ATTI DELLA REGIA DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA — SERIE DEL RISORGIMENTO — Volume IV GEN OVA NELLA SEDE DELLA R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA PALAZZO BOSSO ENRICO GUGLIELMIUO GENOVA DAL 1814 AL 1819 GLI SVILUPPI ECONOMICI E L’OPINIONE PUBBLICA MCMXL-XVIII — '«= V.'v-'r; - \ ; • V -■ r . . ■ • . : ATTI DELLA REGIA DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA — SERIE DEL RISORGIMENTO — Volume IV ENRICO GUGLIELMINO GENOVA DAL 1814 AL 1819 GLI SVILUPPI ECONOMICI E L’OPINIONE PUBBLICA GENOVA NELLA SEDE DELLA li. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA PALAZZO ROSSO MCMXXXVIIII - XVIII PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Scuola Tip. Don Bosco - Genova-San Pier d’ Arena PREFAZIONE Chi si accinga a studiare la vita e l’anima d’un popolo s’imbatte in problemi molteplici e complessi, ed è naturalmente indotto a porre in essi un certo ordine, secondo un determinato criterio. Ma ciò, se risponde ad una necessità d’ordine pratico, non deve influenzare il sostrato unitario della' ricerca. Poiché il fatto storico si presenta essenzialmente come unità; il suo aspetto poliedrico risponde ad un principio ed a un fine, che ne costituiscono il centro formatore. Di qui la difficoltà dello studio ed il pericolo di un’interpretazione unilaterale e parziale, e quindi arbitraria. I singoli problemi devono essere studiati ed approfonditi in se stessi, è vero, ma senza che i legami che nella realtà, li hanno uniti, nella ricostruzione si allentino e vengano meno. Perciò, indipendentemente dai pregiudizi di qualsiasi indirizzo storiografico, mi sforzai di studiare le cause determinanti lo spirito pubblico genovese nella loro oggettiva realtà, nel loro complicarsi e risolversi. Tenni presente che la storia, prodotto dell’intelligenza e delle passioni degli uomini, è il frutto delle aspirazioni più naturali, nel tempo e nell’ambiente, e dei contrasti molteplici dell’umana natura. E poiché, tra i sentimenti più vivi che determinarono l’azione degli uomini del Risorgimento, mi parve di scorgere il contrasto fra le tradizioni locali, maggiormente esasperate dal sacrificio imminente, e la tendenza a superarle, volli, di una città e di un’epoca tanto dense di speranze e di rimpianti, di sguardi al futuro e di rievocazioni del passato, studiare appunto le forze opposte e contrastanti, nella loro realtà particolare e nei loro rapporti. Cogliere il centro propulsore, tener conto di tutti i fattori, assistere allo scaturire dell’effetto, che è sintesi e conciliazione di tendenze opposte o diverse, ma insieme interferenti, non è impresa facile, special-mente per chi lo tenti la prima volta. Mi accorgo infatti di aver spesso 6 indugiato, per amore di analisi e forse per naturale simpatia, intorno allo studio di alcuni fattori, di carattere economico e commerciale, e di aver lasciato più spesso nell’ombra quelli d’ordine ideale. Ma ciò feci anche perchè il campo, per quelli, era più libero, e quasi inesplorato, mentre non pochi sono i lavori di carattere politico intorno a Genova dopo il 1815. Basti qui accennare agli studi del Vitale, del Ror-nete, del Godignola, del Colombo, del Ridella, ognuno dei quali illumina e chiarisce aspetti della' vita genovese in quegli anni. In verità il professor Codignola nel pubblicare il carteggio Petitti-Erede aveva già approfondito il problema dei rapporti tra i fattori economici e quelli politici riguardo all’opinione pubblica genovese. Ma il carteggio, di necessità ristretto nei suoi lim iti cronologici, offre un’inesauribile fonte di studio ed una perfetta documentazione dello spirito pubblico genovese soprattutto negli anni della prima guerra del Risorgimento, dal 1846 al 1849. Esso è ottima guida per chi voglia interpretare fatti e tendenze degli anni precedenti. E questo appunto mi proposi fare. Mi fu di primo orientamento il dotto volume di R. Ciasca, L’origine del programma per l’opinione nazionale, ricco non soltanto d’una inesauribile bibliografia, ma di osservazioni, di ricerche, di giudizi e di spunti che riguardano l’Italia intera. L’opera del Ciasca è quasi una sintesi di altrettanti lavori particolari sulle varie regioni d’Italia; sintesi, per altro, di la vori che non furono scritti mai. Essa li sottintende, o meglio, ne fa notar la mancanza. Iproblemi studiati dal Ciasca sono di carattere politico, economico, sociale; ma essi tutti sono legati strettamente tra loro, ed il Ciasca' solo a scopo pratico ed espositivo li ha trattati in capitoli separati. Notevole tra questi problemi è quello che derivò dalla trasformazione dell’industria e del commercio, onde vennero a cessare, sulla fine del secolo XVIII, antiche forme e fonti di ricchezza e di privilegi, mentre, col passaggio dall’industria artigiana a quella meccanica, il problema del rapporto tra capitale e lavoro si impose su nuove basi, sviluppando, in alcuni paesi, la lotta di classe. Ora, fatto caratteristico, in Italia furono generalmente le stesse classi dirigenti quelle che si prospettarono i nuovi problemi, tendendo a risolverli con un programma di conciliazione, di equità e di equilibrio tradizionalmente latino. AUà base di questo movimento sta sia Vobbiettività scientifica' dello studioso che vede il male e cerca i mezzi per combatterlo, sia la rinata tradizióne di unità, d’indipendenza, di primato morale e civile degli Italiani. Il Risorgimento è quindi non soltanto un fatto politico, ma sociale, e, come tale, anche economico; le sue radici 7 vanno ricercate nella rinnovata coscienza civica e morale del popolo nostro. Non per nulla,, mentre la rivoluzione francese aveva affermato i diritti dell’uomo, Giuseppe Mazzini ne stabiliva, i doveri. I fattori che determinarono le varie correnti dell’opinione pubblica italiana, dalla restaurazione alla prima guerra, per VIndipendenza sono, in breve, i seguenti: a) La non mai spenta, tradizione unitaria. Essa però non avrebbe dotuto risorgere se non l’avessero alimentata altre cause pili vicine e concrete. b) Il prevalere degli interessi di una nuova borghesia, intelligente e colta alla quale si unì, dopo il ’14, una buona yarte della nobiltà. e) La bufera rivoluzionaria francese, i cui principii universali furono modificati in Italia in senso schiettamente nazionale. d) L’esperienza unitaria italiana, sotto il dominio napoleonico e la disillusione che la politica francese dell’imperatore aveva lasciato fra quanti avevano sperato da lui un reale interessamento per i bisogni italiani. e) Negativamente, la rigida reazione che i Governi restaurati imposero, accentuando quell’assolutismo che era ormai superato nella coscienza, degli spiriti più illuminati, i quali, se non numerosi, rappresentavano tuttavia la parta attiva e dirigente dell’opinione pubblica. f) L’urto fra gli interessi nuovi, gradatamente impostisi, di natura economica e sociale, e gli interessi del Principe il quale si trovò di fronte a difficoltà notevoli che gli impedirono di proseguire la politica illuminata del secolo precedente. Queste difficoltà, specialmente per quel che riguarda il Piemonte, vanno ricercate sia nell’ambiente di diffidenza determinato dai conservatori che circondavano il Principe e che gli prospettavano come pericolosa ogni sorta di libertà, benché minima e riguardante il solo commercio, sia nell’esempio delle altre potenze europee, le quali erano guidate da criteri protezionistici, talmente ferrei che gli stati minori non avrebbero potuto sottrarvisi. II Ciasca notò che i problemi economici, la necessità di abbattere le barriere doganali, di creare sistemi uniformi di legislazione, di pesi, misure, monete, ecc., furono in parte la causa, in parte la manifestazione delle tendenze unitarie dell’Italia sorta dopo la restaurazione. È anche noto come in Italia, assai più tardi che all’estero, si sia sviluppato il problema sociale, almeno nelle sue forme più esteriori e violente, sebbene, come ho detto, la classe dirigente italiana' se ne sia occupata con zelo e vero amor patrio, ancor quando, altrove, gli ordì- ìli privilegiati lottavano contro le aspirazioni di quelle classi lavoratrici che essi avevano contribuito a porre in condizioni disagiate. Cause negative quindi e fattori positivi,, necessità di demolire un mondo ma pronta attività di ricostruzione, determinarono quella rivoluzione economica, politica, sociale, che va sotto il nome di Risorgimento italiano. Ogni regione d’Italia, ogni città, portò il sito contributo di fede, di sacrificio, di attività, per la costruzione della monarchia unitaria. Genova aveva già manifestato le sue tendenze unitarie sul finire del secolo XVIII. Nel periodo dal 1815 al 1849 esse si rafforzarono e si imposero alla stessa Torino. Studiare come la questione italiana sia stata sentita a Genova, in relazione alle necessità cittadine e a quelle nazionali; come il fattore economico e quello politico, reciprocamente influenzandosi, abbiano concorso al raggiungimento dell’identico fine: l’unità e l’indipendenza; quali forze abbiano determinato il divenire delle classi medie genovesi dall’annessione al Piemonte fino ai moti dell’aprile del 1849; sono questi i principali problemi che mi proposi nel presente lavoro. Ora, nell’atto di licenziarlo alle stampe, mi sia. concesso rivolgere i miei ringraziamenti a< coloro che mi guidarono orientando le mie prime indagini ed esortandomi all’opera: al prof. Raffaele Ciasca del-V Università di Genova, che mi seguì nello studio e mi fu largo di cortesie e di consigli; al prof. Vito Vitale, al quale soprattutto debbo l’amore e la comprensione della storia fin dagli anni del Liceo; al prof. Arturo Codignola, che mise a mia disposizione la biblioteca e il ricchissimo Archivio dell’istituto Mazziniano ch’egli dirige, e mi agevolò in ogni sorta di ricerche. Credo che non avrò lavorato invano se questa mia prima fatica, sebbene modesta, potrà ottenere la loro approvazione. GENOVA DAL 1814 AL 1849 (GLI SVILUPPI ECONOMICI E L’OPINIONE PUBBLICA) CAPITOLO PRIMO L’opinione pubblica genovese all’indomani dell’annessione al Piemonte. Tentativi diplomatici ed attività di congiurati dopo la caduta di Napoleone per salvare l’indipendenza repubblicana o promuovere l’unità d’Italia. — Ipartiti politici genovesi dopo il 1814. — Fattori economici nelle tendenze unitarie genovesi. — L’aristocrazia dopo la restaurazione. — I democratici, i bonapartisti, gli indipendenti. Il giansenismo ligure. — L’unione al Piemonte ed i problemi d’ordine morale e materiale che ne derivarono. — Il commercio di Genova nella seconda metà del secolo XVIII. — L’esperienza napoleonica. — Tendenze costituzionali dopo il 1814. — Il progetto di Costituzione del Brignole-Sale. — Una relazione anonima intorno allo spirito pubblico genovese dopo il 1815. — Conclusione. L’opinione pubblica genovese nell’agitato periodo che va dalla prima abdicazione di Napoleone alla definitiva caduta dell’impero, rispecchia, per quanto è possibile desumere dall’-atteggiamento dei rappresentanti della Repubblica, dalle relazioni degli osservatori stranieri e dai rapporti della polizia sarda, interessi diversi e spesso opposti, tra i quali è difficile orientarsi per un giudizio definitivo e sintetico (1). Dalla caduta della vecchia Repubblica aristocratica (6 giugno 1797) all’atto del Congresso di Vienna che unì definitivamente la Liguria al Piemonte (12 nov. 1814) tanti avvenimenti avevano scosso gli antichi ordinamenti e le tradizioni di Genova, ne avevano alterato i traffici, modificato'e corrotto i costumi, che la vita cittadina ne risultava (1) Per lo vicende e Popinione pubblica genovese nei primi anni dell’annessione mi sono servito principalmente delle seguenti opere: G. Martini, Storia della restaurazione della Repubblica di Genova nell’anno 1814, sua caduta e riunione di Piemonte, Asti 1858; M. Spinola, La restaurazione della Repubblica di Genova nel 1814, saggio storico, Genova 1863. — V. Vitale Onofrio iScassi e la vita genovese del suo tempo (1768-1836), in Atti della Società Ligure 12 necessariamente rinnovata, costretta com’era stata ad uscire daccerchio chiuso dei propri limitati interessi e della propria neutralità. Giorni densi di passione politica vissero i Genovesi quando Agostino Pareto a Parigi e a Londra ed A. Brignole-Sale a Vienna tentavano invano di salvare l’indipendenza della Repubblica (1), speranze e delusioni accompagnarono il tentativo napoleonico dei cento giorni (2) quando di Storia Patria, Voi. LIX, 1932. — V. Vitale, Genova, il Piemonte e l’Inghilterra nel 1814, in Giornale Storico e letterario della Liguria, 1930, p. 233 e segg. — A. Segre, il primo anno del ministero Vallesa: informazioni di polizia sull’ambiente genovese, in Biblioteca di Storia Italiana recente, voi. X, Torino 1928, appendice III, p. 363 e segg. — C. Bornate, L’insurrezione di Genova nel marzo 1821, in Biblioteca di Storia italiana recente, voi. XI, 1923. — E. Prasca, L’ammiraglio Giorgio De Geneys e i suoi tempi, Pinerolo 1926. — A. Codignola, La giovinezza di Mazzini, Firenze, 1926. — C. Spellanzon, Storia del Risorgimento e del-l’Unità d’Italia, Milano, 1933, voi. I. — A Codignola, La Monarchia di Savoia e VInghilterra nell’ultimo periodo del predominio napoleonico, in Rassegna storica del Risorgimento, anno XIII, fase. XII 1936, p. 1583 e segg. — R. Ciasca, L’origine del programma per l’opinione nazionale, in Biblioteca storica del Risorgimento Italiano, serie Vili, n° 3. Altre opere che si riferiscano a fatti e situazioni particolari saranno citate di volta in volta. (1) V. Vitale, Onofrio Scassi, cit. p. p. 216-217. (2) Non soltanto a Genova, ma in ogni parte d’Italia andava maturando l’idea di fare di Napoleone, relegato nell’isola d’Elba, il restauratore dell’impero romano e dell’unità d’Italia. Nel 1825 fu edito, a Bruxelles, un singolare libro, La vérité sur les Cent Jours, principalement par rapport à la renaissance projetée de VEmpire Romain. Ne era autore un avventuriero, falsario, delatore, conte o preteso conte, il fiorentino Giorgio Libri Bagnano. Secondo la narrazione, convalidata da documenti, del Libri, tra l’aprile ed il maggio del 1814 si sarebbero tenute a tale proposito delle adunanze segrete a Torino, ove sarebbero convenuti quattordici congiurati da ogni parte d’Italia, e precisamente: due Corsi, due Genovesi, quattro Piemontesi, due del Regno d’Italia, quattro degli Stati Romani e della Sicilia. Essi avrebbero formato un Congresso costituente nazionale, trasformato poi in Congresso costituente dell’impero Romano. Nell’ultima riunione, la più importante, avvenuta il 19 maggio, sarebbe stato compilato un messaggio per Napoleone, al quale il Libri stesso avrebbe dovuto rimetterlo. Senonchè, dovendo egli compiere un’altra missione in Francia., sarebbe stato autorizzato a consegnare il dispaccio al gen. Cambronne. Il Libri partì per la Francia ove, il 27 agosto, fu arrestato. La verità della narrazione, di per sè seducente, fu sostenuta da molti scrittori del secolo scorso, e fu arricchita di particolari, sì che tra i congiurati furono posti Luigi Corvetto, Melchiorre Delfico, Pellegrino Rossi, Vincenzo Cuoco, il Foscolo ed altri, che un più attento esame doveva poi dimostrare assenti da Torino in quel torno di tempo. Perciò, sia per la dubbia fede dell’autore, sia per l’evidente carattere leggendario di taluni particolari, si finì per considerare del tutto falsa la narrazione stessa. La critica più esauriente, per bibliografia e per argomentazioni è quella contenuta nell’opera di M. Ruini: Luigi Corvetto genovese, ministro e restauratore delle Finanze di Francia, Bari 1929, p. 84 e sgg. Così che da un eccesso si giunse ad un altro: dalla ricostruzione arbitraria dei particolari alla negazione totale del fatto. In realtà la congiura vi fu, e la narrazione ed i documenti contenuti nell’opera del Libri sono sostanzialmente autentici. Lo dimostrò recentemente, alla luce di nuovi documenti e di serrate argomentazioni, Federico Patetta, in / 13 già l’unione al Piemonte era irreparabilmente avvenuta, e nuove speranze si appuntarono verso l’impresa murattiana nell’Italia meridionale. Dopo il fallimento di questa e la morte di Murat, caduta la speranza di ogni mutamento, si può dire che, esteriormente, la vita genovese abbia subito un lungo periodo di stasi, caratterizzato da freddezza e da astensione dalla vita pubblica da parte della nobiltà e dell’alta borghesia, non disgiunta però da un costante e segreto lavorio delle sette (1). Un quadro abbastanza preciso delle varie correnti dell’ opinione pubblica genovese ci è dato da un rapporto del 1816, compilato da una spia austriaca, il Frizzi (2). Questo rapporto deve essere tuttavia spogliato di alcuni errori di valutazione dovuti agli interessi filoaustriaci del relatore, e completato con lo studio dei reali bisogni, materiali e spirituali, del popolo genovese nell’epoca da noi considerata. Il Frizzi segnala i seguenti partiti: aristocratico, democratico, bonapartistii, indipendente, austriaco. L’esistenza di un partito austriaco era certamente piuttosto un’ottimistica persuasione del Frizzi che una realtà: troppo era viva in Genova la tradizione di Balilla (3), mentre la dura esperienza del periodo napoleonico aveva insegnato a non desiderare un intervento straniero nelle questioni italiane (4). Piuttosto, quel partito che il Frizzi segnava come filoaustriaco doveva essere composto di coloro una sua nota nel voi. 72 degli Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino, maggio-ottobre 1937, p. 276 e segg.: La congiura Torinese del 1814 per la,rinascita dell’impero Romano e per l’offerta del trono a Napoleone. A qnesto lavoro rimando, per maggiori particolari e per la completa bibliografia sull’argomento. Del resto che contatti vi siano stati fra Genova e l’isola d’Elba nel 1814 è confermato dalle relazioni di una spia austriaca, il Frizzi, che, in un suo rapporto (pubblicato da V. Vitale, Informazioni di polizia sull’ambiente ligure [1814-1816], in Atti dalla R. Deputazione di Storia Patria, voi. LXI) accennava ed un viaggio all’isola d’Elba dell’avv. Angelo Pellegrini di Genova, che pretendeva d’essere cugino deH’Imperatore. Certo è che Genova intorno al 1814 era il centro di tutti i malcontenti, di tutti i congiurati d’ogni parte d’Italia. Il sogno era un’Italia unita e forte, sotto lo scettro di Napoleone. Cfr. D. Spadoni, Milano e la congiura militare del 1814 per l’indipendenza italiana, Modena 1936, voi. I, p. 291. (1) V. Vitale, Onofrio Scassi, p. 237. (2) Frizzi, Rapporto sopra l’attuale politica del Ducato di Genova, 15 agosto 1816, in M. S. R. N. di Genova, N° 3323: copia tratta dal R. Arch. di Stato di Milano. Pubblicato da C. Bornate, op. cit., p. 337 e segg, e riassunto da V. Vitale, op. cit.p. 226 e segg. (3) A. Colombo, La tradizione di Balilla in Genova nel 1846, in Goffredo Mameli e i suoi tempi, pubblicato a cura del Comitato Ligure della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento. Venezia, 1927, p. 144. (4) V. Vitale, op. cit., p. 198 e segg. Per la delusione sottentrata in tutt’Italia in seguito alla politica di Parigi, che vedeva nelle terre della nostra penisola soltanto uua merce di scambio, v. la recente opera di E. Rota: Le origini del Risorgimento, Milano, 1938, voi. II pp. 1154 e 1172. 14 che auspicavano sì a un’unione con la Lombardia, ma con una Lorn bardia indipendente, repubblicana, della quale Genova aspirava ad essere il porto naturale (1). In realtà forti interessi legavano la Liguria alla Lombardia, sia per ragioni commerciali, sia per i possedimenti territoriali che molti nobili genovesi avevano in quella provincia. Ma questa sarebbe stata piuttosto una buona ragione per auspicare alla indipendenza della Lombardia dall’Austria ed alla formazione di uno stato nazionale nell’Alta Italia, sicché il possesso di quei territori lombardi non fosse per i Genovesi alla mercè del variare dei rapporti con una potenza straniera. Ne l’odio verso il Piemonte poteva significare, come pretendeva il Frizzi, simpatia verso l’Austria, e tanto meno desiderio di • sottomettersi ad una nazione che, se in quel momento tingeva, per ingraziarsi gli animi, una politica liberale e moderata, comprensiva dei bisogni dei sudditi e non inficiata di « preti sino », come il Frizzi osservava criticando la politica piemontese, aveva tuttavia per la sua stessa posizione geografica interessi diversi ed opposti a quelli genovesi. Ma il Frizzi notava una più forte ragione che avrebbe dovuto spingere i Genovesi a darsi in braccio all’Austria, « perchè credevano, e non senza fondamento, che il commercio di Genova dovesse divenire molto più florido sotto l’influenza di una potenza di primo ordine ». Questa osservazione, giustissima in sè, era male adatta al caso, ed acquistava un valore ben diverso, opposto agli intendimenti filoaustriaci dello scrivente; era il riconoscimento inconsapevole delle aspirazioni genovesi, basate su necessità d’indole economica e commerciale, a far parte di una grande nazione, di una « potenza di primo ordine » che avrebbe potuto essere costituita da un’Italia unita o confederata, ma indipendente (2). (1) La necessità (li un’ unione di carattere commerciale tra la Liguria e la Lombardia era stata reciprocamente sentita durante i secoli precedenti. Basta pensare ai rapporti coi Visconti durante i secoli XIV e XV. Queste tendenze, ravvivate dalle nascenti ideologie nazionali, furono frustate costantemente dall’Austria dopo che questa ebbe preso possesso della Lombardia, in quanto era suo interesse favorire Irieste; ciò spiega le simpatie della Liguria verso la Lombardia, simpatie che si mantennero dopo il 1814 e che, ponendo la necessità della eliminazione delle frontiere, alimentarono nella nostra città l’odio verso l’Austria. Cfr. F. Borlandi. Il problema delle comunicazioni nel secolo XVIII nei suoi rapporti col Risorgimento Italiano, Pavia 1932, p. 86 e segg., e R. Ciasca, devoluzione economica della Lombardia dagli inizi del secolo XIX al 1.860, tre capitoli pubblicati nel volume del centenario della Cassa di Risparmio Milanese: Le Casse di Risparmio delle provincie Lombarde nella evoluzione economica della regione, Milano 1923, p. 345 e segg. (2) Forti tendenze unitarie si erano manifestate a Genova sulla line del secolo precedente, durante i] periodo della repubblica democratica. Ne era stata interprete A questa necessità accennava anche una relazione anonima diretta a Thaon di Revel, il 22 ottobre 1814. L’autore osservava che i Genovesi tutti « si sarebbero sottomessi volentieri a qualunque governo, purché avessero potuto fare liberamente il loro commercio, unica e sola risorsa per uno stato che non aveva un suolo da coltivare. Le passate peripezie, l’incertezza ancora di un’incerta politica, l’odio e il disprezzo che si era conciliato quell’ultimo attuale Governo Provvisorio avevano fatto sì, che la parte sana della popolazione desiderasse un governo estero, che presentasse una sufficiente forza onde farsi rispettare all’estero ed una garanzia personale nell’interno, di cui allora mancatasi totalmente » (1). Le speranze appaiono qui rivolte verso il Piemonte, dal quale si attendeva comprensione degli interessi di Genova, politica libera, forte e indipendente. Ma non tanto dal Piemonte, o da un altro piccolo stato della penisola, quanto da un’Italia unita, libera e potente, i Genovesi attendevano un sostanziale rinnovamento ed un ritorno alla floridezza passata (2). Perciò gli la stampa, soprattutto II Difensore della Libertà, Il Monitore Ligure, il Redattore Italiano e II Censore Italiano, quest’ultimo con tendenze giacobine. Cfr. A. Neri, Un giornalista della rivoluzione genovese in Illustrazione Italiana, 1887, N° 9. — A. Codignola, La giovinezza di Mazzini, p. 14. — V. Vitale, op. cit., p. 76. — V. Vitale, Un giornale della Repubblica Ligure: Il Redattore Italiano e le sue vicende, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, voi. LXI, Genova 1923. Guadagnò pertanto proseliti l’idea di una fusione cou la Cisalpina. E non soltanto la stampa, soprattutto attraverso gli articoli del Difensore della libertà, ma anche la diplomazia genovese e cisalpina se ne occuparono, avviando trattative che erano però sollecitate più da Milano che da Genova. Il Governo genovese infatti non era molto favorevole a tale corrente, poiché voleva evitare la fine della vecchia Repubblica. Quindi gli ambasciatori di Genova a Parigi, Giuseppe Bertuccioni e Luigi Lupi, manovrarono contro la progettata unione con la Cisalpina senza accorgersi di fare il giuoco della Francia- che andava preparandosi, nella Liguria, un nuovo dipartimento. Ma se questo era l’atteggiamento del governo, diverso era quello di una buona parte dei Genovesi. Il partito dell’unione metteva capo a Gaetano Porro, ministro della Cisalpina a Genova e disponeva di molti adepti e di forti mezzi finanziari. L’azione francese, attraverso l’abilità e la malafede di Talleyrand e del generale Berthier, fece andare in fumo il progetto ligure-cisalpino. Tutto il fìtto lavorio diplomatico che ferveva intorno a Genova nel 1/98 è stato messo in evidenza da' R. C.iasca, che lo illustrò con documenti inediti; v. Irai-tative per Passetto dell’Italia Settentrionale nel 1798, in Rassegna Storica del Risorgimento, 1935, fase. II, p. 174 e segg., e dello stesso autore, Relazioni diplomatiche fra la Repubblica Ligure e la Cisalpina nel 1797-1798, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, voi. LXIV 1935, p. 458 e segg. Cfr. E. Rota, Le origini del Risorgimento, voi. II p. 1120 e segg. (1) V. Vitale, Onofrio Scassi cit., doc. in appendice al cap. VI. (2) In questo senso si era espresso il Difensore della libertà nel 1798. Cfr. V. \ i-tale, Il contributo della Liguria alla concezione nazionale unitaria nelVetà napoleonica, in Rassegna Storica del Risorgimento, Voi. XII, 1933, fase. IV, p. 681. IO stessi bisogni materiali che, secondo il Frizzi, avrebbero spinto molti, appartenenti a tutti i ceti sociali, ad essere filoaustriaci, li dovevano invece necessariamente rivolgere ad ingrossare le file degli Indipendenti. Il partito aristocratico era, secondo il Frizzi, politicamente il più forte e comprendeva la nobiltà, buona parte dei possidenti e quasi tutto il basso popolo e i contadini, legati tutti ai primi, in un modo o nell’altro. È notevole questo, perchè spiega l’importanza che acquisterà l’aristocrazia genovese dopo il 1846, quando, uscendo dal suo isolamento, assumerà il compito d’esser guida e moderatrice della pubblica opinione (1). L’aristocrazia genovese aveva attraversato un lungo periodo di decadenza, accompagnato da forte denatalità-, causata dalla legge dei maggiorasela e, in genere, da quel rilassamento morale che era proprio della nobiltà ricca, egoista e svogliata della line del Settecento (2). Avendo perduto nel 1797 il potere politico, i nobili erano stati nel 1814 i più fieri sostenitori della restaurazione della vecchia Repubblica oligarchica, per la quale avrebbero voluto rinnovare la costituzione del 1576, temperata da alcune concessioni alla borghesia (3). Ma delusi nelle loro speranze ed esclusi ancora dalla vita politica, i nobili genovesi si rinchiusero sdegnosamente in un silenzio ostile al Piemonte. L’atteggiamento della nobiltà genovese di fronte alla vita politica ed agli interessi del paese è certamente travisato nel rapporto del Frizzi, per il quale tutte le situazioni si risolvono in un giuoco di egoismi e di interessi. Così i nobili poveri, (4) che hanno perduto (1) Nel secolo XVIII tra la nobiltà, troppo arrogante e chiusa in sè ed il popolo non fu certamente molta corrispondenza di interessi. P. L. Levati (I dogi di Genova dal 1746 al 1771 e vita genovese negli stessi anni. Genova 1914, p. 29) nota che verso la metà del ’700 « un grande abisso era scavato tra la nobiltà ed il popolo ». Se l’espressione è forse esagerata, tuttavia è innegabile che tutto l’atteggiamento della nobiltà genovese nell’800 fu più favorevolmente disposto a studiare ed a curare gli interessi del popolo, scendendo volontariamente verso di esso. Il fatto del resto è caratteristico di tutta l’Italia, dopo la Restaurazione. (2) Significativo a questo proposito è questo brano di lettera di Giov. Francesco Dori a, dell’8 nov. 1747: Il Do ri a notava che i nobili erano così pochi che, essendo divenute per loro sicure le cariche pubbliche, non le ricercavano, anzi le evitavano « ed essendo ciascheduno sicuro di ottenere un Magistrato tra gli pri-marj, veniva a stimarlo sì poco, che quasi si credeva in diritto di essere ringraziato, se lo accettava, anzi la toga senatoria già tanto ambita, non trovava oramai clii più la volesse vestire ». (Cit. da Levati, op, cit., p. 106). (3) V. Vitale, Onofrio Scassi; p. 214. (4) Nella seconda metà del secolo XVIII un partito desideroso di novità e di riforme era costituito dai nobili poveri, molti dei quali avevano perduto l’impiego 17 gli impieghi nel banco di 8. Giorgio e in altri pubblici istituti, sono « cattivissimi » e disposti a darsi a chi li paga meglio. E la nobiltà in genere, che ha ricevuto un’educazione assai diversa da quella antica, non ha più la « maschia fierezza » degli avi. Di fronte a queste osservazioni che risentono del punto di vista unilaterale di chi le faceva, mi par sia da mettere in evidenza la posizione morale di quell’aristocrazia che, dopo la bufera rivoluzionaria e l’agitato periodo .napoleonico, era cereamente cambiata e rinnovata nel suo intimo. Il governo aristocratico di Genova, allo scoppio della Rivoluzione francese, si era trovato in questa singolare ed insostenibile situazione: cercar di salvare l’indipendenza politica e l’oligarchia repubblicana, senza inimicarsi la Francia rivoluzionària e giacobina con la quale la città era legata da forti interessi commerciali (1). E per questo, e per timore di peggio e per antipatia istintiva verso il Piemonte, non volle allearsi col pericoloso vicino e preferì, con le sole sue forze e attraverso un compromesso, giuocare la sua carta in mezzo al turbinare delle vicende europee. Impossibile, assurda, la pretesa dell’aristocrazia che non vuol cedere nè alla democrazia giacobina nè alla proposta di alleanza fatta dal Piemonte nel 1791 (2); antistorica la sua pretesa di salvare con sè stessa l’indipendenza della Repubblica; tuttavia mi par nobile e generoso, indice di un rinnovato amor patrio che forse nell’orgoglio di casta si era mantenuto pur attraverso la decadenza dei costumi, il fatto ch’essa non si sia piegata ad unire i suoi interessi a quelli del Piemonte, dimostrando così di saper morire senza tradire la patria ed i suoi seco- dopo l’occupazione francese della Corsica ed erano perciò assai malcontenti. Essi costituivano una classe di spostati turbolenti e, dopo la rivoluzione francese, francofili; alcuni, come Gian Carlo Serra, « le jacobin » e Agostino Pareto, il « Robespierre genovese » ebbero parte notevole nella rivoluzione genovese del ’97. Cfr. M. Ruini, Luigi Corvetto cit., p. 26 e segg., e V. Vitale, Onofrio Scansi cit. p. 16 e segg. (1) Cfr. C. Spellanzon, op, cit., voi. I, p. 112. — V. Vitale op. cit., p. 32. P. Nurra, La coalizione europea contro la Repubblica di Genova (1793-1796), in Atti della Società Ligure di Storia Patria voi. LXII, 1933 p. 23. (2) La proposta fatta nel 1791 da Vittorio Amedeo III su progetto del conte Francesco Galeani Napione era rivolta a tutti gli stati italiani e riguardava una Lega Italica destinata a favorire il commercio interno, quello col Levante ed insieme a fronteggiare la situazione europea. La proposta fu respinta da tutti gli stati, timorosi di un primato piemontese, eccetto che dal Re di Napoli. Undici anni prima, con carattere meno politico che commerciale, il Napione aveva progettato una confederazione simile, nello stesso tempo che il Filangeri la proponeva nella sua Scienza della Legislazione. Cfr. R. Ciasca, L’origine ecc., p. 142 sgg., e C. Calcaterra, Il nostro imminente Risorgimento, Torino 1935, p. 627 sgg. e passim. 2 18 lari princìpi (1). Forse in quegli anni torbidi di fermento e di sangue il lato migliore del carattere .dell’aristocrazia genovese si manifestò: scossa dal torpore, essa cessò di vivere del suo passato; cacciata in esilio, riaccolta in Genova dopo il trionfo di Napoleone (2), vi tornò con sentimenti nuovi, con una nuova e più virile dignità; conscia delle sventure della patria e forse della propria responsabilità, nell’atto stesso che la patria moriva, la nobiltà genovese le innalzò un altare nell’intimo della sua coscienza. Di fronte al dominatore straniero, che accolto come un liberatore dalla borghesia, e avversato dal popolino bigotto e ignorante e dai nobili (3), aveva finito per scontentare tutti, le classi sociali si avvicinarono. L’abisso che cinquantanni prima le separava, stava per essere colmato. Forse, nel momento in cui la fine della Repubblica veniva ufficialmente sanzionata, per la seconda volta, con un atto del Congresso di Vienna, i Genovesi avevano trovato la loro unità spirituale. Perciò mi par errata l’affermazione del Frizzi che la nobiltà genovese avesse perduta la sua « maschia fierezza ». Anzi, direi che, ricca di esperienza nuova, agitata da tante passioni, delusa per la perdita della forza politica, essa conservò nel suo dignitoso silenzio le migliori tradizioni e nel tempo stesso seppe prepararsi ai tempi nuovi; quando infatti giunse il giorno dell’azione essa fu in grado di riprendere il suo antico posto e di rinnovare la sua importanza politica con scopi nuovi, nel quadro del Risorgimento nazionale. Il partito democratico era composto dei negozianti e dei loro dipendenti, dei medici, chirurghi, farmacisti, letterati e di una buona parte di avvocati. « Nel tempo dell’antica repubblica di Genova » notava il Frizzi « la Classe dei Negozianti era poco o nulla considerata, quantunque la primaria Nobiltà stessa o sotto il proprio nome o sotto un nome supposto in accomandita esercitasse essa pure il commercio. Un Negoziante, per quanto ricco egli fosse, era ancor meno stimato di un Nobile miserabile; da ciò ne nacque quelFodio accerrimo (sic) che ha sempre sussistito fra queste due classi, e vissero in continue turbolenze, e da quell’odio ebbe origine la rivoluzione di Genova. Dopo questa rivoluzione le cose cambiarono d’aspetto, (1) È vero che la nobiltà, per ragioni ideologiche e per i'suoi interessi in Lombardia era favorevole alla coalizione antifrancese (Cfr. V. Vitale, op. cit., p. 18). Non è men vero tnttavia eh’essa non si risolse ad entrare in queirallean-za e separò di fatto le sue* sorti da quelle dei coalizzati. (2) C. Speli.anzon op. cit., voi. I, p. 286. (3) C. Spellaxzox op. cit., voi. I, p. 160. Ì0 f» la Classe (Commerciante divenne anch’essa in maggior considerazione. I più accreditati presso il popolo furono anche rivestiti delle primarie magistrature ». Dopo la Restaurazione, i negozianti, già tanto influenti e stimati, furono trascurati da Vittorio Emanuele I. Essi perciò furono furiosamente antipiemontesi, e pronti ad afferrare ogni occasione per liberarsi da quella soggezione. Secondo il Frizzi, un govèrno che avesse promesso loro di restituirli all’importanza che avevano prima, avrebbe potuto acquistare la loro simpatia e quella di tutto il partito democratico. È notevole poi il fatto che questo partito democratico, formato di elementi tanto diversi, non aveva nulla a che vedere con il popolo, che era invece unito per simpatia e per interessi alla nobiltà. Cioè la democrazia genovese risentiva ancora dell’influenza dell’illuminismo, delle ideologie e della cultura del secolo precedente. Più pericolosi erano secondo il Frizzi i bonapartisti e gli indipendenti che nella maggior parte erano avvocati, procuratori, giudici, notai, impiegati ed ex-impiegati o appartenenti alla marina. Essi « non avevano una diretta influenza sul Popolo, tuttavia avrebbero potuto sempre agitarlo ». Ora qui torna opportuno ripetere col Vitale (1) che gli indipendenti « erano, a Genova, coloro che dalle prove e dagli sconvolgimenti dell’agitato periodo avevano ricavato lo spirito d’indipendenza non tanto dagli altri stati vicini, più geloso e profondo nei repubblicani aristocratici, quanto dagli elementi stranieri. Erano appunto quegli intellettuali e borghesi che il movimento rivoluzionario aveva elevato alla vita politica e alla coscienza della nazionalità: essi intendevano l’indipendenza, più che nel significato ristretto della vecchia aristocrazia, con un sentimento nuovo per il quale, anche nella speranza di più agevole esercizio delle professioni liberali, non erano, tra il ’l-I e il ’15, assolutamente avversi all’unione col Piemonte come avviamento a un più grande stato, possibilmente repubblicano. Tutti coloro che la polizia sarda dava come pessimi e napoleonisti, dal Frizzi erano indicati appartenenti al partito dell’indipendenza; basta ricardare tra i medici, con Onofrio Scassi il Mongiardini: Giacomo Mazzini, il Vaccarezza, il De Albertis, il Bonomi, Benedetto Mojon, Andrea Repetto, il capo delle società segrete ». Esisteva cioè a Genova un partito nazionale, che considerava l’unione al Piemonte come primo passo verso l’unità italiana (2). (1) V. Vitale op. cit., p. 227. (2) Cfr., oltre all’opera cit., Mazzini, Scritti, S. E. T. VII, p. 173; il Mazzini (lice clie la sua famiglia considerò coinè « provvidenziale » l'anione della 20 Questo partito era composto della parte più moderata ed intelligente tra gli indipendenti, da coloro che, nell’unione al Piemonte, vedevano l’attuazione del programma minimo delle loro aspirazioni nazionali. Erano d’accordo con i radicali sul line ma dissentivano quanto ai mezzi. Chi volesse poi avere conoscenza diretta dei cittadini genovesi che, in un modo o nell’altro, attiravano l’attenzione del governo piemontese nei primi anni dell’annessione, ed anche prima della sua proclamazione ufficiale, può servirsi di tre elenchi di nomi compilati tra il 1814 ed il 1818. Il primo, dell’ottobre del 1814, anonimo, indirizzato al conte Yidua ministro degli interni, contiene i nomi di coloro che potevano essere assunti a cariche governative, ed è limitato ad alcuni membri del precedente governo, ai capi militari e ai nobili proprietari di terra, mentre vi è quasi esclusa la borghesia intellettuale e capitalista (1). L’altro, del 1815, contiene l’elenco « dei buoni » e dei « cattivi » a Genova e nelle due Piviere (2). I « buoni », cioè coloro che sono giudicati favorevoli al nuovo stato di cose, soprattutto per non aver partecipato, nella maggior parte, al passato governo, per essere religiosi e alieni dalle turbolenze, sono, in Genova, in numero di 329, contro 362 « cattivi », cioè napoleonisti o indipendenti o democratici, membri del passato governo o comunque palesemente avversi al Piemonte. I primi sono quasi tutti nobili, possidenti, mediatori, parecchi negozianti, speziali, giudici, alcuni avvocati, chirurghi, notai, pochi medici. 1 secondi nella maggior parte sono avvocati, procuratori, medici, mediatori, chirurghi, parecchi preti, pochi nobili e proprietari. Questi « cattivi » sono quasi tutti definiti liberi muratori, napoleonistiy intriganti, alcuni sono accusati di appartenere al « partito italiano » e i preti al giansenismo (3). È notevole che nelle due Riviere Liguria al Piemonte. Vedi per questo A. Codignola, La giovinezza di Mazzini, p. 16. — A. Luzio, La Madre di Mazzini, Torino 1919, p. 227. — F. L. MannuCCI, G. Mazzini, e la prima fase del suo pensiero letterario, Milano 1919, p. 35. (1) Pubblicato in V. Vitale, Informazioni di Polizia sull’ambiente Ligure, cit. (2) Informazioni di Polizia sull’ambiente genovese e delle due Riviere (Archivio Vailesa, quaderni), pubblicato in A. Segre, op. cit., appendice III. (3) Fra essi Eustacchio Degola è definito: prete giansenista, cattivo, gran nemico della corte di Roma. Il giansenismo era andato sviluppandosi in Liguria negli ultimi decenni del secolo XVIII e aveva cominciato a dentare le preoccupazioni del governo della Repubblica nel 1788 in seguito ad alcune tesi teologiche sostenute nel seminario arcivescovile di Genova contro il véscovo di Pistoia e pubblicate da Gian Battista Lambruschini prevosto di S. Maria delle Vigne. Sebbene perseguitato, il gian- 21 all’aggettivo « probo » si accompagna quasi sempre quello di « religioso » qualità clie non è messa in evidenza per i « buoni » di Genova. È stato fatto notare che la stessa città di Savona, per rivalità ed interessi diversi sfavorevole a Genova e quindi, nell’estimazione di Vittorio Emanuele, piuttosto propensa a casa Savoia, offre, su 40 nomi riportati dall’elenco, un numero assai limitato (19) favorevole al nuovo stato di cose (1). Il terzo elenco è ancora del Frizzi (2): Egli passa in rassegna tutti i notabili, dice die i nobili sono nella maggior parte propensi all’antica Repubblica oligarchica, e pochi di essi napoleonisti. Uno solo, il marchese G. B. Carrega, è favorevole al Re di Sardegna. Gli avvocati, i banchieri, i commercianti appartengono agli Indipendenti . Abbiamo finora esaminato, sulle basi dei citati rapporti, quale fosse la divisione dei partiti e delle tendenze in Genova al momento della sua annessione al Piemonte. Riassumendo, possiamo dire che la maggior parte della nobiltà era considerata dal Governo come adatta ad essere impiegata in cariche pubbliche, e con onorificenze e riguardi compensata della perduta forza politica. Essa tuttavia fu poco favorevole a questo compromesso, e ben presto si appartò ostentando indifferenza e disprezzo. La borghesia, mal giudicata e trascurata, fu messa nelle condizioni di accrescere i! proprio malcontento contro il nuovo soniamo in Genova era andato sviluppandosi e le sue tendenze riformatrici avevano acquistato forse più.'ohe altrove, tinte fortemente politiche e sociali. Dopo il *97 il trionfo della democrazia in Genova aveva determinato quello del giansenismo. È naturale quindi che le dottrine giansenistiche fossero temute e combattute dal governo restauratore di Vittorio Emanuele; tanto più in quanto il giansenismo ligure si innestava alla tradizione d’indipendenza e d’insofferenza ad ogni forma di coercizione esteriore propria dello spirito genovese. Fra coloro che ebbero occasione di occuparsi del giansenismo ligure v.: N. Rodolico, Gli amici e i tempi di Scipione de1 Ricci, Firenze 1920, pp. 56, 190, 191. — A. Gazier, Ristoire générale dii mouvement jansèniste, Paris, 1922, voi. II. — A. Parisi, I riflessi del giansenismo nella letteratura italiana, Catania 1919, voi. I, ]). 212. — F. L. Mannuci, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario, cit., pp. 28-29. Si occupò particolarmente del giansenismo ligure P. Nurra, in un lungo articolo nel Giornale storico e letterario della Liguria, 1926, fase. I: Il giansenismo ligure alla fine del secolo XVIII. Per la storia del movimento giansenista dal punto di vista dottrinale in Italia v.: A. C. Iemolo, Il giansenismo in Italia prima della rivoluzione, Bari, 1928, ed F. Ruffixi, La vita religiosa di Alessandro Manzoni, Bari 1931. (1) A. Segre,* op. cit., p. 63. (2) Quadro caratteristico dei principali individui dello Stato ligure, M. S. R. N. di Genova, N° 3324. Copia tratta dell’Arch. di Stato di Milano, in Bornate op. cit,, p. 343, e pubblicato da V. Vitale, Informazioni di polizia sull'ambiente ligure, cit. governo e di alimentare in se i germi di una seria opposizione (1). Il popolino, legato piuttosto alla nobiltà, subiva tuttavia in parte l’influenza- degli spiriti più esaltati del partito democratico. Un altro elemento notevole era il clero, che se da un lato vedeva di buon occhio un governo a se favorevole, tuttavia era contrario al ristabilimento delle corporazioni religiose e soprattutto dei Gesuiti (2). Ciò è notevole, perchè può spiegare come Genova, città profondamente religiosa, abbia potuto odiare quelFordine fino a cacciarlo nel 1848 con la violenza; e spiega ancora la partecipazione del clero genovese ai moti dell’aprile 1841). Esaminiamo ora quale fosse, al di là dei partiti, Patteggiamento generale dei Genovesi di fronte alla nuova dominazione, in base agli interessi, materiali e spirituali, che potevano essere colpiti o favoriti. Politicamente, esisteva a Genova una tradizione di indipendenza e di opposizione contro ogni forma di governo monarchico assoluto, che, aggiunta all’avversione antica verso il Piemonte, non poteva certamente favorire un accordo sincero con questo. Inoltre i Genovesi, negli anni torbidi della Rivoluzione e delPImpero, erano usciti dal loro isolamento, si erano maggiormente aperti alla cultura, avevano fondate scuole ed accademie. Ora si sentivano superiori, moralmente ed intellettualmente, ai Piemontesi, giudicati rozzi e ignoranti; e questa superiorità fu più volte messa in evidenza ed ostentata, sia pur velatamente, anche negli anni prossimi al ’48, negli ambienti intellettuali genovesi. L amore per la casa regnante poi, così vivo in Piemonte, non poteva essere sentito a Genova, ed anzi, date le tendenze democratiche di questa, doveva essere considerato come indice di mentalità inferiore (3). Ma altii interessi, di ordine pratico, vennero colpiti e compromessi dall annessione al Piemonte. Una lettera del console svizzero 1p « ^ ^ vel ceicò di guadagnarsi il favore anche della borghesia, ma data or» oh r6Voe Poe™aneuza in Genova, il suo tentativo fu senza successo. Cfr. V. Vitale, C1I/.J p.Z oZ. ^ Frizzi> Apporto »opra l'attuale polìtica del ducato di Genova. intomn. i fICCI>. '' fuh'm ministro degli interni, osservava, probabilmente siM nji'i t ’V- 8 la?i°n' di dissidio tra Piemonte e Liguria stavano nelle «animo-“° antlcamente olti usi, nn sentimento di sudditanza illi-C. » {Appuntipolitici, ms. s. d., in M. S. R. N. di Genova, carte Ricci, N° 2780)* 23 a Genova, diretta a Gerolamo Serra, presidente del Governo Provvisorio, che ufficialmente aveva comunicato a tutte le potenze l’avvenuta annessione, contribuisce a chiarire, di riflesso, qual fosse lo stato d’animo dei Genovesi di fronte al fatto compiuto (1). E una vera e propria lettera di condoglianze, tanto più sinceramente sentite, in quanto la Svizzera, per ragioni commerciali, condivideva gli stessi timori di Genova. In una sua lettera precedente, del 27 aprile 1814, diretta al presidente della Dieta .di Zurigo, il console insisteva sopra le ripercussioni di carattere commerciale che i Genovesi temevano da un possibile mutamento politico. E in un’altra del 14 maggio, diretta allo stesso, metteva in evidenza l’interesse della Svizzera a che fossero mantenute le decisioni del governo provvisorio instaurato da lord Bentinck. Il Governo Provvisorio infatti aveva ristabilito l’antico Porto Franco con tutte le prerogative di transito, sia per mare che per terra, e aveva rinnovato le antiche tariffe di entrata e di consumo in Genova e nello stato, atte a facilitare il commercio, soprattutto quello di transito e di riesportazione. La Svizzera sperava che gli stati limitrofi e soprattutto il Piemonte adottassero uguali misure commerciali, ispirate al criterio della libertà di transito. Ciò avrebbe corrisposto perfettamente agli interessi commerciali di Genova, la quale, per la sua posizione geografica e per adeguarsi, allo sviluppo del commercio europeo aspirava, fin dal secolo precedente, ad assicurarsi un ampio entroterra verso il Piemonte, la Lombardia, la Svizzera e la Germania occidentale. Ora esaminiamo brevemente quali erano state le principali necessità d’ordine commerciale che avevano in gran parte orientata la politica estera di Genova nella seconda metà del secolo XVIII. Xel 1745 la Repubblica aveva tentato di rinnovare i traffici col Levante (2); ma essi non potevano più bastarle, nè il suo porto poteva (1) Carteggio del concole svizzero a Genova riguardante i cambiamenti di Governo nel 1814, in M. S. R. N. di Genova, carte Ricci N° 3615. (2) Genova rinnovò infatti sotto gli auspici della Francia, quel trattato di commercio già concluso nel 1665 con la Porta Ottomana, che, sia per l’ostilità di Luigi XIV, geloso custode della supremazia francese, sia peri contrasti col sultano, non aveva avuto alcun seguito. Il trattato del 1745, che permetteva libertà di commercio alle navi genovesi in tutti i porti della Turchia, la fondazione in essi di consolati, e condizioni di uguaglianza rispetto alla Francia e airoianda, era destinato a rinnovare il commercio orientale genovese. Cfr. F. Donaver., La Storia della Repubblica di Genova, Genova, 1913, voi. II, p. 302 e segg. Per quanto riguarda le circostanze in cui fu concluso il trattato del 1665 e per il suo cattivo esito cfr. Onorato Pastine, La politica dì Genova nella lotta veneto-turca dalla guerra di Candia alla pace di Passarowitz, in Atti della R. Deputazione di Storia Patria per la Liguria, voi. Ili (LXVII della raccolta), 1938, p. 102 e passim, 24 continuare ad essere l’emporio dei grani e dei coloniali per tutta l’Europa, perche il commercio stava avviandosi ormai a forme dirette tra il produttore ed il consumatore (1). Il trattato concluso con la Turchia in quell’anno avrebbe dovuto, per acquistar valore, determinare una doppia corrente di importazione e di esportazione con quello stato, e per questo Genova avrebbe avuto bisogno di uscire dal suo isolamento per diventare il porto della Lombardia e del Piemonte. Ma come conciliare una tale necessità con la indipendenza politica? A un’unione, sia pur di carattere doganale, col Piemonte, contrastavano l’antica avversione ed il timore, del resto fondato, di mire territoriali di casa Savoia sopra la Repubblica di Genova. Perche se questa aveva bisogno di un sicuro e vasto entroterra, non meno il Piemonte aspirava al i>ossesso im porto col quale le comunicazioni fossero più facili e sicure clie non con quello di Nizza (2) al quale si accedeva per il Col di Tenda, impraticabile per otto mesi dell’anno. La pace d’A qui sgrana del 1748 aveva precluso anche in gran parte il transito per la Lombardia. Infatti il Piemonte aveva acquistato Vigevano, Voghera e l’alto Novarese, ed il Ducato di Parma e Piacenza era stato staccato dalla Lombardia ed assegnato all’infante Don Filippo di Borbone. Nè d’altra parte il Govèrno austriaco era disposto a favorire il commercio con la Liguria, preferendo la via assai più lunga e malagevole di Trieste, porto prediletto dell’impero. Erano così ostacolati gli stessi interessi dei Lombardi che avrebbero di gran lunga preferito Venezia, o, meglio, Genova (3). Così gli interessi della Repubblica urtavano da un lato contro la propria diffidenza verso il Piemonte, dall’altro contro la politica commerciale dell’impero austriaco; ne risultò il riliuto opposto contemporaneamente da Genova e da Vienna alla già accennata proposta fatta nel 1791 da Vittorio Amedeo III per una lega Italica. Il bisogno di un entroterra che non pregiudicasse però affatto l’indipendenza della Repubblica era tuttavia così urgente che nel 1768 venne concluso un trattato fra Genova e il Ducato di Parma e Piacenza ove il Du Tillot si adoperava, sull’esempio della Francia, a promuovere nuove industrie, come quelle dei panni, delle tele, delle paste, che richiedevano uno sbocco al (1) M. Cevasco, Statistique de la ville de Génes, Genova 1840, voi. I, p. 77. (2) G. Prato, Le vie del transito commerciale in Piemonte nell’epoca pre-ferroviaria, in Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, voi. LVII, 1921-1922, pàg. 170. (3) E. Rota, L’Austria in Lombardia e la preparazione del movimento democratico cisalpino, Milano 1911, p. 113, 25 maro (1). Genova divenne perciò il porto di quello Stato, ma le pessime condizioni di viabilità dovevano necessariamente influire sopra lo sviluppo dei traffici. Infatti la via di Bobbio e di Ottone, la più diretta, non era ancora costruita (2), e la via per Voghera, Tortona, Novi, passava in territorio piemontese. Genova era dunque soffocata tra le sue montagne ed il mare, nè da questo poteva più trarre abbondanti ricchezze come un tempo, dacché la concorrenza straniera e il pericolo della pirateria le avevano tolto ogni libertà. In quanto all’industria essa era, come ovunque, vincolata alle corporazioni, le quali tuttavia non dovevano essere molto nocive se potevano fiorire le fabbriche di tessuti, velluti, rasi, carta die ancora si esportavano in Spagna e si cominciavano ad esportare nell’Europa del nord, specialmente in Olanda (3). Del resto, data la tendenza alle speculazioni individuali e quindi alla sfrenata concorrenza propria dei ceti mercantili e industriali genovesi, le corporazioni costituivano un vincolo e un fattore d’ordine, tanto che il Cevasco deplorava nel 1840 i cattivi effetti provocati a-Geiiova dalla loro abolizione (4). Perciò non si può parlare di una vera e propria decadenza (1) A. Segre, Manuale di storia del commercio, Torino 1915, voi. I, p. 427. (2) La cominciarono i Francesi nel 1809, e intorno al 1847 non era ancora finita. Cfr. L. De Bartolomeis, Notizie topografiche e statistiche sugli Stati Sardi, libro II, voi. IV, parte II, 1847, pp. 1358-59. Per tutte le citazioni di quest’opera mi riferisco al volume indicato. (3) C. Spellanzon, op. cit., voi. I, p. 27. (4) Stotistique de la ville de Génes, voi. I, p. 282. Il Cevasco osservava che gli speculatori approfittarono della nuova libertà per i loro affari, senza curarsi del bene pubblico, e che il popolo, disorganizzato, si andava corrompendo. A p. 284 in nota osservava: « Gènes a besoin de ses corporations, depouiUèes, bien en-tendue, de leni* vieilles attributions, et reglées sur une organisation nonvelle qui soit en harmonie avec les lumiers, et les connaissances du siècle on nous vivons ». Veramente le corporazioni, nell’epoca in cui il Cevasco scriveva, non erano ancor state abolite. Erano stati soltanto soppressi alcuni obblighi che impacciavano l'esercizio delle arti. Così con Manifesto Consolare 28 marzo 1838 era stato abolito l’obbligo della presentazione del capo d'opera, o saggio, per coloro che aspirassero a divenir padroni d’arte. Le corporazioni, soppresse dai Francesi, erano state ripristinate con una serie di provvedimenti tra il 1814 ed il 1816. Fra i principali notiamo: il Manifesto del Consolato di S. M. sui cambi, negozi ed arti in Torino sedente, in data 10 agosto 1814 (citato dal Segre, op. cit., voi. II, p. 269), che richiamava all’osservanza delle leggi relative all’università delle arti, in base agli ordinamenti anteriori al 1798 e riconfermava le cariche dei sindaci e dei consoli delle varie arti; il Manifesto del Consolato del 24 aprile 1815, ordinante la ripubblicazione dei Manifesti degli 8 aprile 1724 e 10 aprile 1727 circa le regole per la filatura ed i filatoi; a Genova un Manifesto degli Edili del 5 gennaio 1816 richiamava i padroni di bottega aH’obbligo di attenersi ai regolamenti rinnovati dai Padri del Comune ed ingiungeva ai consoli delle arti di curarne l’osservanza, rjientre una delegazione appositamente incaricata pubblicava il 17 gennaio dello del commercio e dell’industria genovese nel secolo XVIII, anzi può essere notata la tendenza ad un rinnovamento. Ma questa tendenza ad un rinnovamento della quale è segno la fondazione, avvenuta nel 1786, di una Società Patria delle Arti e Manifatture, clic ebbe ad affermare per la prima volta in Genova teorie liberisticlic (1), avrebbe dovuto essere sorretta da una corrispondente forza politica e militare che la vecchia Repubblica non aveva, tanto che le sue navi venivano impunemente insultate nel Mediterraneo da Inglesi e barbareschi (2). Appoggiandosi ad una grande potenza, che le assicurasse il rispetto della bandiera mercantile e facilità di scambi, Genova avrebbe visto rifiorire i suoi commerci, ed avrebbe potuto sperare in un ritorno all’antica floridezza. Tali speranze furono alimentate nei primi anni della dominazione francese; ma ben presto furono soffocate dal persistere delle guerre napoleoniche e dal blocco continentale (3). Quando,-nel giugno del 1805, il doge Gerolamo Durazzo si recò a Milano a capo d’una delegazione genovese per offrire a Napoleone la signoria della città, espose, quasi compenso dell’annessione, varie richieste: tra l’altro, che fossero favoriti l’esportazione e lo smercio dei prodotti liguri, che, nell’applicazione delle imposte, si tenesse conto della sterilità del territorio, e che fossero abolite le barriere doganali fra la Liguria e l’impero (4). Le barriere furono di fatto abolite, ma ciò non portò nessun giovamento alle industrie e allo smercio dei prodotti genovesi. In quanto al fisco, furono imposte tasse, dazi, divieti, gravami d’ogni sorta (5); evidentemente, Napoleone più che preoccuparsi della sterilità del territorio intendeva sfruttare la ricchezza dei suoi abitanti. Consideriamo quale sia stata l’esperienza del libero scambio a Genova e in Italia sotto il regime napoleonico. Tolte le barriere doganali, pareva che le teorie dei nostri economisti del ’700 dovessero tradursi * stesso anno un Manifesto relativo all’arte (lei barcaioli. Sotto il regno di Car- lo Alberto le corporazioni continuarono a funzionare, sebbene attenuate mediante parziali riforme, tincliè, con Lettere Patenti 14 agosto 1844 furono soppresse del tutto. Cfr. C. Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea (1750-1850), Perugia-Venezia 1930 voi. II, p. 253). Tuttavia non poclie furono le eccezioni a quel provvedimento; a Genova, per esempio, restò ancora per lunghi anni in vigore la corporazione dei caravana, che tuttfoggi gode di alcuni privilegi. (1) Cfr. A. Balletti, L*economìa politica nelle accademie e ne’ congressi degli scienziati (1750-1850), Modena 1891, pp. 26-29. (2) F. Borlandi, op. cit., p. 225. (3) M. Ruini, op. cit. p. 51. (4) C. Migli, La consulta cki Mercanti genovesi, Genova, 1928 p. 54, (5) C. Migli, op. cit. p. 55. 27 in realtà, e dare i loro buoni risultati. Accadde invece questo, die la Francia, industrialmente più attrezzata, e favorita da opportune disposizioni, riversò i suoi prodotti in Italia, ostacolando ed arrestando la nostra industria (1). In quanto alla Liguria, essa aveva bisogno, come abbiamo visto, di un vasto entroterra, che doveva essere essenzialmente quello lombardo. Unita invece alla Francia, essa si trovò nella impossibilità di sostenere la concorrenza di Marsiglia riguardo al commercio di transito verso il Lionese. La navigazione fu resa impossibile dal blocco, le poche industrie genovesi non ressero di fronte allo sviluppo df quelle francesi che si andavano artificiosamente creando. Quindi il commercio languì, l’industria decadde, mentre le tasse crescevano e la camera di Commercio, creata da Napoleone, non era ascoltata, anzi invitata a non pubblicare scritti e memorie perchè ciò « implicava un appello alla pubblica opinione e non già alPautorità costituita» (2). Tale fu Pesperienza genovese del libero scambio sotto il regime napoleonico. L’orgoglio della nobiltà doveva piegare assai a malincuore di fronte a chi l’apprezzava soltanto come fonte di ricchezza a cui attingere abbondantemente (3). E con non minor dolore dovevano guardare i commercianti ed i naviganti alla rovina dei loro traffici, ai sacrifici imposti per sostenere le folli aspirazioni di un uomo, che era stato accolto come un liberatore. La tradizionale prudenza dei Genovesi non poteva certamente giustificarle! Non si può negare tuttavia che il governo napoleonico abbia apportato alcjmi notevoli vantaggi alla città di Genova. Le aspirazioni dei democratici genovesi furono soddisfatte, con la creazione di una guardia nazionale (4); i nobili furono richiamati nel 1800 ed ebbero restituiti i beni, gravati però da una tassa del 15 °/0 ad valorem (5); alle necessità finanziarie si pensò con la ricostituzione del Banco S. Giorgio (6), e a quelle del commercio con la conservazione del Porto Franco e la creazione di un Tribunale e di una Camera di Commercio (7): Anche all’istruzione pubblica pensò Napoleone, che nel 1805 riorganizzava l’Università di Genova e nel (1) F. Borlandi, op. cit. ]). 130. Sulla necessità per la Francia di non crearsi una pericolosa concorrente in Italia v. E. Tarlé Le Wocué Continental et le royanme d’Italie (Paris 1931) p. 211-2. (2) C. Mioli, La consulta dei Mercanti genovesi, p. 61. (3) V. Vitale, Onofrio Scassi ecc., p. 30. (4) C. Spellanzon, op. cit. p. 160. (5) C. Spellanzon, op. cit. p. 286. (6) C. Spellanzon, op. cit, p. 286. (7) C. Mioli, op. cit. p. 54. \ 28 1808 fondava un Liceo (1). A questi benefìcii bisogna aggiungere l’incremento dato allo sviluppo delle comunicazioni, lo quali tuttavia rispondevano piuttosto ad un criterio strategico che a necessità commerciali. Tali benefìcii, se non sortirono immediati effètti per essere stati neutralizzati dagli altri fattori ai quali abbiamo accennato, lasciarono tuttavia le basi per sviluppi nuovi e notevoli. Soprattutto la creazione della Camera di Commercio (2) che tanta importanza acquistò dopo il 1815 come interprete dei bisogni e dei desideri della città, e la costruzione di importanti vie per il traffico lungo la costa e oltre VAppennino (3), ed infine un* sentimento nuovo di coscienza civica e di dignità che la borghesia andò acquistando, rappresentano tutti fatti di indiscutibile importanza per il futuro svolgimento della vita genovese e per la formazione di una pubblica opinione, che può manifestarsi soltanto laddove il tenor di vita sia alto ed esistano istituzioni che la rappresentino. In quanto all’industria genovese, essa era, sulla fine del secolo X\ III, prevalentemente artigiana e produceva manufatti a buon prezzo ma di mediocre qualità; aveva bisogno di svilupparsi e di affermarsi contro la concorrenza straniera e di trovare sbocchi adeguati (4). L’industria e il commercio genovese arrivarono dunque (1) V. Vitale, op cit. p. 135. «r i Camera di Coiinnercio fu creata con ordinanza 28 pratile-XIII (17 gin- ?n.° ° ^ov> Battista de Champigny, ministro dell’interno. Doveva costi- in e coinè 1 anello di congiunzione fra il governo e la classe mercantile genovese, onipreme-xa 15 membri, scelti fra i principali rappresentanti di essa. (Cfr. Mioli, op. cit., p. 43 e segg.). lo n (3)- Fra le strade napoleoniche che più interessano Genova, oltre quella delia Cornice,-cominciata nel 1812 e non finita, è da ricordare la strada per Bobbio 4 ctuza’ c°niinciata nel 1809, non terminata, la cui costruzione corrispondeva f,1. 111 eiessi ‘1( 1 commercio ligure verso il Ducato di Parma e Piacenza, ai quali imo accennato. Altre vie aperte o riattivate, o iniziate, furono quella che da , "0'^, traVerS0 n Lantaret, doveva condurre a Lione, la Alessandria-Savona ^()Secuzio"° ^ lavori già iniziati dalla vecchia Repubblica, la via per Spe-i • j. «. a' e^na* J,x ' *a dei Giovi venne ampliata, e le comunicazioni transalpine faci-: COn api ituia dei passi del Sempione e del Monccnisio. Ma in generale pos- 1 r ifr°SS( ° 10 ^ problema delle comunicazioni, almeno per quel che riguarda inf-.fr n’ l,IM^os^° ehe risolto, soltanto posto in evidenza dai Francesi. Molti 1 uron° 1 progetti, tra i quali sono da ricordare quelli riguardanti l'unione, nrtana ^ ^ar Ligure con l’Adriatico attraverso il Po. Di questo fìnrOià ' v’ '^aill<."n ( co OSHale, si occupò, dopo il 1815, anche il governo piemontese, notisrip v!T' 1^az^ne s apore alle ferrovie gli tolse ogni valore. Per tutte queste . . , ' 1<),SS^ vie di comunicazione della Liguria e la loro funzione sto-F Rn . S°cietà àrtica di Scienze e Lettere», voi. XI, fase. IV. - F-BoKi Axm op. c,t., p 133. _ L. Dk Bartolomels, op. cit. p.p. 1026 e 1357. ( ) Fra le principali industrie genovesi del secolo XVIII dobbiamo notare quel- / 29 alla lino del l’indipendenza ligure conservando in gran parte i resti della loro importanza; tuttavia le condizioni dell’Europa moderna erano tali da imporre nuove soluzioni all’attività genovese. L’annessione della Liguria al Piemonte presentava perciò a quest’ultimo la necessità di risolvere problemi complessi, di carattere morale, economico, industriale e commerciale nei confronti dello stato di nuovo acquisto. Tale soluzione richiedeva naturalmente una conciliazione ed un compromesso con gli interessi continentali, agricoli e commerciali del Piemonte e con le tradizioni della politica sabauda ed il particolare spirito reazionario del governo restaurato di Vittorio Emanuele I. L’opinione pubblica genovese nel 1&L4 si era decisamente orientata verso forme costituzionali, con tendenze democratiche, tanto che il Governo Provvisorio costituitosi nell’aprile rappresentò un temperamento tra le aspirazioni oligarchiche di chi avrebbe voluto rinnovata la costituzione del 1576 e quelle della borghesia che sotto il governo napoleonico aveva acquistato importanza politica (1). Il la dei tessuti di cotone, la quale, snlla fìue del secolo, contava 20 fabbriche i cui manufatti erano esportati in Toscana, negli Stati Pontificii, in Ispagna, in Corsica ed in Sardegna. Genova era un emporio notevole di merci di cotone, sia di fabbricazione nazionale che inglese. Notevole era poi l'industria della carta da scrìvere e da giuoco che aveva per l'addietro alimentato un'importante esportazione verso la Spagna, diminuita dacché erano sorte colà fabbriche nazionali. I damaschi, i velluti, i rasi, si esportavano nel Nord Europa e in Olanda. Quest’industria rendeva quasi 6 milioni all'anno e circa 1000 famiglie vi attendevano. Diceva il De Barto-lomeis che « tutti i villaggi all'Est di Genova, per un'estensione di 15 miglia, erano pieni di filatoi. Prima del 1790 eranvi diecimila telai per la seta, sparsi quasi tutti nelle campagne. » Particolarmente importante era poi l’industria della seta di Novi, che, nonostante la crisi generale della produzione serica italiana, andava acquistando una celebrità quasi europea. Celebre e caratteristica della Liguria era l'industria dei pizzi, merletti, ricami, e dei fiori artificiali, industria alimentata specialmente dalle due Riviere. Le fabbriche di coralli, oltre a costituire una fiorente industria genovese, alimentavano un’attiva pesca fatta soprattutto con barche di S. Margherita. La costruzione dei bastimenti era molto attiva; le navi o erano destinate ad alimentare direttamente i traffici liguri specialmente per le provvigioni di grano, oppure, specialmente quelle di lungo corso, navigavano sotto bandiera straniera. Nella seconda metà del secolo decadde a causa della concorrenza di Marsiglia il saponificio, che aveva avuto prima una certa importanza. Per tutte queste notizie cfr.: C. Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanca, voi. II, p. 4, 13 e passim. — C. Spellanzon, op. cit., p. 27. — L. De Bartolomeis, op. cit., pp. 955 e 970 segg. — G. L. Lalande Voijage.en Italie fait dans les anne'es 1765 et 1766, Ginevra 1790, citato da G. E. Broche, Pages Franqaises sur Génes-la-Superbe, avec une introduction et des notes, Paris-Ge-nova 1928, p. 81. (1) \r. Vitale, op. cit., p. 212. Il Governo Provvisorio, costituitosi il 26 aprile 1814, era composto del presidente Girolamo Serra e dei seguenti membri: Andrea M) desiderio d’indipendenza era comune a tutti, tuttavia, sia per il ■i t sidei io di pace, die favorisse una ripresa dei commerci, sia perchè i Genovesi si illudevano che i progressi sociali compiuti negli anni d( Ila Rivoluzione e dell’impero dovessero essere rispettati come un’indiscutibile conquista, essi avrebbero accolto volentieri un-cambiamento di governo, fiduciosi che il nuovo avrebbe rispettato tutti i loro dii itti (1). Rude tu il risveglio da queste illusioni. Non soltanto Genova perdeva- la sua indipendenza, ma con essa perdeva in effetto qua.siasi forma di costituzione e veniva assoggettata ad una mollai cliia assoluta. Se 1 avversione antica verso il Piemonte non fosse bastata, questo fatto era tale da allontanare maggiormente gli animi da uno stato nel quale l’assolutismo era per tradizione consi-deiato nell (udine naturale delle cose. Per comprendere lo stato d’animo dii Genovesi di fronte alla Monarchia imposta loro da Vienna e ( a Londia, si esaniini il Progetto di costituzione presentato dal i at cìiest Antonio Brignole Sale ai Ministri plenipotenzia/rii delle alte 1 otenze presso il Congresso di Vienna (fy ? questo progetto il marchese di S. Marziano osservava C [ eSS° non risPecchiava i sentimenti della popolazione di G enova, ina soltanto quelli dell’aristocrazia (3). Ma egli aveva la sua tesi piemontese da far trionfare, ed altre osservazioni e critiche fece toc. o nel debole il Metternich quando gli prospettò il pericolo di egno Ligure costituzionale che sarebbe divenuto focolaio di o uzioni. In realtà il progetto presentato dal Brignole, se favoriva • -i • ° anst0cl^ia dal punto di vista politico, teneva conto di tutti sogni, spirituali e materiali, non solo di Genova, ma dell’intera g ria con un senso di giustizia e di equità e con una precisa ne e^li interessi liguri che il Governo Provvisorio non aveva pu o avere (4). Il Brignole, rappresentante ufficiale del Governo Pallavicino Giovanni ^j! Ipp°llto Durazzo> Agostino Fiesclii, Paolo Girolamo Pico, Giuseppe Negrotto . ? SolarÌ» Frai||esco Antonio Dagnino, Carlo l'incarico Gian Carlo Rri me™c0 De Marini, Grimaldo Aldoini. Non accettarono (1) M. Spinola, op. cit., p. 17. cit., Appendice n° XXIII.^ Gen°Va> Carte Rlcci 670> Pubblicato da Spinola op. (3) Observatioìis 'dii Mar aiti r d,> v ir "ì1, *«, W’"m" - *T........ - ■— Fessevi-ts; 31 Provvisorio a Vienna aveva già tentato con tutti i mezzi a sua disposizione di salvare l’indipendenza di Genova; ora, come privato cittadino (1), reclamava una costituzione separata. Egli osservava che se i principii di convenienza addottati esigevano irrevoca'bil-mente il suo sacrificio, Genova chiedeva almeno di avere una costituzione separata. « L’Angleterre et la France ont une Constitution, la Hongrie en a une ógalement, tous les peuples eivilisés sentent le besoin d’en avoir, 011 n’en refuserà pas une à une Képublique, qu’on veut detruire et remplacer par un Boi. Les Liguriens pleins ancore du sentiment de leur indépendance ne pourraient recevoir avec résignation une Boyauté étrangere qu’en ayant dans une constitution la garantie de leur liberté civile, et un gage de cet accord, et de cette modération, qui doivent leur faire jouir des avantages du Gouvernement monarchique ». Bastano queste sole parole per rivelare tutto uno stato d’animo. Innanzi tutto il tono è dignitoso e, sotto il dolore per il fatto compiuto, senti l’orgoglio di chi è conscio della propria superiorità morale. La posizione di Genova rispetto al Piemontese dichiarata: Genova seguirà casa Savoia solo quando casa Savoia diventerà monarchia costituzionale, poiché tutti i popoli civili sentono il bisogno d’avere una costituzione. Se noi pensiamo che fino {il 1848 la parola costituzione o statuto non potrà più essere pronunciata se non con circospezione e sospetto, e se pensiamo che la prima fase del nostro Risorgimento ha carattere appunto riformista e costituzionale, noi dobbiamo vedere nelle esplicite richieste del Brignole l’affermazione prima delle aspirazioni future non di Genova sola ma dell’intera Italia; e queste aspirazioni sono portate dinanzi ai plenipotenziari di quattro Potenze riunite per decidere le sorti d’Europa. Il problema italiano, sia pure da un punto di vista particolare, è per la prima volta messo innanzi sul tappeto della diplomazia europea. Un anno dopo, uscita vittoriosa la restaurazione dopo Waterloo e il fallimento dell’impresa murattiana, ciò non sarebbe più stato possibile. E dobbiamo arrivare al Cavour prima che un simile fatto si ripeta. Ma accanto a queste tendenze costituzionali, il Brignole aveva precedentemente, a Vienna, precisato meglio la posizione di Genova di fronte all’eventualità di un’annessione al Piemonte, che sarebbe a mantenere la sua posizione (li metropoli, accentrando a sè tutti i poteri, senza offrire peraltro nuovi vantaggi alle città così spogliate (lei loro antichi diritti. Cfr. Spinola, op. cit., p. 41. (1) C. Boh nate, op. cit., p. 334. stata accettata solo in vista di ulteriori sviluppi di una politica non più regionale, ma italiana, non di sottomissione, ma di indipendenza. Egli aveva infatti notato che i Genovesi avrebbero volentieri i inunziato alla loro autonomia, per unirsi ad uno stato grande e foite come il Regno Italico; e che proprio perchè questo non si for-nia\a, essi reclamavano la loro indipendenza. Ed aggiungeva che il 1 iemonte avrebbe trovato in Genova la base per ulteriori sviluppi per combattere un giorno l’Austria alleandosi con la Francia (1). 1 ossiamo dunque con ragione affermare che le aspirazioni geno-Aesi, superata per forza, di cose la tradizione delPindipendenza ligule, si dovevano logicamente rivolgere verso un governo costituzionale, e che intravedevano, come tine ancora incerto e vago, una possibile toiinazione unitaria italiana, nella quale il dissidio ligure-piemontese si sarebbe risolto e annullato. Lulteiioie esame del progètto del Brignole ci porta più addentro nello studio dei bisogni e delle aspirazioni del popolo genovese c e, menti e accettava formalmente la soggezione alla Monarchia Sa-aiu a, affermava costantemente la propria superiorità morale, giuri-| ica, economica e politica, e voleva rispettate le proprie tradizioni, 0 1 US1? ! C°StUmÌ’ ^roPr^a libertà di pensiero e tutto quel pro- sso <1 oi dine sociale ch’era stato una conquista degli anni imme-(ia amente precedenti. Ecco i punti principali del progetto: Per ar ico o (> il Re {\[ Sardegna assumerà il nome di Re della Ligu-y. 4 v cdeiri in Genova, oppure vi si farà rappresentare da un e scelto tia i membri della famiglia reale (art. 10). Avrà dei ministri e un Consiglio di Stato residenti a Genova (art. 11). Genova (art'1 IVI7 wf °’ 1V1 resiclente’ composto dell’antica nobiltà ligure , 8euato veglierà a mantenere la Costituzióne e i pri- t™*. “T ! alla If“ìone e 'mila si erano sparsi per la Città, e venuti alle mani cogl’insorgenti. » Lo spirito con cui è redatta questa relazione corrisponde in gran parte alle tendenze proprie del Governo piemontese che si ispirava ai seguenti criteri: assolutismo monarchico e prevalenza degli interessi agricoli, militari ed erariali del Piemonte; diffidenza verso Genova, considerata centro di sette rivoluzionarie ed animata da spirito repubblicano; tendenza a livellare gli usi, le leggi, le tradizioni liguri in base agli usi, alle leggi, alle tradizioni piemontesi; sostegno dell’industria nazionale, possibile soltanto per mezzo di un rigoroso protezionismo, lutti questi elementi determinarono un atteggiamento politico, doganale, commerciale del Piemonte per nulla corrispondente agli interessi spirituali e materiali di Genova. Da qui un dissidio latente, che si manifestò in ripicchi, incomprensioni, diffidenze, che vennero meno quando l’interesse nazionale italiano soffocò quello regionale, ma che ricomparvero tutte le volte che le speranze di un popolo, per verità più paziente di quel che i rapporti di polizia non riferissero, dalle circostanze avverse furono infrante. Attraverso periodi di tranquillita esteriore e momenti d’impeto rivoluzionario, tra sommovimenti ed eccessi, Genova si avviò ad uscire dal suo chiuso regionalismo. E fu in gran parte proprio questo orgoglio municipale ciò che la spinse piuttosto ad abbracciare la causa nazionale che non quella piemontese, fino al giorno in cui entrambe apertamente coincisero. CAPITOLO SECONDO Industria e commercio di Genova nel primo decennio dell’Annessione. I nuovi orientamenti dell’opinione pubblica dopo il ’21. Il commercio é l’industria di Genova dopo il 1814. — I primi trattati di commercio e navigazione. — Tentativi di allacciare traffici regolari con le due Americhe. — L’azione della Camera di Commercio in difesa degli interessi genovesi. — Un caratteristico dibattito tra Genova e Tonno nel 1817. — Tendenze costituzionali in Genova innanzi al 1821: la richiesta di un Oratore permanente presso la Corte di Torino. — Un nuovo documento sull’amministrazione comunale genovese nel 1820. — Lo spirito pubblico genovese durante i moti del 1821. — L’opera del Governo in favore del commercio di Genova dopo il 1821 ed i suoi scarsi risultati. — L’ambiente culturale genovese di fronte alla politica piemontese nel pnmo decennio dell’annessione. Abbiamo notato come tra i principali problemi che occorreva affrontare dopo l’annessione della Liguria al Piemonte, era quello di conciliare gli interessi delle classi commercianti genovesi, tendenti ad un regime di libertà, sia interna che esterna, con quelli delle classi agricole piemontesi tendenti al protezionismo. Ma occorreva pure conciliare gli interessi dei commercianti da un lato e degli industriali dall’altro. Questo problema riguardava non soltanto i rapporti tra Genova e Torino, ma la stessa divisione dell’opinione genovese in diverse correnti. L’industria, sia genovese che piemontese, era appena al suo nascere, o in via di trasformazione, e quindi, come per la seta, era in piena crisi determinata dalla concorrenza quantitativa e qualitativa dell’industria straniera; aveva perciò bisogno di protezione. Così la marina mercantile, posta nella necessità di dover vincere la concorrenza di Marsiglia, di Trieste, di Livorno e, fino ad un certo punto, della stessa Nizza, richiedeva misure atte a favorirla rispetto a quelle bandiere. Quindi fra gli industriali, gli armatori, la 38 t » • > V 11 n Per esigenze d’ordine la città, Notava 1818 ^ linee do^anali cin«evano era così ; + ' clie « 1 organizzazione delle Dogane e Gabelle t -ercan CI nt";101; ^ 1 pagare le erano soggetti ad^fì f ^ Ml* «*** « che che- ritardavano in mldo ^ COmpIicateed inutili formalità zioni, che prima d’allora Ji ^ “ deUe inercanzie> che le 0l)era' mente si potevano fare “ DogMla in ™ atfcua1' erano fuori della D <>• settimana. Allorché le mercanzie Stato e, quello che ^enova’ Prima ài passare i confini dello gette alla visita di tremine1 r^C0*0’ (*el Piemonte, erano sog- facevano ogni sorta V ,Ue° ^reP°sti, i quali visitavano a capriccio, ebe col Denaro. Un * COncussioni> dalle quali non si poteva esimersi il Regolamento delle j*°JU('om'en*ent;e si era quello che nel Piemonte •alcuni generi fabbricati (llverso da quello del Genovesato; dopo che la Liguria era U enc|va ^er essere introdotti nel Piemonte maggiore come sp m,* S°^° * a^ude Governo pagavano un Dazio popoli ,„un ,m„M ad „ altro (1) A. Segue. Manuale m o» ■ P) A. s.««, Jt-m- 30 Sovrano « tanto che, continuava, nei primi giorni che fu pubblicato il Regolamento delle Dogane, avvenne un « ammutinamento » e già si parlava di « rivoluzione ». La camera di Commercio si radunò e spedì, nell’estate del 1816, una deputazione a Torino per sporgere i giusti reclami (1). Ma il Governo piemontese si decise ad aprire gli occhi sulle conseguenze rovinose di tale divisione doganale soltanto in seguito alla politica protezionista dell’Austria rispetto a Venezia e Trieste. Infatti essa nel 1817 aveva proibito l’ingresso nel Lombardo-Veneto dei coloniali che non provenissero dai suoi porti, arrecando così un grave danno al commercio di Genova con la Lombardia. Allora il governo piemontese trattò colla Svizzera per avviarvi i coloniali provenienti da Genova, e finalmente (1818) le dogane fra i due Stati furono tolte e con esse il dazio che colpiva le stesse navi sarde all’ingresso del porto di Genova (2). Il commercio di Genova nel 1814 usciva da un periodo di crisi determinato non solo da fattori d’indole contingente e transitoria, come il blocco napoleonico, ma da cause assai più profonde e complesse. Lo sviluppo dei possedimenti coloniali delle più grandi potenze europee ed il ribasso straordinario delle merci importate diretta-mente dalle colonie, contribuirono alla sua decadenza; tuttavia Genova « tenendo strettissimo conto della propria favorevolissima località », lunge dal darsi per vinta, si era appigliata al partito di dedicarsi al commercio di commissione, smerciando in gran parte le derrate coloniali importate d’oltre mare con navi straniere (3). Ciò fu possibile finche i rapporti internazionali permisero la libertà dei traffici con qualunque nazione. Il periodo napoleonico segnò pertanto una crisi gravissima per il commercio e la navigazione genovese; dopo l’annessione al Piemonte i traffici sarebbero stati abbondantemente ripresi, se il regime protezionistico generale non avesse ostacolato lo stesso commercio di commissione in altri tempi fiorente. Si rese quindi necessario trovare altro campo all’attività ligure. Bisognava andare direttamente ai paesi d’origine, e, poiché le colonie erano precluse, bisognava rivolgersi a quei paesi d’oltremare che andavano conquistando (1) Frizzi, rapporto cit.: « Se il Governo non vi porta nn giusto riparo » egli aggiungeva « moltissimi Negozianti sono già disposti ad abbandonare Genova e di stabilirsi nelle piazze di Livorno, Marsiglia, Trieste ecc. ». (2) A. Segre, op. cit., voi. II, p. 277. (3) Giuseppe Papa, Del Commercio di Genova. in C. M., 1844 N. 199, 30 agosto e Ni sgg. 40 faticosamente la loro libertà contro la Spagna ed il Poito& Mediterraneo le speranze erano rivolte verso l’Oriente, fonte an lca 1 ricchezza per i Genovesi, inaridita per la chiusura degli stietti. ) Ma, perchè il commercio rifiorisse, altre difficoltà dovevano essere affrontate: occorreva vincere la concorrenza degli empori rivai, rin forzare la marina mercantile, mettere in circolazione 1 ab on an e capitale giacente, ottenere condizioni di favore rispetto alle alti e a diere o almeno trattati di reciprocità. Ma soprattutto occoireva u eia e confidenza verso il governo centrale; sicurezza che, da que a parte, tutti gli aiuti sarebbero venuti alle iniziative genovesi, e gli interessi del commercio non sarebbero stati poi impiovvisamen e sacrificati per esigenze d’ordine politico o fiscale. Questa fiducia manco, fin dai primi tempi; da parte del Governo,^più che la volontà, mane forse la competenza; il fatto è che il rifiorire del commeicio ligure fu lento ed impacciato, lo spirito di associazione mancò; non si forma rono nè grandi compagnie di navigazione nè grandi compagnie assicurazione marittima; tuttavia la marina mercantile genovese ebbe un progressivo e naturale incremento; di pari passo andava il com mercio che si avvantaggiava per altro anche di naviglio straniero. Dopo il 1825 l’interessamento del Governo per la protezione della marina nazionale si fece più vivo, e tariffe differenziali furono innalzate a tale scopo. Vedremo tuttavia se queste abbiano incontrato l’appio vazione genovese. E dovremo arrivare al 1823 per veder firmato il primo accordo commerciale con la Turchia ed al 1825 per quello col Marocco (2). Perciò nel primo decennio dell’annessione noi non pos siamo distinguere correnti determinate e ben definite di traffici; il commercio del grano che era notevole con la Sardegna, con l’Egitto e col Levante (non con la Russia poiché non era permesso l’accesso (1) Per la complicata questione degli stretti cfr. P. Silva, il Mediterraneo dall’Unità di Roma all’Unità d’Italia, Verona 1933, p. 334 segg. e passim. Il 5 luglio 1770 il principe russo Orloif, dopo essere passato dall’Atlantico, col favore dell Inghilterra, ed essere penetrato nel Mediterraneo, aveva distrutto completamente la squadra turca presso Smirne, senza tuttavia forzare i Dardanelli. Era stata quella la prima manifestazione russa nel Mediterraneo. Quattro anni dopo, col trattato di KaTnardij, la Russia otteneva libertà di commercio col Mar Nero. Nel 1805 lo zar Alessandro I impose alla Turchia la chiusura degli stretti a tutte le navi che non fossero russe. In seguito accordi bilaterali permisero ad alcune potenze europee l'accesso nel Mar Nero. Tali erano le condizioni del commercio col Mar Nero innanzi alla pace di Adrianopoli (4 sett. 1829), che apriva a tutti gli stati lo Stretto dei Dardanelli. (2) Cfr. Diritto mercatorio internazionale, articolo di G. Papa, in C. M., N. 202-23 sett. e 204-26 sett, 1846 V. pure C. Spellanzon, op. cit. voi, II p. 216, 41 al Mar Nero) si mantenne fiorente (1), ma soggetto com’era alle variazioni delle richieste dei mercati europei, poteva essere causa di false speculazioni (2). Lo si esportava specialmente in Francia, ma solo quando non bastava la produzione nazionale (3), in Inghilterra, in Ispagna, e naturalmente in Piemonte, quando il raccolto non era sufficiente, e nelle due Piviere. La Lombardia si provvedeva dai porti di Venezia e Trieste, ed il Regno delle Due Sicilie, in altri tempi tributario delle importazioni genovesi per ogni genere di derrate, era commercialmente alle dipendenze dell’Inghilterra, con grave danno dei commercianti genovesi che in numero grandissimo si videro privati di un così importante sbocco (4). Altri articoli di notevole esportazione erano l’olio e la seta, specialmente quella di Novi. Il primo si smerciava in Francia, ma dopo che i rapporti fra il Piemonte e la Francia, per l’antipatia di Vittorio Emanuele verso quella nazione furono meno cordiali, le alte tariffe doganali fecero diminuire assai l’esportazione degli oli liguri, tanto da far scendere gli introiti da 15 milioni a poco più di 5 (5). Le sete, i velluti, i damaschi; alimentavano una forte esportazione prima della Rivoluzione, ma dopo, sia per il maggior uso dei tessuti di cotone, sia perchè durante il dominio napoleonico l’industria francese diede il crollo a quella genovese, che perse i mercati di Spagna e Portogallo, quell’industria decadde (6). Gli accenni però che troveremo nel Corriere Mercantile verso il 1830 .mostrano com’essa fosse (1) Secondo una lettera dei consoli dei facchini da grano del porto di Genova all7Intendente Generate (20 luglio 1830) « prima dell’anno 1825 in cui era chiuso il Mar Nero alla bandiera Sarda, arrivavano annualmente in Genova un milione e più di mine di grano d’ogni provenienza ». In seguito questa cifra diminuì assai. La lettera si trova in A. S. G., Prefettura Sarda, Commercio e Navigazione, 4/423. (2) Sulla aleatoreità del commercio dei grani insistono tutti gli articoli e le osservazioni periodiche del Corriere Mercantile fin dal 1828, prima annata che mi fu possibile consultare; ne derivava la necessità di incanalare il commercio verso vie che non fossero soggette al variare della situazione politica internazionale ed alla variazione dei raccolti granari, in Europa. Trattano pure di questo argomento i Rapporti trimestrali sul Commercio di Genova, compilati dal Comandante del Porto tra il 1817 ed il 1821 (in A, S. T. Sezione I, Commercio, Categoria 3a Mazzo 2°, 1814-1819). Questi rapporti sono interessanti perchè, oltre ad offrire un preciso materiale statistico, parlano francamente delle « cause morali » che ostacolavano il commercio di Genova e segnalano il danno che le barriere doganali tra Liguria e Piemonte portavano a tutti gli Stati Sardi innanzi al 1818. (3) L. De Bartolomeis op. cit., p. 1048. (4) L: De Bartolomeis op. cit., p. 1050. (5) L. De Bartolomeis, op. cit. p. 1048. (6) L. De Bartolomeis, op. cit., p. 982, 4:2 in pochi anni risorta, e le esportazioni delle sete si fossero rivolte verso 1 Inghilterra, che si avviava a diventare un emporio mondiale di materie prime (1). Un certo incremento ebbe certamente l’esportazione genovese dopo l’unione col Piemonte, a causa dei prodotti industriali e agricoli di questo. Ma tale vantaggio era neutralizzato dalle alte tariffe doganali degli stati europei e americani, sicché in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti era pressoché impossibile esportare a meno di valersi di navi di quelle nazioni (2). Tutti questi generi di esportazione non avevano dunque sbocchi sicuri e tali da alimentare le industrie nascenti. Un regime di moderata libertà commerciale avrebbe favorito sia l’industria che il commercio. Disgraziatamente la politica delle maggiori potenze vi si opponeva, e, di fronte ad essa, non possiamo invero accusare il Governo sabaudo di cecità, quan-d esso non faceva che applicare le stesse misure protettive usate da ogni altro stato europeo, tentando di salvare così le deboli sue industrie da una rovinosa concorrenza (3). L’accusa fu generalmente fatta dai Genovesi, sia in quegli anni che in quelli seguenti; si disse che il 1 iemonte seguiva una politica rispondente solo agli interessi delle classi agiicole e industriali ed ai bisogni dell’erario. Non bisogna dimenticare peiò che vi fu indotto non solo dall’esempio degli altri stati, non solo dalla forza dell’opinione pubblica piemontese, ma anche da una parte di quella genovese; ed occorre pur notare che il Governo tentò, sia (1) L. De Bartolomeis, op. cit., p. 1049. (-) Altre industrie locali atte all’esportazione erano quelle della carta, le inani attui e di letti in ferro, i prodotti delle ferriere di Ronco, stamperie, argenterie oreficerie, manifattore in bronzo, filati e tessuti, calze e maglie, paste ali-mefn^ari;.C0Ilfettl e canditi, mobili, lavori d’intaglio, cordami, pizzi, merletti, fiori i eia ì, e (dopo il 1814) anche cappelli (li paglia; manifatture di lana e cotone, candele di cera e di sego, cappelli di feltro e di lana, carni salate, guanti di pelle ca zo ene, coralli lavorati ed altre piccole industrie. In decadenza era l’iudu-s ria e esportazione di navi e bastimenti. Le tele di lino e di canapa proveni-ano a iemonte o da Chiavari; solo dopo il 1829 si impiantarono le prime fabbriche a Genova, (op. cit., p. 970 Sgg.). (3)» In un rapporto del 2 aprile 1823 il Presidente del Consiglio del Commercio di Tonno osservava: « Insemina, la Svizzera esclusa, le Potenze che ci cir-c n ano anno preso 1 impegno di isolarci, versare più che possono le loro merci e oro eriate nel nostio territorio ed eliminare dai loro stati la produzione del ro suo o e delle nostre industrie....; comunque pare che le leggi della recipro-.. . ° a*e 11L'h'f (lauo quanto permettere lo potranno li trattati o li riguardi ^ '.C1'V"i 1 Pren‘ì<,le tntte le misure possibili, o con proibizioni, o con innalzamenti di dazio, e con la riduzione al minimo diritto dWita di qualunque patria P,r°. ” ,(Cfr' R- E,!OGM0 D’Aia.vo, La politica doganale del Piemonte dal 1815 al 1934, in Giornale degli Economati e Rivista di Statistica, 1912, N. 4-5, p. 446.) La necessità di alimentare il commercio diretto e con esso l’industria nazionale era 43 pure senza riuscirvi, fin dai primi -anni, una politica di conciliazione fra i due diversi punti di vista. Infatti, se di fronte alla tariffa estremamente protettiva francese, lasciata in vigore con M. C. 1° giugno 1814, gli stessi negozianti piemontesi protestarono (1), (e tanto più avrebbero protestato i Genovesi se già fossero stati uniti al Piemonte), la tariffa moderata del 1818 die, per l’unione doganale avvenuta, tentava di conciliare gli opposti interessi, suscitò le ire degli industriali e degli agricoltori piemontesi e degli industriali genovesi che temevano soprattutto la concorrenza dei tessuti di cotone inglese (2). Sulla necessità di conciliare gli opposti interessi della Liguria e del Piemonte insisteva lin dal 1816 il conte Ghigliossi, procuratore del commercio, in una sua memoria in cui dimostrava la necessità, per il benessere nazionale, di favorire il commercio ed insieme di risvegliare l’industria. L’uno avrebbe alimentato l’altra e viceversa. Perchè, aggiungeva, « è massima di Stato di unire i nuovi con gli antichi Sudditi: ma ciò non si ottiene in forza di un comando sovrano, ma bensì con mezzi, che conducendo alla unione dei rispettivi interessi stabiliscano altresì la reciproca delle persone » (3). Principio evidentemente liberale. Ora la tariffa del 1818 tendeva appunto a conciliare gli interessi liguri con quelli piemontesi, e, più in generale, quelli opposti delle diverse classi. A proteggere ^industria agricola, e cioè, genericamente parlando, gli interessi piemontesi, fu elevato il dazio di entrata sul vino; con lo scopo evidente di vincere la concorrenza dell’importazione per via mare fu colpita di un dazio di 2,50 al quintale l’importazione del grano nel porto di Genova; mentre per la via di terra il dazio era soltanto di 0,10 al quintale. Furono sensibilmente aumentati i dazi d’entrata delle telerie e dei tessuti di cotone e solo per un errore di calcolo furono diminuiti quelli sulla seta. All’opposto, per favorire le industrie genovesi, specialmente le pure compresa dal conte Gian Francesco Napione il quale in una sua Memoria del 1819 consigliava, come sbocco sicuro, il Brasile. Con questo stato di nuova formazione si sarebbe potuto avviare sia il commercio diretto sia quello di commissione. Ma anche il Galeani vedeva un ostacolo nelle più potenti nazioni navigatrici, le quali, « e forse la più. potente, tra esse » si sarebbero opposte alla volontà di rinascita del commercio ligure-piemontese. (Del commercio col Brasile, Memoria del conte Gian Francesco Napione (1819) in A. S. T., sezione I, commercio, categoria 3ft, mazzo 2°, 1814-1819.) (1) R. Broglio D’Aiano, op. cit., p., 441. (2) R. Broglio D’Aiano. op. cit., p. 445. (3) A. S. T., sezione I, commercio, cat., mazzo cit, 44 *' 11 i» a . inumo diminuiti i diritti d’importazione sui rottami di ferro (1), nuntu, pei dare incremento al commercio furono diminuiti i diritti di transito (2). Nonostante questi tentativi, le stesse necessità commerciali crea-\ano tonti asti di interessi fra i due popoli di recente uniti. Le merci « Ih pio\ oeu\ ano lo sfavorevole bilancio commerciale, e quindi un anno ali economia nazionale ed ai produttori erano essenzialmente i it derrate coloniali, il cotone e i tessuti di cotone, le stoffe di , li cfuncaglterte, i cuoi, i vini, tutti generi importati per via mare, ^ ' *u*ta«ffiosi ai traffici dei Genovesi. Per rendere favorevole il n.iiuio. senza diminuire le importazioni, sarebbe stato necessario a\01111 li esportazioni dei generi più importanti, come le granaglie | M ' te**uti 'V set« e gli organzini, il vino e gli altri prodotti a^iuo ì. M.i \i si opponevano dazi elevatissimi francesi ed austriaci. * ì i uh agricoltori piemontesi non contenti, reclamavano ,i .• ., :*UT ' ^az'° «ai grani, timorosi com’erano della coucorrenza 11 s^lan't 1‘* sicché dal 1819 al 1825 il dazio d’importazione, sia i uà chi pei mare.salì progressivamente a4 lire il qt.,poi a6 eiuline l'1 « nnpoi fazioni fatte con bandiera estera (3). Così a poco a poco, i.i \ 11 .so su, cessi ve modifiche, proteste, segnalazioni, furono salvaguar- * a un lato »li interessi del bilancio, dall’altro quelli degli agricol-, .. (|,l< ^ della marina mercantile, che fu protetta da una tariffa eoi ]•' note' °^e' ls-'5 venne concluso un trattato di commercio l ai. .U\r 1Ì*' <4, Ìa ^aSe 31 qUale le uavi sarde el)bero libero accesso . i, ' ^,er*;a di istituire Consolati e Viceconsolati in quei ' ° s,( ssn anno veniva inviato ad Odessa il primo briganti . e* " L l ( °IKez'0ne * l,er caricarvi grano, e ciò « all’oggetto , n il,nau tolla pratica l’effetto delle convenzioni che avevano avuto luogo in Costantinopoli, perla libertà della navigazione e comari delle^ fnoin e^di * ' Vailese Cairo"W^ ^ ^ ^ Pr°PrÌ6' il ferro «la Ooiìnvn „ 1 • ’ • ’ ^°ntenotte, Ivrea ecc., le quali importavano ■SiTDDt (A. S. fabbrÌCh6 del FÌ“ale'delle LaDgheedÌ e il M2)CRlfS^^N°’ nP' CÌt-’ P1>- 443 e 453‘ Cfr-i] M- C. 14 Marzo 1818, 17 ge,n,aio'lSGLI° °P‘ P’ 448* Cfr’ * * C. 11 gingno 1822 e Manuale Tstoril fl^p.VsT '^ * Sl’ellailZ°n' cfr' A‘ SEGRE' 45 mercio nel Mar Nero » (1). ÌJel 1825 il trattato fu rinnovato, e il Piemonte ottenne condizioni di uguaglianza rispetto alle altre nazioni europee e la libertà di importare prodotti sardi in Turchia (2). L’interesse del governo piemontese per i bisogni della marina e del commercio genovese e la tendenza a favorirli è evidente; i tentativi fatti a questo scopo fin dai primi anni dell’annessione, generalmente poco noti, dovrebbero bastare ad assolvere in gran parte Vittorio Emanuele I ed i Piemontesi dall’accusa di averli del tutto trascurati. Basta scorrere tutto il carteggio dei consoli generali di Filadelfia con il ministro degli esteri dal 1819 al 1830, per comprendere quale delicato, costante lavoro di informazioni, di statistiche, di trattative diplomatiche abbia condotto il Governo sardo per assicurarsi il commercio con le due Americhe (3). Se per molti anni non vi riuscì, ciò si deve imputare alla situazione politica e commerciale di tutta Europa ed agli ostacoli frapposti da potenze maggiori, non a mancanza di volontà da parte del Governo, specialmente da parte di quello di Vittorio Emanuele. Ai ministri piemontesi si può tuttavia fare, generalmente, questo appunto, che, molte volte, nel tentativo di salvaguardare gli interessi più opposti dei sudditi e quelli dell’erario, essi pretesero di ottenere condizioni privilegiate sui mercati esteri, continuando un esagerato protezionismo nei propri. Errore dovuto al perdurare d’una (1) Lettera dell’Ammiraglio Dex Geneys al Presidente della Cantera di Commercio, 23 dicembre 1823, in A. S. G., Prefettura Sarda, Commercio e Navigazione, 4/423. (2) Il trattato di commercio con la Turchia era stato concluso nel 1823 con la mediazione dell’Inghilterra, la quale aveva interesse a che fosse sancito ufficialmente il principio della libera navigazione nel Mar Nero. Ma la ratifica era stata rimandata fino al 1825 dal Governo Sardo, perchè alcuni punti non erano sembrati soddisfacenti in quanto creavano una situazione di privilegio per la Turchia. Infatti l’art. 31 del Trattato stabiliva una reciprocità nel pagamento delle rispettive dogane del 3°/0; cioè la Turchia, accordando alla Sardegna il 3°/0 per le merci sarde importate nellTiupero, non faceva che concedere lo stesso dazio che già pagavano tutte le nazioni in pace con la Porta, mentre la Sardegna, dovendo reciprocamente abbassare al 3°/0 il dazio sulle merci d’origine turca, veniva ad accordare alla Porta un privilegio di cui nessuna nazione godeva. Sicché la corte di Torino non volle ratificare il trattato. Ma Londra e Vienna premevano. Occorreva sancire il principio della libera navigazione nel Mar Nero accontentare così la Russia e distoglierla dall’idea di un intervento nella guerra greco-turca. Fu perciò inviato, per desiderio espresso dei governi inglese ed austriaco, un incaricato sardo a Costantinopoli per definire i punti controversi. L’incaricato, il marchese Ludovico Sauli d’Igliano, partì infatti nel 1524 e, superando ogni difficoltà, riuscì l’anno dopo a perfezionare l’accordo. Cfr. L. Sa.ui.i d’Igliano, Reminiscenze della propria vita, Roma - Milano 1909, voi. II p. 47 sgg. Il testo e gli incartamenti del trattato del 1825 si trovano in A. S. G., cartella cit. (3) A. S. T., Sezione I, Consolati Nazionali, Filadelfia, mazzo I. 4«i nitniiilitu mercantilistica, che non era soltanto degli ambienti gover-ma di parecchi fra gli stessi commercianti di Genova. 11 Mm *ait*r°lo XXXH del R° Regolamento 2ti dicembre < generale di Filadelfia aveva ricevuto l’incarico di ll 1 11 » un pieci so ragguaglio sul commercio della Sardegna con Anniitln*. i,e tariffe doganali dell’America del Nord erano, P? ' Wde, assolutamente proibitive, mentre, secondo la legge .. 1^^*° l,sls un legno americano nei porti sardi pagava il 45°/0 , 11 1 11,1 propri. Di conseguenza il commercio con l’America ‘;li* tutto svolto da navi degli Stati Uniti (1). Era quello * / 111 cu* trancia ed Inghilterra $i contendevamo il predominio w ial» nell America del Sud sopra le rovine di Spagna e Porto-, sostenevano una lotta a base «li tariffe doganali con ,, ,lM 11111 r,H‘ 8emPre più svolgevano una politica tendente ad 1 ogm influenza delle due maggiori potenze europee, secondo appIri^T PrOClamato P°chi anni dopo da Monroe. Perciò poteva : . I,h li' ,M<1 una P^cola nazione come il Piemonte inserirsi fra Nel 1819 ’<,lih Il,l' ,lh ,m1 Attenere condizioni privilegiate in quei porti. , . . ' Conte ,)r Tour aveva dato istruzioni in proposito. •li Filadel che si recava ad occupare la sua sede l () '' ~*.11 conso^ avvio sollecitamento trattative con Sir riv * . *Ina, e Prinio segretario di stato, e potè stabilire . ,• ' |,n Per 1111 accordo diretto a togliere i diritti differen- sioni in* !>10<.0ttÌ I)ieniontesi (3)* Era un primo passo, versò conces-vege ^01 C C me^° borissero il commercio di transitageno-9te ’ , “ . ° Pacc?rdo anche ai prodotti delPEuròpa centrale. Nello IIM : . 1 11 con®°^e badava a raccogliere dati statistici sul com-llM 11 . ,.1 ®icchè nel 1821 potè inviare al Di San Marzanò rapporto (4) che per verità, dovette essere preso in •«»- '‘nsiderazione, in ,„mo al ,„rbi(ii ^ q|ld ® 7 *"*”1,20 •' fta 12 aprile 1822 ° (l'1 1 al Ministro degli Esteri in (3) Cfr. lettera precedente. fff't/li tSfflfì P ri 1 I «>ric« « il nn-omii im irli V ' mer*ral1 *ontl (l1 ricchezza per il commercio ligure senza ,lrl |)nl.(n L * annoverarsi il grano. Accumulato negli « entrepóts » il , Ia,U °* in 11110 scalo posto nel bel mezzo del Mediterraneo, ro. , .la ,>lonto' iu qualsiasi stagione, alle richieste di tutta Eu-,;inf ntava una notevole riesportazione. Quanto fosse impor- j>i 1 1 * O,,ln,ercio, non solo per i Genovesi, ma per lo stesso ,M;r T .....................'»"» de, 18M.1817 (2), 1» Governo I t\ 'I'*'*1 a,1(*^e niesso in evidenza gli errati sistemi del ni cjj0 j, a f,inl1 ^arono 1 provvedimenti, le leggi, leproibizio-il aoiij smercio ne ebbe a soffrire, e minore fu di conseguenza Ì10 ,n momento Pubblica calamità. Ad ina-fl comMr ' n,l,lll,IM anche un prestito di sei milioni,destinati ...........«he *I aperto nel 1816 e che non gigtemi "’,M *°’ reS° forzo8° con R- R- P- P. 31 die. (3). Tali ma che il. un protezionismo esagerato più nella for- anza, continuati anche negli anni seguenti, erano S) CfrSAE^™’ Ori CÌt‘, V01' n.’ P- 863' fii terraferma, Torino 1 ^ f Mia carestia del 1816-17 negli Stati Sardi a* *847; in Memorie della 1^ J ^ "',jU Stati del I{(' di Sardegna dal 1814 XIX, 1 x#>l. p. ‘ C(ac ein,a delle Scienze di Torino, serie 2» ; voi. 4<* rivolti soprattutto ad impedire l’estrazione dei grani nazionali. Nel 1818 alle molte rigorose formalità del Porto Franco venne aggiunto l’ordine che i proprietari dei magazzini di grano dovessero lasciare le chiavi in consegna agli uffici doganali; la disposizione evidentemente era dettata dal timore che grani nazionali fossero esportati di contrabbando. Di fronte a questa legge la Camera di Commercio immediatamente protestò, non in forma ufficiale ma con una densa relazione presentata da alcuni suoi membri (1). Dopo essersi lungamente diffusa sull’importanza grandissima che quel ramo di commercio aveva sia per Genova che per il Piemonte, la relazione richiamava l’attenzione dell’intendente Generale, presidente della Camera, sopra l’inconveniente gravissimo a cui erano stati sottoposti di recente i commercianti obbligati a consegnare le chiavi dei loro magazzini alla Dogana. Faceva osservare che i depositi di grano erano, per loro stessa natura, delicatissimi e tali da richiedere sorveglianza continua, e sosteneva che il proprietario, inceppato nei suoi movimenti della nuova formalità, non avrebbe potuto accudire convenientemente ai suoi interessi. Ora, a voler giudicare serenamente, non mi pare che per il fatto di dover ricorrere agli impiegati doganali ogni volta che i magazzini dovevano essere aperti, i proprietari dovessero ricevere un gran danno. Nè è presumibile ch’essi dovessero andare di giorno e di notte a contemplare i loro depositi. L’irritazione che il provvedimento suscitò è indice piuttosto di uno stato d’animo, di un malcontento diffuso tra la classe dei commercianti contro la costante e rigorosa ingerenza governativa; e il tono della relazione tutta, sotto forme rispettose, rivela insieme allo sdegno di chi sente misconosciuti i suoi interessi e la sua dignità, il rimpianto, non celato, degli antichi ordinamenti repubblicani: « Le indicate formalità delle chiavi » prosegue la relazione « non furono mai credute necessarie nè dagli antichi governi della Repubblica, nè sotto i tempi dell’amministrazione francese; eppure sotto di questa esistevano i più rigorosi divieti per l’esportazione all’estero de’ grani nazionali ». Consapevoli della propria indipendenza economica i commercianti genovesi passavano alla minaccia di abbandonare gli Stati Sardi: « Se non è permesso al negoziante di visitare a suo piacimento, e secondo il bisogno, i suoi depositi, dovrà, per non esporsi a rovinose sicure perdite, depositare, (1) Osservazioni di alcuni membri della Camera di Commercio fatte all1 Intendente Generale sul commercio dei grani, 18 luglio 1818, iu A. S. G., Prefettura Sarda, Commercio e Navigazione, 4/423. 4 50 '"•‘Ui.nln. j suoi grani in altre piazze, ove non si esercitano i malita, o\e, specialmente a Livorno, si gode di tutta la libertà in sì minutante negozio»; e dopo aver messo in evidenza la libertà che commercio granario si godeva a Marsiglia e Livorno, Gonplude* ▼atto affermando «che non era possibile avere abbondanza partico-t llI,H IlU Ul 1111 l)ae$e sterile per natura, se non si lasciava una illimi-ata 1,MIla di commercio ne’ commestibili ». L’accenno alle leggi della ^ 11 M^ca *u,^pendente e quello al passato governo francese sono °*tn che dello stato d’animo antipiemontese delle classi commer-antì no\ esi, anche di un notevole coraggio civile da parte della Came-nunercio che di quella classe era la rappresentante e l’interprete, fimd llI,a s| difendevano gelosamente i loro privilegi, la possi? ( . . \ azion* *ndipendente da ogni inframettenza governativa, da trazione di elementi estranei al commercio, come avvocati t ^ LslHI iti. Nel 1820 correvano voci che il Governo intendesse 111 taU aI 11 ^unale di Commercio una riforma diretta appunto ad l ( 0 llrr* ,al‘ e^ementi, a Genova giudicati estranei e nocivi; allora nav|j 111,1,1 M ^snnse il compito di difendere quell’istituto che funzioni '^ntitiè anni», composto di soli commercianti (2). Non do i*™ ca*male qnell’accenno al 1797, fetto sulla fine del 1820, qùan-tit n ii{sìt,i di l'itorme e di costituzione era profondamente sentita. sia a Genova che a Torino. . * a|tlto ( alVeristico fra l’organo rappresentativo delle classi . IMami genovesi ed il Governo di Torino è dato da una mercio n '* Serra> Presidente del Consigliò di Com- r ' ( asaaova> vice presidente della Camera di Commercio ni t»enova Ti nnh _Q ' serra era un accanito protezionista, e ben I > * » o essere cln* . • °ni° raPl)resentante di quella classe piemontese ì'u'innuir' \l" f' Mlh‘n‘vsl ,h 6.enova dettanti svantaggi per il ^a questione, che si accese tra Genova e Torino nel ^ Mioli «p. cit., p. 98. •h Con.....,/, 'a^a attuate organizzazione del Tribunale 3) \ s T - « p A- S' Sarda, cart. cit. (4) Cfr 1 p 'o ?mm°rc>n, mazzo cit. """< Ì8Ì8-19 già ZSZ?.9?* Paralkl° id di Commercio per gli mercio nell'udienza del 84 ,eu ìssn T'a *n" PmiienU> del Contiguo di Com- na’incetta di cotone fatte nel irio” ir *?' dt'’ mMt0 cit Eiferen^osi • dagli speculatori genovesi, da lui giudi- 51 1817, riguardava i sensali o mediatori di commercio della città di Genova. La Segreteria degli Interni voleva limitare il numero dei sensali genovesi ed evitare che la professione passasse di padre in figlio, quasi fosse un monopolio, ed insieme voleva imporre loro una tassa; ciò in seguito alle lagnanze dei sensali d’altre città, che volevano escludere dalla categoria molti concorrenti. La pratica fu affidata al Consiglio di Commercio ed al Magistrato del Consolato sedente in Torino. Il Serra si rivolse alla Camera di Genova (3 die. 1817) « per raccogliere le più accertate nozioni sul vero stato delle cose in ordine alla condotta degl’esistenti Mediatori, sugl’abusi cui occorreva di rimediare, e sui provvedimenti che a scanso de’ medesimi » avrebbero dovuto essere emanati. Singolare la risposta della Camera (30 dicembre 1817): « Eccellenza, appena ricevuto il dispaccio, che in data delli 3 cadente Decembre V. Ecc.za ha avuto la degnazione di indirizzare a questa Camera .di commercio, si è da essa immediatamente proceduto alle opportune informazioni, e discussioni relative all’oggetto di cui si trattava, cioè ai Mediatori di Commercio specialmente nel Ducato di Genova. Vostra Ecc.za potrebbe facilmente immaginare la consolazione, che quest’ingenuo e grazioso dispaccio ha recato ai Membri componenti la Camera, se convenisse rilevare le non poche afflizioni qualche volta da essa senza effetto risentite. In un impiego in cui non si ha nè si desidera altra ricompensa che quella del Pubblico gradimento, il cuore non può essere insensibile, quando i ragionati movimenti di uno zelo puro e leale sono estinti, o compressi da certe strane fatalità, che sembrano in origine opporsi alla sola indiscretezza del così detto egoismo mercantile; mentre in sostanza vanno facendo un inevitabile ed incalcolabile torto progressivo alla gran causa dell’interesse comune. Il Cielo faccia che per molti anni e felici possa l’E. Vostra colle frequenti comunicazioni delle quali annunzia l’onore alla Camera, contribuire in maniera efficace alla troppo importante ed invano sospirata libertà e prosperità di una industria,'ebe essenzialmente più attiva e facilmente più feconda di quella dell’Agricoltore, moltiplica per così dire le vite dei sudditi e le miniere del Governo. I Membri della Camera, che grazie alla divina Provvidenza godono tutti di quella indipendente fortuna, la quale suole ispirare più nobili e più schietti cata dannosissima ai cotonifici nazionali, il Serra insinuava: « Che poi abbinilo essi (gli speculatori genovesi) il pernicioso disegno, siccome addetti in preferenza al commercio di commissione, di rovesciare le nostre manifatture, non debbe facilmente presumersi un sì malizioso raggiro ». sentimenti, sarebbero anche più franchi nelle loro rispettosi Me morie, se non temessero la debolezza delle1 proprie cognizioni a1 PotIanno tassare. Tuttavia, data la crisi che attualmente i. ^°|nmer(-i° (^i Genova a causa delle misure recentemente (|j * nstria noi Lombardo-Veneto, il Ministro veda se è il caso r f * r.1( iTk ìn v,a ProvTisoria il provvedimento, che ha suscitato ante « clamorose rimostranze » da parte della Camera. f n *a * amera ed il Tribunale di Commerio, ogni volta che j. t . . ’ a zavano francamente la voce per invocare la tuteladegli verso il Vxhì LOlnmmiailti genovesi e mentre da parte del Governo tronearo ' ' cominciavano cenni di riforme liberali che i moti del ’21 era ne ^ i^? *la. ^ lua&S*oranza della popolazione il malcontento Vittori T ^ ra^10I^> diffusissimo. Col proclama del 14 maggio 1814 imposte rmiele aU VU a^olito ,a Jeva militare, soppresse parecchie dèll’agri itnw^78 (1'(lliaiat° (li voler «promuovere il rifiorimento iniziato ta ^ ^ eoinil)ercio », e successivamente da Torinoaveva ben prest litorme atte a canciliarsi l’animo dei sudditi (2). Ma vate le \ * fi C°S< erano camt>iate. Il 10 agosto erano state rinno-rese* allT" K ie C01porazioIli e maestranze, abolite dal governo frantili o perieo)USÌt se noi pensiamo alla istin-di una trarli • Ten°ve8i verso d servizio militare, alla mancanza esercito che er ^ mi'^are’ a^a riluttanza di servire nelle file di un farci un’idea *° PGr 8eco^ considerato come nemico, potremmo ««n'animo dei Geno^^611? che.una taI le^e doveva avere • le richieste presentate dal Brignole (1) Xel 1819 fu profittava importanti provv^** ^I’DI8tro interni Prospero Balbo il quale tiro, o andava preparando V nm°nti ^ carattere economico, giudiziario e 1 egisla-facendo pubblicare ecritti ed a""T'- pnbhUÓ* ad accogliere forme più liberali Btranone della seta grejnrin *' P ro posito della legge frnmentaria, dell'e- (2) A. SEOKK, n pZóZ'n . i SCL0PI‘S 0p- oit- PP- 21-22- (3) A. Segrk, op cit r - m""'9'Cr‘’ PP- «-44. (f) F. Se,,,,, op. eit.Pp 13. (°) Sclopis, op. cit., p. 19 Sale nel suo progetto (li costituzione a Vienna era quella, come abbiamo visto, che Genova fosse esente da guarnigioni militari. Nel 1816 la guarnigione di Genova, fra reggimenti di fanteria, d’artiglieria, guardie, doganieri sommava a 8600 uomini (1), numero veramente esagerato di fronte a una popolazione di circa 80.000 abitanti (2). E non solo tanta truppa era adunata nella città, ma nel cuore stesso di Genova venivano eretti i forti di Castelletto e di San Giorgio che non rispondevano certo a criteri strategici difensivi contro un assalto esterno, ma piuttosto al bisogno di tenere ben saldamente in potere una città che non si giudicava molto sottomessa (3). Intanto, a soddisfare le esigenze dell’erario e la necessità della riorganizzazione dello stato furono aumentate le imposte, tanto (1) Frizzi, rapporto cit. (2) La popolazione di Genova nel gennaio del 1818 ascendeva ad un totale di 78.414. Cfr. Lettere del Comune, 1818-19 in M. S. R. N. di Genova. (3) I lavori di fortificazione della città, già iniziati da Napoleone, furono proseguiti e finiti dal Governo sardo. Genova era considerata come una delie più forti ed inespugnabili città d'Italia, munita com’era di doppia cinta di mura ancora efficienti, per non parlare dei resti delle tre antichissime. Si distingueva: una vecchia cinta (la quarta, in ordine di tempo), in parte del X, in parte del XIV secolo, e una nuova cinta (la quinta), costruita fra il 1626 ed il 1632. La prima saliva dal mare presso S. Tomaso ai Bastioni di S. Michele, al forte di S. Giorgio ed a Monte Galletto, correva lungo il Bastione di Pietra Minuta, discendeva da Piano di Rocca a Carbonara per risalire a Castelletto. Da qui per il Portello, S. Caterina, YAcquasola, la collina di Picca-pietra, S. Andrea e Sarzana, ritornava al mare presso la Strega. La nuova cinta è quella in parte conservata, che dalla Lanterna saliva aS. Benigno, Colle degli Angeli, Granarolo, si riannodava al Forte dello Sperone, scendeva lungo la Collina di S. Giuliano, di Montesano, dello Zerbino e lungo la riva destra del Bisagno si ricongiungeva alla Strega con le vecchie mura. Circuito massimo, compreso il tratto di mare, m. 19.560. Ma la maggior parte dei forti furono costruiti o terminati nei primi anni della dominazione sabauda. Il forte S. Giorgio clic dominava la città, il porto, l’arsenale eie caserme presso l’Acquaverde, fu cominciato nel 1818 e terminato nel 1828. Nel 1819 fu cominciato il forte di Castelletto, che tante volte era stato costruito e distrutto, e fu terminato ugualmente nel ’28. Nel ’27 furono condotti a termine dal generale Agostino Chiodo i lavori di fortificazione della porta dcllaLanterna. Il forte del Begatto fu costruito tra il 1818 e il 1829. Il Belvedere dal 1815 al 1829. Nel 1815 furono iniziate contemporaneamente le costruzioni della Crocetta, in faccia al forte della Tenaglia, già esistente, del fortino Finn, a destra dello Sperone, anch’esso già esistente e dei Due Fratelli. Furono rinforzati e perfezionati i forti della Tenaglia, del CaxtcUaecio, del Diamante, di Santa Tech, di Richclieu (cominciato dai Francesi e terminato nel 1825). Il forte di Quezzi, cominciato dai Francesi, non fu condotto a termine perchè giudicato strategicamente poco felice, in quanto, se occupato dai nemici, dava loro il dominio di tutta la vallata del Bisagno. Furono ancora costruiti la torre di Quezzi (1819-25), San Giuliano a Mare {1819-31), San Martino (1819-31). il forte Ratti (1819-31), e i cosi detti Fronti bassi, opere di fortilicazionc dalla parte del Bisagno. Tutti questi forti furono 56 '1*4 t'U rimpiangere da alcuni lo stesso dominio napoleonico (1). . ,1Ustlaz*011^ della giustizia lasciava poi molto a desiderare, poi-fiudiu, a\emlo un onorario assai limitato, provvedevano ad P . Iltai*° a££ra\ando le tasse dei querelanti; tanto che, notava il sl uiolt* \olte il vincitore di una lite, per le spese giudiziarie (.. x,1Na ndla dura necessità di dover sborsare del proprio denaro. ! UUziollari £overnativi fossero mal retruibiti sotto l’ammini-.. . IU ‘saii|tr^aca ne* 1^20 (2) vedeva le cause del malcontento in \a mila « enormità delle imposte », nella « mancanza di un siste--111' o basato sui veri princìpi di giustizia e di equità, nel-i io delle procedure e dell’amministrazione politica ed econo- • . * * ^ M live'a la città come assai malcontenta, piena di sette, pe-a’ ’ ‘ si,l(*10sa di costituzione e di novità, ed osservava che a questo «li nudrn!*1 U1< ,H ,1:iìl esem^° (ìi ;,ltre nazioni. In realtà tutte le ragioni dnv l(0ntent0, se non sfociavano intuivano sogno d’indipendenza, zion^1 u |IU ( C SSariamente diriger8i verso la ^chiesta di una costitu-N((sf * Nlsh) con quali parole ne avesse il Brignole già erano ^ s-! * nece88^ dinanzi al Congresso di Vienna. Inoltre i Genovesi contattar lh 1,1 IOr° ChÌUS0 tran pensava che gli interessi geno- ma le. E P°tUto essere salvaguardati da una legge costituzio- nI II i nerla si tendeva una mano ai Piemontesi, considerati Oome -Can ° ",l 0,11 «**, come tendenti allo stesso fine. 1;,lr 1, *r,Iao IUvM> verso forme costituzionali il Consiglio Gene-Si ',T * »erò nel febbraio 1818 di chiedere al Ke chè vi niDnr » * n,)M1,n n< -1111 ()ratore Permanente presso la Corte affin-La rudtìIù n, ,ss' gli interessi di Genova e ne sostenesse le parti. « *» Mom , GrimaMii invi„te „ o, proponeva la nomina del cav. Nicolò Solari, consi-maniti di artiglierie. Il Df Ri Genova era talmente munita oh 0L^EIS n®l *847 osservava che la piazza di temere nè «li aggressioni nemi* T. *1 ^ t€neva Signoria, non aveva più che 8aUa °lnta del secolo XVII on li “riJ,0P0lari tumulti » (op. cit., p. 1395 e segg.) ""tratti t ordinamento dei larL '' 7 ,,,;,l,,,(‘Mt(5COnservata, v. C. Brvzzo, Capitolato, 111 Atti della 8 Pn { C0Hlr":»>»<' Mb mura di Cenava nel 1630-32, (\) Fri//» Stona patria, vol.LXIV 1935 v*; r Rizzi rapporto cit. (2) C. Boknatk op. cit., p. 344 e 8egg. gliere di stato, genovese residente a Torino, con l’annua retribuzione di lire nuove 3.000, ed era accompagnata da una lettera dei sindaei stessi al commendator Borgarelli (1). La supplica fu seccamente respinta, ed a ciò non fu estraneo il Conte Carbonara, che, in qualità di Primo Presidente prò tempore del Senato e 11. Commissario considerava irregolare e contraria all’ordine costituito la nomina di un oratore (2). Egli infatti si affrettava a scrivere al Borgarelli, facendogli notare l’inutilità di tale iniziativa, ed aggiungeva che « se poi si era avuto in vista di stabilire in Torino una persona, che combattesse le osservazioni, che i regi Commissari prò tempore si (1) A. S. T., Paesi, G. Genova, mazzo 6, 1817-1818, n. 21, e Archivio del comune in M. S. R. N.
  • ) L’assenza quasi abituale di alcuni, residenti spesso anche all’estero. — 7) La divisione del Corpo di Città in due classi, e la suddivisione della seconda in due categorie. Da un una copia posseduta dalla famiglia Marozzo della Rocca. Esse portavano la data, evidentemente erronea, del 26 maggio 1814, e si riferivano al parere di cui sopra trasmesso confidenzialmente dal Balbo al Provana con lettera del 14 maggio 181-1. Il prof. Vitale, 11011 essendo in possesso del parere di cui pareva essersi perduta ogni traccia, corresse la data 1814 in 1824, basandosi sul fatto elio alcuni degli inconvenienti lamentati erano appnnto durati sino a quell’anno, quando le Regie Patenti del 21 settembre adottarono precisamente parte delle proposte contenute nel memoriale. Inoltre, poiché nelle osservazioni del Provana non è fatto mai il nome dell autore del parere, il Vitale lo attribuì al Carbonara, che logicamente pareva essere la persona più idonea ad essere interpellata dal Ministro. Ma le Qsservazioni riguardano il parere del Sig. Senatore Reggente gli uffici generali presso il Senato di Genova, e questo era il Borelli; mentre il Carbonara ora Reggente prò tempore rUfficio di Primo Presidente del Senato. In quanto al fatto che nel 1824 il conte Balbo non era più Ministro del-1 Interno, il Vitale era costretto ad ammettere, per sostener quella data, clic egli potesse ugualmente essere a conoscenza del I*arere del Carbonara, e lo avesse quindi trasmesso «confidenzialmente» all’amico e collaboratore M. S. Provana. Ora, in base al documento originale del Borelli, che, dopo il riordinamento dell’Archivio di Stato di Torino mi fu facile rintracciare, possono essere ricostruiti i fatti così: già il conte Carbonara stava occupandosi di proporre una qualche riforma atta a facilitare i lavori del Corpo Decurionale, quando 1 affare di S. Domenico lo fece desistere dal suo proposito. Nell’aprile del 1820 il Balbo, Ministro degli Interni, diede l’incarico di tale-studio a Giacinto Borelli; questo il 2(5 aprile avvertiva il Ministro che il lavoro stava per essere ultimato, e il 7 maggio gli inviava il memoriale. Il 14 il Balbo lo trasmetteva «confidenzialmente» a M. S. Provana, che, il 26, rispondeva con le osservazioni, (pubblicate dal Vitale) molto eque e comprensive rispetto all’ambiente ed allo spirito pubblico genovese. A mio a' vivo è senz’altro da scartarsi la data del 1824, poiché bisognerebbe supporre che il Balbo, il quale aveva richiesto e sollecitato il parere, lo avesse poi lasciato a dormire per molto tempo, finché, sopravvenuti i moti del ’21, esso fosse stato del tutto dimenticata; che poi, cessato la bufera, nel ’24 Io avesse ripreso in esame e lo avesse trasmesso al Provana, in base alle cui osservazioni in parte furono fatte le riforme del settembre. Mi par verosimile piuttosto che le osservazioni del 1 io vana siano del 20, ma che esse non abbiano avuto immediato effetto data la situazione politica già torbida. Sopravvenuti i moti del *21, cessò ogni idea di riforma, lilialmente nel 1824 i vecchi documenti furono ripresi in esame, ed ebbero notevole iniluenza suUe riforme del 21 settembre. (>1 lato, osservava il Borelli, la nobiltà non poteva dimenticare di essere stata sovrana, e non cessava di cercare di tornare ad esserlo, e perciò mal sopportava die la seconda classe le fosse uguale per numero, « e forse maggiore in lumi ed influenza; » dall’altro, la seconda classe, composta dei più forti proprietari e dei più potenti negozianti, si considerava ingiustamente posposta alla prima. La divisione interna poi della seconda classe, tra possidenti e negozianti, contribuiva ad accrescere i malumori e ad aumentare le difficoltà, tanto più che era difficile fare una netta distinzione tra gli uni e gli altri. — 8) I contrasti interni e la eccessiva autonomia dei diversi uffici del Corpo Civico, special-mente dei Provveditori e degli Edili. Sicché non raramente avveniva che quegli uffici prendessero delle iniziative che il Corpo Civico non aveva nè approvato nè conosciuto. — 9) Le gare e lo spirito di parte di molti Decurioni. — 10) La presenza di un Commissario Regio, poco desiderato dai Decurioni che avrebbero voluto una totale indipendenza nelle loro deliberazioni. Dopo aver esposto le cause del male, il Borelli indicava i rimedi. Questi riguardano il numero dei Decurioni e la durata in carica dei Sindaci. Per ovvie ragioni il Borelli ometteva di trattare la questione del li. Commissario, sebbene chiaramente avesse riconosciuto nella sua presenza presso i consigli del Corpo una causa di malcontento. Rispetto alla prima questione, dopo aver senz’altro respinta l’idea di considerar valide le deliberazioni qualunque fosse il numero dei presenti, in quanto ciò avrebbe aumentato quelle assenze che si voleva diminuire, il Borelli proponeva addirittura di ridurre il numero a quaranta, cioè alla metà. Ma poiché il numero di ottanta Decurioni era stato formalmente riconosciuto, come un privilegio della Città, con l’articolo 13 delle R. Patenti 30 die. 1814, egli consigliava un mezzo elegante per diminuirlo senza ricorrere ad un atto ufficiale, che avrebbe potuto provocare lagnanze. Stabilendo, con decreto regio, che i Decurioni non intervenuti due volte all’anno alle adunanze dovessero considerarsi dimissionari, e non rimpiazzando i posti lasciati vacanti, si sarebbe ben presto raggiunto il numero desiderato. Quando poi questo fosse disceso sotto i quaranta, allora i nuovi dimissionari sarebbero stati sostituiti. Pel quel che riguardava i Sindaci, il Borelli osservava che già il conte Carbonara aveva progettato una riforma, alla quale non aveva dato seguito perchè « l’affare di S. Domenico, per cui aveva avuto qualche non meritato disgusto » l’aveva scoraggiato. Secondo il Borelli, sindaco di un anno e sindaco nullo si equivalevano. Era impossibile I( assumessero qualche responsabilità notevole due sindaci desti-a ^lLrare in carica così poco tempo. Egli proponeva che si pro-ni^assi io ]e ioro tuuzioui a cinque anni, come era accaduto per i (lui«iute il periodo francese. E poiché egli prevedeva le obbie-Iz;:,lli ^onuo, faceva notare che non per questo i Sindaci avreb-(1<> ^oduto d’eccessiva autorità e indipendenza, in quanto essi erano < ue, due erano i Consigli, e ad essi presiedeva il Commissario Regio. opposto, si avrebbe avuto maggior stabilità, si sarebbe eccitato lo o-n°' sai(^^ero stimolati i Sindaci a fare il vero bene e a reprimere ^ 1 d us*' rerminava consigliando che la riforma avesse luogo mentre ciano in carica i due sindaci attuali, che tanto degnamente parevano assolvere le loro funzioni (1). M ^ k‘1^0 ^ asmise il Memoriale del Borelli, confidenzialmente a • ^vana, che rispose con una serie di osservazioni cor-y“ ai ^-rsi paragrafi su esposti (2). Dopo aver approntine!-!! 1Ìnea 8eUerale ^uanto i! Borelli aveva detto intorno al fiduci !r°P1)0 ^lan(^e decurioni, il Pro vana esprimeva la sua ( le? co^ ^emP° e coii una « blanda impulsione per parte del — >>? la mal celata avversione del Corpo cittadino per il nuovo deir ■ ( °Se Saie^e venu^a meno. Ben comprendeva la fondatezza rioni S^Vaz*0Ile terza> e di quelle seguenti, sull’indolenza dei Decu-c.j erimnata anche dalle molteplici loro cure speciali, tanto più " dovuto -U°i aC< adeVa *n l)arte anche a Torino « quanto più avrebbe portar l ^ ^ ^ Genova ove °£ni nuova istituzione non poteva non r-i7.v,e ( (>U M natlUalniente una sfavorevole opinione? » Circa l’osser-coim ®ettnna sulla divisione delle due classi il Provana diceva di traditi ?1U! tUtt° 11 (lanno? perchè, se a Torino tale divisione era "li n«n JU ^1/11 vana ben mostrava come i tempi fossero orinai maturi c tali da travo gere con l’imminente rivoluzione ogni piano di compromesso, ogni indecisione. Liberali e reazionari dovevano ormai fronteggiai si p r combattersi o cedere gli uni alle esigenze degli altri. L, pei 0 ‘ d’Italia, poiché le esigenze dei primi poggiavano sopra il di nazionalità, fu facile cli’essi riuscissero a piegare a k 1 e ( menti migliori dei secondi, e a formare quell’unione degli spili*1 necessaria per l’unità italiana. Per quanto fondate possano essere apparse al Governo U ossei vazioni del Borelli e del Provana, certo c che per tutto que l’anno 1820 ed in quelli che immediatamente seguirono nessun fu apportato ai segnalati inconvenienti, tanto clic nella seduta ( e settembre 1823 il Conte Carbonara, d’accordo col Ministro, autom zava i Sindaei, Stefano Rivàrola e Giovanni Quartara, a lasciar \otau il Consiglio anche se non fosse stato raggiunto il numero legittimo Al principio del 1824 si notarono invece alcuni cenni di riioima, come, le agevolazioni concesse con li. Biglietto del 2 marzo por 1 < 1( zl011t dei Consiglieri, ed il fatto nuovo che i due Sindaei dell’anno picce dente continuarono a restare in carica (2). Finalmente le llegie Patenti del 21 settembre* 1824, senza touaie la legge fondamentale del 1814, abolivano la distinzione fra le lU categorie costituenti la seconda classe dei Decurioni, prolungagli (1) Cfr. il verbale della seduta nell7Archivio del Comune, Consiglio generai (1815-1828), in M. S. R. N. di Genova. . (2) Nella seduta del 20 marzo il Sindaco di prima classe Stefano pronunciò un discorso di ringraziamento a Sua Maestà, in cui trovava uhm o rievocare la passata floridezza genovese o di spronare i Consiglieri ad uscii e < quella loro comune indolenza. « È troppo bella questa Patria » diceva, « tioppo grande il nome di Genova e de’ Genovesi nella storia dei tempi; siede ancoia adesso Genova città maggiore, quasi signora del Commercio sul vasto e ucco mare che bagna le Greche, le Itale, !e Franche, Iti Ibere e le Libiche sponde, perchè non debba chiunque de’ suoi tigli riputarsi a sommo onore di trovarsi ti a i moderatori anche del solo interno suo ordine e della sua particolare prosperi No, non vi è qui tra noi individuo, che così non ne pensi, e voi Signori antichi Decurioni, vedete nel vostro, confondersi lo spirito virtuoso e patrio col quale i nuovi vostri colleghi si prostrano al grande religioso atto, [quello del giuramento] che primo fondamento è d’ogni più grande, e ben augurata umana istituzione; e Voi Signori nuovi Decurioni accedete all’ara de’ Santi Evangelii ». (Cfr. il verbale della Seduta licll1 Archivio del Connine, voi. cit.). 67 a tre anni la durata in carica dei Sindaci, prolungavano pure quella dei diversi Consiglieri eletti ai vari uffici; stabilivano che i Sindaci, o insieme o separatamente potessero presiedere le adunanze di tutti gli uffici e del Consiglio minore, togliendo così in questo caso la separazione fra i due ordini; per la validità delle deliberazioni fissavano la presenza dei tre quinti e non più dei due terzi dei Consiglieri, mentre gli assenti per più di un mese dagli uffici a cui. erano nominati, senza che avessero avvertito i Sindaci per hi sostituzione, dovevano essere considerati dimissionari e definitivamente sostituiti con altri; e dimissionari appunto, secondo la proposta del Borelli, dovevano considerarsi i Consiglieri assenti per due sedute senza giustificazione legittima e preventiva (1). Erano così accolte in parte, a quattro anni di distanza, le proposte contenute nel Parere del Borelli. Si trattava, è chiaro, di una mezza misura, che non tagliava affatto il nodo alla sua base, come avrebbe voluto M. S. Pro vana, ma, lasciando sussistere la divisione fra le classi, permetteva che il più grave dei mali seguitasse il suo corso. La divisione di classe fu abolita soltanto con l9Editto del 28 novembre 1847, che istituiva i consigli provinciali e comunali elettivi (2). Ma allora molti fatti nuovi erano sopravvenuti, e in ventanni l’Europa e l’Italia avevano fatto un ben lungo cammino! Ci siamo piuttosto intrattenuti sopra questo episodio perchè presenta un interesse notevole non tanto per la ricostruzione di alcuni particolari d’importanza secondaria, ma per una più precisa comprensione dello spirito pubblico genovese, nel quale era dato scorgere, intorno al 1820, non solo uno stato d’opposizione verso il Governo, ma pur contrasti e disparità di vedute tra i Genovesi stessi, tra le classi, tra gli uffici, tra i funzionari, così come disparità e contrasti abbiamo notato tra il ceto mercantile e quello marinaro. Ma quegli stessi contrasti, per gli urti reciproci e gli inconvenienti ai quali davano luogo, facevano maggiormente desiderare una legge, non basata sul privilegio, ma sulla ragione e la giustizia; facevano desiderare quindi, a Genova come a Torino, riforme di carattere costituzionale. Così i moti del 1821 dimostrarono la saldezza dell’unione fra la Liguria e il Piemonte, in quanto ormai le speranze, gli ideali, l’idea di costituzione insieme a quella di indipendenza erano diventati comuni (3). (1) V. Vitale, op. cit., p. 90. (2) V. Vitale, op. cit.., p. 91. (3) C. Bornate. i». 318, op. cit. Vedi pure dello stesso autore La porteci- pozione degli Studenti Liguri ai Moti del 1821 e la Chiusura dell l niversita, Bergamo, s. d. (is Senza diffondermi nella descrizione dei moti genovesi del 1821, osserverò soltanto che essi rivelarono tra- i Genovesi una linea di condotta chiara e decisa. Il popolo genovese in quel marzo del ’21 così pieno di promesse, di illusioni e di amarezze, apparve prima teso in una fiduciosa aspettativa (1), poi gioiosa per lo Statuto concesso (2), e infine si mosse tutto insieme, compatto, in un’esplosione di sdegno contro quello che*pareva un tradimento premeditato (3). I iò che il popolo e le classi inedie chiedevano (non forse una parte della nobiltà che sperava in una possibile restaurazione oligarchica (4) era costituzione e unione con la Lombardia, e cioè, come logica conseguenza, guerra all’Austria. Così le necessità materiali dei commercianti e le idealità dei patriotti coincidevano nelPimpostare il problema dell’indipendenza dallo straniero la cui presenza urtava contro gli interessi degli uni e le aspirazioni degli altri. Ma il carattere dei moti genovesi del 1821 rivela un altro fatto che deve esser messo in evidenza: i liberali genovesi, lunge dell’approfitta re delle circostanze per iniziare un moto separatista, magari con tendenze unitarie verso altre provincie italiane, si lasciarono guidare dai liberali di Torino, . 79-80. (3) C. Spellanzon, op. cit., voi. il., p. 218, (4) Cfr. documento K° 4. Anche in questo campo le autorità cittadine tennero un contegno dignitóso ed equilibrato, tale da mitigare per quanto fosse stato possibile, il nuovo rigore che ostacolava gli studi. Infatti il 20 aprile 1821 la 11. Università, per disposizione governativa, era stata chiusa, e ben presto, nonostante le suppliche della 11. Deputazione agli Studi, le aule erano state occupate dai soldati, mentre un’inchiesta si apriva sulla condotta tenuta dagli studenti durante i moti (1). In questa circostanza l’atteggiamento tenuto dalla R. Deputazione presieduta dal Marchese Niccolò Grillo Cattaneo fu in realtà assai diverso da quello descritto da Giovanni Ruffini nel suo Lorenzo Benoni. Lunge dall’infierire nelle rappresaglie, la R. Deputazione cercò di mitigare il più possibile gli ordini governativi, di eseguirli con larghezza di vedute, mantenendo una dignitosa libertà d’azione entro i limiti consentiti dalla severità dei regolamenti (2). Questa condotta della R. Deputazione non era nuova, essa corrispondeva all’atteggiamento della classe colta ed intellettuale genovese che, ostile generalmente al Piemonte, aveva considerato l’unione della Liguria agli Stati Sardi come un affronto ed aveva mantenuto sempre un contegno di resistenza passiva di fronte al Governo (3). Già in occasione di un tumulto avvenuto il 21 giugno 1820 durante la festa di S. Luigi nella Chiesa dell’Univcrsità, la R. Deputazione aveva dimostrato la sua volontà d’indipendenza dal Governo insistendo per il rilascio dei due arrestati Giuseppe Mazzini ed Andrea Gastaldi (4). E mentre frequenti erano le dimissioni da parte dèi corpo insegnante, sì da destare la sorpresa del Governo (5), la R. Deputazione non tralasciava occasione per affermare i propri diritti e la propria dignità, di fronte all’eccessiva ingerenza delle autorità superiori, come ebbe a dimostrare nel giugno 1819 un breve carteggio polemico tra il marchese Grillo Cattaneo ed il ministro Prospero Balbo a proposito deW indipendenza dell’Università genovese ((>). Dopo i moti del 1821 il Governo avrebbe voluto da parte della R. Deputazione un rapporto circonstanziato « sulle qualità morali dei (1) Cfr. C. Bornate, La partecipazione degli studenti liguri ecc., p. 26 sgg. (2) Ciò è dimostrato, in base a numerosi documenti, da A. Codignola, La giovinezza di Mazzini, cit., p. 123 s^g. (3) A. Codignola, op. cit., p. 115. (4) A. Codignola, op. cit., pp. 57-58. L’episodio è raccontato da E. Celesla, Storia dell1 Università di Genova, in continuazione a quella del l’Isn ardi, Genova 1881' 1887, voi. II., p. 303. (5) A. Codignola, op. cit., p. 117. (6) A. CodIgnola, op. cit., p. 119 ed appendice 2, 74 signori Professori, su! loro modo (li pensare, sui principi in materia di Religione, sulla riputazione intorno alla capacità, sulla riputazione a riguardo delle abitudini e rapporti sociali, sull’attività e zelo nell’adeniprmento de’ loro doveri, sulla condotta nelle ultime vicende politiche » (1). La R. Deputazione si riliutò di adempiere a sì basse funzioni, osservando con sottile ironia che « credeva invece clic ciò dovesse ben sapersi dalle altre autorità alle quali rotini dal Governo affidata la Polizia generale destinata ad invigilare appunto sulla condotta morale, sui principi, discorsi, riputazioni, abitudini e rappòrti sociali di' ciascun individuo ». Sicché avvenne che il Governo si decise ad indagare sulle opinioni politiche dei componenti stessi la R. Deputazione! (2). Vero è che questa, per quanto le fu possibile, applicò agli studenti, colpevoli di aver partecipato ai moti, pene irrisorie, tali da non pregiudicare realmente i loro studi. Tale fu il caso appunto di Mazzini, dei fratelli Ruffini, di Federico Campanella e di molti altri. Pur riconoscendo tuttavia i buoni uffici della R. Deputazione, non possiamo * fare a meno di notare che il Governo stesso stimò opportuno adoperare una certa mitezza, che non doveva essere apertamente dimostrata, ma applicata nella pratica. Sicché, mentre pene severe venivano minacciate, si lasciava alla li. Deputazione la possibilità di difendere i colpevoli, e, mentre l’Università era chiusa, si permetteva che le lezioni avvenissero in casa dei professori (3). In fondo, da parte del Governo, ciò era la confessione della propria diffidenza e della propria debolezza. Era una mezza misura che non soltanto irritava gli animi, ma, per essere assurda, faceva cadere in discredito la stessa autorità della legge. E mentre i sospetti e le diffidenze continuavano a pesare sulla libera attività individuale, il malcontento di tutte le classi sociali si faceva maggiore in Genova, orientandosi a poco a poco non più contro un popolo, dieci anni prima considerato straniero, ma contro una forma di Governo, che non aveva saputo ancora adeguarsi all’evoluzione dei tempi. (1) A. Codignola, op. cit., p. 123. (2) A. Codignola, op. cit., p. 124 (3) C. Bornate, op. cit., p. 41. CAPITOLO TERZO L’attività economica e l’opinione pubblica genovese dal 1825 a! 1835. I principali rami del commercio genovese. — Il commercio granario e le tariffe differenziali. — Diritti e formalità doganali nocivi al commercio. — L’azione economica, politica, sociale del Corriere Mercantile e della Camera di Commercio. — Il Porto Franco. — L’industria di Genova in un rapporto della Camera di Commercio. — Affermazioni d’italianità nella stampa genovese intorno al 1830. — La borghesia genovese dopo il ’30. — Politica estera ed interna del Piemonte nei primi anni di regno di Carlo Alberto. — Le tendenze liberisticke genovesi e le prime timide concessioni governative. Il commercio (li Genova, fonte prima della ricchezza della città, può essere seguito nelle sue fasi di sviluppo e nei suoi periodi di crisi attraverso lo studio del movimento del porto e deve essere messo in relazione con la politica doganale ed i rapporti commerciali del Piemonte con le principali nazioni esportatrici ed importatrici. Possiamo suddividerlo nelle seguenti quattro categorie: commercio di importazione e consumo, riguardante i generi alimentari ed i manufatti ai quali l’industria locale non provvedeva affatto, o solo in parte; commercio di transito, riguardante le merci dirette in Isvizzera, in Lombardia, in Francia e in una parte della Germania. Si notava in questo ramo la tendenza a conquistare i mercati dell’Emilia e della Toscana attraverso le vie di Piacenza e di Parma, in concorrenza con Livorno; commercio di esportazione, di manufatti e prodotti nazionali; commercio di riesportazione, specialmente di grani del Mar Xero, della Sardegna, dell’Italia meridionale. Le possibilità di sviluppo dei singoli rami erano naturalmente in relazione con il benessere materiale delle relative categorie di commercianti. Gli ostacoli posti a tale sviluppo dovevano influire sopra il loro atteggiamento di fronte al Governo, specialmente in quanto la 76 I pubblica opinione li considerava facilmente eliminabili, purché fosse stata offerta la possibilità di indicarne e discuterne liberamente i mezzi. I problemi commerciali erano poi in relazione diretta con quelli delle comunicazioni, che dovevano essere faciltate ed accelerate, con la situazione della politica europea, e con la sicurezza dei mari, che poteva essere raggiunta solo eliminando la pirateria e rendendo sicuri i porti dal punto di vista sanitario. Se noi ci limitiamo ad osservare l’aumento numerico delle unità componenti la flotta mercantile sarda, in tutte le sei direzioni, in un periodo di undici anni (1820-1830), non possiamo farea meno di notare un progressivo costante aumento che, dopo il *25 si fa improvvisamente assai più rapido (1). Ma nello stesso periodo il movimento complessivo del porto di Genova non aumenta affatto, come si potrebbe supporre, ma diminuisce, sia come numero sia come tonnellaggio. Infatti nel 1820 entrarono in porto 6.4Gl navi, enei 1830 soltanto 6.151, con una diminuzione complessiva di 11.118 tonnellate. E il più notevole è che la diminuzione non si verificò solo per le navi estere, nel qual caso lo scopo per cui erano state messe le tariffe differenziali sarebbe stato raggiunto, ma anche per le nazionali. Le quali nel 1835 diedero un movimento complessivo inferiore a quello del 1814(2). È quindi evidente che il commercio dall’atto dell’annessione della Liguria al Piemonte fino almeno a quella data si mantenne stazionario, risentendo qualche benefico effetto soltanto in anni particolarmente felici, e piuttosto per occasionali richieste dei mercati europei che per un’oculata politica commerciale. Ad esempio nel 1827 il traffico accennò a migliorare, sicché Jì gettito delle dogane salì da 5.889.843 lire a 6.254.016. L’anno seguente risentì in parte dei benefici effetti del ’27, ina poi, sia in relazione alla guerra d’Oriente (1828-29) sia per diminuzione delle richieste dei mercati europei, il commercio decadde; si risollevò notevolmente nel ’33, ma nel 1835 era inferiore a quello di dieci anni prima (3). Consideriamo il commercio dei grani, che era certamente una lanche più importanti, soprattutto in quanto alimentava una le 100) SÌ veiii,ca soprattutto nelle navi di maggior tonnellaggio (oltre stasi o addirittura * 616, meUtl'C nelle navi (li medio tonnellaggi*» abbiamo Ctò dimostra che mentre si sviluppa la navi-LrZo in 2 f10" dÌ SA*#0 corso, diminuisce quella di piccolo cab., itaS del T^r. Pa;:leV1(ln1,,ÌnnÌ8Ce Ìltrftffico t» Genova .,1 i porti (2) Cfr. documento n. 6°CUm0llt0 n* 4 in Wendif? * Vomito lavoro. (3) Cfr. Cevasco op. cit., voi. II, p. 29. ( i forte riesporta/ione. Il M. 17 gennaio 1825 stabiliva il dazio di lire 1) sul grano importato con navi straniere, di lire 0 su quello importato con navi nazionali (1). Il provvedimento, se ottenne l’effetto di aumentare il numero delle navi sarde dirette oltre i Dardanelli in confronto a quello delle navi straniere, non aumentò affatto il nostro commercio globale con l’Oriente, appunto per la diminuizione del naviglio estero (2). Nè il commercio dei grani aumentò nel suo complesso, anzi, la quantità importata nel 1825 11011 raggiunse quella del 1823, quando non esistevano ancora le tariffe differenziali, e nell’anno seguente discese notevolmente, nè più si risollevò in modo degno di nota (3). Perciò, se confrontiamo le tabelle riguardanti il commercio generale, quelle riguardanti il commercio del grano e la proporzione tra le navi nazionali e quelle estere importanti grano, possiamo dedurre clic la tariffa differenziale non ebbe altro effètto (oltre quello di allontanare le bandiere estere) che di indirizzare, negli anni di maggior richiesta europea, molti bastimenti sardi piuttosto agli empori granari che ad altri. Perchè nel suo insieme il commercio granario aumentasse davvero, sarebbe occorsa una maggior sicurezza di smercio, e non quella aleatoria probabilità basata sopra i cattivi raccolti del Piemonte, della Lombardia, della Francia e dell’Inghilterra. (1) È notevole che mentre in certo modo il governo di Torino intendeva nel 1825 favorire Genova, sia pnre con l’errato metodo delle tariffe differenziali, non si curava di abbassare le tariffe dell’importazione di grano per via di terra, che mantenne a lire 6 il qt.; il che equivaleva a una proibizione, (cfr. R. Biìoglio D’Aiano, op. cit., p. 147). La tariffa dell’importazione granaria per via di terra fu diminuita solo nel 1834 con M. C. 17 marzo che la portò a lire 3. Quest’alta tariffa si doveva al fatto che se il grano importato per via di mare era destinato iu maggior parto a 11011' uscire dal Porto Franco o- dai magazzini franchi di Genova, «niello introdotto dalla Francia o dalla Lombardia faceva concorrenza ai produttori nazionali. Ma una così alta tariffa era destinata naturalmente a provocar»* 1111 forte contrabbando, nocivo all’erario ed alla moralità. Infatti lo stesso manifesto del ’34 osservava: « Se i vigenti dazi sulla linea marittima sono i più alti a conciliari* le diverse esigenze dell!industria agricola, della navigazione nazionale,, e dell’interna consumazione, la loro esagerazione però sulla frontiera di terra presta fomite ad 1111 contrabbando che mal potendosi reprimere con discipline daziarie e colla esistente forza attiva delle gabelle, perverte la morale pubblica, ed allatto contrasta allo scopo di utilità a cui tendono ». (2) Nel 1824 la proporzione fra là quantità di grano trasportato con navi nazionali ed estere era la seguente: il 30% con navi nazionali, il 70°/0 con navi estere. Nel 1826, dopo l’applicazione delle tariffe differenziali, si passò al 76°/0 trasportato con navi nazionali, e nel 1830 il naviglio estero non trasportò elle il 7l/2°/o contro il 921 /., n/„ ormai accaparrato da quello nazionale. Cfr. A. Fossati, Saggi di politica economica Carlo Albertina in Biblioteca della Società Storica Subalpina, Torino, Voi. 118, 1980, p. 42. (3) Cfr. documento N. 8. -78 Ma non soltanto por la politica doganale il commercio trovava stat oli al suo sviluppo, ma per l’enorme quantità dei diritti por-.U<1.1 (li ancoraggio (2), di faro, di pilotaggio (3); diritti sani- uuo sconfinato amore per quella Città e per quei porto. Dell attività della Camera di Commercio è stato diffusamente lai ato mila magistrale opera del Mioli. Non sarà male però qui 1 itaie alcuni esempi atti a dimostrare l’interesse che tale istituto loitava non solo alle necessità cittadine, ma a quelle dell’intero Jtat°. lia gli esempi atti a dimostrare come la Camera difendesse * i intei essi genovesi, sono notevoli le memorie presentate dal vice-presidente Morro tra il 1825 ed il 1828 (1). Tra le questioni più spinose era quella del Porto Franco e della concoiienza di Nizza, di Livorno e di Marsiglia. La Camera notava e attraverso Nizza entravano per contrabbando merci francesi, fatto *e, menti e si risolveva in danno per Genova, non era in fondo vantaggioso neppure per Nizza, bensì per Marsiglia. E non si peri-ava di confrontare i metodi dell’antica Repubblica genovese con p 1 ^tó\emo piemontese: «Negli antichi tempi nei quali era enova sotto il Governo aristocratico si stava sempre in osservali*10’ che le diminuzioni dei dazj sia in Nizza, sia in Livorno o a ove non rendessero pregiudicato il Porto Franco. Quindi se un oveino vicino avesse fatto maggiori vantaggi a’ suoi Porti, si e immediatamente pensato a fare almeno l’equivalente in Genova. Queste sono le segrete e prudenti misure che ogni Governo ere e pm utili a’ figlj suoi. Nelle rivalità la ragione dello Stato rende sacre certe esenzioni, certe, facilità. Un solo era allora il Porto , Stati di terraferma, ed era giustissimo che le merci dirette izza nell interno godessero di maggiori facilità di quelle, che « essero esservi introdotte dalli porti esteri. Ora i due porti di enova e di Nizza sono sotto lo stésso vessillo di Savoia; meritano 1 11 “i Un u^ua^e Pr°tezione ». E, ripeteva, le facilitazioni je le quali gode Nizza sono utili poco a quella Città, moltissimo alla i- c annose a Genova, dannose all’erario. « Godano pure i , ce^a ^lall( higia accordata a tutto quel contado, ma non j t S° COn ^an^a Perniciosa concorrènza il Commercio di Genova (li • T v^onament* del Piemonte. I Genovesi desiderano il bene ' T ni" HKlJ *•» famiglia ardiscono racco- roso dì t +f,a teIUS^zia’ ec* alla hontà del Sovrano, che è padre amoroso di tutti i suoi popoli ». Ma non «taM» le alte ter„e , „ formi,KJ oascrvaTO a “ r,“ *»• elio trionfano per dar luogo alla formazione di nuovi stati indipendenti, come il Belgio, o sono repressi per mezzo di quell’intervento non evitato per le platoniche dichiarazioni del Lafitte. Mentre a Genova la stampa si fa più riservata ed i trafilici continuano ad occupar l’attenzione della gran massa dei commercianti, dei commessi, dei lavoratori, tutto intorno l’Italia e l’Europa si agita; e alla rivoluzione del Belgio tien dietro il moto polacco, ed in Italia la rivoluzione delle Romagne e delle Legazioni pontifìcie, mentre dovunque si sviluppano le associazioni segrete, e il sistema politico internazionale creato dalla Santa Alleanza viene scosso dalle sue fondamenta, sì che al predominio austro-russo va sostituendosi a poco a poco quello franco-inglese. L’evoluzione dell’opinione pubblica europea si accentua in senso democratico; il prevalere delle monarchie occidentali su quelle centro-orientali determina il trionfo delle idee costituzionali su quelle assolutiste. Nello stesso tempo si sviluppano, appunto nell’Europa occidentale, le teorie socialiste e comuniste di Kobert Owen, di Saint Simon, del Fourier, di Luigi Blanc, e si va costituendo un partito democratico radicale in Francia ed in Inghilterra, che, pur non mirando ancora alla formazione di un vero e proprio governo socialista o comunista* tende ad elevare le condizioni delle classi inferiori e a renderle partecipi del governo. Così abbiamo in Inghilterra tutto un movimento riformista che, iniziato dal Kussel nel 1831 nel campo elettorale, finisce per assumere un aspetto decisamente rivoluzionario con il tentativo dei cartisti nel ’37. Ma è da notare che il movimento riformista in Inghilterra, partito dal popolo contro la classe dei privilegiati rappresentata in gran parte dai proprietari di terre, sostenitori del protezionismo, s’incontra con le aspirazioni degli industriali e dei commercianti, e, guidato da questi, sfocia in un movimento liberalista, destinato a dare il tono all’opinione delle classi mercantili di gran parte d’Europa. Così la prosperità economica, l’intensificarsi degli scambi, 10 sviluppo dell’industria e l’elevamento delle classi inferiori, già tempestivamente determinato dalle riforme precedenti, salvano l’Inghilterra dal pericolo d’una rivoluzione sociale (1). All’opposto in Francia, ove la borghesia capitalista accentua sotto 11 regno di Luigi Filippo i suoi privilegi e i suoi monopoli, ove l’industria non ancora sufficientemente attrezzata non può accordarsi con la politica liberista generalmente richiesta dai commercianti, sono « (1) Sul movimento liberale inglese eer incoraggiare quell’industria ed il relativo commercio occorreva rendere libera l’esportazione. Pochi anni dopo il Corriere Mercantile (1) metteva in evidenza l’importanza che le sete italiane andavano acquistando in Inghilterra; nel 1829 infatti accanto a circa 1.800.000 libbre di sete bengalesi, cinesi, persiane e levantine erano state importate in Inghilterra 834.000 libbre di sete grezze italiane e 180.000 di lavorate. Nel 1832 la questione fu ripresa dalla Camera di Commercio di Genova (2) che rilevava il fatto che nel Lombardo Veneto era permessa l’estrazione. Ciò danneggiava evidentemente gli interessi liguri-piemontesi, poiché le sete lombarde erano vantaggiosamente in concorrenza con quelle sarde sulle piazze di Lione e di Londra, mentre all’estero ormai si fabbricavano ottimi tessuti. L’anno seguente gli interessi dei produttori piemontesi furono sostenuti da M. Antonio Martinengo, il quale in un’operetta « Del sistema proibitivo dell9estrazione delle sete grezze da llo Stato e della sua influenza sulla pubblica prosperità », lodava il sistema e spiegava altrimenti le cause della decadenza del commercio ligure. Finalmente, con M. C. 7 aprile 1835 fu concessa l’estrazione della seta grezza di Novi con un diritto d’uscita di L. 3 al Kg., e con M. C. 9 aprile 1836 il provvedimento fu esteso a tutte le provincie (3). Segno di un nuovo orientamento nella politica commerciale governativa e della buona riuscita dell’esperimento. Infatti le osservazioni del Corriere Mercantile, mentre continuavano ad accennare all’inerzia del mercato di Genova nel 1835, notavano l’improvviso rifiorire del commercio della seta, specialmente delle grezze di Novi, cha erano smerciate tanto rapidamente in Inghilterra, da esaurire in breve tempo i depositi del Porto Franco (4). Il provvedimento, al quale il Governo era stato indotto dopo tante discussioni e titubanze, si rilevava non solo utile all’interesse dei commercianti, ma a quelli degli stessi produttori, che vedevano allargarsi il consumo dal Piemonte all’Europa, attraversò i mercati di Londra e di Liverpool. Il fatto indica perciò che gli interessi della Liguria potevano conciliarsi con quelli del Piemonte, purché da una parte e (1) N° 76 - 22 settembre 1830. (2) A. Possati, op. cit., p. 119. (3) A. Fossati, op. cit., p. 139. (4) N° 12-10 febbraio e N° 26-30 marzo 1836* 104 dall’altra venissero meno i preconcetti, le gelosie, e si osasse uscire dal periodo delle irresolutezze per attuare una politica più largamente nazionale. Ma di fronte ad una questione risolta, molte altre restavano in sospeso, ed erano oggetto di lagnanze da parte dei Genovesi. I continui accenni al ristagno del commercio che si riscontrano quasi ogni mese nelle osservazioni del Corriere Mercantile, i confronti con Livorno, indicano la tendenza ed il bisogno di ottenere regolamenti e leggi più liberali, quali si andavano da tempo attuando in Toscana (1). E mentre i contrasti di interessi e la concorrenza accentuavano gli urti fra regione e regione d’Italia, l’opinione pubblica si orientava sempre più verso l’idea di un’unione e di una conciliazione, e notava che proprio lo spezzettamento d’Italia, con la diversità delle sue leggi e dei suoi usi, contribuiva alla sua rovina. Mentre era diffusa la convinzione che le tariffe differenziali e le pastoie doganali inceppassero il commercio di Genova, impedissero il transito ed il commercio di commissione; mentre si lamentava la mancanza in Genova, di un vero Porto Franco che per ampiezza territoriale e facilità di operazioni fosse almeno uguale a quello di Xizza, Leopoldo di Toscana concedeva ampie facilitazioni alle navi estere che facevano scalo a Livorno, estendeva notevolmente la cinta del Porto Franco e concedeva intera franchigia alle merci importate per via mare, attuando una così importante e vasta riforma da provocare l’entusiasmo dei Livornesi, che, la sera del 1 agosto 1834 improvvisarono una spontanea illuminazione (2). Ed ecco i primi risultati, trasmessi dal corrispondente livornese al Corriere Mercantile: « Già un bastimento americano carico di caffè, che era giunto a Genova e colà scaricava, ha avuto ordine di recarsi a Livorno con quanto carico gli rimaneva a bordo, ad è qui arrivato fin da ieri con mezzo milione di libbre di questo articolo. Ecco il primo effetto di questo benefìzio del nostro provvido Monarca ». Queste parole, riportate dal Mercantile senza alcun commento, dovevano suonar ben tristemente agli orecchi dei Genovesi. Il contrasto di interessi che divideva i commercianti dai naviganti e dagli industriali si risolveva in ultima analisi in uno svantaggio generale. E allora, anche in questo caso, occorreva trovare una formula conciliativa. Per sviluppare il commercio occorreva conquistare mercati nuovi, vincere la concorrenza (1) Sul liberale governo di Leopoldo II cfr. L. Cappelletti. Austria e Toscana, (1824-1859), Torino 1918. (2) C. M.; N. 63-9 agosto 1834, 105 degli altri porti con una maggior attività, ma soprattutto ottenere sostanziali riforme doganali da parte del Governo. Finche si voleva soltanto agevolare il commercio di commissione, si restava nello spirito mercantilistico dei tempi che occorreva superare, e non si veniva affatto incontro ai bisogni degli altri rami della ricchezza e della produzione nazionale. La formula conciliativa si doveva trovare sulle basi dello sviluppo del commercio di importazione e di esportazione, la quale richiedeva di necessità un’industria nazionale capace di alimentarla. Questa era la via indicata dai rappresentanti sardi all’estero, come il vice console di Filadelfia A. Garibaldi che nel 1830 proponeva di istituire dei depositi generali di mercanzie sarde nei diversi stati d’America (1), e più tardi Felice Milanta, console onorario a Odessa, che indicava quali fossero i principali generi di esportazione con i quali si poteva sviluppare il commercio con il Mar Nero ed il Mar d’Azofif (2). Ma non soltanto Livorno, con i suoi recenti sviluppi, danneggiava l’emporio ligure, ma anche Marsiglia e Nizza e Trieste. La concorrenza con Marsiglia e Trieste andò accentuandosi quando cominciarono e svilupparsi le prime reti ferroviarie; quella con Nizza era in atto fin dal secolo precedente. Mentre per le varie cause, alle quali ho accennato, il commercio genovese non prosperava come sarebbe stato desiderabile, i governi di tutta l’Europa mostravano, per vari segni, di star per uscire dall’intransigente protezionismo, per arrivare, non dico ad un’affermazione teorica di liberismo, propugnata solo da pochi, ma ad una serie di accordi bilaterali che praticamente ottenessero lo stesso effetto. L’esempio principale di liberismo interno a sfondo politico era offerto dalla recente Lega Doganale Tedesca. Lo Zollverein, costituitosi fra il 1819 ed il 1836 (3) per opera di Federico List, andava costituendo un blocco unitario, con la soppressione delle dogane interne e la creazione di un’unica dogana protezionistica periferica. Era un programma politico ed economico insieme, a tendenze pangermanistiche, creato inizialmente in opposizione alla politica austriaca, che cercò (1) Considcrations politiques et commerciales sur Ics relations que les Etats de S. M. le Boi de Sardeigne pourraienf ouvrir avec les ])eux Ameriques. Filadelfia 1830, in A. S. T., Sez. I, Consolati Nazionali, Filadelfia, mazzo 2. (2) Relazioni marittime e commerciali fra gli Stati di S. M. il Re di Sardegna e i Porti Russi del Mar Nero e d’Azoff (Snnto in C. M. N° 31-20 aprile 1842, N° 38-14 maggio). (3) A. Segre, Manuale di Storia del Commercio, voi. II, p. 179. 106 in tutti i modi di ostacolarlo o di prenderne la direzione (1). Ora, sia per il comune atteggiamento antiaustriaeo, sia per le comuni tendenze unitarie, e per gli interessi che, attraverso la Svizzera, legavano l’Italia settentrionale alla Germania occidentale, lo Zollverein non poteva mancare di suscitare nella nostra città interesse e simpatia. D’altra parte anche l’Austria, mentre tentava invano di opporre al liberismo interno dello Zollverein un maggior liberismo austriaco (2), troppo in opposizione alla sua polìtica italiana, cercava di uscire dalla situazione di inferiorità stipulando trattati commerciali con le principali nazioni d’Europa e d’America. Nel 1831 concluse infatti accordi con ringhilterra, con la Norvegia e la Svezia, con gli Stati Uniti, col Marocco. Nello stesso anno, spinta dalla necessità di non perdere i mercati dell’Europa centrale, di fronte all’accentuarsi del nazionalismo tedesco, stipulò un trattato di reprocità con la Prussia. Intanto nell’America del Sud gli stati di recente costituiti in unità si organizzavano economicamente, stabilivano tariffe doganali, emanavano regolamenti per l’approdo di navi estere, e, industrialmente impreparate, erano pronte a ricevere i manufatti di quelle nazioni che offrissero condizioni migliori. Di fronte a questo risveglio generale del commercio d’Europa, alla possibilità di ottenere sbocchi nuovi e sicuri nelle lontane Americhe, si imponeva, come una necessità vitale per Genova, una revisione della politica commerciale piemontese, ed insieme l’adeguamento tecnico e numerico della flotta mercantile sarda secondo i progressi del secolo. D’altro lato, la possibilità di sviluppi commerciali con la Svizzera eia Germania era subordinata all’agevolazione delle vie di comunicazione attraverso le Alpi, e, ormai, alla soluzione del problema ferroviario, già affrontato in pieno all’estero, specialmente in Inghilterra. Erano dunque necessari per la prosperità di Genova accordi commerciali sulla base della reciprocità con le maggiori nazioni commercianti, riforme nel sistema doganale e nel Porto Franco, rapidi e continui mezzi di comunicazione con l’Europa centrale, incremento alla marina mercantile, sicurezza politica tale da ingenerare quella fiducia che sola può promuovere lo spirito d’associazione e l’impiego dei capitali. Ma la sicurezza politica e gli sviluppi del commercio erano ostacolati dalla presenza dell’Austria, dalle agitazioni continue delle regioni d’Italia, dallo spezzettamento territoriale che provocava una concorrenza rovinosa per tutti. (1) G. Prato, il programma economico ecc., p. 559 o Hegg. (2) G. Prato, op. cit., p. 561. 107 Così, mentre l’interesse dei Genovesi andava rivolgendosi alla possibilità di sviluppi commerciali con i principali paesi europei e transatlantici, la soluzione del problema nazionale si imponeva; e presentandosi essenzialmente come problema d’indipendenza, sottintendeva la necessità di forme costituzionali che dessero modo di esprimere e discutere liberamente ed ufficialmente i principali interessi della Città e dello Stato, CAPITOLO QUARTO Gli sviluppi del Commercio mediterraneo ed extra-inediterraneo genovese fino al 1846. Primi cenni di libertà commerciale in Piemonte nel 1835 — Il commercio transatlantico: L’opera del vice-console Garibaldi a Filadelfia e il trattato di commercio e navigazione con gli Stati Uniti nel 1S38. — L'Inghilterra ed i suoi orientamenti economico-politioi verso VAustria intorno al ’40. — Due importanti articoli d'esportazione genovese in Inghilterra: seta e grano. — Il secondo ministero Peci e il trattato di navigazione anglo-piemontese nel 1811. — Il commercio genovese con il Portogallo, VOlanda, il Belgio, Gibilterra, Città Anseatiche, Europa Settentrionale e Indie Orientali. — Il commercio mediterraneo: Spagna, Francia, Stati Italiani, Austria, Africa settentrionale, Oriente. — Il trattato franco-sardo del 1843 e Vop-posizione francese, fino alla convenzione supplementare del 1840. — Il trattato sardo-turco del 1839.— La concorrenza del transito lombardo-veneto verso VEuropa Centrale. — Gli orientamenti liberali e liberistici nel loro valore etico c nazionale. — Il partito moderato a Genova e a Torino intorno al 1840: identità e contrasti. — Cause della persistente inerzia genovese. — Riforme in Piemonte ed ulteriori trattati commerciali. — Cenno sull'industria. Il nuovo orientamento verso una legislazione politicamente e commercialmente più libera, determinato in Europa dalle necessità delle classi medie e dalla propaganda dei migliori pensatori, in Italia si ricollegava alla tradizione dei nostri economisti del secolo precedente. (1) Perciò le critiche al protezionismo mosse dall’Eandi, dal Giulio, dal Petitti, dallo Scialoia, dal Giovanetti e da altri, non miravano soltanto a scopi economici ma al progresso morale, politico e sociale della nazione intera. In Piemonte soprattutto il Giovanetti esercitò grande influenza sull’animo (li Carlo Alberto fin dai primi anni del suo regno, (2) ed (1) R. Ciasca, op. cit., p. 105. (2) G. Prato, Giacomo Giovanetti e il protezionismo agrario nel Piemonte di Carlo Alberto in Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino, voi. LIV, 1918-1919, p. 567, Vedi pure N. Rodolico, Carlo Alberto, cit., p. 243 sgg. e passim. 109 attraverso scritti ed opuscoli sul commercio della seta (1) e dei grani (2) influì sulla pubblica opinione in senso decisamente liberista. Egli dimostrava anteriormente al 1834 come il grano importato dal Mar Nero non esercitasse nessuna influenza sopra i prezzi del grano piemontese, di qualità assai superiore; come perciò il fòrte dazio sulle importazioni per via di mare fosse dannoso per Genova, e vantaggioso per nessuno (3). Egli traduceva nella forma di una dimostrazione scientifica le lagnanze e le osservazioni da tempo inutilmente fatte dai Genovesi stessi. Al trionfo delle idee di libertà economica si opponevano naturalmente i possidenti, gli agricoltori ed i finanzieri « e finalmente tutti quelli che erano invasi dalla nuova mania che la propria nazione produce#'ne sempre e vendesse, nè mai comperasse » (4). Dal 1815 al 1835 i protezionisti esercitarono la maggior influenza sopra gli indirizzi economici del Governo, e la tariffa doganale toccò il suo massimo nel 1830 (M. C. 19 febbraio). Ma una tariffa troppo alta ottiene di solito un effetto contrario a quello per cui è stata imposta: le importazioni, per non essere costrette ad arrestarsi, si effettuano attraverso il contrabbando; quindi il provento doganale, anziché aumentare, diminuisco. Ciò accadde appunto dopo il 1830 .(5). Ed allora le teorie liberiste, non urtando più contro gli interessi dell’erario, anzi, dimostrando di poterli favorire, finirono per essere bene accolte nelle sfere governative, tanto che nel 1835 (M. C. 7 aprile) venne decretata una prima riduzione generale della tabella (6). Timidi furono tuttavia i primi passi verso più libere riforme di commercio, nè d’altra parte era possibile attuare di colpo una riforma senza rovinare molte industrie nascenti e colpire forti interessi. Inoltre la revisione delle tariffe doganali era soltanto una delle condizioni necessarie per il rifiorire del commercio di Genova; era necessario allargare i traffici, stringere relazioni con le Americhe, con rOriente, con l’Europa Centrale. (1) G. Giovanetti, Della libera estrazione della seta greggia, Torino, 1834. (2) G. Giovanetti, Della libera introduzione delle biade in Piemonte, ms. in M. S. R. N. (li Genova, Carte Ricci, pubblicato in G. Prato, op. cit., p. 597. (3) Giovanetti, op. cit., in Prato, op. cit., p. 610. (4) GiovaNETTi, op. cit., p. 597. (5) li. BROGLIO D’Aiano, op. cit., p. 461 e segg. Veramente i proventi delle dogane di Genova subirono ancora notevoli aumenti lino al 1834, ma la loro media, in un decennio di economia protezionista, mostra una leggera diminuzione. Cfr. Cevasco op. cit.., voi. II, p. 28. (6) A. Fossati, op. cit.., p. 178. nò Con VAmerica dei Sud i traffici erano avviati già da- tempo. Dalle statistiche del Cevasco sulle esportazioni <‘ riesportazioni durante gli anni 1820 e ’27 per l’America settentrionale e meridionale e per i principali porti d’Europa, esclusi quelli del Mediterraneo (1), risulta che la maggior parte delle esportazioni al di là dello stretto di Gibilterra erano dirette all’America meridionale, soprattutto al Brasile, e, in parte, alle grandi Autille. Nel quadro citato il Cevasco accomuna insieme tutte le esportazioni per le Americhe, senza distinzione fra i vari stati (2). Ma confrontando questo quadro con quello precedente sulle importazioni (3), in cui tale distinzione è fatta, considerando che le relazioni con l’America settentrionale erano minime e fatte quasi esclusivamente con navi degli stati Uniti (4), possiamo a ragion veduta considerare dirette all’America del Sud ed in parte alle Antille tutte le navi di nazionalità sarda che il Cevasco dice dirette in America. Assai minore che col Brasile era il commercio con l’Argentina, a causa delle lunghe guerre sostenute da quella nazione e dai frequenti blocchi di Buenos-Aires. L’esportazione in Brasile nel 182G superò i due milioni di lire nuove, e l’anno dopo restò presso a poco stazionaria. Fu effettuata però con un maggior numero di navi straniere, principalmente americane, russe ed inglesi le quali evidentemente miravano ad accaparrarsi quei mercati. L’America del Sud presentava un campo vastissimo di sfruttamento per i nostri commercianti, ed era più che ogni altro paese del mondo adatta per favorire il nostro sviluppo industriale (5). Lo notava il Corriere Mercantile in una serie di articoli nel 1830 (G). L’interesse dei commercianti genovesi cominciava a volgersi coscientemente verso (1) M. Cevasco, op. cit., p. 63 e segg. (2) Questo perché i capitani marittimi in partenza dal porto di Genova per qnegli stati usavano dare la generica denominazione di America come luogo di destinazione. Cfr. una lettera del Direttore delle Dogane genovesi, in data 1° luglio in 1834, A. S. G., Prefettura Sarda, 4/423. (3) M. Cevasco, op. cit., voi. II. p. 39. (4) Oltre che dal Ragguaglio del Deabbate, già cit., lo desumo, per gli anni posteriori al 1822, dai Riassunti del movimento delle navi nel porto di Genova dal 1834 in poi, e dalle Osservazioni sul movimento giornaliero dal 1828 in poi, pubblicati dal Corriere Mercantile in qnegli anni. (5) I generi principali esportati in Brasile erano: carta da scrivere, paste ali-mentori, olio d’oliva, vini di Francia, cappelli di paglia, chincaglierie, panni fini e ordinari, ed in minor qnautità, scarpe, fiori artificiali, liquori, cristalli, vetri, camicerie, effetti di vestiario, pizzi, ricami, marmi lavorati, coralli, letti di ferro. Cfr. Cevasco, op. cit., voi. II, p. 17-18. — L. De Bartolomeis, op. cit., pp. 1052 ove erroneamente è scritto America settentrionale invece di meridionale — C. M. N° 15-16 aprile 1828. In quanto ai vini, si riesportavano quelli francesi, perchè quelli nazionali non parevano adatti a resistere ad una lunga traversata. (6) N° 50-51-53-55, giugno, lnglio. in il Brasile, come campo di esportazione di prodotti e di manufatti italiani; si osservava che non esisteva alcuna industria in quello stato, eccetto quella delle pelli; che tuttavia le esportazioni dei prodotti sardi erano minime, in confronto agli sviluppi possibili; i generi più importanti erano infatti carta da scrivere e paste alimentari; il vino e Folio solo in minima parte, perchè erano preferiti i prodotti del Portogallo, e la seta era importata prevalentemente dalla Francia. In quanto al grano, i Brasiliani rifiutavano quello del Mar Nero, mentre avrebbero accolto volentieri le qualità dell’Italia meridionale, specialmente di Puglia. Tutti questi generi, ed altri ancora, sarebbe stato necessario dirigere, * per mezzo di opportuni accordi commerciali, verso l’America del Sud; così commercio ed industria si sarebbero aiutati scambievolmente. L’importazione dal Brasile nel 1826 era ancora minore, anzi minima, in confronto con quella fatta da altri luoghi d’origine, e per di più era effettuata in gran parte con navi inglesi (1). Per esempio, il valore totale dell’importazione di zucchero di canna ascese nel 1826 a 5.749.200 lire di cui soltanto 620.000 provenienti direttamente dal Brasile, e solo 167.000 per mezzo di navi sarde. La maggior parte dei trasporti fu effettuata con navi inglesi, il resto con navi danesi. Così il caffè, sopra un’importazione totale per 813.240 lire, proveniva solo in minima parte direttamente dal Brasile, e quel poco, ancora, per mezzo di navi inglesi. Quelle sarde trasportarono nel 1826 soltanto 450 lire di caffè brasiliano! Le importazioni di sigari e tabacco furono effettuate in quell’anno tutte con navi danesi per un valore di 17.800 lire sopra un totale di 632.080.E null’altro si importò direttamente dal Brasile nel 1S46, eccetto poche migliaia di lire di cocos, con navi danesi. Per gli altri coloniali Genova si serviva prevalentemente dei depositi del Portogallo. Bisognava dunque avviare il commercio direttamente ai paesi d’origine, secondo la tendenza di tutte le nazioni più progredite d’Europa, ed uscire dalle tradizioni del mercantilismo superato dai tempi. Un notevole aumento d’importazione si verificò l’anno seguente, anche a favore della marina sarda. L’importazione degli zuccheri salì a 596.000 lire con navi sarde e a 710.000 con navi inglesi, mentre diminuiva quella effettuata con navi danesi. Così quella del caffè salì a 124.700 lire con navi sarde, ed a 71.500 con quelle inglesi; si cominciava intanto ad importare legno per tintura e si sviluppava l’importazione del cacao e dei cuoi preparati, mentre quella del tabacco era fatta quasi esclusivamente con navi sarde. (1) M. Cbvasco, op. cit. voi. II, p. 39 e segg. 1V2 Negli anni seguenti Vimportazione dal Brasilo aumentò nei confronti della nostra esportazione e diminuì nello stesso tempo la concorrenza del naviglio straniero (1). Ciò dimostra che il voto formulato dagli ambienti commerciali genovesi affinché fosse alimentata un’attiva esportazione in Brasile non era stato esaudito, perchè, mentre nel ’27 le esportazioni avevano ancora superato le importazioni, ora la bilancia commerciale s’era capovolta a svantaggio della produzione nazionale. Infatti questa non era in grado di vincere la concorrenza dei manufatti e dei prodotti esteri, specialmente francesi, inglesi ed ormai anche prussiani. D’altra parte è vero che s’era eliminato il prevalere del naviglio estero sopra quello nazionale, ma ciò, mentre scarso vantaggio arrecava alla marina, non era certo adatto a far rifiorire i traffici. Il commercio con VAmerica del Nord si svolgeva invece, come ho notato, quasi esclusivamente con navi americane, soprattutto a causa delle tariffe proibitive degli Stati Uniti. Data l’attrezzatura industriale nord-americana le importazioni sarde superavano naturalmente di gran lunga le esportazioni (2). Dal 1831 in poi andarono aumentando le importazioni di cotone; un aumento notevole nel totale dell’importazione dagli Stati Uniti si verilicò dal 1826 al 182/, dovuto in gran parte al cacao, al tabacco in foglie, che l’anno prima non si era importato, al tlie, al cotone. In quanto alle esportazioni, il calcolo è più difficile data la mancanza di distinzione fra le due Americhe già notata neiropera del Cevasco; ina tenendo conto che esse erano effettuate esclusivamente con navi americane, in base alle tavole citate, le possiamo far salire nel 1826 a non più di mezzo milione di lire, una buona parte delle quali rappresentate da carta da scrivere e ordinaria, il resto da merci varie, piombo, crema di tartaro, stoffe di seta e seta torta. Qualche altro genere era poi introdotto per contrabbando (3). Come si vede, ben misera cosa era il commercio con l’America del Nord. Esso non accennò ad accrescersi negli anni seguenti. Nel 1834 solo 10 navi salparono per quei porti, e di esse 0 erano (1) Lo desumo dai Riassunti annuali del movimento del Porto di Genova, del Corriere Mercantile. Ad esempio nel 1834 le navi provenienti dal Brasile furono 48 di cui solo 6 straniere. Quelle dirette al Brasile furono 25, sarde. Nel 1836 partirono 28 bastimenti sardi diretti al Brasile e ne giunsero 59 di cui undici stranieri. Negli anni seguenti le proporzioni si mantennero, leggermente aumentando nel loro insieme. (2) Consistevano principalmente in merluzzi, salmoni e altri pesci secchi, pelli preparate, denti d’elefante, legno da tintura, china, thè, zucchero, caffè, altre derrate coloniali, ecc. Cfr. M. Cevasco, op. cit., voi. II, p. 17. (3) Cevasco, op. cit., voi. II, p. 17. 113 1 americane, l danese, mentre di là provenienti ne approdarono 3, di cui 2 americane e 1 sarda (1). Certo difficile si presentava per l’indu-stria sarda riuscire ad imporsi di fronte al progredire di quella americana. Nel Ragguaglio citato del Deabbate, nel 1822 era già stata prospettata la necessità di sviluppare il commercio con l’America del Nord in funzione anche dell’incremento dell’industria sarda. Il Console infatti, indagando i bisogni delle due nazioni, Piemonte e Stati Uniti, indicava quale fosse la rispettiva eccedenza dei prodotti, atti a favorire uno scambio diretto. Molti, osservava, animati da interessi privati o da pregiudizi, avrebbero potuto obbiettare che il commercio a lunga scadenza non era da prendersi in considerazione, essendo assai più redditizi gli scambi con gli stati vicini, che permettevano un più frequente giro d’affari. Ma si trattava di aprire al commercio sardo un nuovo mercato, importantissimo per l’esportazione, che non poteva essere alimentata dagli stati vicini, i quali per clima e posizione avevano presso a poco gli stessi prodotti del Piemonte. Bisognava invece, favorendo il commercio, alimentare l’industria e l’agricoltura sarda. Ecco toccato così un punto di conciliazione intelligente, pratico e, per i tempi, ardito fra gli interessi liguri e quelli piemontesi. Nel 1830 la questione fu ripresa dal Vice Console sardo di Fila-delfia, A. Garibaldi, il quale avanzò un progetto di servizio regolare a vapore con l’America del Nord (2). Se ne occupò la Camera di Commercio di Genova, la quale tuttavia respinse la proposta a causa della mancanza quasi totale di traffici che faceva prevedere una cattiva riuscita dell’esperimento (3). Le pressioni del Vice Console continuarono fino al 1835. Dagli incartamenti da lui inviati risulta che nel 1832 19 navi sarde si erano recate nell’America Centrale, cariche di merci varie. Secondo il pensiero del Vice Console, tali traffici si sarebbero potuti spostare verso il nord, e avrebbero potuto essere effettuati per mezzo di una linea regolare. Non sembra che le parole del Vice Console siano rimaste del tutto inascoltate dal Governo sardo; infatti il 26 novembre 1838, fu concluso a Genova un trattato di commercio e naviga- (1) Riassunti annuali del movimento del Porto di Genova in C. M. (2) A. Fossati, op. cit. p. 216. (3) Cfr. il verbale della sedata della Camera di Commercio 22 febbraio 1833. Il parere espresso dalla Camera fu trasmesso alla R. Segreteria di Stato per gli Affari Interni con lettera in data 9 marzo 1833) A. S. G., Prefettura Sarda, commercio e navigazione, 4/423 ;(altri documenti riguardanti l’azione del Vice Consolo di Filadelfia si trovano in A. S. T., Sez. I, Consolati nazionali, Filadelfia, mazzo I). 8 iu zione fra gli Stati Uniti ed il Piemonte della durata di 10 anni, die aboliva le tariffe differenziali tra i due stati (eccetto per il grano, Polio ed il vino) e limitava le proibizioni d’importazione; inoltre l’art. Xl\ riguardava il transito delle merci americane da Genova per il Piemonte, e lo dichiarava completamente libero, eccetto per il sale, la polvere da sparo, ed il tabacco lavorato, mentre ugualmente libero doveva essere il transito delle merci dirette in America attraverso Genova. Era il primo passo verso tutta una serie di accordi commerciali, tendenti a eliminare a poco a poco quei diritti differenziali dei (piali, in teoria, si continuava ad affermare i vantaggi. Ciò segnava indubbiamente un progresso sui tentativi del 1822-24 e dimostrava che ormai nelle sfere governative si cercava di favorire il commercio del principale porto dello stato senza tuttavia abbracciare apertamente una politica liberista. Le - circostanze sfavorevoli tuttavia ad un incremento della navigazione sarda diretta verso PAmerica del Nord permasero anche dopo tale accordo; esse possono essere imputate in parte ad una certa inerzia degli armatori genovesi, che non seppero volgere il trattato in loro favore, in parte alla superiorità della marina mercantile americana, che dava ormai incremento alla navigazione a vapore. Inoltre v’era, negli ambienti mercantili genovesi, una certa diffidenza verso gli sviluppi colossali dell’economia degli Stati Uniti, ove di tanto in tanto si verificavano crisi tali da rovinare chiunque avesse intrapreso speculazioni arrischiate. Ad esempio, nel 1836-37 si verificò negli Stati Uniti una crisi che ebbe ripercussioni su tutti gli stati europei. In Italia ne subirono le conseguenze molti commercianti in sete, i quali, forti della buona esperienza precedente, si erano arrischiati a tentare affari in grande proporzione. Non così, a quanto pare, negli Stati Sardi, e ciò perchè le speculazioni dei Liguri-Piemontesi erano più limitate e prudenti che altrove, e si basavano più sul pagamento in contanti che sul credito (1). Chi scriveva sul Mercantile queste osservazioni trovava inoltre una buona occasione per sferrare un colpo (1) C. M. N° 45-7 giugno 1837, appendice. A cominciare dal 1837 il redattore del Mercantile aveva ottenuto il permesso di pubblicare, sul foglio normale, un appendice composta di articoli « sopra l’economia pubblica, sul progresso delle Scienze, Arti, Giurisprudenza commerciale, Varietà e altro » e ciò per « rivolgere, a piìl alto scopo questo Giornale, allo studio cioè delle cause e progressi del Commercio, delle Scienze, Lettere, Arti ccc; » poiché « da molto tempo il rapido procedere dell incivilimento e l’esempio di altri paesi faceva altamente sentire il bisogno di uscire da quella sterilità e strettezza di materie » nelle quali si era fino allora tenuto. Cfr. N° 6-21 gennaio 1837. 115 alle teorie liberistiche che parevano diffondersi ormai negli Stati Sardi; notava infatti che altra causa della resistenza del commercio serico piemontese di fronte alla crisi « comune sventura che scosse fortemente il commercio », era il favore che godevano gli organzini piemontesi all’estero, in confronto alla seta grezza che si era cercato di favorire con la riforma del 1835. « Fu la seta grezza » egli notava « a risentire il danno, specie in Lombardia », mentre dal Piemonte, nonostante il permesso di esportazione, si continuava a mandare all’estero più seta lavorata che non grezza. Ecco dunque i tristi effetti delle nuove dottrine, e della libera concorrenza! Evviva dunque, pareva dire, il monopolio ed il controllo governativo sulla esportazione dei manufatti. È un fatto che, mentre teoricamente- si proclamavano a Genova le teorie liberiste, in praticaci commercianti si attenevano alle misure imposte da una tradizionale prudenza e non osavano uscire dai limiti del commercio di commissione per svolgere una maggiore attività con i paesi d’origine. Ciò lamenteranno, lo vedremo, i migliori pensatori, sia genovesi che piemontesi, come Giuseppe Papa ed il Petitti. Questa prudenza, diciamo pure quest’inerzia, unita all’incerta politica del Governo, nuoceva ad un rapido e rigoglioso rifiorire del commercio, specialmente laddove sarebbe stato necessario un po’ di spirito d’in-trapresa, e la speculazione appariva arrischiata; perciò la navigazione mercantile sarda continuò a disertare i porti dell’America settentrionale, mentre, dopo il 1838, un maggior numero di navi americane prese ad approdare a Genova (1). Così quel trattato riuscì tutto in favore della marina mercantile americana (2). D’altra parte la politica doganale americana continuò ad esercitare un’influenza nociva sopra il commercio di commissione, che restava pur sempre, a causa dello scarso sviluppo industriale piemontese, la principale risorsa della Liguria (3). Nel 1841 infatti il Governo federale, sollecitato fors’an- (1) Riassunti annuali del Movimento del Porto di Genova in C. M. (2) Anche il Cevasco criticava nel 1840 il trattato commerciale con gli Stati Uniti, osservando che, dato il grande sviluppo dell’industria nord-americana, difficilmente l’esportazione dei prodotti sardi avrebbe potuto colà aumentare. Anzi egli temeva che la stessa America Meridionale divenisse presto tributaria della sua sorella del nord. Ciò infatti già accadeva per l’industria della carta (op. cit. voi II, p. 17). E fin dal 1828 il Corriere Mercantile (N° 28-12 luglio) notava: « In America l’imprese commerciali coronate dai favorevoli risultati incoraggiano i negozianti, gli armatori, i capitani: ma in oggi dopo che immensi ostacoli respingono o minacciano da ogni parte il Navigatore, e dopo il progressivo avvilimento della massima parte delle derrate, il commercio di Genova si è quasi esclusivamente rivolto al traffico dei grani in Mar Nero ». (3) L. De Bartolomeis, op, cit., p. 1049. 116 che dalla pubblica opinione inasprita da una nuova crisi verificatasi in quegli anni, rialzò i dazi doganali; ciò provocò critiche e risentimenti in Europa, specialmente in Francia, che già proponeva misure di rappresaglia (1). Anche a Genova, per quanto scarsi fossero i rapporti con l’America del Nord, le nuove misure protettive provocarono malumori. Un articolo del Mercantile (2), un po’ ingenuamente invero, osservava che sbagliata era la politica degli Stati Uniti i quali avevano bisogno di smerciare molto cotone in Europa. « Così facendo l’Europa correrà alle rappresaglie ». Il che si sarebbe verificato se l’Europa non avesse avuto molto bisogno di cotone. E con uno strano interesse per l’avvenire americano, l’articolista si chiedeva: « Quale in fine del conto il vantaggio che sperano da questi rigori doganali? Sono essi compenso suflicente al sacrificio degli interessi commerciali dell’avvenire? » Ma, a parte la falsa profezia, è notevole che si proclamasse apertamente, sia pure a proposito di uno stato transatlantico, il bisogno di libertà commerciale e che le critiche al protezionismo comparÌ3sero sopra un foglio di carattere quasi ufficiale com’era il Mercantile. Anche in America del resto l’opinione pubblica era divisa in due correnti opposte, oscillanti fra il protezionismo ad oltranza, e forme più temperate. Nel 1843 fervevano ancora le discussioni se convenisse o no impedire assolutamente l’accesso alle navi straniere cariche di merci non nazionali (3). Si sarebbe trattato di applicare un vero e proprio Atto di Navigazione, rivolto soprattutto contro il commercio di commissione inglese e delle città anseatiche. L’articolo del Corriere Mercantile che riportava la cronaca di quelle discussioni faceva notare che il prevalere della tesi protezionista non avrebbe costituito un gran danno per Genova, che aveva poca esportazione verso gli Stati Uniti, ma certamente una mancata speranza. Un’altra causa più diretta della debolezza del commercio con l’America settentrionale vedevano poi i commercianti genovesi nella concorrenza di Marsiglia e di Trieste, che limitavano il transito da Genova per il Piemonte (4). La tendenza ad ostacolare il commercio di commissione, viva nell’America settentrionale, era tanto più forte in Inghilterra ove da un secolo e mezzo l’Atto di Navigazione, escogitato inizialmente da (1) C. M. N° 72-7 settembre 1811. (2) N° 78-28 settembre 1841. (3) C. M. N° 27-5 aprile 1843. (4) C. M. N° 40-18 maggio 1889. 117 Cromwell contro l’Olanda, proteggeva i traffici con le colonie ed annullava la concorrenza straniera (1). La principale fonte delle esportazioni genovesi in Inghilterra era costituita dal commercio delle sete e dei grani; quest’ultimo era subordinato però alle richieste dei mercati inglesi in seguito ad eventuali cattivi raccolti, ed alla concorrenza della Francia settentrionale, della Prussia, della Polonia e della Kussia (2). In Inghilterra il protezionismo granario era cominciato fin dal 1070; ma nel secolo XVIII, essendosi verificato un rapido aumento di popolazione al quale non corrispose un proporzionato incremento della produzione agricola, fu necessario ricorrere all’importazione dall’estero, con disappunto dei grandi latifondisti i quali dovettero abbassare i prezzi per sostenere la concorrenza. Affari d’oro fecero essi invece durante il blocco napoleonico, ma dopo il 1814 l’invasione del grano prussiano e polacco spaventò il partito dei tories, dei vecchi proprietari di terra, rigidi sostenitori del protezionismo contro le teorie di Adamo Smith. Essi ottennero nel 1815 la promulgazione di quel coni-lato che, escludendo i cereali stranieri dai mercati inglesi, favoriva gli interessi di una ristretta classe di latifondisti a tutto svantaggio dei piccoli possessori e dell’intera popolazione. Le agitazioni operaie di Birmingham e di Manchester nel 1820, la propaganda liberista e umanitaria di lord Canning, di Russel, dell’Huskisson e più tardi del Cobden, ma soprattutto i rapidi progressi dell’industria nazionale bisognosa di sfogo e sicura di superare ormai, anche in un regime di libero scambio, la concorrenza straniera, fecero mutare a poco a poco l’indirizzo politico del Governo (3). Ma prima di arrivare alle (1) Per il protezionismo inglese dal 1815 al 1846 mi sono servito del Manuale di Storia del Commercio di A. Segre, p. 145 e segg., e di nna Memoria del Cavour sulla questione relativa alla legislazione inglese sul commercio dei cereali, in A. U. S., 1845, voi. LXXXIV, p. 181 e segg., riportata in Scritti, Zanichelli, p. 355 sgg. Per le notizie particolari riguardanti il commercio di Genova mi riferisco alle notizie del C. M., al Cevasco e al De Bartolomeis clie citerò di volta in volta. (2) C. M. N° 75-18 sett. 1839 e passim. (3) La dimostrazione che i nuovi orientamenti liberistici delPInghilterra nella prima metà del secolo XIX siano derivati dai bisogni di un’esuberante produzione industriale e non dal riconoscimento di una maggior giustizia internazionale da elargire ni mondo, come ai disse in Inghilterra e come si credette in Europa, mi par si possa dedurre «bilia sua politica commerciale nei confronti della Prussia. Questo stato, che andava attrezzandosi industrialmente al pari deU’Inghilterra, aveva concluso nel 1821 con la sua potente rivale un trattato di commercio, che, se favoriva le regioni orientali della Prussia, essenzialmente agricole, aveva trovato opposizioni nelle regioni occidentali, che temevano la concorrenza alle loro industrio. Quando il trattato nel 1841 stava per scadere, gli industriali tedeschi, prò 118 ìiforme liberisticbe del 1846 il cammino fu lungo. La forza elei partito conservatore, le tradizioni tenaci, l’egoismo prevalsero a lungo contro le tendenze opposte, e dal 1822 al 1846 la politica commerciale inglese oscillò tra forme di compromesso tra i due partiti. Anzi, nel 1829 Roberto Peel, seguace ancora delle dottrine protezionistiche, istituì il sistema della scala mobile, già usato in Francia, che consisteva nell’abbassare automaticamente il dazio d’importazione sui grani quando il prezzo medio in Inghilterra era alto e nell’aumentarlo quando il prezzo si abbassava. Il trionfo del partito liberista inglese andò attuandosi tra il 1829 ed il 1841, anno in cui sir Roberto Peel formò per la seconda volta il ministero, con programma, ormai, liberista. Nel settembre di quello stesso anno fu concluso e ratificato in Genova (6 novembre) un trattato di navigazione tra il Piemonte e l’Inghilterra, firmato dal Solari de La Margherita e da Abercromby. Il trattato stabiliva condizioni di reciprocità sui diritti di porto e di ancoraggio per le navi provenienti dai porti nazionali, ivi compresi Malta, Gibilterra, VIrlanda e la Sardegna, con esclusione totale delle colonie. Non è chi non veda che i vantaggi del trattato erano tutti a favore dell’Inghilterra, la quale in sostanza manteneva in vigore 1 Atto di Navigazione, impedendo il commercio di commissione, mentre, attraverso gli scali intermedi di Gibilterra e di Malta, poteva dirigere liberamente a Genova le sue navi provenienti da qualunque delle sue colonie. La mancanza poi di qualsiasi accordo di carattere doganale doveva togliere gran parte del valore al trattato stesso, che portò qualche vantaggio soltanto alla marina sarda, tino allora quasi affatto esclusa dai porti inglesi. Inoltre v’erano alcuni porti inglesi, dipendenti da certe corporazioni, che godevano di diritti quasi feudali in base ai quali non ammettevano alcuna nave sarda, anche dopo il trattato (1). . pensi piuttosto ad attirare nella sfora dello Zollverein stati piccoli conio il Belgio , • n us lia lllcn^e poco attrezzati come il Brasile, tentarono d’impedire eli’esso fosso nova o. x on oo.sì 1 Inghilterra, la qnale riusciva ad imporre il sno punto di vista e a rinnovare il trattato (2 marzo 1841) sn basi di perfetta uguaglianza, estendenti aU°pe all°.Clttà anseatiche. In base ad esso l’Inghilterra otteneva di impor-T.L^e“.I10n 90ltant° 1 Hn0Ì ™""fatti, "ia i prodotti delle sue colonie P M in° 1 i°Q^CxTn n 11 bllanoi° a 8è favorevole di 150 milioni di franchi. Cfr. liberisti i "T • L° 8teS8° Cavour cho Pur sosteneva la buona fede dei r;C0T0eVa Cbf* G88Ì avevan0 80pravvònto dopo il 1821, “Sir? ‘‘l CFI8Ì indu8tliale* Ciò dimostra die la politica econo, IT r,"1 prmia.;rf del sec0l“ XIX era ..........a,a dall Inghilterra, la per neoZ tà dT neceSSlt\delI“ “»***<• impose il .-zi.,„is....,, p„i, per uecessrtà> & smerciare , troppo abbondanti prodotti, imposi il liberismo U; Ij. Ub Bautolomeis, op. cit., p. 1049, 119 Dalle tabelle del Cevasco risulta che nel 1826 il commercio con l’Inghilterra fu effettuato tutto con navi inglesi per quel che riguardava l’importazione, e soprattutto con navi inglesi anche per l’esportazione (1). Il valore dell’importazione fu di 2.540.080 lire, quello dell’esportazione di 507.100. L’anno seguente il commercio si accrebbe, ma passò tutto nelle mani degli Inglesi, e non una nave sarda toccò la Gran Brettagna. Negli anni seguenti, secondo i resoconti del Corriere Mercantile, partirono da Genova per l’Inghilterra soltanto navi inglesi. Anche i pochi trasporti di grano si facevano dunque con na*vi di quella nazione. Nel 1832 invece comincia ad apparire qualche nave sarda diretta in Inghilterra, ed anzi, dal 1834 in poi le poche navi in partenza per quei porti furono quasi tutte sarde. Ma la proporzione della bilancia commerciale in nostro sfavore si accentuò sempre più. Nel 1834, per esempio, approdarono nel nostro porto provenienti dalla Gran Brettagna ben 98 navi, di cui 84 inglesi, 11 sarde e 3 di altre nazionalità; ne partirono, dirette all’Inghilterra, solo 11 sarde. Segno evidente che da un lato gli Inglesi già avevano trovato modo di inondare il nostro mercato dei loro prodotti, dall’altro che trascuravano completamente il nostro porto come deposito dal quale trarre prodotti agricoli o manufatti. Sicché le poche esportazioni furono alimentate da qualche trasporto di grano fatto con le nostre navi. In seguito le proporzioni si mantennero presso a poco immutate, però con tendenza alla diminuizione anche nei confronti dell’importazione dall’Inghilterra. Vediamo ora le sorti dei due prodotti principali che alimentavano, sia pur limitatamente, l’esportazione genovese verso l’Inghilterra, i grani e la seta. L’esportazione del primo era subordinata a tanti fattori d’indole diversa che è impossibile darne un valore approssimativo. In generale, specialmente dopo il 1825, si lamentava a Genova una continua inerzia del commercio dei grani, contro il quale il deposito di Livorno esercitava una dannosa concorrenza; inoltre i diritti differenziali ponevano un limite alla loro stessa introduzione nel nostro porto. Un segno di riconoscimento di questi ostacoli da parte del Governo piemontese è dato nel 1838 da un Manifesto della K. Camera dei Conti, che in seguito a B. Biglietto 24 novembre aboliva in via provvisoria, fino a tutto il maggio 1839, ogni diritto differenziale. Questo provvedimento era determinato da (1) L/iinportazione consisteva soprattutto in zucchero, caffè, pepe, cannella, ed altri coloniali; l'esportazione in grani, olio d’oliva, vini fini, corallo lavorato, seta, frutta, paste, formaggi, grani di lino, e poco altro. 120 uno straordinario aumento dei prezzi dei cereali nei diversi scali marittimi e da una corrispondente grande richiesta specialmente dalla Francia, dall’Inghilterra e dal Napoletano, ove anzi, a causa della carestia, era stata proibita l’esportazione (1). Con successivo reale Biglietto 3 dicembre il Re di Sardegna diminuiva i diritti di ostellaggio (2) sui cereali, mentre iu Inghilterra le tariffe doganali erano discese al minimo, rendendo presso a poco libera l’importazione (3). L’importazione totale dei grani nel 1838 salì a quasi un milione di mine (4). Ma nei primi mesi del ’39 non si veriiicò il forte smercio che era previsto; le richieste dall’Inghilterra diminuirono, i prezzi discesero notevolmente (5) e d’altra parte le maggiori importazioni inglesi provennero dalle coste francesi (G). Nel settembre del ’39, essendosi verificato nuove richieste in Inghilterra, e perdurando le tariffe basse, vi importarono grano la Prussia, la Sassonia, la Russia (7). Quindi gli affari dei commercianti genovesi volgevano male, nonostante l’anno fosse particolarmente propizio, soprattutto a causa della concorrenza straniera; alla Francia, alla Prussia, alla Russia, alla Toscana, minacciava di aggiungersi anche l’Austria, come concorrente veramente temibile. Un articolo del Morning Cro-nicle (8) diceva infatti: « Appelliamo l’attenzione dei nostri lettori su di un soggetto di particolare interesse, in questo momento, per gli approvvigionamenti che l’Inghilterra potrebbe avere dall’Austria... Osservando i particolari vantaggi che godono Trieste e Fiume nel commercio granario, è da notarsi che Fiume è situata a sole 70 miglia da un fiume navigabile che comunica con uno dei paesi più X^roduttivi dell’Europa, l’Ungheria, e che havvi fra questi due punti due strade eccellenti. Fiume e Trieste hanno pure il vantaggio su Danzica e Odessa, per essere più vicine ai paesi da ove può esportarsi... Se si potesse stabilire in questo paese (nel Banato) un commercio regolare granario, la sola pianura di Theissé basterebbe a tutti i bisogni dell’Inghilterra ». Ma il vantaggio più grande* acidi-tato dallo scrittore inglese, era la facilità delle comunicazioni tra l’Austria-Ungheria ed i porti dell’Adriatico. « Gli Inglesi non sono (1) Decreto reale 27 novembre 1838. (2) I diritti di ostellaggio erano i diritti di riespotazione. (3) C. M. N° 103-24 dicembre. (4) Cfr. documento N° 8. (5) C. M. N° 23-20 marzo. (6) C. M. N° 26-30 marzo. (7) C. M. N° 75-18 settembre. (8) Riportato dal C. M. N° 79-2 ottobre, 121 sempre troppo prudenti nelle loro speculazioni; già da parecchi anni alcuni de’ nostri maggiori speculatori ebbero a provare le conseguenze delle loro richieste di grano dalla Spagna; dimenticarono che le prò-vincie di questo paese produttivo di grani non avevano comunicazione col mare se non col mezzo di forti spese che rendono questo commercio rovinoso. Ciò che non può dirsi per le fertili provincie dell’Austria ». Ma gli Inglesi non potranno avviare un regolare commercio granario con questo stato, osserva l’articolista, finché non sarà permessa la libera introduzione dei cereali in Inghilterra. Infine consiglia il governo di stringere relazioni amichevoli con l’Austria, che, per la posizione che occupa nell’Europa, può offrire molto interesse per l’Inghilterra (1). L’autore di questo articolo era certo un convinto assertore del liberismo. Il suo interesse per l’Austria, per la sua posizione in Europa, può occostarsi ai tentativi che allora faceva l’Inghilterra per stabilire con le Indie una rapida via di comunicazione che da Alessandria d’Egitto avrebbe potuto, per mezzo di piroscafi, far scalo in uno dei porti più settentrionali del Mediterraneo (2). Il problema dunque dei rapporti commerciali austro-inglesi aveva ripercussioni vaste sull’attività del Porto di Genova, che andavano ben oltre l’interesse di una ristretta classe di commercianti di grano, ma interessavano addirittura la possibilità di far di Genova lo scalo della Valigia delle (1) Ciò va messo in relazione con l’attrito che si era andato sviluppando tra Francia e Inghilterra dopo l’impresa algerina di Carlo X, impresa che agli occhi degli Inglesi era apparsa come un risveglio dell’imperialismo napoleonico, specialmente dopo ohe, nel ’37, il generale Damremont, governatore d’Algeria, e Th. Jouffiroy in un articolo comparso sulla Revue des Deux Mondes nel giugno dell’anno seguente si erano espressi in termini assai espliciti sulle tendenze imperialistiche e mediterranee della Francia. Queste tendenze dovevano fatalmente provocare nn riavvicinamento dell’Inghilterra all’Austria: ciò che infatti avvenne quando nel ’39 la Turchia parve minacciata dal Pascià d’Egitto, Mehemet Alì, sostenuto dalla Francia. In quell'occasione lord Palmerston, che temeva un intervento della Russia, come era accaduto nel ’33, riuscì abilmente a concludere, (estate 1840) una quadruplice anglo-austro-russo-prussiana, che, isolando la Francia ed impedendo un’azione isolata della Russia, segnò in definitiva un trionfo inglese ed uno scacco all’espansionismo francese. Cfr. P. Silva, Il Mediterraneo, cit., pp. 247-251. (2) Sono del 1829 i primi esperimenti compiuti dall’inglese Waghorn per allacciare l’Europa con Bombay per mezzo di piroscafi e di una ferrovia attraverso l’istmo di Suez. Sui viaggi di Waghorn e sulla questione della Valigia deUe Indie specialmente per quel che riguarda Trieste cfr. G. Stefani e B. Astori. Il Lloijd Triestino (1836-1936), edizione del centenario, Verona 1938, p. 133 sgg, Per l’interesse di Genova rispetto a quei tentativi trovo le prime allusioni nel Corriere Mercantile N. 20-12 marzo 1834, in seguito a nuovi tentativi compiuti dall* Waghorn. 122 Indie, e quindi il principale porto del Mediterraneo. Così una questione clie a prima vista poteva sembrare di secondaria importanza acquistava. ben altro valore se era considerata in tutti i suoi possibili sviluppi e soprattutto in rapporto col problema delle comunicazioni; questo infatti andava facendosi in tutta l’Europa così urgente che l’affermazione economica di una nazione dipendeva ormai in gran parte dalla sua tempestiva e rapida soluzione. L’altro ramo importante del commercio genovese con l’Inghilterra, quello della seta, era invece in migliori condizioni. Abbiamo visto come fino al 1835 la proibizione di esportare seta grezza, determinata da errate ed antiche teorie protezioniste, avesse contribuito a renderne meno attivo il commercio. D’altra parte il setificio sia in Liguria che in Piemonte era passato attraverso un periodo di crisi durante la dominazione francese, quando l’Italia, la Germania, l’Oriente stesso consumavano sete lionesi (1). Inoltre, sia le epidemie nei bachi che si verificarono negli anni tra il 1800 e il 1813 (2), sia la cattiva qualità di parecchi manufatti liguri dovuta, secondo il De Bartolomeis, all’avidità di alcuni fabbricanti (3), screditarono le fabbriche liguri all’estero e tolsero loro gli antichi mercati della Spagna e del Portogallo, che presero a fornirsi dalla Francia. Cessate poi le circostanze avverse determinate dal blocco continentale, al rifiorire del commercio della seta in Liguria e in Piemonte s’era opposto* oltre che la politica doganale sarda, un certo abbandono della coltura dei gelsi sostituita con altre (4). Ciò deve ascriversi anche ai regolamenti ed agli impacci del sistema corporativo allora vigente, residuo delle corporazioni medioevali. Intanto la produzione serica lombarda agevolata anche dal permesso di estrazione della seta grezza, aumentava con ritmo accelerato (5), e si imponeva con vantaggio sopra quella piemontese. Questa subì tuttavia un notevole risveglio dopo il 1835 (6); si esportavano vantaggiosamente all’estero, soprattutto in Inghilterra, le sete grezze e gli organzini di Novi e di Bobbio, mentre in Riviera producevano seta Nizza, Oneglia, An-dora, Loano, Finale, Albenga, Chiavari, Levanto. Carlo Alberto per (1) A. Segre, Manuale di Storia del Commercio, voi. II, p. 37. (2) A. Segre, op. cit., p. 54. (3) L. De Bartolomeis, op. cit., p. 982. (4) L. De Bartolomeis, op. cit., p. 944. (5) La produzione lombarda salì da 1.860.000 libbre nel 1800 a *1.710.000 nel 1841. Cfr. Carlo Mittermaier, Delle condizioni d’Italia, versione in italiano di Pietro Mngna, Milano-Vienna 1845, p. 61. (6) C. M. N° 26-30 marzo 1836, N° 45-7 giugno 1837, N° 19-6 marzo 1839. 123 favorire gli interessi elei produttori, soprattutto dei produttori di manufatti che dopo il decreto del ’35 avevano inalzato alte grida (1) assegnò, con li. Editto 16 maggio 1837, una somma di sei milioni di lire nuove alle li. Finanze, perchè fossero impiegate in prestiti al commercio sopra depositi di sete, mediante l’interesse del 4°/0. Ciò in realtà non era che una mezza misura. Era necessario favorire lo smercio della seta all’estero, migliorando i prodotti e stipulando accordi commerciali. Ma ecco un altro pericolo profilarsi per il commercio della seta, non solo per il Piemonte, ma per tutta l’Italia. Gli sviluppi dell’attività economica e politica inglese nell’estremo oriente, agevolata dalla Valigia delle Indie il cui definitivo itinerario si stava in quegli anni studiando, la fortunata guerra dell’oppio in Cina che nel 1842 schiudeva cinque porti del Celeste Impero alla penetrazione inglese ed otteneva all’Inghilterra l’isola di Hong Kong, infine la miglior qualità ed il miglior prezzo delle sete orientali, toglievano a quelle italiane il favore che da secoli godevano sui mercati inglesi. Lo avvertiva nel 1840 il Corriere Mercantile, sempre attento agli interessi della Liguria e ormai dell’Italia intera; scriveva infatti (2): « Tratto tratto è nostro uso di tenere discorso ai lettori nostri della situazione del mercato delle sete sulla gran piazza di Londra, mercato intimamente legato con la ricchezza territoriale dell’Italia. Infatti gran parte e la più bella delle sete nazionali, viene colà spedita, e vi si smaltisce mercè l’immensa concorrenza commerciale di quel colossale emporio, al quale vanno a provvedersi, può dirsi senza iperbole, le quattro parti del mondo ». Dopo aver osservato che l’Inghilterra, importa sete dall’india, e sempre in maggior copia, talmente buone da gareggiare colle più belle d’Italia, l’articolista ammonisce: « stiamo dunque in guardia, abbandoniamo la decrepita idea che l’Italia sia il paese privilegiato delle sete, tentiamo di migliorare vieppiù la nostra produzione, i nostri filati serici, nè ci sfugga di mente, per quanto ciò possa ferire la vanità nazionale, che non ancora abbiamo toccato la perfezione, e che, volendo, potremo far meglio. Finalmente non limitiamoci, per Dio, a fabbricare stoffe soltanto per il paese: con zelo immenso, con perseveranza, con ingegno, che non ne manca loro, i fabbricatori Lombardi arrivano alla squisitezza dei disegni, al lucido, allo splendore dei colori delle stoffe lionesi, e scendendo un grado nella scala dei prezzi, potremo con essi dividere (1) A. Fossati, op. cit. p. 152. (2) N° 88-4 novembre, 124 l’onore ed il lucro di fornire i mercati stranieri di seriche manifatture». Lo scrittore avverte pure il pericolo della concorrenza cinese, il giorno in cui l’Ingliiterra avrà vittoriosamente terminate le operazioni in corso. Così l’Inghilterra, importatrice di seta da tutte le parti del mondo e deposito immenso al quale tutto il mondo ricorreva, aveva buon giuoco nel determinare il prezzo dell’offerta. 11 danno era risentito in Liguria, in Piemonte e in tutta l’Italia; per esempio, una corrispondenza da Milano al Mercantile nel 1842 (1) parlava della diffidenza dei commercianti lombardi verso le « volgari lusinghe » degli speculatori inglesi, che lasciavano intravedere la speranza di nuove richieste, evidentemente per costringere gli incettatori ad abbassare i prezzi, quando le richieste non si fossero verificate. Negli anni seguenti le lagnanze dei commercianti aumentarono poiché le richieste di seta da parte dei mercati inglesi scemavano, i prezzi diminuivano, non solo a causa della concorrenza delPlndia e della Cina, ma anche per le condizioni interne dell’Inghilterra, agitata dalle lotte dei Cartisti, e per le tristi condizioni dell’Irlanda (2). Così « la più feconda sorgente della ricchezza italiana » veniva meno, secondo le più nere previsioni del tempo. In realtà il commercio della seta si mantenne abbastanza fiorente, pur non raggiungendo uno sviluppo proporzionato alla floridezza dei secoli passati. Inoltre l’abolizione degli antichi regolamenti sulle filande avvenuta nel 1841 contribuì a rialzare le sorti dell’industria serica (3); possiamo perciò affermare che, nonostante la concorrenza straniera e malgrado le lagnanze non sempre giuste degli interessati, il commercio della seta prosperasse intorno al 1845 in tutta Italia (4), anche negli Stati Sardi. Ma l’esportazione della seta non poteva certo bastare per dare incremento al commercio ligure; perciò, se, dopo la stipulazione del trattato di navigazione con l’Inghilterra, qualche aumento nei rapporti commerciali fra le due nazioni si verificò, la bilancia commerciale continuò ad essere assai sfavorevole al Piemonte. Tra gli Stati extra-mediterranei con i quali Genova era legata da (1) N° 93-23 novembre. (2) C. M., NO 29-12 aprile 1845. (3) Cfr. C. Cattaneo, Esposizione di industria e belle arti a Torino nel 1844 in Rivista Europea, Milano, 1845, 1 semestre, p. 594. e C. Ignazio Giulio, Giudizio della Regia Camera d’Agricoltura e Commercio di Torino e Notizie sulla patria industria, Torino 1845. (4) Sull'importanza dell*industria serica in Italia dal 1815 al 1860 vedi A. Agnelli, Il fattore economico nella formazione dell’unità italiana, in II Risorgimento Italiano, Rivista Storica, anno VI, fase. 2-3. Intorno al 1858 la produzione serica italiana era circa nn quinto della produzione mondiale, 125 rapporti commerciali dobbiamo ancora ricordare il Portogallo, POlanda, il Belgio, Gibilterra", che per la diversità del suo ordinamento doganale * non si può considerare unita alla madre patria, le Città Anseatiche e gli stati (\e\VEuropa settentrionale ed infine le Indie Orientali. Scarsissime ed in decadenza rispetto al secolo precedente si rivelano le relazioni con VEuropa settentrionale, anch’esse, più ancora che quelle con l’Inghilterra, alimentate nella maggior parte da navi straniere (1). Scarse erano anche quelle con VOlanda, minime col Belgio (2). In quanto al commercio con le Indie, esso, di per se scarsissimo, era fatto esclusivamente per mezzo di navi inglesi e americane. « È rarissimo » notava il De Bartolomeis (3) « il vedere nei nostri porti arrivare bastimenti che provengano direttamente da queste regioni; tuttavia approdano Americani da Canton, come da Moka nell’Arabia ». Questa scarsità di commercio era dovuta, secondo il De Bartolomeis, a mancanza di opportuni trattati commerciali. Qualche tentativo, osservava, era stato fatto, ed un certo capitano Balduino (4) ed altri si erano avventurati nelle Indie, ma essendo laggiù la bandiera sarda quasi sconosciuta, le navi genovesi erano state assoggettate ad imposizioni enormi che rendevano del tutto svantaggioso quel viaggio per se così lungo (5). (1) Le statistiche del Cevasco non contemplano alcun bastimento proveniente dal Mar del Nord o ivi diretto; tuttavia i riassunti del Mercantile sul movimento del porto di Genova mostrano che negli anni immediatamente seguenti al 26-27 qualche nave bremese o annovarese approdava annualmente a Genova, e che vi giungevano pure parecchie navi svedesi e norvegesi provenienti dalla madre patria. Con la Svezia e la Norvegia anzi i traffici aumentarono in seguito, ma per opera dei Norvegesi e non della marma sarda. Anche da Amburgo e dalla Danimarca intorno al 1840 arrivava qualche bastimento. Il De Bartolomeis notava nel 1847 una scarsa esportazione per la Danimarca, la Svezia e la Russia settentrionale di caffè, cotone, lana, di qualche articolo proveniente dalla Sicilia, e, tra i prodotti sardi, di canditi, agrumi, olio, velluti; l’importazione consisteva invece in merluzzo, pesce salato, ferro, tabacco, legname, catrame, asfalto, lino, canapa, rame, allume e, in maggior quantità, frumento, segala, lana e cera. (op. cit., p. 104(> - 1051.) (2) Si esportavano in Olanda vari prodotti della Sicilia, come zolfo ecc., e fra quelli nazionali, olio, fruita, agrumi, e, in poca quantità sale della Sardegna. Si importava tabacco, acido solforico, vetriolo verde, coloniali, penne da scrivere, carta fine, formaggio ecc. Cfr. L. De BàRTOLOMEIS, op. cit., p. 1051. (3) Op. cit., p. 1053. (4) Si tratta di G. B. Balduino che, al comando deir« Ottavia Carolina » partì il :20 aprile 1840 per Calcutta, ove giunse, dopo aver circnmnavigato rAfrica, il 30 Ottobre. Ripartito il 10 gennaio 1841, approdò, dopo 125 giorni di navigazione, a Marsiglia. Cfr. C. M. N° 64-11 agosto 1841. , f>) T..' poche esportazioni per le Indie consistevano in coralli e qualche altro articolo; le importazioni, fatte con bandiera inglese o americana e con pagamento a contanti, in droghe e coloniali, tele di cotone e di filo, scialli di cachemire, articoli di seta e una gran quantità di nankino e di thè. Cfr. De Bartolomeis, op. cit., p. cit. 126 Assai più attivi erano i traffici con Gibilterra che, posta così sulle soglie dell’Atlantico, conservava per Genova il valore degli antichi scali atti al deposito ed al commercio di commissione. Quasi tutte le importazioni fatte con navi sarde che il Cevasco diceva provenienti, con termine generico, dalla Gran Bretagna, provenivano da Gibilterra (1). Il valore totale dell’importazione da Gibilterra nel 1826 fu di 2.933.225, superiore cioè a quello dell’importazione dalla Gran Bretagna. Discese a 1.946.706 l’anno seguente (2). Il valore dell’esportazione fu di 3.959.036 nel 1826 e di 1.985.345 l’anno seguente. Ad ogni modo, si trattava di un valore che nel ’26 superava circa otto volte quello per l’Inghilterra, e più del doppio nel ’27. Se osserviamo poi il numero delle navi partite dal porto di Genova nei singoli anni, notiamo che sempre l’esportazione per Gibilterra si mantenne attivissima, mentre sempre scarsa era quella verso la Gran Bretagna. Ad esempio nel 1835 partirono per Gibilterra 77 navi, di cui 62 sarde. Per l’Inghilterra e la Scozia solo 8. Viceversa diminuiva l’importazione. Nel 1835 solo 29 navi provenivano da Gibilterra, contro ben 88 dalla gran Bretagna; nel 1836 furono 22 contro 79 dai porti inglesi (3). Cioè la bilancia commerciale, passiva con la Gran Bretagna era attiva con Gibilterra e raggiungeva così un certo equilibrio (4). Infatti l’esportazione di grano soggetta a variazioni notevoli di fronte alle richieste inglesi, veniva compensata dalle più regolari richieste di quel porto, che, costituendo di per sè un deposito, aveva sempre bisogno di essere fornito. Anche il commercio col Portogallo era notevole, soprattutto come commercio di commissione. Se Gibilterra forniva a Genova uno sbocco (1) Op. cit., p. 39 e segg., tabella cit. Il Cevasco indicava come provenienti dalla Gran Bretagna anche le navi che giungevano dai suoi possedimenti. Ma in margine erano specificati i nomi dei porti. Da Gibilterra s’importavano molti coloniali e spezie, sigari, tabacco. Vi si importavano olio d’oliva, carta da scriver*,, vini, sapone, canapa, corallo lavorato, cappelli di paglia, droghe, seta, tessuti, lardo, grassi, fagioli, merci varie, e soprattutto grano e riso. iSel 1826 1 esportazione di grano per Gibilterra fu equivalente ai valore di 1.732.444 lire nuovo, di cui 1.639.414 con navi sarde, il resto con navi inglesi, austriache, danesi. L’anno seguente diminuì molto. Il valore deir esportazione del riso nel 1826 fu di Ln. 574.560, ma diminuì di quasi la metà l’anno seguente. (2) M. Cevasco, p. 76 e segg. (3) Cfr. Riassunti annuali del Movimento del Porto di Genova in C. M. Occorre tuttavia notare che una buona parte delle merci chesi esportavano m Gibilterra, non erano destinate alla Gran Bretagna o agli altri stati extra-me-iterranei, ma alla Spagna ove entravano per contrabbando; mezzo indiretto per mantenere gli affari con una nazione le cui dogane erano troppo alte; Cfr. Li. De Baktolomeis, op. cit. p. 1050. 12? a molti prodotti nazionali o a quelli di riesportazione, Lisbona e Porto Porto fornivano alle navi sarde quei prodotti coloniali ch’esse non andavano ad imbarcare direttamente dai paesi d’origine. Perciò l’importazione superava l’esportazione, aggirandosi nel 1826-27 intorno ai 3 milioni di lire. Trattandosi di commercio di seconda mano, i generi erano svariatissimi; tuttavia prevalevano i coloniali. Yi si importava anche grano, ma in poca quantità. Tuttavia gli sconvolgiménti politici del Portogallo dal 1820 al 1833, dovevano necessariamente provocare delle oscillazioni sul suo commercio. L’esaurimento economico di questo stato, dopo l’invasione napoleonica e dopo la perdita del Brasile, era tale, che il suo commercio con l’estero decadeva rapidamente (1). Più che col Portogallo gli Stati Sardi aspiravano perciò a stringere relazioni con la sua antica colonia del Brasile. Considerando ora i paesi del Mediterraneo, noteremo che le relazioni commerciali di Genova erano frequenti soprattutto con la Francia, e con le due Sicilie, minori con la Spagna, con la Toscana, con gli Stati Pontifici, con la Turchia e 1 ''Oriente, ove si escluda il commercio dei grani e con VAfrica del Nord. Scarsissime erano quelle con i porti austriaci deWAdriatico. Come il Portogallo, la Spagna ebbe a soffrire moltissimo durante il periodo dell’invasione napoleonica; perdette tra il 1810 e il 1833 la maggior parte delle sue colonie d’America e fu poi continuamente agitata da lotte interne. Ma, a differenza dello stato vicino, la Spagna attraverso tante disgraziate vicende, si risvegliò dal torpore e ricominciò a dedicarsi alle industrie ed ai commerci, orientando la sua politica doganale ad un temperato liberismo economico, del quale esisteva nella penisola un’antica tradizione (2). Mancandole ormai lo sfruttamento agricolo delle colonie, la Spagna intensificò la sua produzione, tanto che il De Bartolomeis notava nel 1847 che « prima della emancipazione delle sue colonie d’America, vi si spediva anche seta, ma che ormai (gli Spagnoli) erano ridotti a un punto da mandare eglino stessi delle sete grezze a Genova » (3). Questo periodo di risveglio economico a tendenze liberiste cominciò dopo l’avvento al trono di Isabella II, nel 1833 (4). Esso doveva necessariamente danneggiare il commercio di Genova, al quale venivano meno alcune fonti d’esportazione. Anche l’esportazione della carta, industria un tempo fiorentissima a Genova e che (1) A. Segue, op. cit. pp. 139-140. (2) A. Segue, op. cit. pp. 133-134. (3) Op. cit. p. 1050. (4) A. Segue, op. cit. p. 134. 128 aveva trovato grande favore in Spagna, diminuì assai dopo che quello stato ebbe istituite cartiere nel Regno e proibita l’introduzione di tal merce (1). Ad ogni modo, dopo il 1833, terminata la guerra spagnola con l’Argentina, il numero dei bastimenti sardi provenienti dalla Spagna o là diretti si accrebbe e da una media di una cinquantina all’anno passò ad un centinaio intorno al 1840 (2). Assai più importanti erano le relazioni commerciali del Piemonte con la Francia; ma esse non si risolvevano tutte in un vantaggio per il porto di Genova, in quanto l’importazione per via di terra e soprattutto per il territorio di Nizza toglieva molta parte del commercio alla nostra città (3). Di notevole importanza era stata nel secolo precedente l’esportazione dell’oZio ligure in Francia, che assicurava un’entrata di circa lo milioni all’anno (4). Ma questa esportazione si era notevolmente ridotta a causa delle dogane altissime dopo il 1815. Così il protezionismo francese tolse a Genova anche l’altro ramo un tempo notevole del suo commercio, quello dei grani-, dei quali la Francia si approvvigionava in gran parte a Genova nel secolo XVIII (5). Di fronte a quest’atteggiamento francese il Piemonte elevò i dazi sui vini stranieri. Ciò determinò nuove rappresaglie da parte della Francia e diminuzione dei depositi di vino in Genova; quindi le navi in partenza per i viaggi di lungo corso erano costrette ad approvvigionarsi altrove (6). In complesso il commercio piemontese con la Francia era molto ridotto rispetto al secolo precedente; tuttavia, nonostante ostacoli e divieti d’ogni sorta, il suo valore era ancora rilevante (7). Però esso si svolgeva per più di due terzi attraverso le vie di Nizza (1) L. De Baktolomeis, op* cit., p. 1840. (2) Cfr. Riassunti annuali del movimento del Porto di Genova in C. M. L’esportazione per la Spagna consisteva in grano, tabacco, filo, tele di Svizzera e di Francia, e, fra i prodotti liguri, merletti, biacca, tele di Chiavari, camicie, calze, berretti di cotone e di filo, vetri, porcellana, maioliche d’Albissola, carni salate, vermicelli e seta. Si importavano vini fini e ordinari, alcool, acquavite, pesci salati, essenze, coloniali, mercurio, zafferano, potassa, sparto lavorato e brutto, concerie, turaccioli, mandorle, pignoli, olive sott’olio, capperi, tabacco di Spagna, ferro, rame usato, vetri rotti, piombo. Cfr. L. De Bartolomeis, op. cit., p. 1050. (3) Oltre alle testimonianze già cit. cfr. C. M. N° 74-16 sett. 1837 e N° 36 17 feb. ’45. (4) L. De Bartolomeis, op. cit., p. 1048. (5) M. Cevasco, op. cit., voi. II, p. 78. (6) Le navi in partenza si rivolgevano altrove per le provviste di vino anche perchè esisteva in Genova un diritto di trasbordo snlle provviste di vino straniero. (Cevasco, op. cit., voi. II p. 8). (7) Il De Bartolomeis nel 1847 calcolava a 10 milioni di lire amine le importazioni per via di mare da Marsiglia nel solo porto di Genova (op. cit. p. 1048). 120 e di Savona, specialmente per quel che riguardava il transito degli zuccheri e dei cotoni che per tali vie si dirigevano in Lombardia e in Svizzera (1). La preferenza data alla via di Nizza, oltre che dalle condizioni di cui godeva la contea, derivava dall’infelice posizione dei Lazzaretti della Foce e del Varignano che obbligava i commercianti a sostenere esagerate spese indirette di quarantena (2). La media annua delle navi provenienti da Marsiglia nel decennio 1827-1830 fu (li 140 tra bastimenti nazionali ed esteri (3). Essa si accrebbe notevolmente negli anni seguenti fino a superare i duecento (4). Ma gli sviluppi delle relazioni commerciali fra Genova e Marsiglia erano ostacolati dal protezionismo eccessivo dall’una e dall’altra parte. Le tariffe differenziali sui grani, per esempio, si praticavano anche a Marsiglia in proporzione anche maggiore che a Genova. Finalmente nel 1843 (28 agosto) fu concluso tra i due paesi un trattato (li commercio e navigazione sulle basi della reciprocità, con la soppressione di quei diritti differenziali ed una diminuizione di tariffe su parecchi generi. Particolarmente era favorita l’esportazione del bestiame piemontese. Restavano escluse dal trattato le colonie francesi, eccetto quelle dell’Africa del Nord alle quali, in un articolo addizionale, venivano estese le condizioni di reciprocità vigenti tra la madre patria ed il Piemonte, che aveva interesse a non essere totalmente escluso da quelle coste lungo le quali si erano esercitati per l’addietro i traffici dei Genovesi, e dove recentemente la marina sarda aveva dato una brillante affermazione di forza. Il Corriere Mercantile (5), commentando e lodando il trattato di recente concluso, osservava che per esso il commercio sardo otteneva una diminuizione di spese doganali di circa un milione di lire all’anno e faceva notare ch’esso costituiva una vittoria sopra la bandiera austriaca, la quale fino allora, per i suoi noli bassi, aveva avuto il predominio nel commercio con la Francia e con l’Algeria. (1) Ckvàsco, op. cit., voi. Il, p. 9. (2) M. Cevasco, op. cit., voi. II, p. 10. (3) M. Ckvasco, op. cit., voi. II, p. 36. (4) Cfr. Riassunti annuali del movimento del Porto di Genova in C. M. Le esportazioni consistevano in grano (a seconda delle richieste), olii, riso, seta, paste e. vermicelli, canapa, legname da costruzione proveniente dalla Sardegna, ecc. L'importazione in tessuti, tele, pelli lavorate, frutta secca, vini ordinari e fini, alcool, acquavite, solfato, acido nitrico, bottiglie nere, damigiane, vasellame di terra, carbone, olio di pesce, piombo, rabbia, libri, ecc.; e poi coloniali, soprattutto zucchero delle colonie francesi, delle Grandi A utili e e dell’Avana, pepe, cacao, ecc. (5) N° 22-27 gemi. 1844. 130 l tempi volgevano ormai propizi al liberismo, e la propaganda del Bastiat in Francia rispecchiava quella del Cobden in Inghilterra (1). Tuttavia l’opinione pubblica francese era ancora prevalentemente protezionista e soprattutto gelosa della sua nuova colonia africana. Quindi, concluso appena il trattato col Piemonte, cominciarono le recriminazioni. Nel dicembre furono elevati i dazi sulle importazioni fatte con navi straniere in Algeria, e diminuiti quelli sulle navi nazionali (2). I protezionisti si agitavano; nel marzo del ’44 si cominciò a discutere e a cavillare sull’attuazione pratica del trattato (3). Un anno dopo il Journal des Débats, riprendendo l’argomento (4), criticava il trattato del ’43, perchè troppo favorevole al Piemonte, sia per le facilitazioni doganali accordate sull’importazione del bestiame in Francia, sia per quel che riguardava l’Algeria; intanto alla Camera si agitava la questione di ridurne la durata, che avrebbe dovuto essere di sei anni. Al che rispondeva il Commerce di Parigi notando che quell’emendazione non sarebbe stata altra cosa « che la denunzia del trattato prima ancora della sua messa in esecuzione » (5). Dunque, un anno e mezzo dopo la stipulazione l’accordo non era stato ancora ratificato. Le discussioni si protrassero ancora lino al 184G, anno in cui fu aggiunta una Convenzione supplementare (22 aprile) che riduceva la validità del trattato a quattro anni (G). Così i protezionisti trionfavano ancora in Francia mentre l’Inghilterra stava per abbracciare risolutamente le teorie liberiste. Oltre Marsiglia, fra i porti del Mediterraneo che interessavano Genova, sia per il traffico che alimentavano, sia per la loro concorrenza, Livorno teneva uno dei primi posti. Godendo esso di molte franchigie, dovute alla tradizione liberista cominciata fin dai tempi di Leopoldo I, posto in una posizione vantaggiosa, svolgeva un commercio di commissione che danneggiava quello di Genova. Che l'attività commerciale livornese fosse essenzialmente basata sul traffico di commissione, può dedursi, oltre che dalla sua stessa posizione geografica, dalla sproporzione enorme fra le esportazioni di prodotti nazionali e le importazioni, costituite in gran parte di coloniali e materie- (1) Cfr. F. Bastiat. Cobden et ìa tigne, Parigi 1845. (2) C. M. N° 40-19 febbraio 1844. (3) C. M. N° 81-10 marzo 1844. (4) 28 marzo 1845, citato dal C. M. N° 71-5 aprile 1845. (5) C. M. N° 72-7 aprile 1845. (6) C. M. N° 100-9 maggio 1846. 131 prime, merci del Levante (grano), dell’Inghilterra e della Svizzera (1). Il commercio diretto fra Genova e Livorno per via di mare era effettuato quasi completamente da navi genovesi, e ciò si capisce, perchè nessun armatore toscano aveva interesse a pagare i forti diritti del Porto di Genova. Le poche navi toscane che qui approdavano provenivano da altri porti, raramente da Livorno. Il deposito dei cereali in Livorno era così ben fornito che spesso la stessa Genova se ne serviva, come accadde nel 1839, anno in cui entrarono nel nostro porto ben 311 navi nazionali provenienti dalla Toscana (2). Poiché negli anni precedenti ed in quelli che seguirono il numero fu di gran lunga inferiore, lo straordinario aumento di quell’anno va messo in relazione col basso prezzo dei cereali verificatosi in Toscana (3) e con le richieste dei mercati europei, alle quali Genova corrispondeva traendo grano da Livorno.. Ma Livorno offriva a Genova un esempio di prosperità ben notevole, che da un lato preoccupava, dall’altro attirava la classe commerciante genovese la quale poteva notare i benefici effetti di una politica liberista sostenuta da quell’attività e da quello spirito di asso1 dazione che in Toscana non era venuto meno (1). Scarse risultano, nel periodo di cui trattiamo, le relazioni commerciali con gli Stati Pontifici, ove il commercio, ostacolato dalla mancanza di viabilità, poco prosperava (5). Essendo Senigalia, Ancona e Civitavecchia porti franchi, i Genovesi avrebbero potuto trovarvi qualche vantaggio per il loro commercio di commissione, ma l’unico porto sfruttato era Civitavecchia, essendo rare le navi sarde (1) 11 MittkrmÀieìi, op. cit., p. 71, (là i seguenti dati sul commercio di Livorno: nel 1822 l'esportazione fu di 5.136.000 lire e l’importazione di 51.368.480. Nel 1835 l'importazione era salita a 85.525.270 lire. Ma dobbiamo credere clie tale importazione enorme non fosse destinata che in piccola parte al consumo interno, e che il resto fosse riesportato. (2) C. M., Riassunti annuali del Movimento del Porto di Genova. Abbiamo già visto come il deposito di Livorno andasse gradatamente aumentando rispetto a quello di Genova. Possiamo notare che l’importazione di grano dal Mar Nero superava a volte in Livorno quella fatta dai Genovesi. Cfr. A. U. S., voi. LXXX, p. 31 e segg. (3) C. M. N° 1-2 gennaio 1839. (4) A. Segre, op. cit. volume li, pag. 310. In Toscana si svilupparono molte società commerciali e industriali; banche, mercati e lìere; industria, agricoltura e commercio prosperavano. La marina accresciuta da un buon numero di piroscafi, aumentò in un decennio di 1.245 unità toccando nel 1847 il numero di 7.246 fra bastimenti e piroscafi. Confr. A. U. S., volume XVC, 1848, pagina 229. (5) A. Seghe, op. cit., p. 514. che approdavano nell’Adriatico, ove, si può «lire, tutto il commercio era nelle mani dell’Austria (1). Assai più attive erano invece le relazioni con le due /Sicilie. Nel porto di Napoli le importazioni da Genova (2) tenevano il quarto posto dopo quello dall’Inghilterra, dalla Francia, dall’Austria (3). Le importazioni dalle due Sicilie in Genova erano però superiori (4), alimentate com’erano dal grano pugliese e siciliano, dagli agrumi, dalle sete, dai cotoni, dalle lane, dall 'olio (Polirà, dallo zolfo, ecc. Osservava il De Bartolomeis che il commercio genovese colle due Sicilie era di molto diminuito negli ultimi anni a causa del predominio inglese. Un tempo infatti le esportazioni superavano le importazioni, e ben 10.000 genovesi avevano fissato le loro relazioni commerciali con quello stato (5). Con le Isole Ionie, con le coste della Barberia, col Marocco, con VEgitto, le relazioni commerciali non erano mai venute meno. Ma il pericolo della pirateria non era cessato del tutto, nemmeno dopo l’impresa di Tripoli nel ’25 e la conquista francese dell’Algeria nel ’30 (G). Ciò danneggiava ed impediva in gran parte il commercio con quelle regioni. Inoltre speciali misure sanitarie, rese necessarie dalle persistenti malattie orientali (7), contribuivano a renderlo meno prosperoso. Molti erano i generi di commercio; fra i più importanti i cereali, il cotone, l'olio di lino, le spugne, le droghe, la lana, i datteri, il mais, ed altri della zona tropicale e temperata. Noterò come caratteristica la pesca del corallo, effettuata sulle coste algerine da circa 150 barche di Santa Margherita, armate di nove marinai ciascuna. (1) Cfr. Riassunti annuali del Movimento del Porto di Genova in C. M. Le provenienze e le partenze per l’Adriatico ascendevano ad una inedia di 25 navi sarde all’anno, le più dirette alle Komagne, le altre a Venezia e a Trieste. (2) Esse erano costituite da coloniali, formaggio parmigiano, pesci secchi, pelli, cuoi, tonni di Sardegna, stoffe di seta liguri, ecc. Cfr. L. De Bartolomeis, op. cit., pag. 1049. (3) Mittermaier, op. cit., p. 67. Egli si riferisce all’anno 1839. (4) Cfr. Riassunti annuali del Movimento del Porto di Genova in C. M. (5) L. De Bartolomeis, op. cit. p. 1050. (6) Frequenti erano le notizie di atti di pirateria compiuti nel Mediterraneo anclie dopo qnelle date, (Cfr.C. M., Notizie marittime). Ad esempio nel 1834 1 imperatore del Marocco armò navi corsare per dare la caccia a quelle napoletane. Cfr., C. M. N° 34-30 Aprile. (7) Il pericolo della peste e del colera era spesso gravissimo. Dopo il 1830 il colera invase a poco a poco l’Europa e nell’estate del ’35 colpì Genova e tutta 1 Italia. Nel 1836 nn decreto di Ferdinando di Napoli (22 agosto) puniva di morte tutti coloro che avessero trasgredito alle misure sanitarie imposte a cansa di una nuova epidemia manifestatasi in Italia (C. M. N° 72 - 7 settempre). e per parecchi anni ancora il colera fece qualche comparsa nei porti d'Europa, durante l’estate. 133 Ogni battello aveva un capitale di quattro o cinque mila lire, diviso in quattro o cinque azioni. Il corallo, lavorato a Genova, si smerciava poi nella città stessa, a Livorno, a Marsiglia, in Levante, in Egitto, e un po’ in tutto il mondo (1). Quando in Algeria sottentrò il dominio francese, il Governo sardo si affrettò ad accordarsi con la nazione vicina affinché non fossero innalzati i diritti sulla pesca del corallo già vigenti sotto il Bey (2). Del commercio con i porti del Mar Nero e del Mare d’Azof vedemmo lo svolgimento fino al 1835. Esso avrebbe potuto acquistare ben altra importanza qualora i Genovesi si fossero decisi ad introdurre in quelle regioni prodotti nazionali, non limitandosi al solo commercio dei grani. La pace di Adrianopoli nel* 1829 aveva aperto a tutte le nazioni d’Europa lo stretto dei Dardanelli. Molte nazioni intanto cercavano di ottenere favorevoli accordi commerciali con la Turch ia, che era la chiave di volta della penetrazione in Oriente. Così la Francia concluse un trattato di commercio con l’impero Ottomano nel 1838 (3); l’anno dopo (2 settembre) il Piemonte rinnovò il trattato del 1825, migliorandolo in suo favore (4). Per esso la Porta rinunciava a tutti i monopoli che colpivano il commercio dei commestibili, i sudditi sardi avrebbero avuto libertà di commercio nell’interno della Turchia, e tutte le clausole del trattato erano estese ai possedimenti turchi d’Africa, d’Europa ed Asia. Non si può negare l’importanza di questo trattato per il commercio genovese; pare tuttavia che i nostri commercianti non abbiano saputo approfittare delle favorevoli circostanze per intensificare l’esportazione dei prodotti nazionali. Essi erano ancora troppo imbevuti di princìpi mercantili stici e trattenuti da una naturale prudenza per arrischiarsi in più vaste speculazioni. Felice Milanta nel rapporto citato, notando cbe la marina sarda era la maggior esportatrice di grano dal Mar Nero, insisteva affinchè fosse reso più attivo il commercio con l’Oriente, poiché, secondo lui, era troppo difficile quello con l’America a causa della concorrenza straniera. Ma quali i mezzi per riattivare il commercio con l’Oriente? Il commercio dei grani era aleatorio, dipendendo dalle richieste degli stati occidentali. Bisognava dunque introdurre fra gli Stati Sardi e il Mar Nero altri rami di commercio, basati sopra un sistema di baratto. Chè se poi la Eussia non avesse acconsentito a (1) L. De Bartolomeis, op. cit., pp. 960, 986 e passim. (2) C. M. N° 31 - 20 aprile 1831. (3) C. M. N° 52 - 28 giugno 1839. (*i) C. M. N° 67 - 25 settembre e N° 105 - 11 dicembre 1839. 134 ricevere molte importazioni, le navi sarde avrebbero potuto incaricarsi del doppio commercio di importazione e di esportazione da quei mari. Inoltre Fautore consigliava di far di Genova un deposito di pelli e di lane del Mar Nero, osservando che gli stati europei, e specialmente gli inglesi avrebbero trovato conveniente approvvigionarsi a Genova piuttosto che intraprendere un lungo e dispendioso viaggio nel Mar Nero. Dimenticava però egli che lo straordinario sviluppo della marina a vapore inglese rendeva ormai vana questa supposizione (1). Le riesportazioni poi da Genova dei generi in deposito, egli osservava, avrebbero provocato anche una esportazione di prodotti nazionali, compensando così un’eventuale sfavorevole bilancio di tal futuro commercio col Mar Nero. Nonostante questi incitamenti, i commercianti genovesi continuarono ad essere molto prudenti ed il commercio col Levante non si ravvivò. Infatti uno studio statistico degli Annali Universali nel 1845, confrontando il commercio di Marsiglia con quello di Genova, Livorno e Trieste nel Levante, poneva Genova ultima in importanza, al di sotto della stessa Livorno (2). La mancanza di una ripresa adeguata dei traffici con l’Oriente è un segno di quel venir meno di spirito d’intrapresa e di associazione che molti contemporanei rimproverarono ai Genovesi; sebbene in questo caso devano anche considerarsi gli scarsi bisogni dei popoli orientali che non potevano determinare una forte corrente di esportazione dagli stati europei. Il commercio con YAustria interessava Genova doppiamente, poiché le relazioni si svolgevano per mare e per terra. L’entroterra poi, costituito dall’Europa centrale, comune a Genova ed a Trieste, poneva naturalmente le due città in uno stato di antagonismo sentito a Genova forse più di quel che non si sentisse la concorrenza di Marsiglia. Subito dopo la restaurazione, i rapporti commerciali fra l’Austria e il Piemonte furono ostacolati dalla politica protezionistica istituita da Francesco I, che nel 1817 vietava l’introduzione dei coloniali provenienti da porti stranieri (3), rovinando così il transito di Genova. (1) Bisogna notare che mentre i commercianti genovesi non sapevano risolversi ad nna maggior penetrazione in Oriente (nè in vero lo potevano finché l'industria nazionale era così scarsa) la Germania iniziava la sua espansione economica verso la Turchia e la Russia, valendosi del transito attraverso l’Anstria, con la quale aveva concluso un trattato nel 1831. La maggior parte delle esportazioni tedesche attraverso l’Austria erano dirette in Turchia, in Russia, in Polonia, a Cracovia. Cfr. C. M. N° 12 - 16 gennaio 1845: Commercio dell’Austria con VEstero nel 1844. (2) A. U. S. Voi. LXXXV 1845, p. 224. (3) A. Segue, op. cit. p. 277. 135 Ciò fu, come vedemmo, una delle ragioni per cui il Governo piemontese si decise a togliere le barriere interne nel 1818. Prima del 1825 molte erano le navi austriache che approdavano in Genova, non certo per effettuare un commercio diretto, ma piuttosto per scaricarvi grano e generi coloniali (1). Ma dopo il 1825 ogni relazione marittima fra i due stati si può dire cessò, a causa delle tariffe differenziali istituite per proteggere la marina sarda, ed il poco traffico rimasto fu effettuato prevalentemente con navi sarde (2). Restava il commercio di transito per il Lombardo-Veneto, per la Svizzera e per il Tirolo. Esso avrebbe potuto svilupparsi assai dopo l’abolizione dei diritti che fino al 1830 lo avevano reso poco agevole in Piemonte, se non fosse stato ostacolato e impedito da una parte dalle dogane austriache, dall’altra dalla mancanza di facili vie di comunicazione per l’Europa centrale. A ciò si aggiunga la politica doganale dello Zollverein che, mentre riscuoteva, per lo spirito ond’era mossa, le simpatie dei patrioti italiani e dei fautori di una lega doganale italica (3) era però praticamente tutt’altro che favorevole agli interessi genovesi e italiani, in quanto tendeva piuttosto ad assorbire nella sua orbita il commercio delle province austriache. (4) Infatti nel 1831 l’Austria e la Prussia strinsero un trattato commerciale, che doveva durare dieci anni, sul piede della reciprocità, tendente a favorire il transito da Venezia e Trieste verso la Baviera, la Sassonia, la Prussia, il Belgio, mentre da parte sua l’Austria cercava di favorire il transito per Coira verso la Svizzera (5). A ciò si aggiunga il pericolo, già accennato, che l’Inghilterra facesse passare la Valigia delle Indie per Trieste, e si comprenderà come il commercio di transito degli Stati Sardi, sebbene favorito con la soppressione dei diritti, dovesse essere assai ridotto. (1) A. S. T. Sez. I, Commercio, Categoria 3, mazzo 2, 1814-1819. Secondo le Relazioni trimestrali del Comandante del Porto, già cit., il numero dei bastimenti austriaci entrati in Genova nel 1819-20-21 furono rispettivamente 113, 53, 53. Cfr. pure: Degli antichi navigatori del Mare Adriatico e della marineria Austriaca mercantile d’oggidì nel Lloijd Austriaco, N° 84, 1842, riprodotto in C. M. N° 58-23 luglio, N° 59-27 luglio dello stesso anno. In esso è detto che la media delle navi austriache cariche di grano entrate in Genova tra il 1814 e il 1825 fu di 170 all’anno. (2) Cfr Riassunti annuali del movimento del Porto di Genova in C. M. (3) Per l’interesse e l’entusiasmo che riscuoteva in Italia la Lega Doganale Tedesca vedi G. Prato, Il programma economico e politico della Mitteleuropa già cit.. p. 566 e passim. (4) Ciò era mosso in evidenza (la un articolo del C. M. N° 74-17 settembre 1831. (5) A. U. S., voi. LXXIX, 1844, p. 283 e segg.: Cenni generali sul transito lombardo. Secondo questo articolo le forti dogane imposte dalla Unione tedesca sui commestibili italiani equivalevano ad una proibizione. 136 Lo rilevava infatti con soddisfazione un articolo degli Annali Universali di Statistica nel 1844 che notava come, di fronte al grande sviluppo del transito lombardo, Genova potesse fare ben poca concorrenza. La Lombardia risentiva piuttosto della concorrenza di Marsiglia, La Havre, Rotterdam, porti meglio attrezzati che Venezia e Trieste, i quali mandavano in Isvizzera cotoni e coloniali. La concorrenza di Genova « era stazionaria, e siccome il nolo da Genova a Como o per il Lago Maggiore alle piazze della Svizzera, era, a motivo del passaggio degli Appennini, sempre uguale o maggiore, ma mai inferiore di quello da Trieste a Lecco o alle suddette piazze Svizzere, e che le spese della piazza di Genova erano più gravose, éd i negozianti meno speculativi ed attivi di quelli di Trieste, ne seguiva, elio la concorrenza di Genova con Trieste non eccedesse mai un certo consueto limite ». Così, pur possedendo una flotta mercantile maggiore, un porto situato in una favorevolissima posizione, superando YAustria quanto al commercio di commissione, Genova le era di gran lunga inferiore nel commercio di transito; gli Stati Sardi erano come soffocati ad Ovest dalle dogane francesi, ad Est da quelle austriache, a Nord dalle difficoltà del transito alpino, dai forti dazi di transito nel Canton Ticino (1) e dalla politica doganale tedesca, tendente ad avvolgere l’impero austriaco nei suoi interessi. Bisognava sfondare, da qualche parte, il cerchio, e pareva cosa ben naturale rivolgersi appunto verso l’Europa centrale. Il Piemonte, e con esso Genova, doveva dunque ingaggiare una lotta contro l’Austria, accelerare le proprie vie di comunicazione; arrivare con una ferrovia al Gottardo prima che Milano allo Spluga, stipulare accordi commerciali con la Svizzera e lo Zollverein. Ciò intorno al 1846 pareva ormai tanto piti facile, in quanto le continue titubanze dell’Austria di fronte alla' Lega tedesca (2) andavano ormai provocando quel dissidio che per oltre un ventennio 'covò fra i due stati fino all’urto delle armi a Sadowa. # # # La conoscenza della situazione commerciale genovese nell’epoca di cui trattiamo è necessaria per comprendere, attraverso le discussioni fatte contemporaneamente in proposito a Genova e a Torino, una parte della opinione pubblica cittadina. Considerando il commercio (1) A. U. S. voi. e articolo cit. (2) G. Prato, op. cit., p. 561, 137 di Genova in un quadro vasto, non limitato alla tradizione mercantilistica, ma esteso a tutte le possibilità di futuri sviluppi, si può comprendere quanti interessi comuni ormai legassero insieme Piemonte e Liguria. Il commercio d’America e quello con Levante, mentre avrebbero offerto vasto campo d’azione agli speculatori genovesi, avrebbero promosso l’industria nazionale e mantenuto un bilancio favorevole; venendo meno la precarietà del commercio di commissione, sarebbe aumentata la fiducia dei commercianti, che si sarebbero fatti più arditi. La conquista poi dei mercati dell’Europa centrale avrebbe aperto al Piemonte ed alla Liguria un transito importantissimo per il quale Genova sarebbe diventata ben presto il primo porto del Mediterraneo. E mentre gli ideali di unità e di indipendenza scendevano tra il popolo per mezzo della propaganda, dell’esempio e del sacrifìcio dei capi, gli stessi interessi della classe media potentemente concorrevano ad indicare l’Austria quasi come necessaria nemica. Ond’è che aumentando il ritmo delle relazioni commerciali e più imperiosa facendosi l’esigenza di riconquistare quel posto di predominio che sui mari Genova per secoli aveva tenuto, tanto più veniva in odio quella potenza che pareva soffocare ogni tentativo di risveglio nella nostra penisola. Nel 1846 le relazioni politiche fra il Piemonte e l’Austria, in occasione della nota questione dei vini, andavano facendosi tese. -Nella lotta comune contro lo straniero, Genova e Torino si tendevano la mano e le antiche avversioni venivano meno. Xon che scomparissero del tutto, ma più frequenti e più franchi si facevano ormai da una parte e dall’altra i tentativi d’avvicinamento. Poiché, per raggiungere il miracolo dell’unità d’Italia, il problema principale da risolvere era quello della conciliazione di interessi, di mentalità, di abitudini diverse e, qualche volta, ostili. Genova e Torino diedero per prime, forse loro malgrado, quest’esempio; tra il ’4G ed il ’48 seppero dimenticare, davvero, in un impeto d’entusiasmo, gli odii secolari. Occorreva certo molta buona volontà d’ambo i lati; ed invero vi furono uomini animati da un grande, sincero spirito di conciliazione. Tra i Genovesi però una certa qual diffidenza non venne mai meno; il senso dell’orgoglio ferito, l’insofferenza ad accettare consigli, l’incapacità, molte volte, di porsi decisamente innanzi la realtà nuova, contribuirono a mantenere la borghesia piuttosto ostile a Torino. Risorse invece dal suo silenzio, e prese la direzione dell’opinione pubblica, la nobiltà ligure, animata di idee moderate rispondenti a finalità civiche e patriottiche; ed essa guidò il popolo al quale la borghesia aveva comunicato le sue nuove idealità. Anche qui accadde una cooperazione 138 di forze diverse che si integrarono a vicenda. Mentre il Mazzini, il Gioberti, il Balbo, il IVAzeglio impostavano la questione italiana su basi morali, giuridiche, storiche, e consideravano il problema della libertà e dell’indipendenza come un’esigenza delio spirito umano, la borghesia operosa tendeva agli stessi fini animata dalla speranza di risolvere molte calamità che dallo spezzettamento d’Italia e dall’oppressione straniera derivavano. La nobiltà a sua volta si rimetteva a capo della cittadinanza; riprendeva il suo posto di comando, agiva come nei tempi ph'i gloriosi della vecchia Repubblica. Non v’era differenza sostanziale fra quei diversi punti di vista, perchè l’identica soluzione derivava dall’adeguamento del problema nazionale al particolare modo di pensare delle varie categorie di cittadini. Nel fondo della coscienza di tutti, dal popolano al nobile, dal commerciante al letterato, si notava un’insofferenza prepotente verso ogni forma (li sottomissione, un desiderio ardente di rompere i vincoli che premevano per gli uni sui traffici, per gli altri sul pensiero. Questo bisogno di libertà, favorito dalle correnti del liberalismo europeo e fondato sopra interessi materiali, coincideva con l’ideale nazionale, ed era sentito da tutta la borghesia italiana, specialmente nel settentrione (1). In Inghilterra il Cobden ed in Francia il Bastiat combattevano una vigorosa campagna contro il protezionismo, e l’economia politica, che si andava allora formando su basi scientifiche, penetrava ormai con le sue chiare dimostrazioni nella coscienza del pubblico. In Italia le teorie economiche nuove si colorarono subito, e, direi, logicamente, di nazionalismo, in quanto dirigevano l’opinione pubblica all’evidente necessità di una lega doganale italiana, garantita da leggi costituzionali, primo nocciolo della futura unità (2). L’idea federativa, che coincideva con il programma dei moderati, penetrò nelle coscienze specialmente dopo la pubblicazione del Primato e delle Speranze d’Italia, mentre l’idea liberista, che ne era il sostrato scientifico, andava diffondendosi attraverso i Congressi degli Scienziati i quali, iniziati in Toscana nel 1839, divennero ben presto dei veri parlamenti nazionali ai quali concorrevano gli uomini più illustri da ogni parte d’Italia. Praticamente ima confederazione italiana, (1) R. Ciasca, op. oit., pp. 546-567. (2) Stille discussioni in proposito di una lega doganale italiana, tra il 1841 od il 1847, e sullo due tendenze, 1 una favorevole ad nn’nnione doganale, comprendente 1 Austria (Viesseux, Cattaneo, inizialmente il Serristori), l’altra escludente l’Austria (Balbo, D’Azeglio, Gioberti), cfr. R. Ciasca, op. cit., pp. 266 e segg., 357, 448 e segg., 481 e segg. 139 sia pure a carattere doganale, doveva portare alla creazione di un sistema uniforme di legislazione civile, commerciale, giudiziaria, all’unità di pesi, misure, monete, ed alla facilitazione dei traffici attraverso una conveniente rete ferroviaria, base indispensabile all’attuazione della lega stessa (1). Ma parecchi dei nostri economisti andavano oltre al programma strettamente economico del liberismo, e direi anche oltre a quello politico. Ad esempio il Petitti, insigne figura di patriota, appartenente al partito moderato del quale comprendeva soprattutto il programma di educazione e di conciliazione, considerava la libertà di commercio come una necessità d’ordine morale che assumeva perciò valore universale (2). Il partito moderato tendeva a creare una coscienza unitaria che in Italia non esisteva ancora tra le masse (3). Esso imponeva perciò un’azione tenace, che scavasse in profondità e che mirasse a conquiste concrete, per tappe successive. I liberali moderati, mentre aspiravano all’unità, alla libertà, all’indipendenza, erano contrari ad ogni eccesso, ad ogni moto rivoluzionario. Dominavano l’impulso del cuore con la freddezza del ragionamento. I moderati piemontesi erano, innanzi tutto, uomini politici; avevano, come il Petitti, il Sauli, lo Sclopis, il Giovanetti, cariche governative; erano al corrente dei rapporti con gli stati esteri; dovevano conciliare le aspirazioni politiche italiane con la realtà della situazione internazionale. Erano uomini responsabili, che volevano compiere le loro conquiste legalmente. Affezionati alla Monarchia, volevano conciliare lo spirito dei tempi nuovi con le tradizioni sabaude; piemontesi, non potevano rinnegare la loro patria in nome di una patria futura, che non esisteva se non nella coscienza di pochi. Ecco dunque presentarsi evidente per essi la necessità di una prudente conciliazione, fra tante ed opposte esigenze di carattere morale e politico. Se noi ora pensiamo ai Genovesi, agitati da un lato, in una ristretta minoranza, dall’idea mazziniana, rivoluzionaria, unitaria, dall’altra da interessi economici che spingevano allo stesso fine unitario; se consideriamo che mancavano ad essi le restrizioni e le preoccupazioni dei (1) R. Ciasca, op. cit., p. 412 segg. (2) Sol pensiero e sulTattività civile e patriottica del Petitti cfr. A. Codignola, Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri,. cit. Le Notizie che precedono il carteggio o le abbondanti note che lo accompagnano offrono nn preziosissimo materiale di studio che illumina e definisce i rapporti fra Genova e Torino in relazione a tntti i problemi economici, politici, sociali che agitavano allora l’Italia. (3) C. Iìalbo, Le Speranze d}ltalia. Torino, 1925, p. 25. 140 responsabili moderati di Torino, dobbiamo riconoscere che, anche venendo meno le antiche ragioni di dissidio, nuovi contrasti dovevano profilarsi tra le due città, tra i programmi stessi dei liberali dell’ima e dell’altra. Il partito moderato genovese era composto da coloro che avrebbero accolto volentieri il programma federativo o unitario, con tanto più entusiasmo in quanto avesse escluso l’egemonia piemontese. Anch’essi, come i moderati piemontesi, applaudivano alla libertà dei traffici, aspiravano all’unione doganale; essi erano antiaustriaei e per istinto e perchè l’Austria impediva a Genova di svolgere la sua funzione di porto naturale della Lombardia e le opponeva l’artificiosa concorrenza di Trieste. Ma essi avevano in più interessi assai vasti, che non si fermavano alla sola penisola italiana ed alla soppressione delle dogane interne, ma toccavano le più lontane regioni di quattro parti del mondo, con le quali i traffici erano avviati, iniziati o almeno desiderati. Da un lato quindi i liberali genovesi avevano meno scrupoli nell’attuazione del programma nazionale, perchè non desideravano, anzi aborrivano una supremazia del Piemonte sugli altri stati; dall’altro pretendevano che i loro interessi commerciali che non toccavano solo l’Italia, ma il mondo intero, fossero salvaguardati e favoriti. Mentre tuttavia i Genovesi sentivano la necessità di uscire dal Fiso, lamento, di comunicare, intellettualmente ed economicamente con le nazioni più progredite e di estendere la loro sfera d’influenza nei paesi di facile penetrazione, come l’America del Sud e l’Oriente, mancava loro la forza di superare l’inerzia che dal 1815 aveva invaso tutti gli aspetti della loro attività. Mancava a Genova lo spirito d’intra-presa, dicevano i contemporanei, mancava lo spirito d’associazione. In realtà lo spirito d’associazione era stato ostacolato a bella posta dalla gretta e sospettosa politica piemontese (1) ed era naturale che al momento opportuno tale mancanza si facesse sentire. Ora, mentre si manifestavano vive tendenze ad una ripresa culturale e commerciale (2) che si sarebbe integrata a vicenda con un rinnovato spirito d’associazione, la diffidenza del Governo verso la città non veniva ancor meno, nonostante che per tanti segni la polìtica sabauda paresse rinnovarsi in senso liberale e nazionale. Così, mentre a Torino nel 1842 era stata fondata VAssociazione Agraria Subalpina che, abbandonando il carattere aristocratico e conservatore imposto all’inizio, divenne il cenci) A. Codignola, op. cit., p. 88. (2) F. Ridella, La vita e i tempi, di Cesare Gabella, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, Serie Risorgimento, voi. I, 1923, p. 91. 141 tro di tutto lo opinioni liberali o progressiste del Piemonte (1), le tre Società Scientifiche fondate a Genova noi 1845 da Camillo Pallavicini furono virtualmente soppresse Tanno dopo per gli ostacoli mortificanti frapposti dal Governo alla loro attività (2). Sarebbe stato opportuno, nel fermento nuovo di ideo, assegnare compiti dirottivi ai Genovesi meno ostili alla Monarchia e dimostrare loro fiducia. Poiché ciò non accadde, gli animi si mantennero diffidenti verso il Governo di Torino anche quando 1’interesse di quello per i bisogni genovesi si manifestò maggiormente. Dopo il 1840 la legislazione piemontese parve profondamente rinnovarsi nello spirito e nella lettera. La promulgazione del Codice di Commercio che, se scontentò i protezionisti od i liberisti per aver tentato un compromesso fra le esigenze degli uni e degli altri (3), accolse poro idee nuove e moderne; l’avviamento verso la forma di processo orale iniziato con alcune disposizioni atte a garantire maggiori mezzi di difesa agli imputati (4); le convenzioni per la proprietà letteraria stipulate nel 1840 con l’Austria e poi con altri stati d’Italia e con la Francia (5), la soppressione delle corporazioni artigiane avvenuta noi 1844 (R. R. P. P. 14 agosto), sono tutti segni del progresso che le idee liberali andavano acquistando sull’animo del Re e dei suoi ministri. Nel 1840 si radunò in Torino il 2° Congresso degli Scienziati, e nel ’44 richiamava l’attenzione di tutti por la sua perfetta organizzazione V Esposizione di Industria e Beli e Arti a Torino (6), di cui lasciò una densa memoria Carlo Ignazio Giulio (7). Intanto noi 1839 il Governo, accogliendo una proposta di alcuni capitalisti genovesi, affidava loro l’incarico di iniziare gli studi por una ferrovia da Genova a Torino. I Milanesi, sempre attenti a quel che accadeva nel vicino Piemonte, rilevavano lo spirito nuovo che lo animava (8). Intanto, por (1) G. Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848. — L’Associazione agraria Subalpina e Camillo Cavour, in Biblioteca di Storia Italiana recente, voi. IX, p. 161. (2) A. Codignola, op. cit., p. 104 e segg. (3) F. Sclopis, Storia della legislazione, cit.., p. 65. (4ì F. Sclopis, op. cit., p. 66. (5) F. Sclopis, op. cit., p. 69. (6) G. Prato, Fatti e dottrine economiche ecc., p. 238. (7) Notizie sulla Patria Industria, cit. (8) Cfr. Rivista Europea, anno II, parte II, 1839, p. 250., anno III, parte I, 1840, p. 302, Lettera sul Piemonte di Giorgio Barberi. Egli notava nella vicina regione nn rinnovato spirito d’associazione, un progresso, nn accostarsi delle classi fra loro, una grande fiducia nell’avvenire; risveglio non accompagnato però da un corrispondente sviluppo del giornalismo. — Anno III, parte IV, Seconda lettera sul Piemonte di G. B. (p. 346). — Anno 1846, 2° seni., p. 264, Nuovo corso di economia 142 meglio conoscere eia vicino le reali condizioni dei sudditi, Carlo Alberto creava una R. Commissione incaricata di raccogliere informazioni statistiche sugli Stati Sardi, di cui sono dirette figliolanze le note opere del Casalis, del Cevasco e quella, meno conosciuta ma altrettanta importante del De Bartolomeis (1). Nel 1844 il Governo decretò la fondazione di una Banca di emissione e sconto che fu veramente una notevole concessione agli interessi dei Genovesi (2). Tra gli aspetti del nuovo orientamento governativo interessanti particolarmente Genova sono da annoverarsi i molti Trattati commerciali conclusi dal Piemonte negli ultimi 14 anni. Infatti dal 1832 al 1830 furono firmati 26 trattati commerciali, conclusi generalmente colla clausola della reciprocità, ciò che praticamente risolveva la questione delle tariffe differenziali, anche se non l’impugnava in teoria. Resta tuttavia a vedere fino a qual punto questi trattati rispondessero allo scopo per cui erano stipulati. Abbiamo già visto alcuni di essi, e ne abbiamo notato le deficienze, dovute in parte alla debolezza industriale del Piemonte, in parte alla ritrosia persistente negli ambienti protezionistici stranieri. Inoltre il Governo piemontese mentre cedeva alle idee liberistiche, cercava tuttavia di non scostarsi del tutto dal protezionismo tradizionale. Così, nel concludere i trattati commerciali, aveva cura, ogni volta che l’altra parte glielo concedeva, di aggiungere un articolo addizionale, escludente ogni riduzione doganale sui grani, olii, vini importati dal Mar Nero, dall’Adriatico, dal Mediterraneo. Tali articoli addizionali erano aggiunti a diversi trattati commerciali, come quelli con la Svezia e Norvegia (28 nov. 1839), con l’Uruguay (29 ott. 1840), politica all’Università di Torino, professato da Antonio Scialoia Napoletano. A p. 274 è detto: « Educato, alle novelle necessità il secondo ramo della stirpe sabauda, poiché fu chiamato a succedere al primo resosi estinto, il principe assunto all’avito soglio proponevasi di riordinare il suo regno in modo accomodato alla presente età », Erano poi annoverate tutte le riforme compiute da Carlo Alberto negli ultimi anni. Con altrettanto interesse gli Annali Universali di Statistica, sebbene animati da una punta di municipalismo, seguivano i progressi degli Stati Sardi ed accoglievano frequenti articoli di Piemontesi, quali il Petitti, il Giulio, il Cavour. 11 Politecnico, sebbene trattasse argomenti di interesse particolarmente scientifico, seguiva ancli’esso gli sviluppi dello Stato vicino, specialmente per quel che riguardava la questione delle ferrovie. Per quel che riguarda il risveglio della vita economica negli Stati Sardi sotto Carlo Alberto, vedi Top. cit. di N. Rodolico, p. 285 e segg. (1) Cfr. Informazioni statistiche raccolte dalla li. Commissione Superiore per gli Stati di S. M. Sarda in terra ferma. Censimento delta popolazione, Torino, Stamperia reale, 1839. (2) G. Prato, Fatti e dottrine economiche ecc., p. 198. Cou R. Patenti 16 ottobre 1847 venne fondata a Torino una seconda banca. Nel ’4'9 le due banche si unirono, assumendo il nome di Banca Sarda e poi Nazionale. Vedi G. Fabbri, Stona della Banca nazionale, Teramo, 1893. 143 con In Danimarca (20 die. 1843), con la Lega Doganale Tedesca (23 gingilo 1845), col (Iran Ducato di Oldenburgo (21 Aprile 1846), col Regno di Hannover (11 Agosto 1845), e a quello già citato con gli Stati Uniti. Altri trattati toccavano soltanto le spese di porto e di ancoraggio, senza trattare affatto la soppressione delle tariffe differenziali o le questioni doganali. Ciò accadde per il trattato di navigazione concluso con l’Inghilterra nel 1841, quello con l’Olanda e con Modena (24 gemi. - 2 gemi. 1841), la convenzione con la Santa Sede (15 marzo 1843), e quella con le Città Anseatiche di Lubecca, Brema, Amburgo del 18 luglio 1844 (1). Ma se il Piemonte tendeva così a conservare alcuni suoi principii protezionistici, doveva subire naturalmente le stesse condizioni, specialmente da parte delle maggiori potenze, come accadde con l’Inghilterra, che escludeva dal trattato del 1841 le sue colonie, e con la Francia, che si pentiva di aver incluso l’Algeria in quello del 1843. È quindi evidente che questi trattati commerciali, per quanto utili a dirigere verso determinate correnti il traffico genovese, non potevano acquistare valore tinche l’Europa intera non fosse uscita dalla politica protezionistica per abbracciare il più completo liberismo. Ed è anche chiaro che in questo caso il commercio di commissione sarebbe crollato definitivamente, perchè, dato lo sviluppo della marina a vapore, ciascuno stato avrebbe preferito servirsi direttamente dai luoghi d’origine. Perciò il commercio genovese avrebbe dovuto orientarsi su nuove vie, abbandonando le sue tradizioni mercantilistiche (2). Ad ogni modo la politica commerciale del Piemonte, indipendentemente dalla situazione internazionale e dalle condizioni interne dell’industria, pareva volta dopo il 1840 a favorire Genova per quanto era possibile. Anche la politica doganale, in parte, vi concorse. Dopo il 1835 infatti notevoli modificazioni in favore della libertà commerciale erano state apportate alle tariffe doganali, coi Manifesti Camerali 12 die. 1840. 24 sett. 1842, 5 luglio 1845 e infine 13 febbraio 184G. E non solo veniva diminuita la tariffa su vari generi d’importazione, specialmente in seguito alla carestia iniziatasi nel 1845 e che assunse maggiori proporzioni negli anni seguenti (3), ma (1) Por tutti questi trattati cfr. Diritto mercatorio internazionale di Giuseppe Papa in C. M. N° 202-23 sett., N° 204- 26 sett. 1846 e M. Erede, Di alcuni dei più considerevoli vantaggi apportali al traffico genovese dal Governo della Reai Casa di Savoia, lettera a Predari iu Antologia Italiana, Torino, Anno I, voi. II, 1847 pp. 620-31. (2) Cfr. C. I. Petitti, Delle più probabili future condizioni del commercio ligure; tre lettere a Michele Erede, Genova 1847 p. 7. (3) A. Fossati, op. cit., p. 36 e segg. 144 anche veniva favorita l’esportazione, come quella della seta. Il commercio ne risentiva certamente benefici e fletti, poiché, nonostante la diminuzione delle tariffe, il provento delle Dogane salì costantemente dal 1835 al 1845 (1), dando così ragione ai sostenitori del libero scambio. 11 movimento del porto «li Genova si era accresciuto, e con esso il numero dei bastimenti mercantili sardi (2). Bisogna però mettere in evidenza, per comprendere il valore di quest’ultimo aumento, ch’esso era dovuto in gran parte a navi di piccolo cabottaggio, sotto le 30 tonnellate, che passarono da 819 a 2.535. Quelle di lungo corso aumentarono soltanto da 319 a 093, anzi dal ’37 in poi il numero restò stazionario. Ne possiamo dedurre che l’aumento del movimento commerciale non era dovuto tanto alla marina sarda, quanto al ritorno di navi straniere che, in virtù dei recenti trattati, approdavano più di frequente al nostro porto. Una statistica pubblicata negli Annali Universali nel 1845 (3) ci fornisce i seguenti dati circa il movimento nei porti di Marsiglia, Livorno, Genova e Trieste nel 1843. Marsiglia ebbe un movimento di 8.080 navi con un valore totale di operazioni commerciali ascendente a 280 milioni di fiorini. Livorno ebbe un movimento di G.165 navi, Genova di 4.591, Trieste di 3.287. liispetto al commercio col Levante poi Genova sarebbe stata addirittura all’ultimo posto. In realtà abbiamo ragione di dubitare del valore di queste cifre, perché, per quel che riguarda Livorno sono certamente comprese anche le navi da guerra (4), e le altre sono in gran parte di piccolo cabotaggio (5). In quanto al valore delle merci, Genova era inferiore soltanto (1) A. Possati, op. cit., p. 197. Vedi anche Relazione sulle condizioni delle Finanze dal 1830 al 1846 rassegnala a S. M. il Re di Sardegna dal Primo Segretario di Stato delle Finanze, riportata in A. U. S., 1848 XV1C p. 162 e segg. Nel 1846 invece gli introiti diminuirono (osservava la relazione) a causa della troppo forte diminuizione delle tariffe sui grani ed allo sviluppo di alcune industrie piemontesi (tessitura, e filatura di cotone) che allontanarono le importazioni. (2) Cfr. documento N° 4. Dal 1820 al 1843 la marina mercantile era passata da 1.587 unità a ben 3.609. Vedi pure Relazione della Commissione Marittima al-Vlll.mo Sig. Ministro di Agricoltura e Commercio, 7 febbraio 1850 in M. S. R. N. di Genova, Carte Ricci, N° 1572. Per quanto in essa i dati non corrispondano a quelli del documento N° 4, tuttavia risulta un proporzionato aumento fino al 1846. Una statistica esatta del commercio e del movimento del porto di Genova è assai difficile, data la diversità dei criteri con i qnali erano compilate quelle dei tempi di cui trattiamo. Si deve dare perciò alle cifre che riportiamo il valore di un indice, piuttosto che un valore assoluto. (3) A. U. S., LXXXVI, 1845, p. 224. (4) Cfr. A. U. S., voi. XVC, 1848, p. 229. (5) L’anno precedente, sopra un totale di 3928 navi entrate in Livorno, solo 837 erano di lungo corso, e di esse solo 62 toscane. Cfr. A. U. S., vol.LXXX, 1844, p. 33. 145 a Marsiglia (1). Possiamo dunque affermare che Genova era, intorno al 1846, il secondo porto del Mediterraneo, nonostante le pastoie doganali, la mancanza di ferrovie, la deficiente attrezzatura del Porto Franco e la disgraziata ubicazione del Lazzaretto e tanti altri ostacoli materiali e morali. In quanto all’industria (2), essa non accennava in Liguria a progredire molto, eccetto per qualche genere, come per le cartiere che erano in ripresa, i cappellifici, le tessiture di cotone e di lana> le fabbriche di tele di lino e di canapa, quelle delle paste alimentari e poche altre. Parecchie industrie erano invece in decadenza, o per non essersi attrezzate ancora secondo i nuovi ritrovati meccanici, come quella della seta, o per inadeguata lavorazione, come quella dei guanti. Anche i cantieri navali erano in piena decadenza. Il De Bartolomeis metteva il fatto in relazione con le tariffe differenziali che impedendo la vendita di legni nazionali all’estero, limitavano l’attività dei cantieri ai soli bisogni della marina sarda (3). Eppure, notava, la costruzione dei bastimenti, impiegando interamente materia prima nazionale, avrebbe potuto essere fonte di netto profitto per il Paese. Ma in generale i Genovesi preferivano dedicarsi al commercio piuttosto che all’industria, nè intravedevano ancora l’importanza che questa avrebbe un giorno acquistato per la città (4). Perciò le manifatture restarono presso a poco stazionarie nello spazio di un trentennio, mentre altrove si sviluppavano con ritmo accelerato. (1) Cfr. A. U. S., voi. LXXXVI, 1845, p. 224, cit. (2) Per tutte le notizie riguardanti l’industria genovese dal 1840 al 1846 oltre all’opera del De Bartolomeis e del Giulio ed al cit. articolo di C. Cattaneo sulla Rivinta Europea mi riferisco alle Notizie Statistiche sulle fabbriche esistenti nella provincia di Genova nel 1840 e alle Notizie statistiche relative alle fabbriche e manifatture in attività nel circondario di Genova nel 1845 in A. S. G., Gabinetto di Prefettura, 23/403. Cfr. inoltre le Informazioni statistiche raccolte dalla R. Commissione superiore per gli Stati di S. M. in terra ferma, Torino, 1843. (3) L. De Bartolomkis, op. cit., p. 988. Lo Spotorno tuttavia, prima del 1840, attribuiva una maggiore importanza ai cantieri di Varazze, Savona, Finale, Prà, Voi tri, Foce e C iliavari; questi cantieri costruivano anche navi destinate all’estero. Cfr. Casalis, op. cit., p. 304. (4) Una società di stabilimenti meccanici fu fondata nel 1846, con capitali anglo-belgi. La società, Taylor Prandi, fu rilevata nel 1852 da G. Ansaldo e C. che fondò i noti stabilimenti di S. Pier d'Arena. Cfr. G. Codignola, Rubattino, Bologna, 1938, p. 104, N° 1. r CAPITOLO QUINTO Interpretazioni genovesi delle dottrine liberistiche prevalenti in Europa intorno al 1846. Necessità urgente di risolvere la crisi commerciale e discussioni in proposito. — Il liberismo inteso come princìpio morale e nazionale. — Polemiche tra proiezionisti e liberisti attraverso la stampa genovese. — La risoluzione dei problemi sociali come base del!'elevamento morale e del progresso politico della nazione. — Problemi di cultura tecnico-professionale e risveglio del pensiero e dell1 attività nelle classi medie genovesi. — L’idea moderata federativa a Genova e a Torino: due diverse interpretazioni. Cobden e il liberismo inglese giudicati a. Genova. — Progressivo delincarsi dei partiti: radicali, conservatori, moderati. — L’ottavo Congresso degli Scienziati in Genova nel 1846. Sia pur faticosamente il commercio genovese era andato risvegliandosi dal 1835 in poi. Ma, se ciò accadeva per la forza stessa delle cose, per i trattati accennati, per l’aumento del consumo, per la crisi agricola, tutti motivi indipendenti dall’iniziativa genovese, assai più lento era il risveglio dello spirito d’intraprendenza e d’associazione tra la classe commerciante. Continuavano le lamentele per l’inerzia del mercato, ma ben pochi erano coloro che arrischiavano un tentativo, una speculazione un po’ ardita. Questo è il dato di fatto. Teoricamente si sentiva la necessità di adeguarsi ai tempi nuovi, si guardava (tori ansia- all’accelerarsi del progresso dell’industria e del commercio in molti paesi d’Europa e d’America, si temeva di restare indietro, si gridava alla necessità di afferrar l’occasione propizia ad un rinnovamento. Ma nello stesso tempo si era prudenti, diffidenti, restii alle novità. Quando, nel 1841, la marina a vapore inglese e americana era già sviluppatissima, a Genova si sentiva il bisogno di mettere in evidenza la quantità dei disastri subiti dai piroscafi di quelle 147 nazioni (1). Gli accenni alla crisi (lei commercio genovese sul Mercantile continuavano*, il tono delle osservazioni rivela un perdurare di mentalità mercantilistica. Però man mano che ci avviciniamo al 1840 le lamentele cedono il posto alle discussioni, ai progetti, ai programmi» Poiché non mancavano menti acute che sapessero studiare le cause della decadenza, e mostrare il modo di uscirne. Restii erano invece i più direttamente interessati, i commercianti stessi. Le osservazioni pessimistiche del Mercantile erano un po’ la loro voce ufficiale; gli articoli economici del Papa, di Nicolò Magioncalda, di Vincenzo Lo Monaco, e, fino a un certo punto, quelli deW Erede, erano invece la voce nuova, della parte più colta, più intelligente, che voleva scuotere l’inerzia e innalzare il livello culturale e morale della classe stessa cui apparteneva. Sarebbe inutile seguire i frequenti accenni del Corriere Mercati-ti le sulla inattività del Porto di Genova. È un continuo spiare ciò che succede nelle altre nazioni, negli altri porti; un constatare la trionfale concorrenza di quelli; un preoccuparsi per lo sviluppo dell’importazione di seta cinese in Inghilterra; uff accusare i commercianti genovesi di mancanza di confidenza. Amaramente si confrontano gli sviluppi della marina a vapore d’altri paesi con quelli della marina piemontese; si continua ad osservare che il commercio del grano è troppo aleatorio e che è impossibile far progressi finché non sia vinta la concorrenza di Marsiglia e d’altri porti. È tutto un’atteggiamento di critica, negativo. Indica il male ma non lo risolve, perchè la mentalità generalmente è ancora troppo aderente ai metodi tradizionali. Lo rivela un articolo caratteristico (2) il .cui senso è questo: la mietitura si annuncia ottima in Europa nel 1842; ciò torna a danno del commercio di Genova, perchè gli stati europei avranno poco bisogno di grano; per la prosperità di Genova è meglio un’annata mediocre. E, per concludere, l’articolista dice che una tal constatazione richiede « profonde meditazioni » da parte degli interessati. Egli vuole evidentemente alludere alla necessità di rendere il commercio granario regolare, ovvero di sostituirlo con un altro. Ed essendosi avverate le previsioni sul raccolto, nel dicembre si deplora a Genova che unico sfogo al commercio granario siano i bisogni locali delle Riviere (3). Ma, accanto a questo atteggiamento negativo, caratteristico del-l’ambiente mercantile genovese, sulle stesse pagine del Corriere e su (1) C. M. N° 14-17 febbraio 1841. (2) C. M. N° 52-20 luglio 1842. (3) C. M. N° 96-3 dicembre 1842. Us quelle dell*Espcro, fondato nel 18 IO, alcuni scrittori si preoccupano di trovare il modo di uscire da tal precaria situazione; c ne discutono i mezzi. 1 pareri oscillano fra due correnti principali: alcuni vorrebbero insistere nella politica protezionista, soprattutto in favore della marina; altri propugnano invece la tesi della libertà commerciale. Tutti però lamentano la mancanza di spirito d’associazione e di cultura fra le classi mercantili, ed insistono sulla necessità di agevolare le comunicazioni verso l’Europa centrale ed il Lombardo -Veneto. Lasciando per ora da parte il problema delle comunicazioni, cercheremo di seguire le discussioni sopra il liberismo inteso come principio economico, sociale, nazionale. La maggior parte delle voci che si levano nel periodo che va all’incirca dal 1840, quando Ja sinistra impressione dei fatti del ’33 si è ormai affievolita, lino al 1847, quando gli avvenimenti politici cominciano a sopraffare le preoccupazioni economiche, appartiene al gruppo dei moderati. Non tutti sono d’accordo sui mezzi per attivare il commercio e sulle riforme da chiedere al Governo. Ma quel che importa è che, in uh senso o nell’altro, si parli ormai liberamente di un progresso il cui valore non è solo economico, ma politico (1). Dal 1841 al 184G si può seguire l’evoluzione dell’opinione pubblica genovese attraverso i rapporti del Luciani, Direttore della Polizia di Genova, trasmessi al Ministero degli Interni per il tramite dell’intendente Generale Paolucci. Questo poi compilava di sua mano un rapporto riassuntivo (2). Nel 1841 egli diceva che l’opinione pubblica genovese migliorava di anno in anno, e che i Genovesi si occupavano più di commercio che di politica. Le altre osservazioni ch’egli faceva riguardavano le varie questioni, non ancora risolte, delle dogane, del Porto Franco, delle quarantene. È interessante l’accenno a propaganda di idee liberali in Toscana, fatta dai sudditi sardi, specialmente genovesi colà residenti. Evidentemente erano coloro clic da tempo vi si erano trasferiti in seguito a fallimenti, agli impedimenti (1) A. Colombo, La tradizione di Balilla in Genova nel 1846, in Goffredo Mameli e i suoi tempi, Venezia, 1927, ]). 150. (2) Questi rapporti sono stati pubblicati da A. Colombo nell’op. cit. Erano stati richiesti, per ogni semestre, dal Ministèro degl'interni ai Governatori delle Divisioni con circolare 20 novembre 1841. Vertevano sui seguenti cinque punti: 1) Stato dello spirito pubblico verso il Governo e tutto ciò che fosse accaduto di notevole durante il semestre. 2) Opinione pubblica rispetto ai fatti esteri. 3) Se l’opinione pubblica risultasse o no favorevole alle leggi vigenti, o promulgate. 4) Quali fossero le innovazioni o modificazioni generalmente richieste. 5) Condotta degli impiegati, dal lato pubblico e privato. 149 del Porto di Genova e a quel complesso di cause che avevano provocato, come aveva notato la Camera di Commercio, una notevole emigrazione a Livorno. Nonostante esistessero in Genova circoli repubblicani, mazziniani, che si radunavano presso parecchi notabili, e dei quali il Luciani faceva ampia descrizione, l’opinione generale nel 1842 andava accostandosi ancor di più al Governo (1). Nel ’43 i moti delle Romagne non suscitarono immediatamente molte ripercussioni sull’animo dei Genovesi, tuttavia il Luciani notava una ripresa di attività tra gli affiliati della Giovane Italia (2), e nel ’44 e nel ’4o l’importanza del lato politico nell’opinione pubblica genovese andava accentuandosi. Questa era regolata ancora dal partito liberale moderato, che imponeva prudenza, mentre prudenza chiedeva ai suoi affiliati lo stesso ^ Mazzini da Londra (3). Soprattutto l’attenzione era rivolta agli avvenimenti del resto d’Italia e dell’Europa. Ora, in questo stato di attesa, le idee di progresso che venivano pubblicamente manifestate, erano rivolte ad elevare ed a scuotere la mentalità del ceto medio interessandolo ai suoi stessi bisogni, indicandogli i mezzi con i quali Genova avrebbe potuto riacquistare l’antico splendore, mostrandogli quel che si faceva all’estero (4), mettendo in evidenza i progressi dell’economia politica considerata come scienza (5) e spesso concepita in funzione dei problemi sociali, lodando il giornalismo come indice della civiltà di un popolo (6), seguendo tutti i trattati commerciali e i progressi delle idee liberiste nel mondo. Chi dettava leggi, in fatto di economia politica, era l’Inghilterra, e sebbene in Piemonte tendenze al liberismo si fossero manifestate in (1) A. Colombo, op. cit., pp. 163-7. (2) Rapporto del Luciani, 1843 iu op. cit., p. 171. (3) Rapporto 1844, pp. 173 sgg., e 1845 pp. 249 sgg. (4) Continui son gli accenni a questo riguardo sul Mercantile, sulYEsperò e sulla Gazzetta di Genova. Citerò fra i più importanti: Mercato delle sete in Londra in C. M. N° 88 del 4 uov. 1840. — Aumento della Navigazione a vapore in Inghilterra in C. M. N° 14 del 17 febbraio 1841. — Sete Orientali ed Italiane in Londra in C. M. N° 21 dal 13 marzo 1841. — Altitudine commerciale dell'Inghilterra in C. M. N° 23 del 20 marzo 1841. — Rapporti commerciali dell’Inghilterra fuori del Continente d’Europa in C. M. N° 23 del 23 marzo 1842. — Degli antichi navigatori del Mar Adriatico e della Marina Mercantile d’oggid), già cit. — Considerazioni sul Commercio della Francia nel 1841 in C. M. N° 2-7 gennaio 1843. — Produzione della seta nel Regno Lombardo-Veneto in C. M. N° 91-16 novembre 1842. — Commercio estero inglese dal 1830 al 1840 in C. M. N° 91-1 <3 novembre 1842. (5) //Economia Industriale nel 1840 in C. M. N° 11 del 6 febbraio 1849. — Potenza dell’industria in C. M. N° 16 del 27 ottobre 1841. (6) Studi morali. Quadro della civiltà d’America di Cesare Malpica in C. M, N° 66 del 18 agosto 1841, 150 seno allo stesso Governo prima che in Inghilterra, tuttavia sarà questa nazione la prima ad iniziare praticamente il capovolgimento della politica economica europea. Negli anni in cui l’Inghilterra si mantenne protezionista, non mancarono in Genova le critiche, le quali certamente erano rivolte anche allo stesso Piemonte ancora incerto sulla via da seguire (1). Un’altra nazione che si seguiva da vicino per l’aspetto particolare della sua politica economica era la Germania, della quale si rilevava la progressiva industrializzazione, e l’espansione commerciale in Europa e in America (2); alla Francia e all’Austria si guardava soprattutto per la concorrenza che esercitavano ai danni di Genova (3). Abbiamo detto che non mancavano a Genova i sostenitori del protezionismo, per quanto generalmente l’opinione pubblica fosse orientata diversamente. I protezionisti erano coloro che, guardando all’interesse della marina e dell’industria, incapaci di vedute ampie e complessive del benessere nazionale, credevano che questo si risolvesse nel puro gioco del bilancio commerciale. Fra i protezionisti è stato messo il Cevasco (4), ma in realtà egli, sostenuto (la acuta capacità di critica e indagine storica, teneva il giusto mezzo, rilevando i casi in cui uno smoderato allargamento dei vincoli avrebbe (1) Gli attacchi alla politica doganale piemontese non erano mai fatti direttamente. Si preferiva esporre, senza commento, nna riforma liberale decretata in uno stato estero, o citare un articolo di qnalche giornale straniero che esponesse opinioni suscettibili di essere adattate a quelle di Genova. Ad es. nel N° 21 del C. M. del 13 marzo 1841 è pubblicato tm articolo tolto dalla Revue des deiix mondes, sulla legge doganale francese, in cui è detto che gli interessi privati degli industriali esigono il protezionismo, ma l’interesse generale vuole il libero scambio. E intanto « all’operaio che non può mangiare della carne» si risponde con «il termine altisonante: l’interesse dell’agricoltura». È evidente l;allusione al protezionismo agrario del Piemonte. (2) C. M. N° 246 del 29 ottobre 1844, e cenni frequenti di minore importanza. (3) C. M. N° 286 del 27 die. e N° 288 dei 30 die. 1845: Commercio della Francia nel 1844; Commercio dell’Austria coll’estero nel 1844, nel N° 12 del 16 gennaio 1845, cit; Prospetto comparativo dei principali risultati del commercio coll’estero durante Vanno 1842 della Francia, Austria ecc. nel N° 24 del 1845. (4) Nel suo volume Fatti e dottrine economiche, ecc,, cit. p. 284 il PRATO dice che a Genova, contro le teorie liberiate, interprete del più gretto punto di vista, timoroso della costituzione in Genova di un emporio tedesco-svizzero, era M. Ceva* sco, che invocava dazi protettori proibitivi per le decadenti manifatture liguri. Egli cita la Statistiqne de la ville de Génes, voi. 1, pp. 288 sgg. Ma nel voi. II, p. 71 il Ce* vasco lamenta l'esodo dei commercianti inglesi, svizzeri, tedeschi, lombardi, come segno di decadenza del commercio di Genova, 151 rovinato l’industria e pregiudicato lo stesso commercio, ma d’altra parte insistendo sulla necessità di un temperato liberismo (1). Un vero protezionista fu inizialmente VErede il quale, con il continuo oscillare delle sue idee, la mancanza di ciliare vedute, la conversione al liberismo non intimamente sentita, appare come l’esponente tipico della persistente mentalità mercantilistica genovese. Il 5 dicembre del 1840 uscì il primo numero dell 'Esperò. V Erede aveva allora promesso di inserire di tratto in tratto articoli riguardanti le cause della decadenza del commercio di Genova. Ma la questione, per i suoi aspetti politici, era così scabrosa, che dopo un anno nessun articolo era comparso. Allora VErede fu invitato con una lettera aperta sul Corriere Mercantile a mantenere la promessa (2). Chi scriveva questa lettera era uno strenuo sostenitore delle tariffe differenziali, tanto da affermare che la marina sarda si era smisuratamente accresciuta confidando che1 gli stessi privilegi che erano accordati sul commercio dei grani sarebbero stati un giorno estesi.anche ad altri rami del commercio. Cioè, i prudentissimi genovesi avrebbero varato cen- (1) Così mentre il Cevasco critica (op. cit., voi. I, p. 284) l'abolizione delle corporazioni che ha lasciato illimitata libertà agli speculatori, e loda in linea generale le tariffe differenziali sui grani atte 8 favorire la marina nazionale, d'altra parte insiste sulla necessità di diminuire le tariffe doganali sull’importazione granaria e vinicola, di stringere accordi colla Francia sulle basi di un temperato liberismo, di togliere tutte le formalità doganali e diminuire le spese di porto, e osserva che gli unici articoli che godono di una certa libertà (i coloniali) sono quelli che si reggono, mentre ciucili protetti vanno in rovina. Egli osservava del resto che, nelle attuali circostanze, le tariffe differenziali sono praticamente dannose. Esse potranno essere utilmente imposte quel giorno in coi, unita Genova alla Svizzera e alla Germania con una ferrovia, il commercio si imporrà necessariamente. Osservando più gli opposti interessi degli industriali e dei commercianti, auspica alla formazione di una commissione apposita di tecnici e commercianti di Genova, Nizza e Torino per discutere il problema della loro conciliazione. lutine propugna la necessità d’istituire dei dock* sull’esempio di Londra e dei Magazzini generali, sull’esempio dell’0]an da una maggior tolleranza governativa (1), la letteratura, le discussioni fatte in proposito dell’una e dell’altra, da quelli stessi uomini che sugli stessi giornali discutevano fatti e dottrine economiche, le feste popolari, i circoli letterari, tutto concorreva a mantenere in Genova, intorno al 1846, uno stato d’animo attento e pronto a volgersi all’azione non appena la circostanza si fosse presentata e l’agitazione sorda della penisola intera fosse salita alla superficie. E poiché la corrente degli ideali politici europei era liberale e costituzionale, il bisogno di una costituzione, già sentito ed espresso dai Genovesi fin dal 1814 si faceva più urgente; ma uscendo dalla ristretta cerchia degli interessi regionali per incontrarsi con le aspirazioni di tutte le parti d’Italia, tendeva alla formazione di una legislazione unica, la cui attuazione pratica poteva essere una lega doganale senza l’Austria, che doveva essere cacciata dal Lombardo-Veneto. Così, mentre altrove si discuteva ancora se l’Austria potesse o no partecipare ad una lega doganale italiana, Genova, per le sue tradizioni di indipendenza e per la comprensione immediata dei suoi bisogni escludeva categoricamente questa possibilità (2). L’opinione poi della classe commerciante, già da tempo orientata verso forpie liberisti che, rafforzata ora dall’esempio delle pratiche realizzazioni inglesi ed avviata all’idea unitaria dall’esempio dello Zollverein, prevale ormai in Genova contro i timori dei protezionisti che passano per retrogradi; alla richiesta di trattati commerciali bilaterali si sovrappone la speranza di un cambiamento generale della politica commerciale europea. Ma tale cambiamento, determinante un regime di libero scambio presso tutte le più grandi nazioni già estremamente protezioniste, insieme con la situazione nuova di un’Italia unita in lega doganale o in confederazione politica, faranno sorgere (1) Sebbene nflìcifilniente il rigore della censnra non sia stato attennato che dopo le riforme del ’47 (cfr. A. Neri, Vicende del Giornalismo in Genova nel Decennio innanzi al 1848, in II Risorgimento Italiano, voi. II, 1909, p. 416. - A. Colombo, I due giornali torinesi, il Risorgimento e la Concordia negli albori della libertà, in II Risorgimento Italiano, anno III, fase. I - li, p. 28. - Manno, Aneddoti documentati sulla censura in Piemonte cit.) tuttavia praticamente ima certa tolleranza era in atto, come dimostrano alcnni articoli nei quali gli accenni e gli spunti di italianità non erano sottintesi ma apertamente espressi. (2) È notevole il fatto che nel 1841 l’Austria aveva tentato di costituire mia lega doganale italiana, fallita per il pronto intervento del Piemonte. Cfr. A. Sandonà, Il Regno Lombardo-Veneto, citato da R. ClESCA, op. cit., p. 396. 104 nuovi problemi, nuovi ostacoli da superare. Il problema delle comunicazioni e della libera concorrenza si fanno urgenti. Occorre che si risvegli l'antico spirito di intraprendenza che ha condotto le navi genovesi nei più lontani empori e che ha creato interessi genovesi in tutte le parti del mondo. E mentre il liberismo, accettato e lodato nel suo duplice aspetto politico ed economico, impone questioni di carattere internazionale, i Genovesi non possono dimenticare i loro interessi particolari; ma comprendono che occorre trattarli con intelligenza, con metodi nuovi, adeguati ai tempi e alla cambiata politica. Non solo, ma lo spirito di conciliazione che anima i migliori uomini del Piemonte e della Liguria impone che i nuovi interessi genovesi siano risolti non contro Torino, ma con Torino; e quindi la libertà economica, le questioni delle ferrovie, della navigazione, dell’agricoltura, dell’industria*, non devono correre il rischio di sopraffarsi a vicenda. Già l’ostacolo principale è noto: esso è costituito dall’Austria che si oppone ad ogni tendenza unitaria italiana, anche nel campo stretta-mente economico, e che vuole asservire ai suoi gli interessi della penisola. Perciò gli animi dei Liguri e dei Piemontesi sono portati verso una maggior fratellanza, determinata da un comune sentimento di avversione contro lo straniero. (1) Questo sentimento di fratellanza tuttavia, perchè deriva piuttosto da un atteggiamento negativo che da intima simpatia e comunanza di interessi, non e del Jjutto sincero: vivo quando la questione dell’indipendenza spegne ogni ragione di dissidio, vien meno non appena il municipalismo riprende, per il fallimento di un maggior ideale, la sua primitiva importanza. Allora le questioni economiche sono di nuovo agitate in Genova, come indice di malcontento contro la politica piemontese, e le agitazioni popolari scandiscono a chiare note uno stato d’animo di costante opposizione, destinato ad esplodere dopo Novara. Ma nel periodo in cui il partito moderato tiene a Genova ancora posizione di predominio, tutta l’attività degli uomini d’azione è rivolta a cooperare con Torino nel richiedere al Governo riforme atte a garantire maggiore libertà nei traffici e ad accostare materialmente e moralmente tra loro le regioni d’Italia; ed insieme ad ottenere una temperata libertà di stampa ed una legislazione civile atta a favorire l’innal- (1) Il Mittermaier, in un articolo ispirato dal Petitti, apparso snlla Gozzetta d’Augusta N° 102-107 marzo 1846 e ripubblicato in Raccolta di Atti nfliciali, pp. 11-51, col titolo: Odierna condizione politica d’Italia, osserva una distensione di rapporti fra Genova e Torino intorno al 1846 ed una corrispondente decadenza del Mazzinia-nesimo. Cfr. A. Codignola, Dagli albori della libertà, ecc., p. 84. 165 zamento del livello morale ed intellettuale delle classi inferiori, sì (la renderle degne di quel regime costituzionale che dovrà rappresentare la, principale conquista della rinnovata coscienza civile e politica della nuova Italia. * # # Le tendenze liberistiche predominanti a Genova e manifestate tino al 1845 soprattutto attraverso l’opera della Camera di Commercio ed i prudenti accenni del Corriere Mercantile, si fecero evidenti quando, sia pur limitatamente, fu accordata la possibilità di discuterle. Ciò accadde nelle adunanze delle tre Società Scientifiche fondate sul principio del 1845, sebbene la loro breve vita e l’atteggiamento del Governatore ne abbiano limitata l’azione. Nel Settembre del ’46 poi l’ottavo Congresso degli Scienziati diede modo non solo di sostenerli* apertamente, ma anche di improntarle a quello spirito di italianità che ne era il principale fondamento. In tutta Italia il liberismo aveva ormai assunto due aspetti distinti ma che a vicenda si integravano: l’aspetto economico e quello politico. Da una parte toccava così gli interessi delle classi commercianti, degli operai e dei marittimi, dall’altra li risolveva in senso nazionale e unitario. Inoltre all’ottimismo nobilmente ingenuo dei nostri patriotti che nella lotta per l’indipendenza e l’unità d’Italia vedevano un’affermazione di giustizia internazionale corrispondente al progresso morale dell’umanità, non mancava la previsione di una futura fratellanza di tutte le nazioni. Così ad esempio pensava Giuseppe Papa che nel 1844 scriveva (1) che neirimmediato futuro le nazioni si sarebbero giovate a vicenda e cbe avrebbero formato una specie di società avente come centro l’Europa, che avrebbe abbracciato nell’orbita dei suoi interessi l’Occidente e l’Oriente, avvicinati attraverso le agevolate vie di comunicazione. Più particolarmente, il liberismo in Italia conduceva alla richiesta di una lega doganale fra i vari stati (2), lega che avrebbe dovuto anche contribuire allo sviluppo del commercio italiano in Oriente (3). Ma alla costituzione di una lega doganale si opponeva (1) C. M., N° 210 - 17 sett. 1844: Introduzione all’articolo Delle Colonie e degli Empori europei nell1 Oceania c nel Mondo Marittimo, successivamente pubblicato nei N/i 212 - 217 - 230 - 231 - 236 - 247 - 254. Gli stessi concetti sono espressi dal Petitti, Delle strade ferrale italiane e del miglior ordinamento di esse, Capolago, 1845 p. 106. (2) R. Ciasca, L’origine del programma ecc., p, 455. sgg, (3) Mittkumaikh, op. cit., p. 51. 166 la presenza dell’Austria nel Lombardo-Veneto; essa, mentre escludeva ogni possibilità di adesione agli interessi della penisola, rendeva inutile l’unione degli altri suoi stati, tenuti lontani dall’Europa centrale da un intransigente protezionismo. Chi vedeva un tale ostacolo e lo giudicava per il momento insormontabile, era naturalmente contrario alla formazione di una lega doganale preludente ad una confederazione, (1) e si limitava a sostenere una politica largamente italiana, favorita da opportune riforme legislative, daziarie, monetarie, ispirate nei vari stati a criteri comuni. (2) Altri, come il Balbo, il Gioberti, il Durando, il Cavour, anteponendo l’idea politica alle considerazioni d’ordine economico, sostenevano la tesi della confederazione con esclusione dell’Austria. Questa tesi, che era soprattutto e tradizionalmente piemontese, poteva suscitare il timore di un predominio del Piemonte nella confederazione italiana, come implicitamente notava, pur sostenendola, il Mittermaier. (3) Non però a Genova, dove all’opposto si sperava per tal via di uscire dallo stato di sottomissione al Piemonte (4) e di favorire il commercio mediante l’abbassamento delle dogane. E qui mi par sia da mettere in evidenza il carattere diverso che aveva assunto in Genova l’idea federativa su basi liberistiche di fronte a quello che aveva in Torino. A Torino prevaleva l’interesse politico che, fortemente sostenuto da alcuni patriota, guadagnava molto lentamente l’animo della maggior parte della nobiltà terriera, conservatrice e legata ad un sistema di agricoltura patriarcale, e non interessava affatto la popolazione rurale piemontese per tradizione avvezza, come notava il Eicci, ad un sentimento di sudditanza illimitato (5). A Genova, se, come motivo iniziale, meno si comprendeva il lato politico della questione, tuttavia la forza degli interessi economici facenti leva sopra una larga messa di commercianti, capitalisti e lavoratori, spingeva l’opinione pubblica ad abbracciare (1) Articolo (lei Petitti in Giornale Agrario 'Toscano; N * 61 - 63, 1841. (2) Petitti, DelU strade ferrate ecc. p. 33. Cfr. pure Scia loia, Les pniwipes-des Veconomie sociale exposés selon Vordre logique des idées, Paris 1844, e più particolarmente Petitti, Delle associazioni doganali tra vari Stati italiani, memoria scritta nel maggio 1841 e letta dal Segretario degli Atti nella seduta del 5 dicembre 1841, Firenze 1842, estratto dagli Atti dei Georgofili Voi. XX, 1842 pp. 131 e sgg., citato da Ciasca, op. cit. p. 460. Per le discussioni promesse in tutta Italia circa la lega doganale e per la relativa bibliografia vedi Ciasca op. cit., p. 21, 154 e sgg. 214 sgg. - 310 sgg. - 412 sgg. e G. Prato, Fatti e dottrine economiche ecc., p. 251 sgg* (3) Op. cit., p. 58. (4) Cfr. V. Ricci, Appunti politici in M. Si R. N., Cartella N° 2780. (5) V. Ricci, Appunti politici, cit. Cfr. pure D. Zanichelli, Cavour, Firenze 1905, j>. 47. 167 naturalmente le teorie liberistiche, che, immesse nel generale moto del Risorgimento italiano, acquistavano quello stesso significato politico, da pochi, sebben più chiaramente, compreso in Piemonte. Cioè, il lato politico della questione era a Torino un punto di partenza, a Genova il naturale punto d’arrivo (l’un concatenarsi d’interessi individuali e collettivi. Non solo, ma la forza stessa delle tradizioni sabaude faceva sì che nelle discussioni delle questioni italiane si manifestasse spesso a Torino l’idea di un predominio piemontese. A Genova invece la soluzione, federativa o unitaria, del problema italiano," si presentava sempre come una liberazione da quel predominio. Ne derivava un notevole contrasto fra l’idea conservatrice e aristocratica piemontese, e quella progressista e democratica di Genova. Non intendo con questo definire due atteggiamenti opposti ben deliminati ed assoluti, ma soltanto indicare due toni diversi che, di fronte al problema italiano, mi par si possano notare negli scrittori liguri e piemontesi e nelle stesse manifestazioni popolari; e questo contrasto rappresenta uno degli aspetti del dissidio spirituale tra le due città. Nella critica mossa dal Papa (1) all’antica « trascendente (sic!) aristocrazia veneta » e alla « gran casta britannica » che si erano mantenute tenacemente aderenti al regime protezionista « bestiaccia nera che per voler troppa vita uccide sè stessa », si può vedere un colpo indirettamente portato contro l’aristocrazia conservatrice piemontese. Vero è che questa nel 1844, quando il Papa scriveva, andava perdendo terreno anche in Piemonte, o perchè modificasse il suo atteggiamento sotto la spinta di nuove forze politiche e sociali, o perchè fosse sopraffatta dalla crescente ascesa della borghesia (2). Nel 1844 l’opinione pubblica di fronte alle dottrine economiche era a Genova divisa in due correnti. « Molti opinano, » scriveva il Papa, « e sono i più, di estendere la libera concorrenza o libertà di commercio ad ogni ramo di industria; altri poi (sono il minor numero) vorrebbero che leggi restrittive ne limitassero l’esercizio a pochi, ovvero mentre concentrano certe favorevoli operazioni in meno individui che sia possibile, non vogliono che apparisca da ciò un’intenzionè, o tentativo diretto di monopolio. » In eauda venenum! I protezionisti genovesi rappresentavano ormai talmente una minoranza, che dovevano camuffarsi da liberisti. Fra costoro dobbiamo mettere VErede. (1) Del commercio di Genova, cit. (2) A proposito del processo (li democratizzazione delFAssociazione Agraria Subalpina, fondata nel *42 cou carattere conservatore ed aristocratico v, G. Prato, Falli e dottrine economiche, ecc, pp., 154 - 61, 168 Forse egli si era convertito sinceramente, ma sentiva così poco lo spirito della dottrina liberista da smarrire il senso della realtà ed esaltare così un liberismo teorico, astratto e irraggiungibile che gli faceva accusare il Cobden stesso di incoerenza e falsità. E nota l’influenza che esercitò sull’Europa intera il pensiero dell’insigne economista inglese (1), le cui teorie furono coronate in Inghilterra nel 1846 dalla votazione del Coni-Bill, primo passo verso un'epoca di maggior libertà commerciale fra le nazioni. A Genova il Cobden era idolatrato (2), e grandi accoglienze ebbe quando vi si recò nel gennaio del 1847. La riforma inglese era stata generalmente accolta con entusiasmo in Italia, e molti inneggiavano alla magnanimità britannica. Tra gli altri il Cavour che, nel citato articolo comparso sugli Annali Universali di Statistica nel 1845 e in un altro pubblicato nell’A«fo/o^/fl Italiana del marzo 1847 (3) metteva in evidenza l’importanza di quella nuova politica che egli considerava ispirata ad un criterio di giustizia internazionale e ad un’evoluzione del pensiero europeo (4). (1) Cfr. F. Bastiat, Cobden et la tigne, cit. (2) Torna opportuno ripetere che nell’epoca (li cui trattiamo le questioni economiche si intrecciavano così vivamente con <|nelle politiche e sociali da giustificare tanto entusiasmo. Ricorderò che a Londra in occasione della riforma del ’46 si fecero grandi feste ed illuminazione (A. U. S., voi. LXXXIX, 1846, p. 86), come a Livorno nel 1834 in un’occasione simile, già ricordata. Per le accoglienze del Cobden a Genova, v. Petitti, Lettera a F. Lampato, redattore degli Annali Uinvernali di Statistica, (A. U. S., voi. XIC, 1847, p. 102). econom , v--- - ---, • ìuh, JJ. XVU). (3) Dell’influenza che la nuova politica commerciale inglese deve esercitare sul mondo nico e sull’Italia in particolare, in Antologia Italiana, 1847, voi. II, p. 257, riportato in Scritti, Zanichelli, voi. II, o p. 469. sgg. (4) Credo opportuno riferire un brano del primo articolo, perchè tratta di una questione discussa e fa meglio intendere il valore delle osservazioni de\V Erede'. « Per un certo tempo forse alcuni scrittori di cattivo umore cercheranno di indebolire l’autorità delle riforme inglesi, sostenendo che la nazione che le opera dopo aver precedentemente aderito al sistema protettore, durante il tempo necessario per acclimatare e sviluppare la sua industria, cerca ora di diffondere da per tutto le massime della libertà commerciale, per impedire agli altri popoli di arricchirsi come lei. Questo ragionamento mancante affatto di verità, non potrebbe avere che una influenza effimera. La più piccola attenzione basta per farne conoscere l’assurdità. Infatti esso supporrebbe che la nazione inglese formasse un solo corpo, che fosse animata da un solo spirito, che facesse continuamente una commedia fondata sopra dotti calcoli colla vista di un’avvenire lontano. Esso supporrebbe anche delle classi diverse, dei produttori e dei consumatori, senza legami di solidarietà che li unissero, sottomettentisi a lunghe privazioni, imponeutisi pesanti sacrifici per il piti gran bene del paese e soprattutto per il più gran male delle nazioni straniere. Perchè l’ipotesi che noi combattiamo avesse qualche cosa di plausibile bisognerebbe ammettere che tutte le lotte che hanno avuto luogo in Inghilterra da trent’anni sulle questioni economiche, che gli sforzi 169 Non mancavano tuttavia coloro che criticavano l’importanza e la sincerità delle riforme inglesi, come rivela lo stesso Cavour nel brano riportato in nota. Essi attribuivano la nuova politica inglese alla necessità di trovare facile smercio alla sovraproduzione industriale favorita da un trentennio di rigoroso protezionismo. In realtà, se un’evoluzione di pensiero vi fu, soprattutto in quanto la scienza economica aveva di recente formulato le sue leggi che andavano imponendosi per la loro intrinseca evidenza, è innegabile che le teorie liberiste trionfarono in Inghilterra quando la potenza delle sue industrie creò le condizioni migliori per conciliarle col benessere nazionale. (1) Ma tra questa constatazione e la svalutazione dell’importanza europea dell’opera del Cobden, tentata sull’eco dei giornali da Michele Erede, corre molta differenza. Gli interessi dell’Inghilterra nel 1846 si trovavano a coincidere con gli sviluppi di un liberismo economico che, per i suoi effetti materiali e morali, doveva avere vaste ripercussioni e segnare il primo passo verso un’esperienza di cooperazione economica internazionale. Ma era naturale che il passaggio dal protezionismo al liberismo avvenisse per tappe successive. Questo, nel suo fervore di neofita, non intendeva VErede. Scriveva egli infatti (2): « Se per free trade si deve intendere libero traffico, io credo che viviate in una curiosa illusione. Diftatti, libero traffico, che nel senso più lato suonerebbe nel nostro caso importazione ed esportazione dei cereali senza dazio, vale almeno importazione per ogni bandiera e da qualunque punto del globo direttamente od indirettamente de’ grani nella Gran Bretagna. Ma questo non è appunto lo stato di cose che voi continui ilei partigiani della libertà commerciale, la resitenza accanita degli interessi privilegiati non sarebbero stati che una finta abile e ben compiuta per ingannare le teste deboli e gli utopisti creduli, sparsi sul continente. Tutto questo è troppo assurdo, anche per gli abbondanti e certi giornali di Parigi che tirano partito da un vecchio e cieco istituto autibritanuico ». (1) Lo stesso ministro Peel, nel suo discorso in Parlamento del 27 gennaio 1846, diceva: « Dopo tutti i nostri sforzi per indurre i paesi stranieri a seguitarci nella via della libertà di commercio noi prendiamo l’iniziativa; noi consultiamo i nostri propri interessi e la prosperità e il benessere del popolo che in noi confida senza cercare di sapere se gli stranieri ci ricambieranno di reciprocanza », e più oltre aggiungeva: « i nostri fabbricatori hanno sfidato i fabbricatori stranieri, e le nostre esportazioni si sono accresciute. Nonostante i loro diritti protettori voi li avete battuti sul loro proprio campo ». Cfr. A. U. S. voi. LXXXVII, 1846, pp. 200 e sgg. Dunque necessità di ordine interno e sicurezza che ormai la politica liberista doveva riuscire giovevole all’industria, avevano prodotto quella conversione del Peel e della maggior parte deiropinione pubblica inglese, che si voleva far passare per un gesto di magnanimità. (2) Eco dei giornali, N° 44 - 31 ottobre 1846, Lettera al Sig. Riccardo Cobden. 170 con una perseveranza clic onora il vostro carattere e con un talento poco comune, avete tanto contribuito a stabilire, per la semplicissima ragione che i bastimenti sardi, a cagion d’esempio, non ve ne possono importare direttamente, da un luogo d’origine che non sia dominio della Sardegna, ma bisogna che entrino in uno dei suoi porti e si sottomettano a certe formalità che facciano risultare come se avessero caricato in quello. Locchè di quanto danno riesca loro a confronto della bandiera vostra nessuno è che noi veda. Cosicché a loro non converrà mai di portarvene se non che quando i vostri legni non basteranno al bisogno, od i prezzi vostri saranno così alti in paragone dei luoghi d’origine che rendano quelle spese tollerabili. Cioè quando una qualunque legge vi riescirà lieve, perchè per voi sarà questione di vita. Ciò ritenuto, panni ragionato conchiudere che invece dell’aver combattuto in favore del free t.rader, ciò che costituirebbe uno scopo magnifico, vi troviate ad aver vinta una lite che verteva tra i vostri manifattori ed i proprietarii de’ terreni vostri e che per potervi appellare un ardente free trader vi resta a vincere la lite fra’ vostri naviganti e gli altri del mondo in favore di questi ultimi ». L’Erede sostiene che gli Stati Sardi sono da tempo assai più freetrader che non l’Inghilterra dopo il 1840: « Sì, signore, e a nostra illuminata e zelante amministrazione senza tanto rumore ci ha condotti in questa bisogna più innanzi che non avete fatto voi colla leva immensa di uivinnumera stampa periodica, moltissimo talento e molto denaro. Proviamo: la vostra bandiera nella Gran Bretagna è privilegiata in tutto e su tutto, o per un verso o per l’altro; la nostra qui lo è per due o tre articoli e non su tutti gli altri. Alcune delle vostre colonie sono per alcune delle estere bandiere come se non esistessero, l’india lia dazi differenziali su pressoché tutti i generi e di natura diversa; dunque chi tra noi e voi può dirsi più vicino al vero significato letterale del free trader? » E, invitando il Cobden a Genova, l’Erede gli assicura che vi troverà « uomini ben disposti a tentare di estendere le sue dottrine, ma tali e quali suonano dal suo labbro, non secondo l’applicazione che finora se ne è fatta dai suoi, certo molto a suo malgrado ». Il tono di questa lettera, ironico e poco rispettoso per il Cobden da parte de\Y Erede che si professava libero scambista, fu biasimato da Giovanni Papa (1), il quale notava che non era colpa del Cobden (1) Eco dei G. N° 47-21 novembre 184G, Lettera al Signor Michele Erede, Giovanni Papa era iiglio del fondatore del Mercantile, \ 171 se non si era fatto che un primo passo, ma che era importante si fosse fatto. Ricordava inoltre il precedente protezionismo dell 'Erede e gli rinfacciava una serie di articoli scritti sopra la Rivista Ligure nel 1844 e un opuscolo del 1845 in cui egli, per confutare un suo concittadino free trader « sosteneva la utilità del diritto differenziale sui grani, e combatteva la strada di ferro per la Lombardia come esiziale ai carrettieri e mulattieri della Polcevera e di Val di Scrivia, giudicando ancora più nocivo che utile, e di dubbioso successo l’istituzione della Banca di Sconto ». Queste pubbliche rivelazioni colpirono nel vivo il nostro economista. Seguì un’irosa polemica tra i due, finché VErede giurò di non occuparsi mai più di economia e di lasciare la cattedra dell’istituto da lui fondato a chi lo volesse, magari a Didaco Pellegrini (1). Ma, a parte la polemica, l’atteggiamento de\VErede, che certo aveva dietro di se non pochi consensi, rivela una mentalità poco limpida, molto gretta, e soprattutto molto municipalista. Il valore morale e politico del liberismo non era da lui nemmeno supposto. E sì ch’egli era amico del Petitti; il quale, come abbiamo visto, era animato da ben altri sentimenti. Tuttavia, per il caso particolare delle ripercussioni della nuova politica inglese sul commercio di Genova, neppure il Petitti, era molto ottimista. Egli osservava (2); « Ora, dato che il Corri-Bill si trasformi in legge, quale ne sarà il risultato? Che gli speculatori inglesi intraprenderanno su larga scala il commercio dei grani, con navi proprie, soppiantando quello fatto con navi straniere, con evidente danno della nostra marina mercantile. Bisognerà quindi che il commercio genovese si decida ad estendere ed ampliare la sua attività, rivolgendola ad altri generi ». E, come « utili succedanei » del commercio dei grani, il Petitti indicava quello con l’America Meridionale, col Levante e con la Germania. Così Genova sarebbe diventata il porto della Confederazione germanica. Più ottimista era invece il Cavour circa l’intluenza benefica e diretta che le riforme inglesi avrebbero esercitato sul commercio di Genova (3). Oltre alla possibilità di smerciare in Inghilterra molti prodotti piemontesi, non solo agricoli ma anche industriali, egli, contrariamente al Petitti, prevedeva un’accrescimento del commercio granario genovese, che avrebbe avuto finalmente uno sbocco regolare, (1) Eco dei G. N° 48 - 28 novembre 1846. (2) Delle più probabili future condizioni del Commercio ligure, cit., p. 7. (3) Dell’influenza della nuova politica commerciale inglese, cit. 172 in quanto i porti della Gran Bretagna, divenendo immensi depositi di cereali per tutta l’Europa, avrebbero dovuto fare tante provvigioni che le navi nazionali non sarebbero bastate. « Ma onde questo commercio potesse ricevere un nuovo impulso, e fors’anche solo mantenersi nel suo stato attuale, sarebbe stato necessario che l’Inghilterra applicasse ai diritti di navigazione i principii che allora reggevano la sua tariffa daziaria ». Evidentemente questa è la stessa osservazione dall’ Erede fatta nella lettera a Biccardo Cobden, ma qui espressa con maggior grazia. Il Cavour osservava che era necessario che l’Inghilterra riformasse quei privilegi esclusivi dei quali ancora godeva la marineria nazionale, mentre tutte le altre classi industriali avevano a lottare colla concorrenza straniera. Infatti l'Atto di Navigazione, sebbene attenuato dopo il 182S (1), colpiva ancora il commercio indiretto degli Stati esteri. Ma era proprio questo commercio indiretto quello che interessava l’Italia, ed il Cavour sperava che gli ostacoli che lo impedivano sarebbero stati presto rimossi. Genova e Livorno, osservava, dopo la libera introduzione dei grani in Inghilterra e la futura abolizione degli ostacoli sul commercio indiretto, erano destinate a diventare in certo modo succursali dei depositi liberi (docks) di Londra e di Liverpool. Le opinioni de\V Erede non rispecchiavano che una parte dell’atteggiamento genovese di fronte al liberismo e alle varie questioni che da esso derivavano. Intorno al 1846 il valore morale, sociale e nazionale del liberismo si imponeva ormai alla pubblica opinione, sulla quale agiva non più soltanto la considerazione dei vantaggi materiali che tale dottrina avrebbe aperto al commercio, ma anche di quelli che avrebbe apportato al povero, al lavoratore (2). Il valore sociale delle teorie liberistiche era stato messo in evidenza a Genova già da parecchio tempo, come abbiamo visto, sia dalla Camera di Commercio che dal Corriere Mercantile. Ora i patriotti genovesi ne comprendevano anche il valore politico: essi erano o democratici che si staccavano sempre più dal partito moderato tendendo all’azione immediata, diretta a raggiungere libertà ed indipendenza, oppure moderati, che miravano soprattutto ad ottenere senza violenze, per gradi, tutte le riforme desiderate. Accanto a costoro poi v’erano i municipalisti più accaniti che, come l'Erede, riuscivano raramente a mascherare i loro (1) A. Segue, Manuale di Storia del Commercio, voi. II p. 147, (2) G. Prato, Fatti e dottrine economiche ecc. p. 288, 173 sentimenti campanilistici. Costoro erano ormai liberisti convinti, non tanto per ragioni morali e politiche, quanto perchè avevano compreso che il liberismo era del tutto favorevole agli interessi generali di Genova. Infine non mancavano coloro che, occupandosi esclusivamente dei loro affari privati, non si curavano nè dei problemi politici, nè di quelli sociali, e quindi, se a loro conveniva, erano protezionisti ad oltranza. Dovevano essere numerosi costoro se nella seduta del 23 settembre 1846 del Congresso degli Scienziati, avendo il Conte Freschi proposto di fondare anche in Italia una società del tipo cobdeniano, l’aw. Pellegrini rispondendogli ebbe a deplorare gli ostacoli che la diffusione dell’idea incontrava, anche a Genova, in una parte dell’opinione pubblica (1). Dalla parte opposta stavano invece i liberisti più accesi, che, nonostante le concessioni governative, le riduzioni daziarie, gli accordi commerciali non erano ancora contenti e chiedevano riforme radicali e immediate. Contro il pericolo di un liberismo troppo acceso, ammoniva il Petitti in una sua lettera w\V Erede (2), facendogli osservare che ciò aveva già compromesso l’Associazione Agraria a Torino. I due opposti partiti, dei liberisti ad oltranza e dei protezionisti, di mano in mano che gli avvenimenti italiani li portavano a manifestare il loro pensiero, passarono dal piano economico a quello politico e gli uni furono i radicali, gli altri i conservatori. Fra i due partiti si inserirono, dominandoli per parecchio tempo, i moderati, che esplicarono opera di conciliazione ed assunsero più tardi la direzione dei moti popolari tentando di impedirne gli eccessi. Di questi tre principali partiti due soli apparivano più chiaramente alla superficie intorno al 1846, ed erano i liberali esaltati ed i moderati. 1 retrogradi, i gesuitanti, gli austriacanti vivevano e agivano nell’ombra rappresentando un pericolo nascosto di cui spesso la pubblica opinione, a diritto o a torto, accusava i colpi (3). La divisione dei due principali partiti ed il passaggio dal piano economico a quello politico si manifestò chiaramente durante la breve vita e l’opera delle tre Società Scientifiche fondate nel 1845. Non riassumerò qui la storia di queste società, che, ricordando ai Genovesi VIstituto Nazionale Ligure soppresso nel 1814, tendevano a dimostrare (1) G. Prato, op. cit. p. ‘287. (2) A. Codioxola, op. cit. lettera II, 26 marzo 1846. (3) Snll'attività (lei Gesniti in Genova v. P. Neghi, F. Ricci e il « Gesuita moderno », in Rassegna Storica «lei Risorgimento Italiano voi. Vili, 1921, p. 243 sgg. 174 la rinascita culturale della città (1). Basti ricordare che durante l£ sedute della Società di Economia si parlò apertamente di unità e di concordia delle provincie d’Italia e degli interessi commerciali che le legavano (2). Man mano poi che il partito radicale vi prese il sopravvento, gli accenni all’unità d’Italia divennero sempre più aperti e frequenti, tanto da provocare l’intervento del Governatore Paulucci, uomo non certo favorevole alle idee liberali. Ma queste idee maggiormente si rivelarono in tutto il loro significato politico e nazionale durante le sedute dell 'ottavo Congresso. Gli animi vi erano ben preparati. Il dissidio aperto con l’Austria in seguito alla nota questione dei vini, il fermo atteggiamento di C. Alberto di fronte all’occupazione austriaca di Ferrara, l’elezione di Pio IX, la diffusione degli Ultimi casi di Romagna■, il fermento di tutta Italia provocava uno stato di incertezza da parte dei governanti e un’audacia nuova da parte di tutti coloro che speravano in una prossima guerra contro l’Austria. Scriveva il Paulucci nel suo rapporto del 20 settembre: « Da quanto allora già mi constava e da ciò che appresi in seguito è dimostrato all’evidenza che l’interesse a propagare le idee e l’amore dell’italiana unità si palesa in tutte le sezioni del Congresso ed in tutte le discussioni, quelle pure i di cui argomenti sono per lor natura i più lontani ed estranei a politiche tendenze. E per citare alcuni esempi, basti dire che il Dott. Torchetti trovò nella sezione di Medicina materia di fare elogi al valore del Capo Battaglione Garibaldi che milita per Montevideo, ed il noto Dott. Farina parlando ivi della peste orientale, seppe con ammirazione di ognuno trarre anche da tal materia argomento per alludere all’italiana unità » (3). La Rivista Europea lodando l’opera dei Congressi italiani contro i calunniatori d’ogni specie, osservava che « nel genovese congresso parve a tutti veder risplendere una vita più spontanea e più sincera: le discussioni meno esitanti ad affrontare le difficoltà; meno intolleranti le dottrine; gli ingegni meno diffidenti e selvaggi; le parole più pronte e vivaci; le stesse festività più eloquenti; ed una fra tutte solennemente patria e religiosa, quale Genova sola poteva dare all’Italia, l’Italia (1) Sull’opera delle tre Società scientifiche, 8ni loro rapporti col Paulucci e la loro line v. A. Colomho, op. cit., p. 178. A. Codignola, op. cit., p. 104; F. Ri-della, op. cit., p. 95. (2) A. Colombo, op. cit., p. 192. . (3) A. Colombo, op. cit., p. 224. al mondo: l'inaugurazione di un monumento espiatorio a Cristoforo Colombo » (1). K più oltre, il significato vero e profondo del congresso di Genova è messo in evidenza con queste commosse parole: « E questa è un’altra lode de’ Congressi grandissima, render i viaggi agevoli ed onorati, rianimare, il ricambio delle ospitalità, vetusta e quasi favolosa virtù die dicevasi spersa dalla Civiltà moderna e clie ora rinasce con forme pubbliche, e con più utile intendimento. A noi quasi viventi in un lembo settentrionale della penisola, a noi che dell’Italia transappennina molto leggemmo sui libri, molto sentimmo favellarci nel cuore e nella fantasia, più presto era noto qualche paese straniero, che le parti più belle e più gloriose del nostro. E il maggior numero dei ricchi Lombardi, che, dopo Parigi e dopo Londra, cercavano Firenze, Roma e le altre famose città dell’Italia meridionale, scimi andò i viaggiatori oltramontani, visitavano i monumenti dei morti senza curarsi dei vivi mai, se non forse per lasciarsi andare à schernevoli paragoni. Ma ora, al pclligrante Congresso, non si aprono solo le gallerie ed i musei, nè si preferisce unicamente compagnia di prezzolati e di abbietti: ma sì l’intera cittadinanza d’ordinario restia a nuove e facili amistà, si fa innanzi ai desideri e alle richieste degli ospiti, e mette in mostra quelle leali virtù, quello schietto brio di parole e di pensieri che già da gran tempo più non si trovano ne’ convegni numerosi, e che si serbano solo agli antichi e provati amici: le università, gli spedali, le opere di beneficenza, le scuole, gli opifìci, tutte le istituzioni, tutti i monumenti che meglio onorano le età moderne, più volentieri sono ricercati, mostrati, ammirati: e l’Italia vivente, non vista mai dagli incettatori dei quadri e dai rovistatori delle antiche macerie, scopresi d’improvviso a sè stessa, e di sè stessa meraviglia. Non è poi a dire quanta dolcezza intenerisca l’animo di chi vede, o, meglio direbbesi rivede cogli occhi del corpo que’ luoghi santificati dalla poesia, tante volte sognati dalla giovanile immaginazione, tante volte ammirati ne’ quadri; e li vede più veri, più belli, più commoventi ancora, e s’accorge d’aver come trovato qualche cosa necessaria e lungo tempo indarno carissima; s’accorge, se ci è permessa l’ardita immagine, d’aver completata l’anima; e ricambia e condisce la fraterna ospitalità colla massima delle gioie spirituali, la gioia d’amare insieme ». Dalla considerazione degli interessi economici si era dunque passati ormai anche a Genova, sul finire del 1S40, ad ardite ed entu- (1) Rivista Europea, 1846, 2n semestre, p. 497. 170 siastiche affermazioni d’italianità; questo sentimento d’italianità si risolveva praticamente in tendenza federativa, ed antiaustriaca, mentre i governi stessi di Torino, Firenze e Roma iniziavano le trattative per concludere una lega doganale alla formazione della (piale diede impulso decisivo la favorevole risposta della Camera di Commercio di Genova interpellata in proposito (1). Così i fattori economici, inserendosi nelle tendenze politiche unitarie, le diffondevano tra le masse ancora incapaci di alte ideologie, le scuotevano, davano loro un colore e una fede politica e nazionale. Nello stesso tempo l’attuazione pratica dei sogni dell’Italia ridesta richiedeva l’opera illuminata ed accorta di uomini di cervello e di cuore, che sapessero avvicinare la fiamma dell’ideale al freddo calcolo del successo. (1) G. Prato, Fatti e dottrine economiche ecc., p. 287 nota 2. Cfr. pure 1. Gentili, I preliminari della lega e il protesoriere Morichini in Rassegna Storica del Risorgimento voi. I, 1914. ♦ CAPITOLO SESTO Gli sviluppi delle comunicazioni terrestri e marittime in relazione con i problemi genovesi e nazionali. Il problema ferroviario net suo valore economico e politico — Le vie di comunicazione terrestre facenti capo a Genova intorno al 1846 — Necessità di sviluppare le comunicazioni con l’entrò,terra: discussioni e progetti. — L’Europa centrale e la concorrenza di Marsiglia, Genova e Trieste. — La questione ferroviaria considerata a Genova e a Torino. — Evoluzione dell’opinione pubblica genovese rispetto al problema delle ferrovie: dalla fase economica alla valutazione politica e nazionale. — Progetti riguardanti la Valigia delle Indie. — Una memoria di Giuseppe Papa sulle strade, ferrate — Sviluppi del commercio marittimo con VInghilterra. — Genova alla vigilia del 1848. Le basi liberisticlie della futura lega doganale italiana, ponendo la necessità di eliminare ogni lotta per il predominio politico in Italia, dovevano praticamente condurre alla soluzione unitaria del problema nazionale e alla lotta contro l’egemonia austriaca. Ma una lega doganale sarebbe riuscita vana nella sua attuazione, qualora non fossero state poste le condizioni per la sua efficace realizzazione, qualora cioè non fossero unite anche materialmente quelle regioni già legate dalla comunanza di tali ideali. Le. vie di comunicazione apparivano mezzo potente per risolvere il problema politico italiano; d’altra parte l’invenzione della macchina a vapore che consentiva una rapidità prima sconosciuta, e l’incremento del commercio imponevano soluzioni nuove ed urgenti al problema delle comunicazioni, corrispondenti alle accresciute esigenze dei traffici ed ai nuovi indirizzi economici. Verso la metà del secolo XIX il mondo aveva assai progredito nella via delle invenzioni e delle scoperte. Già in Francia, in Inghil- 12 178 terra, in Germania e nelPÀmerica del Nord le principali reti ferroviarie erano costruite o in via di costruzione; i piroscafi andavano sostituendosi ai bastimenti a vela (1) e di conseguenza la navigazione più rapida e più regolare avvicinava all’Europa i porti più lontani d’America e d’Oriente e creava nuove esigenze, come quella di stabilire scali intermedi per il deposito di carbone e di tentare la via più diretta per il commercio con le Indie, attraverso l’istmo di Suez. L’Italia, sebbene non ancora costituita in unità di stato, non doveva restare indietro alle altre nazioni, se non voleva essere politicamente ed economicamente asservita a quelle. D’altra parte, nello stato attuale del suo spezzettamento territoriale, il problema delle comunicazioni minacciava d’essere risolto secondo gli interessi particolari delle singole regioni; e ciò, mentre non avrebbe sufficientemente giovato ai loro commerci, sarebbe stato di danno grandissimo quel giorno in cui l’unità fosse stata raggiunta. La difficoltà del problema consisteva perciò in Italia nella necessità di risolverlo non secondo gli interessi attuali, ma secondo quelli futuri; nel subordinare i progetti delle reti ferroviarie e stradali al line politico di uno stato futuro la cui creazione dipendeva da tante e diverse circostanze. Occorreva perciò vincere quegli interessi regionali, che, basandosi su dati di fatto concreti erano ben giustificati, se un ideale superiore ed una fede lungimirante non riuscivano a superarli. Non deve quindi apparir strano se tante discussioni e tante gelosie furono sollevate a proposito del problema delle comunicazioni in quegli anni in cui l’idea delPunità d’Italia era tuttavia in formazione. Furono anche in questo campo specialmente i liberali moderati coloro che cercarono di illuminare la pubblica opinione sull’aspetto politico e nazionale del problema, e che combatterono apertamente la lotta contro gli interessi privati e regionali. Anche in questo campo la gran massa del popolo italiano aveva bisogno di essere guidata, per poter comprendere che la soluzione locale del problema delle comunicazioni, mentre non rispondeva alle esigenze dell’Italia futura, non poteva nemmeno risolvere le necessità del commercio regionale, se i progetti ferroviari miravano soltanto ad una dannosa concorrenza reciproca. Il potenziamento economico d’Italia doveva essere invece il fine degli sforzi combinati delle varie regioni. (1) Stato numerico delle navi a vapore in Europa nel 1844, tratto da A. U. S. voi. LXXXI, 1844: Inghilterra N° 1250, di cui 104 da guerra; Francia N° 399, di cui 105 da guerra; Prussia e altri stati germanici 140; Austria 54; Olanda 60; Svezia 58; Russia 48, Italia 16; Svizzera 16; Spagna e Portogallo 16. 179 / ' Negli Stati Sardi, così come altrove, il problema delle comunicazioni fu inteso inizialmente come un’esigenza d’ordine interno; ed anzi il particolarismo degli interessi fu tanto maggiore in quanto i criteri politici del Governo di Torino non sempre corrispondevano a quelli puramente economici e commerciali della città di Genova. Ma non mancarono sia a Genova che a Torino coloro i quali, animati da spirito di conciliazione e d’italianità, allargarono le discussioni nel quadro più vasto degli sviluppi economici dell’intera penisola. Ciò apparirà più evidente studiando lo stato delle vie di comunicazione facenti capo a Genova dall’anno dell’annessione alla vigilia della guerra per l’indipendenza, e le discussioni promosse a tal proposito, sia nei riguardi dell’opera governativa che nei riguardi dell’opera degli altri stati d’Italia, compreso il Lombardo-Veneto. Genova aveva considerato sempre essenziale il problema delle comunicazioni con l’entroterra piemontese e specialmente con quello lombardo (1), necessari entrambi per il transito verso la Svizzera e la Germania occidentale. Le vie principali lino al secolo XVIII erano due: quella che per la Polcevera arrivava a Pontedecimo, dove si biforcava per giungere da una parte, per la Bocchetta, a Novi e ad Alessandria, e, dall’altra, per i Giovi, a Serra valle, Tortona e Voghera; e quella che, per il colle della Scoffera, raggiungeva Bobbio e Piacenza (2). Ma questa seconda via doveva essere in pessime condizioni e del tutto impraticabile se nel 1768 il trattato commerciale fra Genova e il Ducato di Parma e Piacenza ebbe, come vedemmo, scarsi risultati per la mancanza di strade e se Napoleone dovette pensare a ricostruirla. La prima via dunque, con le sue due diramazioni, era quella di più facile accesso verso l’entroterra, essendo assai più malagevoli quelle che dalla Riviera di Ponente mettevano direttamente in Piemonte e scarse quelle della Riviera di Levante (3). In quanto alla via litoranea, l’antica via Aurelia che dalla Francia attraverso le due Riviere conduce in Toscana, essa era ridotta in pessime condizioni (4). Che il motivo sia da ascrivere a noncuranza o a timore di invasioni dei Saraceni o ad una politica di isolamento, secondo le varie ipòtesi del De Bartolomeis (5) non mi par facile stabilire. Credo tuttavia che (1) F. Borlandi, op. cit,, p. 88, e G. Rosso, op. cit,, p. 20. (2) G. Rosso, op. cit,, p. 8. (3) G. Rosso, op. cit., pp. 9-13. (4) L. De Bartolomkis, op. cit., p. 1025, n. (5). Op. cit,, p. 1002 e 1025, n. 180 il motivo principale dello scarso sviluppo della viabilità in Liguria fino al secolo XIX si deva ricercare nella politica monopolizzatrice di Genova, la quale, gelosa degli sviluppi commerciali di Nizza e Savona, mirava ad impedire loro ogni via d’accesso verso l’interno o lungo la costa. Ciò può spiegare le gelosie spesso esagerate che ancora in pieno secolo XIX Genova dimostrava per gli sviluppi economici delle città liguri della Riviera di Ponente. Già ho accennato alle principali strade napoleoniche della Liguria; mediante esse le comunicazioni fra Nizza c Genova poterono essere avviate per via di terra, mentre dall’altra parte Spezia fu collegata coll’Emilia. L’apertura delle strade del Moncenisio e del Sempione permisero inoltre un più facile accesso verso la Francia e la Svizzera. Ma la costruzione delle strade liguri, iniziata da Napoleone, andò molto lentamente e fu proseguita dal Governo sabaudo sotto il quale altre vie furono aperte. Anzi, VErede annoverava fra i principali benefici apportati da Casa Savoia alla Liguria la costruzione di ampie e facili vie di comunicazione (1). Ma intorno al 1847 le strade, pur sufficienti come numero, non dovevano essere molto praticabili, se dobbiamo credere al quadro che ne facevano il De Bartolomeis ed il Casalis (2). In sostanza la via principale restava quella antica per Novi e Alessandria, passante attraverso i Giovi, che era stata riattivata come strada regia. Per questa via si avviava tutto il traffico diretto a Torino, ad Arona, a Pavia e a Piacenza, e quindi vi transitavano le merci dirette alla Francia, alla Svizzera, alla Lombardia. (1) M. Erede, Di alcuni dei più considerevoli vantaggi apportati al traffico genovese dalla Reai Casa di Savoia, lettera al Predali, in Antologia Italiana, libro I, voi. II, 1847, p. 620, sgg. (2) L. De Bartolomeis, op. cit., p. 999 e sgg., e 1357 e sgg. Casalis, op. cit., p. 314 e sgg. La strada regia Torino-Alessandria-Novi-Genova era sistemata (nel 1846) soltanto dalla Lanterna lino a Brazile presso la confluenza del rio Secca con la Polcevera. La strada regia per la Toscana era perfettamente sistemata solo fino a Nervi. La strada provinciale di ponente era da sistemare nei tratti fra Sestri e S. Pier d’Arena e tra Arenzano e Cogoleto. Quella per Bobbio e Piacenza era sistemata soltanto fino a Staglieno, e ciò secondo precise direttive del Governo, perchè « l’inesorabile strategia vietava che s’aprissero più facili accessi ai monti che s’attergano a Genova, e non si rendesse più agevole la comunicazione fra Genova e Piacenza per Tortiglia ». (De Bartolomeis op. cit., p. 1359). Anche l’Erede osservava che tutte le vie erano vaste e facili, « meno una, per rispetti militari; che così volle la fatalissima e maledetta divisione dell’italico suolo ». La via provinciale da Voltri ad Acqni attraversava, senza ponti, torrenti come lo Stura, era ripida e irregolare, ed era praticabile solo ai pedoni ed alle bestie da soma. La sua manutenzione era affidata a due pontonieri. Nelle stesse condizioni era la strada provinciale della Bocchetta. Le vie comunali per Torriglia, per Sa-vignone, per S. Ilario ed altre erano in condizioni ancora peggiori. 181 [1 problema delle comunicazioni era vitale per Genova, ed interessava il transito delle sue merci in concorrenza con quello lombardo. Abbiamo visto in proposito un articolo degli Annali Universali di Statistica, riportato dal Corriere Mercantile, (1) riguardante il transito lombardo e la concorrenza con quello genovese, che si rivelava di molto inferiore. Ciò va messo in relazione con la cattiva manutenzione delle strade liguri e piemontesi e con i forti dazi doganali del Canton y Ticino, che facevano preferire la via lombarda di Coira a quella piemontese di Arona. La mancanza poi di una via diretta fra Piacenza e Genova faceva sì che tutto il commercio delle Eomagne e dell’Emilia si dirigesse alla Lombardia, trascurando completamente la nostra città che ne era tagliata fuori dai gioghi dell’Appennino. E mentre Milano, Mantova, Bolzano, Venezia e Trieste erano centri importanti di commercio con la Svizzera, Francoforte, Innsbruck, Berlino, Lipsia, Norimberga, Augusta, a Genova non restava che uno scarso commercio con Lucerna e Zurigo e, attraverso il Moncenisio, con Grenoble e Lione. Queste condizioni di inferiorità del transito piemontese verso l’Europa centrale erano sentite particolarmente a Genova ed erano considerate tra le cause della decadenza del suo commercio. Il col-legamento di Genova con la Svizzera per mezzo di una ferrovia prima che vi arrivasse quella lombarda apparve perciò ben presto come una vitale necessità. Xello stesso tempo si pensava anche al collegamento con Venezia per mezzo della navigazione del Po con una derivazione di canali verso il Mar Ligure, oppure con una strada ferrata. Il progetto di collegare il Mar Ligure con l’Adriatico tenne desta l’attenzione in Piemonte per parecchio tempo, specialmente tra il 1835 ed il 1840, durante i quali anni furono presentati alcuni piani basati in parte su quello francese di un trentennio innanzi (2). Ma ciò avrebbe richiesto innanzi tutto la libera navigazione del Po, ed urtava contro la politica austriaca contraria ad ogni sviluppo di comunicazioni col vicino Piemonte; tanto più in quanto i progetti presentati a C. Alberto nel 1840 dal cav. Carbonazzi, ispettore del Genio Civile, rispondevano (1) C. M. N° 12 -16 gennaio 1845. (2) L. De Bartolomeis, op. cit., p. 1026. Cfr. pure II Politecnico, Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e Cultura sociale., Milano, voi. Ili, anno II, I semestre 1840, p. 278. Altri progetti (li canali navigabili tra il Mediterraneo e YAdriatico furono in seguito studiati nell’Italia Centrale, ove si sarebbe dovuto usufruire dei corsi dell’Eamo, del Cliiascio, del Tevere, uniti con 1111 canale passante per le montagne di Gubbio, Cfr. A. U. S., Voi. LXXIX 1844, p. 237, 182 a criteri non solo commerciali, ina anche politici e militari, come rilevava il Lloyd Austriaco, non certo favorevole a tale impresa (1). I progetti dei canali navigabili in Italia furono ben presto lasciati cadere man mano che l’importanza delle ferrovie si fece più evidente, e poco pratica appariva l’unione dei due mari a causa della perdita di tempo per le operazioni di sbarco e d’imbarco all’ingresso dei canali stessi, per cui appariva più facile ad una nave proveniente dall’estero recarsi direttamente nell’Adriatico (2). Questi studi rivelano tuttavia l’urgenza con cui era sentito il problema; a Genova non soltanto occorreva vincere la concorrenza del transito lombardo, ma anche quella del transito francese ove il corso del Rodano presentava facilità di navigazione e di unione con Ginevra e quindi con l’Europa centrale. Vero è che molti progetti presentati in Francia allo scopo di rendere navigabile il corso superiore di quel fiume non approdarono a nulla, e che la costruzione delle ferrovie più importanti ritardò lino al 1812, anno in cui il Guizot riportò la discussione alla Camera, che decretò la costruzione delle prime sei linee principali (3). Questo ritardo nel risolvere il problema delle comunicazioni in Francia, specialmente rispetto al transito per la Svizzera, era notato con non celata compiacenza a Genova, ove si metteva in evidenza che il commercio del littorale spagnolo passava in gran parte davanti a Marsiglia per affluire a Genova (1). La questione, oltre che nel suo aspetto economico, appariva in quello politico,-perchè si prevedeva che, una volta unita l’Europa centrale a Genova, a Milano e a Trieste invece che a Marsiglia, l’Olanda, il Belgio e la Svizzera si sarebbero staccati dalla Francia e avrebbero gravitato intorno alla Zollverein, che sarebbe diventato così il principale paese produttore e consumatore d’Europa (5). Anche la costruzione della Ferdinandea, da Venezia a Milano, con le sue possibili diramazioni verso il Luckmanier e lo Spinga, andava assai a rilento, soprattutto perchè l’Austria non aveva interesse a favorire il transito lombardo che avrebbe agevolato Venezia ai danni di Trieste (6). Sicché facile sarebbe stato per Genova conquistare i mercati dell’Europa centrale attraverso una ferrovia per il lago Maggiore e il Gottardo, e giungere così alle provincia renane ed al Belgio V (1) Cfr. C. M. N° 6 - 20 gennaio 1841. (2) A. U. S./ voi. LXXXV, 1845 p. 302. (3) A. Segre, op. cit., voi. II, p. 91. (4) C. M. N° 44 - 2 gingno, e. N° 62 - 4 agosto 1841. (5) C. M. N° 62 cit. (6) R. Ciasca, Vongine del programma ecc. p. 365. 183 e all’Olanda prima die vi giungessero Marsiglia e Venezia. Soltanto Trieste con la sua linea in costruzione per Vienna poteva minacciare una pericolosa concorrenza qualora avesse potuto allacciarsi con la rete germanica, il cui punto più vicino all’Austria era nel 1844 Landau (1). Occorre qui esaminare lino a qual punto sia stata compresa a Genova l’importanza del problema ferroviario, soprattutto in funzione degli sviluppi del commercio con l’Europa centrale non di Genova sola, ma dell’Italia intera. In tutta Italia si fu all’inizio generalmente scettici sull’importanza delle ferrovie, die destarono più curiosità che interesse (2). A Genova l’interesse per le ferrovie si mostrò subito assai vivo, tanto che ancor prima del 1834 numerose domande furono rivolte al Governo per la costruzione di una linea verso il confine pavese, con diramazioni per Torino ed Arona (3). È già evidente fin da queste prime proposte lo spirito dei progetti genovesi, che, se anche possono essere salvati dall’accusa di « speculazioni d’aggiotaggio », mossa loro continuamente dal Petitti, erano tuttavia diversi dagli intendimenti governativi. Infatti C. Alberto si valse della politica delle comunicazioni come di un’arma per colpire l’Austria (4), mentre a Genova questi fini politici erano estranei. Non solo, ma a Genova, almeno lino a che il pericolo della concorrenza di Marsiglia non si fece immediato, non si pensò tanto all’unione con la Svizzera e la Germania, quanto airunione con la Lombardia. Cioè si mirava ad interessi locali, seguendo le tendenze di espansione commerciale nella pianura padano-veneta che erano tradizionali di Genova, senza comprendere che il nuovo mezzo di comunicazione rivoluzionava il commercio e ne allargava di necessità la sfera d’azione. Il Governo, che si preoccupava anche del valore strategico e politico delle costruende strade ferrate, nominò nel 1837 una commissione incaricata di esaminare le proposte fatte. Fra i membri di tal commissione figurano due soli ge- (1) Cfr. Petitti, Delle strade ferrate italiane ecc. Al volume è allegata una cartina dello stato delle ferrovie iu Italia e in Europa nel 1844. (2) G. Prato, op. cit., p. 227 e R. Ciasca op. cit., p. 335. Ricordo clie la prima linea concessa in Italia fu la Milano-Venezia (1837), alla quale seguirono la Firenze-Pisa-Roma (1838), la Napoli-Castellamare (1838), la Genova-Torino (1840). Le prime linee aperte furono la Napoli-Portici (1839), la Milano-Monza (1840), la Livorno-Pisa (1844). (3) C. I. Petitti, op. cit., p. 258 e A. U. S., voi. XXXIII, 1845, p. 301: articolo firmato F. L., ma certamente o del Petitti o ispirato da lui. (4) G. PRATO, Le vie del tramito commerciale in Piemonte nell’epoca pre-ferrovia-ria, in Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino, voi. LVII, 1921-22, p. 178, 184 novesi, appartenenti alla Camera di Commercio, e cioè Giuseppe Castelli e Giacomo Causa (1). Ciò dimostra sufficientemente il predominio dell’indirizzo politico governativo che informò le discussioni e le conclusioni della Commissione stessa, la quale nel 1831) « esponeva molto chiaramente i rispettivi interessi cui doveasi avvertire nel triplice interesse (politico, strategico, commerciale) sopra indicato » (2). Intanto la società genovese Cavagnari ottenne di iniziare studi in proposito con la promessa che, approvato che fosse stato il progetto, le sarebbe stata concessa l’impresa, a certe privilegiate condizioni, escluso però ogni concorso diretto del pubblico Erario, ed ammesso soltanto quello indiretto d’alcune esenzioni di dogane e d’altri tributi per le occorrenze dell’impresa. Le K. li. P.P. 10 settembre 1840 fissarono le condizioni del futuro eventuale contratto. I progetti che la Società genovese presentò al Governo dal 1840 al 1844 dimostrano la mancanza di larghe vedute e la scarsa fiducia che i Genovesi avevano nel buon esito dell’impresa. Il primo progetto infatti, presentato dall’ingegner Porro nel 1840 mirava ad unire la strada ferrata ligure con la Ferdinandea, che avrebbe dovuto perciò giungere con una derivazione fino a Gravellone (3). Un tronco secondario avrebbe dovuto giungere ad Alessandria, e di qui unirsi a Torino. E chiaro il carattere strettamente locale, anzi municipale, di questo progetto genovese. Lo notava il Cattaneo, che scrivendo sul Politecnico (4), osservava che il problema delle strade ferrate non richiedeva una soluzione locale, ma europea, ed era in relazione con il diritto internazionale, i rapporti tra stato e stato e la politica doganale. Egli diceva giustamente che la linea ligure-piemontese avrebbe acquistato valore solo se messa in comunicazione con la Svizzera, oltre che con il Lombardo-Veneto. Nel 1842 si compiaceva che una maggior larghezza di vedute fosse sottentrata nei progetti della Società genovese, la (1) Membri della Commissione nominati con B. R. 1° aprile 1837 fnrono: il gen. cav. Annibaie di Saluzzo, presid., il barone Giuseppe Manno, vice pres., il colonnello del genio D. Chiodo, il marchese C. Alfieri, vice presid. della Camera di Commercio e Agricoltura di Torino, il cav. Marone, intendente generale del-l’Azienda Economica dell’interno, il conte Qnarelli di Lesegno, intendente generale delle Gabelle, il cav. Cristiani sostituto del Procuratore generale, il cav. Brn-nati e il cav. Mosca, ispettori del genio, il cav. Cotta, membro della Camera del Commercio e Agricoltura di Torino, G. Castelli e G. Causa, membri della Camera di Commercio di Genova, il cav. Cossato, capitano del Corpo Reale dello S. M. Generale, segretario. (Cfr. C. M., N° 30 - 15 aprile 1837). (2) A. U. S., art. cit., p. 304. (3) C. I. Petitti, Delle strade ferrate ecc., p. 261. (4) Voi. IV, anno II, 2 sem., 1840, p. 143, 185 quale cominciava a preoccuparsi del collegamento colla Svizzera (1). Gli articoli che il Cattaneo citava e criticava erano del Corriere Mercantile. Essi sono interessanti appunto perchè mostrano l’evoluzione del pensiero genovese di fronte al problema ferroviario, che, iniziato come problema locale di comunicazione con la Lombardia, divenne ben presto europeo per il timore della concorrenza francese da un lato, per l’impossibilità di unione con la Lombardia dall’altro, a causa della politica ostile dell’Austria. Sicché fu in un certo senso proprio l’Austria a sollecitare i Genovesi verso la costruzione di quella ferrovia che doveva fare della nostra città un’emporio di prim’ordine. Il primo articolo interessante è del 1840 (2). Esso, per quanto prevedesse un grande sviluppo del porto di Genova a causa delle future relazioni con l’Alta Italia, la Svizzera e la Germania, si manteneva ancora nella concezione mercantilistica, che considerava principale risorsa (li Genova il commercio di commissione. L’interesse era rivolto prevalentemente alla Lombardia, con la quale poteva essere effettuata l’unione attraverso il Lago Maggiore. Il secondo articolo, del 1841 (3), è di Pellegro Rocca, vice presidente della Società Eeale delle Strade Ferrate, Egli considerava ancora la linea Alessandria-Torino come una diramazione del tronco principale diretto a Gravello-ne, sul confine lombardo. Ma prevedeva possibile il collegamento con la Svizzera, e sosteneva la necessità di assicurare a Genova il monopolio del transito per l’Europa centrale, mentre considerava anche la possibilità dell’unione dei due mari, Ligure e Adriatico, attraverso la Ferdinandea, con una diramazione per le Legazioni Pontificie. L’articolo era però soprattutto rivolto a suscitare l’interesse dei capitalisti perchè concorressero all’impresa: mentre prospettava la straordinaria importanza della progettata ferrovia, dimostrava anche la scarsa fiducia che in essa ponevano i Genovesi, che avevano bisogno d’essere incitati mediante la promessa di un’ottima riuscita di ciò che appariva soltanto come una speculazione commerciale. Ispirato a più ampie vedute era invece l’articolo del 1842 (4) lodato dal Cattaneo il quale ascriveva a sè il merito di questa evoluzione dell’atteggiamento genovese di fronte al problema ferrovia- (1) II Politecnico, voi. V, unico, 1842, p. 170. (2) N° 41-23 maggio, Strada da Genova a Torino. (3) N° 26-31 marzo, Strade ferrate da Genova al Piemonte e confine lombardo, (4) N° 33 - 27 aprile. 186 rio (l). L’articolo, scritto in base al Calendario dei R. Stati per l’anno 18-42, considerava le linee principali, che dividendosi a San Giuliano dopo Novi, dovevano dirigersi ad occidènte verso Alessandria, Asti e Torino, a settentrione verso Vercelli, Novara, Oleggio, Arona, a oriente verso Pavia. Il progetto questa volta non aveva più carattere locale, ma europeo. Vediamo infatti il brano più significativo dell’articolo: « Col ramo del Lago Maggiore, il Sempione, il S. Gottardo, il S. Bernardino sono posti in comunicazione con Genova, ed il Lago di Costanza è messo a quattro giornate di distanza da quel celebre emporio del Tirreno. Colle linee belgiche, germaniche, austriache e russe, l’Europa sarà attraversata dall’Ovest all’Est, dalla Schel-da e dalle foci del Reno alle foci del Danubio con inaudita rapidità, ed il non lungo tratto da Monaco di Baviera al lago di Costanza già decretato ferrarsi, Odessa ed Anversa, aver potranno la Baviera per comune mercato. Evvi ancora pel porto di Genova la valle dell’alto Rodano da approvisionare, ed è per la Savoia che ci conviene recarci al lago di Ginevra ». Che se poi si attui il progetto del cav. Racchia di unire Bardonecchia a Modane con un tunnel, allora « il ramo dai confini del Rodano per unirsi al sistema siderodromo di Francia non mancherebbe di farsi, e Lione sarebbe allora a ore 10 da Torino; Parigi a 30 ore!! ». Tuttavia, nonostante tutto questo entusiasmo, la Società procedeva con molta prudenza; all’ingegner Porro fu sostituito l’ingegner Brunel figlio, che nel 1843 presentava il medesimo progetto con alcune riforme (2). Infine la Società, incerta sul buon esito dell’impresa, chiese al governo una garanzia del 4 4/2 °/0 di interessi e il concorso diretto dell’Erario, ed allora il Governo, con Lettere Patenti 13 febbraio 1845 assunse direttamente l’impresa, anche in vista deirimpor-tanza politica del problema (3), il quale si avviava ormai a diventare in tutta Italia problema nazionale, e un’arma di lotta contro l’Austria (4). Fu così creato in Piemonte un consiglio speciale delle Strade Ferrate, del quale fu membro il Petitti, che, nella sua opera sulle ferrovie italiane, aveva propugnata la tesi governativa. A Genova come fu considerata questa soluzione del problema*? Occorre notare che la soluzione governativa oltre che colpire gli inte- (1) II Politecnico, voi. V, cit., p. 170. (2) A. U. S., art. cit. (3) A. Codignola, Dagli albori della libertà ecc., p. 60, e 1). Zanicuklm, Cavour, cit., p. 80. (4) R. Ciasca, op. cit., p. 526. 187 ressi della Società Cavagnari e in un certo modo l’orgoglio cittadino genovese urtava contro gli stessi principi liberali che erano ormai nella coscienza dei più, non escluso il Petitti. Ma fra il liberismo moderato di questo, che teneva conto della realtà attuale e delle necessità della politica piemontese, ed il liberismo teorico e radicale di molti Genovesi e Lombardi correva una grandissima differenza, che appunto in questa circostanza ebbe a manifestarsi, ^e fanno fede le critiche mosse all’opera del Petitti ed all’iniziativa piemontese da C. Cattaneo e da E. Broglio, il quale, sulla Rivinta Europea (1), giudicava che il Petitti « nella sua qualità di pubblico funzionario » aveva l’abitudine « di credere i soli governi capaci delle grandi imprese » e rinnegava quindi i principi liberali che sempre aveva sostenuto. Inizialmente tuttavia a Genova, se ebbe a dolersi la Società alla quale venne tolto l’appalto, la pubblica opinione vide con simpatia un’iniziativa destinata a togliere ogni incertezza e ad iniziare e proseguire rapidamente i lavori (2). Ma, fatto rivelatore di un persistente stato di opposizione al Piemonte, mentre fino al 1844 la Società aveva dovuto lottare contro la diffidenza dei capitalisti e lo scetticismo dei più, dopo che il Governo ebbe assunto l’incarico di condurre a termine i lavori, quelli stessi che prima avevano avuto bisogno di incitamenti cominciarono ad accusare il Governo di lentezza, di scarso interesse per i bisogni genovesi, ed improvvisamente sentirono il bisogno di spronarlo ad una pronta costruzione della linea (3). Che in parte questo nuovo fervore fosse derivato dall’opera del Petitti e dalla considerazione dei progressi delle ferrovie estere, soprattutto francesi e austriache, è indubbiamente vero. Ma è innegabile che quando si era trattato di prendere un’iniziativa privata che avrebbe richiesto fiducia e spirito di associazione, Genova era stata sorda al richiamo; quando invece responsabile fu il Governo, si trovò modo di criticarlo, e di muovergli ogni sorta di accuse come quella di non voler condurre la ferrovia sino al Porto Franco, ma solo sino a San Pier D’Arena (4). Ma non mancavano a Genova coloro che comprendevano veramente l’importanza del problema ferroviario e lo mettevano in relazione con il commercio con l’Europa centrale e con i porti d’oltre- (1) I semestre 1847, p. 149. (2) G. Prato, Fatti e dottrine economiche ecc., p. 231. (3) A. CoSTABILE, Problemi economici e contrasti politici tra la Liguria ed il Piemonte durante la prima metà del 1800, in Giornale Storico e Letterario della Liguria, 1938, fase. IV, p. 212. (4) A. Codignola, op. cit., lettera LXXI - 23 marzo e LXXXII - 6 maggio 1847. 188 mare. Il problema ferroviario doveva necessariamente interferire con l’indirizzo della politica doganale e commerciale, con gli sviluppi della marina mercantile, a vela e a vapore, con la situazione politica internazionale, con le condizioni sanitarie e la sicurezza del porto di Genova e con tanti fattori di natura politica ed economica da richiedere l’opera di illuminate riforme. A tale criterio appare ispirato un articolo (li Giuseppe Papa, scritto nel 1844 quando ancora pareva che l’impresa dovesse essere compiuta da una società privata (1). Il Papa denunciava l’urgenza della soluzione del problema ferroviario in Piemonte, soprattutto in relazione con gli sviluppi del transito lombardo che erano stati messi in evidenza dal Lloyd Austriaco. E con criterio schiettamente moderno osservava che se in base alle statistiche il commercio (li Genova non era in decadenza, ma in stasi, ciò equivaleva in economia politica a decadenza, alla quale occorreva riparare. Oltre al pericolo della concorrenza austriaca, egli vedeva quello della concorrenza della Francia, che, indipendentemente dalle strade ferrate, organizzava una meravigliosa rete di comunicazioni. Polemizzando col Lloyd che giudicava impossibile che la ferrovia ligure-piemontese superasse l’Appennino, faceva notare che esempi di simili imprese gigantesche si verificavano in America, in Inghilterra, in Francia, nel Belgio e altrove, e che per ciò occorreva soltanto disponibilità di capitali che a Genova invero non mancavano. Compiuta l’impresa, e approfittando della sua meravigliosa posizione geografica, Genova avrebbe ottenuta fàcile vittoria sopra Trieste e Marsiglia. Gli orientamenti futuri del commercio di Genova si sarebbero perciò rivolti a Torino, alla Lombardia, a Parma e Piacenza, alla Svizzera e alla Germania occidentale, ove si sarebbe giunti attraverso Coira e il Cantone dei Grigioni (2) indipendentemente dallo Stato lombardo. Venezia sarebbe risultata così a 2G5 miglia da Costanza e a 157 da Milano. Genova rispettivamente a sole 195 e a 69 miglia dalle due città. Ma l’articolo del Papa non era soltanto rivolto a lumeggiare i vantaggi che sarebbero derivati a Genova dalla progettata ferrovia, ma anche a tranquillizzare quei Piemontesi che la credevano svan- (1) Delle strade ferrate da Genova per l'Italia e oltremare, in Esperò N° 35 - 27 luglio 1844 e in C. M. N° 178 - 7 agosto 1844. (2) Gli studi per la costruzione di una strada ferrata tra Genova e la Svizzera furono iniziati nel 1845 (15 luglio) da una Commissione composta di Tappre-sentanti del Cantone dei Grigioni, di S. Gallo, del Ticino e dèi Piemonte. Cfr, R. Ciasca, op- cit., p. 516. Ì89 taggiosa per i loro interessi, temendo una troppo facile invasione di prodotti agricoli e industriali (1), Egli osservava infatti che la ferrovia avrebbe agevolato l’esportazione dei prodotti agricoli piemontesi e ravvivato anche il transito del Piemonte destinato a certa rovina se fosse restato inferiore agli stati vicini in fatto di comunicazioni. La necessità di vincere la concorrenza di Marsiglia e Trieste imponeva poi la soluzione d’altri problemi, l’attuazione di « altre intraprese progettate ed importantissime, onde assicurare pel futuro una fondata, certa ed invariabile economia nelle spese locali ». Così bisognava costruire un lazzaretto più vicino, per non costringere le navi a recarsi al Varignano, e ampliare il Porto Franco, secondo i progetti già presentati ma che non erano stati tradotti mai in realtà (2). Ed infine bisognava abolire le tariffe differenziali, perchè Genova sarebbe stata in grado di vincere naturalmente la concorrenza straniera. Dalla visione poi del futuro rifiorire del commercio di Genova, agevolato da una sapiente politica commerciale governativa, su basi liberistiche, l’autore passava a considerare la crescente prosperità che ne sarebbe derivata a tutte le classi sociali e soprattutto alla popolazione marinara di Genova. L’articolo è ispirato a criteri moderni, liberistici, e supera le vedute mercantilistiche ancor vive tra molti commercianti genovesi. Il suo interesse è però quasi esclusivamente rivolto a Genova, e mette un’altra volta in evidenza il carattere municipalista che animava anche i migliori uomini della nostra città. E ciò ben si comprende, se si pensa che la tradizione di Genova repubblicana era ben desta nella coscienza di tutti, sebbene praticamente quasi nessuno sognasse più una restaurazione. Ma se l’ampiezza di vedute di uomini come il Papa poteva modificare il loro atteggiamento troppo regionalistico lino a condurli a conclusioni simili a quelle nazionali alle quali per altre vie erano giunti il Petitti, P. Romualdo Racchia (3), lo stesso De Bartolomeis, (1) Il conte V. A. Balbo Bertone di Sambav, ministro di Sardegna a Vienna, mentre Hpingeva il Governo ad affrettare la costruzione della linea, lamentava che vi fossero ancora Piemontesi i quali temevano che la prosperità del Piemonte fosse in relazione con la diminuizione di quella di Genova, e ciò « malgré les pro-grès qne fait réconomie -politique » Cfr. M. Degli Alberti, La politica estera del Piemonte sotto C. Alberto secondo il carteggio diplomatico del conte T. A. Balbo Bertone di Samhui/, ministro di S. M. a Henna (1835-1846), Torino, 1919, voi III, pp. 222, 352, 370, 439; citato da Prato, op. cit., p. 233. (2) Cfr. i progetti di ampliamento del Porto Franco in A. S. T. Sez. I, Paesi G. Genova, mazzo 14, N° 30. (3) Brevi cenni sulla rete fondamentale delle strade ferrate italiane, sui porti di mare, sulla marina d’Italia, nonché su diversi altri intellettuali e materiali suoi interessi. Torino, 1810. Opera disordinata e un po’ oscura, ma improntata a spirito di italianità. 100 che pure scriveva in veste strettamente ufficiale (1)? il Cavour (Lì), il Balbo (3) ecc., molti erano coloro che, a Genova, non comprendevano l’importanza di agevolare le comunicazioni con l’Europa centrale o addirittura le temevano. Erano coloro che temevano un’invasione di capitalisti e di commercianti svizzeri e tedeschi, i quali avrebbero svolto una concorrenza dannosa agli interessi di parecchie case genovesi (4). Oppure erano gli « uomini gretti, soliti a non veder molto lontano e cocciuti per natura, decisi a non ispe-culare altrimenti, che come sempre fecero (f>), senza avvertire, che talune di quelle speculazioni, starano per mutar condizione, quella per es. dei grani (0) ». Ai primi il Petitti rispondeva che un aumento di capitali avrebbe accresciuto il traffico e che la nuova concorrenza avrebbe ravvivato il commercio. I secondi cercava di scuotere dall’inerzia, prospettando i pericoli d’una prossima irreparabile decadenza. Del resto lo stesso Cevasco, parecchi anni prima, notando la concorrenza in Genova di commercianti inglesi, svizzeri, e lombardi, aveva detto che lungi dal cercare di allontanarli, occorreva approfittare dei vantaggi che apportavano alla città (7). Egli si riferiva allora soprattutto agli Inglesi ed il suo interesse era rivolto alla solidità delle loro case di commercio e di navigazione. Ma ora, a circa dieci anni di distanza, i progressi della Lega Doganale Tedesca si erano talmente imposti da suscitare timori e speranze, ma certo interesse vivo in tutti (8). Perciò si può (1) Op. cit., p. 1033. IL D. B. prevedeva che le ferrovie avrebbero dissipato le rivalità commerciali e ravvivato gli spiriti delle nazioni. (2) Articolo intorno al libro del Petitti sulle strade ferrate pubblicato nella Revue Convelle di Parigi il 1 maggio 1846: Des chemins de fer en Dalie, riprodotto in Scritti, Bologna 1892, pp. 15-16, 40-41. (3) Appendice II alle Speranze d’Italia. (4) Cfr. Petitti, Delle più probabili future condizioni del commercio ligure, cit., p. 29. (5) Parole sottolineate nel testo. (6) C. I. Petitti, opuscolo cit., p. 15. (7) Cevasco, op. cit., voi. Il, p. 78. (8) Il Corriere Mercantile segniva con attenzione l’attività economica dello Zollverein, e il progressivo assorbimento degli stati vicini nella sua orbita. Notevole una corrispondenza da Londra pubblicata nel N° 246 - 29 ottobre 1844, in cui la Lega Doganale Tedesca era detta « la più formidabile rivale » dell'Ingliil-tena. La sua importanza era così valutata a Genova e messa in confronto con quella della Gran Brettagna, fino allora considerata la prima nazione commerciale del mondo. Nello spazio di 12 anni il valore del commercio tedesco era aumentato dell80°/0. Cfi. C. M. N 21-29. genn. 1845, Prospetto comparativo dei principali risultati del commercio con l’estero durante l’anno 1842 nella Francia, nella Lega Doganale e nel territorio doganale dell’Austria. 191 comprendere la diffidenza di taluni commercianti genovesi ad allacciare troppo strette relazioni cou la Germania. Nel 1845 tuttavia l’idea di un’unione ferroviaria tra lo Zollverein e il Piemonte era generalmente accolta con favore sia nell’uno che nell’altro paese; specialmente in Germania, che si voleva emancipare economicamente dalla Francia e dall’Inghilterra, lo sbocco in Genova appariva naturale e desiderabile, ed ugualmente in Piemonte si preferiva allacciare relazioni commerciali con la Lega Tedesca piuttosto che con l’Austria, orinai apertamente ostile agli interessi italiani (1). Solo più tardi, intorno al 1848, si cominciarono a temere in Italia i pericoli del pangermanesimo (2). A Genova dunque il problema ferroviario fu considerato sotto diversi punti di vista, che andavano dagli interessi puramente locali del commercio ligure, piemontese e lombardo fino alla considerazione della possibile conquista dell’ampio mercato francese, svizzero e tedesco. Quando poi si presentò la possibilità di raggiungere attraverso le ferrovie renane il Mare del Nord allora più fortemente si fece sentire il dissidio con l’Austria che mirava allo stesso scopo, sostituendo Trieste a Marsiglia come punto di partenza della Valigia delle Indie. Allora il problema, pur restando vitale per Genova, assunse un aspetto decisamente italiano, perchè per quella via si pensava di convogliare anche tutto il commercio dell’Italia centrale attraverso il raccordo di Parma e Piacenza, il che presupponeva un sistema di strade ferrate non più regionale, ma nazionale. Naturalmente questa veduta nazionale non era compresa da tutti, e vi si giunse a poco a poco attraverso aspre polemiche. Ad esempio la proposta dell’ingegner Castinelli di unire Livorno a Parma e così quella dell’avv. Landucci di unire Livorno ed Ancona, apparivano agli occhi del Petitti come una manovra per rovinare Genova (3). D’altra parte in Toscana, ed abbiamo visto anche in Lombardia, si accusava il Petitti di tendenze municipali e di gelosia per le troppe strade ferrate che si costruivano fuori del Piemonte (4). (1) G. Prato, Il programma economico politico della Mittelcuropa ecc. p.p. 602 - 604. (2) G. Prato, op. cit., p. 606. Già sulla fine del 1847 G. A. Papa notava (C. M. N° 253 - 2 die.) in un articolo su il giornalismo alemanno e Vinglese riguardo alle cose italiane che i Tedeschi, diversamente dagli Inglesi, mostravano poca simpatia per le aspirazioni italiane. (3) C. I. Petitti, op. cit., p.p. 108 sgg. (4) Contro tali accuse mosse al Petitti da G. Cakmignaxi, professore airUni-versità di Pisa, in un’Apologià delle concessioni per le strade ferrate in Toscana, L. 192 A Genova avveniva intanto un’evoluzione di pensiero che, almeno nella sua forma esteriore, appare improntata a sentimento schiettamente nazionale. Dico nella sua forma esteriore, perchè gli articoli dell’Erede che si occupava nel 1840 del problema ferroviario, se rispecchiavano il pensiero del Petitti, lasciavano tratto tratto trasparire quello spirito regionale ch’era innato nell’animo di molti liguri, e deWErede soprattutto. Il fatto però che l’accento sia cambiato, dimostra l’influenza che esercitava ormai anche in Genova il pensiero politico del Balbo, di Gioberti, di D’Azeglio e di tutti i moderati italiani che attraverso i loro scritti facevano opera di persuasione e di conciliazione fra le regioni della nostra penisola. Ora, per quanto non fossero pochi in Italia gli scrittori che si accusavano reciprocamente di gretto municipalismo (lo stesso Petitti non mi par sempre sereno), tuttavia, per la stessa posizione geografica delle diverse città, una rete ferroviaria italiana, rispondente a interessi d’ordine generale, avrebbe finito col formarsi. La vera nemica era l’Austria, e come tale era considerata sia a Genova che a Torino. Ma, anche in questo caso, come distinguere nettamente gli egoismi regionali dell’interesse nazionale? Perchè se è vero che la politica ferroviaria era un’arma di lotta contro l’Austria, essa colpiva però anche la Lombardia, alla liberazione della quale tendevano ormai le speranze di tanti Italiani. Infatti il sistema di strade ferrate peninsulari propugnato in Lombardia considerava la possibilità di unire Livorno con Bologna e quindi con Milano che sarebbe diventata il nodo ferroviario delle linee provenienti dall’Italia Meridionale, da Venezia, dall’Europa Centrale, dal Piemonte e dalla Liguria (1). Ciò avrebbe naturalmente diminuito l’importanza della iete piemontese. A iceversa secondo la tesi piemontese sarebbe stato opportuno condurre il traffico dell'Italia meridionale attraverso Parma e Piacenza ad Alessandria, e di qui al Sempione e al Moncenisio. In quanto a Genova, essa non riceveva direttamente vantaggio in nessuno dei due casi, ed avrebbe preferito eliminare ogni concorrenza. Perciò non poteva: essere molto favorevole alla soluzione proposta dal Petitti che, se teneva conto degli interessi di Genova, non dimenticava quelli dell’intera penisola. Vigna scrisse nn articolo sull’Antologia italiana (lei Predari, anno I, voi. I, 1816, p. 234. Anche l’Eerede prese le difese del Petitti snll’JSco dei giornali (N° 33-15 agosto 1846) ed a lui rispose nn sostenitore del Carmignani con 1111 articolo firmato S. P. riprodotto in appendice al C. M. N° 24-12 sett. 1846. (1) Cfr. articolo cit. in A. U. S.; voi. XXXIII, 1845, p. 301. Vedi pnre M. Ekkde, un serio esame, in Eco dei giornali, N" 15-11 aprilo 1846. m Egli ad esempio considerava Otranto e Brindisi come i porti destinati ad essere lo scalo della Valigia delle Indie, clie sarebbe poi passata per il Piemonte, la Svizzera e la valle del Reno fino a un porto del Mare del Nord (1). Ora, la questione del passaggio della Valigia delle Indie per Genova, in relazione con il rifiorire del commercio d’Oriente, aveva richiamato già da tempo l’attenzione dei Genovesi. Fin dal 1834 il Corriere Mercantile si era occupato del progetto dell’inglese Waghorn di allacciare l’Europa a Bombay per mezzo di piroscafi e di una ferrovia lungo l’istmo di Suez e nel 1839 aveva pubblicato un articolo del Morning JJronicle che lasciava- prevedere il pericolo che il porto d’arrivo fosse Trieste (2). Nel 1840 l’Inghilterra stabilì una linea di navigazione a vapore tra Alessandria, Costantinopoli e Marsiglia, che non toccava Genova (3). L’anno seguente riapparvero i timori di troppo stretti rapporti commerciali tra l’Inghilterra e l’Austria, a tutto danno di Genova (4), e intanto l’importanza del commercio con le Indie, monopolio inglese, andava attirando l’attenzione dei commercianti genovesi (5), insieme agli sviluppi del commercio con la Cina, ove pareva che gli Inglesi attuassero la politica della porta aperta (0). Si seguivano attentamente gli sviluppi commerciali dei porti di Trieste e di Marsiglia, e si notava che soprattutto a Trieste la marina a vapore ed il commercio con le Indie andavano acquistando importanza notevole (7). Segno dei buoni rapporti tra l’Austria e l’Inghilterra, già segnalati come pericolosi per l’avvenire commerciale di Genova e del Piemonte. Nel 1845 la questione del passaggio della Valigia delle Indie si fece più urgente, a causa dei rinnovati tentativi di Waghorn di farla passare per Trieste anziché per Marsiglia, e ben presto il problema divenne d’attualità e fu discusso non solo a Genova, ma a Torino, a Milano, a Trieste e, naturalmente, a Marsiglia, tanto più che ormai (1) Interessi concordi del Porlo di Genova, della Svizzera e dello Zollverein germanico, in Eco dei (!., N° 13-28 marzo 184t5. L’articolo era favorevolmente commentato (lall’Erede elio ne aveva enrata la pubblicazione. Fu anche pubblicato nella Gazzella d’Augusta, ilei 18 aprile 1846. Cfr. A. Codignola, op. cit., lettera 1-6 marzo 1846. Per la questione v. anche Pktitti, Delle strade ferrate ecc., pp. 26-140. (2) N° 79 - 2 ottobre. (3) C. M.'N» 60 - 8 agosto 1840. (4) N° 69 - 28 agosto, Nuove vie commerciali dell’Austria (dal Britiscli and Fo-reign Oflice). (5) C. M. N° 14 - 18 gennaio 1844, Del Commercio dell’Italia con le Indie. ((!; C. M. N° 200 - 5 sett. 1844, art. cit. di G. Papa, Del Commercio di Genova. (7) C. M. N° 37 - 18 febbraio 1845, Fondazione di una Società austriaca per il commercio coti le Indie Orientali. 13 104 si parlava di tagliare l’istmo di Suez con un canale navigabile (1). Un articolo del Lloyd Triestino, in favore del passaggio della Valigia delle Indie per Trieste, riportato dal Corriere Mercantile (2), diede occasione all’Erede di sostenere la tesi piemontese, o meglio italiana, riguardante Brindisi od Otranto come porto d’approdo del commercio orientale dell’Inghilterra (3). L’Erede è tin qui sotto l’influenza delle idee del Petitti, del quale esalta lo spirito d’italianità, osservando che « se poi l’egregio Economista dà segno di voler favorire più un sistema nell’interesse veramente Italiano, anziché l’Austriaco esclusivamente, egli non vede che ne possa venir redarguito in buona coscienza nemmeno da un giornalista triestino ». Ed in seguito dichiara di voler considerare « l’interesse generale italiano rimpetto al Commercio Universale ». Ma ben presto, svincolandosi dalla tesi propugnata dal Petitti, in un altro articolo più sincero esprime le vere speranze dei Genovesi (4). Questa volta chi fa le spese è Marsiglia, che, secondo le previsioni di S. Berteant (5) si avviava a diventare il primo porto del Mediterraneo. Ma lo stesso scrittore francese che chiamava il Medi-terraneo un lac frangati era costretto a riconoscere che per il momento Marsiglia non era ancora nella condizione desiderata, perchè l’Inghilterra, nonostante la cordiale intesa, mostrava di preferire Trieste. Ma, sostiene l’Erede, la via più breve per il commercio tra l’Inghilterra e l’Oriente non è nè Marsiglia nè Trieste, ma Genova, purché, ben inteso, non si attui la Brindisi-Voghera, cosa che pare poco probabile. E per questo bisognerà mettere il porto di Genova in condizione di sostenere il traffico enormemente accresciuto, mediante agevolazioni doganali, leggi sanitarie moderate, sistemazione ed allargamento del porto e lo stabilimento di docks tipo quelli inglesi. Ritorcendo poi la polemica contro il Lloyd Triestino, in una lettera aperta al Petitti (6), sostiene che Trieste è il porto del mondo slavo, quasi per nulla del mondo germanico, e che il vero porto di questo e (1) C. M. N° 12-16 gennaio 1846. I progetti in istndio erano tre: il primo quello più antico, riguardava mia ferrovia attraverso l’istmo; il secondo nn canale tia il Nilo e Suez; il terzo il taglio dell’istmo. Senonchè si credeva erroneamente che 1 impresa fosse assai difficile a causa di nn presunto dislivello tra il Mar Rosso ed il Mediterraneo. (2) No 98 - 7 maggio e N° 99 - 8 maggio 1846. Le vie commerciali alle Indie Orientali. (3) Un serio emme cit., riportato anche dal C. M. N° 100 - 9 maggio e 101 - 11 maggio 1846. (4) Eco dei G. N° 16- 18 aprile 1846, Un’altra ingordigia. (5) Marseille et les interéts nationaux qui se rattachent à son pori., citato dalPErede. (6) Eco dei G. No 19-9 maggio 1846. 195 dei inondo romano è Genova. Man mano poi che si inoltra nella polemica, diminuendo l’influenza delle idee politiche e nazionali da lui apprese, ma non ben assimilate, dal Petitti, l’Erede finisce col giungere a conclusioni perfettamente opposte, nello spirito, a quelle dell’amico torinese. Questo vedeva il fatto economico da un punto di vista etico, sociale e politico, quello invece riduce la politica stessa a questioni d’interessi materiali facenti capo a Genova, e lungi dall’illuminare i principi liberistici con una fede interiore, li adopera in sostegno degli interessi regionali, così come un tempo aveva adoperato i principi protezionistici. In un articolo apparso il 1° agosto (1) nega che la divisione politica sia di vero danno agli Italiani, perchè l’utilità dei singoli stati si imporrà in modo tale da far trionfare in ognuno di essi la tesi liberistica. Poi, riprendendo a polemizzare col Lloyd Austriaco e VOsservatore Triestino che avevano fatto notare che in caso di rottura dell Mentente cordiale, sarebbe convenuto all’Inghilterra far passare la Valigia delle Indie per la Germania e l’Austria, egli in favore della tesi italiana accampa ragioni non eccessivamente lusinghiere per la dignità dell’Italia stessa, almeno di quell’Italia futura preconizzata da tanti scrittori e politici e letterati. « Converrà egli allora e sempre all’Inghilterra » egli si chiede « che la sua Valigia traversi le possessioni di uno stato solo e forte, oppur quelle di più stati piccoli, i quali in una conflagrazione generale hanno unico benefìcio da implorare quello della neutralità; quelle di tanti piccoli stati industriosi che nella neutralità troverebbero il loro unico tornaconto; quelle di stati che nella necessaria amicizia inglese troveranno uno schermo sicuro contro della tempesta e perciò solo le saran più devoti? Disturbare il commercio inglese nell’india, sarà sempre l’oggetto massimo di chi avverserà la potenza britannica. L’Italia e lo Zollverein avranno sempre un interesse conforme in questo all’inglese; nè a tìn dei conti forza prepotente saprebbe distrameli, perchè i piccoli che vengono lesi troppo aspramente sono suscettibili di sforzi tali che li rendono rispettati, chè ivi il patriottismo è più concentrato (!) e capace perciò di sforzi straordinari. L’Olanda ne presenta non pochi esempi e Genova nostra non ci smentisce. » Perciò PErede considera utilità inglese far passare la Valigia per l’Italia, ma protesta che bisogna che gli stati italiani abbandonino le « grettezze dell’individualismo », le « malnate rivalità che non possono ormai trovar più scusa »; bisogna invece che tutti « gioiscano del bene generale ». (1) Eco dei G., N° 31-1846, Informi commerciali d’Italia. 100 Tutto il discorso è pieno di mal celate contraddizioni che dimostrano chiaramente come l’Erede, e con lui molti dei Genovesi del medio ceto, abbiano imparato a memoria gli insegnamenti del Balbo, del D’Azeglio, in generale degli uomini appartenenti al partito moderato italiano e li recitino senza averli capiti. Mentre egli combatte il regionalismo, tutto il suo discorso è improntato al regionalismo più genuino. Lo stesso accenno ad un patriottismo che all’occorrenza avrebbe potuto diventare eroico, quasi per disperazione, mostra l’intima essenza di un pensiero non sorretto da alcun ideale politico ed italiano, ma soltanto dalla considerazione pura e semplice dei bisogni materiali della media borghesia genovese, in vantaggio della quale gli stati italiani avrebbero dovuto uscire dalla « grettezza deirindi-vidualismo ». Che tale fosse la mentalità di Genova, patria di un Mazzini, di un Mameli, di un Pareto e di un Vincenzo Ricci, strenui sostenitori della libertà e della dignità del popolo genovese e italiano, non affermiamo certamente. Le tendenze unitarie di Genova, l’eroismo, sia pur disordinato e mal guidato, di certi movimenti popolari, non sono smentiti da queste dichiarazioni imbelli e grette. Esse mostrano tuttavia un aspetto non trascurabile dell’opinione pubblica genovese, e l’intimo contrasto delle forze molteplici che la guidarono negli anni sventurati e gloriosi della nostra prima guerra per il Risorgimento Nazionale. In quell’anno stesso Genova al pari di ogni altra città d Italia fremeva di entusiasmo per l’atteggiamento liberale e italiano del nuovo Pontefice, che pareva prometter gran cose. Nel settembre poi si radunava a Genova quell’Ottavo congresso degli Scienziati che è stato definito il primo parlamento nazionale italiano, e che proprio nella questione delle strade ferrate ebbe a propugnare apertamente gli interessi dell’intera Italia, come se già fosse stata unita, in relazione al suo commercio orientale, transatlantico e transalpino (1). L’atteggiamento genovese di fronte al problema delle strade ferrate, appare più evidente in una memoria di Giuseppe Papa, che doveva venire alla luce nell’aprile del 1845, ina di cui, per cause indipendenti dall’autore, fu ritardata la pubblicazione fino all’ottobre del 184G (2). La memoria dimostra, per lo spirito con cui è scritta, (1) Cfr. gli Atti dell’Ottavo Congresso degli Scienziati a Genova, Genova, 1846: Rapporto fatto al Congresso degli Scienziati a Genova dal Canta nulle strade ferrate italiane. (2) Ciò è detto esplicitamente dal l’autore in nota all’articolo, pubblicato sul C. M. nei numeri 212-213-214-220 -223-221-228-229-231, ottobre 1846, cou 197 quel contrasto intimo che già abbiamo avuto occasione dinotare come caratteristico del pensiero di molti patriotti genovesi. Da un lato essa è ispirata ad un geloso regionalismo, invano mascherato; dall’altro, nel tono antiaustriaco e nell’aperta discussione dei problemi italiani, rivela un prepotente bisogno d’indipendenza, di lotta contro lo straniero, capace di superare gli stessi interessi locali, in nome di un’idea ormai nazionale. Nella prima parte della sua memoria il Papa si sforza di mostrare l’inutilità di un sistema di strade ferrate nell’Italia meridionale; ed in ciò è evidente la sua malafede. Per avvalorare la sua tesi insiste sopra la mancanza di industrie nell’Italia peninsulare, e quindi presagisce esito infelice per gli sviluppi di una tal rete ferroviaria. Per il Regno di Napoli pertanto egli propone nna linea che unisca l’Adriatico con il Tirreno, ma nessuna verso Roma. In quanto allo Stato Pontificio, l’autore vi nota un’opposizione d’interessi fra le Legazioni, geograficamente e commercialmente aderenti all’Italia settentrionale, e le Provincie romane del Mediterraneo. Perciò, date anche le difficoltà del terreno, vano sarebbe, secondo lui, unire le due parti. Il Lazio si può accontentare di una ferrovia che unisca i suoi centri abitati col Tirreno. Inutile unire Roma con Civitavecchia, Firenze o Livorno, perchè « i numerosi piroscafi guizzanti sul vicino Medi-terraneo » farebbero concorrenza ad una ferrovia littoranea. Perciò il Papa è contrario assolutamente al progetto di una littoranea da Napoli a Livorno con diramazioni a Firenze; egli dice che questo piano è prodotto « dall’ardente fantasia di alcuni ingegneri, a cui torna conto di raffazzonare progetti (1) ». Più interessante è invece il problema delle ferrovie toscane, ove la Livorno-Pisa ha già dato ottimi risultati e dove grande è il fervore degli azionisti. Ma le « fervide menti toscane » esagerano nel progettare reti ferroviarie e nel dare soverchia importanza al loro valore; spe'cialmente i progetti del signor Castinelli « eccitano riflessioni gioconde ». Il Papa fa dell’i- alcuno aggiunte e correzioni. Si tratta di nna memoria intitolata Di un sistema italiano di strade ferrale, letta alla Società Economica di Manifatture e Commercio in Genova, della quale il Papa era presidente, nelle adunanze del 28 febbraio e del 30 marzo 1846. (1) Cfr. una corrispondenza da Firenze nell’appendice al C. M. (N° 5 • 2 maggio 1846, p. 19): Delle comunicazioni accelerate fra le Indie e l’Europa, in cui l’autore proponeva elio la Valigia delle Indie giungesse a Reggio Calabria e di là per ferrovia a Napoli, Roma, Livorno, Genova, Torino, Ginevra, Parigi, Calais. 11 progetto, dell’ingegner Potenti, ora molto conciliante, ma forse appunto per questo di non pratica attuazione. 198 ronia, ma in fondo è preoccupato dell’accresciuta importanza del porto di Livorno e degli sviluppi futuri delle ferrovie toscane. L’importanza di Livorno è tanto maggiore, nota il Papa, in quanto oltre alle linee locali, altre sono progettate elie uniranno Livorno con Bologna, Modena e quindi con l’Italia centrale. Ora Livorno è minacciata da Genova, Venezia e Trieste che mirano ad accaparrarsi tutto il traffico dell’Italia centrale. Il Papa mostra di preoccuparsi molto della sorte di Livorno; ma poi osserva che ardua impresa e costo, sissima sarebbe, per una ferrovia toscana, il superar l’Appennino. Lo strano è che nel 1844 considerava facile il passaggio dei Giovi e si irritava contro chi ne indicava le difficoltà. Ma ammettiamo pure, egli prosegue, clie sia possibile unire Livorno con Bologna: di qui la linea si bifor-cherà, rivolgendosi da un lato al Lombardo-Veneto ove si unirà con la Ferdinandea, dall’altro al Piemonte attraverso Parma, Piacenza e Ca-steggio. Ciò posto, « fa d’uopo accertarsi se i toscani possano ripromettersene vantaggi efficienti, e quali da essi vennero immaginati per la futura prosperità, dell’emporio di Livorno, e per l’esportazione nell’Italia Continentale e nella Centrale, dei loro prodotti agricoli ». E qui egli comincia un rigoroso esame sul progettato sistema di strade ferrate toscane: « Il porto di Livorno, mercè la sua strada ferrata oltre l’Appennino, potrà desso prefìggersi, se non di escludere, almeno di superare il concorrimento di Trieste, di Venezia e di Genova, nelle Legazioni, a Modena, a Parma e a Piacenza? Collegandosi alla Ferdinandea, sino a qual punto le verrà concesso di far a gara con Genova, Venezia, Trieste nel traffico colla Lombardia, e per quello ideato con Vienna? Il transito Angolo Orientale per l’Inghilterra, percorrendo la Toscana e l’alta Italia, delle merci provenienti dall’istmo di Suez, è desso un sogno? Cotali obbiezioni dimostrano chiaramente lo sviluppo della Via Ferrata Livornese al di fuori dello stato, ove la concorrenza di molti va preparando una lotta, che non gli è dato di sostenere con forza pari alle malagevolezze dell’aringo. Esaminando la prima, ad occhio veggente, apparirebbe che l’emporio di Livorno, siccome il porto del Mediterraneo situato più vicino all’Emilia, abbia ad essere altresì il solo a fornirla di mercanzie provenienti dall’Oriente, e ad astrarre i suoi abbondanti prodotti agricoli. Volendo però determinare codesta preferenza in un modo affermativo, fa d’uopo che la spesa della strada ferrata per la Por-retta sia tale, da poter concedere una diminuizione sul prezzo delle condotte, sino a divenire al di sotto di quello degli empori rivali. Quando ciò non venisse ad essere conseguito, per le eccedenti somme 199 di denaro ivi profuse, le circostanze talvolta offrono un altro rimedio, quale saria quello dell’incessante moto di una grande affluenza di viaggiatori, e di molte mercanzie; cosicché coll’accumulamento dei frequentissimi proventi a buon mercato, si giungerebbe a pareggiare le esigenze del grosso capitale profondato in quell’opera; e con ciò si otterrebbero segnalati vantaggi da sopravanzare ogni altra concorrenza. Ma come conseguirli da un’intrapresa ardua, e di sì gran costo e che inoltre assai poco lascia da sperare per la sua futura frequenza? » Evidentemente qui il Papa, di solito lucido e rigorosamente deduttivo, perde le staffe per amor della sua Genova. Le argomentazioni portate innanzi hanno l’aspetto di un circolo vizioso, a cui l’autore è costretto per mancanza di argomenti più convincenti. Egli conclude affermando che Venezia e Trieste provvederanno le Legazioni per le merci provenienti dall’Oriente, e Genova per quelle provenienti d’oltre Oceano. Ecco toccato il punto! E ciò perchè le spese della strada ferrata di Genova saranno minori, nonostante la maggior distanza da Bologna, Ciò naturalmente presuppone che non vi siano per la costruenda linea ligure-piemontese le difficoltà enormi che rendono costosissima la linea toscana. I Giovi per il Papa non contano nulla, mentre quasi insuperabile, o almeno costosissima, è la via per la Porretta, L’importanza di Livorno come centro ferroviario e commerciale delle Bomagne viene così ad essere molto limitata, secondo il Papa, anche ammettendo che possa esercitare una certa concorrenza con Genova, Venezia e Trieste. Più geloso naturalmente si mostra l’Autore del traffico lombardo, verso il quale pure Livorno vorrebbe estendere Ja sua attività attraverso una linea ferroviaria. Egli accusa questo piano di nullità, osservando che il porto della Lombardia, per la sua stessa posizione geografica, è stato, e sarà sempre, quello di Genova, Più assurda che mai gli appare la pretesa dei Livornesi di voler fare concorrenza a Venezia, Trieste- e Genova nel commercio con l’impero Austriaco. E finalmente tocca l’importante questione del passaggio della Valigia delle Indie. Il valore che in Italia si attribuiva a questa era tale che non soltanto Genova e Trieste se la contendevano, nel presupposto che la via di Marsiglia non bastasse a contenere tutto il traffico. In questo caso il signor Castinelli proponeva che la si facesse passare per Livorno, Bologna, Venezia, di lì per mare a Trieste, e 200 di qui, per mezzo delle ferrovie austro-tedesche, ad Ostenda. II progetto appare assurdo a chiunque, per la sua complessità, e mostra nel Livornese uno spirito campanilistico che lo rende cieco. Ma qui il Papa fa un’osservazione molto acuta, che ricorda, in una forma assai più dignitosa per l’Italia, quelle fatte in proposito dall’Erede. Dice cbe l’Inghilterra, dopo aver tanto combattuto per raggiungere la sua posizione libera e preponderante sopra le altre potenze marittime, non potrebbe ora rendersi dipendente dalla Francia e dalla Germania, potenze rivali, col far passare le merci provenienti dall’india attraverso i loro stati. Perciò egli prevede che la Valigia delle Indie non sia per avere quell’importanza che generalmente le si attribuisce, ma che sia destinata solo al trasporto di poche mercanzie preziose di poco volume, mentre le altre sarebbero trasportate direttamente da Alessandria in Inghilterra. Il Papa anzi considera la propaganda fatta dal signor Waghorn, stimolante le rivalità fra gli stati europei, come « un tratto sagacissimo di politica inglese, piuttosto che un segnalato favore che debba arrecare gran lucro ». Ma in ogni caso, egli dice, la Valigia delle Indie non passerà da Livorno. Un sogno egli chiama il supporre che l’Inghilterra renda libero il commercio indiano. Anzi, quando il passaggio di Suez, in un modo o nell’altro sarà attivato, essa ne curerà i>iù. che mai il monopolio. Piuttosto si potrà allora pensare a commerciare con gli stati dell’Estremo Oriente non soggetti alla potenza inglese. Ma il regionalismo del Papa, fin qui tutto rivolto a combattere la tesi toscana, vien meno quando si tratta dell’Austria. Il Papa osserva cbe è impossibile parlare di un sistema nazionale di strade ferrate fìncbè c’è l’Austria in Italia. Egli è più nella realtà di tutti coloro che negli scritti e nei Congressi discutono dell’Italia come se già fosse unita, ma nello stesso tempo mostra più apertamente da cbe parte stia il male. La stessa Lega Doganale Italiana, desiderata tanto dai toscani, riuscirà vana a causa della presenza dell’Austria. E toccando più da vicino i rapporti tra Austria e Piemonte e la loro politica ferroviaria dice: « L’antagonismo inevitabile cbe viene ingenerato dall’azione costante della località, tra codeste due linee di stade ferrate (la ligure-piemontese e la Ferdinandea) mette in orgasmo da una parte l’idea puramente italiana e perciò nazionale, di far prevalere la sua indipendenza ed i vantaggi concessigli largamente dalla natura, per collegarsi cogli stati italiani e per estender il proprio traffico nelle contrade d’oltramonti; dall’altro la boria straniera che, irrequieta, agogna a voler concentrare in se gli 201 interessi tutti della penisola, e con ciò impedisce ogni moto dei suoi vicini, il di cui sviluppo oggimai scuote e annichila l’esclusiva sua sovrastanza ». Fiere parole ammonitrici, che mostrano la consapevolezza delle esigenze spirituali del popolo italiano ormai in movimento d’ascesa. « Ed è un fatto costante che, nell’età nostra, l’attitudine economica di ciascuno Stato, lia bisogno più che mai di una vivacissima concatenazione di interessi estesa al di fuori, onde mettere a profitto siffatti conati colossali, a cui ogni popolo mira con soddisfazione e speranza. Alla Guerra soltanto è dato di deludere simili aspettative legittime e necessarie all’avviamento di una nuova era di civiltà fra l’europea famiglia ». Cioè, il moto d’ascesa del popolo italiano risponde al progresso morale, sociale, politico ed economico dell’Europa intera, che naturalmente tende a darsi un assetto liberale contro il quale dovrà ricorrere alle armi e certamente perire chiunque vorrà opporsi. C’è in questo concetto, l’eco della più genuina essenza del nostro Risorgimento, che se fu socialmente problema di educazione, dal punto di vista politico si ispirò ad un ideale di giustizia internazionale, destinato a frantumarsi parecchi decenni dopo contro l’amara esperienza della politica europea (1). Ma accanto a questi sentimenti rivolti alla cooperazione pacifica e sincera tra le nazioni, l’interesse privato, l’egoismo, la grettezza riprendono di tratto in tratto il sopravvento, sia nelle questioni riguardanti Genova e Torino (2), sia in quelle internazionali. Ad esempio, ci si era tanto preoccupati a Genova per la questione della Valigia delle Indie: nel 1847 l’Inghilterra, abbandonando l’originaria idea di fare di Trieste il suo scalo, si era rivola a Ge- (1) Così l’anno seguente lo stesso Papa parlava (li nna « nuova era » di fratellanza internazionale, basata sni principi (li reciproca libertà e di un accostamento tra i popoli che ricorda il cosmopolitismo del secolo precedente; Cfr. C. M., N° 36-17 febbraio e N° 37-18 febbraio 1847: Un nuovo ramo d’industria importato nello Stato. Cfr. anche II sistema mercantile e le sue conseguenze f.to: Il Commercio, in C. M. N° 86-98-99-105, Aprile-maggio 1847. (2) Ad es., quando nel 1847 alcuni capitalisti piemontesi decisero di fondare una banca a Torino sull’esempio di quella di Genova, i Genovesi elevarono proteste e tentarono in ogni modo d’opporsi. Nella questione della ferrovia, della stazione d’arrivo ecc., le diffidenze e le proteste dei Geuovesi continuarono, senza avere alcun fondamento che le giustificasse. Lo stesso libro del Petitti sulle ferrovie italiane dispiacque percliè risolveva la questione in senso troppo italiano e troppo poco genovese. E gli esempi si potrebbero moltiplicare, a proposito della Società Cavagnari, della liquidazione della Banca S. Giorgio, ecc. Cfr. per tutto questo Codignola, op. cit., lettere LXXVII, 13 aprile 1847-LXXXII 6 maggio, LXXI 23 marzo e passim, 202 nova, iniziando trattative per mezzo del signor Emerson. Ma gli armatori genovesi lo attraversarono in tutte le maniere, temendo la concorrenza delle navi inglesi (1). Eppure era opinione generale cbe il commercio delle Indie non potesse die restare monopolio inglese! Ma tant’è, la diffidenza ed il timore superavano le più chiare considerazioni. Intanto veniva firmata una convenzione con la Penlnmlar & Orientai Steam-Navigation Company, la quale otteneva alcune agevolazioni sui diritti di porto, e l’uso di depositi e magazzini al Molo Vecchio (2). L’Erede lodò la convenzione in un articolo che piacque a corte (3): intanto, partito l’Emerson e quindi svanita per il momento la possibilità di concluderete trattative con l’Inghilterra, l’interesse per la Valigia delle Indie riprese più che mai, e con esso si accentuò la polemica con l’Austria. Si riportavano interi articoli di giornali inglesi in sostegno della tesi genovese (4). Si esprimevano voti per una rapida attuazione di un sistema ferroviario tedesco-ita-liano, facente capo a Genova (5), si polemizzava con Trieste ancora per mezzo dell’autorità della stampa straniera (6), mentre si tendeva a dichiarare che la libertà di commercio avrebbe potuto essere attuata anche se paesi vicini, come l’Austria, vi si fossero opposti (7). Così fra discussioni e contrasti, grandi sogni ed incapacità (li attuarli, esagerazioni cosmopolite e grettezze regionali, Genova alla vigilia della prima guerra per l’indipendenza si preparava a seguire ed in parte a dirigere il moto del Risorgimento Italiano. Intanto le opinioni andavano unificandosi (8), in vista delle gravi questioni politiche determinate dal dissidio austro-piemontese, che pareva dover condurre ad un urto imminente. La necessità di conciliare i diversi punti di vista, sia tra le varie provincie che tra le classi sociali itaci) A. Codignola, op. cit., lettera LXI, 24 febbraio 1847. (2) C. M. N° 59-16 marzo 1847. (3) L’articolo, comparso sulla Gazzetta di Genova del 18 marzo 1847, era intitolato Piroscafi inglesi a Genova. Cfr. A. Codignola, op. cit., lettera LXX, 19 marzo. (4) Articoli del Daily-News riportati in C. M. N° 167, 195 - 4 agosto - 15 sett. 1847. Il secondo riporta tre carte ferroviarie d’Enropa, secondo lo stato attuale e quello futuro delle reti più interessanti per Genova. (5) C. M. N° 202 - 24, 25 sett. 1847. (6) C. M. N° 205-30 settembre, 206-1 ott. 1847. Articoli del Dailg-News. (7) C. M. N° 211-7 ott. 1847, Il libero commercio, se possa aver luogo in uno stato attorniato da paesi soggetti al sistema mercantile, di P. Righetti; art. riportato dal Commercio di Roma. (8) Rapporti politici del cav. Luciani, I e II semestre 1846 in appendice all’opera citata di A. Colombo. 203 liane (1), si imponeva ormai come un dovere ed una condizione indispensabile per la buona riuscita della lotta. Perciò, prevalendo ormai su ogni altra considerazione quella politica, anche il dissidio fra Genova e Torino, nel fervore dell’entusiasmo, venne meno, salvo a manifestarsi poi più violento quando alle speranze arditissime sottentrò la delusione della sconfitta. (1) Sulla necessità di concordia tra le classi sociali e principalmente tra nobiltà e borghesia v. la nobilissima lettera di L. C. Farini a Massimo D’Azeglio: Dei nobili in Dalia e dell’attuale indirizzo delle opinioni italiane, in Antologia Italiana, Torino anno I, voi. II, 1847 p. 145 e segg. In esso l’Autore, riferendosi ad un articolo di Pompeo Litta comparso l’anno precedente sulla Revue des deux mondes, esaltava il partito moderato contro i democratici radicali che facevano il giuoco dell'Austria. Al Farini rispose Massimo D’Azeglio sulla stessa Antologia (anno II, voi. Ili, 1847 p. 48 e segg.) osservando che in Italia, eccetto in parte in Piemonte, non esisteva vero distacco tra borghesia e nobiltà, e che occorreva in ogni modo favorire ogni benché piccola tendenza all’unione delle classi, sulle basi della legalità, ottenuta per mezzo di leggi sicure e stabili. CAPITOLO SETTIMO Problemi economici e spirilo pubblico genovese dal settembre 1847 all’aprile 1849. Il momento politico in Italia — Il partito « dell’ordine » genovese — Lei cosi detta « unione delle opinioni » — Forze rivoluzionarie in Genova fino alVaprilc del ’49 — Le classi commercianti di fronte al problema delVunità — Il movimento commerciale nel Porto di Genova secondo una relazione di G. Papa — Confronto fra il commercio marittimo genovese nel 1848 e quello di un ventennio innanzi — Conclusione. È noto qual vasta eco di consensi, (li speranze, (li entusiasmi abbia suscitato in tutta Italia l’elezione di Pio IX ed i primi atti del suo pontificato che parvero tradurre luminosamente in realtà l’utopia giobertiana. L’atteggiamento politico di Carlo Alberto, ormai apertamente antiaustriaco, dimostrato in diverse occasioni dal 1846 in poi (1); le trattative condotte con Leopoldo di Toscana ed il Papa per attuare quella Lega Doganale die, alla mente fervida dei nostri patriotti, pareva il nocciolo della futura confederazione italiana (2); le libere discussioni del Congresso Scientifico di Genova e quelle dei Congressi Agrari di Mortara e di Casale (3); la maggior libertà (1) Cfr. A. Colombo, op. cit. p., 186 a proposito di una medaglia fatta coniare da Carlo Alberto nel 1846, rappresentante l’aquila di Savoia clic piega un leone, col motto J’attends mon astro, e p. 212 a proposito delle vaste ripercussioni a Genova della coraggiosa denunzia di Carlo Alberto sulla Gazzetta Ufficiale del 2 maggio 1846 riguardante la prepotenza austriaca. (2) Sulle trattative per la lega doganale v. Gentili, op. cit. (3; Sui Congressi di Mortara (sett. 1846) e di Casale (sett. 1847) e sull’atteggiamento del Re durante le sedute di quest’ultimo v. G. Prato, op. cit., pp. 409, 442. Per il testo della famosa lettera inviata dal Re al Congresso di Casale v. N. Bianchi, Scritti e lettere di Carlo Alberto, in Curiosità e ricerche di storia subalpina, voi. III, p. 753 sgg. 205 di stampa; i contatti sempre più frequenti fra uomini di regioni diverse ed infine l’agitazione ed il fermento che contemporaneamente si manifestava in Francia, in Isvizzera, in Prussia e nell’Austri a-Un-glieria; tutti questi fattori ed altri che più o meno direttamente si ricollegavano ad essi, contribuivano a produrre verso la metà del 1847 uno stato d’esaltazione e di attesa che ben presto si manifestò come azione diretta al duplice scopo di conquistare la libertà e l’indipendenza. Il movimento per la libertà assunse in Italia aspetti diversi a seconda ch’esso fu guidato dai moderati o dai rivoluzionari, tendendo i primi ad ottenere riforme gradatamente con mezzi legali, i secondi a conquistarle violentemente abbattendo tutti i vecchi ordinamenti. Il problema delVindipendenza, che si doveva risolvere ne^ cessariamente con la. guerra contro l’Austria, rendeva però urgente il problema dell’assetto futuro della nuova Italia, e naturalmente era destinato a sollevare le più gravi questioni. A Genova il fervido entusiasmo per la gran causa italiana, che lino al 1840 si era manifestato attraverso polemiche economiche e commerciali e, più segretamente, nei circoli privati, nelle sette segrete, tra le file (lei mazziniani, salì alla superfìcie e conquistò le piazze nel settembre del 1847, per quanto già fin dal 5 dicembre dell’anno precedente, in occasione del centenario di Portoria, fossero state fatte dimostrazioni significative (1). Sull’atteggiamento politico dei Genovesi dal 1847 al 1849, .sul lavorio delle sette e sull’azione dei vari partiti esistono lavori importanti che, se non mirano di proposito ad occuparsi di tutti gli aspetti dell’opinione pubblica e del suo evolversi di fronte al corso degli avvenimenti, tuttavia continuamente la illuminano (2). Credo perciò inutile diffondermi sulla narrazione delle vicende occorse in Genova in questi anni o tentare un giudizio complessivo sullo spirito pubblico genovese, intorno al quale il carteggio Petitti-Erede, pubblicato da A. Codignola, costituisce la fonte migliore e quasi lo specchio in cui esso è fedelmente riflesso. (!) A. Colombo, op. cit., p. 239 sgg. (2) V. per questo A. Codigoxla, Goffredo Mameli, la vita e gli scritti, ediz. del Centenario, Venezia, voi. I - A. Codignola, Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri, cit. - F. RiDELLA, La vita e i tempi di C. Gabella, cit. - G. Gallo, L’opera di Giorgio Doria a Genova negli albori della libertà, Genova 1927. V. pure G. Lokigiola, Cronistoria documentata illustrata dei fatti di Genova, marzo-aprile 1849, San Pier D’Arena 1898. Quest’opera, sebbene scritta a scopo di polemica ed assolu-firniente unilaterale nei giudizi, è interessante per l’abbondanza dei documenti e per la precisione cronologica della narrazione. 20G 11 fondo regionalistico e cittadino die animava i Genovesi treii-t’anni innanzi non era- venuto meno. Soltanto esso fu per un certo tempo superato dalla speranza di un’imminente soluzione unitaria, che molti speravano repubblicana, del problema italiano, e, tra i migliori elementi del partito moderato, da una buona volontà di conciliazione con Torino (1). La forza dell’opinione pubblica genovese, guidata e sorretta, lino all’armistizio Salasco, dal partito liberale moderato, contribuì efficacemente a spingere parlo Alberto alla concessione delle riforme del ’47, allo Statuto ed alla guerra contro l’Austria. Anima del partito moderato genovese fu il marchese Giorgio Doria, che nel settembre 1847 fondò quella Società dell1 Ordine, che con la persuasione e con l’autorità dei suoi componenti agì da moderatrice in tutti i moti popolari e seppe tenerli lontani dagli eccessi. Essa costituiva il nucleo centrale del grande partito riformista nazionale (2). L’azione di G. Doria e della Società dell9Ordine rappresenta così come un anello di congiunzione fra l’animo dei Genovesi, le aspirazioni dei quali si facevano precise, e quello del Ile, incerto e timoroso di troppo concedere (3). La posizione dei moderati era perciò oltre modo delicata, perchè essi dovevano lottare contro forze (1) Cfr. il Rapporto politico del Direttore di Polizia di Genova, I seiu. 184G in A. Colombo, op. cit., p. 324. (2) F. Ridella, op. cit., p. 102. V. in questa pagina anche l’elenco dei principali membri della Società. (3) Nel settembre 1847 G. Doria, G. Balbi Pioverà e C. Serra stabilirono di recarsi in deputazione a Torino per chiedere al Re la Guardia Civica e libertà di stampa. Essi furono prevenuti dal Re che li fece chiamare a Torino, sostituendo G. B. Raggi al Serra; furono ricevuti il 17 settembre molto gentilmente dal Villamarina e dal Re, il quale disse di essere ben deciso a difendere l’onore nazionale contro l’Austria, ma non diede nessuna speranza circa le concessioni richieste. Il Doria ricevette invece iu seguito una lettera del Villamarina che esplicitamente dichiarava non essere intenzione del Re accordare le riforme richieste, il che provocò naturalmente il risentimento dei moderati, ed nna maggior influenza dei radicali. Nelle sedute in casa Doria per discutere della risposta al Ministro troviamo infatti uomini come D. Pellegrini, V. Ricci, il farmacista Di Negro ed il Canale. Ciò spiega il proposito avanzato da molti Genovesi di accogliere il Re, al suo arrivo a Genova ai primi di novembre, con una gita in massa dal lato opposto della città; proposito che poi venne meno in seguito alle riforme concesse. Per queste notizie v. F. Ridella, op. cit., p. 105, A. Codignola, op. cit.., lettere CVII, 18 sett., e CVIII, 21 sett. 1847; la lettera 14 sett. 1847 (11 Direttore della Polizia di Genova al Paulucci) in cui si parla dell’intenzione dei tre patrizi di presentare la supplica al Re; le confidenziali 14 e 15 sett. del Lazzari al Paniucci in cui il primo dava disposizioni circa i tre patrizi di cui sopra; le lettere 28, 29 sett. (Il Direttore della Polizia di Genova al Paulucci) in cui si parla della reazione di G. Doria e del suo partito di fronte alla lettera del Villamarina, scritta in data 24 sett. Questi documenti si trovano in A. S. G., Prefettura Sarda, pacco N° 58. 207 avverse a Torino ed a Genova, rappresentate dal Re ancora indeciso e dal partito conservatore da un lato, e dai rivoluzionari impazienti dall’altro. A queste forze avverse, clic occorreva combattere o guidare per adoperarle ai propri fini, si aggiungevano le forze occulte, dissolvitrici, dei Gesuiti (1) e degli austriacanti, che sobillando il popolo tentavano di condurre le cose ad un punto tale da rendere necessaria una reazione governativa che spegnesse per sempre ogni velleità di progresso, di riforme e di guerra (2). E poiché contro queste forze si appuntavano, seguendo metodi diversi, i moderati, i rivoluzionari, gli unitari, i federalisti, i monarchici, i re-pubblicani, i sostenitori di Casa Savoia e gli irreducibili suoi oppositori, si può comprendere come sia difficile seguire e determinare nei suoi vari aspetti l’opinione pubblica genovese in quei due anni così densi di avvenimenti che vanno dalle riforme alle giornate dell’aprile 1840. Il districare questa matassa richiederebbe un lavoro a se, e forse la sua utilità sarebbe relativa, perchè, volendo dare un quadro d’insieme, si cadrebbe nell’errore di voler trovare un motivo centrale dove le armonie e le dissonanze sono innumerevoli, mentre, volendo seguirle tutte, si farebbe un lavoro mancante di unità. Mi limiterò pertanto a seguire le voci dell’opinione pubblica genovese soprattutto per quel che riguarda gli interessi più vitali della città, tenendo presente che le questioni di carattere economico, che non sono mai fine a se stesse, assumono più che mai negli anni che trattiamo una tinta politica secondo la quale devono essere interpretate. I motivi che si possono in esse notare sono quelli che studiammo nel loro divenire attraverso il trentennio precedente, e cioè: amore grandissimo per Genova e stato più o meno latente di opposizione al Piemonte, tendenza all’unità e odio contro l’Austria, desiderio di libertà economica, politica e sociale ed opposizione contro ogni forma di assolutismo. Perciò non seguiremo lo sviluppo cronologico degli avvenimenti, ma cercheremo soltanto di documentare questo stato d’animo, soprattutto attraverso i fatti e le dottrine economiche, ben riconoscendo che così facendo resta nell’ombra il fervore e l’entusiasmo dei patriotti animati da puri ideali, dei mazziniani, dei giovani pronti al sacrificio e all’azione. (1) Cfr. P. Nkgiu, o]>. cit. (2) Cfr. In lettera del Direttore di Polizia di Geuova al Paulucci, in data 3 febbraio 1847, in A. S. G., pacco cit. 208 Abbiamo visto clic già «In alcuni anni si ora manifestata la tendenza, specialmente tra la nobiltà genovese, ad accostarsi alla corte di Torino, favorendo una polìtica di conciliazione fra le due regioni. Lo notava il Petitti al principio del 1847, mostrando però, nell’accenno ai due o tre gentiluomini che nell’ultimo soggiorno del Re a Genova si erano recati a fargli visita, un non dissimulato scetticismo sulla sincerità di tale atto (1). Nè dobbiamo trascurare le sue osservazioni, riguardo all’atteggiamento genovese, nel quale egli vedeva più indifferenza che opposizione. Poiché non ci dobbiamo fermare al fatto che dal ’47 in poi tante furono le dimostrazioni politiche, fervidi gli entusiasmi popolari, dignitoso Patteggiamento della nobiltà, attiva e spesso intempestiva l’azione dei circoli più esaltati; oltre una scarsa percentuale dei cittadini che comprendevano vivamente l’importanza del momento storico, seguiti da una larga partecipazione di popolani non sempre consapevoli dei loro atti, molti, troppi erano ancora a Genova estranei ad ogni interesse per la vita politica. Questa indifferenza di tanti rendeva le masse suscettibili di subire l’influenza di chiunque avesse saputo, al momento opportuno, imporsi, e giustificava le apprensioni di tutti coloro che avrebbero voluto educare politicamente il popolo, prima di lanciarlo nell’azione. Assistiamo così alla contraddizione curiosa d’una città che dopo avere fatto tanta pressione sul governo per ottenere leggi costituzionali ed organi rappresentativi, dava uno scarso contributo di partecipanti ai comizi elettorali. Questa massa grigia che non rifletteva alcuna opinione politica non è trascurabile, poiché essa era sempre naturalmente la prima a gridare quando fosse stata colpita nei suoi privati interessi; perciò la possiamo porre tra quelle forze occulte contro le quali dovevano necessariamente combattere sia i moderati che i rivoluzionari. Tra questi ultimi, specialmente tra monarchici e repubblicani, si giunse, sulla fine del ’47, ad una sorta di compromesso, che, tradotto nei termini più larghi dei rapporti tra Torino conservatrice e monarchica e Genova repubblicana parve raggiungere la tanto auspicata conciliazione degli animi. Questa unione delle opinioni, che secondo le ottimistiche previsioni del Balbo (2) era frutto delle riforme concesse che permettevano la libera discussione, non doveva durare però a lungo. (1) A. Codignola, op. cit., lettera XLVI, 6 genti. 1847. (2) Alcune prime parole nulla situazione nuova dei popoli liguri e piemontesi. Torino 1847, 2a ed., p. 23. 209 Intanto lo Statuto, ottenuto dopo tante pressioni, non accontentò affatto i Genovesi, i quali, abituati ormai da sette mesi a manifestare apertamente le loro opinioni, la notte del 6 marzo si recarono >sotto le finestre del Governatore a gridare il loro disappunto ed a formulare le loro richieste; esse toccavano quattro punti: cambiamento del Ministero, riforme dello Statuto, amnistia, e reintegrazione del generale Quaglia che era stato destituito da Governatore della Città in seguito ad un articolo del 22 febbraio sul Corriere Mercantile, nel quale aveva appunto sostenuto la necessità dell’amnistia (1). Quando poi 0. Alberto volle che i Genovesi partecipassero al nuovo ministero costituzionale, 0. Cabella (2) subordinò l’onore di essere chiamato a farne parte ai suoi sentimenti di libertà e d’amore per la città natale, mentre il Ricci ed il Pareto, eletti su proposta del Balbo, il primo agli interni, ed il secondo agli affari esteri, posero come condizioni l’amnistia, la consegna del Palazzo Ducale al Comune, e lo smantellamento del Castelletto (3). E ben presto si manifestarono dissidi tra i ministri piemontesi e quelli genovesi (4). Il Circolo Nazionale, fondato nel gennaio 1848 in seguito allo spontaneo scioglimento del Comitato dell’Ordine (5), già presieduto da (r. Doria, esercitò azione moderatrice lino all’agosto dello stesso anno, ma dopo l’armistizio Salasco gli estremisti presero il sopravvento e si organizzarono nel Circolo Italiano, che, fondato nell’agosto, chiuso per ordine governativo pochi giorni dopo, fu riaperto il 2 settembre con programma antiaustriaco ed antimonarchico (6). Oramai Fazione del popolo era scatenata. Dalla demolizione dei forti di Castelletto e S. Giorgio (8-1G agosto) (7), simboli della supremazia di Torino, alle giornate dell’aprile 1849, il cui significato antipiemontese fu invano mascherato sotto il pretesto della difesa di Genova e dell’onor nazionale contro un’ipotetica avanzata austriaca, la forza popolare, priva (1) V. A. COLOMBO, La prima infornata senatoriale in Piemonte nel 1848, in Rassegna Storica del Risorgimento Italiano, 1924, p. 465, e A. Codignola, op. cit., Lettere CLVI, 8 marzo e CLVII, 9 marzo 1848 e nota alla lettera CLV, 6 marzo. 11 Petitti giudicava queste manifestazioni genovesi come veri e propri tentativi di « scuotere ogni dipendenza » e « fors’anche di separarci di nuovo ». (2) F. Ridella, op. cit., p. 124. (3) F. Ridella, op. cit., p. 124 e 127. (4) Lettera (lei Cavour a Emilio de la Rue, 16 marzo 1848 cit. da Ridella, op. cit., p. 124. (5) F. Ridella, op. cit., p. 131. (6) F. Ridella, op. cit., p. 159 agg. (7) F. Ridella, op. cit., p. 155. 14 210 di \( li (api coscienti della gravità (tei momento, si manifestò in un crescendo contro il quale il Governo ebbe il torto di non aver saputo usare subito un atteggiamento risoluto. Alcuni sostennero che il moto di Genova subito dopo Novara non tu separatista, ma soltanto antiaustriaco e diretto a salvare la nazione da quello stacelo in cui la malaccorta politica governativa la\e\a lidotta (1). Non discuteremo circa i sentimenti della maggioranza della popolazione, la quale può benissimo essere stata sopraffatta da un gruppo di esaltati. Ma ad affermare che i dirigenti responsabili furono animati da mire separatiste basta il fatto che il Governo Provvisorio costituitosi il 2 aprile con l’Avezzana, il Morchio e il Reta permise la cacciata della guarnigione, tenne in ostaggio gli ex-impiegati governativi, finche il Governatore De Azarta non ebbe passato la frontiera; dichiarò nemici della Patria i non aderenti al nuovo stato di cose, chiamò il Piemonte alleato dell’Austria, si svincolò dall’autorità del Municipio che tentava una dignitosa via di moderazione, ed infine sostenne apertamente, finche n’ebbe la forza, la lotta contro il generale La Marmora. Il timore, anzi il panico di un invasione austriaca, si diffuse a Genova, quando, il 2(> marzo, giunse la notizia della sconfitta di Novara; ma esso fu di gian lunga superato dal sentimento antipiemontese. Quelle giornate dolorose rappresentano gli ultimi bagliori dello spirito d’indipendenza tiamandato per eredità dalla vecchia Repubblica. Scaturirono ( a un complesso giuoco di passioni diverse: così la coscienza dell’importanza politica di una città che mal soffriva di sostenere una posizione di second’ordine nel moto per il Risorgimento Italiano, mani-estatasi nel momento più inopportuno; combinandosi con l’entusiasmo patriottico antiaustriaco, con le simpatie per la Lombardia tradita, con le speranze dei repubblicani; sfruttata ed eccitata da mestatori owni ( olore (^)? tini per condurre ad un’esplosione violenta, che, pei non essere sorretta da un’idea centrale e positiva, né da uomini matura capacità politica, in pochi giorni fallì. Inoltre, se è vero e.1 mov*nien*X) *u iniziato e guidato da poclii democratici repubbli->) < < lie il popolo \ i fu guidato più dal timore suscitato da false (1) G. Lorigiola, op. cit. (2) Cfr. la nota (li A. Codignola alla lettera CLIX, 28 marzo, (lei Petitti all’Erede in op. cit., e Cenili storici di un testimonio oeculare sulla rivoluzione di Genova, in appendice alla stessa opera. (3) Cfr. Il Risorgimento N° 411-412-413, 25, 26, 27 aprile 1849, articoli del Petitti. V. pure lettere CCLXVI e CCLVII, 13 e 20 aprile in Codignola, op. cit. 211 hòtizie che da chiara coscienza di qnel che facesse e volesse, non è men vero che il popolo non sarebbe giunto a tale eccesso se non vi fosse stato preparato da uno stato d’animo di sorda opposizione contro il governo di Torino. Il vizio d’origine che si manifestò nei moti del 1840 sta appunto in questo, che le tendenze unitarie, e quindi nazionali, di Genova, furono in gran parte determinate da uno stato d’opposizione al Piemonte. Lo stesso spirito che animava i vecchi repubblicani del ’14 si manifestò nel 1849, esaltato da nuove e più vigorose passioni politiche. Solo che, accanto, era sorto pure un partito, non numeroso, ma composto di uomini retti come Cesare Cabella e Giorgio Doria, che avevano ormai apertamente abbracciata la soluzione monarchica e sabauda del problema italiano. Il venir meno di questo partito ed il prevalere degli elementi democratici dopo l’armistizio Salasco e l’esito infelice della nuova ripresa della guerra provocarono la sommossa. Queste sono le conclusioni ch’io credo di poter trarre intorno al significato politico dei moti genovesi dal settembre 1847 all’aprile 1849, in base alle opere citate, alle quali rimando per la conoscenza diretta dei fatti. Generalmente meno messi in evidenza sono gli esempi delle questioni economiche le quali influenzarono, o meglio, in questi anni, dimostrarono lo stato dell’opinione della borghesia mercantile, che rappresentava la parte più numerosa ed influente della cittadinanza. Nonostante le molte riforme concesse in senso liberale è indubbio che C. Alberto restò sempre, nell’intimo dell’animo suo, contrario a lasciar troppa libertà all’iniziativa individuale, specialmente in un tempo in cui le questioni commerciali così facilmente si intrecciavano con quelle politiche. Ancora nel 1847 molti erano glL impedimenti che nuocevano al commercio. Soprattutto occorrevano ulteriori riduzioni doganali, specialmente per le navi provenienti dalla Sardegna (1). Le riforme concesse alla fine dell’ottobre, se suscitarono un immediato e generale entusiasmo in tutta la Liguria (2), lasciarono molti scettici e malcontenti a Genova, ed altri desiderosi di ulteriori riforme, sia di carattere economico che politico. Così, mentre il popolo sperava nell’abolizione dei diritti sui vini sardi e in una riduzione del prezzo del sale, la borghesia chiedeva riforme doganali ed (1) Lettera «lei Direttore di Polizia al Governatore di Genova, 26 ott. 1847 in A. S. G., Prefettura Sarda, pacco N° 56. (2) Vedi lettere dei Comandanti militari e delle Divisioni della Liguria iu A. S. G., pacco cit. esigeva, un’assoluta libertà di stampa e l’amnistia per i carcerati poli-i (1). Lesteggiatissimo fu il Re durante il suo soggiorno a Ge-no\a, ( molte furono le richieste a lui direttamente presentate. Durante h feste d occasione, improntate a un vivo senso di fratellanza ij'Uu 1)1( 111011 tese, la marchesa vedova Pallavicini « andava insinuando <* io la nobiltà era in dovere di implorare dal Sovrano tutti quei mi^lioiamenti politici, commerciali e civili, che erano chiesti dai tempi, fossa o stati pure nonché indifferenti, nocivi alla loro classe, ma pur-< u tendesseio a favorire il popolo e lo stato. » Soprattutto si chie-(|eva 1*(^uz^01ie ^ prezzo del sale, lega doganale, abolizione dei diritti fra la Sardegna ed i Regi Stati (2). Ancora una volta dunque i problemi di carattere economico ciano inkipietati da un punto di vista sociale. Ma intanto i metodi fletti della burocrazia piemontese continuavano, sicché crescevano le lamentele dei viaggiatori e dei commercianti contro l’eccessivo iì^oic e la malafede dei doganieri, agenti ed impiegati d’ogni genere (3). L annuncio della Costituzione della tanto, discussa e deside-lata Lega Doganale provocò la soddisfazione generale dei Genovesi (4), ma quello non poteva essere che un primo passo verso ulte-ìioii sviluppi destinati a raggiungere l’unione o la confederazione di tutte le provincie italiane. Ciò era detto esplicitamente in una lettera di Alberto Ricci a mcenzo, sciitta da Amburgo il 3 gennaio 1848. Dopo avere spiegato perchè la città libera di Amburgo non aveva voluto mai far pai te della Lega Doganale Tedesca, ove la classe industriale, troppo oite, a\iebbe nociuto agli interessi di quel porto franco, il Ricci ossei \ ava. «Come ben scorgi la posizione di Genova è ben diversa, 1 c ie essa in sostanza non gode che di un semplice entrcpót che . °yi'a ,seinPle (*ontinuare in qualunque condizione. Che anzi po-re c essa ìiprendere l’antico splendore, perchè tolti, lungo tutta )s a mediterranea i privilegi e le protezioni, la navigazione li-gi potrebbe sosteneie la concorrenza in ogni parte colle bandiere naziona ì ». Ma l’attuazione sarà difficile, e bisognerebbe che vi fosse < non importa dove » qualche persona capace, che il Ricci non vede. L g,à difficile sopprimere « l’assurda dogana » tra Sarde- pacco(citLettera del Dirett0re * Polizia al Governatore, 2 nov. 1847, in A. S. G., (2) Lettera dello stesso allo stesso 5 nov. in A ^ r (3) Lettera dello stesso allo stesso 8 nov.’ in A S C' ^ °V (4) Lettera dell* stesso a,lo stesso !0 nov^^n A.\ Vp“t. 213 gna e la tèrra ferma, figuriamoci in tutta Italia! « Il Governo raccoglie ora i frutti amari dello stato d’ignoranza nel quale furono lasciati per tanto tempo codesti paesi, e mentre ognor più vivo si sente il bisogno d’impiegati capaci, si sa sempre meno dove mettere le mani. Perciò io porto opinione che il Governo non lascerà a lungo sussistere l’incominciato giornalismo, perchè altrimenti si vedrà che le capacità non sono tutte al loro posto » (1). È evidente in questa lettera la diffidenza per la sincerità del liberalismo del Ile, ed anche un certo disprezzo per le capacità dei ministri piemontesi. Ma lo Statuto, per quanto considerato inadeguato, e le prime operazioni vittoriose dell’esercito piemontese in Lombardia, fecero dimenticare per un certo tempo le questioni economiche. Anzi il fervore patriottico fu tanto che il 23 marzo 1848 la Camera di Commercio stanziò una notevole somma a favore dei bisogni dell’erario, precorrendo volontariamente il prestito forzoso a cui furono chiamati i contribuenti degli Stati Sardi con E. Editto 7 sett. 1848 (2). Ma proprio in occasione di questo prestito si manifestò quel nuovo stato d’opposizione contro il Piemonte che aveva seguito l’armistizio Salasco. Esso infatti fu malvisto a Genova e quando nel febbraio 1840 il Governo si trovò nella necessità di lanciarne un altro, a Genova si sollevarono difficoltà e si propose di tentarlo piuttosto all’estero (3). Intanto, mentre i più esaltati attaccavano il Governo sulle piazze, altri cercavano di documentare l’insufficienza delle riforme concesse e si preparavano a chiederne altre. Nel campo economico commerciale è notevole per la precisa documentazione e per lo spirito che lo anima un lungo rapporto di G. Papa inviato nel febbraio del ’49 a Y. Ricci, allora Ministro delle Finanze. Il Papa, pur mantenendosi lontano dalle violenze dei partiti estremi, si era sempre più staccato negli ultimi due anni dai moderati, tanto da suscitare le ire del Petitti che invano lo scongiurava, attraverso l’Erede, di non compromettere là situazione alimentando l’odio tra i partiti e tra Genova e Torino (4). In realtà al Papa stavano grandemente a cuore gli interessi di Genova. È significativo il fatto che in un periodo così agitato di passione politica egli sia occupato a raccogliere documenti per la (1) In M. S. R. N., di Genova, carte Ricci, N° 546. (2) C. Migli, op. cit., p. 119. (3) Lettera del Procuratore Generale L. Gastaldi a V. Ricci, 27 gennaio 1849 in M. S. R. N. di Genova, carte Ricci, N° 2614. (4) Cfr. Lettera all’Erefle CXC, 22 giugno 1848, in Codignola, op. cit, 214 sua memoria. C’è, nel suo atteggiamento, qualcosa che lo distacca tanto dai liberali moderati quanto dagli estremisti e che fa riconoscere in lui il rappresentante dell’opinione delle classi commercianti genovesi, aliene dai vasti sogni dei patriotti ardenti, e propense piuttosto ad una politica nazionale su basi economiche, positive, nella scia del liberalismo europeo. In una lettera a Y. Eicci, dell’8 gennaio 1849, dopo avergli esposto l’andamento del suo lavoro, il Papa osservava: « Generalmente parlando; il popolo non apprezza il Governo riformato, se non in ragione di quello che porga. Ignora le teorie puramente politiche, e quindi hassi a trovare il mezzo di fargli tenere in pregio le istituzioni liberali ottenute, mercè i miglioramenti economici. Le masse hanno bisogno di confronti che feriscano i sensi, e non già certi sistemi di poeti politici che ‘demoralizzano la nazione, e la screditano in faccia agli stanieri popoli, potenti, industriosi, positivi e liberi » (1). Il 19 febbraio il Papa inviò finalmente a V. Eicci tre manoscritti (2). Il primo riguarda le &pese di porto e di navigazione nei E. Stati di terraferma; il secondo tratta dei diritti imposti da sei nazioni ai loro navigli mercantili, per metterli a confronto con quelli sardi; l’ultimo è un cenno critico per mettere in evidenza « la necessità urgentissima della pronta abolizione de’ rimanenti diritti differenziali ed i gravami cui sottostà... la marineria nazionale », per le forti spese di porto, di navigazione, di consolato ecc.; esso termina col suggerire i rimedi. Nella lettera che accompagnava i documenti il Papa richiamava l’attenzione del Ministro sugli « enormi abusi » che inceppavano il moto del porto di Genova e sulle lagnanze che in proposito avevano sollevato i Consoli di Francia e di Inghilterra (3) « ma » aggiungeva (1) In M. S. R. N. di Genova, carte Ricci N° 2523. (2) In M. S. R. N. di Genova, carte Ricci N° 1572, Scritti e documenti riguardanti la navigazione e il movimento commerciale nel Porto di Genova. (3) Il Papa voleva con ciò forzare l’atteggiamento del Ministero sopra una questione allora in corso tra Londra e Torino. Il I gennaio infatti il Ministro Abercromby aveva inviato al Gioberti una nota sui diritti differenziali, tendente alla loro totale eliminazione e velatamente minacciante rappresaglie in caso di rifiuto. Ciò faceva parte di un più vasto disegno del Ministro inglese di far votare alla Camera un nuovo bill di navigazione su basi liberisti che. In una Nota per la risposta al Ministro d'Inghilterra, il Gioberti osservava che era discutibile se l'abolizione totale di quei diritti fosse convenuta agli Stati Sardi; ma che, essendo già stati stipulati accordi di reciprocità con la Russia, collo Stato Pontificio e con le due Sicilie, il Ministero era disposto ad accettare la proposta inglese. Con ciò si voleva salvare, in linea massima, il principio caro ai conservatori piemontesi^ 215 « perciò che riguarda il riformare, converrà andare a rilento, per non urtare ne’ tempi difficili che corrono, gli interessi di alcune classi di individui privilegiati inservienti il porto »; nelle quali parole è dato cogliere la preoccupazione, nuova negli ambienti genovesi, per un possibile manifestarsi del pericolo sociale. Il Papa chiudeva la lettera chiedendo un impiego governativo, perchè il regime era ormai « consentaneo » alle ‘sue opinioni, e alle opinioni del Mercantile, diretto da suo figlio. Come è noto, era allora al potere un Ministero democratico con a capo il Gioberti. Il criterio dunque che il Papa avrebbe voluto seguire era quello di un graduale progresso sulla via delle riforme economiche, su basi sempre più largamente liberistiche; era in sostanza il programma seguito dal Governo di Carlo Alberto negli ultimi anni, lodato già dal Papa e dall’Erede; il programma che aveva condotto alla Lega Doganale e alle riforme del ’47 e che politicamente aveva condotto allo Statuto del ’48. Gli interessi di altre classi, e non soltanto degli inservienti del porto, ma dei marittimi e degli.industriali, non potevano essere posti da un lato. Perciò le lagnanze del Papa, fatte nel febbraio del ’49, in un momento cioè in cui più gravi questioni preoccupavano l’Italia intera, non mi sembrano del tutto giustificate, ma piuttosto m’appaiono dettate da quello stesso spirito d’insofferenza che ormai permeava quasi tutte le classi genovesi e le teneva in uno stato di agitazione e di scontento destinato ad esplodere dopo Novara. Sebbene la forma della sua Memoria sì obbiettiva, la documentazione precisa e le lagnanze spesso giustificate, qualche volta tuttavia si può notare una certa tendenziosità. D’altra parte egli si rivolgeva ad un Genovese del quale conosceva l’animo e da cui sperava riforme opportune. I Documenti e le note riguardanti i Diritti di Navigazione cui vanno .sottoposti i Nazionali Bastimenti della Marina Mercantile mostrano all’evidenza i gravami che colpivano ancora quella stessa marina che poi si voleva sostenere coi diritti differenziali, non del tutto eliminati. Gli esempi addotti trattano di navi che tra diritti d’ancoraggio, di dogana, di ruolo, di patenti, di sanità, contributi alla cassa degli invalidi ecc., pagavano somme vicine alle mille lire in un anno, cifra che, dato il valore della moneta d’allora, non era certo indifferente. cedendo nella pratica alla nuova politica inglese ed agli interessi dei commercianti di Genova. Era quella politica di conciliazione e di compromessi ohe Torino seguiva da tempo. Per queste notizie v. Note diplomatiche sulle modificazioni proposte dal Governo inglese alla legge della navigazione: tre note ms. in M. S. R. N. di Genova, carte Ricci N° 2638, 216 Le note sui diritti d’ancoraggio, di faro, di pilotaggio, di naviga-zione, di consolato, paragonate con gli stessi diritti in altri paesi (1), mostrano che nella maggior parte dei casi le spese del porto di Genova erano ancora superióri a quelle dei porti esteri. Inoltre i diritti differenziali applicati in quei porti non comportavano una spropor* zione cosi forte come in quelli degli Stati Sardi, ove, per esempio, una nave nazionale pagava 0,30 d'ancoraggio per tonn., mentre un bastimento di nazione estera senza trattato di reciprocità pagava ben 1,20. Ma proprio su questo argomento si rivela lo spirito tendenzioso che animava l’esposizione del Papa apparentemente così esatta ed obbiettiva. Quando egli infatti impugnava l’argomento dei diritti differenziali, dimenticava ch’egli stesso nel 1846 aveva fatto notare che, praticamente, essi erano stati aboliti, in quanto tutti i più importanti stati avevano stipulato trattati di reciprocità con la Sardegna (2). I danni delle tariffe differenziali che erano stati evidenti subito dopo il 1825, non lo erano più nel 1849, almeno non più tanto da destar serie apprensioni. Ma il Papa criticava anche i trattati commerciali conclusi, in quanto essi, con articoli addizionali, tendevano sempre a conservare i diritti differenziali sugli oli, vini e grani. Ciò è vero soltanto in parte, come vedemmo, perchè generalmente dalle maggiori potenze questi articoli addizionali non furono tollerati. D’altra parte essi, come riconosceva il Papa stesso, erano stati ridotti per il grano, articolo importantissimo in Genova, a soli cent. 0,30 per mina, di fronte alla differenza di tre lire vigente prima del 1847. Inoltre le dogane sui cereali erano state tutte assai ridotte, e quasi annullate durante gli anni della carestia. Ma il Papa avrebbe voluto eliminare del tutto ogni residuo di « esoso fiscalismo » ch’egli diceva derivato dalla passata politica protezionista; temeva ancora la concorrenza di Livorno e di Marsiglia, notava che le tariffe proporzionali pagate all’Ammiragliato colpivano di più le navi piccole che le grandi, contro l’interesse di chi, facendo il piccolo cabotaggio, così di frequente toccava i porti sardi; e ciò, egli diceva, era stato dettato da fiscalismo e da ignoranza delle vere necessità commerciali di Genova. Perciò il Papa chiedeva riforme, miranti a semplificare e ad alleggerire il peso fiscale. Importante è poi la questione dei diritti consolari, ch’egli paragonava con quelli inglesi, assai più tenui, ben rispondenti alle dottrine liberisti-che colà istituite. Ma per questo bisognava che il Governo retri- (1) Gli stati con i quali è fatto il confronto sono il Granducato di Toscana, 1 Impero Austriaco, la G. Brettagna, la Grecia, la Francia e #li Stati Uniti. (2) Cfr. Diritto mercatorio intemazionale, in C. M. N° 202-204 1846, cit, 217 buisse i consoli, mentre l’ottanta per cento erano ancora onorari, e quindi la maggior parte dei contributi erano devoluti a loro. Da tutto questo stato (li cose, termina il Papa, derivava il mancato rifiorimento della marina nazionale, dimostrato dal fatto che su 19.000 marinai inscritti e matricolati, ben 7.000 erano costretti a navigare su navi estere, e quindi ad emigrare. Sullo stesso argomento importante della marina mercantile ritornò in una Relazione al Ministero delPAgricoltura e Commercio, in data 7 febbraio 1850 (1), della quale qui faccio cenno perchè tratta degli anni finora considerati ed è animata da un uguale desiderio, tuttavia insoddisfatto, di riforme più apertamente liberistiche. Per dimostrare la decadenza della marina mercantate negli ultimi anni, egli faceva osservare una diminuzione numerica delle navi dal 1842 al 1847 (2). Ma secondo i dati stessi forniti dal Papa la diminuzione si verificò bruscamente, nell’ultimo anno. Ciò significa che non tanto la politica piemontese quanto cause contingenti e particolari la provocarono. Esse potranno essere ricercate nella crisi agricola, nella situazione politica, in vendite di bastimenti: un tale esame completo e sereno avrebbe potuto fare il Papa stesso, ma le sue prevenzioni gli facevano imputare il danno soltanto alla politica piemontese. Non ch’egli, nel ’50, usasse i termini franchi deiranno prima: si accontentava di far parlare le cifre, opportunatamente disposte. Così, nel movimento delle navi nel 1848, notava una diminuzione grandissima di quelle sarde, un aumento delle navi straniere commercianti per conto proprio, una diminuzione di quelle straniere dedite al commercio di (1) Relazione della Commissione Marittima all’Ill.mo Sig. Ministro di Agricoltura e Commercio, 7 febbraio 1850. Membri fl<*lla Commissione erano: Penco G. F., presidente, Papa Giuseppe relatore, Castelli Giuseppe, Grandi Carlo, Penco Nicolò, Pareto Lorenzo, Taylor Filippo, Moraaso Gaetano, Croce Andrea, Boletti G. B., Grillo Stefano, Biga C. Augusto, Cevasco Antonio, Bussolino Carlo, Dapino Carlo, Rubattino Raffaele, Mussino Giuseppe, (in M. S. li. N. Carte Ricci, N° 1572, cit.) (2) Che le cifre presentate dal Papa siano esatte è fuori dubbio. Tuttavia doveva esservi una categoria di navi non contemplata nello Specchio dei Bastimenti inscritti nelle Direzioni Marittime di terraferma da lui compilato (cfr. allegato N° 5). Infatti per l’anno 1843 egli dà un numero complessivo di 3252 navi per 164.756 tomi., mentre gli Annali Universali dì Statistica ed il Petitti (documento N° 1 in appendice al voi. Delle strade ferrate Italiane) danno 3609 navi per 167.762 tonn* (cfr. allegato X«» 4). Confrontando le cifre dei tonnellaggi si nota che la differenza è data da 357 piccole navi di 10 tomi, di media. Dallo specchio presentato dal Papa risulta anche che dal 1842 vi fu un costante aumento tino al 1846 e che la diminuizione grandissima che pesa sulla media si verificò nel 1847, anno in cui la ctìhì e gli avvenimenti politici, non certo favorevoli allo sviluppo dei commerci, provocarono forse numerose vendite di bastimenti. 218 commissione. Ma mentre dimenticava che il ’48 era stato Panno della guerra, avrebbe dovuto compiacersi, conforme alle sue dottrine, della maggior affluenza di naviglio straniero. Del resto, il Papa limitava le sue osservazioni a pochi anni, e particolarmente influenzati da avvenimenti politici, da crisi, da trapassi dall’uno all’altro sistema economico, non in Italia soltanto ma in tutta l’Europa. Ma se avesse confrontato il commercio di Genova nel 1848 con quello di venti anni innanzi avrebbe dovuto riconoscere ch’esso era notevolmente aumentato. Ciò può esser dedotto non tanto dal calcolo del movimento delle navi in porto, essendo vari i criteri con cui furono compilate le statistiche (1), quanto dal confronto tra il commercio extra-mediterraneo del 1848 e quello di un ventennio innanzi. L’importazione che nel 1826 era stata di circa 14 milioni, superò i 00 milioni nel ’48 e l’esportazione da 9 passò ad oltre 15 milioni (2). Straordinariamente accresciuta era l’importazione dall’Inghilterra, tanto da superare i 28 milioni di fronte ai 2 di vent’anni innanzi; notevole quella dal Brasile, dagli Stati Uniti, dall’Olanda e dall’Uruguay. Certo la sproporzione del bilancio si era accentuata, ma ciò non doveva interessare tanto i commercianti quanto gli industriali e lo Stato. Nè i primi, di fronte a un tale bilancio, avrebbero potuto in coscienza accusare il Governo se era ancora titubante nell’abbracciare completamente le teorie liberistiche. Genova, all’atto della sua annessione al Piemonte, si trovava in piena decadenza; il periodo napoleonico aveva arrestato i suoi traffici, ostacolata ogni industria. Il suo rifiorire, lento nei primi venticinque anni, si accentuò dopo il ’40, sia in virtù del più largo respiro della politica economica piemontese, sia per gli orientamenti liberistici dell’Europa ed una rinata fiducia negli ambienti commerciali genovesi. E tutte le riforme doganali ed i trattati commerciali conclusi negli ultimi anni dal Governo Sardo furono in sostanza altrettante concessioni alle esigenze genovesi ed un manifesto riconosci- (1) Ad es. il Papa per gli anni 1847 e ;48 dava un numero complessivo di navi entrate nel nostro porto così inferiori a quelli forniti dal Cevasco e dagli Annali Universali per gli anni precedenti, da non poter costituire un convincente termine di confronto. Probabilmente egli non aveva calcolato la gran quantità di navi di piccolo cabotaggio che pur esercitavano un commercio non trascurabile. (2) Ricavo i dati del 182G dall’op. cit. del Cevasco, quelli del 1848 dai documenti citati del Papa. Nel calcolo non ho incluso le esportazioni e le importazioni per i porti atlantici della Spagna e della Francia non essendo possibile distinguerli, in base ai documenti del Papa, da quelli mediterrauei. Cfr, documento N° 7, 219 mento del loro valore. Certo non tutto poteva essere ottenuto di colpo. Soprattutto occorreva risolvere il problema politico e riunire le sparse membra d’Italia perchè realmente la funzione storica e geografica di ciascuna città potesse liberamente svolgersi, secondo gli interessi nazionali. Ma la via era aperta orinai; il destino di Casa Savoia segnato. Superato il torbido periodo che seguì immediatamente a Novara, nella comune sventura e nelle speranze comuni le regioni diverse dovevano affratellarsi; e le lagnanze della classe mercantile genovese dopo il ’49, non più basate sopra motivi reali, ma ancora dettate da un perdurare di spirito regionalistico, dimostrano che la piena comprensione tra i due popoli, ligure e piemontese, era possibile soltanto quando fosse stata compiuta la sognata unità, a raggiunger la quale si preparava, in un ventennio di passioni e di lotta, l’intero popolo italiano. DOCUMENTI N. 1 Relazione Anonima intorno allo spirito pubblico e alVindole del popolo genovese — (Genova, 3 ottobre 1815). (l) La Repubblica di Genova è sempre stata in tutti i tempi soggetta a continue discordie, dissensioni intestine e guerre civili. Il Popolo di questa Città è fazioso, avido di novità ed inclinato a mutar con facilità la forma del suo governo; senza riandare que’ tempi più remoti, in cui si ha dall’istoria patria che essendo questa Repubblica tiranneggiata dalle sue fazioni e dal Popolo era costretta a ricorrere alla protezione dei Principi confinanti (tuttoché stata sempre acerrima nemica della Dominazione straniera) a fine di ottenere appoggio e protezione nelle loro discordie civili, e per (lare un’idea della instabilità de’ Genovesi, darò soltanto di passaggio un’occhiata sulle vicende occorse in questa Repubblica dal decimo quinto secolo a questa parte. Gli Spaglinoli, i Francesi, i Duchi di Milano, e le fazioni Genovesi, a gara si disputavano il governo della Repubblica; venivano più volte chiamati, e rimossi più volte i Governatori del Duca di Milano, accettato più volte, e scosso il giogo della Dominazione francese, come anche del Marchese di Monferrato, che la governò pendente quattro anni. (1) Tratta «lai M. S. R. N. (li Genova, Carte Ricci N° 3503. Pubblico questo documento, non perchè faccia fede di esattezza storica (basta vedere come Vanto re presenta la sollevazione contro gli Austriaci nel 1746), ma perchè può dare un’idea della diffidenza con cui si guardava a Torino verso la nostra città allora allora unita agli Stati Sardi. 224 Le famiglie nobili, e le più opulenti, tiranneggiavano la Repubblica per la smisurata ambizione di governare: le fazioni popolari degli Adorni contro i Piegosi, e dei Piegosi contro gli Adorni turbavano continuamente la quiete dei cittadini pacifici. La città di Savona si era sottratta dall’impero della Repubblica e sotto la protezione della Francia attendeva a migliorare la sua sorte. La famiglia Grimaldi erasi usurpata il possesso di Monaco. Continue erano le macelli nazioni, le trame, gli ammutinamenti ed i massacri che succedevano in Genova tanto era l’odio del Nobili contro i Popolari, e dei Popolari contro i Nobili. Nel principio del decimosesto secolo nuova occasione ci somministra l’instabilità dei Genovesi di conoscere pienamente l’indole loro torbida, e rivoltuosa; chiesero essi per sottrarsi dalle intestine loro discordie la protezione dei Re di Francia Ludovico XII, cui diedero il governo della Repubblica; nel 1.102 questo Monarca recatosi in Genova vi fu ricevuto con le più grandi dimostrazioni e feste che dimostrare potesssero tutte le classi de’ Cittadini, ed anzi si elevarono dissenzioni fra loro, perchè ciascuna classe ambiva l’onore di riceverlo; furono sparsi fiori sul suo passaggio, tappezzate le finestre ed 1 pogginoli, e tutte infine quelle dimostrazioni con cui la popolazione poteva esternare la sua contentezza non furono omesse pendente otto giorni che si trattenne in Genova il prelodato Monarca; ma non passo gran tempo, che suscitatesi nuove turbolenze, nuove discordie tra 1 Nobili, ed i Popolari, nuove macchinazioni, trame, e congiure, fu costretto quel clemente Sovrano ad usare rigore, e contenerli con esemplarità di castighi! Demetrio Giustiniani, l’ex Doge Paolo da Novi, e non molto dopo Domenico di San Pier d’Arena e Giovanni Interiano, personaggi tutti distinti della Repubblica, pagarono il fi<> delle loro trame, con essere decapitati. Ammaestrato il Monarca da queste, e da precedenti trame, insulti e maltrattamenti usati a’ suoi Governatori, ed alle sue truppe acquartierate nella Città di Genova, conosciuta l’indole incostante, e tumultuosa de’ Genovesi ordinò, e fece costruire, a spese delia città medesima, al Capo di Faro, ossia alla Lanterna, nel 1507, una formidabile fortezza, che fu chiamata la Briglia, la quale poi fu pochi anni appresso, cioè nel 1513, intieramente distrutta dal Popolo, alla di cui demolizione vi assisteva lo stesso Doge Ottaviano Fregoso. In detto anno 1513, quattro cambiamenti subì il Governo di Genova. Pochi anni dopo Andrea Doria si dimette dal servizio del Re 225 di trancia, di cui era Ammiraglio, e si rivolge a quello di Carlo V imperatore d’Austria, e seco adduce dodici galere di sua proprietà, onde potere con maggiori forze, unitamente a quelle della Repubblica, scacciare, come eseguì, dal suo territorio i Francesi che vi erano presidiati, prendendo col tradimento, e còlla forza, la fortezza del Castelletto che dominava la Città, e per la sua posizione ne imponeva essenzialmente, di qual fortezza non esiste più vestigie alcuna. Fu indi data alla Repubblica una nuova forma di Governo nel 1528, promossa questa dall’Andrea Doria in cui furono elette 28 Case Nobili dette Alberghi, che esclusivamente dovessero governare la Repubblica. Succedettero poco dopo nuove macchinazioni, trame e congiure; ma siccome sarebbe troppo dilungarsi a parlarne di tutte, mi limiterò ad indicare quelle che più hanno fatto rumore, e delle quali esistono tuttora nei diversi quartieri della Città, marmoree iscrizioni infamatorie ai nomi e famiglie dei Congiurati, coll’indicazione della pena che hanno subito. Nel 1534 il Nobile Tommaso Sauli, Agostino Granara, Corsanico, subirono la pena capitale delle loro trame. Altra congiura fu intentata, e scoppiò nella notte dei 2 Gennaio 1547, dal conte Gio Luigi Fieschi, ma fu repressa dal maggior numero del partito contrario, ed ebbe line colla morte accaduta al conte Gio Luigi che restò annegato nella Darsena. Altra del marchese Giulio Cibo nel 1550 che insieme con Ottaviano Zino congiurati furono decapitati in detto anno. Una sommossa popolare ebbe luogo nel 1575, in cui il popolo si sollevò per chiedere l’abolizione della legge del Garibetto. Altra congiura fu intentata da Giulio Cesare Vacchero e suoi Partigiani nel 1628, di cui esiste l’iscrizione marmorea infamatoria, vicino alla porta di Vacca. Altra del Nobile Gio Paolo Balbi e di Stefano Raggio nel 1650. Del primo esiste iscrizione marmorea nella piazzetta del palazzo, e del secondo nella piazzetta Ferretta vicino a San Donato. Altra del Nobile Raffaele della Torre, di cui esiste iscrizione infamatoria nella suddetta piazzetta del palazzo dal 1072. Altra notoria sollevazione popolare avvenne il 10 Dicembre 1746, in cui dopo l’ingresso delle truppe Austriache in città, della quale avevano preso possesso, le dette truppe furono dalla plebe levatasi in massa malconce e scacciate dalla città; memoria di questo fatto sussiste tuttora coll’impronto di un Mortaio che vedesi nel quartiere di Portoria vicino all’Ospitale di Pammatone. 15 ri 226 Non toccherò in ultimo che di volo le troppe note ultime convulsioni politiche che ebbero luogo in Genova verso il fine del mese di maggio 1797: lo spirito rivoluzionario di questa Nazione si fece in tale circostanza chiaramente conoscere non senza effusione di sangue. E per dir qualche cosa anche del blocco di Genova sotto il comando del Maresciallo Massella, che ebbe la gloria di averlo sostenuto lungamente con poche Truppe, non devo omettere di far presente che queste poche Truppe erano sostenute e protette dal forte partito rivoluzionario interno, e dai facinorosi del Paese, aventi alla testa il facinoroso lor capo Lanata, uomo ligio al Massella, di pessimi costumi, e notissimo a tutti; [nè devo omettere] chy quattro mila facinorosi venivano giornalmente pagati dal Generale suddetto in ragione di franchi tre cadun giorno, ed una razione di pane che veniva loro distribuita dai forni alle ore undici di notte, ora in cui tutta la popolazione era ritirata in casa, e non ne poteva uscire; a questa sorta di gente era permesso di commettere impunemente qualunque eccesso; e questi sono noti pur troppo a parecchi onesti cittadini, che ne sono stati la vittima. Ecco di qual sorta di gente servivasi quel prode Generale per incutere un panico terrore, e contenere in tal guisa gli affamati cittadini. Da tutto quanto ho in succinto raccolto dei fatti succeduti in questa città, ben conoscendosi l’instabilità dei Genovesi, e l’indole rivoltuosa e tumultuante di questa popolazione per contenere la quale, ad esempio di Ludovico XII, Re di Francia, io crederei necessaria la costruzione di una fortezza, o l’ingrandimento di quelle già esistenti rendendole capaci di contenere forti presidj, oppure costruirne una nuova, la quale, dominando più da vicino la città, ne incutesse un salutare timore, e contegno, egualmente che un’imponente guarnigione nella città; non omettendosi soprattutto di stabilirvi una Direzione, o Presidenza di Buon Governo, la quale attentamente invigilando sopra tutte le classi indistintamente di cittadini, fosse a portata di soffocare nel suo nascere qualunque sorta di tumulto popolare, in vista massime che questa città avendo un numero grande di carbohaj, facchini da grano, da vino, da portantine e simili, sono costoro nei movimenti popolari molto pericolosi. XT>. - I carbonai, facchini da grano, da portantine e simili, nella rivoluzione de’ 22 maggio 1797 in numero di cinque a sei mila si erano sparsi per la città e venuti alle mani cogl’insorgenti. 22? N. 2 Due lettere dell’Avvocato Generale di Genova in cui si tratta dei motivi per cui alle adunanze del Corpo di Città intervengono pochissimi membri (’) i) Genova, li 26 Aprile 1820 Ufficio .dell*Avvocato Generale. 111."10 ed Eec.mo Sig.r Sig.r Padrone colendissimo, Per rispondere al venerato foglio, che V. E. mi ha fatto l’onore di scrivermi confidenzialmente ieri l’altro, ho bisogno di assumere ancora certe informazioni che esigeranno alcuni giorni di tempo. Tosto ricevute le necessarie notizie mi farò premura di rassegnartene il risultato. Sono intanto col massimo rispetto Di V. S. Ill.ma ed Ecc.ma Umilissimo obbedientissimo servitore Borelli A S.' E. il signor Conte Balbo Ministro e Primo Segretario di Stato etc. 2) Genova, li 7 Maggio 1820 111.11,0 ed Ecc.mo Sig.r Sig.r Padrone colendissimo, Ho procurato di ben conoscere i motivi, per i quali ogni qualvolta occorrono le generali adunanze di questo Corpo Civico, e bene spesso anche in occasione delle congreghe regolari si rinnova il disordine di vederle tornare a vuoto, non potendosi procedere, o precedendosi illegalmente le deliberazioni per difetto del numero dei votanti prescritto dal Regolamento del 31 luglio 1815, e mi pare di poter assicurare V. S. Ili.ma ed Eccell.n,a che questi motivi sono i seguenti: (1) Tratte iìnl R. Archivio di Stati» di Torino, Sezione la, Paesi G. Genova, mazzo 7°; 1820., X. 17. 228 1° - Il numero evidentemente troppo grande di questi Decurioni. Mentre a Torino, dove quasi nessuno è distolto dalle grandi speculazioni commerciali che assorbiscono tutto l’uòmo, e moltissimi sono gli eligibili, il Corpo di Città è composto di soli sessanta Decurioni per più di 80 mille abitanti radunati in una Gapitale, a Genova, città di Provincia, di una popolazione minore, composta per i due terzi di gente ineligibile al Decurionato, e tutta occupata ne’ continui traffici d’un commercio marittimo, i Decurioni sono ottanta. Era quindi facile a prevedere ciò che poscia avvenne, che non si potrebbe quasi mai congregare quel numero che bastasse a render valide le deliberazioni di un sì gran corpo. La prima causa del disordine di cui si tratta è adunque un vizio organico, a cui non v’ha altro rimedio fuorché il cambiare, almeno indirettamente, la legge istitutrice dello stabilimento. 2° - La mal celata avversione che sentono parecchi Decurioni per l’attuale sistema di cose, per cui, mentre non osano ricusare l’onore della loro elezione, si sono determinati a mostrarsene col fatto non contenti. 3° - La poca brama che hanno in generale i Genovesi (li esercitare delle cariche pùbbliche, sovratutto gratuite. 4° - L’indolenza personale di parecchi Decurioni, che o non vogliono ingerirsi in affari, o mal soffrono l’incomodo benché leggiero che può da questi derivare. 5° - Le molteplici occupazioni di molti altri, che loro non permettono di abbandonarle per curare la cosa pubblica. 6° - La quasi abituale assenza dalla città di alcuni di essi, de’ quali altri vegliano quasi tutto l’anno alle loro campagne, altri bene spesso villeggiano, altri abitano anche fuori stato. 7° - La divisione del Coipo di Città in due classi, e la suddivisione della seconda in due categorie. Non so con quanto buon occhio la classe de’ nobili, usa qui ad avere per l’addietro in mano la somma (Fogni cosa, vegga la seconda classe a se eguale in numero, e forse maggiore in lumi ed in influenza. So bene che la seconda, composta de’ più forti proprietari, e de’ più potenti negozianti, trova in questa divisione una distinzione, che mettendola al di sotto dell’altre urta l’opinione, ch’essa ha, buona o no, che la classe di coloro i quali animano il porto e danno perciò l’esistenza a Genova, non debba esservi l’ultima. Ma a ciò non pare potervi essere altro rimedio fuori quello di dare d’altronde maggior rilievo ai. primi negozianti, correggendo alcuni sbagli politici qui commessi per l’ad- 229 dietro a questo proposito. In Genova il commercio, che è l’anima della città, che colle dogane paga quasi tutte le contribuzioni del Ducato, che alimenta quasi tutto l’immenso minuto popolo, e può disporne a suo piacere ogni momento, che può essere il solo contrappeso ad una nobiltà malcontenta, intraprendente, la quale si rammenta di essere stata Sovrana, e non cessa di cercar di tornare ad esserla; in una tale città il commercio vuol essere molto onorato e protetto, se il governo brama di averlo per se in ogni circostanza, e di trarne al bisogno un utilissimo partito. Ma io non m’avveggo che divago; e, chiedendone scusa, torno alla divisione delle classi di cui si parlava. La seconda è distribuita in due categorie, di possidenti, e di negozianti; e qui ricorre l’osservazione, che i negozianti si veggono mal volentieri gli ultimi di tutti. In oltre molti sono nello stesso tempo negozianti e possidenti, e si trovano collocati nella categoria de’ possidenti quando sono principalmente negozianti; o viceversa: quindi non credendo che quello sia il posto loro proprio non vanno ad occuparlo. 8° - La natura e la tendenza dei diversi uffizi del Corpo Civico. Fra gli altri i Provveditori e gli Edili cercano di estendere le già vaste, loro attribuzioni, e di farsi quasi assolutamente indipendenti dai Consigli di Città: si formano così altrettanti Corpi in un Corpo solo, e mancando l’unità manca l’armonia. I Consigli deliberano, ma gli uffizi agiscono: questi sono permanenti, quelli si radunano di rado, e nell’intervallo dall’ima all’altra tornata del Corpo intero gli uffizi hanno consumato delle operazioni, che non piacevano, ma che è impossibile di riformare, e delle quali perciò l’approvazione è forzata, ma non senza dissidi. Un esempio recente se ne ha nell’inutilissimo e costosissimo spianamento di Strada Giulia, fatto dagli Edili senza neppure parteciparlo alla Città; opera della contraddizione e del desiderio d’incagliare gli altri lavori dal Corpo intero approvati ed ordinati dal Re; opere, più che degli Edili, degli avidi loro commessi, i quali cercano di lucrare nell’indipendenza delle aziende. Alcuni Decurioni sdegnano adunque di andare ad assistere alle congreghe, nelle quali poco resta da fare dopo il già fatto dagli uffizi e dai Sindaci, e che loro non presentano se non il simulacro di vere adunanze, in cui si reputano perciò inutili. 9° ■ Le gare e lo spirito di parte, che in un sì gran numero di Decurioni non possono non aver luogo, e per cui le discussioni riescono alcune volte troppo acremente animate, e sono perciò evitate dai più pacifici o dai puntigliosi che non vogliono esporsi, 230 10° - Finalmente l’esistenza- di un Commissario Regio. Fu ultimo, salutare, ed anco necessario il pensiero, per cui si è stabilito, che un personaggio di molta importanza assista e diriga le deliberazioni di sì numerosa e distinta assemblea del Corpo Civico, e rappresenti il Re presso il medesimo. Ma appunto perchè fu ottima, perché era necessaria, quest’istituzione non piace, ne può piacere a quegli spiriti, che non son pochi, i quali non vorrebbero freno al loro operare, e bramerebbero una totale ~ indipendenza nelle loro deliberazioni. Troppi, non bene affetti, indolenti, occupati, assenti, mal soddisfatti, quasi inutili, e frenati, non è dunque da stupire se questi Decurioni non sono, come pur dovrebbero essere, animati da quella nobile ambizione, che divora i Decurioni Torinesi, di essere i padri della loro patria, e di presiedere con assiduità e zelo all’amministrazione delle cose pubbliche, dalle quali Y. E. ha già osservato che non può andare disgiunto il privato loro interesse. Dopo di avere accennato all’E. Y. i motivi, dai quali penso che derivi il disordine da Lei rilevato (nè credo che vi sia alcun’altra causa segreta), mi resta ad obbedire all’ordine ch’Ella mi ha fatto l’onore di darmi, di spiegarle cioè, se in mio senso sarebbe più conveniente di diminuire il numero dei Decurioni onde agevolarne le congreghe, oppure se sia piìi spediente il riconoscere la validità delle deliberazioni, sempre chè concorrano in queste i voti di due terzi dei Decurioni intervenuti alle medesime. Quest’ultimo mezzo non mi sembra adattabile: 1°) perchè parrebbe che il Governo cedesse al sistema dell’altrui negligenza^ o fosse obbligato di adattare le sue provvidenze ai capricci dei Decurioni; 2°) perchè rimarrebbe allora di fatto un Corpo immenso per la forma e per la quantità numerica de’ membri, mentre nella sostanza si restringerebbe a pochi; 3°) perchè ora qualche Decurione di più assiste alle adunanze pel timore che il Corpo non possa deliberare in sua assenza, ed allora cessato questo timore non v’andrebbe più quasi nessuno; 4°) perchè potrebbe in conseguenza succedere, che non si adunassero più di dodici, nove, sei, od anche tre Decurioni, e che così otto, sei, quattro od anche due di essi deliberassero in nome di un Corpo composto di ottanta membri, locchè sarebbe di evidente inconvenienza. Assai più adattato all’uopo mi parrebbe il primo mezzo propósto, quello di ridurre il numero dei Decurioni. E in questo caso perchè se a Torino, che è la capitale, sono sessanta, a Genova non potrebbero essere decentemente quaranta? Non so che in alcun’altra città dello 231 Stato il Corpo Civico sia composto di trenta membri: il lasciarne dieci di più a Genova sarebbe una giusta distinzione per questa città dovuta alla somma sua importanza. Ma il ridurre formalmente con un atto pubblico il Corpo Civico di Genova a quaranta Decurioni sarebbe distruggere il privilegio solennemente a questa città accordato dall’articolo 13 delle li. Patenti del 30 dicembre 1814, e potrebbe eccitare delle doglianze. Per operare quindi la riduzione senza produrre alcuna sensazione disgustosa nel Corpo Civico e nella città, sembra che S. M. potrebbe ordinare con un Biglietto Regio al suo Commissario presso il medesimo, che qualunque Decurione, il quale senza scusa legittima non intervenga (lue volte all’anno alle adunanze alle quali è chiamato, sia reputato aver rinunziato alla sua carica. Quando si giunga alla quarantesima demissione, la riduzione sarà operata di fatto, poiché basterà di non approvare il rimpiazzamento di alcuno (lei dimessi tino a tanto che il Corpo abbia un numero di membri minore di quaranta, e soltanto lino a quel numero. Ma questo rimedio forse non basterà; ed io sono persuaso che il migliore di tutti sarebbe la riforma dell’intera istituzione, poiché il vizio nasce dalle viscere di quella. So lino dall’anno scorso che S. E. il Signor Carbonara nella sua qualità di Begio Commissario aveva tempo fa pensato di progettare questa riforma e ne aveva già raccolto qualche materiale; ma l’affare di San Domenico, per cui ebbe qualche non meritato disgusto, lo scoraggi e gli fece rinunziare al suo progetto. Se mi fosse intanto permesso d’indicare una riforma che mi sembra urgente, parlerei della durata delle funzioni dei Sindaci. A differenza di quelli delle più piccole Città dello Stato, i Sindaci di Genova non rimangono in carica più di un anno. Qual mai di essi avrà coraggio d’intraprendere qualche cosa di buono, sapendo che ben presto i suoi disegni saranno contrariati da un imminente successore, il quale ama per lo più distruggere quanto si era fabbricato dal primo? Sindaco di un anno, e sindaco nullo, sono a mio parere sinonimi. Sarebbe forse utile che si prorogasse a cinque anni l’esercizio del sindacato, come lo era sotto il governo francese quello delle funzioni dei Maires: e qui nella circostanza che due sono i sindaci, che v’ha un grande ed un piccolo Consiglio, ed un Commissario Regio, non si risehierebbe mai di vederne inconvenienti, mentre si avrebbe stabilità, si ecciterebbe lo zelo, e si stimolerebbero i sindaci a fare il vero bene ed a reprimere gli abusi. Sarebbe poi desiderabile, che quest’utile innovazione seguisse mentre sono in esercizio gli ottimi due sindaci attuali. Spero OQO che V. E. ini perdonerà la libertà di questa non chiesta osservazione, e che porrà le altre nel numero delle confidenziali; e vorrei avere con quelle soddisfatto alle di lei domande. Sono col massimo ossequio Di Y. S. Ill.ma ed Ecc.mft Umilissimo obbedientissimo servitore Borelli N. 3 i Sommario dei motivi di decadenza del commercio di Genova e dei mezzi di ripararvi, contenuti nella memoria presentata al Ministero degli Interni dal Cavaliere Lencisa (1) Cagioni di decadenza. 1. — L’estensione del privilegio di Porto Franco a gran parte della Contea di Nizza, per cui una ragguardevole popolazione è fornita del bisognevole senz’essere soggetta a (lazi (p. 16). 2. — Le minori angarie daziarie ivi stabilite nell’uscire dal raggio del Porto Franco per cui gran parte del Piemonte si provvede in Nizza anziché a Genova (p. 16). 3. — La maggior possibilità d’introdurre merci di contrabbando dal Nizzardo nel Piemonte, mentre per essere il Porto Franco di Genova angusto, circondato (la alte mura ciò è assolutamente impossibile (p. 17). 4. — L’essere la Contea di Nizza approvvigionata dalle provenienze francesi giacche in Marsiglia le spedizioni per Nizza non pagano verun diritto (p. 18). 5. — L’essere libero di spedire dal Porto Franco di Nizza a quello di Genova senza formalità doganali, mentre da quel di Genova per Nizza si devono pagare diritti (li piombi, bolli e mille altre formalità (1) Tratto dar Regio Archivio di Stato di Torino, Sezione I, Paesi G. Genova, 1836-1838, mazzo 13, N° 16. (Le note in margine al manoscritto sono <|iii riprodotte colle frasi sottolineate. Esse erano di due calligrafie diverse, ed entrambi diverse dal testo. Il francese era scorrettissimo e senza accenti. Ho corretto gli errori più notevoli, anche nel testo italiano, in alcuni plinti oscuro nella sua concisione) 233 che rendono l’onere superiore alle spedizioni pei paesi stranieri. ( Ce poi ut me paraltrait ótre vérifié et, corrigé, si l’inconvenient existe). (i. — L’approvvigionarsi altra parte del Piemonte da Savona, perchè ivi sono minori che in Genova le difficoltà doganali, e possono le merci rimanere sei mesi in magazzeno senza pagamento di diritto, motivo per cui le lane finissime, i panni, i cotoni ed i zuccheri da raffinare pella consumazione interna del Piemonte sono da Liverpool, Livorno e Marsiglia spedite a Savona a vece di Genova (p. 20). (Je ne vois pax de grand mal à la eliose. L’intérét général veut, que le commerce soit aussi actif, que possible). (Mais il n’est ni bon ni desirdble qu’il soit toni concentrò sur le méme point. Laissons Savone glaner quelque choses auprès Génes). 7. — L’essere la Savoia provveduta da Marsiglia e dagli altri paesi della Francia e della Svizzera per mezzo di un contrabbando regolare e così bene stabilito che si danno assicurazioni contro gli eventi di un sequestro; assicurazione che equivale ad una parte soltanto della tariffa (p. 21). minorità, i tempi debiti lascerebbero luogo all9obbiezione speciosa qui controJ. 3o. Senza die si conosca titolo di disposizione Reale, il deposito di grani esteri non si accorda per un anno. Ad arbitrio però degli Impiegati si protrae questa facoltà in favore dei negozianti a lorobe-nevisi, però pagandocene 35 per emina; sia il tempo limitato, sia il diritto con cui taluni ottengono la proroga sono gravosi al commercio (p. 53). (C"est unfait grave, sur lequel il faut appeler l’attention des Finances). 3(>. — I grani arrivati con bandiera estera sono depositati sotto la chiave della Dogana, nè si possono visitare senza l’intervento dei preposti, quindi ogni consumo non può essere che l’effetto del naturale disseccamento, e del tarlo degli insetti, ciò nullameno si fa pagare l’enorme dazio di L. 9 per emina di consumo, benché questo risulti patentemente reale (p. 54). 37. — La differenza dei diritti sui grani se provenuti con bandiera estera allontana l’arrivo dei bastimenti stranieri con tali carichi; quindi vanno ad attivare il commercio di Livorno a scapito di quello di Genova (p. 55). (C’cst la grande question des droits diférentiels). 38. — (ìli ostacoli doganali ed il diritto differenziale, fanno sì che il poco grano che si trae dal Mar Nero va oggidì in deposito a Livorno. Ne consegue che l’esigua quantità che perviene a Genova permette di farla oggetto di monopolio (p. 56). (Ceci est absurde. Le Monopole n'cxistepa$ avec la libre concurrence. Si le blé renchcrit ilcn arriverà davantage). 39. — Si sperava prima del manifesto 7 aprile 1835 la restituzione dei dazii sulle materie prime lavorate nel paese ed esportate quindi a 111 Estero: tale manifesto la abrogò o la diminuì. Sul piombo è totalmente soppressa la restituzione del dazio di L. 8 il cantaro; dazio che è in Francia di sole L. 5 se trasportato con bandiera francese; e nullo in Livorno. Quando restituivasi L. 4 per ogni quintale di biacca entravano 7700 cantara di piombo, e la biacca esporta vasi in Italia, Levante ed America; malgrado la restituzione il Governo incassava L. 40 pm, adesso non si fabbrica biacca che per la consumazione interna (p. 59). (Sogliono gli Inglesi restituire all’uscita della merce quel dazio che ricevettero all’entrata e questa restituzione si chiama drawback, ma i mercanti appena usciti dal porto scaricano il vascello sulle coste e quindi tornano ad uscire onde ricevere rimborso di un dazio che 288 non pagarono. Perciò si sono sostituiti altri espedienti. Gioia, Scienze economiche Voi. F A96\ Tante à rcrificr, et fori dante use), 40. — Si portò il dazio sullo zue-cliero da L. 45 a L. 48 e L. 0 di dazio pagano i cedri per quintale, sebbene arrivino nell’acqua salata e quindi di peso maggiore; talché viene a pagarsi dal fabbricante di canditi L. 55 per quintale mentre non gii si restituisce che L. 20. Quest’industria faceva non è guari entrare mezzo milione di diritto, ora è decaduta (p. 59). (Il y a ici i gnor ance, au mauvaisc foi; le sucre n’entre que pour unc portion dans les candits, et c’est à felle portian qu’on égale la restitution du drait;/aire autrement ee serait donner ime prime). 41. — Per la riduzione a L. 3 da L. 4,50 per cantaro del dazio sui grani, onerati di un diritto di L. 18, all’uscita dei vermicelli, se prima rimanevano ancora L. 13,50 a pagarsi dal fabbricante, ed era già molto, adesso rimanendone 15 è eccessivo, tanto più che vennero in Livorno esonerate le materie prime da ogni diritto giusta i nuovi regolamenti; facilità che fece ivi trapiantare le fabbriche di paste. Nel 1833 si spedirono da Genova a Livorno 2000 rubli di vermicelli. Nel 1834 non giunsero a 600 (p. 61). (Probablement la ménte raisan existe pour les pàtes. Mais il y a. encore erreur sur ce que Vauteur suppose, qu’on empirie du blé de la Mer Noire, tandis qu’on empiale du blé Sarde). 42. — Ugual osservazione occorre sul biscotto; essendo i grani soggetti a deperimento vuoisi talvolta ridurli in farina, e perciò si accordava dalla Dogana la restituzione di */3 del dazio pagato pelìa introduzione del grano, mentre ri tene vasi l’altro terzo per compenso della crusca destinata alla consumazione interna. Marsiglia ottenne simili facilità per altro senza aver fatto constare se le farine provenghino da grani duri stranieri: bastando che si esporti ugual quantità di farine, e col vantaggio che pagasi poco di macina, mentre in Genova è di L. 3 di dazio per emina (p. 63). (La difference de tari/ pour les grains de la■ Sarda-igne, est encore la cause de cela: en France ils n’ant qu’un seni drait). 43. — L’arbitrario delle Dogane, sebbene soventi richieste di decisione, che pigliano a riferire a Torino, ciò che cagiona ritardi dannevoli a quella celerità die oggi richiede il commercio (p. 65). (Il faudrait établir le Ministère des Finances à Gènes; je penne que cette réfonne suffit). 44. — Le carte di spedizioni durevoli solo mesi sei si pagano 239 L. .>00. Nella marineria austriaca «sono durevoli per due anni e costano per una nave di 250 tonnellate fiorini 30. Quindi noi siamo in questa proporzione 500 X 4 = 2000 mentre nell’Austria non è che di 75 lire incirca (p. (Hi). (Ccci est on parati crai). 4;>. In nessun luogo si pagano spedizioni sui bastimenti oziosi in porto. A Genova si pagano (p. 07) (idem). 40. Il gravissimo peso della cauzione (die prestar devono gli armatori pegli eventi di naufragio (p. 07). 47. Il diritto di tonnellaggi a Genova è di 10 soldi pei nazionali e di 20 pegli esteri. A Livorno per 100 tonnellate non si pagano che L. IV2. A Marsiglia questo dazio non esiste (p. 68) {idem). 48. — Dovendo i bastimenti nazionali entrare in porto per cattivo tempo e non per commerciare pagano solo la metà del diritto, ma se la fortuna del tempo li forza di starvi oltre 15 giorni devono pagare l’intero dazio. I bastimenti esteri che hanno pagato in altro porto dello Stato il diritto di tonnellaggio, entrando in un secondo porto pagano un terzo del diritto (p. 68). ( Yérifier le fait et le corriger s’il est vrai serait de justice). 49. — I bastimenti clié devono andare a far quarantena al Tari-gnano devono pagarvi mezzo tonnellaggio, e poi il diritto intero a Genova scontata la contumacia (p. 68). (Ceci aussi est absurde). 50. — Il diritto sanitario del mezzo per mille sulle merci portate da navi estere procedenti dal Levante a Barbaria (p. 69). (C’cst just e): 51. — Le disposizioni sanitarie sono lasciate al libero arbitrio de’ Magistrati, che senza ragione apparente regolano le quarantene imponendone per esempio, una rigorosa sulle provenienze dalle Antille ed una più breve su quelle del Brasile, mentre le une e le altre sono ammesse a libera pratica a Marsiglia (p. 70). (Eccetto le provenienze di Barbaria ed in queste non comprese quelle di Algeri, Genova ha quarantene più lunghe di Marsiglia... Livorno, Venezia c Trieste contano pure quarantene più brevi. Il Governo francese fu di parere di stabilirle, previo accordo, uniformi in Toscana. nel litorale austriaco e ne’ R. Stati. Vedasi: Rapport au Ministre du Commerce par M. Ségur Secrétaire dii Conseil Supé-rieur de Sauté. Paris 240 53. 54. oo. 1. *> 3. 4. 5. 0. — La sposa di sanità per le lane di Barbaria è a Genova in paragone di Livorno come 1732 a (‘>77; se si aggiungono le spese di spedizione di cui fu sopra ragionato ascendono a L. 1037 in Genova, mentre in Livorno non montano che a L. 105. Si vedrà qual concorrenza è possibile di mantenere (p. 70). (Tei on fournit des preuves). — Le fiscalità e gli oneri consolari (che però non sono enumerate). Ne è prova irrefragabile l’inalberare che si fa dalle navi nazionali bandiere estere (p. 70). — La comunicazione che fa la dogana di Genova ai consoli stranieri dei carichi delle navi nazionali destinate pe’ loro rispettivi porti, ciò che è notevolissimo al contrabbando che dai R. sudditi si faceva in Sicilia ed in Spagna. Pratica questa non usata altrove (p. 72). Ceci est juste; nos emplovjés ne doivent pas fai re le Service des étr anger s). — L’inconvenienza delle attribuzioni di diversi ministeri che hanno direzione delle cose commerciali. Le Finanze, gli Esteri, gii Interni, la Guerra e Marina; tante volontà diverse nuocono all’insieme ed alla speditezza di che abbisogna il commercio (p. 75) Mezzi di ripararvi. — Togliere tutti gli inconvenienti indicati nei paragrafi relativi; far sparire gli ostacoli di località, le fiscalità doganali tutte, ed introdurre nel servizio prontezza e facilità. — Ridurre le tariffe doganali e sanitarie al ragguaglio di Livorno e Marsiglia. Ripristinare la restituzione dei dazi sulle materie prime lavorate. — Diminuire le tariffe dei facchini, ridurli alla dipendenza diretta del Commercio. — Parificare i diritti e le formalità doganali di Genova a quelli di Nizza e stabilire tra i due porti franchi libere relazioni (p. 10). — Concedere delle agevolezze alle barche sarde che approdano in Nizza provenienti da altri punti del li. litorale, onde così far cessare tutti i profitti dell’estero cabotaggio (p. 10). Il cabotaggio nazionale essendo il cardine della marina (p. 10). — Adottare tutte le formalità che meglio si crederanno del caso, ma impedire che nella visita alle Dogane siano i colli manomessi (p. 27). 241 7. — Togliere il diritto di ostellaggio, per cui, [cioè, dopo tolto tale diritto] stante il diritto differenziale del 10% alle navi nazionali nel Regno delle due Sicilie, le navi Americane, Inglesi e Svedesi verrebbero a sbarcare in Genova, ove caricherebbero quelle delle due Sicilie per porto del Regno (p. 35). — Far procedere in Genova e non altrove all’acquisto dei tabacchi per le regie manifatture. Esonerare i negozianti dalle fiscalità che pesano su questo commercio, (p. 35). 9. — Si conceda un tempo indeterminato di deposito, come vorrebbe l’istituzione del porto franco, tutt’almeno se ne fìssi il periodo a due anni (p. 54). 10. — Si sottoponga ad una nuova discussione la convenienza od il danno di diritti differenziali in favore della bandiera nazionale (p. 55). 11. — Conviene diminuire il dazio sui grani duri sardi e aumentare la restituzione a vece di accrescere quelli e scemare questa, come è fatto (p. 08). 12. — Istituire una commissione con parecchi negozianti chiesti a farvi parte per esaminare e rifondere la tariffa doganale (p. 65). 13. — Concedere alla primaria Autorità della Provincia la facoltà di sciogliere i dubbi senza riferirne preventivamente all’Azienda ed alle finanze in Torino (p. 65). 14. — Imporre alla Cassa degli Invalidi l’obbligo di sopperire alle spese cagionate da naufragi, come il ritorno in patria degli equipaggi etc. (p. 67). 15. — Creare presso un Ministero un ufficio di commercio che tutte in sè riunisca queste sperperate attribuzioni (p. 76). 16. — Ottenere che siano superate le difficoltà incontrate pella libera navigazione del fiume Po, come venne stabilito dal Trattato di Vienna (p. 78). (Questa pratica avviata diplomaticamente trovò ostacoli nelle irre- t movibili determinazioni di 8. A. R. il Duca di Modena). 17. _ Porre il Porto Franco di Genova in condizioni uguale a quello di Nizza, compensando le finanze con modi sicuri e facili (p. 78). 18. — Creare una banca di scontò (p. 79). (Una banca francese ne fece l’offerta al R. Ambasciatore in Parigi nel 1834, la quale venne dalla Segreteria degli Esteri comunicata alle R. Finanze). 19. — Erigere un grandioso Lazzaretto ampio esclusivo al Commercio, ove appena giunte le navi potessero scaricare, e così evitare dispendi. Sarebbe conveniente di fabbricarlo al molo nuovo 16 presso la Lanterna; si troverebbe a costruirlo a spese di azionisti. 20. — Riformare le tariffe sanitarie ed i regolamenti quarantenari, onde togliere le spese ingenti ed i gravi abusi attuali (p. 82). 21. — Osservare la possibilità, ed ove esista ridurla ad affetto, di un canale che congiunga il mare ligustico colle acque del Po (p. 82). 22. — Oostrurre una strada di ferro quando dal Governo Austriaco si for- nii quella da Milano aVenezia, attillandola ad azionisti nazionali (84). (Il signor Sacelli, distinto economista pavese, è di parere non si ((bòia ad intraprendere la strada di ferro da Venezia a Milano, se da questa città non è prolungata fino a Genova onde congiungere così VAdriatico al Tirreno. Vedi Annuali di Statistica Marzo 1836). N. 4 Variazione numerica delle navi mercantili sarde nelle 6 direzioni dal 1820 al 1849 (') ANNI fino alle 30 t. fino alle 60 t. fino alle 100 t. oltre le 100 t. TOTALE 1820 819 247 202 310 1587 1821 842 225 104 338 1500 1822 876 208 102 350 1635 1823 895 201 217 340 1653 1824 919 101 221 334 1665 1825 930 170 204 388 1701 1826 067 162 221 473 1823 1827 076 172 232 546 1026 1828 001 161 222 505 1060 1829 1011 170 214 602 1007 1830 1037 158 214 616 2025 1837 2086 153 207 607 3143 1841 2028 135 154 740 3057 1843 2535 (lino a 35 tomi.) 87 (fino a 50 tomi.) 206 603 3600 1848 2465 (tino a 35 tomi.) 73 (fino a 50 tomi.) 200 642 3380 1840 2500 (finoa 35 tomi.) 67 (fino a 50 tomi.) 201 685 3453 (1) Fino al 1830 lo specchio è inlja.se ad mi documento conservato in A. S. G. Prefettura Sarda, 4-423. Le cifre del 1837 sono fornite dal De BartolomeIS, op. cit. p. 1063, mentre dal ’41 al *49 i dati sono tratti dagli A. U. S., voli. LXXX, 1844 ]). 105, LXXXII1 1845, allegato, GII 1849 p. 293. 243 tt. 5 Specchio dei bastimenti inscritti nelle direzioni marittime di terraferma (’) Anni Navi Tonnellate Media navi Media tonn. 1842 3191 104.787 1843 3252 104.750 3250 164.855 1844 3308 105.022 1845 3337 105.105 1840 3371 109.145 3221 160.185 1847 2957 140.245 N. 6 Entrata delle navi nel porto di Genova dal 1814 al 1841 (“) Anni Navi nazionali Navi estere Anni Navi nazionali Navi estere 1814 4637 944 1827 0405 855 1815 5642 1167 • 1828 4042 789 1816 5243 902 1829 4978 709 1817 6272 814 1830 5302 -798 1818 6215 941 1831 5048 800 1819 6226 1117 1832 5202 903 1820 5615 840 1833 5240 759 1821 5258 707 1834 5300 828 1822 5122 715 1835 4490 600 1823 5460 1009 1830 5144 800 1824 5604 1097 1837 5230 885 1825 5542 1080 1838 4820 958 1826 6519 806 1841 0990 1169 (1) Tratte «la mia Relazione della Commissione Marittima presentata al Ministro di Agricoltura e Commercio il 7 febbraio 1850. (Relatore Giuseppe Papa). La Relazione si trova nel M. S. R. N. (li Genova, Carte Ricci, N° 1572. (2) Estratto dalla Statistica del Cevasco, voi. II p. 82 bis. L’anno 1841 è ricavato da A. U. S.; voi. LXXX, 1844, p. 31. 244 N. 7 Commercio con i principali stati extra-mediterranei nel 1848 (') NAZIONE Importazione Esportazione Gran Bretagna e Irlanda 28.493.200 2.553.900 Gibilterra 2.048.000 732.100 Belgio 1.113.900 48.000 Argentina 803.300 751.600 Brasile 8.442.300 2.074.100 Cile 360.900 Danimarca 491.300 1.379.400 Stati Uniti 9.740.100 619.300 Guatemala 264.200 63.200 Haiti 631.200 Olanda 4.713.900 34.300 Messico 185.800 1.262.100 Nuova Granata 1.131.300 57.300 Perù 1.126.800 1.372.300 Portogallo 1.377.100 944.500 Svezia e Norvegia 923.400 300 Sumatra 468.000 92.300 Uruguay 3.636.300 2.483.300 Venezuela 124.600 105.900 Città Anseatiche 16.500 Totale 66.075.600 14.590.400 (1) Il presente quadro è ricavato dagli Scritti c Documenti sul Commercio (li Genova di G. Papa, in M. S. R. N. di Genova, carte Ricci, N° 1572. Ho omesso i porti della Francia e della Spagna perchè dai documenti citati non è dato distinguere tra quelli mediterranei e quelli extra-mediterranei. 245 N. 8 Entrata di grano in porto franco dal 1823 al 1848 (‘) Anni Mine Anni Mine 1823 1.104.965 1832 1.122.916 1824 819.196 1833 826.582 1825 1.043.262 1834 535.376 1826 612.085 1835 571.096 1827 836.000 1836 908.304 1828 600.174 1837 952.989 1829 516.606 1838 940.124 1830 1.080.540 1847 2.491.776 1831 690.919 1848 1.184.756 (1) Il presente quadro è tratto dall’opera del Cevasco, voi. II, p. 79, dai riassunti trimestrali del C. M. per gli anni 1836-37-38, e dai documenti del Papa in M. S. R. N. N° 1572. Ricordo che la mina equivaleva a 116 litri. ABBREVIAZIONI PIÙ COMUNEMENTE USATE A. S. A. S. A. U. C. M. M. C. M. S. R. R. T. = Archivio (li Stato di Torino. G. = Archivio di Stato di Genova. S. = Annali Universali di Statistica. = Corriere Mercantile. = Manifesto Camerale. R. N. = Museo Storico del Risorgimento Nazionale. P. P. = Regie Patenti. > NB. - Cito i nomi degli autori con la sola iniziale in maiuscolo, mentre riporto per intero quelli dei personaggi. A Abercromby Raffaele, 118, 214 n. 3. Acquasola, 55 n. 3. Acquaverde (piazza della), 55 n. 3. Acqui, 180 n, 2. Adams Iolin Quincv, 4(I. Adorno (casa), 224. Adrianopoli (trattato di), 40 n. 1 133 Adriatico, 28 n. 3, 94,120,127, 132, 132 n. /, 142, 181, 181 //. 2, 182, 185, 197, 242. Africa, 40 n. 4, 127, 129,133. Agnelli A,, 124 n. 4. Albenga, 122. Albergo dei Poveri, 158,158 n. 4. Aldoini Griuialdo, 29 n. 1. Alessandria (Piemonte), 28 n. 3, 179, 180, ISO n. 2, 184, 185. 186, 192. Alessandria (Egitto), 121. 193, 200. Alessandro I (di Russia), 40 n. 1. Alfieri Cesare, 184 n. 1. Alfieri Vittorio, 154. Algeri, Algeria, 71 n. 5, 121, n. 1, 129. 130, 132, 133, 143, 239. Alpi, 106, 233. Amburgo, 125 n. L 143, 212. Americhe, Americano, 42, 45, 46, 46 n. 4. 101, 105, 106, 109, 110. 110 n. 2. 112, 115, 125, 127, 133, 137, 146. 150. 178, 188, 233, 234, 237, 241. America Centrale. 113. America Meridionale, 46, 97, 106, 110, 110 n. 5, 111, 115 ». 2, 140, 151 n. 1, 171. America Settentrionale, 46, 97, 110, 110 n. 5, 112, 113, 114. 115, 115 n. 2, 116, 178. Ancona, 131, 191. Andora, 122. ANDREA (pprta di Sant’), 55 n. 3. Angeli (colle degli), 55 n. 3. Annali Universali di Statistica, 34 ». 2, 101, 117 n. L 131 n. 4. 134, 134 n. 2, 135 n. 5. 136, 136 n. L 141 n. 8, 144, 252 144 ìi. 1, ». 3, ». 4, n. 5, 145, ». 1, 156 ». 4, 157 n. 4, 158 ». 4, 168, 168 n. 2, 16!) n. 1, 178 n. 1, 181, 181 ». 2, 182 n. 2, 1S3 n. 3, 184 u. 2, 186 ». 2, 192 ». 1, 217 n. 2, 218 ». 1, 242, 242 n. 1, 243 ». 2. Annover, 125 ii. 1, 143. Ansaldo Giovanni. 145 ». 4. Anseatiche (città). 47, 117 n 3. 125, 143, 244. Antille, 110. 129 ». 4, 239. Antologia (L’). 101. Antologia Italiana, 143 li. 1S, 16, 168 ìi. 3, 191 n. 4, 203 n. 1. Anversa, 186. Appennini, 28, 136, 181, 188, 19S, 233. Aquisgrana (pace di), 24. Arabia. 125. Arenzano, ISO a. 2. Argentina, ho. 128, 244. Arona, ISO, 181, 183, 186. Asia 46 n. 4, 133. Asinari di San Marzano Filippo Antonio 30, 46. Associazione Agraria Subalpina, 167. Asti, 186. Astori B., 121 n. 2. Atlantico, 40 n. l, 126, 199. Augusta, 181. Aurelia (via), 179. Austria, Austriaco, 14,14 n. J, 24, 32, 39, 54, 68, 69, 70, 72, 105, 106, 120, 121, 121 n. 1, 127, 132, 134, 134 n. 1, 135, 136, 137, 138 n. 2, 140, 141, 150, 156 n. 2. 162, 163, 163 li, 2) 164, 166, 174, 178 n. 1. 182, 183, 185, 186, 191, 192, 193, 195, 199, 200, 202, 203 ». /, 205, 206, 206 n. 3, 207, 210, 216 n. 1, 223, 225,. 239, 242. Avana, 129 n. 4. Avezzana Giuseppe, 210. Azof (Arare (l’), 105, 133. B Bachi R., 15(i n 4. Bagnano Giorgio, redi Libri. Bahia, 125 n. 4. Balbi Gio. Paolo, 225. Balbi Pioverà Giacomo, 206 ». 3. Balbo Cesare, 83, 138, 138 ». 2, 139 ». 3, 166, 190, 192, 196, 208, 209. Balbo Prospero, 54 ». 1, 59, 59 ». 2, 62, 73, 227. Balbo Bertone di >Sambuy Vittorio Amedeo, 189 ». 1. Balduino Gian Battista, 125 125 ». 4. Balilla, 13. Balletti A., 26 ». l, 90 ». 1. Banato, 120. Banca Nazionale, 142 ». 2. Banca Sarda, 142 ». 2. Baratta Giacomo, 85, 86. Barbagallo O., 25 ». 4, 28 ». 4. Barbaroux Giuseppe, 99. Barberi G., 141 ». 8. Barberia, Barbareschi, 26, 81 ». 1. 132, 239, 240. Bardonecouia. 186. Bastiat Federico, 130, 130 ». 1, 138, 168 ». 1. 253 Baviera, 135, 180. Begatto (forte del), 55 n. 3. Belgio, 90, 117 n. 3, 125, 135, 1*2, 188, 244. Belvedere (forte del), 55 n. 3. Benigno (forte di San), 55 n. 3. I» enti no k William, 23. Berlino, isi Bernardino (passo di San), 186 Berteant S, 11)4. Berthier Luigi Alessandro, 1 4 n. 2. Bertuccioni Giuseppe, 14 n. 2. Bianchi N., 71 n. 5, 204, n. 3. Biga Cesare Augusto, 217 n. 1. Birmingham, 117. Bisagno, 55 n. 3, 102. Blanc Luigi, 90, Bobbio, 25, 28, n. 3, 122, 179, 180, n. 2. Bocchetta, 179, 1 so n. 2. Boletti Gian Battista, 217 n. 1. Bologna, 192, 198, 199. Bolzano, 181. Bombay, 121 ». 2., 193. Bonaparte Napoleone 1,11, 12 n. 2, 18, 26, 27, 55 n. 3. 56, 92 n. U 179, 180. Bonomi Pietro, 19. Borelli Giacinto, 59, 59 n. 2, 00, (il, 62, 03, 66, 07, 227, 232. Borgarelli Guglielmo, 53, 54, 57, 57 ìi. 1, 57 ìi. 2. Borlandi F. 14 n. 1, 2(i n. 2, 27 n. /, 28 n, 3, 179 n. 1. Bobnate C., il n. 1, 13 n. 2, 21 n. 2, 31 a. 1, 34 n. 1, 56 ìi. 2, (»7 n. 3, (iS a. 1, a. 2, u. 3, il. 4, 69 il. 1, n. 2} n. 3, 70 n. 1, n. 2, n. 3, 71 n. /, n. 3, 73 n. 1, 74 n. 3. Brasile, 42 n. 3, 110, 110 n. 5, 111, 112, 112 n. 117 n. H, 127, 218, 239, 244. Brazile 180 n. 2. Brema 125 n. 1, 143. Briglia (forte della), 224. Brignole Gian Carlo 29 n. 1. Brignole-Sale Antonio, 12, 30, 31, 32, 54, 56, 91 n. 1. Brindisi 193, 194. Broche G. E. 28 n. 4. Broglio E. 187. Broglio d'Aiano li. 42 n. 3, 43 n. 1; 43 n. 2, 44 n. 2, n. 3, 77 n. 1, 88 n. 4± 89 n. 2, 90 n. 2, 109 n. 5. Brunati Alessandro 184 n. 1. Brunel Kingdor 186. Bruzzo C. 55 n. 3. Bruxelles 12 n. 2. Buenos Aires 110. BUSSOLINO Carlo 217 ìi. 1. C Gabella Cesare 156 n. 4.209,211. Caccia di Fomentino Gaudenzio Maria, 87, 88 n. 2, n. 3. Cairo (Piemonte), 44 n. 1. Calais 197 ìi. 1. Calcaterra C. 17 n. 2. Calcutta 125 n. 4. Cambronne Pietro 12 n. 2. Campanella Federico, 74. Canale Michele Giuseppe. 206 ìi. 3. Canning Giorgio, 117. 254 0 ANTON, 125. Cantù 0. 106 n, /. Cappelletti L. 104 ». /. Caravadossy di Thoet Ignazio Vincenzo, 47 n. ò. Caravan a (corporazione dei), SO n. 2. Carbonara (località) 55 n, 3. Carbonara Luigi, 57, 58, 50, 50 n, 2, 66, 100, 231. Carbonazzi (Ispettore del Genio Civile) 181. Carboneria, Carbonari, 00. Carlo V d?Asburgo, 225. Carlo X (di Francia) 121 n. 1. Carlo Alberto, 25 n. 4, 60, 82 88 n. 2, 03, 99, 09 n, 3, 100, 108, 122, 141 ?/.. S, 142, 157, 161, 174, 181, 183,204, 204 n. 1, n. 3, 206, 206 n. 3, 207, 208, 209, 211, 212 213, 215. Carlo Felice, 47, 66 n. 2, 68, 69, 70, 71, 84, 85, 86, 88. CAR3IIGNANI G. 191 11, 4. Carrega. Gian Battista, 21. Casale 204, 204 n. 3. Casalis G., 97 n. 2, 142, 145 u. 3, 180, 180 n. 2. Casanova Gerolamo 50, 52. Casteggio 198. Castellaccio (forte del) 55 n. 3. Castellamare 183, n. 2. CASTELLETTO(forte di) 55, 55 n. 3, 209, 225. Castelli Giuseppe, 184, 184 n. 1, 217 n. 1. Castinelli (ingegnere) 101, 197, 199. Catania, 152. Caterina (salita di Santa) 55 n. 3. Cattaneo Carlo, 124 n. 3, 138 n. 2, 145 u. 2, 184, 185, 187. Causa Giacomo, 184, 184 n. J. Cavagna ri (Società) 184, 187, 201 ii. 2. Cavour Camillo, 31, 117 n. 1, n. 3, 141 n. 8, 153, 166, 168, 168 li. 3, li. 4, 160, 171, 172, 100, 209 il. 4. Celesia E. 73 ii. 4. Censore Italiano (11) .14 n. 2. Cevasoo Michele Antonio, 24 n. 1, 25, 25 n. 4y 76 n. 3, 78 n. 1, 79 n. 2, 80 n. 2, 82, 89 n. 1, 109 il. 5, 110, 110 ii. 1, n. 3, il. ò, 111 n. 1, 112, 112 n. 2, n. 3, 115 n. 2, 117 n. 1, 119, 125 n. 1, 126, 126 il. 1, n. 2, 128 n. ò, n. 6, 129 il. 1, il. 2, il. 3, 142, 150, 150 n. 4, 151 n. 1, 155, 158, 190, 190 n. 1, 217 n. 1, 218 il. 1, il. 2, 243 n. 2, 245 il. 1. Chiavari 42 il. 2, 122, 145 n. 3, 158. Chiascio 181 ii. 2. Chiodo Agostino, 55 n. 3. Chiodo Domenico, 184 n. 1. Ciasca E., 11 n. J. 14 n. l,n. 2, 17 n, 2, 92 11. 2, 101 n. 1, 108 n. 1, 138 n. 1, il. 2, 139 n. 1, 156 ii. 4, 163 il. 2, 165 n, 2, 166 n. 2, 182 n. 6, 183 n. 2, 186 n. 4, 188 il, 2. Cibo Giulio, 225. Cile, 244. Cina, 97, 123, 124, 193. Cisalpina (Repubblica) 14 u. 2. Civitavecchia, 131, 197. I Cobden lìiccardo, 117, 130, 138, 168, 168 n. 2, 169, 170, 172. Codignola A., 11 ». 1, 14 n. 2, 10 », 2, 34 », 2, 73 », 2, ». 3, n. 4, n. 5, n. 6‘; 74 n. 1, », 2, 78 », 2, 87 ». 4, 99 il. 2, 139 il. 2, 140 ». 1, 141 ». 2, 145 n. 4, 157 li. F)) ii. 7, 160 n. 1, 161 n. /, n. 2, n. 4,. n. 5, 1(>4 n, 1, 1 73 n. 2, 174 n. 1,186 », 3, 187 ri, 4, 193 n. 1, 201 n. 2, 202 n. 1, n. 3, 205, 205 ». 2, 206 n. 3, 208 n, 1, 209 ». 1, 210 n. 2, n. 3, 213 li. 4. Cogoleto 180 II. 2. Coira 72, 135, 181, 188. Colombo A. 13 ». 3,148 ». 1, ». 2, 140 n. 1, 163 li. 1, 174 n. l, n.2, ìi. 3, 202 il. 8, 204 ». 1, 205 ». 1, 206 n. 1, 200 ». 1. Colombo Cristoforo, 175. Commerce (Le) 130. « Commercio di Genova » (fregata), 78 n. 2. Commercio di Roma (II) 202 ». 7. Como, 136. « Concezione (La) » (nave), 44. ('(ingresso Costituente deli'Impero liom(ino, 12 n. 2. Congresso Costi t uen te X a zi on a ìe, 1:2 n. 2. Congresso degli Scienziati Italiani (2°), 141. Congresso degli Scienziati Italiani (8°) 165, 173, 174, 175, 204. CORNICE (strada della). 28 ». 3. Correnti C., 156 n. 4. . Corriere Mercantile, 39 n. 3, 40 n. 2, 41, 41 n. 2, 82, 82 n. 2, 91, 91 n. 2, ». 3, 92, 92 ». 1, n. 3, 93, 03 ». 2, 05, 05 n. 1, 101, 102, 102 n. 1, n. 2, n. 103, 103 ». 1, il. 4, 104, 104 », 2, 105 ». 2, 110, 110 n. 4, n. 5, n. fi, 112 n. /, 113 ». J, 114, 114 ». J, 115 ». 1, ». 2, 116, 116 ». ». 2, »è 3, ». 4, 117 ». ./, », 2, ;i. 3, 110, 120 ». 3, ». 5, *w. 6, ». 7, ». 8, 121 n. 2, 122 n. 6, 123, 123 ». 2, 124, 124 w. lf ». 2, 125 ». 1, n. 4, 126 ». 3, 128 ». 2, ». 3, 120, 120 n. 4, ». 5, 130 ». 2, ». 3, ft. 4, ». 5, ». 6‘, 131 ». 3, 132 ». 1, n. 4, il. 6, 11. 1, 133 n. 2, n. 3, n. 4, 134 ». 1, 135 ìi. 1, n. 2, ». 4, 143 ». 1; 147, 147 n. 1, n. 2, ». 3, 149 ». 4, il. 5, n. 6, 150 ». 1, n, 2, ». 3, 151, 151 n. 2, 152, 152 ». 1, n. 2, n. 3, 156 ». 2, 159, 150 n. 1, n. 2, 160 ». 4, 161 ». 4, 165, 165 11. 1, 170 ». ì, 172, 181, 181 n.l, 182 ». 1, ». 4, », 5, 184 ». 1, 185, 185 ». 2, ». 3, ». 4, 188 ». 1. 100 ». 8, 101 ». 2, », i/, 103, 193 ». 2, ». 3} n. 4, ». 5, ». 6, ». 7, 104, 104 ». 1, ». 2, ». 3, 196 », 2, 107 ». i, 201 ». A 202 », 2, ». 4, ». 5, ». 6*, ». 7, 200, 215. 216 », 2, 245 ». 1. CORSANICO, 225. ('orsica, Corsi, 12 ». 2, 16 ». 4, 28 ». 4. Corte di Bonvicino Giuseppe Amedeo, 85, 86. Corvetto Luigi. 12 ». 2. Cossato Luigi 184 ». 1. 256 CostrABILE A., 187 il, 3. Costantinopoli, 41. 45 n. 2, 94, 103. Costanza (città), 188. Costanza (lago), 186. Cotta Giovanni Antonio 184 , n. 1. Cracovia, 134 n. /. Cristiani di Ravaranò Cesare 184 n. 1. Croce Andrea, 217 n, 1. Crocetta (torte della) 55 n. 3. Cromwell Oliviero, 117, Cuneo, 100. Cuneo C. 34 n. 2. Cuoco Vincenzo, 12 n. 2. D Bagnino Francesco Antonio, 20 n. 1. Daily News. 202 n. 4, n. 6. Damremont Carlo Maria Dionigi, 121 n, 1. Danimarca, 125 n. 1, 143, 244. Danubio, 186. Danzica, 120. Dapino Carlo, 217 n. 1. Dardanelli, 40, 40 n. 1. 77, 133 D’Aste Ippolito, 161. D’Azeglio Massimo, 83, 138,138 n. 2, 192, 196, 203 n. 1. Deabbate Giovanni Vincenzo, 46, 46 n. 1. n, 2, n. 3, n. 4, 47, 47 n. 1, n. 3, li. 4,110 n. 4, 113. De Alberti Domenico, 20 n. 1. De Albertis Gian Battista, 10. De Augustinis Matteo, 152, 152 n. 3, 153, 154. De Azarta (Governatore di Genova) 210. De Bartolomeis L. 25 n. 2, 28 ìì. 3, n. 4, 41 n, 3, n. 4, n. 5, ìì. 6, 42 n. 1, 55 n, 3, 80 n. ti, 110 n. 5, 115 n. S, 117 11. 1, 118 //. JT, 122, 122 n, 3, n. 4, 125, 125 n. J, n, 2, n. 5, 126 n. 4, 127_, 128 n. 1, n. 2, n. 4, n. 7, 132, 132 n, 2, n. 5, 133 il. 1, 142, 145, 145 n, 2, 11. 3, 155 ìi. 1, 157 11. 3y 158, 158 11. 1. n. 2, 161, 170, 170 11. 4, 11, 5, 180, 180 11. 2y 181 11, 2, 180, 100 11, 1, 242 11, 1. De Champigny Giovanni Battista, 28 n. 2. De Ferrari Andrea, 20 n. l. De Filippi G. B., 160. Degli Alberti M., 189 11. 1. Degola Etisftacchio, 20 11. 3. De la Eue Emilio, 20!) 11, 4. De la Tour, vedi Sallier. Delfico Melchiorre, 12 11. 2. Della Torre Raffaele, 225. De Luca Placidio, 152. De Marini Domenico, 20 n. 1. Demarini Ferdinando, 87, 87 11. 3, 88 n. 2, n. 3, 100. De Rossi di Santarosa Santor-re, 68. De Ruggiero G., 06. Des Geneys Giorgio Andrea 45 n. 1, 47 11. 2, 60, 70, 71. Diamante (forte del) 55 11. 3. Difensore della Libertà (II), 14 11. 2, 15 n. 2. Di Negro, 206 n. 3. Di Salusso Annibaie, 184 n. 1. 257 Domenico (Chiesa (li San), 50, 59 n. 2, 61. Domenico di San Pier D’Arena, 224. Donato (Chiesa di San), 225. Donaver Federico, 23 n. 2. Boria Andrea, 224, 225. Boria Giorgio, 206, 206 n. 3, 209, 211. Boria Giovanni Francesco, 16 n. 2. Boria Jacopo, 160. « Bue Fratelli (I) » (brigantino), 93. Bue Fratelli (I) (forti), 55 n. 3. Bue Sicilie (Regno delle) 41,120, 127, 132, 214 n. 3, 241. Burando Giacomo; 166. Burazzo Gerolamo, 26. Burazzo Ippolito, 29 n. 1. Bu Tillot Guglielmo, 24. E Eandi Giuseppe, 108, 156 n. 4. Eco dei Giornali, 160,’ 162, 169, 169 n. 2, 170 n. 1, 171 n. 1, 191 n. 4, 192 n. 1, 193 n. 1, 194 n. 4, ìi. 6*, 195 il. 1. Egitto, 40, 121 n. 1, 132, 133. Elea (isola d’) 12 n. 2. Elena Bomenico, 157. Emerson Arbutlmot, 202. Emilia, 75, 180, 181, 198. Erede Michele, 34 n. 2, 143 n. 1, 147, 151, 152, 153, 154, 160, 161, 162, 167, 168 n. 4, 169, 170, 171, 172, 173, 180, 180 n. 1, il. 2, 191 ?i. 4, 192, 192 17 n. /, 193 n. /, 194, 194 n. 5, 195, 196, 200, 202, 205, 210 n. 2, 213, 213 n. 4, 215. Esino, 181 ìi. 2. Esperò, 148, 149 n. 4, 151, 188 n. 1. F Fabbri G., 142 n. 2. Farina Paolo, 174. Farini Luigi Carlo, 203 n. 1. Faverges, 233. Ferdinando II di Napoli, 132 n. 7. Ferrara, 174. Ferrari Gv 71 n. 5. Fieschi Agostino, 29 n. 1. Fieschi Gio Luigi, 225. Filadelfia, 45, 46, 47 n. ò, 105, 113, 113 n. 3. Filangeri Gaetano, 17 w. 2. Filippo di Borbone, 24. Finale Marina, 44 n. 1, 122, 145 ìi. 3. Firenze, 101, 156, 175, 172, 183 n. 2, 197, 197 n. 1. Fiume, 120. Foce (cantieri della), 145 n. 3. Foce (Lazzaretto della), 80, 81 ìi. 1, 129, 145. Foscolo Ugo, 12 n. 2, 154. Fossati A., 48 n. 2, 77 n. 2, 81 n. 2, 82 ìi. 1, 102 n. 5, 103 il. 2, n, 3, 109 n. 6, 113 il. 2, 123 n. 1, 143 ìi. 3, 144 il. 1. Fourier Carlo, 96. Francesco I (d’Austria), 134. Francia, Francesi, 12 n. 2, 14 ìi. 2, 17, 23 n. 2, 25 n. 2, 258 27, 28 n, 3, 31, 32, 35, 38, 41, 42, 46, 55 ìi. 3, 66 n. 2, 75, 77, 77 n, /, 81, 84, 05, 06, 00, 102, 110 n, 5, 111, 116, 117, 118, 120, 121 n. 1, 122, 127, 128, 120, 130, 132, 133, 138, 141, 143, 150, 151 n. 1, 154, 156, 156 n. 2, 177, 178 n. 1, 170, 180, 182, 186, 188, 101, 200, 205, 214, 216, n. 1, 218 n. 2, 223, 224, 226, 233, 237, 239, 244 n. 1. Francoforte, 181. Fravega Giuseppe, 20 n. 1. Fregoso (casa), 224. Fregoso Ottaviano, 224. Freschi Gherardo, 173. « Frizzi (spia austriaca), 12 n. i, 13, 13 n. 2, 14, 16, 18, 10, 21, 22 n. 2, 38, 30 n. 1, 55 n, 2, 56, 56 n. 1. Fronti Bassi (fortificazioni), 55 n. 3. G Galeani ^AnoNE Francesco, 17 n. 2, 42 n. 3. Galletto (monte), 55 n. 3. Gallo G., 162 n. 2, 205 n, 2. Gandolfo Giuseppe, 20 n. 1. Garello Franco, 160. Garibaldi A. (vice console di Filadelfia), 105, 113,113 n. 3. Garibaldi Giuseppe, 174. Gastaldi Andrea, 89. Gastaldi L. (procuratore), 213 n. 3. Gazier A., 20 n. 3. Gazzetta d’Augusta, 164 n. 1. Gazzetta di Genova, 70, 04, 140 n. 4, 1.03 n. 1, 212 n. 3. Gazzetta* Ufficiale, 204 n. I. Gentili F., 176 n. 1, 204 n. 2. Germania, 23, 75, 07, 08,106,117 n. 3, 122, 134 n. 1, 150, 151 n. 1, 156, 171, 178, 170, 183, 185, 188, 101, 101 il. 2, 105, 200. Gesuiti, 22. Ghigliossi Giuseppe Ignazio, 43, Gibilterra, 110, 118, 125, 126. 126 n. 1, n, 4, 244. Ginevra (città), 182, 107 n. 1. Ginevra (lago), 186. Gioberti Vincenzo, 83, 138, 138 n. 2, 166, 102, 214 il. 3, 215. Gioia Melchiorre, 238. Giornale di Odessa, 93. Giornale Ligustico, 00, 162. Giovane Italia (La), 08, 140. Giovanetti Giacomo, 108, 109 ìi. 1, n. 2, n. 3, il. 4, 130. Giovi (passo dei), 28 n. 3, 170, 180, 108, 100. Giulia (via), 220. Giuliano (collina di San), 55 n. 3» Giuliano a Mare (forte di San), 55 n, 3. Giulio Carlo Ignazio, 108, 124 n. 3, 141, 141 n, 8, 145 n. 2. Giustiniani Demetrio, 224. Gottardo (San), 136, 182, 186. Governo Provvisorio della Repubblica di Genova, 11, 12, 15, 18, 23, 20, 20 n, 1, 30, 30 ìi. 4. Granara Agostino, 225. Granarolo (forte di), 55 n. 3. Gran Brettagna, vedi Inghilterra. 259 Grandi Carlo, 217 ». 1. Gravellone, 184, 185. Grecia, Greco, 42 ». 2, 06 ». 2, 21(ì ». 1. Grenoble, 181. Grigioni (cantone dei), 72, 188, 188 ». 2. Grillo Cattaneo Nicolò, 73. Grillo Stefano, 217 ». 1. Grimaldi (casa), 224. Grimaldi Gerolamo, 90 ». 1. Grimaldi Giuseppe, 50, 57 ». 1, 58. Guatemala, 244. Gubbio, 181 ». 2. Guglielmino E., 59 ». l. Guizot Francesco, 182. H Haiti, 244. Hong Hong, 123. Huskisson, 183. I Iemolo A. C., 20 ». ,3. Impero Austriaco, vedi Austria Impero Francese (Secondo), 95. Impero Napoleonico, 11, 22, 20, 30. Impero Ottomano, vedi Turchia. Impero Romano, 12 ». 2. India, 97, 121, 122,123,124,125, 125 ». 5, 170, 178, 193, 195, 200, 202. Indicatore Genovese, 99. Inghilterra, Inglese,20,31,40 ». 1, 41, 42, 45 ». 2, 46, 71 n.5, 77, 95, 96, 97,103, 106,116 117, 117 ». 1, ». 3, 118, 119, 120, 121, 121 ». 1, 122, 123, 124, 125, 126, 126 ». 1, ». 4, 130, 131, 132, 135, 138, 143, 147, 150, 168, 168 n. 4, 169, 170, 171, 172, 177, 178 ». 1, 188. 190, 190 ». 8. 191, 191 ». 2, 193, 194, 195, 200, 201, 202, 214, 210 ». 1, 218, 237, 241, 244. Innsbruck, 181. Interiano Giovanni, 224. Ionie (Isole), 132. Iouffroy Ih., 121 n. 1. Journal des Dèbats, 130. Irlanda, 118, 124, 244. Isabella II (di Spagna) 127. Isnardi Felice, 73 ». 4. Istituto Nazionale Ligure, 173. Italia (Regno d’), 12 n. 2, 32. Ivrea, 44 ». /. K Kainardij (trattato di), 40 ». 1, 94, 94 ». 1. L Lafitte Jacques, 96. La Havre, 136. Lalande G. L., 28 ». 4. La Marmora Alfonso, 210. Lambrusohini Gian Battista, 20 ». 3. Lampato Francesco, 168 ». 2. Lanata, 226. Landau, 183. Landitcci, (avvocato) 191. Langhe, 44 ». 1. 2(30 Lanterna (faro), 55 «. 3, 1 62, 224, 242. Lanterna (porta della), 55 u. 3, 180 ìi. 2. Lautaeet (passo del), 28 n. 3. Lazio, 197. Lazzari Fabrizio, 206 n. 3. Lecco, 136. Lega Doganale Italiana, 98, 138 n. 2, 163, 163 n. 2, 165, 166 n. 2, 177, 200, 204, 204 n. 2, 212, 215. Lega Doganale Tedesca, vedi ZOLLVEREIN. Legazioni Pontificie, 96, 185, 197, 198, 199. Lencisa Francesco, 78 n. 1, 232. Leopoldo I (di Toscana), 130. Leopoldo II (di Toscana), 104, 104 n. 1, 204. Levante, vedi Oriente. Levanto, 122. Levati P. L., 16 n. 1, n. 2. Libia, 66 n. 2. Libri Bagnano Giorgio, 12 n. 2. Ligure (Mare), 28 n. 3, 181, 185. Ligure (Regno), 30, 33. Lione, Lionese, 27, 28 n. 3, 103, 122, 181, 186. Lipsia, 181. Lisbona, 127. List Federico, 105. Litta Pompeo, 203 n. 1. Liverpool, 103, 172, 233. Livorno, 37, 39 n. 1, 50, 75, 84, 86, 89, 102, 104, 105,119, 130, 131, 131 n. 1, n. 2, 133, 134, 144, 144 n. 5, 149, 168 n. 2, 172, 183 n. 2, 191, 192, 197, 197 il. t, 198, 200, 216, 233, 235, 237, 238, 239, 240. Lloyd Austriaco, 92, 135 n. 1, 182, 188, 194, 195. Loano, 122. Lombardia, Lombardo, 14, 14 n. 1, 18 n. 1, 23, 24, 39, 41, 68, 75, 77, 77 n. 1, 81, 99, 115, 122, 129, 136, 140, 158, 171, 180, 181, 183, 185, 188, 191, 192, 198, 199, 210, 213, 233. Lombardo -Veneto (Regno), 39, 54, 103, 135, 148, 163, 166, 179, 184, 188, 198. Lo Monaco Vincenzo, 147, 159. Londra, 12, 30, 45 n. 2, 103, 123, 149, 151 n. 1, 168 11. 2, 172, 175, 190 11. 4, 214 11. 3. Lorenzo Benoni (romanzo), 73. ‘Lorigiola G., 205 n. 2, 210 n. 1. Lubecca, 143. Lucerna, 181. Luciani Giacomo Filippo, 148, 149, 149 11. 1, n. 2, 202 n. 8. Lucifera, 152. Luckmanier, 182. Luigi (festa di San), 73. Luigi XII (di Francia), 35, 224, 226. Luigi XIV (di Francia), 23 n. 2. Luigi Filippo (di Francia), 96,99. Lupi Luigi, 14 n. 2. Luzio A., 19 11. 2, 162 n. 2. M Maggiore (Lago), 72, 136, 182, 185, 186. Magioncalda Nicolò, 147. Magnini (Sacerdote) 161. 261 Magra, 33. Malnate K, 80 n. 4, Malpioa Cesare, 340 n. 6. Malta, 118. Mameli Goffredo, 106. Manchester, 117. Mandraccio, 70. Manfroni C., 34 n. 2. Manno Giuseppe, 03 n. 1,163 n. 1, 184 n. 1. Mannucoi F. L., 10 ìi. 2, 20 11. 3. Mantova, 181. Marco (ponte di San), 70 n. 1. Mare del Nord, 125 n. 1, 101, 103. Marengo E., 34 n. 2. Marocco, 40, 71, 106, 132, 132 11. 6. Marone Giambattista, 184 n. 1. Marozzo della Rocca (famiglia), 50 n. 2. Marsiglia, 27, 28 n. 4, 37, 30 il. 1, 50, 81, 84, 86, 08, 102, 102 ìi. 4, 105, 116, 125 n. 4, 128 n. 7, 120, 130, 133, 134, 136, 144, 145, 147, 182, 183, 188, 180, 101, 103, 104, 100, 216, 232, 233, 235, 238, 230, 240. Martinengo M. A., 103. Martini G., 11 n. 1. Martino (forte di San), 55 n. 3. Massena Andrea, 226. Massone Marcello, 20 n. 1. Mazzini Giacomo, 10. Mazzini Giuseppe, 10 ri, 2, 73, 74, 83, 08, 00, 100, 100 n. 2, 101,138,140, 153,156,160 n. 1, 106. Mediterraneo (Mare), 26, 40, 40 n. 1, 48, 71 n. 5, 86, 110, 121, 122, 127, 130, 132 n. 6, 137, 142, 145, 181 n. 2, 104, 104 ìi. 1, 107, 108. Mehemet Alì, 121 n. 1. Mercanzia (ponte della), 70. Messico, 244. Metternich Clemente, 30. Michele (Bastione di San), 55 n. 3. Milano, 14 n. 2, 26, 101, 124, 136, 156, 156 ìi. 4, 181, 182, 183 il. 2, 188, 102, 103, 223, 233, 236, 242. Milanta Felice, 105, 105 n. 2? 133. Milanta Gaetano, 02 n. 1. Mioli C., 21 n. 4, n. 5, 27 n. 2, il. 7, 28 n. 2, 50 n. 1, 84, 213 il. 2. Mittermaier C., 122 n. 5, 131 ìi. 1, 132 11. 3, 155, 156 n. 17 157 n. 3, 158 n. 1, n. 3, 164 il. 1, 165 il. 3, 166. Modane, 186. Modena (città), 108. Modena (Ducato di), 143, 156 n. 2, 233. Mojon Benedetto, 10. Moka, 125. Molo Vecchio, 202. Monaco (Francia), 224. Monaco di Baviera, 186. Moncenisio, 28 n. 3, 180, 181, 102. Monferrato (marchese di), 223. Mongiardini Giovanni Antonio, 10. Monitore Ligure (I/-), 14 n. 2, Monroe James, 46. 262 MONTENOTTE, 44 ». 1. Montesano (collina di), 55 ». 3. Monteyideo, 174. Monza, 183 », 2. Mokasso Gaetano, 217 ». 1. Morohio Davide, 210. Morning Groniele, 120, 193. Morro Luigi, 56, 57 n. 1, 58, 84, 86, S7, 87 ». 1, ». 2, ». 3. Mortasa, 204, 204 w. 3. Mosca Carlo Bernardo, 184 ». 1. Mtjrat Gioacchino, 13. Mussino Giuseppe, 217 ». 1. N Napione Francesco, vedi Galeanj . Napoleone, vedi Bonaparte. Napoli, 17 n. 2, 132, 152, 156, 183 ». 2, 197, 197 n. 1. Negri P., 173 ». 3, 207 ». 1. Negrotto Giuseppe, 29 ». 1. Neri A., 14 ». 2, 163 ». 1. Nero (Mar), 40 ». 1, 41, 41 ». l, 44, 45, 45 ». 2, 75, 87, 91, 92, 94, 94 ». 1, 105, 109, 111, 115, n. 2, 131 », 2, 133, 134, 142, 237, 238. Nilo, 194 ». 1. Nizza, 24, 37, 38, 84, 87, 100, 104, 105, 122, 128, 129, 151 ». 1, 180, 232, 240, 241. Norimberga, 181. Norvegia, 47, 106,125 ». 1, 142, 244. Novara, (città), 24, 186. . Novara, (battaglia del 1821), 69, 71. Novara, (battaglia del 1849), 164, 210, 215, 219. Novi, 25, 41, 103, 122, 179, 180, 180 ». 2, 186. Nuova Granata, 244. Nuovo (Molo), 80. Nurra P., 17 ». 1, 20 ». 3. O ODESSA, 44, 91,92, 105, 120, 186. OLANDA, 23 ». 2, 25, 28, ». 4, 47, 117, 125, 125 ». 2, 143, 151 ». 1, 178 ». 1, 182, 183, 195, 218, 244. Oldemburgo, (Granducato di), 47, 143. Oleggio, 186. Oneglia, 122. Oporto, 127. Oriente, 17 ». 2, 23, 40, 72, 77, 81 ». 1, 109, 122, 127, 131, 133, 137, 140, 144, 165, 171, 198, 199, 237, 239. Oriente (Estremo), 123, 134, 134 ». 1, 178, 193, 194, 200. Oriente, (Guerra d’ —, 1828, 1829), 76, 91. Orloff Gregorio, 40 ». 1. Osservatore Triestino, 195. OSTENDA, 200. Otranto, 193, 194. « Ottavia Carolina » (nave), 125 ». 4. Ottone (città), 25. Owen Roberto, 96, 159 P Paesi Bassi, vedi Olanda. Pagano Nicolò 102. I’allavicini Camillo, 141, 263 Pallavioini (marchesa), 12. Pallavioino Paolo Girolamo, 29 n. 1. Palmerston, 121 n. 1. Pammatone (ospedale di), 158, 225. Paolo da Novi, 224 Papa Giovanni Antonio, 160, 170, 170 n. 1, 191 n. 2. Papa Giuseppe, 39 n. 3, 40 n. 2, 44 n. 4, 82 n. 2, 115, 143. n. 1, 147, 156 n. 2, 160, 162 n. 1, 165, 167, 188, 189, 193 n. 6, 196, 196 n. 2, 197, 198, 199, 200, 201 n. 1, 213, 214, 214 n. 3, 215, 216, 217, 217 n. 1, 217 n. 2, 218, 218 n. 1, n. 2, 243 n. 1, 244 n. 1, 245 n. 1. Pareto Agostino, 12, 16 n. 4, 29 n. 1. Pareto Lorenzo, 157, 157 n. 5, 196, 209, 217 n. 1. Parigi, 12,13 n. 4, 14 n. 2, 130, 168 n. 4, 175, 186, 197 n. 1. Parini Giuseppe, 154. Parisi A., 20 n. 3. Parma, 75, 156 n. 2, 188, 191, 192, 198. Parma e Piacenza (Ducato di), 24, 28 n. 3, 179. Passonovo (Lazzaretto del), 80. Pastine O., 23 n. 2. PATETTA Federico, 12 n. 2. Paulucci Filippo, 148, 174, 174 n. 1, 206 li. 3, 207 n. 2. Pavia, 180, 186. Peel Roberto, 118, 169 n. 1. Pellegrini Angelo, 12 n. 2. Pellegrini Didaco, 160, 171, 173, 206 n. 3, Penco G. F., 217 n. 1. Penco Nicolò, 217 n. 1. Perù, 244. Pessagno G., 34 n. 2. Petitti Carlo Ilarione di Eoreto, 34 n. 2, 108, 115, 139, 139 n. 2, 141 n. 8, 143 n. 2, 157, 157 n. 4,158 n. 4,160, 160 n. 1, 161, 161 n. 1, 164 n. 1, 165 n. 1, 166 ìi. 1, n. 2, 168 n. 2, 171, 173, 183, 183 n. 1, n. 3, 184 n. 3, 186, 187, 189, 190, 190 n. 2, ìi. 4, n. 6, 191, 191 n. 3, n. 4, 192, 193 ìi. 1, 194, 195, 201 n. 2, -205, 208,209 n. 1, 210 n. 2, n. 3, 213, 217 n. 2. Pezzi G. I., 160. Piacenza 24, 28 n. 3, 75, 179, 180, 180 n. 2, 181, 188, 191, 192, 198. Picca-pietra (collina di), 55 n. 3. Pico Carlo, 29 n. 1. Pietra Minuta (Bastione di)’ 55 n. 3. Pini Gian Battista, 90 n. 1. Pinn (fortino), 55 n. 3. Pio IX, 174, 196, 204. Pisa, 183 n. 2, 191 n. 4, 197. Pistoia, 20 n. 3. Po, 28 11. 3, 181, 241, 242. Polcevera, 171, 179, 180 n. 2. Politecnico (il), 141 n. 89 181 il. 2, 184, 185 n. 1, 186 n. 1. Polonia, Polacco, 96, 117, 134 ìi. 1. Pontedecimo, 179. Porretta (passo della), 198, 199, Porro Ignazio 184, 186. Porro Gaetano, 14 n. 2. Porta Ottomana, vedi Turchia. 204 Portello, 55 n. 3. Portici, 183 n. 2. Porto Frango (di Genova), 22, 27, 33, 48, 49, 77 n. 2, 78, 79, n. 1. n. 2, 80, 80 n. 2, 84, 85, 85 li. 2, 86, 89, 103, 104, 145, 148, 187, 189, 232, 235, 240, 241. Portogallo, 40, 41, 46, 111, 122, 125, 126, 127, 178 n. 1, 244. Porto, vedi Oporto. Fortori a, 225. Potenti, 197 n. 1. Pra, 145 ìi. 3. Pralormo Carlo Giuseppe, 151 n. 1. Prasca E., 11 n. 1. Prato G. 24 n. 2, 97 iu 1, 106 n. 1, n. 2, 108 ìi. 2, 109 n. 2, il. 3, 135 ìi. 3, 136 n. 2, 141 ìi. 2, ?i. 6, 142 n. 2, 150 4, 166 2, 167 w. 2, 172 n. 2, 173 ìi. 1, 176 ?i. 2, 183 ti. 2, 7i. 4, 187 7t. 2, 189 7i. 2, 191 ti. 7, 191 7i. /, ti. 2, 204 7i. 3. Predari Francesco, 143 n. 1, 180 71. I, 191 71-. 4. Provana Michele Saverio, 59 n. 2, 62, 63, 65, 66, 67. Prussia, 47, 106, 117, 117 n. 3 120, 135, 178 n. 1, 205. Puglia, ili. Q Quaglia Zenone Leone, 209. Quarelli di Lesegno Giovanni, 184 n. 1. Quartara Giovanni 29, n. 1, 62 n. 1, 66. Quezzi (forte di), 55 n. 3. Quezzi (torre di), 55 n. 3. R Pacchia P. Eomualdo, 186, 189. Paggi Gian Battista, 206 n. 3. Paggio Stefano, 225. Eamognini Francesco, 160. Ranco Lorenzo, 160. Patti (forte di), 55 n. 3. Ravenna, 28 n. 3. Rebizzo Bianca, 157, 157 n. 7. Redattore Italiano (II), 14 n. 2. Reggio Calabria, 197 n. 1. Reno (Germania), 186, 193. Repetto Andrea, 19. Repubblica Genovese aristocratica, 11, 16, 17, 18, 20 ìi. 3, 21, 23, 24, 26, 28 n. 3, 49, 83, 84, 90 ìi. 2, 138, 210, 223, 224, 225. Repubblica Genovese democratica, 14 n. 2. Reta Costantino, 210. Revue des Deux Monde#, 121 n. 2, 150 ìi. 2, 203 n. 1. Reuve Nouvelle, 190 n. 2. Ricci Alberto, 212. Ricci Vincenzo, 22 n. 3, 158 n. 4, 166, 166 n. 4, n. 5, 196, 206 ìi. 3, 209, 212, 213, 213 n. 3, 214. Richelieu (forte di), 55 n. 3. Ridella F., 140 ìi. 2, 156 n. 4, 174 ìi. 2, 205 n. 2, 206 n. 2- il. 3, 209 ìi. 2, ìi. 3, n. 4, n. 5, n. 6, ìi. 7. Righetti P., 202 n. 7. Risorgimento (II), 210 n. 3, 265 Rivarola Stefano, 66, 66 n. 2. Riviere (Le Due) 20, 28 n. 4, 41, 147, 179. Riviera di Levante, 179. Riviera di Ponente, 179, 180. Rivista Europea, 141 ». 8, 145 ». 2, 156 ». 1, ». 3, 158, 174, 175 ». 1, 187. Rivista Ligure, 34 ». 2, 161 ». 5, 171. Rivoluzione Francese, 17, 22, 30, 41. Roooa (piano di), 55 ». 8. Rogo A Peliegro, 185. Rodano, 182, 186,233. Rodolico N., 20 ». 3, 99 re. 3, 108 ». 2., 141 ». 8. Roget di Cholet Gaspare, 85, 86, 87, 87 ». 1, ». 2. Roma, 175, 176, 183 ». 2, 197, 197 ». 1. Romagne, 96, 132 ». 1, 149, 181, 199.’ Romagnosi G. D., 153. Ronco, 42 n. 2. Rosi M., 125 n. 4. Rossi Pellegrino, 12 n. 2. Rosso (Mare), 194 n. 1. Rosso G., 28 ìi. 3, 179 n. 1, n. 2, n. 3. Rota E., 13 n. 4, 14 ». 2, 24 ». 3. Rotterdam, 136. Rubattino Raffaele, 217 ». 1. Ruffini (fratelli), 74. Ruffini F., 20 11. 3. Ruffini Giovanni, 73. Ruini M., 12 ». 2, 16 ». 4, 26 ». 3. Russel Iolin, 96, ] 17. Russia, 40, 40 n. 1, 45 n. 2, 47, 94 ». 1, 117, 120, 121 ». i, 125 ». 1, 133, 134 11. 1, 178 ». 1, 214 ». 3. S Saochi Giuseppe, 242. Sadowa, 136. Saint-Simon Claudio Enrico, 96. Salasoo (armistizio), 206, 209, 211, 213. Sallier De La Tour Vittorio 46, 47, 47 ». 2, n. 3, ». 4. SandonÀ A., 163 ». 2. San Gallo (cantone di) 188 ». 2, San Giorgio (banco di), 17, 27? 33, 34, 34 n. 2, 201 ». 2. San Giorgio (forte di), 55, 55? ìi. 3, 209. San Giuliano (prov. di ìfovi) 186. San Pier d’Arena, 79 ». 1, 145 ». 4, 180 ». 2, 187. Santa Margherita Ligure, 28 ». 4, 132. Santa Sede vedi Stati Pontifici. Sant’Ilario, 180 11. 2. Saraceni, 179, Sardegna (isola), 28 ». 4, 40, 75, 90, 118, 129 ». 4, 132 ». 2, 211, 212. Sarzana (mura ili), 55 ». 3. Sassonia, 120, 135. Sauli Tomaso, 225. Sauli d’Igliano Ludovico, 45 », 2, 72, 72 ». 2, 139. Savignone, 180 ». 2. 266 Savoia (casa), 21, 24, 31, 32, 3o> 84, 100, 180, 204 ». 1, 207, 219. Savoia (provincia), 186, 233. Savona, 21, 28 ». 3, 34, 44 ». 1, 87, 100 ». 2, 129, 145 ». 3, ISO, 224, 233. Scassi Onofrio, 19. Sohelda, 186. Scialoia Antonio, 108, 153, 156 ». 1, 166 ». 2. Sclopis Federico, 48 ». 3, 54 ». 1, ». 4, ». 5, 139, 141 ». 3, ». 4, ». 5. Scoffera, 179. Scozia, 126. Scrivia, 171. Secca (rio), 180 ». 2. Segre A., 11 ». 1, 20 ». 2, 21 ». 1, 25 ». 1, ». 4, 33 ». 1, 38 ». 1, ». 2, ». 3, 39 ». 2, 44 n. 4, 54 n. 2, n. 3, 105 n. 2,111 n. 1, 122 n. 1, n. 2, 127 n. 1, n. 2, n. 4, 131 n. 4, n. 5, 134 n. 3, 172 n. 1, 1S2 n. 3. Sempione, 28 n. 3, 180, 186, 192. Senigallia, 131. Serra C., 206 n. 3. Serra d’Albugnano Luigi, 50, 50 ». 4, 51, 53. Serra Gerolamo, 23, 29 ». 1. Serra Gian Carlo, (marchese) 62 ». 1. Serra Gian Carlo, (lejaeobin), 16 ». 4. Serravalle, 179. Serristori Luigi, 138 ». 2. Sestri Levante, 92 ». i. Sestri Ponente, 180 ». 2. Sicilia, 12 ». 2, 125 ». 1, ». 2, 240. Silva P., 40 ». 1., 121 ». 1. Sivori Francesco, 71 ». 5. Smirne, 40 ». 1. Smith Adamo, 117. Solari Luca, 29 ». 1. Solari Nicolò, 56, 57 ». 1. Solaro De la Margherita Clemente, 118. Spadoni D. 12 ». 2. Spagna, Spagnoli, 25, 28 n. 4, 40, 41, 46, 66 ». 2, 121, 122, 126 ». 4, 127, 128, 178 ». 1, 218 ». 2, 223, 240, 244 ». 1. Spellanzon C., 11 ». 1, 17 »• 1> 18 n. 2, ». 3, 25 ». 3, 27 ». 4, n. 5, ». 6, 28 n. 4, 40 ». 2, 44 ». 4, 48 ». 1, 71 ». 2, n. 4, 72, 72 n. 1, ». 3, 9S ». 1, 99 ». 1, ». 3, ». 4, ». 5, 100 ». 2. Sperone (forte dello) 55 ». 3. Spezia (la), 28 ». 3, 80, 80 ». 2, 180. Spinola M., 11 ». 30 ». 1, ». 2, ». 3, n. 4. Spluga, 89, 136, 182. Spotorno G. B., 97, 97 ». 2, 99, 145 ». 3. Staglieno, 180 ». 2. Stanchi G., 158. Stati Pontifici, 12 ». 2, 28 ». 127, 131, 143, 197,214 ». 3. Stati Uniti d’America, 42, 46, 47, 48, 106, 110, 112, 113, 114, 115, n. 2, 116, 143, 216 ». 1, 218, 244. Stefani G., 121 ». 2. Strega (forte della), 55 ». 3. Stura, 180 ». 2. Suez, 121 ». 2, 178, 193, 194, 194 ». 2, 198, 200, \ Sumatra, 244. Svezia, Svedese, 106,125 ». 1, 142, 178 ». 1, 241, 244. Svizzera, 23, 39, 42, ». 3, 47, 72, 75, 106, 129, 131, 135, 136, 151 ». 1, 178 n. 1, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 188, 188 n. 2, 193, 205, 233. T Talleyrand - Périgord Carlo Maurizio, 14 ». 2. Tarlé E., 27 n. 1. Taylor Filippo, 217 ». 1. Taylor-Prandi (società), 145 ». 4. Teola (forte di Santa), 55 ». 3. Tenaglia (forte della), 55 ». 3. Tenda (col di), 24. Tevere, 181 ». 2 Thaon di Revel Ignazio, 15, 22 ». 1. Theisse, 120. Ticino (Canton), 136, 181, 188 n. 2. Tirreno, 76 ». 1, 186, 197, 242. Tomaso (Quartiere di San), 55, ». 3. Turohetti Odoardo, 174. Torriglia, 180 n. 2. Tortona, 25, 179. Tirolo, 47, 135. Toscana, 28 ». 4, 75, 120, 104, 127, 131, 131 ». 4, 138, 148, 156, ». 2, 158, 179, 191, 198, 216 n. 1, 239. Trabucco Cesare di Castagnette, 151 ». 7. Trieste, 14 ». 1, 24, 37, 39, 39 ». 1, 41, 81, 86, 94, 105, 116', 120, 121 ». 2, 132 ». 1, 267 134, 135, 136, 140, 144, 181, 182, 183, .188, 189, 191, 193, 194, 198, 199, 201, 202, 239. Tripoli, 71, 71 ». 5, 132. Troya Vincenzo, 156 ». 1. Turchia, 23 ». 2, 24, 40, 40 ». 1, 44, 45, 45 ». 2, 71, 72, 87, 94 ». 1, 101, 121 ». 1, 127, 133, 134 ». 1. U Ungheria, 31, 120. Uruguay, 142, 218, 244. V Vacca (porta di), 225. Vacoarezza Gaetano, 19. Vacchero Giulio Cesare, 225. Vallese, 44 ». 1. Varazze, 145 ». 3. Varignano, 80, 80 ». 2, 129,189, 239. Varo, 33. Venezia, 24, 39, 41, 81, 94, 132 ». 1., 135, 136, 181, 182, 183, 183 ». 2, 18S, 192, 198, 199, 239, 242. Venezuela, 244. Vercelli, 186. Vidua di Conzano Pio Gerola-mo, 20. Vienna 24, 30, 45 ». 2, 183, 189-». 1, 198, 241. Vienna (Congresso di), 11, 12, 18, 30, 31, 55, 56. Viesseux Gian Pietro, 138 n. 2. Vigevano, 24. Vigna L., 191 ». 4. 208 Vigne (Santa Maria delle), 20 ». 3. Villamarina, (Pes di) Emanuele, 206 ». 3. Visconti, 14 ». 2, 223. Vitale V., 11 ». 1, 12 ». 1, ». 2, 13 ». 1, ». 4, 14 ». 2, 15 ». 2, ». 2, 16 ». 3, ». 4, 17 ». 2, 18 ». 1, 19, 19 ». 2, 20 ». J, 21 », 2, 22 ». 2, 27 ». 3, 28 », 2, 29 ». 2, 32 ». 2, 58 ». 2, ». 2, 59 ». 2, 62, ». 2, 63, 63 ». 2, ». 2, 67 ». 2, ». 2. Vittorio Amedeo III, 17 ». 2, 24. Vittorio Emanuele I, 19, 20 », 3,21, 29, 38, 41, 45, 54, 56, 59, 69, 78 ». 2, 86, 229. Voghera, 24, 25, 179, 194. Voltri, 145 ». 3, ISO ». 2. W Waghorn Tomaso, 121 », 193, 200. Washington, 47. Waterloo, 31. Zanichelli D., 166 ». 5, 186 ». 3. Zerbino (collina dello), 55 », 3. Zino Ottaviano, 225. Zollverein, 97, 105, 106, 117 ». 3, 13o, 135 ». 3, ». 5, 136, 143, 163, 171, 182, 190, 190 », 8, 191, 195, 212. Zurigo (città). 181. Zurigo (Dieta di), 23. ERRATA CORRIGE: errata CORRIGE A pag. 6 linea 7 Bornete Bomate » » 19 nota 2 S. E. T. S. E. I. » » 194 nota 2 e 28 Lloyd Triestino Lloyd Austriaco » » 233 linea 32 Paverges Faverges INDICE GENERALE Prefazione.......... Pag. 5 Capitolo Primo - L’opinione pubblica genovese all’indomani dell’annessione al Piemonte . . . » li Tentativi diplomatici ed attività di congiurati dopo la caduta di Napoleone per salvare l’indipendenza repubblicana o promuovere l’unità d’Italia. - I partiti politici genovesi dopo il 1814. - Fattori economici nelle tendenze unitarie genovesi. - L’aristocrazia dopo la restaurazione. - I democratici, i bonapartisti, gli indipendenti. - Il giansenismo ligure. - L’unione al Piemonte ed i problemi d’ordine morale e materiale che ne derivarono. - D commercio di Genova nella seconda metà del secolo XVIII. - L’esperienza napoleonica. -Tendenze costituzionali dopo il 1814. - Il progetto di Costituzione del Brigno-le-Sale. - TJna relazione anonima intorno allo spirito pubblico genovese dopo il 1815. - Conclusione. Capitolo Secondo - Industria e commercio di Genova nel primo decennio dell’Annessione. I nuovi orientamenti dell’opinione pubblica dopo il ’21 . . . » 37 Il commercio e l’industria di Genova dopo il 1814. - I primi trattati di commercio e navigazione. - Tentativi di allacciare traffici regolari con le due Americhe. - L’azione della Camera di Commercio in difesa degli interessi genovesi. - Un caratteristico dibattito tra Genova e Torino nel 1817. - Tendenze costituzionali in Genova innanzi al 1821: la richiesta di un Oratore permanente presso la Corte di Torino. • Un nuovo documento sull?amministrazione comunale genovese nel 1820. - Lo spirito pubblico genovese durante i moti del 1821. - L’opera del Governo in favore del commercio di Genova dopo il 1821 ed i suoi scarsi risultati. - L’ambiente culturale genovese di fronte alla politica piemontese nel primo decennio deirannessione. Capitolo Terzo - L’attività economica e l’opinione pubblica genovese dal 1825 al 1835 . . . » 75 I principali rami del commercio genovese. • H commercio granario e le tariffe differenziali. • Diritti e formalità doganali nocivi al commercio. - L’azione economica, politica, sociale del Corriere Mercantile e della Camera di Commercio. - Il Porto Franco. • L’industria di Genova in un rapporto della Camera di Commercio. - Affermazioni d'italianità nella stampa genovese interno al 1830. -La borghesia genovese dopo’ il '30. - Politica estera ed interna del Piemonte nei primi anni di regno di Carlo Alberto. - Le tendenze liberisticlie genovesi e le prime timide concessioni governative. 2?Ó Capitolo Quarto - Gli sviluppi dei Commercio mediterraneo ed extra-mediterraneo genovese fino al 1846 . PAG. 108 Primi conni di liberti» commerciale in Piemonte noi 1835. ■ 11 Commercio transatlantico: L'opera dol vico-consolo Garibaldi a Filadelfia o il trattato di commercio o navigazione con gli Stati Uniti noi 1838. - L’Inghilterra od i suoi orientamenti economico-politici verso l'Austria intorno al '40. - Duo importanti articoli d’esportazione genovese in Inghilterra: seta o grano. - Il secondo ministero Peci e il trattato di navigazione anglo-piemontese nel 1841. - Il commercio genovese con il Portogallo, l’Olanda, il Belgio, Gibilterra, Città Anseatiche, Europa Settentrionale e Indio Orientali. - Il commercio mediterraneo: Spagna, Francia, Stati Italiani, Austria, Africa Settentrionale, Oriente. - Il trattato francosardo dol 1843 e l’opposizione francese, tino alla convenziono supplementare del 1846. - Il trattato sardo-turco del 1839. - La concorrenza del transito lombardo-veneto verso l’Europa Centralo. - Gli orientamenti liberali o liberistici nel loro valore etico e nazionale. - Il partito moderato a Genova o a Torino intorno al 1846: identità e contrasti. - Causo della persistente inerzia genovese. • Riforme in Piemonte ed ulteriori trattati commerciali. - Cenno suirindustria. Capitolo Quinto - Interpretazioni delle dottrine liberi- sticlie prevalenti in Europa intorno al 1846 . . » 146 Necessità urgente di risolvere la crisi commercialo e discussioni in proposito. - Il liberismo inteso come principio morale o nazionale. - Polemiche tra protezionisti e liberisti attraverso la stampa genovese. - La risoluzione dei problemi sociali corno baso dell’elevamento morale e dol progresso politico della nazione. - Problemi di cultura tecnico-professionale o risvoglio del pensiero e dell’attività nelle classi medie genovesi. - L’idea moderata federativa a Genova e a Torino: duo diverse interpretazioni. - Cobdeu e il liberismo inglesi giudicati a Genova. - Progressivo delinearsi dei partiti: radicali, conservatori, moderati. -L’ottavo Congresso degli Scienziati in Genova nel 1846. Capitolo Sesto - Gli sviluppi delle comunicazioni terrestri e marittime in relazione con i problemi genovesi e nazionali .......... 177 Il problema ferroviario nel suo valore economico o politico. - Le vie di comunicazione terrestre facenti capo a Genova intorno al 1846. - Necessità di sviluppare le comunicazioni con l’entroterra: discussioni e progetti. - L’Europa centrale e la concorrenza di Marsiglia, Genova e Trieste. - La questione ferroviaria considerata a Genova e a Torino. - Evoluzione dell’opinione pubblica genovese rispetto al problema delle ferrovie: dalla fase economica alla valutazione politica e nazionale. - Progetti riguardanti la Valigia delle Indie. - Una memoria di Giuseppe Papa sulle strade ferrate. - Sviluppi del commercio marittimo con l’Inghilterra. - Genova alla vigilia del 1848. Capitolo Settimo - Problemi economici e spirito pubblico genovese dal settembre 1847 all’aprile 1849 . . » 204 Il momento politico in Italia. - Il partito « dell’ordine » genovese. - La cosi detta « unione delle opinioni ». - Forze rivoluzionarie in Genova firn» all’aprile del ’49. - Le classi commercianti di fronte al problema dell’unità. - Il movimento commerciale nel*porto di Genova secondo una relazione di G. Papa. -Confronto fra il commercio marittimo genovese nel 1848 e quello di un ventennio innanzi. - Conclusione. DOCUMENTI N. 1 - Relazione Anonima intorno allo spirito pubblico e all’indole del popolo genovese - (Genova, 3 ottobre 1815)..........» 223 271 N. 2 - t)ue lettere dell’Avvocato Generale di Genova in cui si tratta dei motivi per cui alle adunanze del Corpo di Città intervengono pochissimi membri . . PAG. 227 N. 3 - Sommario dei motivi di decadenza del commercio di Genova e dei mezzi di ripararvi, contenuti nella memo-moria presentata al Ministero degli Interni dal Cavaliere Lencisa................» 232 N. 4 - Variazione numerica delle navi mercantili sarde nelle G direzioni dal 1820 al 1849. ... » 242 N. 5 - Specchio dei bastimenti inscritti nelle direzioni di terraferma.........» 243 N. 0 - Entrata delle navi nel porto di Genova dal 1814 al 1841...... . . . '» 243 N. 7 - Commercio con i principali stati extra-mediterranei nel 1848 .........» 244 N. 8 - Entrata di grano in porto franco dal 1823 al 1848 » 245 \