Simoni : La perla della Val Polcevera [S. Cipriano] in «Nuovo Cittadino», 19 agosto 193S. Il Castello « Parodi » in « Il Lavoro », 19 agosto 1938. G. Setti : Dal soggiorno di Dickens e Byron■ ai soggiorni nostri in « Il Lavoro », 31 agosto 193S. M. C. : Terre, uomini, chiese di Lei vi nel Ghia varese in «Nuovo Cittadino», 18 settembre 1938. A. Porati : Bordighera giardino d’Oriente in « Giornale di Genova », 4 settembre 1938. Novi e i suoi dintorni in « Il Lavoro », 6 settembre 1938. A. Porati : Arma di Taggia in « Giornale di Genova », 15 settembre 1938. ARTE PITTURA E SCULTURA R. : Le Mostre d’Arte: Valente Assenza - Fioravante Arioli in «Giornale di Genova », 13 luglio 1938. Luca Cambiaso in il « Secolo XIX », 12 luglio 1938. A. Cappellini : AH a Mostra dei pittori genovesi in « Nuovo Cittadino », S luglio 1938. G. Balestrieri : Entusiasmi genovesi di Domenico Morelli in « Il Lavoro », 21 luglio 1938. Pittura genovese in «Secolo XIX», 21 luglio 193S. Simili aldo Scorza in « Secolo XIX ». 20 luglio 1938. La Mostra di Palazzo Reale in « Nuovo Cittadino». 6 luglio 193S. A. Ferraris: Un capolavoro di pittura a Voltri salvato dalla perizia del prof. M. Aioardi in « Nuovo Cittadino », 15 luglio 193S. Alessandro Magnasco in « Secolo XIX », 2 luglio 1938. Riva : La mostra dei bozzetti per il premio S. Remo di scultura in « Giornale di Genova », S luglio 1938. F. Garibaldi: Mostra di pittori liguri del 9600 e ’700 in «Liguria», luglio 193S. O. Grosso : La· mostra dei pittori genovesi del ’600 *700 in « Genova », Rivista Municipale, agosto 1938. R. : Note d’arte: Un importante restauro nella chie-s/i di S. Erasmo in Voltri in « Giornale di Genova », 7 agosto 193S. Riva : Le mostre d’Arte : La prima rassegna del paesaggio spoto mese in «Giornale di Genova», 13 luglio 193S. A. Podestà: Alla mostra del ’600 e ’ΊΟΟ genovese: Bernardo Strozzi in «Secolo XIX», 13 agosto 1938. G. Peschiera: Un pittore dcll'800 genovese : Federico Peschiera in « Il Lavoro », 28 agosto 193S. Il Cenacolo del FiamnUnghino collocato a Pegli in « Il Lavoro », 27 agosto 1938. R. : Le mostre d’Arte: R. Qandolfo in « Giornale di Genova », S settembre 193S. Riva : Il bilancio artistico della Mostra dei pittori genovesi del ’600 e ’ΊΟΟ in a Giornale di Genova », 1 settembre 193S. E. Balestrieri : Note d’arte : Il pittore Dino Gambetti in a II Mare», 18 febbraio 1938. E. Balestreri: Artisti che espongono: Annalisa Delfino, Osvaldo Imperiale in «Il Mare». 19 marzo 193S. E. Balestreri : Artisti che espongono : Raffaele Collina in « Il Mare », 9 aprile 193S. E. Balestreri: Artisti che espongono: Alma Fedora, Fiorenzo Tornea in «Il Mare». 30 aprile 1938. E. Balestreri: 1 rtisti che espongono: Dapfne Casorati. Maughan in « Il Mare», 7 maggio 193S. E. Balestreri: Artisti che espongono : Il pittore Martina, lo scultore Mastroianni in « Il Mare », 2S maggio 1938. ■240 SPIGOLATURE E NOTIZIE ARCHITETTURA E RESTAURI e. b. : La trasformazione del convento di S. Giuliano in «Il Lavoro», 0 lu glìo 1938. De Cart: Le antiche mura di Genova in « Il Lavoro », *27 luglio 1938 Il palazzo Durazzo di Corniglìano c il Prìncipe Oddone in « Nuovo Cittadino », 10 luglio 193S. Il restauro e la ricomposizione delle facciate del Palazzo del Governo in «Secolo XIX», 20 agosto 1938. P. M. Raffo: Il calice dell ultima cena e S. Lorenzo in «Nuovo Cittadino», 17 agosto 1938. l>e Cart: Le antiche mura della città in « Il Lavoro», 23 agosto 1938. 'G. Miscosi : Gli scavi di Gre-ta e lo stile micenaico nei palazzi fine ottocento in a II Lavoro », 20 settembre 193S. NOTE LETTERARIE A. C. Terenzi: Il Pindaro savonese nel pensiero del Leopardi in «Nuovo Cittadino». 2 luglio 193S. A. Rondinelli : Chiabrera e il suo tempo in «Secolo XIX», 10 luglio 1938. C. Imperiale: / trovatori genovesi in «Nuovo Cittadino », 17 settembre 1938. TOPOGRAFIA, TOPONOMASTICA, INDUSTRIA, COSTUMI, MUSEI « Nuova Rivista Storica », Napoli, aprile 1938 [dà notizia del saggio Delle società genovesi d'arti e mestieri » pubblicato nel nostro Giornale nel 1905]. A. Rota: I salotti deU’XOO: Antonietta Costa ala bella » in «Genova» Rivista Municipale, agosto 1938. A. Cappellini: G. li. Cattaneo in « Genova » Rivista Municipale, agosto 1938. Past. : Nuoci toponimi genovesi : Via Antonio Orsolino in « Genova » Rivista Municipale, agosto 1938. G. C. Gabella : Sotto-ripa in « Liguria », luglio 193S. A. Capellini : La vecchia Carignano in « (ìior-nale di Genova», 23 luglio 1&38. I>. Ü. Razeto : Storia eroica di ('a mogli nri documenti d'un Museo marinaro in « Giornale di Genova ». 24 luglio 1938. G. B. Gardella : Il museo marinaro di Camogli in «Nuovo Cittadino», 24 luglio 1938. Le celebrazioni dei grandi liguri in « Corriere Mercantile », 27 luglio 1938· D. U. Razeto: Il Museo marinaro a Camogli in «Corriere Mercantile», 23 luglio 1938. Le celebrazioni dei grandi liguri in «Secolo XIX», 14 agosto 1938. G. B. : Il ponte Federico Guglielmo in «< Corriere Mercantile ». 31 agosto 19.58. G. M. : Portoria e il dialetto genovese in «Corriere Mercantile» G settembre 1938. G. Carraro : Toponimi liguri in «Nuovo Cittadino», 8 settembre 1938. G. Piva : Genovesi e veneziani in tempo di regate in « Il Lavoro », 11 settembre 193S. F. Andreini : Marmi della Liguria in « Giornale di Genova », 21 settembre 1938. Renzo Bacchio Direttore responsabile : ARTURO CODIGNOLA Stabilimento Tipografico L. CAPPELLI · Rocca S. Caaciano, 1038-XVI. LO ZUCCHERO nel lavoro e megli sports Dato l’attuale ritmo della vita, lo zucchero dovrebbe essere l’alimento di elezione in ogni campo della vita pratica e intellettuale, dove si lavora e dove si pensa, nelle fabbriche e nelle scuole, nelle caserme e nello sport, là dove necessita attuazione pronta di energia e di velocità. Quando si lavora, il lavoro risulta fisiologicamente più economico se viene eseguito dopo nn pasto ricco di zucchero, che dopo un pasto in cui abbondano grassi e carne. E ciò, non solo perchè lo zucchero scalda meno i congegni del nostro organismo, ma perchè è l’alimento proprio e più indicato nel lavoro dei muscoli. Lo zucchero è il vero carbone del motore animale, e carbone di prima qualità, anche perchè non dà scorie, nè origina, nel suo ricambio, alcuna sostanza tossica. Si comprende, quindi, come, ingerendo zucchero durante il lavoro, si possa dare un maggior rendimento e come esso possa giovare nel ristoro dopo la fatica. Sono classiche le ricerche eseguite dal Mosso e dalla sua scuola, e dal Harley, sul potere ristoratore delio zucchero nelle ascensioni alpine ed, in genere, negli sports violenti. Scrive Angelo Mosso nella u Fisiologia dell’uomo nelle Alpi „ : “ Lo zucchero ha il potere di aumentare la forza dei muscoli. Dal muscolo affaticato può ottenersi una più grande energia bevendo semplicemente una soluzione di zucchero nell’acqua. A che cosa è dovuta l’improvvisa caduta di forze, la défaillance che, a volte, coglie l’atleta nel fervore della gara o l’alpinista che ascende la montagna? Indagini moderne hanno dimostrato che dipende da una discesa di zucchero nel sangue, da una ipoglicemia. Basta allora mangiare un po’ di zucchero, bere uno sciroppo, per sentire rinascere le forze e l’energia di proseguire „. Lo zucchero, alimento fisiologico, deve essere consumato sopratutto dai lavoratori e dagli sportivi. Dalla pubblicazione del compianto Prof. Gaetano Viale, Direttore del-rietituto di Fisiologia della R. Università di Genova : Lo zucchero nell'aliment azione, nella terapia, negli sports, nel lavoro. (Genova, 1933, Bambino e Graeve). SOC. AN. ITALIANA UPS «VAGO MILANO STABILIMENTO E AMMINISTRAZIONE VIA VALLAZZE 106 - TEL. 292-209 - 290-359 CASSEFORTI IMPIANTI DI SICUREZZA PER BANCHE _ MOBILI METALLICI PER UFFICIO ED APPARTAMENTI SCAFFALATURE METALLICHE PER BIBLIOTECHE ED ARCHIVI ARREIDI PER NAVI OSPEDALI E COLLEGI s» — PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA ANNO XIV 1938 XVII Fascìcolo IV. DIRETTORE ARTURO CODIGNOLA SOC. AN. ITALIANA MILANO STABILIMENTO E AMMINISTRAZIONE VIA VALLAZZE 106 - TEL. 2S2-209 - 290-359 CASSEFORTI IMPIANTI DI SICUREZZA PER BANCHE _ MOBILI METALLICI PER UFFICIO ED APPARTAMENTI SCAFFALATURE METALLICHE PER BIBLIOTECHE ED ARCHIVI ARRENDI PER NAVI OSPEDALI E COLLEGI 1 9 PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA ANNO XIV 1938 XVII Fascìcolo IV. DIRETTORE ARTURO CODIGNOLA GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Direzione ed Amministrazione : GENOVA, Via Lomellini I 1 SOMMAR IO Adele Costabile, Problemi economici e contrasti politici tra la Liguria e il monte durante la 'prima metà del 1800, pag. 241 Onorato Retine, isap-vorti ira Genova e Venezia nel sec. XVII (contin. e fine), pag. 260 —- l)awde Bertone, G. B. Gastaldi dei Mille, pag. 267 — Giovanni Pesce, Vicende storiche di Toirano durante il Medio-Evo, pag. 277 —Alice Galimberti, Iacopo Buffi™, pacr 283 — RASSEGNA BIBLIOGRAFICA: A. Codignola, Bubattino (Itala Cremona Cozzolino) : Mattia Moresco, Note sulla fondazione della Chiesa gentilizia degli Spinola nel 1188 in Genova (Vito Vitale) : G. B. Bognetti, I Magistri Antelami e la Valle denteivi (Vito Vitale) : P. S; Pasquali, I nomi di luoqo del Comune di Filattiera (Antonio Giusti) : Antonio Cappellini, La pittura genovese delVOttocento (V. V.), pag. 287-303. - Comunicazioni della R. Deputazione di Storia Patria per la Liguria, pag. 304 : Renzo Buccino, Spigolature e Notizie, pag. 305 : Leona Ravenna, Appunti per una bibliografia ìnazziniana, pag. 310 : Indice dell'annata 1938, pag. 319. CASSA di RISPARMIO di GÊMOVA Sede Centrale: GENOVA - Via Davide Chiossone, 5 FILIALI «NOVA-CENTRO §j GENOVA-SAMPIERDARENA GENOVA -SESTRI GENOVA -PEGLI GENOVA■VOLTRi GENOVA - RIVAROLO GENOVA -BOLZANETO GENOVA -PONTEDECIMO GENOVA - NERVI GENOVA - MOLASSANA ALASSIO ALBENGA ARENZANO BOROIGHERA BUSALLA CAMPOLIGURE CHIAVARI FINALE LIGURE IMPERIA ONEGLIA LOANO MONTOGGIO OSPEDALETTI PIETRA LIGURE PIEVE DI TECO RAPALLO RECCO REZZOAGLIO ROVEGNO S. REMO & MARGHERITA LIGURE SESTRI LEVANTE TAGGIA TORRIGLIA VARAZZE VARESE LIGURE DEPOSITI A RISPARMIO - CONTI CORRENTI - TUTTE LE OPERAZIONI DI BANCA SCRITTI £0111EO INEDITI DI GIUSEPPE MAZZINI POLITICA, LETTERATURA ED EPISTOLARIO EDIZIONE NAZIONALE, a cura deUo Stato, in 100 volumi, in-8 (di cui 75 già pubblicati), corredati daillustr. arricchiti· da preg. introduzioni e note. Decretata dal Governo del Re, nel marzo del 1904, Quale«sotenne attestazione di riverenza e gratitudine dell’Italia risorta, verso 1 Apostolo dell nmta^... Durevole e doveroso omaggio aUa memoria di Lui....» e che il Governo Fascista ha voluto accelerare in modo da essere completa entro il 1941, costituisce un opera grandiosa pe il suo altissimo valore storico, politico e letterario ed insieme un capolavoro editoriale. Ne forma completamento IL PROTOCOLLO DELLA GIOVINE ITALIA IN 6 VOLUMI IN 8° Preziosissima, incalcolabile miniera di notizie per chi voglia addentrarsi a studiare quel periodo che costituisce la preparazione al primo atto grandioso per cui l’Italia s’avviò armata per la via dell’unità nazionale. Scritti e Protocollo vengono editi in due tipi : l’imo del costo medio di L. 10 il volume* l’altro su carta a mano a L. 40 il volume dalla COOPERATIVA TIPOGRAFICO-EDITRICE PAOLO GALEATI DI IMOLA Anno XIV - 1938-XVlI Fascicolo IV - Ottobre-Dicembre GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Direttore: ARTURO CODIGNOLA Comitato di redazione : CARLO BORNATE - PIETRO NURRA - VITO A. VITALE PROBLEMI ECONOMICI E CONTRASTI POLITICI TRA LA LIGURIA E IL PIEMONTE DURANTE LA PRIMA METÀ DEL 1800 \ Argomento di grande importanza nei primi decenni dell’800, tanto dal punto di vista economico e commerciale, quanto da quello politico e sociale, era quello delle strade ferrate ; argomento, diremo così, di attualità, non solo negli Stati Sardi, ma in tutta Italia, anzi in tutta Europa, e per molte ragioni. Il collegamento, infatti, con mezzi di comunicazione rapidi e comodi, dei vari Stati e dei vari paesi faceva prevedere — e giustamente — un risveglio di attività e di iniziative nel campo commerciale e prometteva —· secondo i sostenitori delle strade ferrate — una serie di vantaggi economici a tutti quanti vi partecipassero. Dal punto di vista politico poi, e nei limiti della nostra penisola, avvicinare le varie regioni d’Italia con un organico sistema ferroviario, sembrava ai nostri liberali un passo enorme in quella strada clie doveva condurre ad un’unificazione commerciale e doganale di tutta Italia (x) la quale unità economica era il sogno più ambizioso che si potesse vagheggiare, quando l’unione politica non si sognava ancora neppur lontanamente. Perciò il libro del Petitti sulle strade ferrate fu considerato « un fatto politico, sebbene di politica non sembrasse nel suo libro esservi apparenza » ; perchè « dietro il sistema di strade ferrate del Petitti stava il necessario corollario della lega doganale italiana » (*). Anche in questo campo, naturalmente, non mancarono ragioni di malintesi, ripicchi, urti e polemiche tra Genova e Torino; ed a questi contrasti appunto, accenneremo innanzi tutto. (1) Franco Borjlanw, Il problema delle comunicazione nel secolo XVIII nei suoi, rapporti col Ri-sorgimento Italiano. Pavia, 1932, pag. 153. (2) Gualtkrio, Gli ultimi rivolgmenti italiani. Firenze, 1S52, vol. Ili, pag. 153. 242 ADELE COSTABILE L’opinione pubblica italiana solo lentamente e con una certa diffidenza si andò adattando alPidea delle macchine a vapore e delle strade ferrate (*), tanto che negli anni posteriori al 1830 (ì) si andava ancora guardinghi nell’ammettere la importanza delle strade ferrate e i vantaggi che una volta attuate esse potevano arrecare al commercio ed alle industrie. Come negli altri Stati italiani così si pensava, naturalmente, anche negli Stati Sardi, dove ci si limitava a far da spettatori, osservando e commentando soltanto le notizie che venivano dall estero, senza attuare nè progettare ancora alcuna linea. A quanto dice il Petitti solo nel 1837, riconosciuta finalmente tutta l’importanza di questa nuova conquista dell’ingegno umano, si cominciò a pensare a qualche linea da costruirsi in Piemonte ed in Liguria (3). . Da quel momento però — bisogna dirlo — le strade ferrate uscos-sero plausi e suscitarono consensi, furono salutate come un nuovo passo sulla via della civiltà e del progresso ed ebbero subito fautori numerosi. e . . Naturalmente la propaganda più attiva e più intensa 1 iniziarono i giornali, tanto a Torino quanto a Genova, e a Genova ricorderemo in special modo l’Esperò, VEco dei giornali e il Corriere mercantile, il quale, soprattutto negli anni 1844, 1845, discuteva frequentemente questo problema con scritti ed articoli dell’avvocato Giovanni An o ilio Papa, direttore del periodico. Fin da principio si prospettò la possibilità e poi la necessità di costruire negli Stati Sardi due linee che si reputavano — e lo erano _ indispensabili per dare nuovo impulso al traffico commerciale de regno: una linea che congiungesse Genova a Torino, un’altra che doveva raggiungere il confine lombardo e penetrare in Svizzera attraverso Arona. Stabilite, in massima, le due linee, il 10 settembre 1840 con R R Lettere Patenti il Governo concedeva ad una Società privata genovese, la società Cavagnari, la facoltà di costruire le suddette linee (4), prendendo con esse gli opportuni accordi. La Società affidò l’elaborazione dettagliata del progetto all’ingegnere Porro e, per maggior sicurezza, questo progetto fu anche mostrato all’inglese ingegner Brunel, il quale visitò e studiò le località- e approvò infine il progetto, dichiarando che era possibile a (1) Ciasca, L’origine del programma per l’opinione nazionale italiana. Ro ma, 1916, pag. 234. (2) Ciasca, op. cit., pag. 336. . _ _ (3) Ilarione Petitti di Roreto, Delle strade ferrate italiane. Capolago, Canton Ticino, 1845, pag. 259. (4) Petitti, op. eit., pag. 260. PROBLEMI ECONOMICI E CONTRASTI POLITICI ECC. 243 traversare il temuto passo dei Giovi, mediante la costruzione di un tunnel con due piani inclinati t1). Fra studi e calcoli di commissioni e sotto commissioni passano alcui anni. Si determinano anche, in seno alle commissioni, opinioni differenti e contrastanti (2), e infine nel 1844 si viene ad un accordo definitivo e si stabiliscono i percorsi esatti delle due linee, che una legge del 18 luglio sancisce (3). Una prima linea dunque, doveva raggiungere Torino da Genova, per Novi, Alessandria e la valle del Tanaro. Da Alessandria doveva staccarsi una diramazione che attraversando il Po verso la Lomellina, doveva raggiungere Novara e il Lago Maggiore. In seguito poi si prospettava la possibilità di costruire una terza linea che dalla Lomellina penetrasse in Lombardia. Senonchè, alcuni mesi dopo questi ultimi definitivi accordi, la Società genovese, malgrado le R.R. Lettere Patenti del 10 settembre 1840 escludessero qualsiasi concorso dell’erario pubblico nella spesa che la società doveva sostenere per la costituenda strada ferrata, « rappresentò che, dopo d’aver fatto accurati calcoli sul presunto prodotto dell’ideata strada, supposto dover fruttare il 5 M> per cento, abbisognava tuttavia di una garanzia dell’interesse minimo del 4 y2 per cento, onde potere più sicuramente spacciare all’estero e tenere in credito le azioni che dovrebbero procurarle il capitale occorrente» (4). Il Governo, forse seccato di questa richiesta intempestiva, coglie la palla al balzo e decide, convinto d’altronde di agire nel migliore dei modi, di costruire a proprie spese le suddivisate linee. Quindi con RE. Lettere Patenti del 13 febbraio 1845 rende noto che le strade ferrate da Genova a Torino con diramazione per la Lo-mellina e altra diramazione verso il Lago Maggiore e il confine Lombardo, sarebbero state costruite a spese del R. Erario, e stanzia all’uopo un primo fondo di quindici milioni (5). Si può facilmente immaginare come venne accolta questa decisione a Genova da parte della Società Cavagnari. Immediatamente, il 24 febbraio, essa presentò un primo ricorso al Governo (6) invocando le R.R. Lettere Patenti del 1840 che le concedevano la costruzione delle strade ferrate, ma il ricorso non sortì esito felice e P8 marzo ne venne presentato un secondo, col quale la So- (*) Petitti, op. cit., pag. 261. (2) Arturo Codignola, Dagli albori della libertà al proclama di Moncalierì, in «Biblioteca di storia italiana recente», vol. XIII, Torino, 1931, pag. 169. (3) Petitti, op. cit., pag. 267. (4) petitti, op. cit., pag. 265. (5*, Corriere mercantile, n. 11, 15 gennaio 1847. (6) Codignola, op. cit., pag. 311. 244 ADELE COSTABILE cietà insisteva sulla concessione, almeno, di una indennità. Ma neanche questa volta ottenne nulla e si iniziò una lunga causa. Una prima sentenza, che venne emessa il 20 ottobre 1846, fu sfavorevole alla Società, assolvendo il R. Patrimonio da ogni indennità richiesta ; ma la Società non volle ancora cedere e si appellò alla R. Camera dei Conti. La lunga vertenza toccò intìne il suo epilogo il 21 giugno 1847 con la sentenza definitiva della R. Camera dei Conti che, confermando quanto già aveva decretato il Tribunale, condannava la Società genovese al pagamento delle spese giudiziarie (*). Ora che abbiamo accennato alle prime linee delle quali fu intrapresa la costruzione negli Stati Sardi, e alla vertenza che ne seguì fra il Governo e la Società Cavagnari, non sarà fuori luogo seguile un po’ la campagna attivissima che fu combattuta, soprattutto dagli scrittori e dai giornali genovesi, in favore delle strade ferrate e della loro attuazione nel regno sardo, prima che se ne iniziasse la costruzione e anche dopo, e che fu sempre condotta tenendo presente lo sviluppo del commercio genovese, il benessere e la prosperità di tutto lo Stato. Genova in quegli anni viveva sotto la continua minaccia di una progressiva decadenza del suo porto a causa del fervore col quale dap pertutto si costruivano strade ferrate, specialmente nei paesi dominati dall’Austria la quale, congiungendo Venezia a Trieste coi più celeri e moderni mezzi di comunicazione ai principali centri d Ita lia e di Europa, mirava a far di Trieste, definitivamente, la rivale imbattibile e irraggiungibile di Genova (2). Altre rivali pericolose per Genova erano Marsiglia e Livorno, del e quali i porti erano, in quel periodo, attivissimi. Si comprenderà quindi come la costante preoccupazione di un sempre maggiore isolamento del porto di Genova spingesse gli spinti più vigili del benessere della propria patria, a chiedere, insistere, sup plicare presso il governo con opuscoli, articoli e petizioni affinché si costruissero, e presto, strade ferrate e nuove vie di comunicazione che sollevassero Genova e il suo porto dalla temuta e incipiente decadenza. Discuteva quest’importante problema, fin dal 1842, il Quaglia in un suo interessante articolo (3j ; e nel 1843 il conte di Sambuy, mi nistro sardo a Vienna, in una sua lettera del 12 luglio insisteva sulla necessità di costruire una linea che congiungesse Genova alla Sviz (1) Codignola, op. cit., pag. 312. (2) V. il programma del Metternich nei riguardi di Trieste e delle strade ferrate in Raffaele Ciasca, L’origine del programma per l’opinione nazionale italiana del op. cit., pag. 367. (3) quaglia, Della strada ferrata ligure piemontese ne « L’Espero », ago sto 1842, n. 39. PROBLEMI ECONOMICI E CONTRASTI POLITICI ECC. 245 zera prima die fossero compiute le due linee Venezia-Milano e Mar-sigMa-Lione-Ginevra, che avrebbero tagliato fuori di ogni campo di attività commerciale il porto di Genova. Continuava poi dimostrando che la Francia intensificava la produzione della seta indigena e ΓInghilterra ne riceveva in sempre maggior quantità dalle colonie e dalla Cina ; e che di conseguenza il Piemonte, poiché gli si chiudevano questi mercati, doveva pensare alla Svizzera e alla Confederazione Germanica, come ai futuri mercati di sbocco di questo suo prodotto. Faceva quindi notare che l’Austria aveva rinunciato ad unirsi alla Confederazione Germanica, e che era il momento opportuno, per il Governo Sardo, di offrire appunto alla Confederazione di servirsi del porto di Genova piuttosto che di quello di Trieste per la sua attività commerciale e concludeva i suoi preziosi avvertimenti consigliando di raggiungere al più presto con moderni mezzi di locomozione il lago di Costanza, per facilitare, per quanto più fosse possibile, le comunicazioni. Nel 1843, ancora, il Di Sarnbuy insisteva sulla necessità di aprire il passo dei Giovi e nel 1845 rinnovava i suoi consigli mettendo sull’avviso il Governo che un grave pericolo minacciava il Piemonte, se questo fosse rimasto isolato fuori degli innumerevoli sistemi di strade ferrate che si andavano costruendo (A). Cesare Balbo pensava, per la prosperità del porto di Genova, a strade ferrate che congiungessero la città ligure con la Francia, con la Svizzera, con la Germania (2) ; Michele Erede insisteva sulla necessità di costruire una linea da Genova per il Lukmanier, linea che avrebbe agevolato il traffico dell’Inghilterra per l’india e viceversa; cullando anch’egli il sogno ambizioso dei genovesi di far cioè di Genova stazione di passaggio della valigia delle Indie (3). Anche il Petitti, che studiò più profondamente di ogni altro questo problema, considerava ingenti i benefìci che potevano derivare a Genova dalla linea consigliata dall’Erede, ma senza andar tanto oltre e senza pensare addirittura alla valigia delle Indie, guardando più vicino, scriveva all’Erede : « voi dimostraste che le divisate strade ferrate dirette da Genova all’Alpi, quindi alla Svizzera, ed alla Germania.... possono far di Genova il porto della Confederazione Germanica » (4). Genova, porto della Confederazione germanica, sarebbe stato l’ideale, e questo ideale era vagheggiato da molti, da Giuseppe Papa (1) Giuseppe Prato, Vassociazione agraria subalpina e Camillo Cavour, in « Biblioteca di storia italiana recente», vol. IX. Torino, 1921, pag. 233. (2) Ciasca, op. cit., pag. 511. (3) L’Eco dei giornali, aprile 1846, n. 12 e seguenti. (4) ρετιγγι, Delle più probabili future condizioni del commercio ligure. Tre lettere a Michele Erede, Genova, 1847, pag. 12. 246 ADELE COSTABILE che lo espone diffusamente nel 1846 (lj), al Petitti stesso che aveva esaminato il problema fin dal 1845 nel suo volume sulle strade ferrate italiane. Quivi infatti egli, con l’abituale profondo acume, proponeva di prolungare la linea Genova-Torino in vai di Susa tino a Bardonec-cliia e da Bardonecchia, attraverso un tunnel che perforando le Alpi uscisse a Modane, continuarla in vai d’Arco lino a Cliambery (3) di guisa che Genova, facilitando il transito delle merci provenienti dal-l’Oriente e dal Mediterraneo e dirette alla Svizzera e alla*Germania meridionale, potesse alfine riacquistare la sua antica importanza commerciale e vivere un periodo di rinnovata prosperità. E poco oltre insiste sui benefìci che Genova ritrarrebbe se si pensasse a congiungerne presto con una strada ferrata il porto al Lago Maggiore, dove convenivano tre strade importantissime di transito per la Svizzera e per la Germania : le strade del Sempione, del Sa’n Bernardino, del San Gottardo (3). Ma per il benessere e la prosperità del porto di Genova era altresì necessario congiungere e avvicinare la città ai principali centri italiani ; ed inoltre la fusione degli interessi commerciali delle varie città italiane si desiderava da molti con tutte le forze, poiché appariva come il prodromo di una più profonda e più auspicata fusione di interessi ed ideali politici. A questo scopo l’avvocato Papa propose più tardi una linea che, attraversando gli Appennini, ponesse in contatto Genova con le più importanti città d’Italia (4), e a questo scopo, inoltre, si insistè ripetutamente per una strada ferrata che da Genova raggiungesse il confine lombardo. Fra tutti gli stati allora esistenti in Italia interessava maggiormente lo Stato Sardo, sia per la vicinanza geografica che per l’affinità degli interessi commerciali, il regno Lombardo-Veneto, o, più precisamente, la Lombardia. La Lombardia costituiva lo sbocco naturale per lo spaccio dei prodotti genovesi in particolare e di tutto lo Stato Sardo in generale ; per questa ragione l’aspirazione più impellente dei genovesi era quella di costruire il più celermente possibile una strada ferrata che raggiungesse i confini della Lombardia. In rapporto a questi non facili problemi commerciali, nel comizio deH’Associazione agraria, che si adunò a Genova il 4 giugno 1844, venne letto e discusso uno scritto dell’ingegner Fagnani che si occu- (1) Giuseppe Papa, Di un sistema italiano di strade ferrante. Memoria letta alla società economica di manifatture e commercio, in Codignola, op. cit., pag. 191. (2) petitti, Delle strade ferrate italiane, opl cit., pag. 271. (3) Petitti, op. cit., pag. 274. (4) L’Espero, n. 35, 27 luglio 1844, PROBLEMI ECONOMICI E CONTRASTI POLITICI ECC. 247 pava appunto della situazione precaria di Genova e delie difficoltà che intralciavano il suo sviluppo commerciale. Il Fagnani incitava ad attuare prontamente una strada ferrata che da Genova raggiungesse i confini della Svizzera e della Lombardia, per quivi spacciare più facilmente i prodotti agricoli del Piemonte e della Liguria (l). Poco dopo, nella seduta del l(j agosto, il Consiglio Generale della città di Genova delibererà di inviare al Sovrano una commissione appositamente formata, compito della quale doveva essere ottenere dal Re che venisse costruito innanzi tutto il tratto di strada ferrata da Genova ai confini lombardi, e in un secondo tempo le linee di congiunzione con Torino e con la Svizzera, poiché si temeva che una volta congiunta la Lombardia all’Adriatico Genova perdesse del tutto il suo prestigio e la sua importanza commerciale (2). Per ottenere che venisse esaudito questo desiderio si penserà anche di inviare, da parte dei Sindaci una supplica al Sovrano (3), e quest’ansia e questa impazienza dimostrano chiaramente che le condizioni economiche e commerciali della città non erano molto felici ed anzi destavano serie preoccupazioni in seno al Corpo Civico. E non solo in seno al Corpo Civico. Tutti i commercianti erano seriamente preoccupati ed alla preoccupazione aggiungevano un’irritazione sorda contro il Governo che 11011 provvedeva a rassicurarli e tranquillizzarli, accelerando i lavori delle strade ferrate con quell’energia che si riteneva, in simili frangenti, indispensabile. Che l’opinione pubblica manifestasse del rancore verso il Sovrano, possiamo rilevarlo dai rapporti politici del direttore della polizia di Genova che dopo il primo semestre dell’anno 1845 scriveva a Torino: « una lamenta fu ognor più viva ed estesa, quella dell’essere di tanto procrastinato il cominciamento dei relativi lavori [della strada ferrata] ; ritardo che diceasi non poter 11011 riuscir fatale a questo mercato (4) » e pochi mesi dopo lasciava ancora intravedere l’impazienza dei genovesi : « alla soddisfazione che recarono i già intrapresi lavori della strada ferrata va pur sempre unito il desiderio, che non si cessa di esternare, perchè spinti fossero con quella maggiore attività che sol può esservi arrecata da sforzi e provvedimenti straordinari (5) ». Ma di questo stato di cose non soltanto i genovesi erano preoccupati ; lo era anche il Governo, la cui aspirazione costante era ap (1) Gazzetta- dell’Associazione agraria, n. 38, 20 settembre 1844. (2) Archivio civico in Istituto Mazziniano : Verbali del Consiglio Generale, 1836-1848* pag. 406. (3) Archivio civico in Istituto Mazziniano : Amministrazione municipale, ecc., filza n. 26. (4) Colombo Adolfo, Jm tradizione di Balilla a Genova nel 1846, in Goffredo Mameli e i suoi tempi. Venezia, .1927, pag. 260. (5) Colombo, op. cit., pag. 267. 248 ADELE COSTABILE punto quella di sollevare Genova a nuova importanza, e di imporne la supremazia ai porti rivali. Interprete efficace di questo line cui tende il Governo e dei mezzi che si propone per raggiungere il suo scopo è un giornale genovese, di solito equo e sincero tanto nelle lodi quanto nei rimproveri. « I suoi sforzi [del Governo] sono diretti — scrive (*) — ad assicurare la supremazia al suo porto di Genova in confronto a Venezia a Trieste, e ciò tanto nell’alta Italia quanto nella Svizzera e nella Germania occidentale, al quale oggetto tendono appunto i disegni die sembrano tino ad ora adottati : collegare Genova con Torino e Milano, riunire Genova e Torino con le comunicazioni alpine e special-mente con quelle che toccano il Lago Maggiore ; mettere le mercanzie provenienti da Genova in grado di caricarsi a Pavia sul Po, invadendo in tal modo la Lombardia, il Mantovano, gli Stati di Parma, Modena, della Chiesa, col mézzo di una navigazione discendente, così pronta ed economica in sè stessa, sono le mire cui tendono gli sforzi degli industri piemontesi ». Intanto passano gli anni e di queste linee tanto fervidamente auspicate si rinnovano e ripetono soltanto, di tanto in tanto, i progetti e i disegni. Anche durante l’ottavo congresso degli scienziati italiani, nel settembre del 1846 a Genova, fu discusso a lungo il problema delle strade ferrate e si accennò alle varie linee da costruirsi in tutta la penisola per metterla in contatto diretto con i principali stati d’Europa ; delle ferrovie negli Stati sardi parlarono in quell’occasione il Cantù ed il Gandolfì (2). Pochi mesi dopo si parla di nuovo, sul Corriere mercantile, di una linea che unisca Genova alla Svizzera e alla· Germania (3), di quella linea cioè che è sempre in cima ai pensieri dei genovesi, i quali, pur non ottenendo ancora nulla di concreto, non si stancano di parlarne, come non si stancano di indicare al governo i benefìci che apporterebbe al commercio la costruzione di una linea da Genova al Lago Maggiore che da Locamo poi penetrasse, attraverso Bellinzona, Bia sca, Divone e Casaccio in Val di Elenio ; forasse il Lukmanier o colle di Santa Maria e, varcate le Alpi, toccasse Piatta, Dissentis, Coirà, ecc. fino a raggiungere Costanza (4). Mentre questi scrittori, come l’avvocato Giovanni Antonio Papa, il conte Ila-rione Petitti, Michele Erede, ecc. continuavano a proporre nuove linee, consigliando, convincendo ed esortando il Governo, senza cedere e senza riposare, convinti e fiduciosi, zelanti ed instancabili e (1) Corriere merca/ntile, n. 90. 28 aprile 1845. (2) Atti dell’VIII Congresso degli Scienziati Italiani. Genova, Ferrando, 1846, pag. 735-736; (3) Corriere mercantile, 29 marzo 1847, n. 68 e seguenti. (4) Corriere Mercantile, n. 80, 14 aprile 1847. PROBLEMI ECONOMICI E CONTRASTI POLITICI ECC. 249 tenendo anche presente, sempre, la funzione politica che un sistema ferroviario italiano avrebbe dovuto esplicare per l’unione commerciale ed economica di tutte le regioni italiane (*), il Governo sardo pensava intanto, da parte sua, sia pure non con quel ritmo accelerato che si sarebbe desiderato, ad attuare quelle linee già studiate e definitivamente ideate fin dal 1845. Ma a turbare la tranquillità della nostra città, ad un tratto si diffuse la voce che la strada ferrata, invece di raggiungere la città e il porto franco, sarebbe stata terminata in San Pier d’Arena. Naturalmente i commercianti e gli industriali, gli armatori e, in genere, tutta la cittadinanza rimasero turbati e preoccupati da questa notizia perchè, se si fosse realizzato questo disegno, una grave perdita di tempo e un forte dispendio di danaro sarebbero stati necessari per trasportare le merci dal Porto Franco a San Pier d’Arena. Perciò l’opinione pubblica si schierò tutta contro il Governo che sembrava disinteressarsi completamente delle necessità e dei bisogni del commercio e della città. Il Consiglio Generale e la Camera, di Commercio decisero allora, insieme, di inviare a Torino una Deputazione per fare esporre le ragioni che rendevano necessaria la ferrovia in città (2). Membri della Deputazione vennero designati Giacomo Oneto, vice presidente della Camera di Commercio, Francesco Viani, Consigliere della Camera stessa e deputato deU’Uffîeio Edili e Giuseppe Cari-gnani. Non contenti di questo primo tentativo, poco dopo, i Sindaci, seguendo il consiglio di Giuseppe Ricci il quale, avuto sentore di queste voci che circolavano, che cioè la strada ferrata non avrebbe raggiunto Genova, in una lettera al fratello Vincenzo, consigliava di presentare « memorie ragionate e rispettose ai ministri » (3), i Sindaci, dicevamo, presentano al R. Commissario, conte Borelli, un esposto nel quale riferivano le ragioni della loro richiesta e rinnovavano ancora le preghiere perchè la strada ferrata raggiungesse il centro della città (4). Il Borelli il 7 aprile rispondeva di aver comunicato alla R. Segreteria di Stato per gli affari degli Interni la domanda dei Sindaci e li rassicurava che le loro osservazioni sarebbero state tenute nella debita considerazione allorquando sarebbero stati studiati i progetti riguardanti l’ingresso in città della strada ferrata (5). Per ora dunque non erano stati neanche studiati i vari progetti e (ì) Borlandi, op. cit.y pag. 149. (2) Codignola, Dagli albori della■ libertà al proclama di Moncalìeri, op. cit., pag. 278. (3) Archivio civico in Istituto Mazziniano, Carte Ricci, cartella 267S. (4Ì Archivio civico in Istituto Mazziniano Pratiche div. 4, fascicolo 91. i.5) Archivio civico in Istituto Mazziniano. Pratiche div. 4, fascicolo cit. 250 ADELE COSTABILE non si era potuto di conseguenza decidere, come in Genova si credeva, di far terminare la ferrovia in San Pier d’Arena oppure in città. Ma, a malgrado di queste assicurazioni, albergava ancora negli animi la preoccupazione e il sospetto, che si dileguarono quasi del tutto al ritorno da Torino della Deputazione, la quale, alla capitale, aveva ricevuto le migliori assicurazioni di garanzia per gli interessi e la prosperità del commercio genovese (M. Contemporaneamente la Deputazione ripeteva quanto già aveva scritto il Borelli, che cioè non si era ancora approvato il progetto definitivo, per Pingresso in Genova. Ed era vero, come era vero altresì che non si era mai pensato, da parte del Governo a non raggiungere , con la strada ferrata, il porto franco. Questo Paveva affermato, fin dal marzo, il conte Petitti in una sua lettera a Michele Erede : « tre sono gli studi comparativi fatti.... per l'entrata in Genova, ed è falso che siavi mai stato Pidea di non entrarvi, fermandosi in San Pier d’Arena » (2), e lo confermerà ancora, decisamente, il 15 luglio (3). Alla fine di settembre annullerà definitivamente ogni dubbio e porrà fine alle ultime preoccupazioni, che ancora albergavano negli animi dei genovesi, Pannunzio, apparso sulla Gazzetta di Genova, de « Pingresso della strada ferrata nelle mura di Genova, passando pei* San Pier d’Arena e perforando il colle di San Benigno, donde la linea seguendo il piè del colle va a sboccare sulla piazza detta del Principe » (4). Così il Governo smentiva coi fatti questa voce che non poca agitazione e malcontento aveva generato in città e che — secondo il Petitti — era germogliata « nelle menti diffidentissime degli avidissimi » proprietari di magazzini del portò franco (5). Ancora una volta dunque dobbiamo convenire che quasi tutte le quistioni e gli urti traevano origine — e lo vedremo meglio in seguito — non da ragioni positive e fondate ma dalla diffidenza, dalla prevenzione e dalla sfiducia reciproca, che costituivano la base su cui poggiavano abitualmente i rapporti tra Genova e Torino. * * * La questione delle strade ferrate, di così grande importanza, sia politica che economica e commerciale, ci conduce logicamente ad osservare quali fossero, negli anni che noi andiamo esaminando, le condizioni del commercio, delPagricoltnra, delle industrie a Genova, che era il centro commerciale più importante di tutti gli Stati Sardi. (1) Codignola, op. cit.. pag. 304. (2) Codignola, op. cit., pag. 286. (3) Codignola, op. cit., pag. 316 (4) Gazzetta di Genova, n. 116, 28 settembre 1847. (5) codignola, op. cit., pag. 286 . PROBLEMI ECONOMICI E CONTRASTI POLITICI, ECC. 251 Una vivissima attività propagandistica esplicarono in questo campo molti scrittori genovesi : da una parte per incitare, scuotere e consigliare il Governo a concedere riforme e a promuovere trasformazioni; da un’altra per spingere i genovesi a dare nuovo incremento alle patrie industrie e al commercio, a introdurre e provare nuovi metodi, a tentare macchine e mezzi più moderni e perfezionati. Ma una vera battaglia essi combattevano per ottenere uno sviluppo dell’istruzione commerciale e non commerciale; considerando, e giustamente, l’istruzione un elemento indispensabile per il benessere e il progresso di un popolo e di uno Stato. Nel 1844 si organizzò a Torino un’esposizione dei prodotti del-rindustria sarda e il Quaglia, scrivendo di questa esposizione, non mancava di rilevare la mancanza, nel paese, di macchine a vapore, altrove già ampiamente utilizzate, il limitato sviluppo delle arti metallurgiche, lo scarso rendimento delle fabbriche di tessuti e filati che offrivano prodotti mediocri (l). Per incitare a una sempre maggiore attività, che desse nuovo vigore al paese, si levavano spesso voci autorevoli, le quali facevano sentire soprattutto a Genova, che attraversava un periodo di decadenza, il quale era un po’ da attribuirsi al Governo, colpevole talvolta di abbandonare la città a se stessa, un po’ anche all’inerzia dei genovesi, i quali non prendevano alcuna iniziativa, pur avendone la possibilità e i mezzi finanziari. E questi rimproveri non si riferivano esclusivamente a iniziative commerciali o industriali, abbandonate o trascurate : ma a qualsiasi iniziativa che contribuiva al progresso e alla vita della città, vita cui facevano capo, appunto, attività multiformi, di carattere coni merciale, industriale, culturale, artistico. Ad esempio, il Bancliero, a proposito di una Società promotrice di belle arti, fondata in Torino nel 1X42, coglieva l’occasione per biasimare aspramente i genovesi, l’inerzia e l'indifferenza dei quali avevano fatto perire l'istituto Nazionale e la Società medica, che il Governo aveva, tempo addietro, concesso a Genova (*). Il Petitti si faceva l’augurio che a Genova sorgesse una potente società marittima, la quale sotto il glorio^) nome di San Giorgio, desse impiego proficuo ai molti capitali genovesi che giacevano inoperosi (*) ; e l’Erede infine non si asteneva dal rampognare acerbamente i suoi concittadini, i quali, piuttosto che intraprendere la costruzione di una strada ferrata Genova-Svizzera, strada ferrata che egli sosteneva efficacemente e che, in realtà, sarebbe stata di grande (1) Quaglia. DrlViruìuKtria nei U. Stati Sardi. cit., pag. 178. (2) Rancherò, articolo sulla Società promotrice delle belle arti. fondata iti Torino nel in o Rivista Ligure », vol. II, pag. 143, 1845. (?) Petitti. Delle più probabili future condizioni del commercio ligure, cit.. pag. 102. 252 ADELE COSTABILE vantaggio per il commercio genovese, preferivano conservare gelosamente i loro capitali, preoccupati
  • , 5 settembre 1844, Giuseppe Papa, Del cormnercio di Genova. (4) Mioli, La consulta dei mercanti, cit., pag. 174. (5) Colombo, La tradizione di Balilla a Genova, cit., pag. 157. (β) Codignola, Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri, cit., pag. 215. PROBLEMI ECONOMICI E CONTRASTI POLITICI ECC. 255 è l’avv. Papa che esprime questa aspirazione genovese con passione ed interessamento (*). Fedele poi al principio di libertà in ogni campo delle industrie e del commercio, nel 1847 invoca dal Governo che venga concesso piena libertà anche ai privati di riattare e aggiustare le navi del porto, prerogativa esclusiva dei maestri d’ascia, calafati e zavorranti, i quali naturalmente ne approfittavano per farla da padroni, con grave perdita, da parte degli interessati, ossia dei padroni delle navi, di tempo e di danaro (2). E un’altra concessione invocherà dal Governo, con ogni forza instancabilmente. Era prerogativa delle RR. Finanze caricare e scaricare le merci all’arrivo e alla partenza delle navi dal porto. Ma la RR. Finanze, disponevano di « piatte » insufficienti e, se avessero dovuto compiere loro tutto il lavoro di carico e scarico, si sarebbe perduto moltissimo tempo. Perciò i padroni delle navi, per non subire ritardi e risparmiare 1111 tempo, talvolta prezioso, preferivano pagare la tariffa imposta dalle RR. Finanze, e poi assumere in servizio altri privati die si occupassero di caricare o scaricare le merci. Ora l’avv. Papa insisteva appunto perchè si affidasse questo servizio esclusivamente a privati (3) poiché notava come questo stato di cose provocasse realmente disordini, spese e malcontento nei genovesi. Ma questo malcontento, che persisteva già da tempo, come possiamo rilevare da 1111 rapporto del 1846 del direttore di polizia (4) non preoccupava niente affatto il Governo il quale non prendeva alcuna iniziativa in proposito e non si decideva a porvi riparo. E il suo disinteressamento accresceva — e giustamente — il malumore e l’astio dei genovesi. Però in quello stesso airno, nel 1847, conquistò al Governo le simpatie dei genovesi un importante avvenimento di carattere commerciale : una convenzione stipulata il 6 marzo tra il Governo sardo e una Società inglese per la navigazione a vapore, la Peninsular and Orientai Steam navigation Company (5). La convenzione infatti fu accolta con molta soddisfazione perchè arrecava grandi vantaggi a Genova, prevedendosi 1111 afflusso maggiore di merci e di passeggeri nella città, una rinnovata attività del porto e un generale incremento nel commercio, come faceva notare Michele Erede in un suo articolo sulla Gazzetta, subito dopo la notizia delTaccordo fei. (») L’e Esperò ». 27 luglio 1844. 11. 35. il «Corriere mercantile», 20 marzo 1847, n. 68, ecc. ecc. <2> Il « Corriere Mercantile ». 9 settembre 1847, , 11. 191 Il u Corriere Mereant ile ». 9 settembre 1847. . 11. 191 (*) Colombo. La tradizione di Balilla a Genova, cit. (5> « Gazzetta di Genova ». 1« marzo 1847 , n. 32. (·) a Gazzetta <11 Genova ». 18 marzo 1847 ’t n. 38. 256 ADELK COSTABILE Ultimo, e piò grande vantaggio, Genova avrebbe ricevuto notizie dairOriente ventiquattro ore prima di Marsiglia, sua diretta rivale i1). E questa prospettiva doveva riuscire oltremodo gradita ai genovesi, il cui assillo costante era di far raggiungere tanta importanza alla città, nel campo commerciale, da farla riuscire superiore ad ogni concorrenza straniera. Ma i Genovesi — ossia coloro tra i Genovesi che si occupavano di problemi commerciali — avevano altresì la convinzione profonda che, per far acquistare al commercio ed alle industrie genovesi nuovo vigore fosse necessaria l'istruzione, l’istruzione intesa nel senso più ampio della parola, della quale potessero giovarsi tutte le classi sociali, indistintamente; ciascuna, naturalmente, secondo la propria intelligenza e le proprie possibilità. «· * * Concessioni e riforme di carattere culturale erano perciò richieste al Governo frequentemente, e con piò interesse che qualsiasi altra agevolazione. Il movimento riformatore e rinnovatore si andava, è vero, estendendo oramai rapidamente a tutta Italia e a tutta l’Europa; ma il governo Piemontese che non fu certo all’avanguardia nel generale progresso, fece delle concessioni solo lentamente e gradatamente, vinto dall’insistenza di molti scrittori e cittadini, i quali, vigili e insonni, si preoccupavano e interessavano del benessere materiale e spirituale della loro patria, e non si stancavano, perciò, di chiedere e di pregare. In Genova propugnò l’istruzione commerciale, fin dal 1843, Giuseppe Papa con un suo opuscolo sul commercio contemporaneo (3), e altro sostenitore antico e veramente instancabile dell’istruzione commerciale fu Michele Erede (*) il quale in seguito vide, almeno in parte, e sia pure dopo lunghi anni, realizzate le sue aspirazioni. Egli riteneva indispensabile, per lo splendore commerciale di Genova, l’istituzione di una cattedra tecnologica per gli artieri, e di una di economia, nautica e commercio. Nel 1845, al Presidente della Deputazione agli Studi di Genova presentava un suo programma, per l’istituzione di una scuola com- (!) Codignola, Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri, cit., pag. 280. (2) Grò seppe Papa, Brevi ragionamenti riguardanti û commercio contemporaneo, Genova, Ferrando, 1843. (3) «Rivista ligure» (diretta da M. Erede e L. A. Boselli), vol. I, pag. 41, 1843. PROBLEMI ECONOMICI E CONTRASTI POLITICI ECC. 257 merciale, che comprendesse dieci materie di insegnamento e che i poveri avrebbero dovuto frequentare gratuitamente (*). Nel 184G, nella sua Rivista (2) tornava ancora sull’argomento che tanto gli stava a cuore, e affermava di nuovo di ritenere indispensabile, per i genovesi, delle scuole che li preparassero convenientemente alla navigazione, alle scienze, alle arti, alle manifatture. A convalidare la sua teoria, riportava uno scritto del Pallavicino, il quale considerava anch’egli necessaria per Genova un’altra scuola di commercio ; un insegnamento economico e commerciale propugnava da parte sua anche il Petitti (3) e, finalmente, tante insistenze e articoli e richieste finirono con l’ottenere dal Governo le prime concessioni, cui seguirono, dopo, molte altre. Infatti il 5 novembre 1840 si apriva in Genova un Istituto generale di commercio. Il discorso di apertura fu pronunziato proprio- dal-l’Erede, il quale non trascurò, neanche in quell’occasione, di incitare i Genovesi a una maggiore attività per l’incremento del commercio cittadino (4), mentre l’avvocato Costa in quella medesima circostanza sosteneva « l’utilità di adattare un corso di diritto mercatorio alPintelligenza e all’uso dei commercianti » (5). Poco dopo, alPinizio del nuovo anno accademico, fu inaugurata, nell’Università di Torino, una nuova cattedra di economia politica (6), e il conte Petitti, interessandosi, come al solito, vivamente, delle condizioni di Genova, insistette perchè anche PUniversità di Genova ottenesse una cattedra analoga (7)· L'istruzione normale negli Stati Sardi aveva già ricevuto provvidi ordinamenti con le Regie Lettere Patenti del 1 agosto 1845 (8) ; del-ristruzione elementare, invece, che era ancora trascurata, s'interessò minutamente il Rancherò il quale ne studiò ed espose le condizioni, esaminò le cause della scarsa efficienza, e auspicò, dopo la nuova riforma scolastica del 1864, grandi vantaggi all’istruzione stessa e quindi un contributo efficace al miglioramento dei bisogni morali e spirituali del popolo (0). E invece a 1FUniversità· di Genova che nel 1846, mancavano ancora di molte cattedre di scienze pure molto utili, come agricoltura, tee- (1) codignola, op. cit., pag. 135. (2) « Rivista Ligure», vol. I, pag. 81, 1846. (3) Lettera «lei Petitti a Michele Erede del 6 marzo 1846, in Codignola, op. cit., pag. 137. (4) «Rivista ligure», voi. Il, pag. 456, 1846. ls) La « Gazzetta di Genova », n. 135, 10 novembre 1846. (*) « Rivista europea », fascicolo di settembre, pag. 265, 1846. (7) « Rivista europea », fascicolo di settembre, pag. 310, 1846. (*) Rancherò, Dencrizionc di Genova* c del Qenovcsato, cit., pag. 431, vol. II. (®) Banchero, op. cit., vol. II, pag. 428. 258 ADELE COSTABILE nolo già, geografia, navigazione, architettura navale, storia, archeologia, economia politica, pedagogia (M. Il Governo concedeva più facilmente l’istituzione ili scuole secondarie, che non di nuove cattedre universitarie. Infatti, il 5 settembre 1846 dava inizio alla sua attività anche il corso della scuola provinciale di metodo (2) la quale era stata chiesta al Governo·, dalia-città di Genova, lin dall’anno precedente. 11 7 luglio del 1846 il Consiglio Generale aveva rinnovato la domanda ed ottenuto, linai-mente, risposta affermativa. Senonchè, una contrarietà impreveduta venne a turbare la gioia-di Genova. Tutte le spese necessarie al mantenimento1 della scuola furono addossate alla città e provincia, con un certo malcontento da parte della città che aveva tanto desiderato questa scuola, ma non poteva vedere il buon occhio un aggravio di spese al suo bilancio (3j*. Interessante è il commento che fece, a tale proposito, alcuni mesi dopo VATba di Firenze comunicando la notizia della concessione di questa scuola di metodo fatta a Genova dal Governo: « noi plaudia-mo a quest’atto di giustizia verso Genova dei Govreno piemontese.... vorremmo bensì che le due città rivali del regno, Genova e 'Torino, fossero dal Governo amministrate con massima più regolare ed uniforme, dovendo ciò che è lecito a Torino esserlo nell’istesso modo, grado e tempo, anche a Genova. Sappiamo essere precipua cura di quel governo eli togliere e scancellare l’ultimo vestigio dell’antico antagonismo fra quelle due città italiane; ma a volte ci parve che ne abbia Sbagliato affatto la via, adoperando due modi di condotta diversi per i due paesi, diversa la condotta del Governo a Torino da quella a Genova. Non è questo il modo di far adempita la missione affidata dalla Provvidenza alla Casa Savoia, missione di forza e d’unione. « Essa deve siccome a massimo dovere, attendere ad affratellare gli animi, e ad accumulare gli interessi di quelle due provincie italiane, le quali se già furono divise e nemiche, hanno ad essere d’ora innanzi unite e concordi nella tutela degli interessi comuni » (4). Xel novembre di quel medesimo 1846 il memoriale dei desiderata, che i commercianti genovesi dovevano presentare, come ogni anno, al Re, comprendeva anche la richiesta di scuole di chimica e meccanica applicate alle arti (5). Anche questa domanda venne accolta favore\’olmente dal Sovra- (!) Canchero, op. cit., vol. II, pag. 438. (2) « Gazzetta di Genova », n. 103, 27 agosto 1840. (3) Archivio civico in Istituto Mazziniano. Pratich ediv. 1, fase. 47. (*) L’« Alba », n. 16, 19 luglio 1847. (5) Codignola, Dagli albori della libertà al proclama di MoncaUeri, cit., pag. 216. PROBLEMI ECONOMICI E CONTRASTI POLITICI ECC. 259 no, e dopo un anno iniziò in Genova la sua attività questa nuova-scuola (1). Nel gennaio del ?48 vennero aperte scuole serali di istruzione elementare (2), a maggio, infine fu inaugurata, all’Università, la cattedra di storia politica (3). Adele Costabile (J) «Gazzetta di Genova», n. 9, 21 gennaio 1847. (2) «Corriere Mercantile», n. 17, 22 gennaio 1848. (3) Il « Corriere livornese », n. 98, 23 maggio 1848. RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA NEL SEC. XVII E GIO. BERNARDO VENEROSO (Continuazione e fine — V. numero precedente) Si calcolava poi che, per quattro galeoni che si volessero aggiungere agli altri soccorsi, la spesa sarebbe salita a prezzi 5400 al mese, come risultava dalle offerte già fatte al Veneroso, dalle quali si poteva pure rilevare la facilità di eseguire tutti gli impegni. Da ultimo si presentava la Capitolazione che doveva stipularsi dal \ oneroso stesso con i Signori Veneziani (M. In seguito a detta relazione, il 17 novembre i Collegi facevano sottoporre al Minor Consiglio la proposta di mandare con le galee e le soldatesche del Veneroso, quattro vascelli a carico pubblico, purché la spesa non eccedesse i 45 mila pezzi da. otto reali ; e il tutto veniva approvato con 76 voti contro 29. Esultante il M.co Gio. Veneroso poteva scrivere due giorni dopo a Raffaele Giustiniano annunciando le deliberazioni del suo Governo in tutto rispondenti a quanto insieme avevano concordato in Reggio. <( Sii lodato per sempre il nome di N. S. Iddio! », esclamava; e così riassumeva la procedura che si sarebbe seguita, conforme agli accordi già presi e tendente a conciliare da una parte Y esigenza che la domanda precedesse qualsiasi atto al riguardo, dall’altra quella de -la certezza di quanto si prometteva. La Repubblica di Venezia, dunque, avrebbe anzitutto partecipato a quella di Genova, con i dovuti titoli al Doge e ai Senatori, 1 attacco ingiusto delle armi ottomane in Candia e Dalmazia e 1 offeita fattale dal Veneroso di passare al suo soldo con sei galee di libei tà e duemila fanti, previo il consenso del proprio Governo. In termini di cortesia avrebbe risposto Genova, accordando quanto veniva richiesto ed offrendo inoltre, a proprio carico, per gli otto mesi circa della futura campagna del 1652, quattro navi « po- (i) La molto dettagliata « Capitolatione da accordarsi dalla Ser.ma Rep.ca di Venetia a Gio. Bern. Veneroso per la leva di 6 in 10 galere, e di 2000 fanti » si trova fra i documenti esaminati insieme con varie carte contenenti le offerte fatte al Veneroso in Genova e nelle due Riviere per la levata delle galere di libertà e di remieri, soldati e ufficiali. (Secretorum, cit.). RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. BERNARDO VENEROSO 261 derose e ben corredate », sulle quali si sarebbero potute imbarcare le milizie ingaggiate, dolente di non essere in grado, nelle presenti contingenze, di dare in più. Dopo di che l’altra Repubblica avrebbe espresso nella sua replica il proprio gradimento, aggiungendo la notizia di aver fatto decreto in Senato per riconoscere la parità del trattamento agli ambasciatori presso tutte le Corti con titolo di Eccellenza come a ministri di teste coronate, e ricevendone infine dal Governo genovese le dovute grazie. Il Veneroso dava quindi assicurazione sulla piena ed assoluta esecuzione, per parte di Genova, dei patti stipulati, non dubitando che anche alla Repubblica veneta sarebbero stati ben accetti per la grande economia che avrebbe realizzato con questo armamento, dato il costo molto superiore delle sue galee, « non armate certo al pari di queste nostre — aggiungeva il gentiluomo — come Y. S. ben sa, e come spero in Dio, che l’effetto debba dimostrarlo di vantaggio ». Invitava quindi il Giustiniano a recarsi quanto prima a Genova con i necessari recapiti per poter egli provvedere ad ogni cosa ed assicurarsi anche la gente migliore delle riviere, prima che s’impegnasse per la pesca dei coralli, ciò che accadeva tra- la fine di novembre e il principio di dicembre. A tal fine lo informava che sarebbe partito con una galea per Livorno e di là si sarebbe recato a Pisa, attendendo, alPuna o all’altra posta, prima il pedone che a lui inviava per conoscere la sua venuta e poscia lui stesso per servirlo nel viaggio, « purché — concludeva — non si sentino qui più repliche in scritto, che sicuramente non farebbero altro, che porgere danno a me et all’affare ». 12. - Ma purtroppo anche questa volta a nulla si doveva approdare. Raffaele Giustiniano, subito dopo il convegno di Reggio se n’era andato a casa sua in Vicenza. E di là aveva scritto al nostro gentiluomo (24 settembre) le prime dubbiose espressioni. Prego Dio — egli diceva — che tutto finisca in bene, « se ben dubito forte dell’evento, non essendovi cosa, sicura ». Al Veneroso toccava procurare tale sicurezza, se si voleva ch’egli poi s’impegnasse e fosse tutto definito. Quello che gli doleva si era che da Venezia, dove era conosciuta ogni^ cosa, quel viceconsole, Gio. Ambrogio Bianchi, e molti altri gli avevano fatto sapere che l'affare era « messo nei reposti » ; ed anche 1111 tale venuto di là aveva riferito che la voce della concessione da parte della Repubblica di Genova a quella veneta di sei vascelli ed altrettante galee era ritenuta «'una spagnolaita ». Oa· veda._ esclamava il Giustiniano — « in quale concetto siamo appo alle canaglie e però è necessario fare daddovero » ; persuadesse quindi quei Signori della necessità di altri aiuti e non dimenticasse so- 262 ONORATO PASTINE prattutto d’inviargli il decreto relativo allo stendardo per valersene opportunamente. Ne più incoraggiante era la sua lettera del'29 ottobre. Il Giustiniano era tornato allora a Vicenza dal Friuli, dove s’era recato d’ordine pubblico, in poco buona salute per l’asma che l’angustiava. Aveva ricevute tre lettere dal Veneroso e i decreti per lo stendardo; sentiva con piacere che sperava ottenere nuovi favori, necessari per ben avviare la pratica « essendovi molte difficoltà per la parte di Venetia stante le promesse di già fatte » ; nè egli, come tutti gli amici lo consigliavano, avrebbe voluto obbligarsi di più « per non far il secondo aborto », che sarebbe stato la sua rovina. Ad ogni modo, appena ristabilito, sarebbe passato a Venezia per compiere il suo dovere. Intanto nel novembre, come vedemmo, i Collegi prendevano le deliberazioni ricordate con l’aggiunta dei quattro vascelli, deliberazioni che il Veneroso comunicava al M.co Raffaele, attendendo ormai la sua venuta a Genova. Ma il Giustiniano non venne. Rispose invece scusandosi ed informando che i Signori Veneziani « dubitavano che le deliberazioni fatte non sussistessero » ; al che il Veneroso lo invitava a venire, a sue spese, in luogo vicino a Genova per accertarsi della verità della cosa, assicurandolo che per primo atto gli avrebbe presentati i decreti : il tutto gli faceva poi confermare anche dal Della Torre e da Gio. Giorgio Giustiniano. L’altro replicò tenendosi sempre sulle generali e insistendo sul dubbio prima accennato, senza tener conto delle ragioni in contrario portategli. Senonchè, in foglio a parte e non firmato, diretto al parente Gio. Giorgio, aggiungeva che al Governo veneto il soccorso sembrava troppo esiguo e che Genova avrebbe dovuto almeno addossarsene tutta la spesa., consigliando a mandare qualcuno a negoziare in Venezia o a darne a lui stesso il mandato. La risposta stupì e sdegnò non poco. Il M.co Raffaele Della Torre gli scrisse allora una lettera assai vivace, meravigliandosi che egli avesse presentato uno scritto senza certezza che dovesse essere osservato ; che si fosse valso di « sotterfugi e di artifìci », mentre si trattava di concedere un valido soccorso in un momento in cui nessun altro Principe nulla aveva promesso, nè sarebbe stato in grado di fornire altrettanto. Le galee erano sì a carico di Venezia, ma le sarebbero costate meno del terzo della spesa consueta. Molto strano gli sembrava poi che si parlasse di mandare a trattare in Venezia, laddove non pareva cosa da poco che si offrisse senza esserne pregati. Evidentemente il Giustiniano si era spinto molto innanzi nella pratica, non certo però senza un incarico positivo, ed ora si sentiva venir meno l’impegno. Egli rimase molto male della lettera del RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E G70. BERNARDO VENER0S,0 263 Della Torre, a cui non rispose ; se ne lagnò invece col Veneroso dicendo che « non poteva far di più di quello volevano li Padroni » ed esortandolo ancora a tener viva la pratica. Il Veneroso da canto suo aveva interpretato questo inesplicabile procedere in due modi : o che fosse mancato momentaneamente il denaro per tener fronte al pagamento secondo le capitolazioni formulate in Genova dalla Giunta di marina ; o che qualche speranza di pace avesse indotto quei Signori a sospendere il negoziato. Tutti poi si erano meravigliati che i Veneziani desiderassero soccorsi e volessero esserne pregati, e che « con artifici e senza dar cosa alcuna eccetto un titolo » volessero impegnare la Repubblica a spesa così ingente. I Ser.mi Collegi, informati della cosa, diedero ordine al M.co Gio. Bernardo di non più occuparsi di detta pratica, e così rimase da sè interrotto il negoziato. La diffidenza di Venezia anche questa volta non era mancata, anche se non fu runica e preponderante ragione del mancato accordo, mentre è fuor di dubbio che le deliberazioni dei Collegi genovesi sussistessero e che fossero state prese in perfetta coscienza e buona fede. Tuttavia poteva veramente Venezia essere del tutto sicura che nessuna difficoltà sarebbe sorta in Genova contro i decreti già fatti? Autorizzerebbe a rispondere negativamente la notizia che due mesi dopo le deliberazioni in parola, queste venivano impugnate dal Magistrato dei Supremi Sindicatori. Si rilevava che, per quanto si fosse stabilito di sopperire alla spesa con le entrate ordinarie della Camera e con gli avanzi che si ritenevano disponibili, poiché effettivamente non c’era al momento denaro pronto, nè si poteva prevedere, per varie contingenze, quando fosse stato possibile accumularlo, si sarebbe dovuto sottoporre un tale negozio alle decisioni dei Consigli ; senza contare che la legge del 1528 non consentiva ai Collegi di deliberare spese straordinarie superiori alle sei mila lire. La difficoltà non sarebbe stata probabilmente insuperabile; essa veniva ad ogni modo affacciata soltanto il 26 gennaio 1652, quando l’affare era completamente svanito. 13. - Non si creda però che i tentativi per condurre ad una conclusione la pratica da noi esaminata fossero abbandonati. Si sa che lo stesso Giustiniano ed altri ancora continuarono a scrivere do Venezia a privati genovesi per indurre la Repubblica ad operare qualche cosa a vantaggio della causa comune. Da Roma, poi, il residente Lazzaro Maria Poria, in varie lettere dal dicembre 1651 al marzo 1652 informava delle dimostrazioni di cortesia da lui ripetutamente ricevute dall’ambasciatore veneto. 264 ONORATO PASTINE Nel dispaccio del 2 marzo (l) riferiva che quel ministro gli aveva parlato con lode del libro del Yeneroso, richiedendolo del come si era svolta la recente pratica delParmamento da. lui progettato. Secondo le istruzioni avute, il residente si era- mostrato poco a conoscenza della cosa, e l’altro, meravigliandosi che il M.co Raffaele x Giustiniano « si fosse avanzato tant’oltre senz’ordine del Prencipe », concludeva « o che egli fosse stato temerario, e che meritasse castigo, o che la Repubblica veneta havesse maggiori motivi di non comprobar il trattato, che a sua cognitione non fossero palesi ». Aggiungeva inoltre che avrebbe egli stesso fatto « maggiore apertura di negotio », se della cosa se ne fosse avuto gradimento ; al che il Genovese dichiarava di non aver alcuna facoltà dai suoi Padroni per entrare in merito a tale questione. Pochi giorni dopo, il 14 marzo 1652, l’ambasciatore veneto che si recava in Ispagna, essendo di passaggio da Genova, aveva mandato a chiamare il M.co Gio. Bernardo Veneroso e gli aveva parlato del suo negoziato, pregandolo di volerlo « in qualche modo assicurare delle pubbliche deliberazioni » al riguardo, e professando ancora « Pottima dispositione e volontà di unione » della sua Repubblica. Il Veneroso ne riferiva per istruzioni ai Ser.mi Collegi, i quali, certo alquanto irritati della persistente diffidenza, gli ordinavano di scusarsi con l’ambasciatore per non poter nulla rappresentare al suo Governo non avendone più alcuna apertura, e di fargli presente che del resto non sarebbero mancati alla sua Repubblica e a lui « modi proportionati di far penetrar ogni loro sentimento a lor Signorie Ser.me in queste materie ». Nè si accontentarono di questo i Collegi, chè deliberarono pure di far « correggere » il detto M.co Veneroso, in quanto non aveva osservato gli ordini ricevuti, rinnovandogli nello stesso tempo Pin-timazione « a non parlare più in questo negotio nè direttamente nè indirettamente ». Ma il nostro gentiluomo era troppo smanioso di operare, troppo fervente nella convinzione che fosse doveroso e conveniente soccorrere la Repubblica di S. Marco e stringere con essa una stretta amicizia, per desistere da ulteriori tentativi e rimanere ossequente ai comandamenti ricevuti. Così, quando nel settembre del 1653 Mons. di Plessis inviato da Luigi XIV quale gentiluomo a tutti i Principi italiani, capitò a Genova di ritorno da Venezia con il mandato di favorire e procurare l’accordo fra le due Repubbliche, il primo che prese con lui contatto fu appunto il M.co Veneroso, che si affrettava a ragguar-gliarne Sua Serenità. 0) A. S. G., Lettere Ministri, Roma, 19/2360. RAPPORTI FRA GENOVA E VENEZIA E GIO. BERNARDO VENEROSO 265 Nulla ottenne l’inviato del Re Cristianissimo dai Ser.mi Signori, che non volevano saperne di simili intermediari ; e quanto al Vene-roso, di nuovo veniva egli chiamato dai Collegi a render conto della trasgressione della legge che vietava, di far visita a ministri forestieri senza prenderne prima licenza. 14. - Il M.co Gio. Bernardo, a quanto risulta, non ebbe più la possibilità di pensare ad altri armamenti da condurre personalmente ai servigi di Venezia. Rimase però sempre un deciso fautore di una politica· favorevole all’intesa con quella Repubblica e tali idee caldamente sostenne in ogni circostanza nei Consigli, come, ad esempio, durante la ripresa delle trattative nel 1660, in occasione della mediazione del Mazzarino. Il suo argomentare era chiaro ed efficace ; egli sapeva toccare tutti i punti della questione, valutarne tutti gli aspetti. Il servizio di Dio, la difesa della religione e della Cristianità, la riputazione e la gloria^ della sua patria, il dovere verso gli amici, le necessità della politica estera, tytto aveva e faceva presente; nè dimenticava le convenienze materiali e i vari interessi economici, mentre egli stesso si dichiarava pronto « con por mano alla borsa di dover servire » i1). Ma piace soprattutto in lui l’aver saputo associare la fede viva e fermissima nei destini della sua piccola patria al fervore con cui sosteneva la necessità e la bellezza dell’unione con quella Repubblica, « che liavendo professato sempre (e con ragione) di essere l’Asilo de’ Pontefici, il rifugio de’ travagliati, il sollievo de gli oppressi, l’argine dell’Italia, e l’Antemurale della Christianità. Bastione, e riparo della Chiesa Santa ; hà saputo ancora, saggia del pari, e generosa, esporre ne’ secoli andati in favor vostro — diceva ai suoi compatrioti — e di molt’altri le forze, i tesori, non solo contro de’ Turchi, mà contra di quelli altresì, che ambitiosi han dato segno di volere sopra le ruine de gl’inferiori fabbricare à se stessi superiore ad ogn’altro l’impero » (2). Piace soprattutto in lui — come in altri suoi contemporanei — l’aver saputo fondere lo spirito regionalistico, pur sempre vivissimo in un uomo del seicento (e purtroppo non soltanto di quel secolo), (!) A. S. G., Lettere Ministri, Francia, 12/21SS. Si veda La politica di Genova ecc.y cit., cap. IV, 3, 4. Il Veneroso fu in questi anni Commissario Generale dei galeoni da guerra che scortavano i convogli di mercanzia per Messina, Cadice e Lisbona. Trovo che di ritorno da uno di questi viaggi da Lisbona nel 1656, dovette difendersi contro la duplice accusa di non aver combattuto contro gli infedeli, essendosene presentata buona occasione, e di aver salutato con lo stendardo Tarmata inglese. Non posso soffermarmi sull’ampia sua difesa. Per la politica del Veneroso in Corsica si veda la nota a pag. 203. (2) Genio ligure risvegliato, cit., p. 34. 266 ONORATO PASTINE •con un senso più largo di vita politica e nazionale, con un orizzonte ideale più aperto, con un palpito più nobile ed elevato di sentimenti e di affetti. « Riguardate l’Italia — diceva ai Genovesi — riguardate l’Italia già Signora dell’Uhiverso, à piccol nome ridotta, et esposta alla rabbia dell’armi infedeli. Rivolgete gli occhi alla Chiesa Cattolica, che già per tutte le parti del Mondo si dilatava, et hora à pena in un angolo d’Europa ristretta, si mantiene malamente sicura. E scorgerete, che questo è il vero tempo d’armarsi à prò della Liguria, dell’Italia, e di Chiesa Santa » E ai suoi concittadini con ardore additava la generosa meta : l’armamento, a cui doveva « con tanta ragione infiammarsi » ; volendo mostrare loro quanto fosse facile « il rinovare le antiche armate », e come dovessero convincersi di questa grande verità : « che un Principato confidato ne’ soli eserciti] della pace, è un’aquila senza rostro e senz’artigli, et un Gigante senza braccia » (2). Onorato Pastine 0) Ibid., p. 13. (2) Ibid., pp. 1, 14, 32. / Gr. B. GASTALDI DEI MILLE La sera del 4 maggio 1860, sulla spiaggia della Foce, fuori Porta Pila di Genova, erano radunati circa 600 volontari garibaldini. « Era calma di mare ; risplendeva la luna ; tutto sembrava cullato da un’onda di arcana poesia, allorquando verso le 10 approdava alla spiaggia una lancia, ov’erano il generale Garibaldi ed il maggiore Ttirr ungherese. provenienti da Quarto. « Al remo c’erano tre miei colleghi, capitani di lungo corso : un certo Iziola, veneto, Mare e Profumo. « Alla vista delPEroe, con un palpito di amore, di fede, mi spinsi neH’àcqua vicino alla lancia; in quel momento Egli domandava: — V’è tra voi qualche capitano o marinaio? — Generale, ci sono io ! — risposi col fuoco della passione. — Chi siete? —* Il capitano Gastaldi. — Il fratello del banchiere? il capitano del « Saint-Cloud »?. — Precisamente ! » Così narra il capitano G. B. Gastaldi nei «Miei Ricordi», manoscritto tuttora inedito, gentilmente messo a mia disposizione da un amico, dal quale manoscritto spigolo queste notizie. E Garibaldi, proseguendo, impartisce al Gastaldi, sua antica conoscenza, alcuni ordini relativi al trasporto dei volontari verso il fatale scoglio, donde poco dopo doveva salpare la spedizione dei Mille incontro al suo splendido e leggendario destino. Dove mai Garibaldi aveva conosciuto colui che doveva essere poi uno dei suoi piloti più arditi ed esperti? Ce lo narra lo stesso Gastaldi : « Il 9 maggio 1851 da Genova mi imbarcai in qualità di giovinetto su un brigantino· sardo, chiamato « Distruzione », capitanato da Giacomo Gazzolo, di Nervi. Si partì per S. Francisco di California ; e, proseguendo, per Callao (porto di Lima), quivi trovammo il gen. Giuseppe Garibaldi, che comandava una barca peruviana, la « Carmen », armata da De Negri, di Busalla ». Infatti il Generale, nelle sue Memorie Autobiografiche scrive: « A Lima trovammo il « S. Giorgio » ; io ebbi splendide accoglienze da quella ricca e generosa colonia italiana, specialmente dalle famiglie Sciutto, De Negri e Malagrida. Il sig. Pietro De Negri mi affidò il comando della « Carmen », barca di 400 tonnellate di portata, e mi preparai per un viaggio in Cina ». 268 DAVIDE BERTONE V’immaginate quale fu l’animo del diciottenne Gastaldi innanzi alla figura già famosa dell’Eroe ; il fascino che lo circondava coma· un nimbo di luce, specialmente dopo i gloriosi fa tti d’armi deir Italia settentrionale e l’eroica difesa di Roma fu tale che il Gastaldi si sentì irresistibilmente attratto verso di lui. E come poter resistere a quella attrazione magnetica? Sentiamolo : « La vista di Lui, con la sua camicia rossa, i capelli biondi alla nazzarena, mi svegliò il desiderio di seguirlo a Manilla, quindi ad Honli-Kong, ove egli era diretto ». Detto fatto ; il giovinotto sale senz’altro a bordo della « Carmen » e si presenta all’Eroe, pregandolo di accettarlo. Ma questi si schermisce ^garbatamente : non può lasciarlo disertare, perchè il capitano ai cui ordini è il Gastaldi, è un amico suo. Il Gastaldi deve quindi rassegnarsi. Viaggia così per nove anni gli immensi oceani, finché ritorna in Europa, nelPIrlanda e poi nel Belgio, dove apprende la notizia dei preparativi della spedizione garibaldina, della quale egli ormai fa idealmente parte. La spedizione si organizza quella sera stessa, e il Gastaldi conduce i volontari, secondo gli ordini del Duce, sulla spiaggia di Quarto. Là egli comincia a segnalarsi per un atto di bravura : salva dall’annegamento un volontario·, improvvisamento impazzito. Partiti i due vapori « Piemonte » e «Lombardo » col prezioso carico, la spedizione, come è noto, approda a Talamone. Armi, ci vogliono, tanto più perchè le diverse barche cariche di carabine svizzere, rivoltelle e capellozzi, hanno mancato alPappuntamento nelle acque di Portofìno, in contrasto con le precedenti intese. Tiirr ne trova subito e facilmente, ed, anche il Gastaldi, il quale si impadronisce della famosa « colubrina » di cui parla l’Abba nelle sue memorabili Noterelle. Ricordate? « Il colonnello Türr fu ieri ad Orbetello, e tornò con tre cannoni e una colubrina lunga come la fame ; roba che dev’essere dei tempi quando quel lembo di terra là si chiamava lo Stato dei Presìdi. Come faremo, tanto male armati, laggiù »? Ma con le armi ci vuole anche il carbone per le macchine. E allora Garibaldi chiama il Gastaldi, mentre la piccola fiotta era approdata a S. Stefano, e gli indica un magazzino; il carbone è là. Al Gastaldi basta l’ordine e il prezioso combustibile della flotta sarda è, poco dopo, caricato a bordo dei vapori ribelli. Ma, mentre il Gastaldi sta per risalire a bordo del « Piemonte », gli si presenta un bersagliere sardo, disertato dalla compagnia di Orbetello, pregandolo caldamente di prenderlo con sè. Non si può. Garibaldi non vuole compromettere di più il capitano del luogo. Ma. il bersagliere supplica piangendo ; e allora il Gastaldi, impietosito,. G. B. GASTALDI DEI MILLE 269 gli fa buttar via il cappotto e la daga ; gli fa indossare una giacca qualsiasi, un berretto garibaldino e così travestito lo nasconde nella bassa prua del piroscafo. Questo disertore era Francesco Bidescliini, in seguito divenuto cognato di Menotti Garibaldi, fratello di quel Romano, persona assai nota ai miei concittadini, che lo conobbero qui circa trentanni fa, quando, divenuto pubblico funzionario, era addetto alla Tesoreria Provinciale di Imperia. Salpata Peroica flotta da S. Stefano per Pisola Marettimo, nel gruppo delle Egadi, il Generale prima del giunger della notte ordina a Gastaldi di informare col portavoce Nino Bixio, che è al comando del « Lombardo », di tenersi poco discosto dal « Piemonte » ; nessuno deve aver fanali ; unico segno di riconoscimento la squilla della campana. La flotta corre così nella notte verso la mèta fatale, ma il « Piemonte », più veloce del confratello, perde di vista il ((Lombardo». Intanto al Gastaldi a mezzanotte si ordina di succedere nel comando al capitano Castiglia : ; Gastaldi esita.... Perchè? Manca il « Lombardo » ! Sveglia egli allora il Generale dal suo riposo; lo interpella. Garibaldi, contrariatissimo per Paccaduto, ordina di fermare. Ma il « Lombardo » non si scorge. Che fare? Non c’è da esitare ; bisogna issare il fanale all’asta della bandiera. Bixio, che, viceversa, non si era smarrito, alla vista del fanale, ritiene di essere a tiro di un borbonico. Momento di raccoglimento, al quale segue rapida la decisione. Fa armare i suoi volontari, pronti alParrembaggio. Ma il Generale, con la sua leggendaria penetrazione, comprende presto di che si tratta ; ordina subito di togliere il fa-nale, e fa suonar la campana. Alla buon’ora! tutto è accomodato, e si riprende la rotta, ma con forte mutamento. Questo episodio, sull’autenticità del quale il Gastaldi cita la testimonianza del macchinista del « Lombardo », Giovanni Rinao, di Livorno, è anche raccontato dall’Abba, imbarcato col Bixio, un po’ diversamente, e là dove narra che a un dato punto è svegliato di soprassalto : « — Ma che c’è? _ Una nave viene a furia verso di noi ! — Borbonica? _ Ha già suonata la campana, e Bixio ha ordinato di non rispondere. a La nave veniva diretta sul nostro fianco, e il rumore delle sue ruote era concitato e rabbioso. Mi pare che il suo camino gettasse fiamme. Bixio, piantato sul castello, la investiva con gli occhi. Certo, si preparava a qualche tragedia; magari a far saltare in aria noi e la nave che ci era ormai quasi addosso. Confusione: non compresi 270 DAVIDE BERTONE bene quel che seguì ; solo intesi Bixio a gridare : Generale î E poi fu una grande allegria ». E al Gastaldi, in quella gloriosa traversata, dove si era provato il brivido del dramma, era riserbata un’altra avventura. II. L'indomani del giorno in cui a Porto S. Stefano i garibaldini avevano fatto quel po’ di provviste d’armi e di carbone che poterono, il capitano Gastaldi era di guardia sul « Piemonte », la nave di Garibaldi, accanto al timoniere. D’un tratto echeggia a bordo un grido : « Un uomo in mare! ». Ed ecco la seconda avventura che capita al Gastaldi, durante la quale l’arditissimo Capitano dà novella prova del suo altruismo e della sua intrepidezza. Se un uomo è caduto in acqua, o vi si è lanciato volontariamente, non è detto che egli debba perire. Il Gastaldi è pronto ad ogni ardimento. Ratto come il pensiero, si slancia nel canotto di dritta e senza poter intimare il « ferma ! » al macchinista, malgrado il pericolo dato dalla forte velocità del piroscafo, che « corre superbo, come avesse coscienza della fortuna e dell’uomo che porta », assieme ad altri due marinai, in un baleno lo cala in mare; quantunque sappia che da un momento all’altro può essere capovolto, col rischio quasi certo di perire assieme ai compagni ed al naufrago. Questo è già boccheggiante e galleggia sull’acqua come corpo morto ; ma il Gastaldi e i suoi uomini, superando con ansia febbrile la distanza, arrancano disperatamente e riescono a trarlo a bordo. Pare che si trattasse di un giovane lombardo, come scrive il Gastaldi ; e che fosse quello stesso che egli aveva salvato a Quarto, al momento dell’imbarco della eroica spedizione. Così almeno narra Giuseppe Cesare Abba nelle sue ’Noterelle famose, come ognuno ricorderà : « 10 maggio. Dall'alba fino ad ora fu un vero splendore. Si navigò che pareva di andare al trionfo tranquilli, con la pace del mare e col cielo che pareva nostro. Ma venne il momento dell’angoscia. Uno dei nostri si è gettato in mare. Si dice che sia lo stesso dell’altra volta. Quando il legno si fermò vedevamo lontana la testa del naufrago, e misuravamo spasimando la corsa della barca che volava a salvarlo. E vi riuscirono ». Raggiunto il piroscafo « Lombardo » al quale il naufrago apparteneva, i salvatori, risaliti sul « Piemonte », sono accolti da un’acclamazione di trionfo generale ; il primo a congratularsi col Gastaldi è naturarlemente Garibaldi, il quale lo addita aU’ammirazione dei volontari, in presenza dei colonnelli Türr, « magiara pianta di prodi », Sirtori, « decoro di Lombardia, saldo animo latino », e di Francesco Crispi, « siculo sangue in cuor gagliardo », come splendidamente cantò il Marradi nelle sue non meno famose Rapsodie Garibaldine. G. B. GASTALDI DEI MILLE 271 • A testimoniare del fatto e della lode che il Generale volle decretare al valoroso salvatore, vale la pena di citare l’Ordine del Giorno,, che il Generale stesso emanò a titolo d’onore del Gastaldi e de’ suoi compagni. Lo riproduco integralmente dalla serie degli Ordini del giorno che fanno parte dei documenti della spedizione dei Mille, che Palamenghi-Crispi, nipote dello statista, pubblicò nel 1912 nel volume I Mille (ed. Trevesj : N. 4. S. Stefano, 9 maggio 1860· ORDINE DEL GIORNO Ad un marino di cuore come il Capitano Gastaldi sembrerà facile l’operazione da lui eseguita di precipitarsi nel piccolo schifo, nel mare agitate e bollente dalla percussione delle ruote di un piroscafo, ed a lui, siccome ai coraggiosi suoi compagni Romolo Mori e Luigi An-dreotti, basterà la soddisfazione di coscienza d’aver salvato la vita di un compagno. Ma noi che abbiamo testimoniato il bel fatto, dobbiamo una parola di plauso ai valorosi che non contarono il pericolo,, ma sentirono bensì lo stimolo di una bella azione, e ci mostrarono in quel frangente, la sveltezza ed il coraggio che distinguono il marino-italiano. Che sia fatta menzione onorevole dei tre prodi marini, ed un cenno di gratitudine del Corpo intero dei Cacciatori delle Alpi per i primi che provarono in questo secondo glorioso periodo, ciò che saran capaci di fare questi campioni della Causa Italiana. Nel tributare a chi primo la meritò la lode dovuta al coraggio, io confido di aver presto a tributare al Corpo intero la lode dovuta alla disciplina che non meno del coraggio onora il soldato, e assicura il successo nelle grandi imprese. G. Garibaldi Intanto il naufrago è aspramente rimproverato dal Bixio, che poi si commuove e lo fa mettere in una cabina dove è custodito. Gli levano di dosso i panni frac-idi, lo vestono d’un tunica da ufficiale, e lo lasciano là dentro a fulminare cogli occhi attorno come un pazzo furioso, come racconta lo stesso Abba. Ora i due vapori ribelli, carichi della gloriosa ed intrepida spedizione, sacra per l’amore d’Italia ad un destino sicuro e splendido,, riprendono la rotta con maggiore alacrità ; non bisogna più arrestarsi. Ed ecco all’alba «la Sicilia! La Sicilia! Pareva qualche cosa di vaporoso laggiù nell’azzurro, tra mare e cielo, ma era l’isola santa! ». Ed il Gastaldi, più semplice dell’Abba, non artista, ma uomo d’arme, racconta : « Avvistata l’isola Marettimo, nel gruppo delle Egadi, si fece '272 DAVIDE BERTONE rotta per Marsala, dove trovammo (notizia avuta prima da una barca peschereccia), due navi da guerra inglesi, 1’« Argo » e 1’« Intrepido » ; e, di più, in crociera la flotta napoletana, composta di tre legni : il «Capri» e lo «Stromboli», a vapore, e la « Partenope »,· corvetta a vela ». È l’episodio che anche racconta l’Abba, là dove scrive : « Due navi corrono a vista dietro di noi ! » (sono evidentemente i due piroscafi borbonici accennati dal Gastaldi). « Si è messo un po’ di vento in poppa. Tutte le vele sono spiegate, i marinai lavorano che sembrano uccelli. Bixio comanda, obbedito a puntino. Ha gridato che chi sbaglia una manovra, lo farà impiccare all’albero di maestra. Voliamo ». Il momento drammatico è rivissuto dal Marradi, che, a distanza di tanti anni, ha davanti all’accesa fantasia la tagliente figura del Comandante del « Lombardo », che, sebbene commosso davanti alla méta raggiunta, riesce a dominarsi e a conservare l’energia del comando : .... Impetuoso ed acre Saettò Bixio gli ultimi comandi, Pallido in vista delle rive sacre. E il capitano Gastaldi prosegue : « La flottiglia essendo però a qualche miglio a levante di Marsala non potè impedirci l’entrata nel piccolo porto ; ma, venuta a portata di cannone, cominciò a far fuoco con granate a mitraglia ». Non importa! Garibaldi è ben sicuro oramai di sbarcare, sicché Bixio dal canto suo grida al canotto inglese proveniente da terra : « Dite a Genova che il Generale Garibaldi è sbarcato a Marsala oggi, all’una pomeridiana!». Applausi ed evviva dal piccolo legno. « Dietro ordine del Generale (continua il Gastaldi) io comandavo il secondo canotto, e conducevo sul molo il Colonnello Ttirr, con circa venti volontari; mentre il primo era comandato dal Capitano Andrea Rossi (di Diano Marina), e il terzo da Schiaffino » di Camogli, forte Come lo scoglio della sua riviera ; «. da Schiaffino, il valoroso che a Calatafimi con la bandiera in mano, onde incoraggiare i volontari, doveva essere colpito da piombo nemico. « Eseguito sul molo lo sbarco di tutti i volontari, sia del « Lombardo » che del « Piemonte », sotto la mitraglia e le granate del nemico, il Generale ordinò si marciasse in città allo scoperto, ed in piena balìa del nemico stesso. Giunti alla metà della spianata, una granata cadde a poca distanza dal Generale. Essa fu afferrata dal G. B. GASTALDI DEI MILLE 273 Capitano Stagnetti ; che dopo averle levata la spoletta, la presentò al Generale medesimo ». (Capitano Stagnetti, si può soggiungere, voi noù potevate essere più ardito e insiem più gentile ! Voi presentavate al Generale un ordigno di morte, reso da voi inoffensivo, con la stessa grazia con la quale forse in quel momento qualche ufficiale borbonico presentava i suoi leziosi omaggi alle Dame di Corte....). E qui il Capitano Gastaldi non può trattenersi dall’esclamàre : « Se scoppiava, la spedizione era finita ! Ma il Fato ci guidava, secondo i decreti, a sicura vittoria. Entrati in città PII maggio, si andò al telegrafo, dove Pentasuglia telegrafista, prese la direzione del servizio, ingannando i nemici, soprattutto a Trapani, con false notizie ». L’episodio è anche narrato dall’Abba nelle sue « Noterelle » : « Grazioso ! Ieri l’altro, appena sbarcati, alcuni dei nostri occuparono il telegrafo. L’ufficiale, fuggendo, aveva lasciato lì un foglio, nel quale era scritto : — Due vapori sardi sbarcano gente. — Era un dispaccio mandato al Comandante Militare di Trapani. E da Trapani appunto : — Quanti sono? Che cosa vogliono? — Allora i nostri : — Perdonate, mi sono ingannato : i legni sbarcano solfo. — Da Trapani secco, secco : — Imbecille ! — Poi un taglio de’ nostri al filo telegrafico e silenzio ». Riprende il Gastaldi : « Quindi ci dirigemmo alle prigioni, per aprire le porte ai con dannati politici, sepolti nelle borbonie mude, a Lui davanti, davanti al biondo Vindice, da molti secoli atteso ; e farle ben chiudere ai detenuti per reati comuni. Poco dopo il Generale uscì dalla città e si portò sul molo, per osservare se i pochi cannoni e le altre provviste erano sbarcate, ordinandoci di condurre il tutto in città. « Arrivati presso la fattoria da vino (inglese), dove si era lasciata in funzione di avamposti la compagnia dei carabinieri genovesi, comandata dal maggiore Mosto (quelli che l’Abba ricorda d’aver sentito sparare, immaginando un combattimento coi regi, che temeva sbarcati dalle navi), si videro alcune lancie regie, i cui marinai salivano sui due piroscafi «Lombardo» e ((Piemonte», per impadronirsene, ammainando le due bandiere sarde, che sventolavano a poppa. A tale vista il maggiore Mosto chiese al Generale: — Ci permettete di far fuoco su quei marinai? — Ma Egli rispose : — Conservate la polvere per tempi migliori; essi sono italiani come noi; ora non ci molestano; prendano pure il « Piemonte » (era il solo che restava, perchè il « Lombardo » era stato arenato da Bixio). « Il Generale prima di scendere sul molo, si era fatto da me con- DAVIDE BERTONE durre sullo stesso « Lombardo », ed aveva ordinato si aprissero i ro-binettì, per riempirlo di acqua. Infatti, il « Lombardo » rimase, ed il « Piemonte » fu condotto come trofeo a Napoli. Dopo di aver, con l’aiuto dei carabinieri genovesi, tratti i cannoni, si ritornò a passare la notte in città ». Ed il Capitano Gastaldi si accinge ad accompagnarci nella marcia del giorno successivo verso Salemi, con l’eroica spedizione, III. Ecco dunque, dopo la sosta notturna in Marsala, « la mattina seguente (12 maggio) si partì, diretti al campo ». Così continua il Capitano Gastaldi nei suoi « Ricordi ». Di lassù, come scrive l’Abba, i volontari vedevano nel porto di Marsala il « Lombardo » sempre al suo posto, mentre in alto mare le due navi napoletane del dì prima filavano di lunga, menandosi a rimorchio il « Piemonte ». « Bella consolazione!» esclama l’Abba nelle sue « Noter elle ». Passano intanto nella marcia i volontari più noti, che lo scrittore riconosce e addita ; e finalmente il Generale « sempre sorridente e con la buona novella in fronte, in camicia rossa, calzoni grigi, col cappello alla foggia ungherese, e al collo un fazzoletto di seta. Scoppia un applauso affettuoso». Musica e avanti! Del nemico, nessuna notizia. , Giunta al campo, la spedizione vi pernotta, ed il giorno dopo a sera giunge a Salemi. Qui trova padre fra Pantaleo, che, come è noto, lascia gli uffici divini per seguire la spedizione, non solo, ma per ingrossarla con le file dei « picciotti » armati del loro fucile da caccia, narra sempre il Gastaldi. Garibaldi entusiasma il popolo, e intanto (il 14), come primo atto politico dichiara di assumere la Dittatura in nome di « Italia e Vittorio Emanuele », coerente a quanto aveva detto in una lettera indirizzata il 15 marzo di quell’anno a Rosolino Pilo, che poco prima della nota sua partenza per la Sicilia aveva scritto da Genova, invitandolo a mettersi a capo di una spedizione nell’isola. Subito· nomina Crispi suo unico Segretario di Stato. Del nemico si incomincia ad avere notizie, ma confuse, contradditorie ; poi lo si sa distante solo nove miglia. Sul far del giorno partono alla volta di Calatafimi. È il 15 maggio ; là sanno oramai di trovare non meno di tremila regi, bene armati e provvisti di cannoni. « Arrivati vicino ad una posizione chiamata « Pianto dei Romani », aspro di sette cerchi, balzo di Dante come lo descrive il D’Annunzio nella « Notte di Caprera », fu avvertito essere colà il nemico. « Lasciata la nostra artiglieria (scrive il G. B. GASTALDI DEI MILLE 275 Gastaldi) comandata da Orsini (Vincenzo, della 2a compagnia), Garibaldi ordinò al maggiore Mosto di salire con la sua compagnia sul vicino monte, dal quale, si scorgeva di fronte il nucleo nemico. Noji avendo io carabina, e scorto ammalato sopra un carro un volontario della compagnia Mosto, certo Cervetto di Genova, poi tenente dell’armata, lo pregai di cedermi la sua carabina svizzera, al che egli gentilmente aderì. Allora mi unii alla compagnia Mosto, comandata in quel momento dal Generale. « Arrivato alla sommità del monte, scorsi due compagnie di cacciatori napoletani che si avanzavano nella vallata, e quindi verso di noi, facendo fuoco ed invitandoci al combattimento·; al quale fuoco il Generale non volle si rispondesse. Arrivati però quelli a mezzo tiro di carabina, ordinò la carica alla baionetta, ed Egli con noi venne contro quei regi, i quali retrocedendo, si ritirarono presso il nucleo nemico, aspettandoci di piè fermo. Noi, in numero di circa quaranta, col Generale alla testa, sostammo, aspettando che ci raggiungessero i nostri. Così fu ! « Dopo un fuoco di qualche ora, caricammo alla baionetta ed il nemico battè in ritirata, lasciando sul terreno morti e feriti, con due cannoni ». Infatti, anche il Crispi nel suo « Diario dei Mille » annota che, impegnata la battaglia all'una e mezza, « alle quattro la vittoria era nostra : sloggiato il nemico dalla collina « li Chiusi », posizione fortissima, presigli due cannoni, fattigli alquanti prigionieri. Le perdite del nemico valutansi fortissime : 36 morti, più di un centinaio di feriti ». Prosegue il Gastaldi : « Ricordo unitamente alPamico Capitano Andrea Rossi di Diano Marina, di aver trovato semivivo, con una palla in bocca, il nostro amico, capitano Elia di Ancona, che facemmo raccogliere da quattro « picciotti » ; e trasportatolo in una cascina, ordinammo al giovane quindicenne Galleano di San Pier d’A-rena, di correre in cerca di un po’ d’acqua, onde apprestare al ferito le prime necessarissime cure, che lo salvarono da certa morte. « Dopo ciò, mi imbattei nel Generale. Era solo e melanconico. Egli mi domandò commosso : — Gastaldi, sapete condurmi sul cadavere di Schiaffino? (marinaro da Lui tanto amato). — Sì, risposi. Lo trovammo caduto con la bandiera in mano, le braccia aperte. Proprio come un Eroe ! ». Era la bandiera di Valparaiso, quella che PAbba descrive nelle sue « Noterelle » ; con le parole trapunte a caratteri d’oro su uno dei lati, mentre su Γaltra trionfava PItalia, figurata in una donna au- 276 DAVIDE BERTONtt gusta, che, rotte le catene, sorge ritta su di un trofeo, cannoni, schioppi, tutt’oro e argento. Le parole dicevano : a Giuseppe Garibaldi gli Italiani residenti a Yalparaiso 1855 Essa fu vista mentre avveniva il supremo cozzo, passare da mano a- mano allo Schiaffino, fu vista agitata alcuni istanti di qua e di là, in una mischia stretta e terribile, e poi sparire. Anche il Crispi nel suo « Diario » parla di essa e del grave momento : « Le nostre perdite furono sensibili : quella che gravemente colpì il cuore del Generale fu la messa fuori combattimento di due dei suoi ufficiali, e la perdita della bandiera statagli regalata da italiani di Buenos Ayres (?). La bandiera tenevasi prima da Schiaffino, che cadde morto stringendola, poi dal figlio del Generale, stato ferito alla mano ». Si tratta di Menotti. E il Gastaldi mestamente annota : « A tal vista il Generale con accento commosso esclamò: — Povero Schiaffino! ti amavo come un figlio! —». Ciò detto, proseguì oltre, chiuso in un dolore profondo. Discese nello stradale e mi lasciò, ordinandomi di fare avanzare i carri provviste, per dare il rancio ai volontari. Ma la battaglia era vinta ! e immediatamente seguiva la ritirata dei regi verso Palermo. Garibaldi, sentite centuplicate le sue speranze nel finale trionfo dell’ardua impresa, gonfio il cuore di gioia, promulgava il dì dopo quel celebre ordine del giorno che comincia con le famose parole : « Soldati della Libertà Italiana, « Con compagni come Voi io posso tentare ogni cosa.... ». Davide Bertone VICENDE STORICHE DI TOIRANO DURANTE IL MEDIO-EVO Dalla cronaca del monastero di San Pietro in Varatella si possono trarre sicure notizie sulla organizzazione giurisdizionale del territorio di Toirano nell’alto medio-evo (*). Tale documento fu già per Paddietro ritenuto apocrifo, o per lo meno non attendibili sembrarono le fonti cui attinse chi attese alla sua compilazione : uno studio critico condotto recentemente ha però dato modo di ritenere fondate e giuste le notizie riportate (2). Particolare interesse riveste in questo documento la enumerazione delle donazioni fatte da Carlo Magno al Monastero Benedettino, donazioni che vanno ricollegate ad altre di epoca anteriore. È per altro di notevole importanza, ad esempio, la donazione fatta da Ludovico II ad Angelberga sua moglie il 25 maggio 869 di una corte regia denominata Palmata in All·inganno, corte che poi Ermengar-da, figlia dei precedenti, con successivo atto di donazione (30 novembre 890), assegna al monastero di S. Sisto in Piacenza. Il toponimo Palmata (3) è riscontrabile con la stessa formula (e ciò ne avvalora l’autenticità) sulla cronaca ed in seguito in molti documenti ri-ferentisi all’amministrazione episcopale in Toirano : è quindi certo che questa Corte che nei primi documenti ha la vaga denominazione « in all· Inganno » sia poi la stessa delle carte di data posteriore che ne fissano la ubicazione in Toirano (4). Sta di fatto che la storia del monastero di San Pietro in Varatella, come appunto risulta dalla cronaca, inizia con la giurisdizione Sovrana, da parte dei monaci, sulle terre circondanti il cenobio, giurisdizione ottenuta in forza della donazione Carolingia che poneva inoltre il monastero sotto la protezione del Vescovo di Albenga. Numerosi documenti, in parte editi dagli storici, comprovano la (!) Edita da G. Bossi nella sua Storia di Albenga (1870). (2) Vedi Nino Lamboglia, Topografia storica dell'Ingaunìa nell’antichità, in «Collana Storico Arch. della Liguria Occidentale», vol. II, n. 4, pagg. 63 e 102. Vedi inoltra la recensione a questo studio fatta da U. Formentini nel η. 1 del 1934 di questo Giornale. (3) Vedi Instrumenta Episcoporum Alhinganensium a cura dello scrivente. In molti documenti è citata la denominazione Palmata. (4) « .... a quinque milliaria per totum in circuitu usque in Toirano iuxta locum qui dicitur Palmata.... ». 278 GIOVANNI PESCE sovranità dei monaci (*), sovranità che perdurò, accresciuta da continue donazioni fino a quando, nel 1171, Lantero vescovo di Albenga, forse temendo che venisse meno l’autorità del monastero per i soprusi dei confinanti, sottomise alla mensa episcopale Toirano ed altri paesi circonvicini (2). La data del 1171, con l'altra posteriore del 1308 di soppressione totale del convento (3), segnano l’inizio della dominazione de jure dei vescovi Albenganesi in Toirano, dominazione che si estrinsecò con un completo sfruttamento agricolo del territorio col completamento delle opere intraprese dai monaci e coll’in-staurazione di un severo regime fiscale (4). Sorsero così numerosi sui due corsi d’acqua che bagnano il territorio, il Barescione ed il Varatella, i frantoi, i mulini e le cartiere, mentre fu potenziato al massimo il funzionamento degli opifici che già esistevano per opera dei Benedettini. I Vescovi, a mezzo di loro delegati e direttamente, sovrintesero all’attuazione di un completo programma feudale, concedendo enfiteusi, assegnando terreni, risco-tendo decime, valorizzando intere zone incolte colla costruzione di corsi d’acqua e coll’impianto di opifici in parte ancor oggi funzionanti, valendosi di quando in quando dell’autorità di Roma jjer proseguire indisturbati nella loro opera. Senonchè verso la fine del secolo XIV gravi sciagure colpivano la Chiesa. Morto Gregorio XI, il clero ed il popolo di Roma proposero Bartolomeo di Prignano che si fece eleggere col nome di Urbano VI, mentre poco dopo ottocardinali francesi, appoggiati da Giovanna regina di Napoli, gli contrapposero l’antipapa Clemente VII (°). Urbano VI dovette sostenere un’alacre lotta : detronizzò Giovanna ed in Nocera attese immediatamente alla elezione di nuovi cardinali die dovevano rimpiazzare quelli fatti imprigionare poco prima, ma venne assalito da Carlo re di Napoli e costretto alla fuga fu tratto in salvo dai Genovesi che si erano mossi in suo aiuto. Come ricompensa del servizio reso alla Chiesa, i Genovesi reclamavano la cessione di alcuni territori per loro indispensabili : il 17 dicembre 1385 (6) il Pontefice, coll’intervento di molti cardinali, rogando l'atto il notaro Corrado Mazzurro, vendeva alla Repubblica 0) Vedi P. Accame, Stona dell’Abbazia di S. Pietro in Varatella, Albenga, 1893. Sono qui editi documenti tratti dall’archivio comunale di Toirano, ora depositati all’Arch. di Stato di Torino. (2) Navone, Dell’Ingaunia, vol. I, pag. 227. (3) Accame, op. cit., pergamena XV. (4) Vedi gli Instrumenta citati. Vedi pure nell’archivio capitolare di Albenga i due codici in pergamena detti comunemente del Vescovo Marchese: contengono numerosi atti riferentisi all’amministrazione feudale in Toirano. (sì Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova. (6) Archivio di Stato di Genova, Busta Toirano, in « Notizie per il luogo di Toirano, particolarmente in riguardo della villa di Quarsi, raccolte dall’archivista Campi d’ordine dell’Eminentissima Gionta dei Confini ». VICENDE STORICHE DI TOIRANO DURANTE IL MEDIO-EVO 279 di Genova, per il prezzo di 60 mila fiorini, quanto possedeva in Liguria nelle diocesi di Albenga, di Noli e di Savona: in forza di questa vendita Genova veniva ad essere investita della piena sovranità sul borgo di Toirano e pertinenze: « .... Burgum seti oppidum Toirani cum villis Patarelli, Boissanis, Braiae, quae sunt Episcopatus Al-biganensis » (1). Cambiava dunque un’altra volta l’amministrazione giurisdizionale ed il vescovo Albenganese veniva senz’altro sospeso dalla sovranità dei luoghi ceduti. Il governo della Repubblica si affrettò, approfittando del fatto che già nel secolo XIII il comune di Albenga possedeva fondi nel territorio di Toirano (2) e gli uomini che li conducevano erano praticamente sotto la sovranità genovese, ad estendere a tutti i nuovi vassalli privilegi di libertà e di autonomia, e mentre dichiarava decaduti gli obblighi imposti dai vescovi Albenganesi, il 5 febbraio 1376 disponeva a che gli uomini di Toirano fossero liberi ed immuni da ogni servitù che in precedenza avessero contratto colla Curia Albenganese, restando per fermo che il pagamento delle tasse doveva essere d’ora innanzi fatto alla repubblica di Genova. Il comune accettò senz’altro e rese di pubblica ragione la soluzione presa (3). In seguito, in opposizione alla politica episcopale che aveva vietato al comune di costruire frantoi, mulini e forni, affinchè tutti gli abitanti fossero costretti a ricorrere al monopolio del feudatario, il 23 agosto 1446 Raffaele Adorno concedeva agli uomini di Toirano la facoltà di costruire liberamente « furnos, molendina et alia hedificia per eorum voluntatem » (4,). Il vescovo di Albenga però, come effettivo proprietario di fondi, case ed opifici nel territorio del comune (e di questa sua legittima proprietà vantava i diritti esibendo, se richiesto, gli atti che comprovavano gli acquisti fatti dai suoi predecessori) (5), cercava con ogni mezzo di ostacolare le nuove acquisi - (1) Archivio e doc. citati. (2) Instrumenta citati, doc. η. X, XI, XII, XIII e XIV. G. Pesce, Un episodio delle lotte tra· il Vescovo e il Comune di Albenga nel Sec. XIII, in «Boll. R. Deputazione di St. Patria per la Liguria», Sez. In-gauna e Intemelia, anno II, n. 1, pagg. 102-108. (a) Arch. di Stato di Genova, Busta Toirano : prg. del sec. XV : Relatio spectabilium juris utriusque doctorum dominorum Frandsci Sophie et J oh annis Pii de Marinis sapientum communis présent and a Ill.mo ducali in Jarnia domino gubernatori et Magnificis dominis antianis civitatis Januae. (4) Àrcli. e doc. citati. (5) Instrumenta citati : vi figurano numerosi atti di acquisto fondi da abitanti di Toirano. Particolarmente interessante il doc. n. 8 per il quale Salvo di Toirano cede a Lanfranco vescovo di Albenga un torracco, sive umim pedem turris situato in Toirano. Il toponimo torracco è odiernamente conservato e porta questa denominazione una località dell’abitato in cui sono evidenti le opere di fortificazione, trovandosi in prossimità delle vecchie mura di cinta che dànno sul Varatella. 280 GIOVANNI PESCE zioni del comune protestando energicamente presso il governo genovese. I monaci Certosini, subentrati nel 1315 nel convento di S. Pietro in Varatella dopo la soppressione del monastero avvenuta nel 1308 (*), vantavano diritti su alcune terre già sotto la giurisdizione benedettina, i DOria, feudatari di Loano, in forza dell’investitura avuta nel 1263 dai vescovi di Albenga (2), del luogo di Loano, valendosi anche di giuramento di fedeltà prestato da alcuni abitanti di Toirano il 24 gennaio 1263 ad Oberto D’Oria, vantavano diritti sul territorio toiranese. Per questo il governo della Repubblica prometteva agli uomini di Toirano di eleggere propri rappresentanti, che potessero liberamente venire a capo delle contrastanti aspirazioni dei feudatari decaduti. Il 25 dicembre 1474 vennero eletti Antonio Rainerio, Giacomo Bava ed Antonio Mainerio ed il documento che pubblico, finora inedito, si riferisce alla loro elezione (3). (!) Accame, op. cit., doc. XVII, vi sono contenute convenzioni tra i monaci benedettini e quelli certosini nei riguardi del monastero di S. Pietro in Varatella. (2) Instrumenta, citati doc. LXIII-LXIX. (·') Archivio di Stato di Genova, Busta Toirano. 25 dicembre 1474. Elezione fatta dagli uomini ed università del comune di Toirano per loro sindaci, nelle persone di Antonio Rainerio, Giacomo Bava ed Antonio Mainerio. « In nomine Domini Amen. Convocatis et simul et semel cohadunatis hominibus comunis et Universitatis toirani in publico et generali parlamento sono cogie et voce preconis congregato et cohadunato in cimiterio eclexie sancti Martini dicti loci Toyrani prò ut moris est de mandato egregiorum domino-rum virorum Johannis Mainerii quondam guillelmi et Baxilii Viglerei quondam Simonis consulum et locotenentium Egregii domini frederici scortie ,de Vultabio honorabilis potestatis toyrani petre et iustenicis. In quo quidem parlamento interfuerunt ultra duas partes hominum dicti loci Toyrani nomina quorum inferius describuntur. Ipsi enim homines sic simul et semel congregati ed cohadunati ut supra omni modo iure via et forma quibus melius potuerunt et possunt unaminiter et concorditer nemine discrepante eorum propriis nominibus et nomine et vice tocius universitatis predicte auctoritate decreto et voluntate. Egregiorum prefactorum dominorum consulum auctorisan-cium de voluntate et consensu dictorum hominum presencium et consencen-tium fecerunt constituerunt ordinaverunt et elligerunt et loco eorum et tocius dicte universitatis posuerunt suos certos nuncios sindicos et procuratores actores et legitimos responsales pro ut melius de i ure fieri possunt et potuerunt magistrum antonium Reinerium notarium iacobum Bauam et Antonium mair nerium quondam Iohannis q. Bernardi de dicto loco Toirani. Et quemlibet eorum principaliter et in solidum ita quod melior occupantis incipientis aut mediantis condicio non existât sed quod unus eorum vel duo aut omnes tres inceperint duo eorum vel unus solus mediare valeat et finire etiam reasu-mendo quotiens hoc fieri contingerit presens et présentes mandatum in se sponte suscipientes. Et generaliter ad omnes et singulas littes questiones civiles et criminales dicte universitatis quas dicti homines constituentes habent ad presens et in futurum habere contingerint tam in agendo quam in deffen-dendo quacumque ratione occasione vel causa Iure vel modo et tam in agendo tam cum reverendo Domino Episcopo seu mense episcopalis albinganensis quam VICENDE STORICHE DI TOIRANO DURANTE IL MEDIO-EVO 281 Tale facoltà di farsi rappresentare spettava già ai Toiranesi ah antiquo e nelle lotte che essi dovettero sostenere prima coi mona- cum magnifico domino Corrado de Auria domino Lodani. Quacumque cum qua vix alia mondi persona communi collegio et universitate seu dominio in omni loco Janue, saone albingane et alubi nec non comparendo tociens quociens opus fuerit coram illustri et excelso domino domino ducali gubernatore et eius venerando dominorum antianorum consilio nec non coram offitiis sancti Georgi in componendo transiciendo et pacisciendo obligando et acquirendo et in causa et causis concludendum et ad compromissum tam generalem quam specialem faciendum, et ad libellum et libellos dandum et recipiendo de calumnia iu-randum in animam dictorum constituentium posicionibus respondendum, sen-tenciam audiendum opponendum appellandum et prosequendum et omnes actus iudiciarios faciendum et demum generaliter ad omnia alia et singula faciendum procurandum et administrandum in praedictis et quolibet predictorum et ab eisdem dependentibus et coniunctis que dicta universitas si presens esset facere posset, ac eciam ad substituendum unum et plures sindicos actores et procuratores cum omni bailia eis data ut supra et infra scripta. Dantes et concedentes dictis suis sindicis et procuratoribus et substituendis ab eis in dictis et quolibet predictorum plenum liberum generale ac speciale mandatum cum plena libera ac generali administracione eciam in causibus quibus de jure requiritur speciale mandatum. Promittentes predicti constituentes milii notario infrascripto presenti et stipulanti nomine et vice omnium et singulorum cuius vel quorum interest vel intererit vel in posterum poterit interesse firmum raptum atque gratum perpetuo habere et tenere omnia et singula que per dictos suos sindicos, actores et procuratores fient et gerentur in praedictis vel circa et qualibet predictorum et in nullo contro facere vel venire aliqua ra-cione vel causa eciam si de iure possent sub pena dupli tocius in quo con-trafieret solemni stipulacione promissa tociens committendam et exigendam quociens in predictis foret contrafactum firmis semper ma nuentibus omnibus et singulis supradictis. Cum refecione omnium bonorum universitatis predictae et hominum dicti loci presencium et futurorum. Insuper volentes dictos suos sindicos procuratores et substituendos ab eo relevare ab omni lionere satis dandi versus me iam dictum notarium stipulantem et recipientem ut supra solempniter fideiusserunt et intercesserunt de iudicio et indicato solvendo cum omnibus suis clausolis sub penis et obligationis antedictis. Renunciantes iuri de principali prius conveniendo epistole divi Adriani nove constitutioni de fidei iussoribus rerum sic non gestarum doli mali et omni alii iuri et legum auxilio. Jubentes de predictis fieri publicum instrumentum per me notarium infrascriptum in laudem cuiuslibet sapientiae. Et nomina quorum supradi-ctorum sunt hec : Antonius Corsius, Petrus de guercio, Cristoforus de Guercio, Nicolaus de Lovosse, Petrus Bontempus, Petrus Villanus q. Ludovici, Antonius Bartolutius dictus Bolanus, Baptista Polla, Philippus Cavus, Georgius Rubeus, Antonius Rubeus q. Johannis. Antonius Boraus, Henricus Coxe, Manuel Viglercius, Andreas Niger, Marcus Boconus, Damianus Marabotus, Da-mianus Bocerius, Dominicus Mollis, Antonius Boconus, Georgius Collatus, Jacobinus Viglercius muràtor, Jacobus Polla, Stephanus Polla, Franciscus Vara, Petrus Durante q. Luciani Johanetus Viglanus et Gasparinus eius filius, Nicolaus Rubeus, Obertus Rubeus, Johanues Rubeus q. Antonii, Jacobus Ferrarius, Petrus Ferrarius, Marchetus Mollis, Franciscus Coxus, Robertus Mollis q. Petri, Stephanus Rubeus, Johannes Viglanus q. Ludovici, Jacobus Mollis q. Oberti, Laurencius Mainerius q. Bartolomei, Antonius Mollis q. Johannis, Bartolomeus Mainerius, Basterius, Antonius Bortolucius q. Manueli, Joliannes Garaxinus q. Antonii, Obertus Viglianus q. Jacobi, Antonius Mainerius Cale-garius, Andreas Rubeus, Johauetinus* Mainerius q. Caroli, Franciscus Bomwia,. •282 GIOVANNI PESCE <*i e poi col vescovo di Albenga, troviamo spesso rappresentanti del comune investiti delle facoltà di tutelare i diritti della « Universitas he mimi 111 Toyrani ». Giovanni Pesce Antònius Durante, Johannes Mazafnrùus, Antonius Baronus, Bapta Vigler-eius q. Johannis, Johannes Viglercius q. Antonii, Petrus Rubeus, Petrus Durante q. Oberti, Johannes Sicherius, Authonìus Mainerius q. Johannis de Braida, Johannes Villanus, Henricus Delfinus, Jocobus Viglercius q. Petri, Antonius Viglercius q. Georgi. Conradus Boconus ferrarius, Anthonius Vara, Giretus Mollis. Petrus Mainerius, Lazarinus Mainerius, Stefanus Vilanus, Jacobus Bonaria, Johannes Bocunus, Antonius Bocerius, Bonifacius Durante, Berto* nus Durante. Bertonus Berutus, Ambroxius Viglercius q. Bernardi, Simon Bogliorius, Lucas de Guercio. Jacobus Durante ferrarius, Guilelmus Raine· rius calegarius, Jacobus Berutus, q. Simonis, Henricus Jordanus, Manuel Mainerius, Guilelmus Viglanus, Bernardus Gandulfus, Jacobus Bonavia q. Johannis., Johannes Scoferius, Petrus Mollis q. Bartholomei, Anthonius \ iglanus crovotus, Mainerius de Maineriis, Bernardus Mollis, llenricus Boconus, Ga-leotus Berrutus et Jacobus Berutus, Petrus Polla, Georgius Ferrarius, Petrus Graxius, Petrus Arimondus, Bartolomeus Arimondus, Bartolomeus Vi-/glercius dictus culia, Obertus Durante, Baptista Viglercius q. Damiani, Johannes Viglanus iilius Toyrani, Cristoforus Boconus, Lucas Graxius, Petrus Bonavia, Seraphinus Mollis, Bartholomeus Vigliercius q. Petri procurator Communis Toyrani. Et Ginifors Viglanus Nuncius publicus predicte universitatis dicti loci tohoyrani. Actum Toirani in cimiterio ecclesie Sancti Martini anno nativitatis domini millesimo quatricentesimo septuagesimo quarto. Indicione septima, die vigesima quinta septembris. Testes magister Od inus de Amgerino q. Bogerini, Manuel Brexanus q. Melchionis, Bognascliinus Myso q. Gabrielis, omnes de Bagnasco muratores ad hoc vocatis et rogatis. Et ego Johannes de Guercio q. domini Berthoni «le Toyrano Imperiali auctoritate notarius praedictis omnibus interfui et rogatus scripsi praedictum instrumentum siguumque mei tabellionatus apposui consuet uni. + constat adictione posita in nona linea post verbum principaliter, nou vicio factum sed erroris causa. IACOPO RUFFINI (Genova 1833) Alice Galimberti, pochi mesi prima della sua morte, ci inviò le seguenti pagine de I discepoli di Hartiet Eleonor Hamilton Kingda lei tradotte e già rese note, esprimendoci il desiderio che venissero ripubblicate sul Giornale Storico. Allora non potemmo aderire al suo desiderio; oggi che si celebrano i grandi liguri, intendiamo, ripubblicando queste pagine, di onorare insieme a Jacopo Ruffini, anche la memoria della Galimberti, figura purissima di madre, di studiosa, di pensatrice e di scrittrice. Parla, in carcere, il primo martire della via crucis mazziniana, lamentando il perduto sogno di far insorgere, dalla Superba, l’Italia intera. Siam traditi e perduti; ed io costretto nella torre di Genova, in quest’ora ch’esser dovea di stormo : « Sorgi, destati, Giovine Italia! Ê giunta l’ora! I cieli splendono all’alba !» Vano sogno, vano! le tenebre ricoprono la terra, l’ombra di mezza notte si raccoglie di nuovo, e tutto dorme. È morte pronunciare il solo nome d’Italia; ma morire è poco: a loro, i giovani, i derelitti. Iddio commise, per mezzo di Colui che ispirò prima, sano recar, tra sangue e morte e fuoco, ben che fallir possa la carne, e i cuori spezzarsi e sanguinare, il sacro seme, la Nuova Italia, Sua non nata infante, per selvagge, deserte e perigliose vie, 1 usi no al d i del ,suo riscatto. E ancora un’altra, più sacra vita, tiene in custodia il prigioniero: la vita stessa del Maestro, che una imprudente sua rivelazione potrebbe distruggere : Ancor la tengo, mio è il segreto, ma sino a quando? Ogni ora vien minando, lenta, l’eburnea torre del pensiero. O Italia, non sarà che tu risorga s’or ti fallisca la primizia; ed io fallisco.... 284 ALICE GALIMBERTI Le gocce d’atropina, sottilmente commistegli alle bevande, gli allentano i freni del volere, gli addormentano, con le più nobili energie, il senso della pena spirituale, nel momentaneo benessere. Oggi convien ch’io muoia, perchè tanto non viva ch’io lo vegga, perdonando, mirar me, traditore. Meglio eleggo incontrar del mio Giudice divino il volto. Non forse la bandiera di Dio innalzavano contro le spade dei re e la maledizione dei sacerdoti, sacrificando ogni gioia terrena? Ora gli bisogna sacrificare, per salvar la fede dell’amico, la stessa sua fede in Dio. Non altro posso più, se non morire per te, che tanto amai. È il non tradirti l’unica mèta? Quanto io dono, prendi e tieni sacro, quale inviato pegno del nostro eterno, spirtal sacramento, ch’io per te muoia, viver non potendo. Darti più non potei, meno non posso che — sterile sia pur — la vita intera. O Giuseppe, sarà questo il suo fiore che primo m’immolai ! Anima alcuna al termin buio non m’attenderà nè di quest’ora avrà la preminenza. E vanto mio sarà per tutti i giorni allor che ciò ch’è debito fia detto di te, che il nome mio pronunceranno col tuo, dicendo: « Ei l’ebbe caro...... « Più che il mondo tutto l’ebbe caro in gioventù » aggiungeranno : e sarà questa la corona del martire, che nell’olocausto stesso trova la sua dolcezza e solo teme il dolore, non lo sdegno dell’amico. L’ama ugual Iddio? Egli ne dubita, perchè le sue preghiere furon vane ; ma sa che una sola porta gli rimane per giungere a lui, se non vuole che il veleno nemico gli defiori l’anima come gli ottenebra l’intelletto. .... si che il sangue stesso si converta a farsi traditore, entro, del cuore. Non forse Dio, comanda nei libri santi? Se l’occhio destro t’offende, l’acceca, se t’offende la man, e tu la taglia : e se la vita stessa, sii tu certo ch’essa ti chiede Iddio. Disciogli e caccia la maculata veste, checché segua. Non io del tutto il disperar conosco sin che vita mi resta a sacrificio : l’accetta, Iddio, a prezzo della sua. IACOPO RUFFINI 285 Certo : la vita che il Signore ci commise quasi a pegno, nè per timore nè per pericolo o lusinga è lecito abbandonarla, sin che l’umana ragione ha la fede per usbergo ; ma contro questo subdolo involarsi della mente niun’arma rimane allo sciagurato, che la spada angelica per colpirsi. Quando non gli resta altra alternativa che uccidere, peccando, sè o l’amico, l’unica scelta per lui è di perire. Pure, le gocce fatali gli schiudono una diversa ben più ampia visione : i lontani secoli radiosi, col volto del Mazzini per loro astro, la vita di lui, comprata con la propria, trasmutata a luce delle Nazioni, ad Angelo del mondo ; e l’Italia incoronata china a’ suoi piedi lagrimando : O troppo tardi diletto, mi guarda placato: non più Madre a te, ma Figlia. E la Romana Repubblica gli tenderà la mano, quale a Sposo; e Genova, gloriosa del figlio, e tutti i volti eroici s’illumineranno, silenziosamente proclamandolo Primo; bionde donne regali si piegheranno su lui, ed i poeti attenderanno l’eco della sua voce: Ma allor, tra tutti i vaghi sguardi e gesti a te rivolti in ansia di risposta, serba un luogo, Giuseppe, nel tuo cuore santo, pel volto mio, or fatto bianco per te di morte, e memore del tuo pur fra le tenebre. Non t’ameranno più ch’io ora non faccia, ben che molti ove precedo m’abbiano a seguire. Non indarno avrà preceduto. Fra tutte le rinuncie che attendono l’Apostolo, di cui questa vita che ha tanto cara, è la prima ; fra tutte le sue pene ed angoscie — il dover immolare le persone più dilette, il vedersi tradito da7 più fidi, frainteso, combattuto — nell’ora stessa del dubbio che gli minaccerà l’anima, un Angelo vi sarà ad alitargli sulla fronte riarsa, a confortarlo, a sostenerlo da più alte sfere : e quest’angelo sarà lo spirito del suo primo martire, del suicida pel suo amore. T’attenderò —· t’adempierò i giorni sin che tu venga, con l’amor ch’estremo mi resta in terra, e inalzami sui flutti tenebrosi, rendendomi la morte bella per amor tuo : l’amore che primo mostrò all’Eletto la via vera del Padre, oscurato da preti e tirannie sino a celarsi al mondo. Non a Jacopo infelice verrà più tal luce in terra ; ma nei lunghi -anni che ancor dovranno intercedere prima che s’avveri la prefigurata vita d’Italia, dal mondo delle ombre egli s’unirà alle preghiere del-J’amato perchè la fede di lui non venga meno, nè per amarezza di 286 ALICE GALIMBERTI defezioni nè per stanchezza di lotta, sì ch’egli testimonii del pensiero eterno: Dio per ogni vita, e ΓUmanità progressiva interprete della sua Legge; sì che la gloria insieme intravista li riunisca di nuovo-nelFimmortalità. E poi l’amoroso pensiero si volge alla madre : Ah Madre mia, tanto bella, un figlio più degno aver dovevi, che con l’opra il nome tuo convertisse in astro, rendendo a te pur qualche ora perfetta. O prima, o estrema onde non so partirmi, nè or mi parto, dacché so che lunge dalle porte non sei del Paradiso. Per te, non altrimenti, seppi il cielo chè, quando bimbo sentivo de’ santi, per simiglianza a te li comprendevo; e ognuno avea il tuo volto e le tue mani, con la purezza tua chiamando al rito, nè sì tenero alcuno.... Ella, la madre, mantenne per tutti i trascorsi anni il morituro nella pazienza d’un amore divino, puro de’ suoi baci, fedele per le sue lacrime; ella, la dolente, che, abbandonata nelle braccia di Dio, seppe sopportar sorridendo le lente ore d’amarezza con la serenità d’un angelo sotto gli aspri colpi onde Iddio visita le anime più dilette; nè si richiedono tra loro addii, per così breve spazio saranno divisi. Ma ora O Giuseppe, vorrei tu fossi presso! A te io vo parlando, e non m'ascolti ! nè dal cielo il Signor mi manda aiuto. O amico ! amico ! di quest’agonia dirà qualcuno nei giorni avvenire? « Solo per la tremenda via deserta passò, non intendendo : intendiam noi : Dio celò il volto, ma il guidò per mano». Alice Galimberti . RASSEGNA BIBLIOGRAFICA A. Codignola, Rabattino. Licinio Cappelli, Bologna, in 8°, pagg. 5G0.. 1938. Quando fu resa pubblica la serie di celebrazioni dei grandi Liguri molti si sorpresero di trovarvi incluso il nome di Raffaele Ru-battino. Ne esultarono i marittimi : ma non è meraviglia se per il grosso pubblico delle presenti generazioni, la personalità complessa del fondatore e direttore della prima Società (li vapori, mai emersa a suo giusto valore, in vita e dopo morte, andasse svanendo nel ricordo. Ben pochi sapevano che da anni, nel silenzio del suo studio, in quella Casa di Mazzini, assurta a sacrario di quanto la Liguria ha dato di sè per il Risorgimento italiano, Arturo Codignola compulsava documenti, sfogliava i giornali dell’epoca, i verbali della Camera di Commercio, gli Atti dei Parlamenti subalpino· e nazionale, indagava e faceva indagare in Archivi, in Biblioteche, ovunque potesse esservi un’eco della vita di questo grande genovese il cui Archivio personale, disgrazia talmente è andato, per insipienza, quasi del tutto perduto. Tutti sanno con quale rigore di metodo ogni monografia di Codignola venga condotta e resa di dominio pubblico solo quando essa può dirsi definitiva, nulla restando inesplorato e non documentato;, per cui le note diventano palpitanti pagine di storia viva mentre il testo procede serrato con quella limpida prosa fatta di probità e di serenità di giudizio che sono i veri pregi dello storico. Dire che questa nobile fatica costituisca per la maggior parte degli italiani una rivelazione, non è esagerato. Da queste pagine balza un Rubattino nuova e in gran parte ignorato specialmente nel suo patriottismo perchè compiuto spesso nascostamente, nell’interesse della patria : tanto più meritoria la· sua condotta perchè* molte volte il suo patriottismo s’innalzava a problema di coscienza dinnanzi agli stessi interessi della sua Società. Nato nel 1810 a Genova, compì i suoi studi in quel Convitto Nazionale dov’erano anche i Ruffini e dove le idee liberali trovavano modo d’infiltrarsi. Di carattere mite, dolce, romantico, adoratore della natura, amava le lettere, le astrazioni filosofiche: nulla tradiva in lui possibili attitudini agli affari e al commercio paterno cui pii- 288 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA re dovette attendere dopo la morte del padre quand’egli aveva ven-t’anni. Nei due anni susseguenti perdette l’unica sorella e la madre. Nel periodo fatidico per la gioventù di Genova, tra il ’30 e il ’33, Kubattino subì il fascino dell'apostolato di Mazzini e oggi risulta che egli fu tra i primi affigliati alla Giovine Italia : al suo giuramento tenne fede in tutta la sua vita : operare per l’unità d’Italia e per la sua grandezza. A mantenerlo in questa atmosfera di passione, certo contribuì l’ambiente in cui visse. Dal giorno che la morte aveva distrutta la sua famiglia, entrò a far parte di quella di Lazzaro Re-bizzo, a lui maggiore di 16 anni intrinseco del padre e dello zio materno G. B. Gavino ai cui affari partecipava. Rebizzo e Gavino erano sorvegliati dalle polizie di Milano e di Genova e lo furono fin verso il *48. La Corriera Milano-Genova condotta dai due amici era un buon tramite per le corrispondenze clandestine e i viaggi a scopo cospira · torio. Per conto suo Rebizzo era un giramondo senza posa, i cui scopi la polizia non riesci mai a precisare. Mentre a Genova in sua casa, anche mercè l'intellettuale e dolcissimo fascino di sua moglie, Bianca Rebizzo, si era realizzato uno di quei salotti, ritrovo dei più eletti liberali, letterati, artisti, musicisti, filosofi, salotti che co stituivano succursali ben efficaci dei circoli settari, Rebizzo viag giando in Germania, in Olanda, Svizzera e Francia, e in tutte le città d’Italia, si faceva amico di molti patrioti sparsi pel mondo e avvicinava gli uomini più significativi in ogni centro a cui poi era largo d'ospitalità quando capitavano in Genova. Con tutta la prosopopea di poeta e letterato e di mecenate di musicisti e cantanti, questo spirito bizzarro partecipava alle imprese e vi versava largamente il suo patrimonio che finì per sommergersi. In quest’ambiente eccezionale si svolse la vita del giovane Rubat-tino, che entrato a partecipare con Gavino e Rebizzo nell’impresa della Corriera di Genova-Milano, creò, sempre con loro, la Compagnia lombarda di assicurazione e nel ’38 la prima Compagnia sarda di navigazione sostenuta da industriali e banchieri lombardi più che genovesi. Nel libro in esame la storia di questo primo audace tentativo procede fra luci di speranze e ombre di delusioni; ma il concetto fondamentale di sottrarre lo Stato sardo dalla servitù delle marine mercantili di Marsiglia, Napoli e Livorno per i suoi traffici, seppe dare a Rubattino il coraggio di superare crisi e difficoltà che avrebbero prostrato caratteri meno audaci, meno lungimiranti del suo. La stessa audacia ad affrontare gli ostacoli dinotava nel Capo e nell’ideatore oltre la fede in sè stesso e nella causa che trascendeva al di là degli interessi personali, qualità superiori di rettitudine e di sagacia tali da infondere questa fede nei Soci della Compagnia. Quando nel ’41 la Società arricchita di due navi poderose, il Polluce e il Castore, aveva certezza di raggiungere il primato sul 289 Mediterraneo, la concorrenza sarda parve così forte che la Compagnia napoletana vilmente mandò il Mongibello a speronare affondandolo il Polluce, togliendo così di mezzo un pericoloso rivale. Fu uno schianto per Iiubattino : fallì il tentativo di ricupero della nave in cui andò sommerso altro capitale, le condizioni finanziarie della Società andavano alla deriva; in una memorabile assemblea degli azionisti fu richiesto lo scioglimento della Società. Imperterrito Ru-battino ascoltò tutte le più ingiuste e crudeli invettive, tutte le accuse velate e palesi, sentì risorgere furente la lotta della marina a vela che s’ammantava superba della secolare sua gloria sui mari, e stando fuori dalla realtà incolpava Rubati ino di averla menomata coi suoi piroscafi. Cessata la canea, Rubattino, confortato dalla rigida sua coscienza, dai documenti di bilancio, dalla sua incrollabile fede nella missione della sua Società e nel suo avvenire, toccò la corda sensibile della marina genovese e dell’amor patrio. Un’ovazione accolse le sue parole e la fiducia venne ridata al fiero fondatore della Compania che potè nel ’44 trasformarla in Società per la navigazione dei battelli a vapore sul Mediterraneo. Marsiglia, Napoli, Palermo, Livorno costituivano già un’importante traffico, ma Rubattino guardava oltre ; alla Sardegna quasi isolata e senza commercio con ancora tutta l’armatura del regime feudale e alla Tunisia fecondata dalla mano d’opera italiana, memore dell’antica potenza marittima genovese e a tutti gli scali d’oriente su cui la bandiera crociata di S. Giorgio aveva avuto predominio ; chiedeva al Governo eque sovvenzioni, impegnandosi di attrezzare i suoi piroscafi in modo che in caso di guerra, i cui prodromi erano nell’aria, potessero aggregarsi alla marina da guerra come flotta ausiliaria. Il rifiuto e l’incomprensione del Governo ebbero le loro gravi conseguenze nel ’48-’49. Ancor dopo quegli anni, ripresa l’annosa proposta Rubattino scriveva a Bixio : « Voi non immaginate le pene ch’io m’ebbi per far intendere allora a Torino che al di qua dell’Appennino c’era il mare e che il Piemonte aveva su di esso interessi grandissimi a proteggere e sviluppare ». Solo coll’entrare di Cavour nell’arena parlamentare questi interessi vennero presi in considerazione. Il programma di Rubattino collimava colle sue idee ; e del carattere, della rettitudine e del patriottismo del genovese aveva alta stima ; ma occorse il prestigio del grande Uomo di stato, la sua tenacia la forza della sua mente lungimirante per vincere le ostilità che parrebbero incredibili se Codignola non le documentasse. Concessa la sovvenzione alla Compagnia Rubattino per la Sardegna nel 1851, la Società che si denominò Società dei vapori nazionali divenne la più forte del Piemonte colla conquista di essere inserita negli interessi dello Stato. Da allora Rubattino ebbe alleato potente il Conte di Cavour nei 290 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA suoi progetti espansivi di traffico marittimo a Tunisi e sulla sponda dell’Africa settentrionale. A questo punto ΓΑ. lia potuto ricostruire le varie tappe dell’infe-lice storia della Società Transatlantica ideata dalPindustriale Giovanni Pittaluga cui si erano associati Rubattino e i migliori rappresentanti di case bancarie, industriali e armatori di Genova. Ardita impresa che era fallita nei tentativi fatti da Inghilterra, Francia e Belgio malgrado le forti sovvenzioni governative. Cavour intravide subito la grande importanza politico-economica di stabilire linee dirette tra l’Italia e il sud-America e in seguito col nord-America e riuscì a far votare dal Parlamento un congruo sussidio annuo, contro gravosi impegni imposti alla Società di cui il Rubattino divenne direttore. Mentre Cavour battagliava contro il misoneismo e la miopia parlamentare, Vittorio Emanuele dava il suo appoggio al grandioso programma che partendo dalla nuova Società avrebbe dovuto ampliarsi così da superare il Lloyd Austriaco e portare la bandiera italiana al di là dell’Atlantico. Sogni ! In proporzione alla grandezza deirimpresa il sussidio governativo non bastava; sopraggiunse la guerra di Crimea, con susseguente crisi dei valori di Borsa e l’ingiunzione ai cantieri inglesi di lavorare per il governo impegnato alla guerra ; di qui necessità per la nuova Società di far entrare nell’amministrazione una Banca inglese, la Draper-Pietroni che già aveva potuto partecipare alla, sottoscrizione delle azioni. Fu questo un grande errore a cui energicamente si ribellò Cavour e rifiutò di portare alFaccettazione della Camera l’intromissione di una Banca estera che avrebbe avuto in sua balia una Compagnia nazionale. Con chiaroveggenza vide tutti i pericoli precisati in possibili speculazioni di aggiotaggio che arrivarono di fatto fino a tentativo di ricatto. Lunga storia di loschi intrighi in cui fu sorpresa la buona fede di Rubattino che oppose titanici sforzi per salvare la Società, nè valse il sostituire la Banca inglese col Credito mobiliare, il cui tracollo unito alle condizioni finanziarie del paese per premunirsi contro la possibile guerra dell’Austria determinarono lo sfacelo della Transatlantica e la liquidazione della Compagnia Rubattino, che però si ricostituì ancora nel ’59 riprendendo i precedenti traffici. L’A. in altro capitolo documenta l’azione patriottica del grande armatore genovese e qui il lettore trova delle vere rivelazioni. Nessuno pensò mai che Rubattino fosse stato cospiratore o favorisse la cospirazione. Quanta merce clandestina — intendi lettere, ordini, stampe, armi — andò di porto in porto coi suoi piroscafi, quanti cospiratori, quanti fuggenti la prigione o il capestro salirono di notte sulla tolda, mettendosi sicuri nelle sue mani per esser portati in salvo? Nessuno lo seppe, nessuno lo rivelò poi, nè mai vanto uscì dalle sue labbra. Tetragono nella fede giurata, non lasciò occasione per schierarsi tra i più schietti liberali specialmente nel periodo preparatorio 291 tra il ’47 e il ’48 entrando a far parte di quel Comitato dell’Ordine nelle cui file entrò, sotto l’egida di Giorgio Doria, tutto il fiore della gioventù di Genova, e tutta la matura saggezza pronte a dare il braccio o il prestigio della loro autorità a prò della patria, che s’avviava a nuovi destini : accanto a Mameli e Bixio i Daneri, Ricci, Pareto troviamo il nome di Rubattino, che ancora nel ’49, dopo Novara, frenando le esaltazioni dei rivoluzionari, si imporrà perchè nel Consiglio della Camera di Commercio, dov’egli era pars magna non prevalessero le idee reazionarie. E da Roma Mameli di lui si ricorderà nelle frequenti lettere a Bianca Rebizzo e sul suo « Lombardo », dopo la resa di Roma centinaia di combattenti saliranno, fuggendo all’arresto per cercare asilo altrove, e sarà a Rubattino che Guerrazzi chiederà il mezzo per fuggire dall’esilio di Corsica. Ma Codignola porta anche precisi e nuovi contributi alla partecipazione di Rubattino alle più importanti imprese rivoluzionarie per 1 Pnità d’Italia, da quella di Sapri a quella dei Mille e di Aspromonte, entrate nella storia col fascino di leggenda. Dopo il ’49 è Genova l’asilo più sicuro per il partito repubblicano. Sono esuli d’ogni parte d’Italia che l’armatore conosce e con molti ha legami d’amicizia. Pisacane freme di attuare l’audace spedizione che dovrebbe liberare la sua Napoli dal Borbone, e con lui Nicotera : Mazzini viene a Genova, nascostamente per tutto concretare : manca la nave, impossibile l’acquisto. Rubattino interpellato di rilasciare il Cagliari che è lì in porto al primo momento rifiuta ; i suoi precedenti politici non potevano metterlo a riparo delle gravi responsabilità di fronte alla Compagnia e al Governo. Ma, come dice l’A., l’ardore patrio, il disinteresse quasi colpevole, l’ardire generoso ebbero il sopravento sul freddo uomo d’affari, e il rapimento del Cagliari fu dal Comitato d’azione concertato in tutti i suoi particolari col Rubattino stesso, che sapeva quello che rischiava, ma la posta era tropo bella: l’avanzarsi dell’unità d’Italia. Tutto l’equipaggio era a giorno deH’impresa. Pagine di ansie, di dolore e di coraggio seguono passo a passo il fato degli eroi e del loro naviglio sequestrato in alto mare e prigioniero l'equipaggio. Rubattino si batte con tutte le forze per ottenere la sua nave e libero l’equipaggio volendo dimostrare che nè questo nè lui stesso fossero conniventi all’impresa, ma le prove schiaccianti e tutta la controversia penale e civile conclude per la connivenza di Rubattino. Cavour vigilava e di punto in bianco fatto sicuro che il sequestro era avvenuto in acque estraterritoriali portò la vertenza sul campo diplomatico in base al diritto internazionale e reclamò il Cagliari (dichiarato dal Tribunale delle prede, bnona preda per diritto di guerra e pirateria) e la liberazione dell’eqmpaggio. Cavour rese subito pubblica la vertenza diplomatica che doveva interessare anche gli altri Stati quale pericoloso precedente pei- la marina internazionale. Fu così che l’Inghilterra, che fra l’equipaggio del Cagliari ave.va due 292 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA marinai, si aggiunse alle proteste italiane associandosi alle minacele di ricorrere agli estremi, poiché Cavour era deciso a tutto pur di aver ragione della jattanza borbonica. Fu così che il Borbone, figurando di cedere all’Inghilterra, rilasciò il Cagliari e liberò l’equipaggio. Per Rubattino non fu storia finita perche la sentenza suddetta veniva a chiudergli i porti delle Due Sicilie, oltre a tutte le altre perdite e alle conseguenze verso la Società. A sfondare i porti del Regno borbonico ci penserà Garibaldi di lì a pochi anni, col Piemonte e il Lombardo anch’essi lasciati mpire da Rubattino. Codignola già in altra sede aveva confutata la tarda, postuma attribuzione del merito della cessione dei vapori al veneto Fauché allora temporariamente procuratore generale della Compagnia. Qui la confutazione si precisa così da venir messo fuori d’ogni dubbio che la cessione fu fatta dal granile armatore-patriota ; questa certezza viene a noi attraverso l’espressa gratitudine di Garibaldi, di Bixio. i due maggiori Condottieri, attraverso la fiducia di Re Vittorio che segretamente a mezzo del marchese Treccili spediva a Garibaldi in Sicilia delle somme affidandole a Rubattino con riservati documenti. Per non creare intralci al Governo occorreva che per tutti la spedizione dei Mille fosse una libera impresa di Garibaldi, per cui Rubattino non solo non figurasse connivente ma smentisse la sua cooperazione. Per irrisione della sorte il suo patriottismo dovette sempre nascondersi ; di qui l’esser rimasto sconosciuto e peggio misconosciuto, mentre egli fu incessantemente patriota, facendo delle sue navi armi incruente di cospirazione, all’amor di patria sommettendo spesso e per i suoi soci troppo spesso — i suoi interessi e quelli della Compagnia. Rubattino fu il navarca delle imprese garibaldine : a legger l’opera di Codignola si direbbe ch’egli tenesse sempre sotto vapore uno dei suoi piroscafi per aiutare i sogni di Garibaldi, dando gratuito passaggio da e per Caprera ai suoi Luogotenenti nella tentata organizzazione per la spedizione su Venezia e per Roma, interrotte dopo Sarnico e per quella d’Aspromonte. È sul Tortoli messo a sua disposizione da Rubattino che il Duce lascerà Caprera il 19 giugno 1802 per l’infausta impresa. E più ci si avanza nella lettura più emerge lo scopo principale che lo spingeva a dare incremento di nuove linee al commercio marittimo, riportare la bandiera tricolore con la croce di San Giorgio nel più lontano oriente ; vincere o competere colle maggiori marine, francese e inglese. Tunisi così nostra ancora, Tripoli, Alessandria dove gli italiani avevano una posizione di privilegio nel vicéreame, e, dopo aperto il Canale di Suez — avversato dagli Inglesi — il mar Rosso e l’india. Questo sogno superbo e audace di una ferrea volontà e di una mente lungimirante su che poggiava, se non sulla fede in sè stesso e nella / RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 293 santità della causa in cui era in giuoco l’avvenire d’Italia? In patria un misoneismo sconcertante per cui predominava l’opinione che la penetrazione commerciale dovesse essere attributo esclusivo dell’ini-ziativa privata ostacolava ogni iniziativa, e manteneva uno stato di miopia politica di fronte all’affannarsi di Francia e Inghilterra, ad insediarsi nel Mar Rosso, l’Inghilterra assicurandosi l’imbocco del Canale e lo sbocco di Bah El Mandeb dopo aver ottenuto, per la nostra inerzia, il predominio morale e economico sull’Egitto. Per i nostri interessi in India Rubattino trovava indispensabile per l'Italia di occupare un punto del Mar Rosso per deposito di carbone e rendersi così indipendenti da Aden. A questo punto l’A. illumina con pagine nuove e con la più dettagliata documentazione la parte avuta dal ligure padre lazzarista Giuseppe Sapeto nell’acquisto che la Compagnia Rubattino fece della Baia d’Assab. Fu questa la conclusione di una tenace propaganda del Sapeto in Italia per scuotere governo e poteri politici a persuadersi dell’importanza per- ii nostro paese di favorire la penetrazione commerciale in Abissinia e sulle coste del Mar Rosso di cui egli conosceva ogni regione. Con Sapeto tempestava Rubattino entrambi vedendo la lotta che si andava preparando nelle competizioni per il predominio europeo in quelle regioni ; vere voci clamanti nel deserto. Cavour era morto, Bixio era sfiduciato; solo la fede di Rubattino non crollava, la Baia d’Assab mercè Sapeto fu presa in affitto dalla Compagnia di Rubattino. Il Governo italiano pudicamente se ne stava nell’ombra e se ne stette per dieci anni lasciando che le due nazioni, rivali fra loro, ma in combutta contro di noi, facessero il loro gioco in Egitto e Abissinia. Assai) per dieci anni, malgrado la volontà di utilizzarla di Rubattino, restò un pegno morto nelle sue mani, finché nel 1879 fu trasformata in acquisto l’affittanza e nel 1882 il Governo si sostituì alla privata Compagnia di navigazione. Alla quarta sponda d’Italia Rubattino aveva pensato fin da l’inizio della sua Compagnia, e Tunisi egli segnava come ulteriore me^a quando chiese al Governo di sussidiare la linea dei suoi piroscafi per la Sardegna. Ebbe l’appoggio di Cavour e nel ’53 la Compagnia aveva a Tunisi una Agenzia fiorente. Tunisi era a metà italiana per la parte commerciale, e professionale, la nostra influenza soverchiante, la nostra emigrazione onesta e laboriosa desiderata, il Bey in nostro favore ; il nostro commercio così vigoroso che fino al 1878 le nostre !inee di traffico ebbero un primato assoluto, di fronte a una piccola cifra di vapori francesi, la nostra lingua era quella ufficiale. Nessuna meraviglia che Rubattino con tenacia cercasse pei* ogni via di intensificare i nostri interessi e promuovere lo sviluppo commerciale in Tunisia e provvedesse all’acquisto della Ferrovia Tunisi-Goletta che collegava il mare alla città e di cui una Società inglese per la sua passività voleva disfarsene. Qui si fa drammatica la narrazione dei fatti relativi 294 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA a questo acquisto, per la subdola condotta inglese e l’opposizione della Francia che mettendo avanti un’altra Società propria cercò intralciarne l’acquisto. La piccola ferrovia era importante politicamente e economicamente per l’Italia che aveva così intensi interessi commerciali in Tunisia, ma il losco maneggio francese voleva servirsene come una pedina per abbattere la nostra influenza e per arrivare al ben meditato colpo di mano, ottenuto poi colla farsa dei Krumiri, favorita dalla nostra politica inqualificabile che adombrò per sempre la pur bella figura di Cairoli. La tenacia di Jiubattino ebbe ragione sugli intrighi francesi e la ferrovia restò all’Italia, ancora per molti anni, mentre però il nominale protettorato poco a poco si traduceva in reale possesso. Ancor oggi non si può leggere senza fremere la storia della nostra rinuncia alla Tunisia e alle conseguenze seguite. Ma la guerra senza respiro, specialmente della Francia, a qualunque accenno di espansione nostra, continuò portandosi sulla Libia su cui pure avevamo ottenuto mano libera. La guerra era diretta su colui che impavido e alacre aveva fatto di Tripoli un emporio importante : Rubattino con le sue fiorenti Agenzie era il nemico palese : il governo italiano se ne stava dietro le quinte pavido di possibili complicanze. Con Rubattino tempestavano Camperio, ,Ravasini e quanti sostenevano alto il commercio in quella regione perchè venisse aiutata la penetrazione e difesa dai mille intrighi : un privato non poteva sostenere da solo la lotta, ma il Governo dava le sovvenzioni col contagocce : per la Libia sì, per la Cirenaica no. Perchè? Rubat- -tino non esita e impianta da solo un’Agenzia in Cirenaica intensificando il traffico sulle coste libiche tanto che la sua linea di navigazione era la seconda dopo l’Inghilterra. Ciò non andava a garbo alla Francia che «considerava la Libia un pascolo a sè riserbato », nè voleva aver ai confini un’Italia potente. Tutte le arti meno leali furono buone per avversarla. In quella lotta in cui la insidiosa prepotenza del forte era aiutata dalla colposa tiepidezza anti espansionista di governo e Parlamento, Rubattino imperterrito segnava la via e restava sulla breccia per mantenere quanto possibile le conquiste della nostra marina mercantile e difendere l’onore d’Italia. Per ragioni che PA. vien man mano dimostrando, da qualche anno la marina mercantile di tutte le nazioni subiva una crisi allarmante che con maggiore gravità colpiva l’Italia. Nel 1877, rispetto al tonnellaggio, la nostra marina era al terzo posto, nel ’78 passò al quarto, nel 79 al settimo non tanto per un maggior progresso di quelle rivali, quanto per un reale regresso (Iella nostra. Se ne allarmarono industriali, commercianti e economisti insigni. Il Governo non potè restar sordo a questi gridi d’allarme. Paolo Boselli, ligure anch’esso, fu il primo ad alzare la voce alla Camera e a mostrare il pericolo di una politica d’inerzia al riguardo. Dopo la morte di Bixio, la marina mercantile era rimasta indif- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 295 fesa alla Camera e industriali e armatori volevano nel ’74 portare a candidato Rubattino : questi, alieno dai dibattiti parlamentari e non volendosi distogliere dal suo vasto campo di lavoro, rifiutò ; ma nel 1876 accettò per atto di patriottismo ; dal suo posto di comando egli aveva alzata sempre la sua voce, ma ora occorreva, dinnanzi al pericolo, che essa potesse giungere ai poteri responsabili con maggiore diritto e più riconosciuta autorità. S’imponeva alla sua coscienza la creazione di una grande Società nazionale costituita da capitali italiani, capace di affrontare i bisogni necessari alle nostre comunicazioni interne e internazionali e a una sempre maggiore espansione dei traffici. Il problema non poteva risolversi che con la fusione della sua Compagnia con quella di Florio. Dal ’70 Bixio aveva suggerita quella fusione : Rubattino l’aveva sempre rimandata per molte ragioni, anche di alta e profonda sensibilità personale ; ma ora, per la salvezza della marina mercantile fu da lui stesso proposta e sostenuta fino a che venne approvata dal Parlamento. Fu quella « l’estrema rinuncia », come ben dice* l’A., poiché con quella fusione Rubattino cessava di avere l’assoluta indipendenza nella sua Società dopo quarantanni spesi per creaìrla, potenziarla col suo prestigio personale, la sua incorruttibile onestà, la sua titanica tenacia sostenuta da incrollabile fede nei destini d’Italia. Ancora una volta ebbe dinnanzi agli occhi il bene della patria, della sua grandezza avvenire e non esitò a sacrificare sè stesso : sacrificio che non gli fu usbergo ad amarezze e a velenose calunnie. Eravamo nel 1881. « Non passarono due mesi da questa suprema rinuncia e insieme suprema conquista che la sua giornata ebbe termine ». Perduta nel 1869 Tunica persona cui per tutta la vita fu legato da affetto e venerazione, Bianca Rebizzo, si fece forza nel solo pensiero « di completare ciò che aveva cominciato » e con disperata volontà raggiunse il fine. Dio gli fu pietoso chiudendogli gli occhi prima che materialmente deponesse le armi così virilmente e pratriot-ticamente usate. Il libro di Codignola, così denso di studio e così rivelatore, non è soltanto la Vita magnifica di un grande Italiano, ma, merito grande, è anche la prima serrata storia della nostra marina mercantile che in quel risorgere della Patria, con tutte le sue vicende e i suoi sforzi, ha segnato la via perchè il grande sogno di Rubattino potesse oggi tradursi in possente realtà. Itala Cremona Cozzolino 296 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Mattia Moresco, Note sulla fondazione della Chiesa gentilizia degli Sp&nola nel 1188 in Genova, Milano, 1938-XVI. (Estr. da Studi di Storia e Diritto in onore di Enrico Besta, vol. IV). Il Senatore Moresco ritorna con questa elegante e succosa monografìa ad argomenti che furono cari agli studi storico-giuridici dei primordi della sua vita scientifica : eloquente ripròva che i primi amori sono veramente indimenticabili. Allora si era occupato delle parrocchie gentilizie genovesi soprattutto alPintento di precisare la natura giuridica di questi singolari istituti ecclesiastici ; ora si ferma in particolare su una di esse per determinare le condizioni storiche della sua fondazione e le relazioni con l’arcivescovato e con la parrocchia nell’ambito della quale la chiesa gentilizia sorgeva. Aggirandosi con signorile eleganza in un groviglio di atti notarili, di bolle, di frammenti di cronisti e raccoglitori di documenti e acutamente discutendo i diversi dati forniti dalle fonti, l’autore conchiude assegnando la data del dicembre 1187 alla bolla con la quale il papa- Clemente III concede a Oberto Spinola di edificare una chiesa nei pressi delle sue case ; al 14 settembre 1188 l’istrumento di fondazione del vescovo Bonifacio in esecuzione delPordine papale e all'ottobre successivo l’effettiva fondazione della chiesa, consacrata poi nei primi mesi del 1191. Sgombrato il terreno dalle preliminari questioni cronologiche e diplomatiche, passa poi a ricostruire gli avvenimenti storici che accompagnano l’origine della Chiesa di San Luca e a studiare di questa l’ordinamento giuridico. La fondazione della chiesa, che ebbe carattere parrocchiale limitatamente alla famiglia Spinola, è indubbiamente da collegare alle vicende storiche del tempo, in particolari alle contese tra le grandi famiglie che tennero agitata e insanguinata in quella fine del secolo XII la vita cittadina. Di particolare interesse risulta la dimostrazione che il carattere gentilizio della chiesa fondata da Oberto Spinola trova la sua spiegazione nella struttura della società genovese del secolo XII nella quale le grandi famiglie conservavano una salda organizzazione unitaria e costituivano dei nuclei autonomi nettamente distinti, legati dal vincolo di parentela e dall’abitazione nelle stesse case e in un unico centro, generalmente difeso e protetto da una torre. Notizie genialmente accostate portano alla conclusione che gli Spinola, in lotta coi Dalla Volta, probabilmente secondati questi dal monastero di San Siro, dovettero sentire minacciata la propria sicurezza e persino la pacifica frequenza della loro antica parrocchia. Perciò la fondazione della chiesa avrebbe avuto anche altri immediati motivi oltre quello ufficiale « ad remedium animae suae » prospettato da Oberto Spinola al pontefice. E quindi la chiesa, costruita su terreno appartenente per metà ad Oberto Grimaldi, fu sot- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 297 tratta, mediante pagamento di un canone annuo, alla giurisdizione della parrocchia di San Siro nel cui territorio era costruita e sottoposta invece, come le altre parrocchie gentilizie, alFimmediata autorità delPArcivescovo e della Chiesa cattedrale di San Lorenzo. Gli Spinola, prima parrocchiani di S. Siro, efbbero così in S. Luca la propria parrocchia a carattere territoriale, costituita dal gruppo di case appartenente senza soluzione di continuità alla loro famiglia. Deroga a questa territorialità sarà la bolla di Sisto V del 1589 con la quale tutti i partecipi della famiglia Spinola, in qualunque parte della città risiedessero, si vedevano riconosciuto il privilegio di considerarsi parrocchiani di S. Luca soltanto per il fatto dell’appartenenza alla famiglia. Questo modello di monografia, denso di dottrina e perspicuo di esposizione, onde i risultati appaiono di una limpida evidenza, acuisce il desiderio di larghi e profondi studi su quei gruppi gentilizi che hanno avuto nella storia genovese medievale un’importanza non ancora messa sufficientemente in luce. La pubblicazione dei documenti notarili del sec. XII, che si sta attuando appunto sotto la direzione del Sen. Moresco, offrirà indubbiamente su questa materia elementi fondamentali di indagine e di ricostruzione. Vito Vitale G. P. Bognettt, 1 Magistri Antelami e la Valle d’Intelvi (Sec. XII). (Estr. dal Periodico Storico Comense, vol. II. Nuova serie 1938-XVI). Chi legge i documenti medievali genovesi trova numerosi quanto oscuri maestri di arti murarie, architetti e anche scultori designati col nome di « magistri Antelami ». Ma un tal nome, sebbene qui più diffuso e radicato sino a indicare una speciale corporazione, non è esclusivo della Liguria : basta pensare a Benedetto Antelami, l’artista dalla potente personalità, scultore e forse architetto del secolo XII, che a Parma lasciò capolavori firmati e datati e parve genio rinnovatore della scultura nel mondo che ritornava civile. Le indagini degli storici dell’arte hanno portato alla conclusione che quel nome sia un toponimo indicante la provenienza degli Antelami ; e che si debba trattare di un luogo di Lombardia è confermato dal fatto che pei* secoli la corporazione genovese è stata alimentata dal regolare afflusso di architetti, scultori e capomastri provenienti dalle zone dei laghi di Como e di Lugano. Con ancor maggiore precisione si è potuta determinare nelle fonti medievali la identità di Antelamo con Intelvi, ricavando la conclusione che novembre 1938. ARCHITETTURA E RESTAURI. G. Monaco : I sarcojagi antichi di S. Matteo e S. Lorenzo in « Genova » Rivista Municipale, settembre 1938. M. Labò : 1 « Palazzi di Genova di P. P. Rubens » in « Genova » Rivista Municipale, settembre 1938. G. Miscosi : Attorno a Porta Soprana in «Corriere Mercantile», 20 ottobre 1938. Carlo Bara-bino e VArchitettura genovese in « Il Lavoro », 21 ottobre 1938. Delart : Genova medio evale : Le torri campanarie in «Il Lavoro», 9 novembre 1938. NOTE LETTERARIE F. Noberasco : l· riedizione mancata delle opere di G. Chiabrera in « Atti R. Dep. Storia Patria p. la Liguria sez. Savona», vol. XX. P. Poggi : Il ritratto e l’abitazione del Chiabrera c. s. L. Negri : Gabriello Chiabrera c. s. I. Scovazzi : A. G. Barrili e i suoi romanzi storici c. s. A. Gimorri : Bo-rello e Ceccardi, S. T. Modenese Editrice 1938. A. Gimorri : JjVì'iche scelte, S. T. Modenese Editrice, 1938. Il « Libro Italiano », settembre 1938, segnala il saggio D’Annunzio a Genova per l’intervento nella guerra europea di A. Codignola. A. G. Barrili celebrato da G. Natoli in « Giornale di Genova » e « Secolo XIX », 6 ottobre 193S. Mameli poeta della libertà celebrato da V. Vitale in « Il Lavoro » e « Giornale di Genova », 20 ottobre 1938. G. Marangoni : Il Chiabrera bacchico in « Il Lavoro », 17 ottobre 1938. M. De Rubris : Nel centenario d'un glorioso figlio di Liguria (Abba) in « Il Lavoro », 19 ottobre 1938. Il pensiero economico e sfidale di G. Mazzi/ni celebrato da SPIGOLATURE E NOTIZIE 309 8. E. Lantini in « Corriere Mercantile », 24 ottobre e in « Giornale di Genova », 25 ottobre 1988. S. Rebaudi : Nicolò Massa in « Corriere Mercantile », 2 novembre 1938. A. Rossi : Come nacque l’inno di Garibaldi in « Corriere Mercantile», 3 novembre 1938. G. Radice: Garibaldi oratore in «Corriere Mercantile », 24 novembre 1938. Marbet : Annedottica ceccao'diana in « Il Lavoro », 12 novembre 1938. P. Rembado : L’avventura nuziale dello Spinola nella novella del Sacchetti in « Il Lavoro », 30 novembre 1938. E. Gazzolo : E. Vernazza in « Nuovo Cittadino », 4 dicembre 1938. A. Marpicati : Abba educatore in « Popolo di Brescia », 25 novembre 1938. M. Martini : Goffredo Mameli in « Progresso Italo-Americano », New-York, 10 ottobre 1938. TOPOGRAFIA, TOPONOMASTICA, INDUSTRIA, COSTI MI A. Garassino : Sul nome «Cairo» in «Liguria», agosto 1938. [L'Autore ripete cose già dette e ridette come novità e senza citare le fonti]. G. Marchi: Gaetano Descalzi seggiolaio chiavarese in « Giornale di Genova », 4 ottobre 1938. Vilfredo Pareto celebrato da Nello Quilici in « Il Lavoro », 11 ottobre 1938 ed in « Secolo XIX », 11 ottobre 1938. G. Carraro : Alcuni nomi locali in « Il Nuovo Cittadino », 12 novembre 1938. Renzo Baccino APPUNTI PER UNA BIBLIOGRAFIA MAZZINIANA Opere e scritti su Q. jMiazzini pubblicati all estero Riccardo Wiohterich, G. Μαζζνψ; II profeta dei nuovi italiani, Berlino, 1937. Entusiastica esaltazione del Mazzini dovuta più a calore di sentimento ohe a raziocinio critioo. Margaret C. W. Wicks, The Italian Exiles in London, 1816-18.'/8, Manchester University Press, 1937. Sul Mazzini la Wicks non ha nuove notizie né nuovi documenti, pure non è, anche per gli studi mazziniani, senza interesse l’opera che qui ricordiamo. Il principio corporativo nel mondo, in « L’Italia Nuova », Montreal, 16 luglio 1938. Si rifà — l’articolista anonimo — a colui che annunciò la terza Roma, la «Roma del popolo». Questa Roma ha detto la nuova parola. Hans Gustav Keller, Das « Junge Europa » 1834-1836, Eine Studie zur Ge-schichete der Vôlkerbundsidee und des nationalen Gedaukens, in « Zürich. u. Leipzig », Nichaus, 1938. É la storia della «Giovine Europa» nei due anni della sua vita come associazione. Lavoro documentato e, per certi aspetti, conclusivo. Opere e scritti su G. Mazzini pubblicati in Italia G. Mazzini, Ricordi autobiografici con Introduzione e note di M. Ménghini e Proemio di G. Gentile, Imola, Galeati, 1938. Opportuna quant’altra mai è la pubblicazione che riunisce in un bel volume le sparse «note autobiografiche» del Mazzini, il cui valore λ superfluo rilevar'·. La lucida informatissima Introduzione del Menghini e il denso Proemio del Gentile accompagnano degnamente le pagine mazziniane. G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, vol. LXXVI, Epistolario, vol. XLVI ; volume LXXVII, Politica, vol. XXVI, Ediz. nazionale, Imola, Galeati, 1938. A tutto luglio, sono comparsi — nel 1939 — i due volumi qui segnalati. Il volume XXVI — Politica — accoglie le introduzioni e i commenti dui Mazzini preposti all’edizione dei suoi iscritti, pubblicati dal Daelli. Si veda su questo volumi* quanto A. Omodko scrive nella a Critica » del 20 novembre 1938. G. Mazzini, Opere, vol. I Lettere, a cura di L. Salvatorelli. Milano, ltiz-zoli, 1938. Neirintroduzione che fa precedere a questo primo volume, il Salvatorelli schizza con sn-pienti efficacissimi segni il profilo del Mazzini. APPUNTI 311 La sicura conoscenza dell'argomento, complesso e spesso controverso, consente al S. di porre — sia pure in modo succinto — i problemi, di accennare scorci e illuminare zone oscure. Molto ben detto quanto si riferisco all'impresa di Crimea e al Mazzini, nettamente delineate le variazioni subite dall’influenza mazziniana nella vita politica d’Italia. Spesso contro corrente il S. stabilisce punti fermi nell’opera del Mazzini che attende ancora il suo compiuto biografo. Innocenzo Cappa, G. Mazzini, Milano, O. Zucchi. 1937. Sarebbe meglio ohe questo volumetto non fo^se stato scritto. Gino Cu coietti, Ungheria « La orande mutilata », Palermo, Trimarchi, 1987. Si segnala questo volume perché in un capitolo intitolato: «L’inizio e il primo svolgersi dell’amicizia tra Mazzini e Kossuth », pur non aggiungendo nulla al già noto, sull’argomento enunoiato, il Cucclietti tratta dei rapporti Italo-Magiari, divenuti oggi amichevoli tanto quanto il Mazzini s’augurava. Cesare Spellanzon, Storia del Risorgimento e dell9Unità d’Italia, vol. IV, Milano, Rizzoli, 1938. Anche in questo volume lo Spellajizon, dominando con sicura dottrina l’ingente infocata materia, tratta del Mazzini nel '48 fortunoso con equilibrio di giudizio e piena comprensione. Pietro Orsi, Storia mondiale dai I81Jj al 1938, vol. I (1814-1871), Bologna. Zanichelli, 1938. «.... in una storia che riassume così bene la vita di un secolo nella formazione dell’unità d’Itnlia e di Germania, e nel trionfo degli ideali nazionali, ci fa meraviglia non trovar il Mazzini in primissimo luogo. Certo, la importanza del suo apostolato, la grandezza profetica della sua mente, quoi suo animo religioso di italiano son messi in piena luce, ma è taciuta la sua opera legislativa nella Repubblica Romana, e non ha il risalto che dovrebbe avere la gesta del ’49.... Poi, dopo quell’&inno, l’opera mazziniana sembra dimenticata o è ricordata come inopportuna e molesta: «inconsulti» i moti e i sacrifici che pur mantennero vivo il sentimento nazionale, in ispecial modo quello del 6 gennaio ’53.... E non ricorda nemmeno che la insurrezione delle provincie meridionali del '60 fu mazziniana.... Tali giudizi potrebbero trovar consenso, se davvero, dopo il ’49 l’apostolato mazziniano fosse stato inutile e dannoso; ma i carteggi del Gioberti e del Nigra, e i documenti verniti itf luce ci provano che sino al '60 nessun altro partito ditegnò davvero l’unità di tutta Italia*. Goffredo Bellonci, in «Giornale d’Italia», 29 maggio 1938. Aldo Ferrari, La soluzione unitaria del Risorgimento (1849-1871). Milano, Al-brighi, Segati, 1938. « Sembra a noi che il Ferrari non abbia colto interamente il significato dell’atteggiamento del Mazzini rispetto al problema dell’unità e rispetto alla monarchia come realizzatrice di questa ; o piuttosto che non abbia prestato a quest’atteggiamento, in ciò che esso aveva di più specificamente mazziniano una particolare attenzione t. Luigi Salvatorelli, in r Lavoro» del 30 settembre 1938. Giuseppe Bottai, Incontri. Milano, Mondadori, 1938. Contiene il saggio su «Il pensiero e l'azione di G. Mazzini» e rappresenta un felice incontro del preparatissimo e acuto ingegno del Bottai con l’altissima mente e la grandissima opera di G. Mazzini. A. Cutolo, Gaspare Rosales, vita romantica di un mazziniano, Milano. Hoe-pli, 1938. Di questo volume, oh»' tratta di una figura tntt’altro che marginale, per chi si ocoupa dell’attività mazziniana, ho già detto nel fase. Ili, 1938, di questa Rivista. 312 APPUNTI E. Michel, Esuli italiani in Corsica, Bologna, Cappelli. 1938. Interessa anche per il breve soggiorno del Mazzini in Corsica e per quello più o meno lungo di esuli mazziniani. Ferruccio Quinta valle. La politica internationale nel pensiero e nell’azione dì G. Mazzini, Milano, La Prora, 1938. « È una raccolta di notizie, intenzionalmente organica, per le persone che desiderano conoscere, in modo meno somma-rio di quanto si sa comunemente l’opera dei grandi fattori della nostra unità e non hanno il tempo e il modo di farlo da sè». Così in una nota a Al Lettore» il Quintavalle precisa lo scopo, il carattere e i limiti dell’opera sua : per il fine propostosi commendevolissima. Articoli vari in riviste e giornali M. Lupo Gentile, L’agitazione mazziniana in Toscana e un tentativo di moto insurrezionale a Pisa nel 185'/, in « Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa», voi. VII. η. 1, 193S. Ricostruzione, su documenti di Polizia, dell’attività dei mazziniani in Toscana nel 18ó3-'54. Giuseppe Leti, Figure ed episodi del Risorgimento, in « Nuova Rivista Storica ». Napoli, gennaio-aprile 1938. Lumeggia una bella figura di umile patriota: Giuseppe Marchi, devoto al Mazzini e alla sua causa. Alessandro Leonori Cecina, Mazzini e Γinternazionale, in « La Verità », Roma, marzo 1938. Anche le più lucenti verità devono essere ribadite e non importa il modo \ Domenico Mario Simone, Gl’inquiniti della S. Consulta per la Rivoluzione del 18^9, in « La Corte d’Assise », Foggia, gennaio-aprile 1938. Semplice e rapido cenno su inquisiti, inquisitori e criteri d’inquisizione della Consulta Romana. A, Lumbroso, Mazzvm nella giovinezza genovese e i Ruffini, in « Giornale di Genova », Genova, 25 maggio 1938. Cose non nuove, ma sempre interessanti. Emilio Pandiani, G. Mazzini, in « Il Secolo XIX », Genova, 21 e 26 maggio 1938. Esposizione, a carattere divulgativo, in occasione della celebrazione dei Grandi Liguri. Cesare G. Marchesini, Scritti e lettere di G. Mazzini, in « Quadrivio ». Roma, 22 maggio 1938. Cenno illustrativo della monumentale raccolta degli Scritti e lettere del Mazzini che si spera completare nel 1941. Paulo Aletino, Il dubbio negli uomini d’azione, in « Regime Fascista », Cremona, 26 maggio 1938. Rievoca l’ora tormentosa del dubbio vinto dal Mazzini con il principio del dovere o della vita mieeione. Nicola Benckiser, G. Mazzini e l’Italia d’oggi, in « Regime corporativo ». Roma, 31 maggio-30 giugno 1938. «Non è difficile trovare.... citazioni di Mazzini che si possono utilizzare sicuramente, come motto, per l’odierna letteratura fascista» scrive il Benokiser, e vi par poco?! APPUNTI 313 Dottor Al fa, Mazzini c Garibaldi protettori degli animali, in « Corriere Mercantile », Genova, 4 giugno 1938. Buon esempio a edificazione dei non zoofili.... Angelo Τλνοινιi Mazzini contro Marx, in «Corriere Adriatico», Ancona. 8 giù-gno e in « Idea l· ascista », Pisa, 11 giugno 1938. Scritto superficiale sull’arititesi ben nota. G. Giulini, La tradizionale processione per la solennità del Corpus Domini in « La Sera », Milano, 16 giugno 1938. Ricorda la parteoipazione del Mazzini e della redazione del Vitalia del Popolo alla solenne processione milanese del Corpus Domini, nel 1848. Sordeixo. 1 genitori e la famiglia di G. Mazzini, in « Lavoro » del 22 giugno 1938; e Giuseppe Mazzini e la sua famiglia, in «Lavoro», Genova 6 luglio 1938. Cose opportune a dirsi al gran pubblico, che non s’accorgerà davvero, ad esempio, dei dieoi anni tolti alla povera Ciohina, cavallerescamente ringiovanita, da Sordello. Rosolino Basso, Mazzini contro il socialismo e Vinternazionale, in « Roma Fascista » del 9 giugno; in «Grido d’Italia» del 30 giugno e in «Messaggero di Rodi » del 1 luglio 1938. L’insanabile dissidio tra la concezione mazziniana e quella bakuniniana esposto con piana evidenza. Domenico Camagna, Le tradizioni del movimento operaio alessandrino durante il Risorgimento, in « Alexandria » del luglio 1938. Esamina il movimento operaio alessandrino nell’età del nostro riscatto dovuto soprattutto al Mazzini ohe non separò mai il risorgimento politico ila quello sociale. Anna Fumo, / precursori delVas$e Roma-BerUno, in la « Nazione Militare » Roma, luglio 1938. Naturalmente, tra questi, c’è il Mazzini.... Alfredo Zago, Benevento e la propaganda mazziniana, in « Il Mattino » Napoli, 8 luglio 1938. Interessa per conoscere fino a qunl punto l’apostolato del Mazzini penetrò nel beneventano. A. Gancia, Mazzini c gli uomini di colore, in «Grido d'Italia», Genova 15 luglio 1938. Riporta una lettera scritta dal Mazzini all'americano Connay, il 30 ottobre 1865. Leonardo Lagorio, Elia Benza e il covo mazziniano di Porto Maurizio in « Giornale di Genova », Genova, 22 luglio 1938. «Appunti» è il titolo della rubrica sotto cui appare questo scritto, ed è tale da definirlo. Cesare Tevenè, Dal «Conciliatore» all'« Indicatore Livornese», in «Grido d’Italia », Genova, 30 luglio 1938. Breve cenno sulla vita di questi fogli gloriosi. Paolo Elpidio, Dalla critica mazziniana alla realtà fascista, in « Gerarchia » Milano, agosto 1938. Alcuni spunti — i migliori — non sono snffloientemente sviluppati. Paulo Aletino, Sublime ambizione, in « Regime Fascista ». Cremona, 3 agosto 1938. 1. antagonismo Maszini-Cavour e l’urto ohe, nel ’58, fu, con formidabile impeto e con diversa coscienza, sostenuto tra i due grandi, è ben rappresentato. 314 APPUNTI Luigi Polacchi, La rivolta Pennese del 1837 e una lettera del Mazzini, in «Adriatico», Pescara, 13 agosto 193S. Rapida esposizione, con qualohe venatura polemica e molto amore* per la nobile terra abruzzese, del moto di Penne. Λ'eli’Osservatorio del «Messaggero di Rodi», Rodi, 17 agosto 1938, c’è uno stelloncino intitolato Mazzini e la «Rivoluzione francese t, in cui si oitano alcune tra le più note cose scritte dal nostro Grande che rivendicò primo Viniziativa italiana e primo volle sottrarre al pericoloso fascino dell* or mai vacuo trinomio le nuove generazioni. Ma si poteva scegliere meglio e oitare più compiutamente il pensiero del Mazzini. Arnaldo Cervesato, La battaglia mazziniana contro il comuniSmo, in (« Grido d’Italia », Genova. 30 agosto e 16 settembre 1938. C’è la tracoia di un buon articolo da farsi. F. Zi n g aro poli , Il pensiero spiritualista di Mazzini, in « Mondo Occulto », Napoli, 31 agosto 1938. Roba da manicomio! Luigi Ferraris, Un cifrario mazziniano, in « Rassegna storica del Risorgimento », Roma, settembre 1938. Vi si dà notizia di un cifrario che, come opina il Ferraris, può essere stato elaborato a La Spezia «per uso di quella congrega e di altre viciniori». L interrogativo stesso, però, posto al titolo, consiglia di accogliere con riserva l’informazione. Luigi Ferraris, « Il Precursore », in « Rassegna Storica del Risorgimento », Roma, settembre 1938. Di questo giornale il Ferraris ha tratto dall’Archivio di Stato di Torino interessanti notizie finora ignorate. Noi di « Ventanni », Le ceneri di Mazzini sul Granicolo, in « Vent'anni », Torino, 1 settembre 1938. Trasportare le ceneri del Mazzini a Roma sul Gianicolo: è la proposta di questi ventenni. Aderiscono: G. Falzone, in «Popolo Biellese», Biella, 15 settembre J938 e « Messaggero di Rodi», Rodi, 15 settembre 1938; V. S. ancora nel «Popolo Biellese» del 12 settembre; Petronio in «Cronaca Prealpina», Varese, 6 novembre 1938. Si oppone: U. Riparbelli, per la comunità Mazziniana, in «Grido d’Italia», Genova, 15 e 30 ottobre 1938. Il «Popolo della Spezia» non si pronuncia: informa però che «Carducci pensava ohe Mazzini doveva riposare in Roma ; lo pensava Oriani, lo desiderava Pascoli ». Ma questa disputa è una cosa seria? A. S.. L’educazione delle masse lavoratrici; La Chiesa; La Borghesia; Dal Mazzvni al Carducci, in « Problemi del Lavoro », Milano, 1 settembre 1938. Maggior rilievo dovrebbe avere in quest’analisi la parte che riguarda il Mazzini. Doctor Beta, Orme mazziniane in Val Polcevera. in « Lavoro», Genova. 4 settembre 1938. Simpatica corsa attraverso la Polcevera nei luoghi — specie Murta legati a ricor ι mazziniani. C’è uno svarione: Antonietta Massuccone mori nel 1883, non nel 1846. Il diciannovi sta, Attualità di Mazzni, in « Il Popolo della Spezia », La Spezia, 6 settembre 1938. L’affermazione è solo vera nel titolo; inutile cercarla nel breve scritto. APPUNTI 315 Umberto Riparbelli, Mazzini e la razza, in « Grido d’Italia », Genova 15 settembre 1938. Vuol dimostrare ohe il rispetto sentito dal Mazzini per tutte le creature umane e il suo voler tutti civilmente elevare non è affatto in contrasto con le misure che per l’integrità della stirpe nostra il Regime ha preso nei nostri possedimenti d’oltremare. Bruno Dante, Vincenzo Gioberti e Giuseppe Mazzini, in « Italia combattente », Roma, 15 settembre 1938. Concezioni e caratteri in fiero contrasto. Giova però studiarli e comprenderli: il Mazzini ha tutto da guadagnarci. Giuseppe Bruni, La dorma nella concezione mazziniana, in « Popolo Biel-lese », Biella, 19 settembre 1938. Variazioni, ohe non peccano d’originalità, su un tema trito. Willy Ellero, G. Mazzini e VItalianità della Corsica, in Gazzetta di Venezia », Venezia, 24 settembre 1938. Riferisce ciò che, a proposito del viaggio fatto nel 1831, in Corsica, dal Mazzini, questo scrisse nelle sue «Note autobiografiohe» sulla sphietta italianità dei Corsi. Giuseppe Serra, Giuseppe Mazzini a Imperia, in « Sera », Milano 27 settembre 1938. L’amioizia tra il Mazzini ed Elia Benzn — uno della pleiade giovanile mazziniana _ è l’argomento del presente breve soritto. Giuseppe Bianchi, Da Euterpe a S. Cecilia, saggio sul pensiero musicale di G. Mazzini, in « Grido d’Italia », Genova, 30 settembre e 15 ottobre 1938. Esposizione di concetti del Mazzini sulla musica. Pietro Crespi, Visita a Tomaso Carlyle, in « Perseo », Milano, 1 ottobre 1938. E poiché è un italiano che visita il Carlyle, incontra nella casa di Lui, Giuseppe Maerini. J. d. V., G. Mazzini esule, in «Corriere Mercantile», Genova, 3 ottobre 1938. Brevi cenni suH’attività dedioata dal Mazzini, tra miserie e sofferenze con fiera dignità sopportate, all’edizione degli scritti foscoliani fatta dal Lo Monnier. G. Molteni, Religione di Mazzini, in « L’Avvenire d’Italia », Bologna, 14 ottobre 1938. « Per noi cattolici, 1 atteggiamento religioso del Mazzini è, senza dubbio, assai penoso, ma non dove far velo la nostra amarezza, ai giudizi su tutto l’uomo». Scrivere come fa il Molteni: «Il Mazzini— appare da tutto il suo epistolario: autoritario, dommatico, appassionato nelle sue concezioni partigiane, dominato da un grande amore per l’Italia, ma ostinato nei suoi preconcetti anche a costo di compromettere l’interesse nazionale» significa o ignorare il Mazzini o non voler esser giusti nel giudizio su di lui. G. G. Triulzi, Mazzini c i Pareto. in «Lavoro», Genova, 22, ottobre 1938. Breve cenno sui ra-pporti che il Mazzini ebbe con Ernesto e Costanza Pareto. Durante le celebrazioni dei grandi Liguri, testé conclusesi a Genova, si tennero quattro conferenze dedicate a G. Mazzini: a Imperia, Balbino Giuliano parlò del « Pensiero di Giuseppe Mazzini » (pubblicato sul « Meridiano di Roma » del 9 ottobre 1938) ; di « G. Mazzini c sua■ madre » parlò J. Cappa alla Spezia; F. Ercole a Savona e Ferruccio Lantini a Genova chiuse il ciclo celebrativo parlando delle « Idee economiche e sociali di G. Mazzini ». Altri liguri, che col Mazzini ebbero rapporti più o meno diretti e costanti, furono ricordati in altre molte conferente- 316 APPUNTI P. S. Pasquali. Nomi e cognomi, in «Minerva», Torino, 31 ottobre 1938. Non d’origine germanica il cognome Mazzini, ma italianizzazione di una voce dialettale genovese. Luciano Tomelleri, Sulla « Filosofìa della Musica » dì Giuseppe Mazzvni, in « Rivista Musicale Italiana », Milano, fase. V, 1938. Contiene osservazioni e notazioni assai buone. A. B., Mazzini e le donne, in « Il Mattino ». Napoli, 1 novembre 1938. Scemenze: tra le altre questa precisa informazione: il Mazzini e la Sidoli — dopo il 1833 — non si rividero più! A. Caleo, Un’epigrafe inedita dì Ceccardo su Mazzini scrittail giorno della Vittoria, in « Lavoro », Genova, 4 novembre 1938. Un'epigrafe — inedita — che dalla data in cui fu composta, acquista significato anche per l’esaltato «seminatore — de l’idea —». Vero, Mazzini, in « Il Periodico », Ferrara, G novembre 1938. Il sincero entusiasmo fa scusare l’espressione esagerata e l’erroneità d aloune affermazioni. Bruno Franchi. Mazzini e Kossutli nei rapporti segreti della polizia austrìaca in Dalmazia, in « San Marco », Zara, 9. 12, 16, 19 novembre 1938. Breve studio interessante anche per la fonte cui 1Ά. attinge illustrando il contributo dato dalla Dalmazia per la diffusione dell’idea mazziniana e Kossuthiana entrambe concordi nella lotta contro il comune nemico : l’Austria. Paulo Aletino, L’uomo del dovere, in « Regime Fascista ». Cremona, 16 novembre 1938- t . Nella sintesi icastica del titolo è rià gran parte dell’efficaoia dell'articolo. Postille Ettore Rota, Il problema italiano dal 1700 al 1815. L’idea unitaria, Milano, Istituto di studi di politica internazionale, 1938. Interessante per l’argomento e più per la dottrina con cui esso è documentato, il Rota conclude la succosa e chiara Prefazione con queste parole: «Il tracollo della fortuna napoleonica segna anche una crisi del pensiero unitario. Ê perciò che Mazzini sembrerà un novatore, pur venendo dopo una falange di precursori, soffocati dalla tempesta napoleonica». Mi permetta il Maestro, dotto e geniale, di osservare che il Mazzini non sembra ma è un novatore, pui venendo dopo la gloriosa schiera di coloro che l’unità d’Italia auspicarono. Il pensiero unitario ancor prima del tracollo napoleonico aveva avuto già limitazioni. Dopo il 1805 affermazioni di un programma di integrale unità (compresa cioè la Sicilia) non è formulato, per lo meno non lo ò in modo netto e preciso. Nella mente dei patrioti vi è — infatti — il Regno italico napoleonico col suo confine meridionale fino al Tronto. Del resto anche se fosse possibile - e non lo è - che un’idea potesse ancor sorgere, dopo tanto fluire di umana esperienza, tutta nuova, interamente originale, mai udita, non sarebbe questo il merito maggiore. Mazzini non inventa l’unità d’Italia, è certo, ma ne crea la coscienza nel nostro Paese. Novatore è perciò nel senso più completo della parola: dà anima e vita a un’idea facendone l’espressione e la realizzazione più alta del nostro Risorgimento ; tanto ohe questo è, nella sua essenza, unità. Il Fronte Unico, del 10 dicembre 1937, pubblicava un articolo intitolato : Per l