GIORNALE LIGUSTICO DI ARCHEOLOGIA, STORIA E LETTERATURA FONDATO E DIRETTO DA L. T. ‘BELGRANO ed jì. %ERI ANNO DICIOTTESIMO GENOVA TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDCCCXCI - ' VITA DI GUARINO VERONESE Questa Vita è condotta sull’ Epistolario inedito di Guarino. Non vi ho apposto note, perchè ne avrebbero accresciuto smisuratamente il volume; dall’altra parte è stato mio intendimento di dare al racconto biografico una forma, per quanto era in me, artistica, liberandolo da ogni ingombro di citazioni e di discussioni e mantenendolo, possibilmente, sempre oggettivo. Le molteplici relazioni di Guarino col suo tempo, raccolte in gruppi di maggiore o minor numero di anni, sono state ora intrecciate con la biografia, ora rappresentate separatamente, secondo Γ opportunità. Da esse si vedrà come Guarino e il suo secolo si illustrino vicendevolmente, ma senza che la personalità Guariniana ne rimanga scemata o sopraffatta. Nella storia dell’ umanismo Guarino è una delle più grandi e simpatiche figure; se io sia riuscito a ricomporla nella sua nativa interezza, tocca al lettore il dirlo; a me basta la coscienza di avere a questa ricomposizione consacrato non piccola parte della mia vita e sofferto per essa « fami, sonni e vigilie ». Catania 16 ottobre 1890. R. Sabbadini. 4 GIORNALE LIGUSTICO Primi, anni e primi studi di Guarino. (I 374-1402) 1. Da donna Libera e da mastro Bartolomeo dei Guarnii nacque Guarino in Verona nel 1374, l’anno della morte di Francesco Petrarca. Dalla patria egli desunse il soprannome di Veronese. Aveva un fratello, Lorenzo, il quale un bel giorno scomparve da Verona, senza che la famiglia ne avesse poi più notizie. Rimasero i due fratelli sin dai teneri anni orfani del padre. A Guarino l’immagine paterna tornava alla mente come una nebbia e un sogno. Bartolomeo prese parte alla guerra combattuta nel 1386 tra Francesco da Carrara, signore di Padova, e Antonio della Scala, signore di Verona, la quale finì miseramente con la disfatta dei Veronesi nella battaglia del 25 giugno presso a Padova. Le soldatesche veronesi erano guidate da Cortesia Serego, capitano che a dir di Guarino « di battaglie non se ne intendeva se non per quanto le avea lette nei libri 0 vedute nei quadri ». Mastro Bartolomeo fu fatto prigioniero con altri ottomila e morì poco dopo tra i nemici. Allora Guarino era appena dodicenne. I due figli rimasero sotto la cura della madre Libera « il modello delle mogli e delle vedove », la quale da quel dì in poi si consacrò tutta alla loro educazione. 2. Guarino fece i primi suoi studi naturalmente in Verona, dove ebbe forse maestro di filosofia morale Paolo de Paolinis e condiscepoli il Maggi e Giannicola Salerno, più giovani di lui, quegli stessi ai quali fu più tardi in Verona venerato maestro. Dai suoi compagni fu subito stimato ed amato per la sua bontà d’animo e per l’attività. Aveva ingegno svegliato, memoria pronta e, ciò che soprattutto piace in un fanciullo, GIORNALE LIGUSTICO 5 bel modo di porgere e di recitare, nel che egli ammirava tanto il suo maestro Crisolora. Era inoltre molto temperante e questo contribuì a renderlo forte a sostenere le fatiche dello studio, al quale egli si sentiva irresistibilmente chiamato. E siccome Verona non poteva offrir mezzi più che per una educazione elementare, Guarino dovette recarsi altrove a sentire dotti maestri, visitando a tale scopo « molti luoghi d’Italia ». 3. Fra quei « molti luoghi » va compresa la città di Venezia, nella quale egli « gettò le prime basi del suo vivere, dei suoi costumi e della sua educazione » e aove ebbe la fortuna d’incontrarsi nell’illustre patrizio Paolo Zane, che, ripromettendosi molto dall’ingegno e dall’attività di lui, lo prese a ben volere e gli fu largo di incoraggiamenti e di sovvenzioni. E fra quei « molti luoghi » va compresa soprattutto Padova, che allora come oggi era centro degli studi per quelle provincie che noi chiamiamo venete. A Padova teneva scuola di retorica un illustre maestro, Giovanni da Ravenna, cancelliere dei Carraresi. Tra gli allievi del Ravennate dovette Guarino avervi trovati molti dei suoi Veronesi, come Luigi Cattaneo, molti dei Veneziani, come Girolamo Donati; ci dovette avere trovato Pier Paolo Vergerlo, il Polenton, Ogniben Scola e altri. 4. La scuola del Ravennate a Padova non era umanistica; 1’ umanismo penetrò a Padova nel 1408 col Barzizza. Il latino del Ravennate era quello dei teologi e dei giuristi, latino che più tardi chiamarono barbaro e del quale Guarino ci dà questo saggio assai istruttivo : « Fobis re gratior quia de concernentibus capitaniatui meo tam bonorificabiliter per unam vestram litteram vestra me advisavit sapientitudo ». Guarino stesso nelle sue lettere adoperava il latino barbaro; di che lo rimproverava più tardi il figlio Niccolò, a cui era capitata fra mano alcuna di quelle antiche lettere del padre. 6 GIORNALE L1GUSTIGO 5. Terminati gli studi, si trasferì a Verona e ivi aperse una scuola privata. Fra i suoi allievi di quel tempo fu certamente Guglielmo della Pigna veronese. Costui nel 1413 si dottorò in giurisprudenza a Padova e prima di quell’ anno era stato alunno di Guarino : ciò non potette essere che in Verona. 6. Anche a Verona la cultura era al medesimo livello di Padova; l’umanismo in Verona fu portato solo da Guarino nel 1419. Però non mancava in questa città, alla fine del secolo XIV e al principio del XV, una classe di persone studiose; c’era Marzagaìa, morto assai vecchio tra il 1431 e il 1432, che godeva la stima di Guarino, maestro di grammatica e autore della voluminosa opera De modernis gestis, foggiata su quella di Valerio Massimo; c’erano alcuni della famiglia Nogarola, la quale pare si fosse messa a capo di un certo movimento letterario. Due Nogarola meritano particolare menzione, Angela e Giovanni: quella zia, questo zio delle famose sorelle Ginevra e Isotta. 7. Angela Nogarola, che deve aver vissuto parte a Verona, parte a Vicenza, scriveva versi latini, coi quali essa si indirizzava ai principi di quel tempo, come Pandolfo Mnlatesta, Giacomo da Carrara, Giangaleazzo Visconti; ai letterati, soprattutto vicentini, come Niccolò Facino, Antonio Loschi, Matteo Qrgian. Reminiscenze classiche se ne incontrano, p. e. di Vergilio, Orazio, Ovidio, Lucano, ma il suo stile non è classico e i versi rimati attestano quell’ indirizzo ancora barbaro, del quale si piaceva tanto il suo corrispondente vicentino Matteo Orgian. Troviamo in lei anche qualche reminiscenza petrarchesca, il che prova che essa non rimase estranea all’ influenza del Petrarca. 8. Maggiore influenza senza confronto esercitò il Petrarca su Giovanni Nogarola, ma non però il Petrarca latinista, sibbene il Petrarca rimatore. Giovanni venne creato cavaliere GIORNALE LIGUSTICO 7 nel 1404 insieme con l’amico Giannicola Salerno; nel 1408 era tra i consiglieri della sua città. Fu guerriero, poeta e congiurato. 9. Nel 1405 Verona dal dominio degli Scaligeri era passata a quello della repubblica di Venezia. Il mutamento non dispiacque alla maggioranza dei Veronesi, i quali furono da allora in poi tra i più fedeli sudditi della Serenissima; ma rimase sempre in Verona un partilo, che agognava il ritorno all’antico dominio. Alla testa di quel partito si mise nel 1412 Giovanni Nogarola, approfittando forse delle tristi condizioni in cui versava il governo veneto per l’invasione degli Ungheri. Ma il tentativo fini miseramente per il Nogarola, il quale fu preso e nel 28 decembre dell’ anno stesso condannato e nel gennaio 1413 decapitato in Venezia. 10. È strano trovare stoffa di congiurato in un poeta amoroso petrarcheggiarne. I congiurati del secolo XV furono umanisti, che s’ispiravano ai sentimenti attinti agli autori romani. Può darsi del resto che il Nogarola abbia nel Petrarca, oltre che il poeta amoroso, studiato e ammirato anche il poeta civile e che abbia esercitato sul suo animo una certa influenza pure Cola di Rienzo. In ogni modo il Nogarola ha anche cultura classica, come appare da qualcuna delle sue poesie volgari. 11. Le poesie volgari del Nogarola, le quali ci sono arrivate in buon numero, sono foggiate su quelle del Petrarca. Sono per la maggior parte sonetti con qualche sestina e qualche canzone. Dal Petrarca, oltre il nome di Laura, i pensieri, le strutture, toglie anche i versi interi. La sua lingua ha molti elementi veneti. 12. Nè il Nogarola era solo in Verona; altri Veronesi poetavano in volgare, p. e. suo fratello Leonardo, il conte Gregorio dal Verme, Tebaldo Broglio e Giannicola Salerno. Del Broglio sappiamo soltanto che nel 1405 fu dei commis- 8 GIORNALE LIGUSTICO sari, i quali andarono a Venezia a far atto di sudditanza in nome di Verona al governo della Serenissima. Ben più conosciuto è il Salerno, nato nel 1379 e morto nel 1426: buon letterato e magistrato. Con tutti questi veronesi il Nogarola corrispondeva in rima. Di qualcuno di essi abbiamo anche le risposte, come del Salerno, il quale oltre alla poesia amorosa coltivava pure la satirica. 13. Il Nogarola carteggiava anche con amici di fuori, quali Antonio Loschi, Antonio Alvaroto e Tommaso Cambiatore. Con questi due ultimi corrispondeva in rima. Antonio Alvaroto era un valente giureconsulto padovano, al quale sono indirizzati molti sonetti; ma non ci pervenne nessuna sua risposta. Risposte e non poche abbiamo invece del Cambiatore, che era amico del Salerno, poiché alcuni sonetti sono dal Nogarola indirizzati in comune al Cambiatore e al Salerno. 14. Il Cambiatore è un uomo di qualche importanza. Nacque a Reggio e studiò a Pavia sotto il Pinoti, zio materno. Fu giurista e magistrato. Si occupava soprattutto di studi morali e di poesia volgare. Nella poesia è petrarcheggiarne. Tradusse in ottave Y Eneide. Morì tra il 1451 e il 1456. Insegnò legge a Padova nel 1409; e fu probabilmente allora che conobbe il Nogarola. Era amico del suo concittadino Galasso conte di Correggio, cultore degli studi cavallereschi. Teneva commercio epistolare col modenese Gaspare Tribraco, col Bruni a Firenze, col quale discuteva di questioni morali, con Pier Candido Decembrio a Milano, al quale si raccomandava per un impiego presso il Visconti, e con Guarino. 15 Di buona parte di questi rimatori era amico Guarino; ma non pare che egli poetasse in volgare; egli batteva altra via, la via degli studi antichi. A lui più che il Petrarca rimatore dovette dare nell’occhio il Petrarca umanista. Ma più di tutto attrassero 1’ attenzione di lui il nome e la fama di un grande GIORNALE LIGUSTICO 9 straniero, del quale si parlava molto allora in Italia: il greco Manuele Crisolora. 16. Il Crisolora era capitato a Venezia nel 1396 con una ambasciata dell’imperatore di Costantinopoli; ma invece di parlare di politica, incominciò a parlare di letteratura. Spirava per l’aria un nuovo e forte risveglio degli studi classici; per il latino 1’ Italia potea bastare da sè, ma per il greco aveva bisogno di un maestro. Quale più bella occasione del Crisolora, venuto quasi per miracolo in Italia? Ne approfittò subito Firenze, dove ii Salutati alimentava la sacra scintilla suscitata dal Petrarca; e nel 1397 Firenze aveva già il Crisolora professore di greco. 17. Tre anni insegnò il Crisolora a Firenze. Nel 1400 arrivò in Italia il suo imperatore, che faceva un viaggio 'politico per le corti di Europa. Gli si accompagnò, cogliendo quel pretesto per fuggire la pestilenza che infestava Firenze e anche per trarsi da una posizione ambigua, che gli era stata creata in quella città da un certo raffreddamento degli animi. 18. Col seguito dell’ imperatore si trasferì alla corte del Visconti in Milano. Di là l’imperatore proseguì il suo viaggio diplomatico per la Francia e il Crisolora si fermò, invitato dal duca Giangaleazzo, protettore delle lettere, a dare un corso di retorica e di greco nello Studio di Pavia. Giangaleazzo aveva fatto pratiche col Crisolora per chiamarlo a Pavia sin da quando egli insegnava a Firenze. Fra gli scolari di Pavia ebbe Uberto Decembrio, segretario del candioto Pietro Phi-largis, allora vescovo di Novara, più tardi arcivescovo di Milano e nel 1409 papa col nome di Alessandro V. Aveva il Crisolora tradotta letteralmente in latino la Repubblica di Platone ; su quella traduzione letterale Uberto ne stese una un po’ più elegante. Più tardi, nel 1438, la traduzione fu ripigliata da Pier Candido figlio d’ Uberto e ridotta a forma IO GIORNALE LIGUSTICO assai migliore. Pier Candido era allora bambino di due o ÎD tre anni, eppure la « figura angelica », come egli la chiamava di poi, del Crisolora gli rimase così impressa, che non se ne dimenticò mai. 19. Guarino contava ornai ventott’ anni. Che aveva egli fatto sino allora di buono? Quel poco di latino barbaro imparato a Padova era ben meschino acquisto per uno, come lui, che si sentiva dentro un irresistibile impulso a progredire. Capì che senza il greco non avrebbe conchiuso nulla e perciò prese una energica risoluzione. 20. Morto nel settembre 1402 Giangaleazzo Visconti, il Crisolora lasciò Pavia e si riunì a Venezia all’ imperatore greco, che nei primi mesi del 1403 tornato dalla sua visita alle corti di Europa riprendeva la via dell’ Oriente. Migliore occasione non poteva offrirsi a Guarino. Ed egli P afferrò* senza esitanza e si accompagnò al Crisolora per imparare da lui il greco. Guarino a Costantinopoli. (1403-1408) 21. E qui comincia la vita nuova di Guarino. Egli forse trovavasi a Venezia quando vi arrivarono contemporaneamente Γ imperatore dal suo viaggio diplomatico e il Crisolora da Pavia. Si accompagnò dunque al Crisolora e con esso salpò da Venezia per Costantinopoli. 22. Le spese del viaggio le pagò a Guarino Paolo Zane, se pure non st lo prese egli con sè, perchè lo Zane aveva per conto proprio e per conto della repubblica veneta continue occasioni di andare in Grecia. Arrivato a Costantinopoli, Guarino fu ospitato in casa dello stesso Crisolora, dove egli' servì come domestico, mancandogli certamente il danaro per GIORNALE LIGUSTICO II pagare la pensione. E non ebbe a pentirsene, poiché così trattando anche con la gente bassa potè formar meglio P orecchio alla lingua greca. 23. Due erano in quel tempo i Crisolora a Costantinopoli: Manuele e Giovanni, quello zio, questo nipote. Tutti e due furono maestri di Guarino. La famiglia dei Crisolora era nobilissima e imparentata con la dinastia dei Paleologi allora regnante. Per mezzo del Crisolora fu Guarino introdotto nella famiglia imperiale, dove trovò cortese accoglienza e fu preso a ben volere, specialmente da Giovanni, figlio dell’ imperatore ed erede al trono. Gli venne anzi offerta dall’ imperatore una posizione stabile a Costantinopoli, che egli però rifiutò. 24. La casa del Crisolora era in un amenissimo sito e Guarino ricorda con affetto i cipressi e l’orto pensile, dove andava spesso a studiare. Grande ammirazione poi destò in lui « la città regale coi suoi due mari, coi suoi sontuosi edifici, coi suoi monumenti d’arte; » e molto diletto prendeva nel sentire dalle bocche dei bambini e delle popolane uscire tanto fresca ancora e così grammaticalmente conservata la lingua di Demostene e di Senofonte, egli che nel suo volgare italiano non aveva riconosciuto più nessuna traccia dell’ antica struttura grammaticale latina. 25. Manuele Crisolora andava e veniva spesso da Costantinopoli a Venezia per commissioni dell’ imperatore; in quelle assenze Guarino frequentava la scuola del nipote di lui Giovanni. I primi anni del soggiorno di Costantinopoli furono da Guarino dedicati interamente allo studio; ma poi dovette pensare anche al proprio sostentamento e fu allora che si mise ai servizi del suo protettore Paolo Zane. E infatti in un documento del 1406 incontriamo Guarino con la qualità di notaio e cancelliere dello Zane. In quel tempo ottenne pure una magistratura a Scio. È ovvio supporre che Scio, sotto lo giurisdizione di Venezia, fosse in uno di quegli anni 12 GIORNALE LIGUSTICO governata dallo Zane e che Guarino lo seguisse come segretario. 26. Frutto degli studi di Guarino in Costantinopoli furono alcune epistole in verso e in prosa e qualche traduzione dal greco, come la Vita di Alessandro di Plutarco e la Calunnia di Luciano. La Calunnia fu da lui mandata da Costantinopoli al patrizio veneziano Giovanni Quirini. Tra le famiglie veneziane con cui era in intima relazione va ricordata quella dei Barbaro, che ebbe poi tanta parte nelle vicende della sua vita. Prima di partire per Costantinopoli aveva conosciuto i fratelli Zaccaria e Francesco, quest’ultimo fanciulletto ancora e che fu più tardi uno dei suoi più illustri scolari. Nel 1408 Francesco aveva manifestato il desiderio di percorrere la via degli studi ; era da poco venuto a Padova Gasparino Barzizza, il Nestore dei maestri di quel tempo, e il Barbaro si preparava a frequentare la sua scuola. In Venezia però, dove si aveva più fiducia nel traffico che nella letteratura, il Barbaro veniva censurato, anzi beffato della sua risoluzione. Egli si difendeva mettendo innanzi 1’ esempio di Guarino e a lui scrisse dimandandogli un consiglio. 27. Guarino gli rispose incoraggiandolo a secondare imperterrito la propria vocazione e a non curarsi dei sarcasmi della gente profana e dedita all’ interesse materiale : « essere le ricchezze un possesso labile, sola la cultura non andar soggetta a perdersi; che il solo vero bene è la virtù e che il sapiente è il re dell’universo ». La lettera è infiorata di citazioni da Cicerone, Vergilio, Ovidio, Esiodo, Plutarco. Nello stile molto impacciato si nota un abuso di metafore. La conclusione è che egli anela il momento di abbracciare e baciare il suo Francesco e che tornerà sano e salvo, ma con la borsa vuota: spera in lui e negli amici per trovare una occupazione da campar la vita. 28. Nel 1408 dunque Guarino tornò da Costantinopoli. GIORNALE LIGUSTICO *3 Ma la trovò l’occupazione desiderata? Forse egli contava di trovarla..· in Venezia, ma s’ingannò. Qualche mese si sarà ivi fermato e non più; nel 1409 egli era in Verona sua patria, dove recitò il discorso di congedo per il podestà Zaccaria Trevisan. Però nemmeno a Verona si potè collocare; e allora tentò una nuova via: andò a Bologna. A Bologna risiedeva la curia pontificia : chissà che non 1’ attendesse colà la sua fortuna? Vi arrivò nel febbraio del 1410. 29. Vi arrivò in compagnia di due greci: Demetrio e Giovanni. Demetrio è quel Cidonio, che accompagnò sempre il Crisolora e che forse il Crisolora nel partire il 1408 per la Francia aveva lasciato a Venezia, con 1’ ordine di attenderlo colà o altrove. Chi fosse Giovanni, il cavaliere greco, non so: pare che dovesse portar dei libri e invece non portò che le sue vesti alla foggia greca, bizzarre, da quanto sembra, e che eccitavano 1’ ilarità nella moltitudine e nella curia. 30. La curia raccoglieva in quel tempo i migliori elementi della classe letterata d’Italia. Non vi si trovavano più i tre Veneti Zaccaria Trevisan, Marino Caravello e Pietro Miani, ma c’ erano il Rustici e Bartolomeo da Montepulciano. C’ era Bartolomeo della Capra, cremonese, vescovo allora della sua città, poi di Pavia e da ultimo arcivescovo di Milano, buono scopritore di codici ; c’ era Antonio Loschi, già famoso umanista; c’era lo Zabarella, arcivescovo e poi cardinale di Firenze, valente maestro e cultore di filosofìa. Ma i due più belli ornamenti della curia erano certo il Poggio, sempre sbadato e distratto, a cui gli ozi di Costanza riserbavano così splendida fama, e il Bruni, che sino allora aveva sviluppata la sua operosità specialmente nella filosofia e nelle traduzioni dal greco. 31. In mezzo a questa gaia e colta società entra, novello ancora, Guarino, quantunque non per tutti novello; qualcuno era sua vecchia conoscenza dei tempi che era stato scolaro H GIORNALE LIGUSTICO in Padova, come lo Zabarella. E poi lo precedeva una valida raccomandazione, P essere stato alunno del Crisolora in Costantinopoli. Al Bruni fece sopra tutti ottima impressione ed egli ce lo presenta senz’ altro come giovane dottissimo. Così Guarino potè stringere sin d’ allora con gli umanisti della curia quell’ amichevole relazione, che crebbe poi negli anni successivi per reciproca stima e scambio di lavoro letterario. 32. Al Bruni venne subito in mente che Guarino sarebbe stato un ottimo acquisto per lo Studio fiorentino e infatti ne scrisse al Niccoli facendogliene la proposta. La proposta fu subito accettata, perchè dopo non molti giorni il Bruni riscriveva al Niccoli annunziandogli prossima la venuta di Guarino a Firenze. Guarino a Firenze. (1410-1414) 33. Guarino pertanto nel marzo 1410 andò a Firenze, dove iniziò la sua lunga e famosa carriera didattica. Ivi trovò buona accoglienza e schietti amici e valenti scolari. Antonio Corbinelli gli offri la propria casa, nella quale Guarino divise col suo ospite liberale « gli studi, i pensieri, il vitto, il sonno, i discorsi ». Un amico sincero ebbe nell’ « ottimo e generoso » Palla Strozzi, con cui lavorava in comune. Era in buoni rapporti con Angelo Corbinelli, « esemplare come uomo di stato e come educatore dei propri figliuoli ; » con Paolo Fortini cancelliere della repubblica; con Roberto Rossi traduttore di Aristotele; con Antonio Aretino già magistrato a Vicenza, con Biagio dei Guasconi, con Girolamo Barbadoro, con la famiglia Boninsegni, col monaco Ambrogio Camaldolese. Tra i suoi migliori scolari di Firenze vanno ricordati i due Corbinelli e Giovanni Toscanella. CLRELGI ITNOOGUISA !5 34. Oltre di questi amici c’ erano in Firenze alcuni veronesi, come Luigi Cattaneo, che fu in Firenze giudice della mercanzia nel 1411, e il Giullari, suo segretario. Nella metà poi del 1413 la vita letteraria a Firenze si dovette maggiormente animare per la presenza della corte di Giovanni XXIII; sebbene egli non potesse entrare in città, dove entrarono però quelli del suo seguito. Qui rivide Guarino tutti gli amici che aveva imparato a conoscere in Bologna e rivide anche il venerato suo maestro Crisolora. 35. Con la società letteraria del resto che si raccoglieva intorno al pontefice negli anni che la curia stette a Roma (1411-14x3) Guarino era da Firenze in continua corrispondenza, specialmente col Crisolora. Il Crisolora, venuto la prima volta a Roma con Giovanni XXIII nel giugno del 1411, rimasto ammirato della grande metropoli dell’Occidente, approfittando dei suoi ozi scrisse una dissertazione dove mise Roma a raffronto con Costantinopoli, la grande metropoli dell’Oriente, e ne mandò una copia a Guarino. Guarino gli rispose ringraziandolo e facendo le sue lodi. 36. Oltre che con la società letteraria a Roma, Guarino entrò per mezzo di un suo vecchio amico in relazione con quella di Rimini, che metteva capo al marchese Carlo Mala-testa, « eroe della penna e della spada »; con lui Guarino avviò scambio di libri. 37. Ma molto più vivi sono i rapporti di Guarino coi tre centri letterari del veneto: Verona, Padova, Venezia. I due veronesi Guglielmo della Pigna e Luigi Cattaneo lo tenevano in relazione con la società di Verona. Il Cattaneo studiava legge a Padova. A Padova regnavano allora Gasparino Bar-zizza bergamasco e un condiscepolo di Guarino, Ogniben Scola padovano, intorno ai quali si raccoglieva tutta 1’ attività letteraria. Lo Scola specialmente era di una grande versatilità e, si direbbe, elasticità. Corrispondeva col Bruni e con lo 16 GIORNALE LIGUSTICO Zabarella, che erano presso la curia papale , e con Antonio Capodiferro; coi veronesi Giovanni Nogarola, Paolo Maffei, Luigi Cattaneo, il Giullari; coi veneziani Giovanni Micheli, Niccolò Contarini, Marco Lippomano, Pietro Donati, allora (1412) protonotario e più tardi arcivescovo di Creta, e coi due Barbaro, Francesco e Ermolao, zio e nipote : Francesco giovinetto di ottime speranze, Ermolao poco più che bambino d’ ingegno precoce. 38. Con questa società gaia, mobile, studiosa aveva strettissimi legami Guarino. Erano suoi amici tutti, che aveva avuto occasione di conoscere o a Venezia o a Padova prima di andare a Costantinopoli o nel ritorno; alcuni erano suoi confidenti, il protonotario Donati e i fratelli portoghesi Alfonso e Valesio, alunni del Barzizza. Ed egli si piace di rappresentare umoristicamente quella società padovana. « Ai pranzi di Pietro Donati non s’imbandisce Cicerone, Fabio e Macrobio, ma Alessandro, Perdicca e i sacerdoti Galli. A Padova si adora per patrono il dio Bacco, a cui si fa festa tutti i giorni. E gli iniziati del dio cominciano sin dal mattino a chiamare a raccolta con certe facce rubiconde, con certi nasi maestosi e bitorzoluti, con certi occhi lagrimosi! Ivi mattina giorno e sera sempre orgia. Altro che il ginnasio di Socrate e P accademia di Platone! in illis namque disputari solitum aiunt, in his vero nostris dispotari, immo trispotari quaterque potari frequens patriae mos est.... Academici de uno, de vero, de motu disserunt, hi nostri de vino, de mero, de potu dispotant. 39. Questa società però attraversò un brutto momento. Negli anni 1411 e 1412 le città venete Udine, Venezia, Verona furono funestate da una terribile invasione di Ungheri; Padova, Vicenza, Verona vennero conquistate e saccheggiate. Lo Studio di Padova si chiuse, il Barzizza si rifugiò a Ferrara, lo Scola a Verona e di là a Cremona, i giovani patrizi veneziani a Venezia. Guarino soffri molto per i danni toccati alla sua GIORNALE LIGUSTICO 17 amata Verona; e fosse per questo o per non so quali altri motivi, l’anno 1412 gli passò molto triste. « Tutti i favori della sorte mi si mutano in contrarietà ; i pensieri, le deliberazioni sortiscono Γ effetto opposto. Le mie più belle e più fondate speranze mi sguisciano di mano come serpenti. Fa una bellissima giornata? Mi metto in viaggio e giù acqua e grandine a rovesci: tutto mi succede al contrario dei miei desideri. Sicché eccomi qui errante e ramingo mutar luogo ma non fortuna ». E finisce invidiando all' amico Scola, a cui scriveva così sconfortato, la costanza nelle avversità e l’anima veramente stoica. 40. Par di vedere in Guarino come scossa e pericolante la sua posizione di professore a Firenze; altrimenti non si saprebbero spiegare quelle sue querimonie. Che egli avesse in quella città incontrate molte e potenti amicizie, si è veduto; bastino i nomi di Antonio Corbinelli, Roberto Rossi, Palla Strozzi, tutte persone autorevoli e a lui sinceramente affezionate. Ma è anche certo che vi deve aver trovato non poche ostilità.. Se ne sente P eco, un po’ lontana ma abbastanza viva ancora, in una lettera posteriore di alcuni anni. « Io chiamo in testimonio Dio e i suoi santi, che nel tempo che io fui a Firenze non sorse, direi, giorno, che io non fossi tormentato da brighe, da insulti, da litigi. Vi è in codesta setta malvagia tanta smania, anzi avarizia di gloria, non di quella vera, ma di quella effimera e apparente, che pur di conseguirla non hanno alcun riguardo alla riputazione altrui. Onde non lodano nessuno se non con frasi mozze e soggiungendo sempre: — Si aspetta che faccia meglio per l’avvenire.— Se ti sentono lodare uno, se ne hanno a male, brontolano, fanno i visacci e, come se la lode data agli altri andasse a scapito della propria, invidiano i lodati e mordono i lodatori. Di qui animosità tra loro, odio contro gli altri. Queste non sono amicizie ma cospirazioni ». Conchiude: at vero paucorum Giorn. Ligustico. Anno XVIII. 2 ι8 GIORNALE LIGUSTICO improbitas plus ad nocendum quam plurimorum amor, modestia ad iuvandum pollet, praesertim cum fragile patrocinimi haberi soleat ubi apud huiusmodi ingenia per innocentiam victitare studeas. 41. A chi alluda qui Guarino, non si potrebbe congetturare. Si capisce bene che la vita di un uomo si intreccia con quella di altri che sono illustri , di altri che sono oscuri ; e di persone oscure si deve trattare qui senza dubbio. Ma non era oscuro al contrario un altro fiorentino, che osteggiò accanitamente il nostro Guarino : quello stesso che lo chiamò allo Studio di Firenze e che fu poi forse causa di farnelo partire, intendo il Niccoli. 42. Sul Niccoli i contemporanei e specialmente i suoi nemici, come il Bruni e il Filelfo, non lasciarono sfuggirsi occasione di dire tutto il male possibile e caddero in esagerazioni. Ma dall’ ammettere le esagerazioni al negare ogni fede alle loro, sia pur passionate, asserzioni, ci corre un bel tratto. Fu sparsa dal Filelfo la notizia che il Crisolora, Guarino, l’Aurispa, chiamati a Firenze dal Niccoli, furono poi da lui stesso o per invidia o per ingenita malvagità mandati via. Per 1’Aurispa l’accusa è falsa, ma per il Crisolora, della cui partenza da Firenze si adducono altri motivi, non è falsa interamente, giacché il Bruni in una lettera al Niccoli parla chiaro di animosità di costui contro il Crisolora. Quanto a Guarino poi l’accusa è vera almeno per metà; non sarà stato il Niccoli la sola causa per cui Guarino abbandonò Firenze, ma una delle principali senza dubbio. 43. Il Niccoli aveva delle buone qualità; e un amatore degli studi classici gli perdona molto, perchè molto ha fatto in vantaggio di essi, specialmente col raccogliere e copiare manoscritti. Guarino nella sua invettiva contro il Niccoli è un po’ troppo crudele, quando mettendolo in canzonatura lo riduce alle proporzioni di un asino carico di libri. Già il raccogliere codici e materiali era merito non piccolo per quei GIORNALE LIGUSTICO 19 tempi di preparazione. Ma lasciando ciò, era forse il Niccoli nuli altro che un semplice e dozzinale copista ? Egli studiava e discuteva la forma delle lettere, facendo così opera utile, perchè su questa via egli fu condotto senza accorgersi a trattare questioni ortografiche. L’ ortografia non è disciplina oziosa e lo mostrarono tutti quegli umanisti, che se ne occuparono di proposito, dal severo Barzizza al geniale Poliziano, non escluso Guarino stesso, che compose più tardi un trattato sui dittonghi latini e uno sugli spiriti greci: del resto nel-l’emendamento dei testi chissà quante volte egli non avrà discusso seriamente questioni di ortografia. Il Niccoli aggiunse due elementi nuovi a queste ricerche: il confronto delle iorme latine con le corrispondenti greche e il sussidio delle lapidi, le quali non soffrono le alterazioni, a cui vanno soggetti i manoscritti. 44. Dove Guarino ha ragione è nella pittura che fa del carattere morale del Niccoli. Il Niccoli era in verità uomo moralmente meschino, che dava molto appiglio alla satira e alla caricatura. Quel vantarsi di saper tutto e dar la baia agli altri, mentre poi egli si lasciava cogliere grossolanamente in fallo, era uno dei suoi capitali difetti. Suo difetto era pure una tal quale burbanza da superiore coi pari; talché si è tentati a prestare intera fede a Guarino, dove racconta che il Niccoli gli domandò dei codici, spacciando nei crocchi che egli fosse suo schiavo. Altro suo difetto era Γ invidia e deve esser vero il fatto narrato da Guarino, che venuto il Niccoli in gelosia di un condiscepolo, a cui era inferiore per ingegno, volesse obbligare lui, Guarino, a cacciarlo dalla scuola. Ma Guarino era uomo di carattere e non si sarebbe a niun costo piegato a servire così bassamente i fanciulleschi dispettucci del suo protettore. Guarino oppose energica resistenza; e il Niccoli lo cominciò a perseguitare prima nei circoli privatamente, poi pubblicamente con una lettera, 20 GIORNALE LIGUSTICO 45. Guarino non recedette: ut conviciari et maledicere petulans superbumque arbitror, ita respondere et remaledicere civile fasqne indico; e rispose. Non possiamo dire se fosse più mordace la risposta o la provocazione; ma la mordacità guariniana non fa certamente torto alla tempra dell’ uomo. Dopo tutto Guarino fu il provocato e quanto a nobiltà d’ animo ne avea da vendere al Niccoli e a molti altri. Pongasi poi mente al concetto che Guarino si era formato dell’ uomo di lettere e si vedrà che distanza da lui al Niccoli. Egli ebbe ragione di spargere il ridicolo sul Niccoli, che si rese schiavo degli sciocchi capricci e delle prepotenze di una druda; ebbe ragione di affermare, che il volgo non poteva non scandolezzarsi di un uomo, il quale delle lettere si iacea scudo a peccare : perchè nel concetto di Guarino il letterato deve essere virtuoso, deve avere un alto valore morale, deve essere insomma un uomo superiore. Guarino a Venezia. (1414-1419) 46. Il cozzo di Guarino col Niccoli era staro troppo violento e quell’ ostilità aveva acquistato maggior gravità diventando pubblica. Il Niccoli nelle faccende dello Studio fiorentino avea gran peso e la posizione di Guarino a Firenze dovette rendersi insostenibile. 47. Egli era colà ancora nei primi mesi del 1414; ma poco più vi rimase. Giusto in quell’anno, verso la metà, capitò a Firenze Francesco Barbaro, non si saprebbe dire per quali ragioni. Forse era corsa qualche trattativa tra la famiglia Barbaro e Guarino da quando questi cominciò a trovarsi a disagio in Firenze; forse il Barbaro desiderò di conoscere da vicino quel centro di umanisti, cosi ormai GIORNALE LIGUSTICO 21 famosi per tutta Italia e con alcuno dei quali era probabilmente in corrispondenza. 48. Comunque, a Firenze il Barbaro si sentì come in casa propria. Sedicenne appena, com’era allora, aveva pur levato un certo rumore intorno a sè per la precocità del suo ingegno e per il rapido progresso negli studi; al che si aggiungeva la nobiltà e liberalità della sua famiglia. Non era egli stato alunno di Giovanni da Ravenna, cancelliere dei Carrara a Padova, non meno celebre dell’ omonimo che insegnava a Firenze? Non aveva egli udite le lezioni di Gasparino Bar-zizza, prima a Venezia in casa propria, dove il Barzizza era stato ospitato, e poi a Padova dove l’illustre umanista aveva piantata la sua feconda scuola? Non aveva egli conosciuto a Venezia quel Manuele Crisolora, che aveva insegnato a Firenze? 49. Ben a ragione pertanto il Barbaro respirò aria sua a Firenze e si mosse liberamente in quel circolo di umanisti, che nè potevano poi dimenticarlo, nè potevano essere dimenticati da lui. Ivi si strinse in amicizia con Giovanni di Bicci dei Medici e coi due suoi figliuoli Cosimo e Lorenzo, allora studiosi e più tardi fautori degli studi. Conobbe Palla Strozzi, Roberto Rossi, i Corbinelli, Leonardo Bruni e il frate Ambrogio Traversari, che di tutta quella schiera eletta gli restò il più intimo. Con lui ebbe infatti negli anni successivi vivo carteggio, che tenne strettamente legate le tre città le quali più di tutte allora rappresentavano l’umanismo, Venezia, Padova e Firenze. 50. Nel luglio del 1414 mosse Guarino da Firenze col Barbaro verso Venezia. Passando da Bologna, i due umanisti risalutarono gli amici della corte pontificia. Giovanni XXIII sin dal febbraio del 1414 si era stabilito in Bologna, donde partì poi il i.e ottobre alla volta di Costanza. Tra quegli amici Guarino e il Barbaro videro anche il Crisolora, il quale anzi volle accompagnarli fino a Venezia. Imbarcatisi sul Po i nostri 22 GIORNALE LIGUSTICO viaggiatori percorsero felicemente il fiume, ma quando entrarono nel mare furono colti dalla nausea. Come mai, si domandarono, non si sofferse la nausea sul Po, bensì sul mare? Allora il Crisolora, « tesoro inesauribile di dottrina », spiegò ai compagni come cagione della nausea siano un senso esterno e un interno : « l’esterno essere l’olfato, perchè P acqua marina esala odori disgustosi, l’interno essere il timore, perchè il mare nasconde sempre, anche sotto belle apparenze, minacce e pericoli ». Noi ci figuriamo Guarino pendere tut-t’ occhi e tutt’ orecchi dalla bocca del Crisolora, nel quale ammirava tanto quel filosofeggiare bonario e sentenzioso anche sulle più minute questioni. 51. L’arrivo di Guarino a Venezia « fu un trionfo ». Ivi egli era molto conosciuto; ivi l’aveano veduto partire c tornare da Costantinopoli, avea già intimi vincoli di amicizia con la famiglia di Paolo Zane il suo benefattore, coi Donati, coi Barbaro e altre illustri case patrizie. Inoltre la gioventù veneziana lo aspettava con ansia, perchè tolte le momentanee apparizioni del Ravennate del Barzizza e del Crisolora, una scuola propria e stabile ivi non si era ancora fondata. 52. Appena giunto fu intanto generosamente ospitato in casa Barbaro, dove oltre a Francesco c’ era il fratello Zaccaria con la moglie e il figlio Ermolao, il piccolo portento d’ingegno, allora forse di sei o sette anni. E Francesco Barbaro meritamente si gloria di questa ospitalità offerta al grande maestro. 53. Ma Guarino ben presto si costituì la propria dimora, che egli popolò di alunni privati, mettendo cosi le prime basi della scuola-convitto. Non era egli forse stato un famiglio in casa del Crisolora a Costantinopoli? e non praticava cosi a Padova il suo collega Barzizza, provetto institutore? Il Barzizza teneva in casa sua una parte dei suoi scolari, tra i quali quel Vittorino da Feltre, che più tardi era destinato a dare il proprio nome a questa instituzione. Ebbe a convittori GIORNALE LIGUSTICO 23 figli d’illustri famiglie veneziane, tre nipoti del cardinale Branda Castiglioni, un figlio dei marchesi Malaspina e di qualche altro principe. Li faceva sorvegliare da persone fidate, qualche volta dai suoi stessi figliuoli ; destinava alla loro istruzione appositi maestri: egli sedeva al timone, per dirla con la sua frase, invigilando il buon andamento generale. 54. Così Guarino a Venezia. La sua casa era una famiglia di studenti, talvolta assai numerosa: chiamava convitto (con-lubernium) la famiglia, camerate (contubernales) gli studenti. Nell’ invitare a Venezia P amico Paolo de^Paolinis, professore di filosofia morale a Firenze, così gli scriveva : « Vieni e faremo vita comune; comune avremo il cibo, i discorsi, il sonno. Nè ti credere in ciò di recarmi incomodo; tutto si acconcierà nel migliore e più agevol modo possibile. Per te non faccio nessuna novità nè di apparecchi nè di cibi nè di letti, nulla nulla; preparati a una vita da studente, alla quale tu sei stato avvezzato, educato, cresciuto. Non ti prometto pietanze squisite, vasi preziosi, ricca supellettile; mangerai rape e fave, berrai in bicchieri di legno e adopererai posate alla buona. Condiremo ogni cosa coi continui ragionari, con le risa, coi giuochi, col brio; così Curio traeva in terra una vita celeste. Oro e argento non te ne posso offrire, ma buon umore e lieta brigata quanta ne vuoi ». 55. Appena posto piede in Venezia, Guarino scrisse al Barzizza, che già dovea conoscere di persona, del suo arrivo e come sarebbe andato a trovarlo a Padova ; a cui con altrettanta squisitezza ed urbanità il Barzizza rispose che sarebbe toccato a lui venirlo a vedere a Venezia. Così si strinse fra i due umanisti quel legame di reciproco affetto e stima, il quale fu veramente esemplare: che nè invidia nè gelosia rallentò mai, anche quando il Barzizza si vide rubare, come era naturale, dal nuovo collega gran numero di scolari « che erano stati primi ad amarlo ». L bello veder quel 24 GIORNALI·: LIGUSTICO loro scambio di codici e di pietosi sensi. Affettuose sono le condoglianze che Guarino fa al Barzizza in morte della moglie, affettuosi e veramente paterni gli ammonimenti che il Barzizza di a Guarino sul mutar residenza e sul cercarsi dopo tanto peregrinare un posto sicuro e stabile. Da buoni colleglli si aiutano scambievolmente nei loro studi, professando l’un per l’altro quella stima che meritavano, nel che il Barzizza dava esempio di generosa modestia, proclamando Guarino il più dotto dell’ età sua e il vero modello della bontà e dell' onestà. 56. Questa stessa affettuosa corrispondenza troviamo negli scolari delle due città vicine. Col Barbaro e col Giuliani, già allievi suoi ed ora di Guarino, il Barzizza è sempre in carteggio: loda al Giuliani l’orazione in morte del Crisolora, al Barbaro il De re uxoria, a lui e al Giustinian le traduzioni dal greco. Comuni amici del Barzizza e di Guarino restano il Corner e il Vettori, che ora fanno vita a Venezia, i fratelli Giona e Lazzarino Resti, Alfonso portoghese, Filippo di Cipro, che stanno a Padova; amico comune Cristoforo Parma, maestro vagante, che un anno troviamo a Padova, un anno a Ferrara, un anno a Verona, un anno a Venezia. Da Venezia Guarino si congratula degli studi di Battista Bevilacqua, a cui raccomanda gli amici suoi; e da Padova il Bevilacqua compiange in una affettuosa lettera a lui diretta la morte di Zaccaria Barbaro. Passa da Venezia a Padova e da questa a quella Pietro Donati, arcivescovo di Creta, ben voluto dai letterati delle due città. Da Venezia Guarino mette in relazione Francesco Bracco, suo camerata, col Donati, col Gualdo, col Barzizza a Padova e briga con tutti gli .imiti di Firenze per far nominare alla magistratura della mercanzia Filippo di Cipro, residente in Padova. 57. A Padova si erano incontrati alla scuola del Barzizza Giorgio da Trebisonda , Francesco Filelfo, Vittorino da GIORNALE LIGUSTICO Feltre, destinati tutti e tre ad occupare un posto cospicuo tra gli umanisti della prossima generazione; e da Padova si partono P un dopo l’altro tutti e tre : il Filelfo a piantar scuola in Venezia, il Trebisonda a udirvi Guarino e a fare il copista in casa Barbaro, Vittorino a imparare un po’ di greco dal dotto Veronese, a cui per compenso raffinò il gusto latino, facendo così quello che il Platina felicemente chiama « scambio di merci ». 58. Ma ciò che più tiene vive le relazioni tra Venezia e Padova è la corrispondenza di Guarino con Girolamo Gualdo vicentino, a cui lo legavano anche rapporti di famiglia. A lui manda gli scritti suoi, come la lettera sulla vittoria di Gallipoli, e gli scritti degli amici, come l’orazione funebre del Poggio per lo Zabarella, le traduzioni dal greco e qualche lettera del Barbaro; e con lui scambia codici. 59. Nè in questi rapporti manca l’arguzia e la burletta, giacché per quanto gli umanisti fossero quasi sempre al verde e in lotta tutto il giorno con le prime necessità della vita, pure la serenità e il brio non venivano loro mai meno. Quegli che alimentava la gaiezza in questa società era soprattutto il veneziano Giannino Corradini, che faceva il medico a Padova; « l’amenissimo e argutissimo Corradini, » ammiratore entusiastico di Guarino e delle sue lettere, al quale per ogni lettera che riceveva mandava in dono una gallina. « Ma bada, gli doveva scrivere Guarino, bada che questa mia non è nè lettera nè epistola, se no c’ è il pericolo che mi capiti qui all’ improvviso una gallina. Del resto vogliamo proprio fare il patto dello scambio delle lettere con le galline? io già non mi preoccupo che me ne venga nausea; tu valente medico non puoi mandare, naturalmente, cibi nauseosi. E intendi bene: io non seguo la setta degli Stoici e dei Peripatetici , ma degli Epicurei. Ho poi speciale antipatia per certi autori e simpatia per certi altri: antipatia per Cicerone, 2 6 GIORNALE LIGUSTICO Lentulo, Fabio, Macrobio, autori insipidi; simpatia per Vitellio, Cepionc, i sacerdoti Galli, Perdicca, compagno di Alessandro, e Cameade, non il vecchio ma il giovane ». 60. A Padova andava spesso Guarino « a celebrarvi, come egli diceva, i sacri riti dell’amichevole sodalizio, del quale era consigliere e ospite ». « Di ritorno ier l’altro, 0 diletto Gualdo, dalla mia visita al sodalizio di Padova, avevo d’innanzi agli occhi e mi risonava ancora negli orecchi la vostra festività, la cortesia, il brio condito di gravità; e tanto la mente mia si era immersa nel ricordo, che voi mi eravate al fianco compagni del viaggio ». In un altro ritorno da Padova a Venezia si erano imbarcati Guarino , il Barbaro, il Giustinian e il Giuliani. Chiese di salire con loro un vecchiotto, che fu lo spasso della brigata. » Di che genere sei? » gli domandò il Giuliani. « Maschile », rispose quegli. « Me ne ero accorto, riprese il Giuliani, dalla barba bianca che ti copre il volto. » Allora il vecchiotto disse che era maestro di scuola. « Ho capito, replicò il Giuliani, sei ludi magister. » « Si, e credo che ci chiamino cosi, perchè facciamo scuola ai bambini, i quali amano i giochi (ludus). » Risata generale. Intanto il Giuliani cavò di tasca un Persio e cominciò a leggere la sat. II: hunc, Muorine, di cm numera meliorc lapillo. » « Che significa numerare mliore lapillo » ? domandò il Giustinian al maestro. E quegli franco soggiunse esser nato dal costume antico di contare i giorni con le pietre; perciò Persio inculca a Macrino di contare esattamente i suoi giorni, ma con una pietra di valore, p. e. con del marmo. Altra risata generale. E con queste corbellerie compirono la traversata, che non se ne accorsero nemmeno. 61. Nulla di importante avvenne nel primo anno che Guarino fu a Venezia, se ne eccettui l’arrivo nel gennaio 1415 dell’amico Valerio Floro dalla Grecia, che si recava ambasciatore alla repubblica e di là al papa a Costanza. Il Floro, GIORNALE LIGUSTICO 27 a cui Guarino dedicò il trattatello sui Dittonghi, gli era legato d’amicizia da parecchio tempo, come pure Cristoforo vicentino, al quale Guarino partecipa la fausta novella del-P arrivo del Floro. Per mezzo poi dello stesso Cristoforo abbiamo occasione di vedere come erano sempre vive le relazioni di Guarino con Antonio Loschi tornato di fresco (verso la metà del 1415) da Costanza a Venezia, dove si godette sei anni di tranquillità, aspettando per il papato tempi migliori. 62. Ma ecco da Costanza giungere e propagarsi per tutta Italia una triste notizia: il 15 aprile 1415 era morto colà Manuele Crisolora. Fu un colpo terribile per Guarino, il suo più entusiastico ammiratore. Il primo pensiero che gli corse alla mente fu di tessergli un elogio, che fosse un monumento di gratitudine e di affetto; ma lo stordimento per la sventura e l’altezza del tema ne lo distolsero. Da Costanza lo aveva a ciò eccitato il Vergerio, ma gli risponde che le sue spalle non reggerebbero al peso e addita piuttosto il Vergerio stesso come adatto più di ogni altro all’ impresa. Il Rustici e il Poggio si erano pure proposti di dirne le lodi, ma non ne fecero poi nulla; e il Crisolora restò senza 1’ e-logio di qualcuno dei suoi scolari ed amici: meno fortunato in questo di tanti che lo precedettero e che lo seguirono. 63. Però se tacquero gli scolari del Crisolora, parlò uno scolaro di Guarino. Guarino infatti verso il luglio dello stesso anno (1415) preparò una solenne commemorazione del Crisolora, affidando l’incarico del discorso d’occasione al patrizio Andrea Giuliani. Il Giuliani non fece un quadro biografico del Crisolora, ma ne tessè le lodi, tenendosi sulle O 7 generali e tributando ardente e viva ammirazione all’illustre defunto. 64. Il Barzizza da Padova lodò P oratore, « che risuscitava i bei tempi dell’ eloquenza antica ». Guarino poi disse- 2S GIORNALE LIGUSTICO minò in un momento P orazione del Giuliani, encomiandola altamente. Ne parlò nella lunga lettera consolatoria a Giovanni Crisolora, nipote del morto, ne parlò nella lettera a Giacomo Fabris giureconsulto veronese, la mandò agli amici di Costanza e di Ferrara. A Verona la portò egli stesso verso la fine del 1415 e in quell’occasione si parlò del Crisolora nel crocchio degli amici, quale Niccolò Brenzoni, l’abate di S. Zeno, il Salerno, il della Pigna; tra essi il Fabris aveva conosciuto il Crisolora, anzi aveva avuto l’onore di ospitarlo in casa propria. E con 1’ orazione del Giuliani lessero a Verona pure la lettera consolatoria di Guarino a Giovanni Crisolora; e i due scritti riscossero i più sinceri applausi: applausi tanto più vivi, quanto che il Giuliani era a Verona conosciuto ed amato e già si era letto il giudizio dato sul suo discorso dal Barzizza, la maggior autorità letteraria di quel tempo. Gli amici veronesi avevano poi un’ altra ragione di congratularsi col Giuliani, perchè egli in quei giorni era passato a seconde nozze con una ricca e virtuosa signorina veneziana. 6j. Guarino in quel suo giro del 1415 toccò Padova, dove s’incontrò con alcuni del circolo letterato ferrarese, seppure non prolungò il viaggio fin proprio a Ferrara. Le relazioni tra Ferrara e Venezia erano molto amichevoli. Era marchese allora di Ferrara Niccolò d’Este, fautore dei buoni studi, il quale veniva di quando in quando a Venezia per assistere alle feste pubbliche e ai tornei; e c’era stato giusto di fresco nell’ aprile del 1415 accompagnato dal suo aiutante Uguccione dei Contrari e forse anche dal cavaliere Alberto della Sale suo condottiero. In quella e in altre occasioni Guarino potè incontrarsi con quei signori, qualcuno dei quali era auche dilettante di letteratura, come il cavaliere della Sale. 66. Negli ultimi anni del secolo XIV le condizioni della cultura in Ferrara non erano troppo floride, giacché il Ver- GIORNALE LIGUSTICO 29 gcrio non conosceva che un nome che in quel tempo (1392) facesse onore agli studi, Bartolomeo da Saliceto. Le condizioni si migliorarono certo con la riapertura dello Studio nel 1402. Negli anni 1411 e 1412 fece capolino a Ferrara il Barzizza, che aveva mandato colà la numerosa sua famiglia, sia perchè a Padova il vitto costava troppo caro, sia perchè P invasione degli Ungheri aveva portato lo scompiglio nelle città del Veneto. In quelle visite il Barzizza conobbe molti personaggi della corte e pare che ne abbia ricevuta buona impressione. Viveva ancora, ma decrepito, Donato degli Alban-zani , già segretario degli Estensi e istitutore di Niccolò III. Vi era il suo amico Lodovico conte di S. Bonifacio , studioso dei classici latini e specialmente dei moralisti; vi conobbe Uguccione dei Contrari e strinse relazione con Bartolomeo Molla, referendario del marchese. 67. Che qualche traccia non lasci il contatto, sia pur passeggiero, di un umanista come il Barzizza, non si può negare; perchè un certo impulso vien sempre dato, il quale si alimenta poi con la corrispondenza epistolare. Ma più che il Barzizza lasciò traccia la corrispondenza epistolare e la relazione personale di Guarino. Giacomo Zilioli, che fu più tardi consigliere intimo del marchese, deve certo a Guarino, se divenne liberal mecenate degli studiosi. E col giurista Niccolò Pirondoli e specialmente col medico Ugo Mazzolati avviò Guarino viva corrispondenza, che giovò moltissimo a promuovere gli studi in Ferrara. 68. Col mezzo di comuni amici che andavano e venivano da Ferrara, come Francesco Bracco, i Ferraresi erano messi a parte delle produzioni letterarie che uscivano in Venezia. Cosi l’orazione del Giuliani e le lettere di Guarino sulla morte del Crisolora e il De re uxoria del Barbaro furono a suo tempo trasmesse a Ferrara. Così Ugo Mazzolati riceveva le versioni da Plutarco di Guarino e da lui si faceva emendar 30 GIORNALE LIGUSTICO codici. Ugo pose tale affetto a Guarino, gli pose tale stima, che lo chiamava padre e si affliggeva se da lui non ricevesse almeno · una lettera al mese. A Ferrara godeva la stima di Guarino un altro medico, Bartolomeo Mainenti; e ivi si trovò per qualche anno il grammatico Cristoforo Parma, amico del Mazzolati. 69. Mentre Guarino moltiplicava e intrecciava così la sua attività e le sue relazioni con Padova, Costanza, Vicenza, Verona, Ferrara, ferveva il lavoro e l’operosità nella sua scuola a Venezia, dove i suoi alunni facevano rapidi progressi e producevano ottimi frutti. Abbiamo parlato dell’ orazione tunebre del Giuliani; nè fu la sola, perchè egli ne compose un’ altra in morte dello zio Paolo. Nel testamento però lo zio aveva vietato qualunque pompa funebre e 1’ orazione non fu recitata; il che non impedì a Guarino di pubblicarla all’ insaputa dell’ autore mentre era a Costanza. Nel 1418 il Giustinian recitò l’orazione funebre per Carlo Zen; due orazioni, 1’una funebre in morte del diletto Corradini, rapito nel fior dell’ età all’ affetto degli amici, 1’ altra per la laurea del Perugino Guidaloti, avea pronunziate il Barbaro nel 1416 a Padova. Il Barbaro levò assai più rumore per un altro lavoro, il De re uxoria, uscito verso il maggio del 1416 e dedicato all’amico Lorenzo dei Medici in occasione delle sue nozze. 70. Questo opuscolo morale, scritto in venticinque giorni, tratta delle principali questioni attinenti al matrimonio: della sua essenza, della economia domestica, del coito, dell’allevamento dei figli. Si intende da sè che le massime non sono attinte alla pratica, ma all’erudizione del suo precettore; però un elemento pratico c’era, quello attinto al senno e all’esperienza di Zaccaria Trevisan, morto tre anni innanzi, uomo ascoltato sempre con affettuosa riverenza dal giovinetto Barbaro. In quel libro egli depositò tutta F erudizione latina GIORNALE LIGUSTICO 3 1 e greca, che aveva acquistato nei due anni di scuola di Guarino. Erano purtroppo lavori di semplice parata, condotti sugli esemplari classici, senza anima e senza sentimento, senza un alito di quella vita che allora viveano; la sola parte lodevole e durevole era 1’ acume dell’ ingegno e la vivacità della forma. 71. Il Barbaro fece nè più nè meno di quello che s’aspettava il Barzizza, gran fabbro di lettere esercitatorie e di orazioni accademiche. Il Barzizza infatti saputo della pubblicazione di quel trattato , ne scrisse al Barbaro domandandogliene una copia, a Attendo la tua Res uxoria, che sento aver tu pubblicato testé. E mi si dice anche che il lavoro risponda degnamente al tuo ingegno e ai tuoi studi. Non dubito punto che esso sia scritto con senno ed eleganza ; giacché F avrai certamente infiorato in molti luoghi di sentenze latine e greche; ma desidero vederlo per poterlo giudicare più col mio giudizio che con quello degli altri. » 72. Primo a riceverne copia fu naturalmente Lorenzo dei Medici e da lui gli amici fiorentini che lo lodarono. L’ebbe e lo ammirò Niccolò Pirondoli a Ferrara. A Costanza Guarino lo mandò allo Zabarella, presso cui lo lesse il Vergerio, il quale poi ne scrisse parole di grande elogio al medico veneziano Niccolò Leonardi. E da Guarino lo ricevette anche il Poggio, che lo passò al Rustici e a Biagio dei Guasconi. Il Poggio gli rispose che da quel saggio c’ era da ripromettersi assai bene del giovinetto autore, ma che egli più che mai nel leggere il trattatello si era distolto dal pensiero di prender moglie, considerando i gravi pesi di quello stato. 73. Questo quanto riguarda i frutti dati negli studi latini. Nè minori furono quelli dati, specialmente tenuto conto della novità, negli studi greci, ì quali anzi in Venezia ebbero un vero fondamento e ricevettero incremento solo per opera di Guarino. Tra la fine del 1415 e il principio del 1416 il 3 2 GIORNALE LIGUSTICO Giustinian aveva tradotto il Cimone di Plutarco , rendendo così, come dice Guarino, testimonianza di gratitudine alla memoria del Crisolora , che primo aveva aperta la via alla cultura greca in Italia. Nel medesimo tempo il Barbaro tradusse V Aristide dello stesso Plutarco. Questi due primi saggi furono subito mandati a Verona al Salerno, che li avrà comunicati certamente agli amici di colà. Ben presto seguirono due nuove versioni da Plutarco: del Lucullo per opera del Giustinian e del Catone per opera del Barbaro. Le quattro vite erano già pubblicate nella fine del 1416 e vennero spedite al Traversar! a Firenze e al Gualdo a Padova. 74. Questi studi greci, appunto perchè una novità, incontrarono qualche opposizione a Venezia. Organo di tale malcontento si fece Lorenzo Monaco, cancelliere di Creta, dando così il primo esempio della guerra, che diventò poi famosa, tra la letteratura greca e la latina. Lorenzo Monaco, già amico del Barbaro e ammiratore de’ suoi lavori, quando lo vide tutto inteso agli studi greci, gli scrisse una lettera per dis-suadernelo, cercando di mostrare che tanto lo studio del greco quanto le traduzioni dal greco erano inutili. Il Barbaro replicò con una lettera assai vivace, nella quale sostiene la necessità degli studi greci e Γ utilità delle traduzioni dal greco, appoggiandosi all’autorità degli antichi e all'esempio dei più grandi traduttori moderni, Guarino e il Bruni. Di questa lettera Guarino mandò una copia al Gualdo a Padova, mentre da Firenze glie l’avea chiesta il Bruni, il quale, paladino come era degli studi greci, voleva entrare in lizza a rompere una lancia per essi. 75. La seconda metà del 1416 Venezia fu visitata dalla peste, lo spauracchio di Guarino, uomo forte e coraggioso, meno che davanti all’ epidemia. Già sin dal maggio se ne vociferava e si diceva che Guarino in compagnia del Barbaro si sarebbero rifugiati a Firenze. Invece si rifugiarono a Pa- GIORNALE LIGUSTICO 33 dova, dove li troviamo al principio di luglio. Vi venne più tardi anche Zaccaria Barbaro con la famiglia e Vittorino da Feltre, che in quei giorni stava a Venezia. Nel tempo della sua dimoia a Padova Guarino ricevette dal Poggio la famosa lettera sul supplizio di Girolamo da Praga e lo ricambiò con la sua sulla vittoria di Gallipoli. 76. Era ancora a Padova sul finire dell’anno, ma non pare sia sempre stato fermo colà, poiché almeno una volta fu certo a Verona. « Ho errato qua e là, egli scrive, come uno Scita e un Nomade ». E di ciò si preoccupava non poco: « mi par mill’ anni che finisca questa pestilenza e che noi possiamo tornare ai nostri studi; giacché come il vomere non adoperato irrugginisce, cosi l’animo non esercitato illanguidisce. Ormai intorno alle tempie spuntano i capelli bianchi, la vecchiezza s’ avanza (aveva allora 42 anni) a gran passi e lo scrigno è vuoto ». Eppure c’ era chi lo faceva ancora (come in fin dei conti era veramente) uomo fresco e voleva dargli moglie. Racconta egli che mentre stava a Padova vennero da lui alcune persone, che dopo un preambolo preso alla larga gli proposero un buon matrimonio. Guarino rispose celiando, che le mogli non gli piacevano, se non finché erano mantenute dagli altri ; che del resto la moglie egli 1’ aveva e cercava da un pezzo di far divorzio : questa moglie era la povertà. Ma il proposito negativo non durò molto tempo. 77. Di ritorno a Venezia nel 1417 tradusse il Temistocle di Plutarco e lo dedicò a Carlo Zen, il quale, quantunque più che ottuagenario, trovava modo di occuparsi di letteratura; ma erano gli ultimi lampi di una vita agitata, spesa in prò’ della patria; e il dì 8 maggio dell’anno seguente, 1418, chiuse la sua carriera mortale, accompagnato dalla parola calda ed eloquente del Giustinian, che gli recitò l’orazione funebre in mezzo all’ ammirazione degli astanti. Assisteva un pubblico sceltissimo , tra cui anche gli amici della corte di Ferrara. Giorn. Ligustico. Anno XVIII. 3 54 GIORNALI·: LIGUSTICO Fu un nuovo trionfo per Guarino, il quale aveva ormai resi celebri i suoi ere migliori scolari, educandoli così in pari tempo a quella disinvoltura presso il pubblico , che è tanto necessaria a chi si applica all’ amministrazione dello stato. E tutti e tre riuscirono uomini di stato , superiore a tutti il Barbaro, ma benemeriti anche il Giustinian e il Giuliani. Il Giuliani anzi era già entrato da prima nella carriera pubblica; e mentre studiava sotto Guarino aveva ottenuto P ufficio di cassiere in Padova. Alla fine poi del 1417 lo incontriamo, probabilmente in qualità di ambasciatore della repubblica, a Costanza, dove si era pure recato da Padova il Barzizza, con la speranza forse di migliorare fortuna nella prossima elezione del nuovo pontefice, la quale dovea por termine allo scisma. 78. Per tal modo furono raddoppiate le relazioni, già sì frequenti e cordiali, tra Costanza e Venezia. Da Venezia infatti andavano di quando in quando ambasciatori a Costanza, come il Floro, che aveano amici comuni nelle due città; da Venezia partirono nel 1415 per il Concilio i cardinali veneti; da Venezia passò, diretto a Costanza, Carlo Malatesta, procuratore del pontefice veneto Gregorio XII. I ra Venezia e Costanza erano attivi gli scambi di lettere e codici col Poggio, il Vergerlo, lo Zabarella, Bartolomeo da Montepulciano dal-1’una parte, con Guarino, il Barbaro, Niccolò Leonardi dal-1’ altra. 79. La corte pontificia era giunta a Costanza il 2S ottobre 1414 con Giovanni XXIII e ne riparti il 16 maggio 1418 con Martino V. Giovanni XXIII quando vide non potersi più sostenere di fronte al Concilio , fuggì di là il 19 marzo 1415, ma ripreso fu solennemente destituito il 29 maggio dello stesso anno. A questo atto ne segui un altro il 4 luglio 1415, cioè la rinunzia di Gregorio XII per mezzo del suo procuratore Carlo Malatesta. Da allora in poi il Concilio, più libero nella sua azione, discusse e approvò una serie di GIORNALE LIGUSTICO ÌS provvedimenti di riforme ecclesiastiche; da ultimo nell'8 novembre 1417 i cardinali e i vescovi entrarono in conclave, dal quale 1’ 11 usci eletto Martino V. 80. Tra i personaggi di nostra conoscenza troviamo a Costanza il cardinal fiorentino Zabarella, buon letterato e filosofo e generoso mecenate degli studi, « l’asilo dei dotti », come lo chiama il Poggio, sotto la cui protezione e al cui servizio stavano il Rustici, il Vergerio, Bartolomeo da Montepulciano. C’ era il vescovo Capra addetto, come sembra, alla corte dell’imperatore Sigismondo; c’erano il Poggio, il Crisolora, il Loschi, il Bruni, arrivato quest’ ultimo in ritardo verso la fine di decembre 1414: tutti quattro al servizio di Giovanni XXIII. Altri di minor conto, ma che pur meritano di essere ricordati, erano Biagio Guasconi, Caronda, Zomino da Pistoia, Bartolomeo del Regno, Benedetto da Piglio. 81. Deposto Giovanni XXIII, i suoi segretari si trovarono squilibrati e senza appoggio. Già prima della deposizione il Bruni, che aveva odorato il vento infido, sin dal principio del marzo 1415 avea preso il volo ed era tornato a Firenze, donde non si mosse più, attendendo tranquillamente ai suoi studi prediletti. Anche il Loschi nel corso del 1415 partì di là e si ritirò nella natia Vicenza aspettando tempi migliori. In compenso nella seconda metà del 1417 quel circolo di letterati si accrebbe del Giuliani e del Bar-zizza; ma nessuno potè compensare due gravi perdite : quella del Crisolora nel 1415 e quella del cardinal Zabarella il 26 settembre 1417, al quale il Poggio recitò l’orazione funebre, comunicata poi a Guarino a Venezia e da Guarino agli amici di Padova, città nativa dello Zabarella, dove avea tanti anni studiato e insegnato. 82. Ci fu in queste relazioni tra Venezia e Costanza anche un piccolo scandalo. Sul principio del 1416 Caronda sparse la voce che Guarino avesse composto un libro, nel quale 36 GIORNALE LIGUSTICO avea raccolto tutti gli errori dei recenti traduttori dal greco; il Bruni naturalmente , come il più attivo dei traduttori, vi era impegnato. Bartolomeo da Montepulciano ne scrisse a Guarino chiedendogli una copia dell’ opuscolo. Guarino gli rispose meravigliato di una simile fandonia e se ne lagnò anche col Poggio, che fece del suo meglio per cancellare ogni traccia della malevola invenzione; e tutto per allora fini lì. 83. Dal soggiorno della corte pontifìcia in Costanza Γ u-manismo ripete uno dei più grandi impulsi, venutogli con le scoperte di codici latini, delle quali il Poggio fu l’eroe. Approfittando dell’ ozio che gli concedeva l’interregno pontificio egli intraprese da Costanza alcuni viaggi, parte in Francia, parte in Germania. Quelli in Francia, che furono i primi e li fece da solo, cadono nella seconda metà del 1415 -Andò a Parigi, dove trovò un Nonio Marcello, che del resto era conosciuto, se non letto, già innanzi, poiché fin dal 1407 si sapeva esisterne una copia in Pavia. Trovò a Cluny un primo nucleo di orazioni ciceroniane e un secondo a Langres. 84. I viaggi in Germania invece cadono negli anni 1416 e 1417· Il centro di questa seconda serie di esplorazioni fu la badia di S. Gallo, dalla quale egli mosse alle badie circostanti. Qui il Poggio ebbe compagni il Rustici e più ancora Bartolomeo da Montepulciano. Anzi Bartolomeo nel febbraio 1417 proseguiva per proprio conto le ricerche e giusto in quel tempo scoperse a S. Gallo un Vegezio e un Festo. 85. Le notizie delle scoperte volavano subito per tutto, specialmente a Firenze e a Venezia. Da Venezia il 6 luglio 1417 il Barbaro scriveva al Poggio una lunga lettera di congratulazione, nella quale si trovano nominati i migliori acquisti fatti: Tertulliano, Silio Italico, Marcellino, Manilio, Lucio Settimio, Valerio Fiacco, Capro, Probo, Eutichio, Nonio Marcello, Lucrezio, Asconio Pediano, Quintiliano, oltre ai suaccennati scoperti in Francia e a quelli di cui ci GIORNALE LIGUSTICO 37 ha lasciato notizia il Rustici, cioè Vitruvio, Prisciano (Partitiones XII versuum Aeneidos') e Lattanzio (De utroque homine). 86. Questi autori o erano interamente ignorati o mal noti. A Venezia e a Padova arrivò subito un Marcello, non dopo la metà del 1416; Guarino e il Barzizza ebbero anche un Asconio, Guarino un Lucrezio. Ma i due più preziosi acquisti furono Quintiliano e le orazioni di Cicerone. Un Quintiliano 1 ebbe Guarino dal Poggio, uno il Barzizza, probabilmente dal cardinale Branda Castiglioni. Il Poggio poi scoprì un secondo Quintiliano, di cui si impossessò e che portò o mandò in Italia: quello stesso che ora si conserva nella Lau-renziana di Firenze. Anche di questo ricevette Guarino copia dal Poggio. 87. Per le orazioni di Cicerone invece Guarino e il Barbaro si dovettero rivolgere al circolo fiorentino, con cui il loro commercio epistolare non era meno vivo che con quello di Costanza, specialmente per alcuni Veronesi, che dimorando in Firenze contribuivano ad alimentare la corrispondenza tra le due città. Veronese era Galesio della Nichesola, ufficiale della mercanzia negli 1416-1417; veronese il Salerno, podestà nel 1418, col suo vicario Guglielmi; veronese Paolo de Pao-linis, professore di filosofia morale. Nel 1418 Guarino raccomandava per l’ufficio della mercanzia in Firenze Filippo di Cipro al Corbinelli, allo Strozzi, al Barbadoro, al Bo-ninsegni. E in uno di quegli anni fece, in compagnia di suo zio Francesco, una gita a Firenze il piccolo Ermolao Barbaro, che vi conobbe il Marsuppini, il Traversari e gli altri. Guarino era tornato in pace col Niccoli sino almeno dal 1416 e con lui e col Traversari scambiava codici. 88. Questo commercio avea di solito per intermediario il Barbaro, la cui corrispondenza col Traversari era copiosissima. Il Niccoli mandava a Venezia le orazioni di Cicerone scoperte dal Poggio e le Epistole ad Attico, rendeva conto di 38 GIORNALE LIGUSTICO un Tucidide vendutogli dall’Aurispa a Pisa, di un Trogo scoperto dalPAdimari in Spagna e mandava le orazioni di Demostene tradotte dal Bruni. Il Traversari poi inviava a Venezia le lettere del Crisolora, copiava per il Barbaro F Agesilao di Senofonte ed emendavagli un Lattanzio; traduceva la Scala Santa e Grisostomo e ne spediva copia a Venezia. 89. Da Venezia non erano meno generosi; di là partivano le nuove produzioni del Barbaro e del Giustinian; di là Guarino spediva gli opuscoli di Senofonte e il Barbaro colmava una lacuna al Livio del Traversari. La ricca collezione del Barbaro, della quale presentemente stava compilando il catalogo, fornì ai Fiorentini le lettere di Platone e di Basilio, un Nicandro, Alessandro Afrodisio, un Apollonio, un Filostrato, un Diogene. Anche Venezia ebbe la sua importante scoperta, poiché Guarino nei primi giorni del 14x9 trovò fra molti codici sacri Y Epistolario di Plinio in otto libri, antichissimo, ora perduto, e che fu l’archetipo di una intera famiglia di codici Pliniani. 90. Tirata la somma, Guarino nel quinquennio che stette a Venezia impresse un potente impulso agli studi. Quello fu un breve periodo, ma un periodo aureo, in cui Venezia brillò come faro dell’ umanismo. A Venezia mettono capo le fila da Costanza, da Firenze, da Padova; e Guarino le raccoglie e le compone in mirabile unità. Ma Venezia dovea cedere presto il primato ad altre città, contentandosi di passare in secondo ordine, vuoi perchè non era favorita da tutte quelle condizioni che dànno lunga vita a un centro di studi, vuoi perchè Guarino piantò altrove le sue tende, lasciando però dietro di sè larghe tracce in- quella schiera di valorosi patrizi, che frequentarono la sua scuola. 91. Guarino si cominciò a sentire a disagio in Venezia sin dalla fine del 1417 ; anzi trattava per avere un posto GIORNALE LIGUSTICO 39 pr esso la curia pontificia. Che volesse abbandonare Γ insegnamento per cercarsi uno stato meno precario e più durevole? Già si lamentava nel 1416 quando comparivano i primi capelli grigi; e il Barzizza lo eccitava paternamente a costituirsi una buona volta una posizione stabile. Quelle esitanze di Guarino fecero rinascere la speranza nei Fiorentini di riaverlo, ma fu vana lusinga. 92. Fallito’ il tentativo con la curia, Guarino mutò punto di appoggio e rivolse le sue mire a Verona. Quanti vincoli non aveva egli a Verona! Tutti gli amici, tutti i parenti, che lo amavano , che lo stimavano , lo avrebbero voluto colà. Colà si era trasferito nella prima metà del 1418 il suo carissimo Cristoforo Parma, colà egli avrebbe desiderato tirare da Firenze il veronese Paolo de Paolinis. Il suo diletto Maggi e P ottima madre metteano in opera tutti i mezzi per farlo venire a Verona; e pare che egli cominci a cedere. 93. Le sue. visite alla città natale diventano più frequenti: il Maggi e la madre gli aveano proposto un matrimonio. Si offriva a Guarino quella posizione, che egli poteva considerare ormai come stabile e definitiva, il suo sogno era in via di avverarsi; egli avrebbe abbandonato la vita del maestro errante, che piaceva tanto all’ amico Cristoforo. Alla fine di ottobre del 1418 egli torna da una visita a Verona lasciando, come si dice, carta bianca alla madre e al Maggi; e il matrimonio è combinato con Taddea Zendrata figlia di Niccolò. 94. Le nozze furono celebrate il 27 decembre dello stesso anno; come dote gli vennero assegnate delle case in Verona e dei terreni a Valpolicella. Non condusse però seco subito la moglie; il che non gli impedì di difendere strenuamente, per quanto νεοθάλαμος, il matrimonio quando Antonio Corbinelli pretendeva tra il serio e lo scherzevole di dimostrargli, che esso nuoce agli studi. Verso il principio del 1419 prese moglie anche Francesco Barbaro, a cui poco dopo morì il 40 GIORNALE LIGUSTICO fratello Zaccaria: due nuove ragioni che distaccarono maggiormente Guarino da Venezia. 95. Nel marzo 1419 Federico Pittato, cugino della moglie, gli scriveva come ella lo sospirasse e come fosse aspettato a braccia aperte da tutta la città. Spesi pochi giorni a sbrigare le ultime faccende e a prender commiato dagli amici, Guarino già ai primi di aprile dovette probabilmente trovarsi a Verona. (Continua). FEDERICO GONZAGA E LA FAMIGLIA PaLEOLOGA DEL MONFERRATO (IS I5-I533)· (Continuazione vedi pag. 469 annata 1890). IX. Come è noto, Bonifacio marchese di Monferrato, ai 6 di giugno del 1530, in seguito ad una caduta da cavallo improvvisamente mori (1); per ciò, la successione di quello stato, spettava allo zio Gio. Giorgio Paleologo. Le conseguenze di quella morte apparvero subito manifeste al duca di Mantova, nè egli poteva non approfittare immantinente di sì favorevole e inattesa congiuntura. Allo stato presente delle cose, Federico, disiluso per le non mai ottenute promesse, che il Papa, l’imperatore e i loro consiglieri gli andavano facendo, molto largamente sì, ma pressoché irrealizzabili pei motivi particolari che predominavano (1) G. del Carretto, Cron. del Monferrato, cit., col. 1300. GIORNALE LIGUSTICO 41 nei maggiori fattori degli avvenimenti politici, non poteva non riconoscere tutto il suo errore nello avere ripudiata Maria. Se egli voleva quindi prontamente raggiungere la meta suprema di tutte le sue aspirazioni, f ingrandimento dello stato, gli era necessario cercare un mezzo tanto potente, da costringerlo alla osservanza delle sue giovanili promesse, ripigliando su di essa i suoi diritti matrimoniali. Questo mezzo, sia che se lo procurasse lo stesso Federico , o che spontaneamente glielo abbiano porto i sudditi suoi, forse per suggerimento della stessa sua madre, fu presto trovato. I gentiluomini infatti e i cittadini tutti insorsero protestando al loro Signore che il suo matrimonio con Giulia d’Aragona non poteva assicurare successione allo stato e che lo ritenevano nullo, perchè contratto quando era valido e legale quello con Maria, e che questa sola erano per riconoscere quale legittima loro Signora. 11 nostro duca si valse tosto di questa manifestazione per mettersi d* accordo con Antonio de Leva, che sempre lo aveva consigliato a prendere per isposa Maria, affinchè egli informasse la marchesa Anna e l’imperatore della presa determinazione di voler assecondare i giusti desideri manifestatigli dai suoi sudditi. Prima però di inviare un messo speciale alla Maestà Cesarea, interessava a Federico conoscere quale sarebbe stata la risposta che la marchesa Anna avrebbe data a un tal Franco, dal De Leva spedito segretamente di comune accordo col duca, alla detta marchesa. Questa, troppo angosciata per la recente morte del figlio, e perchè era ancor vivo in lei il dolore dell’ affronto patito da Federico, non volle apertamente dichiararsi, tuttavia lasciava capire al Franco che avrebbe finito per acconsentire, tanto più che confessava essere Maria sempre innamorata del suo sposo. Era però necessario che Federico conoscesse presto le precise intenzioni di Anna, perchè il duca di Milano Francesco Sforza era già con essa entrato in trattative per avere Maria in isposa; e l’im- 42 GIORNALE LIGUSTICO - peratore stava formulando il progetto di darla in moglie al Conte Palatino (i). Dalle informazioni del De Leva, reso edotto Federico come la marchesa Anna avesse apertamente dichiarato, che giammai avrebbe acconsentito al matrimonio della figlia collo Sforza, anzi, che Maria stessa piuttosto che essere duchessa di Milano si sarebbe monacata, risolvette d’informare 1’ imperatore, a mezzo del proprio agente Antonio Bagarotto, come e perchè ora esso Federico ripigliava i suoi diritti di sposo sulla prin- (i) 1530, 13 luglio, Minute — A Francesco Gonzaga amb." a Roma — « Considerando il Signore, et confìdandose molto in el Signor Antonio de Leva per sapere che li è amorevole, et che P è tutto della marchesa, et ha sempre desiderato chel Signore havesse quella giovane per moglie, parve a S. Ex.1·' di tenir quel camino, et però secretamente mandò ad esso Leyva, Messer Capino per havere il parere suo sopra ciò, et perchè egli se intromettesse a fare 1’opera, parendoli reuscibile. Sua S.‘a laudò molto la cosa et con bona speranza di successo tolse a fare la pratica et presente messer Capino expedì alla marchesa un suo confidente et grato alla marchesa, nominato messer Franco.....La Signora marchesa poi lo mandò a dimandare, et li disse : chel rispondesse al Signor Antonio che 10 ringratiava, ma che per havere la morte del figliolo inanci alli occhi ancora, non poteva mettere 1’ animo a cosa alcuna, et mostrò pur anche che la se tenesse offesa del Signor nostro. Al che lui (Franco) respose accomodatamente, dicendo, che quel che era accaduto era stato più presto per mali servitori che per altro. Lui le disse, che S. Ex.ia forsi non volea attendere a questo perchè dovea havere qualche altra pratica in mano , come del Duca di Milano, et alhora le disse di lui quello che il Signor Antonio li havea commisso, che la fece stare assai sopra di se, et ringratiò sua S.ia di quanto la advertea.....Hora il Sig.” ha deliberato mandare secretamente messer Capino all’ imperatore per supplicare a S. M.tà che se voglia contentare chel piglii questa giovane, la quale è pur stata sua, et lo investisca di quel stato, et questo con saputa del Leyva, quale tiene 11 consenso di S. M.'à per facile. Et questo spazo si farà presto, perchè se sollicita la investitura per il Signor Gio. Giorgio, et bisognaria prevenire ». — 1530, 17 luglio, Minute — A Francesco Gonzaga. — « Il Signor Antonio de Leyva ha avisato il Sig.rc, come il Prot.° Carazolo ha mostrato di sapere il tutto, et che il Duca di Milano 1’ ha anche saputo, et ne ha scritto all’imper.”, et esso Signor Antonio ha recordato al Sig.” che ne avisi anche lui a S. M.t*, in quel modo che le paresse meglio.....Messer Capino è tornato hoggi, et dice, averli ditto il Signor GIORNALE LIGUSTICO 43 cipessa di Monferrato (i). Quantunque il Bagarotto non abbia mancato di calorosamente perorare la causa del suo Signore, tuttavia 1’ imperatore così gli rispondeva : « io amo il Signor Duca et li voria fare ogni a piacere, et se quando ero in Bologna havessi saputo che la voluntà del Signor Duca et dei suoi gentilhuomini fusse stata di havere questa Signora per moglie, io haverei travagliato di miglior animo, che non facessi questo altro casamento, ma perchè io intesi eh’ il Signor Duca non la voleva per cosa alcuna , et che questo matrimonio non era valido, perchè quando fu fatto ella era molto picola, et che già in Roma haveva havuto la dissolutione tot-talmente, io mi posi in questo altro casamento; et poi ho dato principio a parlare di questa Signora per qualcun altro. Si che fareti intendere al Signore Duca tutto questo, che poiché in questo matrimonio al presente fatto io intervenni, et tu fatto alla sua presentia che mo si disfacesse, non so quanto gli seria lo honor mio ». (Augusta, 1530, 1 agosto). Visto Federico la difficoltà di persuadere l’imperatore in suo favore, e conoscendolo di austeri principii religiosi, pensò di influenzare la sua coscienza manifestandogli, essere egli minacciato di scomunica dal suo confessore, se non avesse mantenuto i suoi precedenti obblighi contratti con Maria, riconosciuti dai leggisti canonicamente e civilmente indissolubili; Antonio, che la marchesa non era resoluta anchora, perchè la voleva sapere di non fare contro la mente dell’ Imperat.", ma che lui riconosceva S. Ex.1* essere assai disposta, conoscendo che niuno partito saria meglio per sua figliola che questo, benché la recordi pur la offesa che la pretende esserli stata fatta, et dice che l’ha anche altri partiti per le mani, et in specie quello del Principe di Orange, le conditioni però del quale, dice non piacerli ;.... Il Signor Antonio dimandò anche quale sarebbe la inclinatione della giovane, et le ha detto che essa non volle essere che duchessa di Mantua, che altrimente anderebbe monaca». — 1530, 8 settembre, Minute — A Sigismondo della Torre. — « Don Loyso Sermenta a nome dell’ Imper." solicita per farne contratto con il conte Palatino ». (1) Vedi Documenti, N.° XIII, 1530, 17 luglio. 44 GIORNALE LIGUSTICO per cui egli coscienziosamente non poteva adempiere alla promessa data di sposare donna Giulia (i). A vie maggiormente poi persuadere sua Maesti di quanto affermava, e per trattare direttamente il negozio, spedì Federico, in Augusta, un suo messo speciale nella persona del conte Sigismondo della Torre; il quale trovò Carlo sempre fermo nel suo proposito e assai sorpreso dello strano procedere del duca. Per la qual cosa, oltre che essersi eg espresso col della Torre negli identici termini usati col Bagarotto, aggiunse: « L’essersi ora sua Ecc.“ mutato de opinione mi pare multo stranio, tanto più che havendo sì lungo tempo da pensarli, solo si fosse cambiato dopo la morte del marchese di Monferrato, et però, che S. Ecc.1 si determini di eseguire quello che per suo giuramento et in nostra presentia haveva promesso alla Sig.ri Donna Giulia ». (Augusta, 1530, 16 settembre). Troppo palese era il movente di Federico perchè Carlo non lo avvisasse tosto, tuttavia egli assicurava sua maestà, non essere già stata la cupidità di stato che lo fece venire a quella determinatione, ma solo per il rispetto dell’anima sua ». Che se, soggiungeva Federico nella lettera al Della Torre, « la S.ra Maria fosse stata veramente nostra consorte non haveressimo cercato quello che havemo cercato, et se vivendo il marchese fossimo venuti in la cognitione che siamo venuti da poi, medesimamente haveressimo cercato de havere la vera nostra consorte, contentandone della dote simplice che ne fu promessa. Ma ne pare ben di dire a S. M.u (e qui Federico diceva il vero) che attesa la nostra grande servitù verso quella, et le offerte che ne sono state fatte da li suoi, et da lei stessa a boca, di farne qualche signalata mercede, accadendo la occasione, haveressimo sperato che quando fusse estinta la casa di Monferrato, vacando quel stato, ella senza che lo haves- (1) 1530, 28 agosto, Minute — A mes.' A. Bagarotto in Corte Ces.". GIORNALE ligustico 45 simo cercato ce lo havesse voluto concedere senza aspettare altra occasione, et lo avrebbe collocato in un fedel servitore ». (Mantova, 30 settembre, 1530, Minute). Il felice successo del dibattito se lo riprometteva il nostro duca dai buoni uffici degli amici e consiglieri Cesarei, chè in ogni modo e splendidamente cercava propiziarseli. Ora quello che a lui premeva di ottenere era l'esplicito consenso di Anna, per valersene come mezzo infallibile a far decidere Γ imperatore. Per tale motivo Federico spedi a Casale un suo messo fidato, Egidio Cattaneo, allo scopo di persuadere la marchesa delle sue rette intenzioni e sopratutto di aver rotto ogni rapporto colla Boschetto. Da questa donna, Anna temeva sempre nuovi raggiri che compromettessero la felicità di sua figlia, perciò non sapeva decidersi. Tuttavia mercè i consigli del De Leva e le ampie assicurazioni del Cattaneo, essa finì col persuadersi del procedere leale del duca, tanto che ella stessa gli scrisse che avrebbe mandato a Mantova un suo incaricato per intendersi e concludere. A meglio poi confermare la sua buona disposizione incaricò lo stesso Cattaneo di parteciparglielo a viva voce (1). Federico grato di tanta premurosa attestazione, così scrisse alla suocera: « Dal nobile Egidio Cattaneo (1) 1530, li agosto, Casale — Leti, della march.· Anna al march.· Federico. — 1550, 8 settembre, Minute — Λ Sigismondo Della Torre — a È ritornato messer Egidio Cattaneo, il quale riporta che madama marchesa di Monferrato, li ha detto che venghi dal Sig.’ nostro III.·*, c le dichi, che ancho che per il passato li fosse fatto qualche iniuria et torto, che però si voi havere scordato ogni cosa, et che li voi essere sempre bona maire ; che è contenta darli sua figliola Mad.· Maria, la quale è sua, e che sa non può essere altramente per haver fatto vedere il caso a ho-rn en i dotti. Che a voler venire a lo effetto è bisogno chel p.‘° S.r nostro 111.““ faci fare sopra ciò una declaratione a N. S., e che haveria piacere che presto li fosse mandato una citatione per potersi con quella excusare con Don Loyso Sermenta, che a nome dello Imper.” solicita per farne contratto con il conte Palatino, e anco risolverla il duca de Milano che cerca quanto può restringere et concludere la pratica, nella quale è già molti mesi ». 46 GIORNALE LIGUSTICO mio famigliare, venuto nuovamente di la, con mio grandissimo contento ho inteso il buon animo che la Ex.11 V. tiene verso di me, dimostrando di amarmi quanto 1’ ha mai tatto in el tempo passato. Del che di bonissimo cuore la ringratio infinitamente, certificandola che il medesimo animo, è in me, et più se è possibile, amando io et osservando essa V. Ex.'* come madre et signora mia ». (Mantova, 9 settembre, 1550, Minute). Conoscendo noi tutte le dolorose fasi di questo matrimonio, non si può a meno di constatare essere queste parole di Federico tutto un tessuto di calcolata ipocrisia, per mascherare i suoi ambiziosi progetti, e un tale contegno lo vedremo in appresso ancora più manifesto. Anche il Pontefice fu informato dal Duca della presa risoluzione e dei favorevoli risultati ottenuti, e a completarli lo supplicava di un Breve pel quale fosse confermato e dichiarato canonicamente legale il suo matrimonio con Maria, per poter annullare quello con Giulia. Il Papa che conosceva perfettamente tutti gli imbrogli passati manifestò, all’ambasciatore Francesco Gonzaga, il timore di essere compromesso quando avesse acconsentito. L’ambasciatore che , come sappiamo , aveva negoziato tanto il Breve causa veneni (22 aprile 1528), quanto quello ufficiale del matrimonio rato e non consumato (1529, 6 maggio), assicurava Clemente, che quei Brevi erano rimasti in famiglia, e che chi li avrebbe potuto produrre era interessato a non farlo; tuttavia il Papa si mostrava molto renitente. A decidere il Pontefice, inviò il Duca, il Cappino, e questi tanto seppe persuaderlo che fini coll’accondiscendere, col patto però che la richiesta del Breve partisse dalla stessa marchesa Anna (1). Cosi fu fatto e ai 20 settembre Clemente dichiarò : che il matrimonio contratto da Federico con Maria, (t) 1550, 22 luglio, 16-17 settembre, Roma — Lett. di Francesco Gonzaga al Calandra. GIORNALE LIGUSTICO 47 fu dapprima dichiarato nullo, ex certis causis minus legitimis seu falsis, ex depositione nonnullorum testium approbatis, tamen poslmodutn comperi! ex veris et legitimis probationibus iiuitrimo-ttium ipsum validum fuisse et esse... (i). Prima ancora che questo Breve, testimonio inconfutabile, dell’ indecente contegno del nostro duca e della versatilità di Clemente VII, pervenisse alla Corte di Mantova, per essere spedito a Casale, la principessa Maria improvvisamente morì (15 settembre 1530). X. La notizia della morte dell’infelice Maria pervenne alla nostra Corte, quasi per caso e senza aver avuto sentore che prima fosse ammalata. Neppure il Cattaneo, che abbiamo visto tornare da Casale sette giorni prima della di lei morte, ebbe a fare alcun cenno al duca di gravi condizioni fisiche della principessa. Di quale natura sia stato il male che condusse Maria innanzi tempo e cosi repentinamente a! sepolcro, non ci fu dato di scoprirlo in questi nostri documenti, né dai cronisti monferrini ci è reso noto. Sta di fatto che la notizia di quella morte il duca Federico l’apprese da un corriere Cesareo che da Casale passando per Mantova recavasi all’imperatore, appunto per partecipargli la morte della principessa Maria. Federico non poteva capacitarsi che tale inattesa e fulminea notizia fosse vera, e immantinente fece scrivere al Cattaneo, che aveva rimandato a Casale colla su riportata lettera per la marchesa, affinchè tosto spedisse un apposito corriere per toglierlo dall’ angoscia terribile da cui fu preso a quella improvvisa e desolante novella (2). Prima che il Cattaneo (t) D. LI. 15 b. — 1550, 20 settembre, Breve di Papa Clemente VII, DiUctae in chriito filùu nobili mulieri Annat Mardmmìaat Montisferrati. (2) 1550, 18 settembre, Minute, Al Sig.' Antonio de Leyva. — tj}0, 18 settembre , Minute, A raes.’ Egi. Cattaneo. — « L'è pissato de qui 48 GIORNALE LIGUSTICO ricevesse quella ingiunzione erasi affrettato egli stesso di ritornare a Mantova per partecipare al suo signore, non solo la morte della sua sposa, ma ancora, che la marchesa Anna gli offriva in moglie l’altra figlia Margherita. Quale sia stata la sorpresa provata da Federico a tale partecipazione, che d’improvviso veniva a mutare il dolore in gioia, non lo potremmo meglio esprimere che col riportare questa sua lettera alla marchesa, per la quale si ribadisce quel suo ipocrito procedere che già abbiamo più sopra rilevato. 111."” et Ex."” Mad."” osser."” La venuta di Mes.r Egidio Catanio me ha confirmato col reporto suo la peggiore nova che havessi mai al mondo de la inopinata morte de la 111."’ S.” Maria, che dio habbia la benedetta anima sua, onde io me trovo in el maggiore dolore che se possi imaginare non che esprimere, et perche so che V. Ex. se ritrova in extrema angonia per questo caso acerbissimo, me parso remandare el p.” Mes.r Egidio subito a lei a condolerse seco da parte mia, restando di mandare altra persona più publica a fare questo officio, havendome lui fatto intendere che serà ad essa V. Ex. di più satisfactione che torni lui chel venga altro. Et havendome il p." Mes.r Egidio proposto da parte de V. Ex. la S.” madamigella Margarita per moglie et di volerme per suo figliolo, et perchè 111.™* M-”” io non desidero altro a questo mondo che di congiungerme seco per tale mezo et donarmele per obedientissimo figliolo poiché a dio è piaciuto di privarme de la ocasione che tanto desiderava, tollendome così cara consorte, quando sia cosi de volere et satisfatione di essa V. E., et quando ella, come esso Mes.1 Egidio me affirma, se contenti di volerme accettare per figliolo, come io di havere lei per madre et S/\ io lo accetterò volontieri non guardando ne a doti ne ad alcuna altra cosa se non a colligarme con la Ex. V. con questo caro pegno che le resta, et mettere me in potestà sua. Et contentandose lei di questo se degni trattare la cosa con Mes/ Egidio prestando a lui quella fede et credenza che la faria a me medesimo se presente le par- uno correro in posta, che è andato de longo alla corte Cesarea, quale ha dicto ad un altro correro chel veniva da Casale et portava aviso al Imperatore della morte della 111."” S.r· Donna Maria nostra Signora. Il che intendendo, lo III." S.r nostro è venuto in la maggiore agonia et dolore del mondo ». GIORNALE LIGUSTICO 49 lassi, perchè io me confido pienamente in lui. Se nostro S." dio permette che questa cosa habbia loco, la Ex. V. me haverà per tanto suo che potrà disponere di me et di ciò che dio me ha dato come se le fossi figliolo proprio et carnale. V. Ex. voglia per il medesimo farne intendere 1 modo che haverò da tenire perchè non serò per fare se non quanto intenderò essere il suo prudentissimo parere, et tutto quello che le dirà Mes. Egidio da mia parte la se degnerà prestare piena fede. Alla Ex. V. quanto più posso di core me raccomando. Mantua 19 septembris 1530. La marchesa di Monferrato doveva portare uno sviscerato affetto a Federico, se ancora caldo il cadavere di Maria erasi risolta a concedergli, senz’esserne richiesta, l’altra figlia Margherita. Se non che, al ritorno del Cattaneo, Anna s’avvide che aveva commesso una imprudenza, coll’avere essa estessa offerta la figlia, per ciò l’incaricò che pregasse in di lei nome il duca, affinchè questi mutasse le espressioni contenute nella riferita lettera, per le quali dovesse apparire che egli stesso le ricercava Margherita, non già che essa gliela proponeva. Il che fu da Federico riconosciuto giusto, onde riformò quella lettera conforme i desideri della marchesa (1). A Mantova come a Casale interessava non perdere tempo nel predisporre quanto era duopo per concludere questo matrimonio , onde prevenire gli ostacoli che già cominciavano a frapporvisi. Troppo ambita era per certo la mano di Margherita, che portava in dote il principato di Monferrato, una volta che il di lei zio Gio. Giorgio morisse presto, come tutto lasciava credere e come vedremo più innanzi, per cui, principi italiani e stranieri facevano ressa intorno alla marchesa Anna per ottenere la mano della sua figliola. Il Duca di Milano, che si era già inutilmente adoperato per Maria; il duca d’Urbino per suo figlio Guidobaldo; il duca di Sa- (i) 1530, 25 settembre, Minute, a mes.' Egi. Cattaneo. — « Havemo fatto reformare la littera nostra secondo che ne haveti havisato essere volontà de Mad." 111.“, et ve la mandamo ». Giokh. Ligustico, Anno XVIH. 4 GIORNALE LIGUSTICO voia pel figlio decenne; il re di Francia pel suo secondogenito di 12 anni, e, secondo il De Leva, ed i nostri documenti, pel marchese di Saluzzo; infine il conte Palatino (i). Questi era il solo che fra tutti quei pretendenti potesse sperare una buona riuscita, come partito che entrava nelle viste politiche deir imperatore; tanto che per lui egli aveva gi;\ trattato colla marchesa di Monferrato per dargli in isposa Maria. Era per ciò Carlo doppiamente interessato a caldeggiare la buona riuscita (i) De Leva, op. cit., II, pag. 90. — Vedi Documenti N.° XIV. — 1530, 13 novembre. — 1530, 23 settembre— Casale — Lett. del Cattaneo al duca Fede.” — « Il ducadi Milano haveva mandato mes.' Pietro Fran.° Buttigella a dimandare Mad.“ Margherita, et che dominica proxima doveva etiam ritornare ». — 1530, 28 settembre — Roma — Lett. di Fran.° Gonzaga al Calandra — « Sua B.'" me ha ditto chel duca de Urbino era in strectissima pratica de dare la figliola al Sig.r Gio. Georgio di Monferrato, et pigliare la secondogenita, che sarà la nostra, piacendo a Dio, per il S.r Guidobaldo suo figliolo ». — 1530. 7 dicembre — Casale — Lett. del Cattaneo al Duca — « Il S.r Duca de Urbino non cessa anchora lui per via del S.r Antonio de fare quanto può per disturbarne, promettendo cose impossibile, et voria pur concludere il matrimonio della figliola nel Sig.r Jo. Georgio, quale io vidi già fa dui giorni, et pare proprio una spera, et non posso credere agionghi a Carnevale ». 1530, 6 novembre — Casale — Lett. del Cattaneo al Cappino — « Messere Jo. Ambroso me ha dicto questa sera, como 1’ è venuto questo de Sa-voglia, et dimanda Madama nostra per il figliolo del duca primogenito, qual ha dece anni, et caso che S. Ex.‘* per rispecto della età del putto fusse rinitente a dargela;, chel p." S." ha la consorte adesso che sta malissimo, et crede che moriià, e morendo, se offerisse lui de torla. De la quale simplice petitione Madama molto ha riso ». — 8 novembre — « È zonto qui in Casale lo Episcopo de Verzelli fratello del Card.1' de Ivrea, mandato pur dal S.r Dnca de Savoglia a Madama qui, et subito dopo il disnare andò a parlare a S. Ex.1*, dicendoli il grande desiderio che ha il p." S." de contrahere affinità cum quella, rechiedendo la figliola per il primogenito de esso duca ». — 1530, 10 dicembre — Casale — Lett. del Cattaneo al Cappino — « Il S/ duca de Savoglia vedendo forsi che la Ex."·* sua consorte non ha troppa voglia de morire, GIORNALE LIGUSTICO del matrimonio del conre Palatino con Margherita, per la cui effettuazione non mancava che il consenso della madre di lei, la quale però non era punto disposta a concederglielo. ha mandato un suo ambassatore in favore de Mons/ de san polo. Al che subito s è dato spazo, et è ritornato per quella via che era venuto, et liane la Ex.1· de Mad.* dato de questo noticia a don Aloyse, che de la venuta de detto incassatore de Savoglia debba significarlo a la Corte, et la causa perché è venuto. Stiamo pur noi de bona voglia, et Iassamo transcorere questo influxo de imbassatori, che sciò ben io faciano quanto voleno se ben dopo san polo venesse san petro che madamicella è Sig/* nostra ». — 1530, 21 ottobre — Casale — Lett. del Cattaneo al Cappino « Messer Jo. Ambroso dissemi che ragionando lui cum madama era venuto il commis.10 et Jo. Cane, et gli haveva Jecto il commissario: Madama ho inteso che dimane de’ venire il capitano Leonardo, qual viene de franza a posta mandato dal re a V. Ex.1*, et che parlorono insieme tucti quatro, videlicet, madama, il commis.1”, esso secretario (Gio. Ambrogio) et Jo. Cane, et che Jo. Cane disse: Certo vien a dimandare madamisella Margarita per il secondo genito del re. Madama questo non seria partito già da lassare andare, et che esso messer Jo. Ambroso rispose: sì la daremo a uno pucto de. anni dodece ; potrà expectare la povera giovane, et morire in casa corno ha facto quella altra. Et madama disse. sera quello che Iddio vorrà ........ Hoggi che è dominica a le hore 22 è venuto il dicto capitano Leonardo, qual corno dicono è Napoletano, cum sette cavalli et duj cariagi .... dalle 23 hore fina alle 24 ha continuamente parlato cum madama «. — 1550, 7 dicembre — Casale — Lett. del Cattaneo al Duca — « Andai a parlare al S/ don Aloyso in uno certo loco, quale me disse, che ogi taceva il spazo a la Corte, scrivendo a lo Imperat." che presto se risolva; imperò che, corno è vero, sono qui tri imbassatori francesi quali non cessano ogni giorno de stimulare madama, et veramente hanno quasi tucti li subditi reducti al voler suo, et solo quello animo constantissimo de questa Mad.* è più fermo che mai verso V. Ex.1* ». — 1530, 19 dicembre — Casale — Lett. del Cattaneo al Duca — a Qui in Casale se aritrovano tri ambassatori francesi: el capitano Leonardo a nome del Chris."'', messer Livio Grotto mandato da la sorella de Madama, Mons/ de Iserne per parte de la regenta et de la regina de navara, et pur cum littere anchora de la sacra Maestà del p-'· Chris.”” ». 52 GIORNALE LIGUSTICO Tutte queste brighe facevano capo a Casale e trattate dai rispettivi ambasciatori, onde Federico ne era minutamente informato dal suo fidato agente il Cattaneo e dalla marchesa stessa; importava quindi non perdere tempo per sventare tutte quelle mene. Prima cura del duca di Mantova, col pieno accordo della marchesa Anna, fu di rendere informato il Papa della proposta fattagli e del suo pronto consenso, inviando a Roma il Cappino coll’incarico di mettersi d’accordo col suo ambasciatore Francesco Gonzaga, per ottenere prontamente dal pontefice le seguenti dichiarazioni: i.° che il matrimonio con Maria era valido e indissolubile; 2.° che quello con Giulia era nullo perchè contratto durante la validità di quello; 3.0 che gli concedesse la dispensa per contrarre il connubio con Margherita (1). Per sostenere giuridicamente quanto il duca chiedeva, fece redigere dai suoi giureconsulti, Gerolamo de Luca e Nicolò Aliprandi, insieme coi giuristi forensi, Lodovico Gozadino, Pietro Paolo Parisio e Filippo Decio, un consulto — super invaliditate dissolutionis matrimonii — da presentarsi a Roma al tribunale di Rota (2). A Ferrara mandò all’ex regina (!) 155°3 l9 settembre — Minute — A Francesco Gonzaga e al Cappino — « Et sera bene che la cosa se maneggi più secretamente che sia possibile, essendo cosi intentione anche de la S.” Marchesa, la quale ne ha fatto intendere che subito che l’abbia il consenso nostro, la licentiarà l’homo che insta per il conte Palatino et ogni altro ». (2) I53°> settembre — Rub.“ D. II, 15 b. — « Consilium Jureconsulti D.°‘ Hier. Lucensis, Nicolai Aliprandi, Ludovici Gozadini, ecc. ... — super invaliditate dissolutionis matrimoni) ». — 1530, 19 settembre — Minnte — al Cappino e a Francesco Gonzaga — Mandaniovi anche con questo spazo tre consigli) formati sopra il caso nostro del matrimonio con la s.“ Maria ». — 1S3°> settembre —Roma — Lett. di Francesco Conzaga al Duca — « Sono ritornato hoggi al Papa per intendere che resolutione havea preso S. Santità con Ancona sopra il caso nostro ma- GIORNALE LIGUSTICO 53 Isabella d Aragona, il frate Gerolamo Priore del monastero di Gradaro, per farle conoscere il deliberato dei suaccennati giuristi, pel quale veniva riconosciuto valido il suo primo matrimonio, e come lo stesso pontefice lo aveva già dichiarato col su riferito Breve del 20 settembre, motivo per cui il detto frate doveva dichiarare alla predetta Isabella, che il duca di Mantova si riteneva sciolto dall’impegno contratto con sua figlia, Donna Giulia, e che dalla causa che ora sì accingeva a sostenere in Roma si riprometteva favorevole la sentenza (1). Tosto che il Cappino tornò a Mantova a render conto al duca del buon esito della sua missione, fu da lui inviato a Casale con mandato di procura, affinchè col Cattaneo trattasse e formftlasse i capitoli del suo matrimonio con Margherita (2), i quali furono ai 5 di ottobre sottoscritti a Mantova dal duca Federico e rattificati a Casale dalla marchesa Anna, in questa forma (3): Federicus Dux Mantuae etc. — In virtù della presente nostra offeremo et promettemo all’Ill.”* et Ex.m* Sig." Madama Anna de Alanconio marchesa di Monferrato, che piacendo a sua Ex.‘* de darne per legittima sposa et mogliere ΓΙΙΙ."4 Madamisella Margarita sua figliuola et dell’ 111.""’ et Ecc.'"0 Signor de felice memoria Sig.r Guglielmo suo consorte hon."° trimoniale. La me ha ditto haverne parlato lungamente insieme, et che in fine il tutto depende dal far constare la sententia che fu data per mons.r Arcidiacono, essere stata falsa. Che quando questo se monstri, il resto secondo dice esso Ancona non può passare se non bene, chel matrimonio secondo sera nullo». (1) D. II, 15, b.— 1530, 29 settembre.— a Mandat, ducis Mantuae in Fratrem Hieronimum de Mantua, ad declarandum de nullitate matrimonij dicti ducis cum dna Julia de Aragonia. (2) D. II, 15, c. — 1530, 27 settembre — Mand. procurae dfli ducis Mantuae in dfium Juhannem Francis. Cappini de Cappo ad tractandam ej contrahendum matrimonium cum dna Margherita de Monferrato. (3) Rub. D. II, 15, C. 54 GIORNALE LIGUSTICO et Marchese de .Monferrato, precedente et interveniente prima lo consenso et buona voluntà della Ser.”* Cesarea Maestà per sue littere direttive alla p t» in.·”· Madama in forma conveniente, et la declaratione della Santità de N. S· della nullità et invalidità del matrimonio contratto per noi cum ΓΙ11. donna Julia d’Aragone, in optima forma, in modo che non li resti alcuna difficultà, scrupolo o impedimento, et similmente l’opportuna dispensatione Apostolica per lo impedimento causato per el precedente contratto della felice memoria de Pili.”* Màdamisella Maria. Quale cose tutte haveremo a fare expedire in fra il termine d’uno mese et meggio proximo da venire. De constituire in dote et per causa di dote alla p.’* 111.™* Madamisella Margarita la summa de ducati doro centomilia, et delli propri] denari et beni nostri, et che ce obligaremo de presenti alla constitutione de ditta dote, et alla restitutione di essa, quando accadesse il caso de restituirlo cum le obligatione debite in forma valida per pubblico instrumento, et renunciaremo ad ogni dote che ne spedasse, o noi, o la p.'“ 111. Madamisella Margarita potessimo havere, conseguire et domandare per vigore dalcune ordinatione o testamento del p.'° 111. S.r Marchese Guglielmo, o per qualunque altra rasone o successione paterna de alcuni beni aloddali o nobili, excetto in caso che l’Ill."0 S.' Jo. Georgio marchese di Monferrato presente, suo Barba, mancasse de questa vita senza figliuoli masculi, et nati de vero et legitimo matrimonio , in quale caso non se ne intenda havere loco la renunciatione preditta. Ancora vene-remo in propria persona a Casale a contrahere il matrimonio, et avanti che veniamo a Casale faremo et confirmaremo le cose preditte et conduceremo a Mantova honoratamente alle proprie nostre spese la p.u 111.”* Damisella Margherita in fra il termino de giorni XV doppoi il ditto termine, dandonela la p.“ 111."* S." Marchesa condecentemente vestita. Et in fede de ciò havemmo fatto fare la presente nostra sigillata et signata opportunamente, et noi l’havemo sottoscritta di nostra propria mano. Datum Mantuae die V octobris MDXXX. Fedcricus Dux Mantuae. Et cossi corno de sopra acceptemo noi Anne de Lanson marchesa de Monferrato. Calandra. Prese tutte queste disposizioni, che attestano il sollecito e opportuno procedere di Federico in così complicato affare, e il pieno suo accordo colla marchesa Anna, restava a risolversi la parte più difficile e contemplata nel suesposto trattato, cioè di far conoscere all’ imperatore tale sua nnova determi- GIORNALE LIGUSTICO nazione per ottenere da esso il consenso, persuadendolo della nullità del suo connubio con Giulia in base al su riferito consulto giuridico. Compito assai arduo a risolversi, ma che non scoraggiò punto il nostro duca, che anzi intendeva affrontarlo direttamente col recarsi egli stesso da Carlo V per patrocinare in persona la propria causa. Se non che, per la mal ferma sua salute, pel viaggio troppo lungo e per la stagione troppo innoltrata, fu consigliato di spedire in Augusta, una persona che godesse oltre che la propria fiducia la stima dell’imperatore; a tal uopo incaricò il conte Nicolò Maffei. Se Carlo V erasi giustamente risentito dell’ inqualificabile procedere di Federico, dopo la morte del marchese Bonifacio, e se in ultimo alla evidenza dei fatti confermati dal suaccennato Breve del 20 settembre, era per riconoscere Maria sposa legittima del duca, ora che essa era morta, è facil cosa il pensare corne egli non vedesse più alcun ostacolo, perchè il duca soddisfacesse al giuramento fattogli. Tanto meno poi poteva approvare questo suo nuovo matrimonio, stante la sua solenne promessa data al conte Palatino, che Margherita sarebbe stata sua sposa. Arrivato il conte Maffei ai 20 ottobre in Augusta egli fece capo al commendatore Couos quale consigliere più influente e devoto amico e partigiano del duca Federico. Il Couos consigliò il conte a non parlare subito coll’ imperatore del matrimonio con Margherita, perchè egli lo teneva già concluso col conte Palatino, quantunque mancasse ancora il formale consenso della marchesa Anna, e il parlarne ora sarebbe stato motivo di viemaggiormente irritare Sua Maestà. Ma il Maffei conoscendo che la risposta di Anna, se pur non era già arrivata, doveva certo in breve essere comunicata a mezzo del— Γ ambasciatore imperiale residente a Casale, e munito com’ era della lettera di Anna che motivava il perchè dava la figlia a Federico, potè facilmente convincere il fido consigliere, che 56 GIORNALE LIGUSTICO ogni cosa era prevista, e che non disperava punto di far persuaso P imperatore della necessità eh’ egli acconsentisse a render paghi i desideri del suo signore. Non a torto sperava il Maffei nel buon esito della sua missione, in quanto che per le recise e perentorie istruzioni avute, non era possibile supporre che Carlo fosse causa col suo diniego di alienarsi l’animo e l’appoggio di un fedele vassallo e di un valente e stimato capitano. Infatti il conte Nicolò, oltre il mostrare all’ imperatore tutti i servigi prestatigli dal duca di Mantova, doveva dichiarargli che esso era anche pronto ad offrire a sua maestà cinquanta mila scudi, e se ciò non bastava a risolverla , egli doveva dichiarare che il duca sarebbe ricorso anche a mezzi estremi « col legarsi in parentado con chi meglio avesse stimato conveniente ai propri interessi, senza riguardo o rispetto di persona, e per ciò, si sarebbe valso di alcuni principi di germania stretti in parentela col duca e accerrimi nemici del conte Palatino » (i). Presentato il Maffei dal Couos all’ imperatore , questi gli manifestò tosto tutta la sua alta indignazione per lo scorretto procedere del duca, rammentando le dichiarazioni fattegli in Genova, il successivo giuramento a Mantova e insistendo nel volerne l’adempimento. Il Maffei cercò rabbonire sua maestà col contrapporgli validi ed efficaci argomenti, adempiendo fedelmente alle istruzioni ricevute, e dopo lungo dibattito, così il Maffei concluse il suo dire: « V. Maestà deve havere molta compassione per sua Ecc., essendo che Giulia è di oltre 38 anni e per di più indisposta della persona, il voler costringere S. Ecc. a vivere congiunto con persona di tanta deformità, come è quella, e vedersi la privatione di quella con- (1) D. II, 15, c. — Mantova 1530, 5 ottobre — Lett. del Capino al Cattaneo. Vedi Documenti. — Docum. N.° XIV. citato, 1530, 13 novembre. — T 53°, 2& ottobre — Augusta — Lett. del Maffei al duca Federico. GIORNALE LIGUSTICO 57 tentezza che si suole havere dalla paternità, è tal cosa che deve commuovere e persuadere V. Maestà. Il volere quella unione sarebbe un condannare a eterno suplicio S. Ecc.a e privare lo stato di legittima successione; Y. M. non lo può permettere, e perciò S. Ecc.a humilmente vi supplica e chiede perdono se non può prendere donna Giulia per moglie ». L’Imperatore finì per persuadersi, e « con viso allegro », così rispose al Maffei : « poiché non c’ è rimedio , expedita che sarà la causa a Roma, venendo la dichiaratione in favore di S. Ecc.a, non mancherò di far cosa che sarà di sua satisfattone e contento » (Augusta, 26 ottobre 1530). Intanto a Casale i maneggi e le brighe dei suaccennati pretendenti alla mano di Margherita, si facevano sempre più vive e aperte, e più di tutte quelle dell’ incaricato di Francia. Federico da uomo astuto. che sa prontamente afferrare le occasioni per valersene a proprio vantaggio , approfitta di quelle mene per additarle all’ imperatore, come politicamente pericolose, e alla marchesa Anna fa scrivere che lusingasse quell’incaricato, perchè Γ imperatore, preso da gelosia del suo rivale, più facilmente sì risolverebbe a riconoscere Γ utilità che quello stato cadesse nelle mani di un fedele e provato vassallo, e per ciò acconsentirebbe al suo matrimonio con Margherita (1). In Augusta il lavoro degli ambasciatori di tutti i pretendenti alla mano di Margherita, non era meno attivo che in Casale, per riuscire nel loro scopo e ostacolare in tutti i modi le aspirazioni del duca di Mantova. Questi a mezzo dei propri incaricati presso quelle Corti controminava tutte quelle mene, e la marchesa Anna, mercè la sua ferma volontà, non mancava direttamente e indirettamente di favorire il suo Federico. Al punto in cui erano le cose, Anna, che aveva fin qui tenuto (1) 1530, 2 novembre — Minute — Al co. Nicola in Corte Cesarea. 58 GIORNALE LIGUSTICO nascosto alla figlia tutti i progetti che si andavano trattando per maritarla, stimò venuto il momento opportuno di intendere la sua volontà, affinchè liberamente dichiarasse a chi ella avrebbe dato la preferenza e sarebbe stato di suo pieno aggradimento. « Voi o figliuola mia » , così esprimevasi la marchesa, « siete hormai in tempo che molto bene sapete discernere il bene dal male, me ha parso de dirve queste poche parole rendendomi certa voi non essere così simplice, che non imaginate la causa che hanno comosso tanti principi a mandare loro ambassatori a me, et stare fermamente qui corno fanno, ma quando questo a voi fusse pur ascosto, vi dico, che tali principi summamente desiderano per il megio vostro de contrahere affinità meco, e sono tali et tali Signori. Io seria molto contenta, avanti che più ultra si procedesse, de sapere lo animo vostro, circa ciò, e però ho voluto comunicarvi il tutto, solo voglio che me dicati quale de questi Signori più a voi piacerebbe.... ». Margherita a tale domanda, pudicamente arrossendo, rispose, che ella era sempre obbediente alla sua materna volontà, e conoscendo bene quanto l’amasse, non avrebbe certo disposto di lei se non in modo di renderla felice. La madre insistette, pregandola affettuosamente, che liberamente dicesse chi di quei Signori avrebbe preferito. Allora la figlia, tutta commossa disse: « Il Duca di Mantova » (2). Questa formale dichiarazione di Margherita fu tosto dal Cattaneo partecipata al duca, il quale sicuro ormai che nessuno avrebbe potuto violentare una così esplicita e sincera dichiarazione, ordinò tosto che si affrettasse il dibattito della causa a Roma, dipendendo da essa la risoluzione imperiale. Mandò colà il distinto suo giureconsulto Gerolamo de Luca a sostenere nel tribunale di Rota il deliberato dei giuristi (2) 1530, 10 novembre — Casale — Lett. del Cattaneo al Duca. GIORNALE LIGUSTICO 59 mantovani e forensi, e tanto seppe colla sua dottrina persuadere quel tribunale e combattere le ragioni e le argomentazioni degli avversari, sostenitori della causa di Donna Giulia, che alla perfine sul finire di marzo del 1531 dall’auditore del santo Palazzo, come vicario Pontificio, fu proclamata la tanto desiderata sentenza di validità del matrimonio contratto nel 15 17 da Federico con Maria, dichiarando nulla la famosa sentenza di dissoluzione pronunciata dall’Arcidiacono Gabloneta e riconoscendo invalido e nullo quello contratto con donna Giulia d’Aragona (1). Resa nota questa sentenza all’ imperatore, Federico inviò in Augusta il suo gentiluomo Sigismondo della Torre, con mandato di procura per chiedere il formale consenso di Carlo V, di contrarre il tanto sospirato suo matrimonio con Margherita; et similiter, ciò che più interessava a Federico, consequi et habere per justum et legitimum titulum statum Montis ferrati (2). La marchesa Anna, cosi scriveva a Carlo V: « V. Μ.ιΛ intenderà per le lettere del magnifico S.r Aluisio Sarmento, suo gentiluomo residente qui, la instantia ne fa lo Ill.m0 S.r Duca di Mantova per il matrimonio di mia figliola, al quale, per la observanza et fidele servitù ho verso V. M.‘% non ho voluto dare risposta alcuna, salvo che mi rimetto al buon volere di V. M.,à, alla quale sta a disponere et ordinare quanto gli piace de essa mia figliola et di me, sue humile et divote serve, vassalle et subdite, sapendo V. M.tà che la volontà mia è de maritarla in Italia per mia consolatione » (Casale, 2 aprile 1531). (1) D. II, 15, b. — 1531, 29 marzo — Sententia super nullitate matrimonii 111. D. Iuliae de Aragonia cum 111. D. Fed. Gonz. duce Mantuae contracti. (2) D. II, 15, c. — 153], i aprile — Mandat, procurae ecc.“ 6o GIORNALE LIGUSTICO Questo pìacft imperiale era però sempre contrastato dai nemici di Federico. Gli agenti poi del duca di Milano non si peritavano di assicurare Francesco Sforza, che Carlo V a nessun altro che ad esso duca sarebbe per concedere Margherita in isposa e tacevano spargere voce che Γ imperatore aveva imposto a Federico, sotto pena di perdere lo Stato, di condurre a Mantova donna Giulia (i). Falliti completamente tutti i tentativi posti in opera dai suoi avversari, egli potè ottenere ai primi di luglio del 1531 il tanto desiderato consenso di Carlo, coll’obbligo però che dovesse corrispondere a donna Giulia una pensione annua di tre mila ducati (2). XI. È certa cosa però, che se la marchesa Anna non avesse persistito nel dichiarare ripetutamente, e anche alla stessa maestà cesarea, che sua figlia non sarebbe stata d’altri che del duca di Mantova, e che mai avrebbe acconsentito che essa uscisse d’Italia, il nostro duca non sarebbe per certo riuscito nel suo intento. Di una cosa sola preoccupavasi la marchesa di Monferrato , d’Isabella Boschetto. Memore delle subite ingiurie, conscia dell’ ascendente di quella giovin donna sull’animo di Federico, temeva sempre da essa qualche nuovo inganno e più che tutto, che la sua figlia non fosse da Federico teneramente amata, come meritava esserlo, e dovesse patire da quella immeritati affronti. Questi giusti timori della amorosa madre, cosi li esprimeva al Cattaneo: «... Dio mi è testimonio eh’ io non vorrei della S.” Isabella male alcuno, ma vorria bene che gli fosse provisto per tal modo che non avessi causa de dubitare, et quando altramente fosse, (1) 1531, 26 maggio — Casale — Lett. del Cattaneo al Cappino. (2) 1551, 12 luglio — Cop. lett. march.*, lib. 50 — Al Duca di Ferrara. GIORNALE LIGUSTICO 6l che si ritornasse ai primi termini, io non saprei più che fare, se non disperarmi a dire che Iddio mi havesse tolto , marito, figliuoli et lassatami sola questa unica speranza di questa figliuola, et che io la vedessi per troppo amor che porto al Sig.re vostro, et per mia causa patire, io non lo tollererei mai, et sedarne questo più acerbo che quante morti et dolori ho patito per il passato, che so che voi ne sapete in parte. Pregate il Sig/ vostro, et vedete eh’ io lo dico tre volte; che io li sarò buona matre, buona matre et buona matre, purché sia buon figliuolo, et che io li do nelle mani quanto bene ho al mondo ... ». A questi angosciosi timori della marchesa, il Cattaneo rispondeva coll’ assicurarla formalmente che il suo Signore erasi del tutto staccato da quella donna e come essa più non compariva nella Corte e nei pubblici ritrovi, anzi che essa stessa, a non solo desiderava tal cosa, ma non vedeva l’ora che si effettuasse, perchè vedendo l’animo del duca inclinato a questo,ella aveva operato presso lo stesso duca, con tutte le sue forze et animo a dover cercare di havere la q·® bona memoria di Mad * Maria, si come moglie sua legittima, et da poi la morte di quella, con più istantia che prima, ha cercato che S. Ecc.* richieda Mad.1* Margherita, et hormai non desidera altro se non di vivere, et di far conoscere per veri effetti a quella che sarà sua et nostra patrona, et che ella vuol essere cosi buona serva qual’ altra gli sia, et non cerca altro al mondo se non di aquistare la buona gratia di V. Ecc.‘ ». — « Si » rispondeva l’addolorata marchesa « ma le cose di questo mondo sono mutabili, et io desidererei che essa si maritasse honorevolmente come merita, et io l’havrei sempre in mia buona gratia ». A tale giusto desiderio, il Cattaneo soggiungeva : « che il duca era prudentissimo, e che in breve avrebbe provveduto conforme ai di lei desiderii » ; anzi a questo proposito non poteva nasconderle come la stessa 6 2 GIORNALE LIGUSTICO Boschetto avesse manifestato ai suoi famigliari il pensiero « di ritirarsi in un monastero tosto che havesse maritate le figlie » (Casale, n ottobre 1530). Tutte queste assicurazioni il Cattaneo le esprimeva certo in buona fede e dietro le istruzioni che riceveva dal duca , ma questi nel darle sapeva di mentire, e tutto ciò che scriveva al suo agente per persuadere la buona marchesa degli onesti suoi propositi, non era che una raffinata ipocrisia. Infatti, se fermo e leale era il proposito di Federico di staccarsi dalla sua amante, perchè, tre mesi prima della sottoscrizione dei suesposti capitoli matrimoniali, egli concesse, alle molte e ricche donazioni tane alla sua Isabella, un’ ampia immunità su tutte le terre da lei possedute nel ducato di Mantova? E perchè una tale concessione la faceva precedere da queste frasi precise ? . . . . Magnifica et clarissima domina Isabella Boschetto de Gonzaga, tam ob eius merita et singulares virtutes ea multo ampliora reddere cupientes et quam maioribus gratiis eam amplecti ... Si potrebbe scusare Federico se questa concessione fosse stata il suggello delle elargizioni e dei favori prodigatele, e con essa avesse inteso compensare 1’ amante del distacco a cui forzatamente doveva pur risolversi ; ma cosi non fu, che ancora un mese prima delle sue nozze con Margherita, donava Federico alla sua Isabella un pingue possesso posto nel vicariato di Gonzaga, facendo precedere il decreto da queste testuali espressioni : Quum urbis nostrae Matronarum cunctorumque judicio Mag.ca et Clariss.“ Domina Isabella Bo-schetta da Gonzaga non minus cum praestantia morum probitate exactissimaque prudentia quam clara annorum nobilitate caeteris praelata sit. Iccirco nos qui semper tam praeclara ingenia libe-ralitate, ac munificentia merito prosegui solemus tantarum virtutum gratia tenore presentis decreti ecc.a . . . (1). (1) Lib. Decret. — 1530, 29 luglio, pag. 16. - 1531, 13 settembre, pag. 105. GIORNALE LIGUSTICO 63 Le singolari virtù e P eccellente probità dei costumi, erano i titoli pei quali il duca di Mantova largamente rimunerava la sua amante! Ma non sono elleno queste attestazioni una solenne prova dell’ipocrito contegno di Federico? E non è egli evidente che col suo matrimonio, prima con Maria, poi con Margherita, non tendeva ad altro che soddisfare per quel mezzo al suo tanto agognato sogno ambizioso di ampliare il proprio stato, non tenendo in nessun conto 1’ amore per la donna che glielo portava in dote? Io non so a che cosa possa aver servito una dichiarazione notarile del 19 aprile 1531, per la quale affermavasi, che Isabella Boschetto dopo la morte del di lei marito — 1528 — in viduali vita permansit, nec eo vivente, nec ex post alicui nupsit, nec cum viro aliquo matrimonium contraxit, nec publice nec oculte. Non certo per entrare in un monastero, come assicurava il Cattaneo l’infelice madre di Margherita, perchè ancora nell’agosto del 1532, la Boschetto era « la diletta gentildonna » di Federico e godeva tutti i suoi favori (1). Nè per passare in seconde nozze, come desiderava la marchesa Anna, che la Boschetto non si sposò col conte Filippo Torniello che due anni dopo la morte del duca. Questi impudichi amori durarono sempre, nè è da meravigliarsi, che esempi di tale corruzione e prima e poi se ne verificarono e nella stessa famiglia Gonzaga e in altre Corti d’Italia. Certo è che la buona e virtuosa Margherita ne avrà sofferto e avrà ben dovuto rassegnarsi al suo destino, se permise che alla sua secondogenita, natale nel 1537, le fosse imposto il nome dell’ amante, quantunque le si avrà forse fatto credere, trattarsi di rinnovare il nome della marchesa, ciò che non fu di certo, perchè ancora in quell’ anno (i) Cop. lett . lib 48, ris. —- 1532, 31 agosto — Al S.r Lod. Gonz. di Bozzolo. 64 GIORNALE LIGUSTICO Federico ordinava allo scultore Alfonso Cittadella P effigie della sua amante (i). Di questa cortigiana, morta 20 anni dopo il duca (2), il Prof. G. B. Intra volle ravvissare P apoteosi nei meravigliosi dipinti di Giulio Romano nel palazzo del Te, e precisamente nella sala di Psiche (3). Egli pensa che Giulio dipingendo la storia della infelice Dea, abbia voluto rappresentare tutto intero il poema d’ amore d’isabella con Federico; più ancora, nella immagine di Psiche egli vi ravvisa Γ effigie d’ Isabella. Argomentazione, a mio avviso, molto ardita, perchè non suffragata da documenti; ma se si considera che quella sala deve essere stata dipinta appunto in quei giorni in cui Isabella imperava sul cuore del suo Federico (1528-29) può essere che Giulio abbia voluto con quei dipinti immaginosi della Greca mitologia, assecondare il pensiero del suo Mecenate; che in fine si può dire essere quella sala tutta palpitante di voluttuosa sensualità di cui Federico e Isabella erano la viva espressione nella Corte. XII. Ottenuto il consenso imperiale, la marchesa di Monferrato ordinò tosto di abbellire e rimodernare il vecchio castello di Casale, di preparare ricchi e suntuosi addobbi all’appartamento degli sposi e che si approntassero preziosi oggetti che la figlia avrebbe portati nella Corte di Mantova (4). Qui (1) W. Braghirolli — Alfonso Cittadella scultore del XVI sec. — Atti detl’Accad. Virgiliana — 1874-78 — Docum. in App. Doc. 3.0 e 5.0 (2) Registri necrologici — 1560, 2 aprile — morta di 60 anni d’età. (3) Archivio Storico Lombardo, vol, 4.0, 1887. (4) 1551, 19 settembre — Casale — Lettera del Cappino al Duca. — « La S." Ducshesa portarà seco la credenza de argento che S. Ex.1* li giornale ligustico 65 pure sotto l’impulso e l’alta direzione di Giulio Romano si lavorava a predisporre quegli appartamenti veramente regali che ancora conservano il nome di colei che fu la prima duchessa di Mantova. ha fatto fare e tutti li paramenti, che intendo sono belliss.1, et più mi ha detto Mes. Ambrogio , che S. Ex.1* li ha fatto fare uno scuffiotto dove sono 80 pezzi de diamante belli e una cinta d’ oro tutta piena di giolie. ......Le Porte del castello sono tutte tre cunze e molto bene per nozze. Di dentro quasi ogni cosa adobata di tapezzarie. Credo non vi sia da adattare altro che lo apartamento della sala e camere de V. Ex.1*, che è tanto bello, chel S.r Duca de Milano l’ha voluto vedere e mostrare allo Ambassatore del Papa e de Sviceri nanti chel sia levato da Milano ». 1531, 29 settembre - Idem. - « Mes.' Io. Guglielmo Pelizzo me ha mostrato una Madonna cum il figliol in brazo de argento , longa circa uno brazo e megio, e dice che seranno circa vinte figure che vanno a fornire la capella de la S.” Duchessa, e pensa che tutto verà fornito a tempo. Se lavorano in Milano. Li è al pede l’arma de S. Ex.1*, e cosi dice serà a tutti pezzi ». - 1531,4 ottobre - Casale — Lett. diStazio Gadio alla Marchesa — « Li apparati de le stantie del S.' mio sono, la sala ove mangia con li Sig.rl e Gentilhomini, grande e tutta apparata dal solar in terra di tela d’ oro e veluto verde. La prima camera è dal solar in terra di tela d’ argento e veluto tanetò intertagliato 1’ uno con 1’ altro con bel designo. Il letto con la trabaccha di tela d’ argento e veluto ta-neto. La seconda camera aparata dal so.ar in terra di toccha de oro in campo turchino, et medemamente il letto et trabaccha turchina di raso. La terza camera ove si sono accompagnati è coperta da ciel in terra di tela d’ oro e tela d’ argento e cosi il ciel sopra la lettera è de tela d’oro e tela d’argento, ma la trabaccha è di brocato d’oro in campo zizolino». — 1531, 27 settembre - Casale — Lett. del Cappino al Duca. — Hogi la S." Duchessa haveva una veste de raso bianco rechamata tutta de cordoni d’ oro, e perchè è schiapata dinanti, ma schiapata in qualche loco, per li talij che erano grandi si vedeva la sottana di raso torchino rechamata pur di cordoni doro. Una croce haveva de bellissimi diamanti al collo; in testa una delle schuffìe che li ha mandato V. Ex.1*, e dal lato la corona de lapis de V. Ex.1* Continuamente porta le calze che V. Ex.u li ha mandato. — Vedi Documenti. — Docum. N.° XV. _ Inventari. Gxorn. ligustico. Anno XV111. c 66 GIORNALE LIGUSTICO Ai 3 d’ottobre del 1531 furono, come è noto, solennemente celebrate a Casale queste tanto contrastate nozze del duca di Mantova colla principessa Paleologa. Accompagnarono il duca a Casale, Francesco Sforza duca di Milano, Antonio de Leva, rappresentante di Carlo V, i due suoi cugini Luigi e Cagnino Gonzaga, il conte di Caiazo e il conte Federico Gambara con una eletta e numerosa schiera di gentiluomini. Lo sposalizio fu celebrato dal vescovo di Vercelli, nella stanza da letto della marchesa Anna, a motivo che essa tro-vavasi ancora molto debole per recente malattia (1). Alla sera volle però essa stessa accompagnare al letto nuziale gli sposi per dar loro la sua benedizione, la quale conforme scrive lo Stazio Gadio, segretario del duca, alla marchesa Isabella « chi la udiva non posseva astenersi dal lacrimare di contentezza, e cosi Dio faccia che segua sempre quella felicità che si desidera e si spera per essere la sposa, bella, gratiata, humana, virtuosa e savia; e son certo che V. Ex.ia resterà di essa molto satisfatta et contenta ». Alla stessa marchesa il Gadio, sapendo di farle cosa gradita, dava i particolari dell’ abbigliamento usato dalla duchessa Margherita nella ser*· del suo sposalizio: « Haveva una sottana di raso bianco con liste de ricamo d’ argento, una veste sopra di tela d’ar- (1) 15 31, 26 agosto — 9 Settembre — Casale — Lettera di Giacomo Picco al Duca. — 1531, 4 ottobre — Casale — Lett. di Stazio Gadio alla marchesa Isabella. — « La sera medema che fu heri circa uti hora di nocte. si congrigorono alla camera di la 111."* Mad/ Marchesa, qual è in letto, lo III." S.' duca de Milano , Sig.r Marchese et S.' Antonio de Leva et tutti quest’ altri S.ri et gentilhomini, quanto capiva la camera ove era lo IU." S.r mio, qual haveva perhò visitato Mad.* prima con li stivalli in pedi, et V. Ex.u si può imaginare quanto teneramente lo abrado et basò con li lacrime alli occhi di dolceza. Fatto adunche venire la S/* Duchessa, il vescovo di Vercelli fece li parole, e cosi il S.r mio la sposò con grandissimo jubilo de ognuno ». GIORNALE LIGUSTICO 6? d argento tirato con un coletto alto recamato di perle con molte gioie inserte; una cinta di gioie, et uno scuffiotto bianco con molti diamanti ligati dentro per tutto » (1531, 4 ottobre). Dopo essersi Federico trattenuto a Casale per oltre un mese, condusse a Mantova la sua sposa, ove fece il suo trionfale ingresso ai 16 di novembre, incontrata dalla marchesa Isabella, dal cardinale Ercole Gonzaga, dalla nobiltà mantovana e da tutto il popolo festante. Tre giorni dopo che Margherita entrò nella reggia dei Gonzaga, volle la detta marchesa testimoniare ad Anna la grata impressione ricevuta della di lei figlia, scrivendole questa veramente graziosa letterina; « Non me parse al primo di della giunta della S. 111. S. duchessa, nostra comune figliuola, qua in Mantova scrivere a V. S. di quanto piacere et contento la mi fosse stata, per voler prima attendere a satisfarmi copiosamente, dove essendo mo scorsi el pi imo, secondo et terzo giorno, non ho voluto differire più oltre in farle intendere, che mi trovo haver fatto acquisto d’una figliuola, che di bellezze, di virtù et de’ costumi è secondo il proprio mio volere et desiderio. Et sicome riconosco questo precioso dono da N. S. Iddio, et da V. S. Ill.ma, così mi reputo obligatissima a lodarne sua divina Maestà, et rin-gratiarne essa V. S., la quale ha da essere certissima, che la predicta Sig.rl nostra figliuola non sarà da me manco amata con quella tenerezza che è stata et è da lei propria. Et se per il passato tra lei et me è stato quello amore che tra due buone sorelle si conviene, parmi ora che con questo nuovo nodo siamo allegate di sorte che 1’ amor nostro non sia atto trovar maggior augumento » (1531, 19 novembre). ('Continua). Stefano Davari. 68 GIORNALE LIGUSTICO VARIETÀ Vincenzo Colombo pirata del secolo xy Leggesi nelle Historié di Fernando Colombo che Cristo-foro suo padre, in una lettera alla nutrice del Principe D. Giovanni, abbia detto non esser egli stato il primo ammiraglio di sua famiglia (i), e vi si aggiunge che il medesimo aveva navigato sotto un famoso capitano di mare, di suo cognome e casato, detto Colombo il giovine, a differenza di altro pure chiamato Colombo, stato anch’ esso famoso in cose marittime (2). Tali asserzioni diedero luogo a non poche disquisizioni, intese sia ad appurare se proprio avevano un fondo di verità, tanto più che nella lettera alla nutrice trascritta nel codice de’ privilegi dell’illustre navigatore che conservasi in Genova, non si legge la frase indicata, sia per conoscere chi potevano essere quei due Colombo capitani marittimi. L’americano Henry Harrisse nel suo lavoro intitolato : Les Colombo de France et d’Italie fameux marins du XV siècle, dimostrò ad evidenza che il primo dei famosi marinai di sopranome Colombo al servizio del re cristianissimo, era francese della famiglia Casenove, e se non fu abbastanza esplicito (1) In fine del capitolo II. (2) Nel capitolo V. GIORNALE LIGUSTICO 69 a riguardo del secondo, però anche per lo stesso concluse, che fia lui e lo scopritore del nuovo mondo, non esisteva parentela alcuna (1). Nello stesso scritto poi accenna ad un Vincenzo Colombo , pirata , il quale per aver predato merci appartenenti ad un piovveditore di droghe del re di Francia, fu appiccato, con un suo compagno alla torre del molo di Genova, l’anno stesso e pochi mesi dopo la scoperta del nuovo mondo; e costui , che dai documenti allora indicati, veniva designato come di Oneglia o di San Remo, era il solo uomo di mare che, allo stato della controversia, si poteva supporre parente dell’ insigne scopritore. Ciò mi ha suggerito l’idea di fare qualche ricerca sopra la sua persona, ed in queste pagine si compendia quanto raccolsi di lui dai documenti che conservansi nel nostro Archivio di Stato. E prima di tutto ho potuto accertare, che non era di Oneglia nè di San Remo, come lo nominano alcuni documenti pubblicati da Harrisse; questi luoghi furono il teatro delle ultime sue gesta, causa del suo triste fine, ma egli era di Godano, piccola terra della riviera di levante. Nelle ultime sue disposizioni, date in atti del notaro Lorenzo Villa, il giorno in cui fu giustiziato, egli stesso si dichiara di tal luogo , quantunque non accenni menomamente al padre ed alla famiglia (2). Dal complesso poi dei documenti sembrerebbe che ε°Ή fosse in vero un esperto marinaio che sapeva governar molto bene le sue navi, e che aveva una bella clientela di cora<*-giosi compagni e cospicue relazioni. Faceva il pirata è vero, ma allora tale mestiere era comunissimo, e nulla aveva di (1) i voi. in 4.0, Parigi, 1874. (2) Atti del notaro Lorenzo Villa, Filza 1, N. 55. Archivio dei Notari. ?o GIORNALE LIGUSTICO disonorante anche per persone di nobile discendenza. Le coste della Provenza , della Spagna , le isole di Maiorca e di Mi-norca fornivano molti individui che esercitavano la pirateria, contro navi di nazioni nemiche, e talora anche di amiche, e tutto il mare mediterraneo ne formicolava. Grande sventura la sua fu quella di essersi incontrato in sudditi del re di Francia, e di aver catturato merci appartenenti al suo provveditore, che in caso diverso il governo di Genova non gli avrebbe dato la caccia con tanta alacrità, nè preso, per servire di esempio agli altri, avrebbe perduta la vita. Ecco nei loro particolari come successero i latti. Vincenzo Colombo , comandante di un brigantino a ven-totto remi, usava pirateggiare sulle coste della Liguria e della Provenza, ed a tempo opportuno riparare in Oneglia , terra allora di Gio. Domenico Doria, essendo in buone relazioni con Francesco Doria, figlio spurio e luogotenente di lui in quel castello, e con diversi abitanti. Or avvenne che certi Bartolomeo Rosset e Michele Martin, sudditi del re di Francia, ritornavano dall’ Oriente sopra una nave di Rodi, con un carico di sete, perle, droghe ed altre merci preziose, una parte delle quali apparteneva a Roberto Le Page droghiere del re, Carlo Vili. Era il giorno 6 di dicembre del 1491 , e la nave avvicinatasi alla sponda presso Albenga, onde scaricare alcune mercanzie, essi, volendo più celeremente recarsi in patria, si imbarcarono colle loro robe sopra un leudo di Alassio, col padrone del quale, Bartolomeo Gotusso, avevano pattuito onde essere trasportati a Nizza. Senonchè avevano fatto ancora ben poco cammino , che giunti sul promontorio di san Remo , Colombo fu loro addosso col suo brigantino, e catturata la barca e deposti i francesi nudi e crudi in terra, caricò delle merci il suo legno, e dopo essersi trattenuto qualche poco in quei mari toccando GIORNALE LIGUSTICO VI Oneglia e qualche altra piccola terra della riviera , prese il largo, volgendo la prora alla Corsica. Quando la Signoria di Genova venne a cognizione di tal fatto molto le ne increbbe, che trattandosi di sudditi del re di Francia ben conosceva tutte le noie a cui sarebbe andata incontro , onde si die’ attorno per far catturare il pirata , e ricuperare le merci per restituirle, e così prevenire e dar soddisfazione ai giusti reclami del re (1). H poiché ebbe certezza che Colombo si era ricoverato in Corsica , si rivolse a tal fine all Ufficio di S. Giorgio , a cui apparteneva quel-Γ isola, e nello stesso tempo scrisse a Francesco Doria, rimproverandolo, in termini molto risentiti , perchè avesse prestato aiuto di vele, timone ed altri attrezzi al pirata, e poscia ricettato alcune delle merci predate, le quali ingiungevagli di restituire. Diverse furono le lettere che Γ Ufficio di S. Giorgio diresse per questo alle Autorità di Corsica , e specialmente al Podestà di Bonifazio, ed a meglio assicurare Γ esecuzione de’ suoi ordini, confortato da proclama della Signoria, spedì colà apposito commissario , Giovanni de Monteburgo (2). Costui giunse in quella terra la notte del 7 gennaio 1492, e nonostante sbarcasse incognito, Colombo, che era in porto, dovette esserne avvisato, onde fuggì via improvviso col legno male in ordine e di attrezzi e di equipaggio. Il giorno seguente però vi fece ritorno , certo per meglio provvedersi, ma stando sulle guardie, e vistosi tenuto d’occhio e temendo (1) I proclami, le lettere ecc. della Signoria, allora rappresentata da Agostino Adorno, Governatore di Genova pel Duca di Milano sono nel- Y Archivio di Stato nei Registri Litterarum, N. 34 e 35. (2) Le lettere ecc. dell’ Ufficio di S. Giorgio sono nell’ Archivio di S. Giorgio, nei Registri litterarum degli anni 1491-92 e 1492-94. GIORNALE" LIGUSTICO di esser catturato allontanossi di nuovo (i). Allora il Podestà, Bartolomeo di Cassana, con un brigantino, armato in fretta ed in furia, gli fece dar caccia, ed egli, non potendo più reggere, investi in terra, e abbandonato il bastimento, si mise con alcuni compagni alla macchia, mentre nella maggior parte cadevano prigionieri. Ciò succedeva il di n gennaio, ed il Podestà il di seguente ne dava notizia all’ Ufficio (2), e quindi di concerto col Commissario si dava attorno per raccogliere le merci trovate sul legno catturato, nonché quelle vendute o depositate in Bonifazio, e procedeva all’ esame di alcuni della ciurma fatti prigionieri, dai quali si aveva la conferma che non poche erano state nascoste in Oneglia, onde di nuovo la Signoria replicava le istanze al Doria perchè ne facesse la restituzione. Colombo intanto, che per alcun tempo non si seppe dove fossesi nascosto, scrisse una lettera all’ Ufficio di S. Giorgio, lamentandosi acerbamente di essere stato trattato come un turco, mentre da buon genovese non avea mai predato robba di amici, limitandosi a quella dei nemici, come erano i danneggiati , perchè a lui avevano tolto una fusta ed un brigantino, coll’ uccisione di parecchi uomini, offrendosi pronto a dar le prove di tutto ciò, ove gli fosse, come chiedeva, concesso un salvo-condotto, e questo anche per purgarsi dal-1’ accusa datagli dal Commissario di aver predato molto di più di quello che realmente non aveva fatto. (1) Manuale Ioannis de Montehurgo etc. 1 fase, di 20 facc. nella Filza Diversorum Communis del 1492, Arch. di Stato. In questa Filza sono molti fogli volanti di memorie, lettere , note ed appunti dai quali ho ricavato non pochi particolari di detta pratica. (2) Pacchi lettere del Podestà di Bonifazio, 1492, Archivio di S. Giorgio. GIORNALE LIGUSTICO 73 Detta lettera è del 7 febbraio del 1492 e datata da Bonifazio, ma non è supponibile che egli realmente vi fosse (1). Qualche mese dopo , si sparse la voce che ricoverato in Sardegna, venisse ucciso da un suo compagno, onde il Podestà ne faceva consapevole Γ Ufficio. Ma questa non era che una diceria fatta probabilmente divulgare da lui onde si rallentasse nel cercarlo. È certo invece che trovò modo di procurarsi un altro brigantino, e che assieme a diversi suoi compagni continuò ad infestare i mari della Liguria e della Corsica, onde Agostino Adorno , Governatore di Genova pel Duca di Milano, addi 12 maggio, rinnovò il bando contro di essi, pubblicato a suon di tromba in tutte le terre della riviera occidentale, proibendo a chicchessia, di dar loro aiuto , ed ingiungendo di possibilmente catturarli. I danneggiati intanto continuavano nelle loro querele alla Signoria, appoggiati dal re cristianissimo, onde si tempestava di ordini il Podestà di Bonifazio pel ricupero delle merci, tanto più che quanto si era potuto trovare era ben poca cosa, in paragone di quella che essi asserivano predata, anche fatto il calcolo di quanto doveva essere in Oneglia. E nonostante che in Genova si avessero note ed inventari di ciò che era stato raccolto in Bonifazio, pure essi furono consigliati a recarsi colà per riconoscere quanto fosse di loro spettanza , muniti di una lettera del citato Governatore in data 23 giugno , diretta a quel Podestà, della quale dovea essere latore il Bartolomeo Rosset; ma se vi andassero si ignora. È però fuor di dubbio, che non tutto poterono riavere, onde continuarono nelle loro querele presso la Signoria. Questa protestava di aver fatto il possibile per far loro amministrar giustizia, che cogliendo il pirata lo avrebbe fatto (1) Pacco lettere diverse da Bonifazio, 1492. Arci1. di S. Giorgio. GIORNALE LIGUSTICO morire, che quanto di merci era sequestrato in Corsica stava a loro disposizione, ma che per ciò che era stato depositato in Oneglia, nulla più che buoni uffici aveva potuto nè poteva fare presso il Doria, giacché quella terra non stava sotto la dizione Genovese. Per la qual cosa i danneggiati vedendo che Francesco Doria e nelle risposte date alla Signoria, e ad essi stessi, quando si recarono da lui, per chiedergli tutte le loro merci, tergiversava offrendone solo una parte, cioè quelle che stavano presso di lui, a condizione che facessero condono delle altre che erano presso gli abitanti, si rivolsero al Duca di Milano Gio. Galeazzo Sforza, il quale aveva Γ alta signoria di quel principato e che trovò il modo di farli indennizzare. Il governo continuava a dar la caccia a Colombo , che bravamente riusciva sempre a sfuggire. Una lettera della Signoria al gran Senescalco di Provenza in data 19 ottobre del 1492 (1) ci assicura e che a quell’ epoca non era ancora preso e che era risoluta catturandolo, di fargli pagar caro le sue gesta. Durò ancora alquanto in mare, ma infine , ed è ignoto il come ed il dove, assieme ad un suo compagno, certo Nicolò Barese di Sestri, venne preso. Posti entrambi nelle carceri del Podestà di Genova fu loro fatto regolare processo ed entrambi furono condannati alla morte. Vincenzo Colombo vedendosi irremissibilmente perduto, poche ore prima di esser tratto al supplicio, in atto notarile fece una specie di testamento, 0 meglio di dichiarazione relativa alle merci predate. Da questo si conosce che era, come dissi in principio, del luogo di Godano, e che delle merci tolte ai provenzali, una parte trovavasi presso certo Batagino di Voltri, ed altra (1) È nella Filza Diversorum communis del 1492, Archivio di Stati. GIORNALE LIGUSTICO 75 presso un Gio. Pietro di Oneglia. Queste ordina che vengano restituite ai loro legittimi padroni, e nel caso che non si trovassero, consegnate al suo confessore ed al Priore della compagnia della Misericordia, quali nomina suoi fedecom-messarii ed esecutori onde il valore di esse sia erogato in suffragio dell’anima sua, e di coloro a cui di diritto spetterebbero. Enumera quindi qualche suo credito come quello di sei ducati d’ oro larghi, residuo prezzo di una schiava mora venduta a Lorenzo Petito di Savona, e di sei ducati e diversi capi di vestiario che doveva avere da certo Battista Cepolla di Albenga, quali crediti e robbe, unitamente a quanto altro gli poteva appartenere, lega a suddetti suoi fedecommissari, dando piena ed assoluta facoltà di disporne a loro beneplacito, e quantunque non si legga espresso, certo per essere destinati ad opere di pietà. Quest’atto fatto in carcere, porta la data del 19 dicembre del 1492, all’ora quintadecima, cioè verso le ore otto antimeridiane, e poco dopo egli ed il suo compagno furono impiccati alla torre del molo. Un attestato, di detto giorno, firmato dal notaro della Curia criminale ci accerta del fatto (1), che trova conferma in un registro dei cancellieri ove è trascritto il mandato fatto in capo del cavalerio per la somma di L. sei, mercede solita del carnefice per la duplice esecuzione (2) e da altre note e memorie , fra le quali accennerò a quella relativa al costo di due bracci di ferro che furono fatti fare a bella posta per infiggerli sulla torre del molo, e sui quali vennero impiccati. (1) Nella Filza Diversorum communis del 1492, Archivio di Stato. (2) Codice Diversorum Cancellariae, n. 148, pag. 69, Archivio di Stato. 76 GIORNALE LIGUSTICO Nelle sue ultime disposizioni , Vincenzo Colombo mentre dichiara che una parte delle merci predate era stata depositata presso un Gio. Pietro di Oneglia, non accenna menomamente che esrli fosse in relazione con Francesco Doria O od altro dei signori di detto luogo. Ma e dai documenti pubblicati da Harrisse e de quelli da me trovati risulta in modo da non dubitarne , che Francesco Doria, gli teneva mano, sia per avergli fornito di attrezzi il brigantino, sia per aver ricettato una parte delle merci predate ; e che la Signoria avute le prove di ciò si rivolgesse, come più sopra ho accennato, al medesimo facendogliene aspre lagnanze, ed invitandolo alla restituzione del mal tolto. Ma a nulla essendo riuscite tali sollecitazioni, e quelle degli stessi danneggiati, costoro si presentarono al Duca di Milano, signore di Genova, e che aveva Γ alto dominio sul principato di Oneglia e lo indussero a pronunziarsi in loro favore. Spedi egli pertanto colà suo commissario, Francesco da Casale, con Giovanni de’ Cavalieti, e forte nerbo di truppe per terra e per mare, le quali addi 28 agosto 1492 espugnarono quel castello, invano difeso da Francesco Doria, che fatto prigione fu condotto in Genova sulle galee capitanate da Giuliano Magnerri. Demolito il castello ed occupato il principato, sulle rendite di questo furono soddisfatti i danneggiati, liberando così dall’ incubo delle rappresaglie la città di Oneglia. Ma la liquidazione del credito, e la tacitazione degli interessati non si potè ottenere tanto presto, ed ancora per oltre un anno trovasi nei documenti vestigia della pratica. Di tale spedizione, ed occupazione di Oneglia non è tenuta memoria nei nostri annalisti contemporanei, forse perchè fatta tutta a conto particolare del Duca. Se ne ha però notizia nei rogiti del Notaro Michele Cotta, ove in data 29 agosto 1492, il domani proprio del fatto, sono diverse testi- GIORNALE LIGUSTICO 77 monianze in favore di Francesco Doria, per i patti della dedizione , non mantenutigli dai commissari del Duca ai quali si arrese (i). Giuseppe Maria Pira, autore della storia di Oneglia, ne ebbe cognizione, e ne parla, ma nulla dice delle cagioni, che anzi dichiara essergli ignote. È certo però che si collegano con gli aiuti dati al pirata Colombo , ed al ricetto delle sue robbe , e basterebbe a provarlo, la citata lettera della Signoria al gran senescalco di Provenza , che trattando di tale controversia, accenna alla distruzione del castello di Oneglia latta dal Duca di Milano. Detto Pira poi, senza saperlo, vi si riferisce , citando il rescritto ducale del 7 giugno 1493 , con cui sono approvate le franchigie del comune di Oneglia, quando soggiunge, che col medesimo era finalmente liberata dal diritto di rappresaglia, contro de’ suoi abitanti, concesso ad un francese derubato. Leggesi nell’ autore sopracitato che il principato stette per oltre cinque anni e mezzo sotto i duchi di Milano , finché Ludovico Sforza detto il moro, succeduto a Gio. Galeazzo, sulle istanze del Cardinal Sforza suo fratello , si indusse a farne la restituzione a Gio. Domenico Doria, come da suo decreto del 24 marzo 1498. A proposito di questo Doria accorre qui una rettifica ad alcune parole che leggonsi nel citato lavoro, Les Colombo de France et d’ Italie, di Harrisse. Ivi è detto che egli era il capo del ramo primogenito dei Doria di Oneglia, e zio e tutore del celebre Andrea. Ma in ciò il mio dotto amico prese un abbaglio. Il Principato di Oneglia a quell’ epoca non apparteneva più al ramo (1) Filza di atti di qeesto notaro, nella sezione Archivio segreto, manoscritti, n. 109. 78 GIORNALE LIGUSTICO dei Doria, dei quali Γ Andrea poi principe di Melfi. Gli ultimi discendenti di questo ramo, fra cui il suddetto Andrea, pochi anni prima, e precisamente nel 1488, ne avevano fatto vendita al Gio. Domenico , il quale perciò lo possedeva per diritto di acquisto. Egli poi, se discendente dallo stipite istesso da cui derivava l’Andrea, era di un altro ramo, e tanto lontano che invero non potevano più dirsi parenti, e non consta che ne sia mai tato stutore. Parlando del pirata Vincenzo Colombo vengono ovvie due domande. L’una per conoscere se era parente del famoso scopritore, e Γ altra se questi può aver fatto qualche viaggio con lui. Relativamente alla prima, mia opinione sarebbe che fra di essi, non esistesse parentela. Di famiglie Colombo eranvene piuttosto molte, ed in diversi luoghi della Liguria, che non avevano legame alcuno fra di loro. Quella di Cristoforo era originaria di Terrarossa, frazione di Móconesi, nella valle di Fontanabona, donde si trasportò a Quinto , piccola terra sul litorale a poche miglia ad oriente di Genova. Da Quinto, Domenico Colombo figlio di Giovanni, fratello di Antonio , nel 1429 si stabilì in Genova, ove verso il 1450, da Susanna Fontanarossa di Sori, gli nacque Cristoforo, Γ immortale scopritore. Tutto ciò è comprovato da tali e tanti documenti, che ormai non lasciano luogo a dubbio alcuno. Quella invece del pirata Colombo, come vedemmo era di Godano, paesuccio nei monti sopra il golfo della Spezia, ove probabilmente nacque, e nulla ci autorizza a credere che essi fossero parenti. In quanto all’ aver navigato assieme , è cosa ben difficile lo investigare, sui pochissimi dati che finora si hanno. È certo che di Colombo pirata, non si ha notizia prima dei fatti sopra narrati, cioè dal fine del 1491, ed a quell’ epoca Cristoforo era da circa un ventennio assente dalla patria, e GIORNALE LIGUSTICO 79 nessun indizio abbiamo da farci sospettare che navigassero assieme. Comunque però sia, finché non verranno nuovi documenti a sparger luce sopra tutto questo , qualunque definitivo giudizio in proposito sarebbe prematuro. Marcello Staglieno. SPIGOLATURE E NOTIZIE Nel giornale mantovano 11 Mendico (anno XI, 4) Antonino Bertolotti pubblica due documenti genovesi tratti dall’ archivio Gonzaga. Sono lettere di invio doni da parte di Fregosino da Campofregoso, e di Andrea Doria. Eccole: III. et Ex.e Domine d. mi hon. Per Anseimo prexente exibitore mando a V. S. dui cani corsi, due leoni assai domestici, due sparavieri tunexini mudati, hauti de bon loco: spero debbiano fare bona proua, non già digni a V. S. (?) Ma prego quella li accepte come donati de bono animo da uno seruitore de V. Ex.* alla quale me ricomando. Dat. Genuae XV marci) MCCCCLXXXIIJ. E. Ex. V. Seruulus Fregoxinus de Campofregoso Platee Genuensis capitaneus. 111."10 et Ecc.“° signor mio oss.m°, L’ Ecc.* V.* haue horamaj mandato tanti homini a queste gallere che si trouano la maggior parte sue, et non obstante che li dì passati (come hauerà inteso), venendone una sola di Spagna sia stata presa in Prouenza da certe fuste et gallere di turchi, per difetto di chi la governaua, le altre gallere hanno all’ incontro preso in altre parti quattro fuste et una galleotta, in le quali erano questi doj negri quali mando a V. Ecc.* non per quel che vagliono, ma per segno di mia seruitù, et accioche goda parte del frutto che fanno le gallere et homini soi, et le bascio le mani. Da Genoa alli 2 di agosto MDXXXIIIJ. Di V.* Ecc.* Seruitore Andrea Doria. 8o GIORNALE LIGUSTICO + v * * Il prof. Pasquale Papa in occasione di nozze ha pubblicato un libretto interessante per la nostra storia. È il seguente: Tommaso Frescobaldi all’assalto di Genova (1427); appunti storici. * * * Nel Bulletin de la Société de géographie de Lyon è pubblicato un importante studio di L. Gallois intorno al Portulan de Nicolas de Canerio, accompagnato dalla riproduzione accuratissima del portolano da lui scoperto all’ archivio della marina. L’ autore constata che la carta deve essere stata delineata nel 1502, e che offre molta rassomiglianza così con un mappamondo dell’ anno stesso conservato a Londra e già descritto da Hamy, come con la carta del Contino fatta nel 1501 per Ercole di Ferrara, quantunque quella del Canerio sia più completa. Il trascrittore è di Genova, e 1’ originale donde la trasse apparisce portoghese. * * * G. B. Andrews stampa nell’ Archivio Glottologico Italiano (XII, 1) uno studio intitolato: Il dialetto di Mentone raffrontato al provengale e ai ligure. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Agostino Bruno. Gli antichi archivi del Comune di Savona. Savona, Bertolotto, 1890. L’ A. aveva pubblicato questo lavoro primamente nel 1884, ed ora che quella edizione è esaurita, ha pensato bene di procurarne una ristampa. La quale però, per buona parte può dirsi un rifacimento, cosi per la distribuzione, come per un migliore assetto della materia, che riceve non poco accrescimento. Il presente libretto porge una più che sufficiente cognizione dell’archivio municipale, e ne rileva i documenti più importanti e curiosi ; dà notizie abbastanza particolareggiate delle carte nel loro ordinamento, e si distende intorno a quelle parti che meglio appariscono degne di singolare menzione. Un esatto indice analitico agevola la ricerca del contenuto. Agostino Bruno. Vicende musicali savonesi dal secolo XVI sino al presente. Savona, Bertolotto, 1890. Le notizie musicali sono a dir vero assai scarse per la parte antica, poiché soltanto nella prima metà del sec. XVI si hanno sparse memorie intorno alla musica ecclesiastica, ed agli organisti. Le teatrali incominciano assai tardi e cioè al cadere del secolo scorso, e non hanno importanza speciale. L’ arte musicale ha il suo maggiore svolgimento in Savona a’ nostri tempi, come 1’ A. dimostra. Ma se la scarsezza del materiale non ha posto occasione di ampio e importante ragionamento, pure è stato certamente lodevole il proposito di raccogliere tutto ciò che i documenti testimoniavano intorno all’ argomento , affinchè non ne andasse perduta la memoria. Pasq.uale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 8l FEDERICO GONZAGA E LA FAMIGLIA PaLEOLOGA DEL MONFERRATO (15I5~I533)- (Continuazione e fine vedi pag. 67). XIII. Al nostro duca pe^ raggiungere l’agognato possesso dello Stato di Monferrato, non rimaneva altro che aspettare la morte dello zio di Margherita, Gio. Giorgio Paleologo , al quale per diritto spettava la successione. La marchesa Anna, che intendeva colla figlia dare allo suocero il principato, cercava d accordo con Federico, a mezzo dei loro ambasciatori in Corte Cesarea, di far ritardare il più che fosse possibile 1 investitura pel Gio. Giorgio, nella speranza che intanto questi morisse, come tutto lasciava credere, stante la sua cagionevole salute (1); il che fino dal 1518 lo aveva dichiarato il fratei suo il marchese Guglielmo, e d’allora in poi andò sempre più peggiorando (2). Ma Gio. Giorgio aveva dei po- (1) 1532, 5 febbraio — Mantova — Lett. del duca Federico al fratello Cardinale. — 1532, 20 marzo — a Sigismondo della Torre in Corte Cesarea — « Procurate, come per altre ve havemo scritto , che non si expedischi alcuna investitura nel marchese, ma si differiscili finché S. M. sia in Italia, perchè secundo li avisi che havemo da Casal, il p." marchese ogni dì si fa più mal disposto della vita sua », (2) 1530, 6 novembre — Casale — Lett. del Cattaneo al Cappino. — « Facte intendere al Ex."° S.r nostro che tengo per fermo chel S.r Io. Georgio se expedirà lui più presto che la causa nostra da Roma, impe-rochè, venere da hore vinti, lui montò a cavallo et andò fora de la porta solamente dui miglia, et quando fu ritornato stete morto più che due hore ». — 1531, il maggio—Casale — Lett. del Cattaneo al Duca. — « Et perchè S. Ex.ia quasi sempre in questi giorni passati è stata occupata circa la infermitade del S.'Io. Georgio, però non me ho troppo preso cura de parlare a S. Ex.ia per non disturbarla. Quale Sig." credo non passerà tropo che mancherà, perchè de giorno n giorno pur va declinando et Giorn. Ligustico. Anno XVIII. (, 82 GIORNALE LIGUSTICO tenti amici e fautori nei nobili Casalaschi e più di tutti il marchese di Saluzzo e il duca di Savoia, i quali alla lor volta vantavano diritti di successione nello Stato, quando che la linea dei Paleoioghi si fosse estinta nel Gio. Giorgio. Era quindi nell’ interesse di tutti i nemici di Federico che questa linea non si estinguesse e perciò usavano ogni pressione sul marchese, affinchè legittimasse il proprio figlio naturale di nome Flaminio, natogli nel 1518 da donna di bassa condizione. Fino dall’ottobre del 1530, appunto dietro le suggestioni di alcuni maggiorenti di Casale, si persuadeva Gio. Giorgio a spedire messi all' Imperatore allo scopo di far riconoscere e legittimare questo suo figlio naturale. Avvisato di tale progetto il duca di Mantova lo comunicò tosto alla marchesa Anna, ma essa che tutto invigilava e che era fermamente decisa a conservare lo Stato pel suo genero, lo assicurava: « che alcuna persona in quello Stato per quanto havesse cara la testa, avrebbe ardimento non che di proporlo di cercarlo di mettere in opera » (1). Non pertanto i nemici di Federico non trascuravano alcun mezzo pur di riuscire ad attraversare i disegni della marchesa e a contrastare il possesso dello Stato al Gonzaga, venendo essi per fino nella risoluzione di sopprimere, come fecero , il marito di quella donna per farla sposare segreta-mente al Gio. Giorgio, affinchè questi potesse liberamente legittimare il figlio. Ma il fido agente del duca, il Cattaneo, che tutto spiava, venuto a conoscenza di tale misfatto, presi madama lo tien vivo per forza axpectando che pur venga il placet tanto desiderato ». — 1532, 13 marzo — Casale — Lett. di Giacomo Pico al Duca. — « Lo 111." S.' nostro persevera in la sua infirmitate, anzi pezo dii solito, et heri ultra lo solito hebe la febre, et molto male se ristaura, et li medici me hanno ditto in secreto che dubitano de febre eticha». (ì) 153°; 11 ottobre — Casale — Lett. del Cattaneo al Cappino. GIORNALE LIGUSTICO i concerti colla marchesa e col fidato di lei consigliere Ambrogio della Torre, trovarono subito un altro marito al- 1 amante del Paleologo, e nel timore che anche questo avesse a subire la sorte dell’altro, si pensò per maggiore sicurezza, di farlo tradurre ostaggio a Mantova (i). Gli emuli del duca non si arrestarono per ciò dal dare compimento ai loro progetti, cercando ammogliare il marchese con una principessa di casa Lorena (2). Anna e Federico pensarono, e non a torto, che solo 1’ autorità imperiale avrebbe potuto troncare le mene dei loro avversari, per ciò a mezzo dei loio ambasciatori ricorsero ed ottennero da Carlo questa lettera pel marchese : . . . Dilectionem tuam ad hortandum duximus ac per présentes adhortamur, et serio requirimus, ut quatenus gratia nostra tibi chara sit, si nobis tamquam romanorum Imperatori obedientis et fidelis principis et vassalli nostri et sieri Imperi] officium praestare cupis, atque gravem iram et indignationem nostram incurrere formidas ne ad aliquod matrimonium cum quacumque persona aut ad cuiuscumque istantiam contrahendum sine nostro consilio et assensu quovismodo consentias aut pervenias . . . (1532, 22 aprile). Non pertanto la marchesa Anna viveva in continui timori e doveva usare di ogni circospezione per salvaguardare la sua vita minacciata di avvelenamento (3). Se la surriferita lettera imperiale avrà giovato pel marchese, non così pei nemici di Federico, che continuarono nei loro tentativi di ammogliarlo, proponendogli ora una figlia del patrizio veneto Giacomo de Cornaro (4). Conoscendo Anna come la mag- (1) 1531, 11 maggio — Casale — Lett. del Cattaneo al Duca. —1532, 19 luglio — Casale — Lett. del Suardino al Duca. (2) 1532, 6 marzo — Mantova — Lett. del duca Federico al suo ambasciatore in Corte Cesarea. (3) 1532, 9 settembre — (Minute) — Casale — Lett. del Suardino al Duca. (4) 1532, 23 agosto — Venezia — Lett. deH’Ambasc.” Ben. Agnello al Duca. $4 GIORNALE LIGUSTICO gioranza delle famiglie nobili di Casale desideravano rimanesse la successione dello Stato nei Paleologhi, e che punto non amavano di farsi sudditi del signore di Mantova, e che colle loro insistenze avrebbero anche trovato modo di eludere la lettera di Carlo, venne essa stessa nella determinazione di trovare una sposa pel Gio. Giorgio, nella vedova del Gran scudiero di Francia, Madama la Grande. Avvisato il Gonzaga dell’intenzione della marchesa, vi si oppose tosto; che se riconosceva giusti i di lei timori, non poteva però acconsentire nella proposta, ravvisando in quella donna delle qualità molto astute ed ardite che avrebbero compromesso tutte le sue aspirazioni e gli stessi desideri di Anna. Onde il nostro duca, che ben sapeva dal tempo potersi trarre i migliori vantaggi, proponeva alla marchesa, quando si dovesse venire ad una proposta concreta, di procurare col mezzo del Cardinale di Trento, amico suo e di Carlo, di proporre in isposa a Gio. Giorgio la figlia del duca di Virtemberga, giovane di 24 anni. « Questo progetto » scriveva Federico ad Anna « prima che si elfettui occorrerà non poco tempo per le lunghe pratiche da farsi, nè credo che Γ imperatore sarà per essere favorevole a un tal matrimonio, essendo la casa di Virtemberg scaduta dalla gratia imperiale e il padre suo fuoruscito » (1). La posizione del duca e della marchesa era però tale, che il prolungarla sarebbe stata per entrambi compromettente nei loro progetti, tanto più che l’investitura pel Gio. Giorgio non si poteva più far ritardare (2). Per la qual cosa essi insistettero (1) 1532, ii settembre — Minute — Il duca al Suardino a Casale. (2) 1532, 18 maggio — Minute — Al Della Torre in Corte Cesarea. — « Che non si habbia potuto più differire a lare la investitura nel marchese de Monferrato sopra il mandato che tiene lo Imperatore, S. Ex.1* curaria poco questo, purché 1’ havesse qnalche secureza expressa del Imperatore, che mancando esso marchese senza figliuoli maschi, quel stato havesse ad essere suo et della III. S. duchessa sua consorte, che questa mercede ha sempre sperato havere da S. M.1* ». GIORNALE LIGUSTICO 85 presso l’imperatore che promettesse loro, morendo il marchese senza figli legittimi, di accordare l’investitura alla du-chezza Margherita. Carlo V se non assecondò tosto questo desiderio, per non accrescere le difficoltà politiche in cui si trovava, prometteva però con lettera propria, che alla sua prossima venuta in Italia avrebbe loro accordato quanto desideravano (1). XIV. Non appena Federico fu avvisato dell’ arrivo di Carlo V in Vicenza (2), egli vi si recò tosto ad ossequiarlo e con esso se ne venne a Mantova, ove si trattenne per circa un mese splendidamente festeggiato, aspettando egli qui la venuta del Papa a Bologna, ove insieme dovevano comporre gli affari del concilio e stringere una nuova lega nella quale doveva entrare anche il nostro duca. Fu a Mantova ove si concluse tra Carlo e Federico di ammogliare il marchese di Monferrato in donna Giulia d’Aragona, la ripudiata di Federico, e che Carlo confermò e sanzionò poi a Bologna con proprio Decreto del 31 dicembre la promessa fattagli, di accordare finita la linea maschile dei Paleologhi quando il marchese Gio. Giorgio morisse senza figli legittimi, l’investitura a Margherita sposa del duca di Mantova (3). Tale soluzione non soddisfece punto il duca di Savoia e il marchese di Saluzzo, i quali sapevano benissimo che da quel matrimonio non era da aspettarsi frutto alcuno, e per (1) 1532, 20 luglio — Rattisbona — Lett. di Carlo V al Duca. (2) 1532, 28 ottobre — Cop. lett. lib. 48 ris. — A Ferrando Gonzaga- (3) Daino, Geneal. de’ Goniaga — Cron. ms. — I. C. Lunig _Codex Italiae diplom. — pag. 1418. S6 GIORNALE LIGUSTICO la mal ferma salute di Gio. Giorgio, ben presto il Gonzaga avrebbe raggiunto il suo scopo; onde con maggior calore tornarono ad insistere, affinchè il marchese si decidesse a legittimare il figlio Flaminio e sposasse una figlia dello stesso duca di Savoia mostrandogli essere Giulia « vecchia, sterile e di dubbia fama a (i). Non ostante tutti questi maneggi, Gio. Giorgio, si acconciò ai voleri dell’imperatore, e agl’ n di marzo partecipò al nipote Federico, essere risolto, conforme la volontà imperiale, di sposare donna Giulia d’Aragona, e che per tale effetto spediva a Ferrara i suoi gentiluomini, Carlo de Montiglio e Gio. Giacomo di Sangiorgio. Ai 29 marzo con solenne pompa, alla presenza di tutta la Corte di Ferrara , tenendo la mano della sposa Γ incaricato Cesareo, Don Diego de Mendoza, e leggendo per tale occasione, Lelio Calcagnino, una sua forbita orazione, si celebrarono per procura le nozze di donna Giulia col marchese di di Monferrato (2). Intanto che a Ferrara compivasi quest’atto nuziale, a Casale lo sposo dibattevasi fra la vita e la morte (3). (1) 1555, 19 gennaio, iS febbraio — Casale — Lett. del Suardino al Duca. (2) 1535, 29 marzo — Ferrara — Lett. di Gerolamo Augustone alla marchesa Isabella. (3) 1533> 18 marzo — Casale — Lett. del Suardino al Duca. — « Trovai el S.r marchese non essere levato per causa che la notte havea havuto vomito et fluxo de corpo, et tutto hogi non è stato seutia alteracione de febre manifesta ». — 1533, 28 marzo — idem — a II S.' marchese non tolse altro cibo quanto una noce, e bevette tre boni bicheri de vino, e li medici molto lo simularono che mangiasse qualche cosa, perhò non potè tore altro, e li ordinarono del consumato per cibarlo. Quella resi-pola, secondo la batezino per relatione di M.r° Bartolomeo fatta a Madama, dimonstra volerli rompere la gamba de sotto al ginocchio quattro diu, et rompendosi, lui iudica abbia ad apportarli la morte indubitata, aleso GIORNALI-: LIGUSTICO 87 Solenni furono le dimostrazioni fatte dai Casalaschi alla sposa al suo ingresso in Casale. Archi di trionfo, spari d’artiglierie, suouo di campane; gentiluomini e gentildonne, chie-resia e tutto il popolo incontrarono la nobil donna , ma lo sposo che primo fra tutti doveva riceverla, giacevasi sofferente in letto. Donna Giulia, entrata che fu nel castello, ricevette gli omaggi della marchesa Anna e da questa fu senz’altro condotta nella stanza ove giaceva l’infermo sposo. Ivi l’ambasciatore imperiale Don Luigi Sarmento presentò la sposa al marchese dicendogli: « Questa è l’infante donna Giulia d’A-ragona che 1 Imperatore vi dona per legittima moglie, già a Ferrara accettata e sposata dai vostri ambassatori, ora è necessario che voi marchese rettifichiate quanto in vostro nome essi hanno concluso ». Il povero marchese baciando la sposa, dichiarò d accettare per sua consorte Giulia , e lì, presenti la grande debilitate et estrema niagrecia in che se retrova. M.r° Battista anchora non ne fa bono iudicio » — 1533, 1 aprile — Casale — Lett. del Suardino al Duca — « El marchese è tanto debile che fa paura alli medici. Heri la gamba se li aperse, et hoggi pareva che fusse senza febre, ma nel tardo gli è augmentata. Per relatione di M.'° Bartolomeo maggiore non è stato dui giorni sono, et tutta volta seguita in non torre se non pisto et consumato, et pur trinca al solito, et se la febre seguitasse, nella debilità dove si trova, el caso sarebbe dubioso et forse certo de morte ». — 1 533» 25 aprile — idem — « La febre è tanto pocha che quasi se po’ dire sencia, secondo la relatione de li suoi medici. Perhò non è megliorato del manzare, et persevera in non tore cosa de sustantia et nella sua debilitate, con tutte le arti et preghere che la sua S.” sposa li sia usare acciò che manza. Et spesso torna indreto quello pocho che manza, e pur heri dapoi desinare tornette fora due tacie de ccse putride. Et considerato che tanto tempo non ha manzato, et che in pochi giorni ha tolto due medecine che lo hanno evacuato mirabilmente, è cosa grande che torni la roba che fa ». — 1533, 30 aprile — idem — € Questa notte è deseso tanto catarro al S.'marchese che tengono li medici per fermo non passarà domane, se non serrà per miraculo speciale ». 88 GIORNALE LIGUSTICO pochi testimoni, fu rogato l’atto matrimoniale (i). Nozze ben tristi, nozze funeree furono queste dell’infelice Giulia, che otto giorni dopo lo sgraziato marchese assalito da forte parossismo esalò 1’ ultimo sospiro (2). Giulia col cuore affranto per tanta iattura e col più amaro dei disinganni fu costretta lasciare la Corte di Casale per ritornarsene dalla madre a Ferrara. Colla morte di Gio. Giorgio, Federico, sperava finite tutte le tergiversazioni dei suoi avversari, e forte dell’ investitura concessa dall’ imperatore alla sua sposa Margherita, si disponeva di correre a Casale per prendere formale possesso dello Stato. Gii crasi affrettato a parteciparlo al duca di Ferrara e al Papa (3), quando gli giunse da Casale la fulminea notizia, che i Casalaschi s’ erano ribellati alla volontà imperiale, e trincerati nel castello intendevano colla forza di sostenere i loro diritti e di darsi quel governo che a loro meglio sarebbe piaciuto. A reprimire tale sommossa l’imperatore incaricò il suo luogotenente generale, Antonio de Leva , il quale portatosi tosto a Casale, prese possesso della terra in nome di Carlo V, ordinando al popolo di deporre le armi , di restituire il castello e di giurare fedeltà alla maestà imperiale. Dopo lungo dibattito fra i rappresentanti della Comunità e il De Leva, fu convenuto quanto appresso: n Che (1) 15}), 21 aprile — Casale — Lett. del Suardino al Duca. « Certa cosa è che non b memoria in questa terra che al tempo de niuno altro Sig." per prosperoso et savio che sia stato, che se siano fatte le demonstracioni che se sono fate a questo infermo corno è ». (2) L. A. Muratori, Annali d’Italia, T. VI, pag. 499. — < 5 53 · 30 aprile — Casale — Lett. del Suardino al Duca. — « Ê piaciuto a N. S. Iddio oggi circha alle 16 alle 17 chiamare a se lo III.*0 S/ marchese suo zio ». (3) 1533, 2 meggio — Cop. lett., lib. 49 — a Fai». Pellegrino a Roma. — 1533. 6 maggio — al duca di Ferrara. 89 nel castello de Casale habiano da restare gli dui castellani, con gli fanti, secondo erano prima, et habiano di nuovo a giurare de tenere il detto castello in nome di S. M.li sina a tanti giorni che basteno ad uno che vadi in posta per portare a S. M.'·' le ragioni che essi dicono havere nel castello di Casale, et possi ritornare cum la resposta. Et declarando essa M. voler el castello libero in sua mane, gli detti castellani et fanti prometteno dare detto castello in libera potestate del Sig.r Antonio. La comunità de Casale si è obbligata dare securitate de 20000 scudi de mercadanti in Casale, obligandosi apresso de perdere gli beni che tengono in comune, intrata de più de 16000 scudi lo anno, perdere medesimamente gli soi immunitati et exemptioni, ogni volta che manchino de non essere obedienti a quello declarerà S. M.“ al termine suprascritto. In questo megio il Sig.r Antonio habij da mettere in Casale uno vice marchese, quale habia da administrare bona iustitia, et che il popolo habia da deponere le arme, et ognuno habia da lavorare et attendere a fare le facende come facevano prima che si ponessero suso le arme. Si sono obligati detti de Casale in questo tempo de non admettere homo del duca de Savoglia in Casale a far pratiche, nò essi a mandare homo a far pratiche cum el duca de Savoglia, sotto una certa pena. Il Sig.r Antonio ha promesso a Casalaschi che S. M.t4 non darà la citate de Casale a niun Signore, nè ad altre persone sino a tanto che per iustitia non habia declarato se essi hanno de ragione a restare nella libertate, che dicono de ragione dover stare, overo se haveranno da essere subditi a uno nuovo marchese de Monferrato, come sono stati fin qua alli marchesi passati » (10 giugno, 1533). Il Grossino dopo aver riferita al duca di Mantova questa convenzione, aggiunse, avere ordinato il De Leva in nome di Carlo V al marchese di Saluzzo di restituirgli Alba, ed O 7 90 GIORNALE LIGUSTICO esso gli dichiarò « d’obbedire tosto che gli fosse pervenuta la commissione in forma autentica dallo stesso imperatore » (i). Promotori principali di questa ribellione furono quindi i pretendenti alla successione dello Stato, il duca di Savoia e il marchese di Saluzzo, i quali anche dopo la morte di Gio. Giorgio e contro il disposto Cesareo, vollero ancora contestare gli ambiziosi progetti del nostro duca. Se dovettero loro malgrado piegarsi alla ferma volontà di Carlo λ', non credettero però di rinunciare a favore del Gonzaga i loro pretesi diritti, anzi intesero di tarli valere nella causa che essi stessi promossero a Milano e che fu agitata, con sommo dispendio di Federico, per circa tre anni in Corte Cesarea. La decisione fu, come è noto, favorevole al duca di Mantova, riconoscendo Carlo V con proprio diploma del 3 novembre 1536 il diritto di successione nella sua sposa Margherita, e ventisei giorni dopo otteneva Federico dall’ imperatore il titolo di marchese di Monferrato. Questo tanto contrastato possesso, se potò soddisfare alla smodata ambizione di Federico, non fu certo di vantaggio ai successori suoi. Trovandosi quello Stato troppo lontano e staccato dalla sede centrale del Governo , non poteva non divenire, come divenne in processo di tempo, causa di non poche difficoltà politico-amministrative, e la storia ci insegna di quanto danno sia stato ai Gonzaga quel possesso, che però ebbero a mantenere fino alla loro caduta. (!) G. De Leva, op. cit., T. j, pag. 122. GIORNALE LIGUSTICO 9* DOCUMENTI L Cap. lett. lib. 249 — 1517, 27 Gen.°. D."° Rodono (in Francia, presso il principe Federico). Poteti forse havere inteso che già doi anni fu mosso pratica fra lo 111. S. Marchese di Monferrato et noi di contrahere parentato insieme dando la III. Mad.· Maria sua primogenita per moglie al 111. Federico nostro primogenito et che a quel tempo la 111. Mad.* nostra consorte si ritrovava a Roma, senza saputa della quale non ni pareva honesto fare alcuna deliberatione sopra ciò. Al suo ritorno cominciorono a buglire le cose di Lombardia, di sorte che seben al partito non havessimo data ripulsa anzi dimostrato bon animo a chi ne parlò, remettendone al ritorno della ditta Mad.· nostra consorte. Non di meno per li ditti buglimenti si restette in suspeso da uno canto et dalaltro fin che la Ch.®» M.“ fu in Italia, et che recuperato il stato suo de Milano, essendo a Bologna a parlamento con la S.1* di N. S. con la quale essendo il p.'° S.' Marchese et fatta la via di Mantua per visitami fu di nuovo parlato di tal parentato et si dessimo la fede luno laltro di farlo ogni volta che le cose de Iombardia fussero accordate. A questo ce inducessimo luno et laltro sapendo che sempre era stato desiderio de li Sig.rl predecessori nostri di imparentarsi insieme per confirmare lantiqua amicitia, che fra queste due case III."· era stata continuamente. La qual cosa è stata causa, che essendone proposto delli altri partiti li havemo refutati, como di qualcuno voi seti testimonio, expectando il tempo che fusse più disposto a tal 92 GIORNALE LIGUSTICO contratto, il quale bora si ripresenta per la pace seguita fra la Ces.*·» M.<* et la Ch.ma, et stabilimento dii suo ducato di Milano. Però essendo per i mediatori della pratica solicitata luna parte et laltra a venire alla conclusione, siamo remasti concordi ogni volta che habbiamo il bon volere et piacimento della M.’·1 Ch.mj. Però a questo effetto lo IU. S. Marchese preditto scrive al suo Ambassatore presso ditta M.<4, che col mezo della 111. Mad.* duchessa di Lanson procuri bavere il suo beneplacito, et noi che non havemo minore respetto et reverenda alla M.u p.'a, alla quale se conoscemo ben tenuti per molte cose, maxime per le carezeet favori che la fa continuamente a Federico, volemo che similmente con intelli-gentia dii ditto ambassator et de Mad.* de Lanson proponiati il caso alla M.!i sua, alla S.ma Regina, et a Mad.* supplicandoli ad contentarsi che possiamo satisfare al nostro comune desiderio , et honorare con la sua parola et bene placito tal matrimonio, al qual noi tanto più volentieri condescendemo quanto vedemo che nostro figliolo haverà per mogUere una giovine nata di una Mad.* francese et dii sangue di S. M.a, et an-chora che essendo tanto putta, Federico baveri più longa libertà di poter spesso ritornare in Franza, et con l’animo più quieto et remotto da rispetto de stare et servire longamente sua M.tì Ch.mi .... Al. III. i-ede-rico nostro carissimo figliolo direti per parte nostra et della 111. Mad.* sua madre che desiderando noi «li vederlo ben accompagnato, et essendo da molti canti instati a dargli moglie havemo ben considerati tutti li partiti de Italia et de fori, e non troviamo alcuno che più ne satisfacia di questo, si per la nobiltà et antiquità della casa, si per participare de francese, al che dovemo havere rispetto, si etiam per essere la putta di età solamente di otto anni, haverà tempo di stare in libertà et di rompere la caveza, come si suol dire, parecchi anni prima chel devenghi al atto matrimoniale, che ben sapemo di quanto carico sia, certificando esso nostro figlinolo, et ogni altro a chi ve ne occurrcrà rendere conto di questo; che se la putta fosse di più adulta età, et capace della copula, non seressimo venuti a questi termini, per non metterlo cosi presto in servitù et obligo. Siamo certi che per esserni sempre stato obediente figliolo se contenterà di quello che noi et Mad.* sua matre ni contentiamo, persuadendosi che tutto si fa a bon fine et con voluntà de nostro S.' dio.....Non volemo pretermettere cosa che piacerà a Fcd.°, che Mad.* Maria è belissima et molto gratiata per quanto ni é riferte», et la dote sarà honorevole, si che per ogni conto haverà a restarne ben contento e noi molto consolati. GIORNALE LIGUSTICO 93 II. Breve di Papa Clemente 7.° (Rub. D. II. 1;). — i $29. 6. maggio. Coirfrmatio sententiae d."' Archidiaconi in dissolutione malrimonij Federici Marchionis Mantuae et Mariac Palleologae marchionisse Montisferrali. A tergo — Dilecto filio Archidiacono Mantuano — Clemens pp. νπ. Dilecte fili salutem et apostolicam benedictionem. Dudum tibi per alias nostras litteras in forma brevis mandavimus, ut si certas causas tunc per dilectum filium nobilem virum Federlcum Marchionem Mantuae nobis expositas, propter quas pretcndebat sponsalia per eum, tunc quatuordecim annis maiorem, cum dilecta in Christo filia Maria tunc Marchionis Montisferrati nata el in infantili etate constituta, et qae in matrimonium propter supervenientem maiorem aetatem transiverant, ac matrimonium ipsum carnali copula nondum consumatum dissolvi ac divortium inter eos fieri debere veras esse reperires, matrimonium ipsum dissolveres, et perpetuum inter eos divortium faceres , tuque receptis litteris praedictis in illarum executione rite procedens, causis praedictis veris esse repertis, matrimonium praedictum inter Federicum Marchionem e Mariam sponsam suam predictam iuxta commissionem tibi factam dissolvisti et perpetuum inter eos divortium fecisti, ac tam Federico cum alia muliere quam Mariae mulieri praedictis cum alio viro matrimonium nullo canonico impedimento subsistente libere et licite contraendi licentiam concessisti. Cum autem praefatus Federicus marchio cupiat sententiam praedictam apostolico munimine roborari pro parte eiusdem Federici Marchionis nobis fuit humiliter supplicatum, ut in praemissis opportune providere de benignitate apostolica dignaremur. Nos itaque huiusmodi supplicationibus inclinati, discretioni tuae mandamus, quatenus sententiam praedictam sicuti rite et recte lata fuerit auctoritate nostra observari facias, non obstantibus constitutionibus et ordinationibus apostolicis ceterisquae contrarijs quibuscumque. Datum Romae apud sanctum Petrum sub annulo Piscatoris die vj maij MDXXIX. Pontifi.u* nostri anno sexto. 94 GIORNALE LIGUSTICO III. Gio. B.iJ Malatesta al marchese ili Mantova. ijiS. 6. 9bre — Parigi. HL...0 et Ecc.1»0 S.« et Patrone mio oss.mû Già X giorni per commissione di Mons.r Granmaestro andai a Moretta secretamente, loco distante dalla Corte due leghe, et ivi ritrovai sua S>, la quale mi disse chel Ch.1»» era molto contento chio andasse in Spagna, et che sua M.u havea tanta fede in la Ecc.* vostra et in me che la mi volea aprire liberamente lanimo suo circa la pace da poner capituli con l’Imperatore, et sopra ciò ragionassimo assai. Dappoi venessimo al particolare della Ecc.* V., et son stato assicurato che se lei vorà acettare, el Ch.al0 gli darà el titolo et auctoritA che ha al presente S.'° Polo, et lassarà che lei farà le genti-darrnò et cavalli ligieri come gli piacerà, et le fantarie, et il Ch.n>0 non vorebbe havere altro pensiero, o fatica che dì provedere de denari, promettendo alla Ecc.* V. augumento di Stato, et ciochè potrà questa corona a beneficio et essaltatione di quella. Io gli risposi come mi parve conveniente, remettendo la conclusione al mio ritorno, similmente del maritaggio. Sua S.“* s’ è partito da me , et promise ritornare Ira un giorno, o dui con uno secrettario, et farmi el salvo condutto per andare et tornare, et ponarme i capituli de la pace, ma tardò quatro giorni; vero è che mi mandava ogni giorno a visitare con boni vini, poi al quinto giorno ritornò havendo seco lo Episcopo di Borges et Yilandri, luno primo consiliero del Ch.**, laltro, cioè Vilandri, qual si sottoscrive Bretton, gran secretario; amcndui di grandiss.0 giudicio et essperientia et molto amorevoli alla Ecc. V., et a longo raggionassimo insieme, et mi diero molte instrutioni, specialmente de li amici de Io Imperatore quali sono in Spagna, con grandis.' provisioni de utili et honori alla Ecc. V. et a me, se la cosa ha effetto, confirmandome poi tutti in sieme quello che ho scritto di sopra della intentione del Ch.roo verso la Ecc, V. lo feci instantia della restitutione di Bozullo, di modo che mi hanno promesso avanti chio sia ritornato che la Ecc. V. lo rehaverà nel modo chel gli fu levato. Io ho lassato procuratore a tal esspeditione lo III. S. Maxi-miliano qual ritrovo in ogni cosa non manco servitore della Ecc. V. di me, et non vole avere altro patrone, fratello et protettore che lei, in la qual ha posto ogni fondamento. Nello primo raggionamento havuto con lo giornale ligustico 95 Granmaestro a Moretta concludessemo che era bene communicare landata mia de Spagna allo Oratore veneto, dicendogli che non v; vado ad fare •litro clic ad prothestare allo Imperatore che la Ecc. V. voi pigliare apon-tamento <_on lo Ch.n'° et condutta, et havendo sua S >» sattisfatto a questo, mi ha poi detto che esso Oratore gli rispose , piacerli assai più lo mio .indare in Spagna chel stare qui, monstrando non amarene molto. Di che el Granmaestro se ne ridea, et burlava meco; et certo io non potrei dire alla Ecc. \ . quanto el se gli mostra affettionato, et si po dire veramente '-lie esso è Re di Pranza. El Ch.m° si fa ongere, altri dicono chel piglia el legno, basta ehel non si lassa vedere già xv giorni, e certo è gran pietà ad vederlo al presente, a qualunque lha conosciuto già qualche anno avanti, et parla con difficultà, si che el granmaestro è Re. La Ecc. V. ad ogni modo sia contenta scriverli una littera amorevole, similmente allo Episcopo di Borges et a Vilandri, qual è un altro Ruberteto. Lo Episcopo oltre la prudentia è anche homo che si diletta della volaria, et mi ha promisso donare un bon paio de cani da soccorso alla Ecc. V. haven-dogli io detto che credo gli serebbono grati. Pigliata licentia dalli prefati sig*H, con loro partecipatione, me nandai a Melun ove allogia lambassa-tore di Venetia, et gli feci riverentia , et fattogli un lungo preambulo della devotione di V. Ecc. verso la IH. S. di Venetia, e delle molte demonstrationi fatile in diversi tempi et modi, et con quanta instantia et ruezi più volte lha tentato di volerse condurre alli stipendij di quella havendo latto fermo proposito di non vestire mai arme per altro potentato o Principe, et non essendogli sin hora mai reuscito, gli ho concluso che 1 è resoluta di non stare più in otio, et vole attendere ad alcune offerte che gli fa cl Ch."™, maggiormente perchè servendo la sua M.«* servirà anche lo Ecc.®» dominio venetiano, ma perchè la Ecc. V. è vasaio dello Imperatore, et non è mai per volere havere macula alcuna de infedele, prima che la concluda con lo Ch.mo voi chio vadi ad intimare cl tutto a Cesare, et prothestarli che lhonore suo lastringe ad non degenerare dalli suoi antecessori et pigliare partito da chi gli ne offre etc.» Io ho tanto bene impresa questa cosa allo Oratore, eon altri particolari che non scrivo, chel me abbrazò mille volte, et mi diede da cena, promettendo fare ottima relatione alla sua III.™» S> di V. Ecc.», et mi es-shorto ad andare presto a fare tal bona opera, dicendomi gran male del S.1 duca di Urbino et assicurandome che se la Ecc. V. si condurrà con lo Ch.mo serà anche in breve Capitano ue Venetiani, et la mattina seguente mandò lo suo secrettaro a visitarne et offerirme et esshortarme ad andare et ritornare presto. Similmente mi è accaduto con lo Taverna, 96 GIORNALE LIGUSTICO et il tutto ho poi avisato al Granmaestro. Mons.r Legato et anche l’Ora-tore venetiano hanno presentito dello mariaggio che si tratta, et me n’hanno mottegiato, et io gli ho risposto, che nè il Ch.mo, nè Mad.·, nè il Granni.r0 me ne hanno mai parlato, e che non vi è fondamento. Mons/ di Baiusa scià el tutto, che Mad.* glielha comunicato, ma mi ha giurato non lhavere detto pur al Bagno (i). Al partir mio da Moretta el Granm.r° mi disse che non accadea andare a Mad.1 quale è a S.t0 Germano, perchè gli era stato scritto el tutto, ma sua M.,;' mi ha mandato a dimandare, perho vi vado hozi et andari) poi di longo al mio viaggio .... Da Parigi alli vi de novembre 1528. Della Ecc.a V. fid.™° servo Gio. Batt.a Malatesta. IV. Gio. B.‘a Malatesta al marchese di Mantua. 1529, 12 febbraio — Toledo. .... Havendo la comodità di questo S.r Marco dal quale mi pare potermi confidare ho voluto scrivere a V. Ecc.* sommariamente quello che ho operalo in Franza, et anchora in questa Corte, come ho fatto per altre vie, benché pensi che esso s.r Marco giongerà tardi, ma nanche io so quando o come potrò partire di qua essendo condotto d hoggi in dimane, et ora mi è detto lassarme retornare per Franza, et hora che vogliono che io retorni per mare, ma poi più diffusam.'0 V. Ecc. intenderà da me. Io son stato quindeci giorni in letto con febre in questa terra, et il s.r Nontio in sei giorni è morto come la Ecc. V. haverà inteso (2). Postponendo ogni altro particolare dico, che in Franza ritrovai il Re et la Madre, la sorella et il Re de Navara molto disposti al parentado con comissione de restituire il stato di Bozolo et li xij.m ducati prestati et dare alla Ex. V. la condutta et provisione che aveva lo 111. S/ vostro Padre di b. m. Oltra di questo mi fu proposto per il Gran Maestro che ’l Ch.m0 molto volontieri elegeria la Ex. V. per suo luocotenente, et a lei darebbe il carico et denari per tenere le gentedarme et fantarie che esso é obligato tenere in Italia, et non vorebbe sentire altro fastidio di (1) Lodovico da Bagno Decano di Baiusa. (2) Baldassare Castiglioni. GIORNALE LIGUSTICO 97 quello esercito che de sborsare il denaro. Fu poi contento esso Re de remettere nelle mani de la Ex. V. la pace tra lo Imperatore et lui, e mi diede una capitulatione molto honesta, la quale altre volte lo Imperatore ha ricercata, et si sarebbe migliorata per il Re; ma ho ritrovato lo Impera.rt tanto mal disposto a questa pace che non lo saprei dire; quasi che esso farebbe ogni partito a Venetiani, al duca di Milano et a tutti li Italiani per levarli dalla lega di Franza, et già havea una pratica con venetiani, et ne sperava bene, ma essi hanno resposto non volere pace se la non è universale, onde egli ha deliberato venire in Italia contra la opinione de tutto il suo consiglio, eccetto il gran cancelliere et il confessore, et verrà presto potente de huomini, vittuaglia et denari, et fra vinti giorni partirà per Barcellona. Esso senza dubio ha buon animo verso la Ex. V. et li farà boni partiti, ma non ho anchor potuto intendere de che sorte dimane parlerò con S. M.tà et spero trare qualche conclusione, et poi pi-gliarò quel camino che mi parerà più in servitio della Ex. V., che certamente me retrovo un gran peso alle spalle, et ogni mia speranza è in Dio........ Toledo alli xn februarij 1529. Della Ex. V. fid.mo servo G. B. Malatesta. NB. Questa lett.» e quella seguente del 24 feb.° tutte in cifre, decifrate dalla cancelleria. V. Gio. B.,a Malatesta al marchese di Mantova. 1529, 24 febbraio — Toledo. .....1° son stato intertenuto de giorno in giorno sopra la mia expeditione , la quale ho solicitato parlandone molte volte con S. M.tì a boca, et con mie pollice ; lei mi ascolta et parla meco così libera et domesticamente come la Ex> V., per sua benignità, et con essa ho havuto molti ragionamenti quali poi narrarò alla Ex.'» V., che spero pur essere espedito presto, ma sono astretto a venire per mare, non volendomi concedere Cesare che venghi per Franza. Similmente è stato vetato allo oratore de Ferrara, poiché esso già s’era posto in camino. Esso Imperatore dice volerse servire dell’ Ex> V. et di me in tentare Venetiani di Giorn. Ligustico. Anno XVIH. - GIORNALE LIGUSTICO pace , et io li ho proposto il modo per lo quale verebbe alla Ex.la V. Cremona et la Geradada, il quale molto piacque a S. M.tà, et me rin-gratiò dicendo che la mi serà sempre obligata. Ma don Gio. Emanuel et il cancelliere quale non è molto nostro, me sono contrarij. Vero è che don. Gio. con ogni suo potere intende al beneficio della Ex.‘a V., et mi è paruto che lo Imperatore sia alquanto intiepidito sopra questa cosa, pur non ho ancor resolutione alcuna. S. Μ.'Λ dice per ogni modo volersi servire di V. Ex.ia, o presente o absente, dandoli titolo et conducta conveniente; et in questo io mi governarò secondo Dio me inspirarà, et me parerà essere utile et honore de V. Ex.ia, non accettando cosa alcuna per ferma se non di portarla alla Ex> V. che la se resolverà corno li parerà. Io non havevo mai parlato della pratica de Navarra aspettando prima vedere la risolutione del Imperatore sopra le cose pred’Cte, et anche sopra la pace de Franza, de la quale promettea darmi risposta conveniente, et pensavo poi parlare de quel parentado secondo mi fusse paruto più expediente alla Ex.'a V., conoscendo questi tutti essere pieni di suspectione, et io non ho atteso ad altro che a levargliela, et con lo aiuto de dio credo havere molto bene servito V. Ex.ia in questo, et li effetti glielo faranno manifesto, se questo Imperatore non mi manca de le molte et grandissime promesse. Stando io in questa deliberatione et essendo amalato di febre, intesi dal S.r Nuntio che erano gionte qui lettere de Italia, le quale avisavano che la Ex.ia V. havea contratto matrimonio con quella de Navarra, et che havea mandato cavalli al Chris.m0, ma intendendo che non si prestava molta fede a quelli avisi non rri mossi dal mio proposito. Ma già quattro giorni è venuto qui Federico de Ancisa et un altro gentiIhuomo mandato dal marchese di Monferrato affermando il parentato de Navarra, et che la è fatta in tutto francese, non mi parve tardare più di parlare a Cesare sopra questa materia, et con un preambolo, qual dirò poi alla Ex.ia V., gli narrai quanto è successo de tal pratica, et quello che la Ex.u V. mi ha scritto sopra ciò per una de V. de Xbre, oltra la commissione che al mio partire già mi havea dato, mostrando alla S. M.»A la littera istessa. Lei mi rispose tanto amorevolmente et honorevolmente de la Ex.11 V. sopra ciò, quanto la saperla desiderare, e mi disse alcuni particulari quali mi riservo reffe-rire alla Ex.ia V., et ne ridessemo in sieme molto longamente et domesticamente. La conclusion fu questa, che non essendo conclusa tal pratica , li piacerà anche che la non se concluda, perchè volendo S. M.'1 servirsi de la Ex.ia V. contro Franza, molti dubiterebono che la non dovesse fare quello che lafarà, non havendo quella moglie, sopragiongendovi GIORNALE LIGUSTICO 99 che a la Ex.'* V. non mancarà moglie de più nobiltà et più richezza che quella. Io gli resposi più accomodatamente che potei, et lassai la cosa così indiscussa per li respetti sopradetti; et nel fine del ragionamento, procurando la mia expeditione, lei me rispose, che già tenea dentro se concluso il tutto excetto il titulo per havere già creato capitano suo generale lo Principe di Orange, ma che in questo volea satisfare a la V......Lo Imperatore più volte me ha ditto che presto serei expedito et bene, così sopra il particolare de V. Ex.ia corno de poter trattare la pace con Venetiani et con tutta la Italia, la quale esso mostra desiderare, et a me già tre volte con grandissimi sacramenti ha giurato che esso non vole altro in Italia che Io suo regno de Napoli (i). Non potrei dire a la Ex.ia V. 1’ odio che mostra S. M.tà contra Franza, non volendo udire alcuno che li parli di fare pace col Chris.mo, et di questo ne sa molto ben rendere la ragione, che io dirò poi a la Ex> V..... Da Toledo xxiv feb.“ 1529. Della Ex> V. fid.™> ser." G. B. Malatesta. VI. Lett. di G. B. Malatesta al march.1 Fed.° 5129, 5 Agosto — Genoa, .....Io non son gionto qui più presto che hogi per gli infortunij che la intenderà legendo la qui alligata, ma son entrato nel porto di questa cita insieme con una galea dello Imperatore che ha condutti gli foreri di S. Μ.ιί, et messer Martino Centurione. Essa M.‘i era alle isole dheres alli iij del presente, donde questa galea partio, et si tien certo che sin herisera giongese in Monacho, ove ho deliberato io andare con questa galea istessa che partirà questa notte per esseguire quanto la Ecc. V mi ha comisso. (1) Il De Leva riporta nel T. 2.° pag.» ;86. quanto 1’ Imp." disse al Contarmi Amb." Veneto, il 14 9bre del i;30 ... . Sapiale che io non voglio in Italia neppure un piede di terra, se non quello che è proprio mio .... Dal sud.10 dccu.'° quindi apparisce che Carlo ripetè al Contarini quello che al Malatesta aveva già detto nel feb.® 1529. 100 GIORNALE LIGUSTICO Subito giorno qui son stato con loratore Cesareo , qual mi ha jnstifi-cata la nova predetta, aggiùngendovi che hozi sono venute littere qui al R.mo Doria del R.™° Salviati dati in Cambrai alli xxviij del passato, alligate ad un plico che va a N. S., in le quali dice queste formali parole: Per dio gratia queste M.me hanno conclusa la pace tra Cesare et Pranza, et è stato lassato loco a Venetiani et altri confederati da potervi entiare .....L’Imperatore s’ è partito da Barcellona alli xxvj del passato et ha patito molto dal mare et venti contrarij .... VII. Lett. di G. B. Malatesta al marchese Federico. 1529, 6 9brc — Bologna. .....Questa mattina son stato con lo S.r Antonio et gli ho referto la bona dispositione che ho ritrovata in lo Papa verso la Ecc. V, sopra il stato di Milano, cosa che gli è molto piaciuta perseverando in quella demonstratione di amore et osservantia verso lei che ella scià ; confir-mandome che lo Imperatore sta constantissimo et ostinatissimo contra il duca Francesco, e che tra Parma et Rezo unaltra volta gli ha negato il salva condutto per poter venire qui. Me dimandò se io havevo parlato con il S.' Andrea Doria, et havendogli io detto che non, mi esshortò ad parlargli.........Prima esso (Doria) mi fece constare che somma mente gli piacea tal nova, come a quello che ama et osserva la Ecc.” V., et come a vero et fidel ser." dello Imperatore, et come a bono Italliano, et come quello che pensa anche al ben suo particolars et della sua Patria, facendomi constare per infinite raggioni che S. M.li non può fare miglior ellectione in quello stato........ VIII. Lett. di G. B. Malatesta al marchese Federico. 1529, 7 9bre — Bologna. ......Andai a palazo et subito me in contrai con lo marchese di Arscot et Granmaestro, et separatamente parlai con il marchese del stato di Milano, perchè sinhora non gli ne haveva parlato, el qual me ha GIORNALE LIGUSTICO ΙΟΙ risposto tanto gagliarda et amorevolmente quanto si può desiderare . . . ......Hozi lo episcopo di Vasone me tirò in una parte della anticamera dicendome haver parlato heri a longo con N. S. di V Ecc.* sopra il stato di Milano, et havere ritrovata S. B.°” talmente disposta verso la Ecc.* V. che più non è da dubitare che il tutto non suceda secondo quella desidera. Et mi ha certificato che il duca di Milano non ottenirà salvo condutto per venire qui. Questo dico perchè io non insto alcuna cosa al presente più di questa, et così ho ricordato a messer Francesco (i), che in questo si dee fare ogni conato , cioè che non gli sia concesso salvo-condutto, perchè questo sera un segno evidentissimo che il Papa non lo vole aiutare, et il prefato episcopo mi ha commisso che scriva alla Ecc.* V. che la riposi sopra di lui chel non 1’ haverà....... IX. Lett. di G. B. Malatesta al marchese. I529. 7 xtire — Bologna. .......Esso S/ Antonio mi ha detto per certo che l’Imperatore non se lassava mai reddurre ad consentire che il S.r Francesco M.* Sforza restasse duca de Milano se non era il confessore qual è stato corrotto dal Papa con promissa del capello....... X. Il march.* Federico. Al Ss Lodovico Guerriero a Mantova. Bologna, 1529, 24 ÿbre — Minute. ......Dovete recordare in che termino erano le cose alla venuta che fece il Malatesta ultimamente a Mantua, de la relatione del quale fosti informato di quanto accadea, et per la quale relatione noi ne movessimo a resolverne di venire in qua; ma tornato il Malatesta a Bologna trovò che era stato fatto salvocondutto dal Papa et Imperatore al duca Francesco Sforza, cosa molto contraria a quello che era stato detto et (1) Frane.® Gonzaga arabas.re di Fed.° presso il Papa. 102 GIORNALE LIGUSTICO promesso a noi per il Papa; et non havendo egli retrovato qua il S.r Andrea Doria, fece capo al S.' Antonio de Leyva, dal quale fu chiarito che le promesse tanto larghe del Papa in favore nostro, et la speranza che se havea dal canto nostro in S. B.ne erano vane, perchè ella era stata quella che havea sollicitato, instato ed importunato lo Imperatore per cavare questo salvocuadutto ; dicendo esso S/ Antonio che lo Imperatore si era doluto con lui elle il Papa con tanta importunità lo havesse stimulato a far questo salvocondutto; et di più se chiarì anche per altra via che non solo S. S.^ non iacea opera per noi del stato di Milano, ma cominciava ad aspirarli lei con animo di convertirlo in particolare suo. Et gionto noi qua, che fu sabato di sera, come havereti inteso, Riavendone esso Malatesta referto il tutto, il che ne fece stare molto sospeso, andassimo la medema sera a visitare il S.r Antonio, dal quale fossimo chiarito del me^emo; et anchor che S. S.ia fosse di parere che liaves-simo da parlarne et farne ogni efficace opera con la Ces.en M.'4, non dimeno noi non havemo voluto farne altro fin che non habiamo parlato col Papa. Così il dì seguente che fu la dominica andassimo a basare il piede a S. Β.»«, nè per a lhora si parlò daltro, ma fu solamente visita. Vi tornassimo poi il lunedì et parlatoli al longo, per le parole sue et per la difficultà chel metteva in questa cosa, come intendereti alla venuta nostra, fossemo chiarito da S. S.tà molto più che non eramo stato prima, et dal Malatesta et dal S.r Antonio, che 1’ animo suo era pur tale quale havevamo inteso qua; per il che havevamo concluso di non parlare nè far parlare più con lo Imperatore di questa cosa del stato di Milano. Pur il S.r Antonio, havendonelo però prima fatto intendere, mandò a dimandare Pernotto, et fece che egli offerse alla Ces.ea M.tA che tutte quelle condicioni che il duca Francesco era per farli per havere il stato di Milano, erano per farlile anchor noi, et più presto di più che altramente, obligandose esso S.r Antonio di farne havere in termino di otto giorni, prima, et poi di doi, cento milia ducati da Milano solamente da dare a S. M.'i. Et per quanto havemo poi inteso da esso Pernotto, S. M.<« mostra che se contentarla che la cosa cadesse in noi, et persevera verso noi nella optima dispositione sua, dolendose molto che per la importunità del Papa ella non possi fare quella demostratione in nostro beneficio, che seria il desiderio suo, di modo che, havendo noi considerata bene questa mente del Papa, havemo deliberato di troncare in tutto la pratica fin che se veda lo exito del duca Francesco ; tanto più che sciamo informato essere penetrato noticia di messer Zorzo Andreasi, et conseguentemente del patrone, che noi eramo in questa pratica, et per chiarire che non siamo qua a tale GIORNALE LIGUSTICO IO3 effetto, havemo concluso di partirne quanto più presto possiamo con bora licentia della Μ.'λ Ces.ea, senza aspettare che la cosa per il duca Francesco si concluda, o excluda, la quale per quanto intendemo et dal S.' Andrea da Borgo et da altri caderà nel detto duca....... Heri il S.r duca Francesco fu per basare la mano alla M.tà Ces.ea, da la quale fu recolto assai benignamente; ella non volse tollerare che le basasse la mano. Il S.r duca giorno a lei li porse il salvocondutto che S. M.,à li havea fatto, dicendo, che mo che 1’ era alla presentia di quella, li parea non aver più bisogno di salvocondutto, et che Γ era per iustificarse et fare conoscere che l’era servitore et fidele a S. M.tA, la quale non volse accettare il salvocondutto, et mentre che tra quella et il duca era contesa di quello salvocondutto, il capitano Zuccaro, da bon compagno, se fece inanci et tolse il salvocondutto. Scritta la littera havemo mandato il Malatesta al S.r Antonio, quale li ha detto chel pare che la cosa del stato di Milano si stringa molto nella persona del Re Christia.mo, et che dal canto di questi Sig.ri se li attende, perchè il ditto Re, oltra il pagare dinari , offerisce di molti particulari come intendereti alla venuta nostra da noi. Bononiae xxmj novembris 1529. XI. A Giacomo Malatesta ambasciatore a Venezia. Federicus marchio. 1529, 24 9bre — Minute. .....Doppoi che siamo qui havemo inteso chel Re Chris.m° tiene pratica stretta qua per havere il stato de Milano, et offerisce pagare al presente all’ Imperatore un milione d’ oro, et darli buon numero de genti da guerra pagate per far la guerra a Venetiam, obligandosi lassare in mano dell’imperatore el castello de Milano et le altre fortezze de gran importantia fino a tanto che sia seguita la destructione de quelli Sig.ri. Il che con le altre parti d’ importantia che vi scrivemo nella littera comunicarete nel più stretto et secreto consiglio che vi sia, et ne farete reserva grandissima........Intendemo che l’imperatore in questa pace che si tratta tra S. M.tà, et quelli S.n recerca che si faccia una colligatione de la sorte che fu 1’ altra che tra loro si fece ; per la quale si sia obligato alla defensione l’uno de 1’ altro, contra chi volesse offendere alcuna delle parti o el stato de essa. Alla quale quelli S.ri pare 104 GIORNALE LIGUSTICO che si rendano difficili, dicendo non volere tuore a defendere quello d altrui, ma ciascuno difendi il suo; onde ne pare a noi come buon servitore dell IU.TOa Sig.>“ de raccordare fedelmente a quelli Sig.ri, e cosi volemo che facciate da nostra parte , che non vogliano per questa conditione lare che un tanto bene quanto serà questa pace, non habbia effetto. Che laudiamo bene che se ’l non fare questa colligatione et obligo li \ien ad utile ne stiano renitenti più che puonno, ma quando non si possi fare di manco, et che 1 Imperatore la voglia , pure che per 1’ amore de Dio non vogliano guardarla così per suttile, et li cedano accio che alle \olte questo non fosse causa de desturbare il tutto, et fare che una pace da la quale ne può seguire tanto di bene quanto ragionevolmente si può considerare, non sia per seguire........Bologna 24 ç)bre 1/29. XII. Lett. di Giacomo Malatesta al marcii.1 Fed.° 1529, 28 9bre — Venezia. ......Circa quanto la m’ha scritto in zifera, quando exposi quella materia, il Principe et li consiglieri restoreno molto suspesi , et per alquanto non risposero niente, ma tra loro si guardavano. Pur messer Dominico Trivisano, disse: Ha ella tanti denari che gli basti per recuperare li figlioli, et anche per pagare questa summa, et appresso genti? Costui voria fare de molte cose sei potesse, soggiùnse il Principe, sono tutti modi chel tiene per disturbare che la pace non segua; ma speramo chel non haverà questa gratia............................ Messer Andrea Rosso mi dice che da altro loco Venetiani havevano quanto io gli ho exposto, che V. S. m’haveva scritto in zifera, ma che colui che havea scritto prima non havea scritto tanto chiaramente come ho detto io: che certamente loro non troveno ragione che gli possi indure a credere che la richiesta habbi loco , considerando maxima.'0 che l’Imp.re non ha pur voluto promettere chel Ch.™ tenghi in Italia Aste, ne pure altro palmo di terra, et comportarla che 1’havesse il stato di Milano, che è de tanta importantia? Il Chris.mo si vede di mala voglia, et dubitando che l'imperatore non gli osservi quanto gli ha promisso, va mettendo queste pratiche per demostrare che 1’ ha denari, et che vorà fare la guerra quando el non possi havere quello che voria.....Venetia, 28 novemb. 1529. GIORNALE LIGUSTICO IO5 XIII. A Mes.r Antonio Bagarotto, in Corte Cesarea. Minute — i$3<>5 17 lug.° Poi la morte del S.r Marchese di Monferrato molti gentilhomini et de li principali di questa città, assai liberamente hanno parlato al S.' 111.“®, parte separatamente, uno da laltro, parte uniti, tre et quattro insieme alla volta mostrando a S. Ex. che tutta questa città resti mal contenta del matrimonio contratto con la S." Donna Julia, et del repudio di quella di Monferrato, dicendo che hanno qualche timore del iudicio di Dio, perchè tengono per certo che quel matrimonio fosse indissolubile et che si faci torto a quella giovine, oltre che questa è reputata da loro di età che non se ne possi sperare la desiderata prole et la successione dritta et legittima in questo sjato, et hanno exhortato S. Ex. a volerse disporre a pigliare per moglie, quella che reputano essere sua. Il p.«° S.re non ha potuto fare che non habbi ascoltato questi suoi gentilhuomini non li hanno mai parlato tanto liberamente, et S. Ex. non li ha d/to altra resposta, ma novamente ha presentito che di ciò se parla per tutta Mantua, et per il mantuano , et facilmente potria uscire questa voce in li contorni, et o di Cremona o di altri lochi venire in notitia de la M.'i Ces.<*, et però la p.'a Èx. me ha commisso che scriva presto a V. S. accio che la ne possi prevenire la p.«» M.'* et dirle donde nasce la cosa. Questo se haveria anche fatto più presto ma S. Ex. credeva che la cosa non dovesse andare tanto oltre, et però che non fosse bisogno prevenire S. M.‘i...........Mantova, xvij Julii 1530. XIV. Lett. del Cattaneo al Cappino. 1530, 13 9bre — Casale. .......El giorno de S.to Martino circha le hore 23 agionse el cavallaro de Augusta, et decte le littere al S.r don Aloyse. Una era de Couos, quale scriveva gagliardamente in nome de la Ces.ea M.'i, comandandoli che lui volesse ad ogni modo vedere che questo casamento del conte Palatino se concluda, che non gli potrebbe Mad.1 farli gratia più accepta GIORNALE LIGUSTICO da questa.......Qual littera esso don Aloyse ha mostrato a quasi tucti li gentilhomini qu\; unde che pare che quelli che erano in nostro favore, et più caldi se cominzano ad intepidire, maxime perchè in diete littere se contiene che S. M.tà vole ad ogni modo chel matrimonio de donna Julia abbia effecto. Da poi le ne ha scripto una altra in ziffra; il tenor de la quale è questo: che havendo visto S. M.tà il buon animo e la vera servitù che continuamente gli ha mostrato questa Ex.ma Mad.ma, che lui voglia cum ogni diligenza vedere a qual di Sig.ri de Italia pende più madama, che essendo persona che sia accepta a S. M.tA ha deliberato de compiacerla, ma che sopra al tujto lui veda de adveriire che non se concludesse questo de franza, et intertenga Mad.* et subito dij aviso a S. M.{i.....Madama rescrive in questa forma : che tanta è laffectione et servitù che lei ha verso S. M.(i che se rende certissima che quella non la astrenzerà a dare la figliola al conte Palatino, ma che la maridi in Italia secondo il suo desiderio, et in persona grata a S. Μ.'Λ, come più ampiamente intenderà per littere dal S.’ don Aloyse Sermenta oratore de S. M.tà a presso sua Ex.ia. Non chel partito de .esso conte non sia degno, ma solum che lei vole la figlia a presso di se, et in Italia . . . . Don Aloise vedendola così ferma de animo, reputa questa pratica per disperata cum il dicto conte. Et similmente per exeguire quanto gli cornette S. M.'A ha interogato madama cercha il marchese de Saluzzo : se S. Ex> tiene quello essere in Italia, et che lei ha risposto, che sì. Qual non fa niente a proposito de S. M.tà. Et seguendo, circa al S.' duca de Milano, se S. Ex> il farebbe, gli ha risposto, che non havendo S. Ex.1·1 il stato stabile anchora, et ritrovandose al modo se ritrova de la persona, che questo a lei non sarebbe troppo agrato. Da poi gli ha dimandato de la Ex.ia de lo 111. S. Duca di Mantua, dicendo, V. Ex.ia al principio se haveva pur congiunta in matrimonio la Ex.ia de la q.m Mad.» Maria, seria mo al proposito S. Ex.ia per questa altra? Et che Madama stete un pocho suspesa poi disse : Io gli haveva maritata quella, perchè existimo certo chel sia il miglior partito de Italia, et altramente non se risolse. Ma lui tien per fermo, che quando S. M.<* a ciò la exhortasse, ben che altre volte gli sij stato sdegno, che trovarebbe madama più flexibile et indi-nevole a S. Ex.!a che ad altri. Et che S. M.tà non perda tempo in resol-versi, però chel Capitano Leonardo fa ultimum de potentia, suburnando non solamente gli gentilhomini qui de Casale, cum gran promissione, ma anchora promette de dare conducta et moglie al S.r Jo. Georgio, qual ben non se trovi troppo potente, pare che adherisca a la sua voluntade .. . . . Casale, 13 novemb. 1530. GIORNALE LIGUSTICO IO7 XV. Rub.e D. VI. 2. 1567. 30. Gen.° — e D. XII. 6. — ï$S7· Nell’interesse della storia dell’arte, parmi utile riportare quanto di più interessante ho trovato nell’ inventario delle gioie, arazzi, argenterie e oggetti d' arte fatto redigere dalla Duchessa Margherita, morta ai 28 xbre del 1566, per assegnarli conforme al suo testamento del 21 Mag.° 1563, ai figli suoi. Tappezzerie di lana : Una spalera in undece pezzi di tapezzaria de fiandra fra grande e piccole, fatta a foliazi, con varii uccelli. Una spalera de Fiandra in otto pezzi di tapezzeria fatta a paesi con figure et animali de diverse sorte, et le pezze sono parte grande et parte picoli. Una spalera a figure di tapezzaria d’oro, argento e seta e lana , cum la imagine della Madonna cum nostro S.1 Yheusu Ch.'0 in bracio , cum altre figure. Paramenti della Capella: Uno palio, o sia aparamento d’altare de brochato d’oro in campo cremesino con un crucifisso in rneggio, con una madonna da una banda, et S. Giovanni da l’altra , fatte de recamo sopra detto brochato con franze de oro et setta cremesina, con 1’ arme di S. Ex,u de quattro fette, alto braza uno e meggio. Un palio d’ altare de brocato d’ oro in campo cremesino con una Madonna in meggio, con un Christo morto in bracio, con due arme di S. Ex.ia, guarnito con franze de oro et setta cremesina, de quatro fette, alto braza uno e megio, con tre croce. Un quadro fatto et tessuto d’ oro et seta de diversi colori, con un Christo legato con una altra figura perfilato de passamano d’argento al intorno. Argenti, Gioie et altre cose di precio: Un crucifixo d’ argento dorato cum la croce e piede de croce de pa-rangone cum alcuni ornamenti al piede de argento dorati. ιο8 GIORNALE LIGUSTICO Un santo Sebastiano de corale cum alcuni rami de corale assai belli. Una figura de una donna cum una spada in mano in 1’ acqua , fatta d’ oro cum smalto. Una figura de nostro S. Y. Christo resusitante del monumento , fatto d’ oro cum smalto. Una toreta de oro smaltato con una figura dentro. Una Phenice de oro smaltata de biancho. Una S.u Madalena d’ oro cum smalto rosso e biancho. Una fontana de argento dorata lavorata con varie figurine, pesa marche 59. Una confettiera d’argento, tutta dorata, ciselata, con animali, ucelli et figure, con fiori in capo d’essi con l’arma di S. Ex.lA — pesa marche 3, onze 3. Uno diaspis assai grande cum uno cerchietto de oro , cum una figura da relevo de uno Dio patre. Una agata cum una testa da ogni banda, intaliata de relevo. Una cervetta cum il corpo de perle e il resto de smalto sopra un campo de oro quale guarda in uno sole, fatto de tre rubini codoli longhetti. Uno diaspis ligato in oro , verde, cum figure intaliate che fano sacrificio de uno tauro. Uno brazaletto de tredici pezii de prede de varie sorte legate in oro, nelle quali sono intaliati li pianeti. Uno anello cum una agata colma intaliata. » cum uno carneo che ha una testa. » cum una plasmina intaliata picola. » de oro cum alicorno cum una nunciata. » de corale cum uno carneo, cum la figura de S.t0 Christo-phoro. » de corniola intaliato foderato de oro. Argenti e Reliquie nella capella scura di castello: GIORNALE LIGUSTICO Una anchona d’ argento con le porte che si apreno , tutta lavorata de fora via a figure de relevo, con littere greche, dorata et di dentro l’ornamento della anchona è d’ oro cum figure de relevo, in mezo vi è una croce fatta del San.mo legno della croce de nostro S. Y. C.to, con uno christale grande davanti. Una cassetta de osso biancho intersiata di negro con sopra al coperto una figura de argento de sancto Procopio. Nella qual cassetta sono le infranotate reliquie de sancti e martiri. Una Imagine della Madonna col putino in bracio, pesa marche 36, onze una. —..... La duchessa Margherita possedeva in gioie, complessivamente, pel valore di ducati 34385 — secondo la stima fatta nel 1542 dai gioiellieri Bartol.0 Battalione di Venezia e M.*'° Sebastiano mantovano. Due sono le gioie di maggior valore : Un diamante grande a facette legato in oro, stimato per cinque mila ducati, e un baiasse grande legato in oro, stimato per 4000 duc.'1. Il valore complessivo degli argenti fu dai sud.u orefici stimato per ducati 5456. VITA DI GUARINO VERONESE (Continuazione, vedi pag. 40). Guarino a Verona. (1419-1429) 96. Ecco nell’aprile del 14x9 Guarino in Verona sua patria, in seno alla propria famiglia, nella casa dotale in contrada Falsurgo, circondato dall’affetto della madre, della sposa e degli altri parenti e degli amici. Non ha nessun incarico ufficiale per insegnare , ma egli apre subito scuola privata, I IO GIORNALE LIGUSTICO alla quale accorrono i giovani delle migliori famiglie veronesi: i fratelli Verità, Lodovico Cavalli, Lodovico Mercanti, Lodovico Polentino, Bartolomeo Pellegrini, Bartolomeo Bren-zoni, il Pisoni, il Maggi; da Bologna viene il Lamola. 97. Però questa scuola ebbe tristi auspicii, giacché dopo poco più di un mese a Verona si sviluppò la pestilenza; gli scolari si sbandarono, i cittadini fuggirono e anche Guarino riparò nella sua villa di Valpolicella, portando seco la famiglia propria e quella del suocero. I fratelli Verità si ricoverarono a Cerea, il Brenzoni nella sua villa omonima sul lago di Garda, il Pisoni e il Maggi a Riva di Trento; il Lamola tornò a Bologna. 98. Guarino stava a Valpolicella già nel maggio. Era la prima volta che egli piantava residenza nella villa e perciò si compiace di ammirarla e di gustarne le bellezze. E non si può tenere dall’ invitare a partecipare di tanta gioia i suoi cari, come il parente Battista Zendrata e Tommaso Fano e Zenone Ottobelli, cercando di adescarli con una minuta descrizione del luogo. 99. Comincia dal clima. Clima dolcissimo e mitissimo. Con questi calori eccessivi del giugno, scrive Guarino, altrove si muore, qui invece par di essere in primavera. Di giorno serenità incantevole, di notte si possono contare le stelle. Qui raramente spirano venti impetuosi; sempre mossa e dolce è l’aria, che col suo susurro invita al sonno. Qui si vive lunga vita e questi vecchi contadini sono vegeti e robusti e nel pieno possesso delle loro facoltà mentali. E la sua posizione? deliziosa. Valli apriche, nè profonde, nè scoscese, coronate tutt’ all’ intorno da colline verdeggianti e fertili al pari della pianura. Qua oliveti, là vigneti, altrove prati vestiti di erbe e irrigati da numerosi e perenni ruscelletti e giù in basso 1’ Adige serpeggiante. 100. Passando alla villa, essa è piantata su un dolce pendìo, GIORNALE LIGUSTICO I 11 nè troppo alto da stancare chi ci voglia salire, nè troppo basso da impedire la vista di un ampio orizzonte. Di dietro e ai fianchi è circondata da colli in forma di anfiteatro, la facciata si apre davanti a una estesa pianura , traversata dall’ Adige, e in fondo alla quale torreggia Verona. Questo Γ esteriore della villa. L’interno offre buone stanze; ci è un portico, dove all’ estate si respira Γ aria fresca e all’ inverno si gode un buon sole. Le finestre danno alcune sui prati, altre sulla pianura, altre sul fiume. Davanti ci è un’aia e nell’aia un pozzo ricco di acqua. ιοί. Noi non vogliamo negar fede alla descrizione di Guarino; ma ci sorprende che essa sia fatta quasi tutta con le medesime frasi adoperate da Plinio nel descrivere la sua villa di Toscana. La corrispondenza delle descrizioni ci obbligherebbe ad ammettere la corrispondenza delle due ville; però io amo meglio credere che qui Guarino abbia sacrificato un poco la realtà della sua villa alla idealità di una descrizione foggiata su un modello classico come Plinio. 102. Alla villa non mancavano feste di famiglia e visite di amici, che andavano a godere la compagnia di Guarino; e Guarino stesso di là faceva qualche escursione, come quella verso Γ ottobre sul lago di Garda, nella tenuta Brenzoni. Ivi restò una settimana e ricevette una profonda impressione di quei luoghi montuosi, che egli vide forse allora la prima volta. Ed è graziosa la scherzevole caricatura che egli ne fa al Brenzoni, confrontando il carattere selvaggio di quei monti col carattere mite della sua Valpolicella. Ma anche nella caricatura si sente che Guarino ha colto in sul vivo quella natura orrida; e qui non segue nessun modello classico. Tutto reminiscenze classiche è invece il carme a Lodovico Mercanti sul lago di Garda, dove però spirano sentimento vero i pochi versi che alludono alla parentela fra gli abitanti del lago e i Veronesi. I 12 GIORNALE LIGUSTICO 103. Da Valpolicella tiene vivo carteggio coi suoi scolari, ai quali raccomanda di ripassare le poche lezioni imparate, per non trovarsi poi a disagio nella ripresa del corso. E scherza con essi, come col distratto Pisoni, e impartisce savi consigli, come al Polentino e al Pellegrini, e non rifugge dal correggere gli spropositi di lingua latina, come a Lodovico Cavalli e a Giacomo Verità, ai quali spiega come in latino non si adoperi, parlando a una persona sola, il voi ma il tu. In tutte queste lettere ai suoi scolari tra i consigli savi e le parole affettuose campeggia però una preoccupazione: la preoccupazione della peste, sulla quale non si sapeano far prognostici e che intanto gli impediva di tenere aperto il corso. È chiaro che Guarino da quell’ interruzione dubitava potergliene venir danno. Egli non avea nessuna nomina ufficiale e forse cercava di guadagnarsela con la simpatia e la stima, che gli avrebbe procacciato il corso privato. Per questa ragione desiderava affrettare il ritorno a Verona, che fu fissato per il 28 ottobre. 104. Il Maggi, che in tali faccende si mettea sempre alla testa, reduce da Riva di Trento, e lo Zendrata e altri aveano progettato una dimostrazione per il ritorno di Guarino e di sua moglie. Si erano sposati a Verona nel Natale del 1418; indi Guarino era ripartito solo per Venezia, dove stette fino a tutto il marzo del 1419. Non si erano ben ricongiunti a Verona, che scapparono a Valpolicella. Chi li avea veduti gli sposi novelli? chi li avea festeggiati? E Guarino, il famoso maestro vagante, che alla fine rientrava in patria, chi Γ avea festeggiato, se dopo un mese poco più dovette interrompere le lezioni? Era dunque giustissimo che il ritorno suo in città fosse accolto con una ovazione. Guarino tentò tutti i mezzi per eludere, modesto e riservato come era, le pratiche degli amici; ma possiamo credere che gli amici abbiano vinto. 105. Rientrato in città Guarino sentì di trovarsi, come ho GIORNALE LIGUSTICO II3 già detto, in una posizione incerta; e infatti al Lamola scrive esortandolo a tornare , chè per un anno almeno contava di fermarsi in Verona. E intanto si dà le mani attorno per aprire solennemente il suo corso scolastico 1419-1420 e domanda al Gualdo e al Barzizza Asconio Pediano e Quintiliano. Intendeva fare un corso di retorica. E la prima orazione inaugurale pronunciata in Verona prelude effettivamente a un corso di retorica. Se Guarino non ebbe motivi di mutare il tempo, fu pronunciata verso il Natale. 106. L impressione prodotta nel pubblico deve essere stata favorevolissima, perche il Consiglio di Verona nel seguente anno 1420, il dì 20 maggio, con 45 voti su 50 nominò Guarino insegnante di retorica per un quinquennio con lo stipendio annuo di 150 scudi. Gli fu imposto di leggere le Epistole e le Orazioni di Cicerone; nel resto gli si lasciava libera scelta. Così gli fu lasciata libertà anche di dar lezioni private e di riscuotere per esse emolumenti. 107. E fu bene che Verona si fosse assicurato Guarino per un quinquennio, giacché in quell’anno stesso, non molti mesi dopo, sembra che lo rivolessero a Venezia e a Firenze. Certo un invito formale gli venne da Vicenza. L’anno seguente o al più tardi il 1422 lo invitò, e con buone condizioni, alla sua corte anche il principe Gianfrancesco Gonzaga di Mantova , prima che ci andasse Vittorino da Feltre. Ma Guarino ricusò sempre, adducendo a tutti la medesima ragione, che egli era impegnato con Verona, dove non insegnava tanto allettato dall’ interesse quanto indotto dall’ utile dei suoi concittadini e da carità di patria. 108. Verso la metà del settembre di quell’ anno, 1420, passava per il territorio veronese Lodovico Migliorati signor di Fermo, mandato da Carlo Malatesta a dar soccorso al fratello Pandolfo, che era assediato in Brescia dal Carmagnola. Guarino in nome della sua città indirizzò una lettera al principe, Giorn. Ligustico, Anno XV111. 8 1 H GIORNALE LIGUSTICO pregandolo di risparmiare nel passaggio i poveri contadini e le terre. 109. Nel 1421 la scuola di Guarino fu visitata e frequentata da due celebri alunni forestieri: frate Alberto da Sarzana ed Ermolao Barbaro veneziano. Frate Alberto fu con Bernardino da Siena 1’ uno dei due monaci per i quali Guarino nutrì stima e venerazione illimitata, egli che di fronte agli altri monaci, quali fra’ Timoteo da Verona, pure suo scolaro, e fra’ Giovanni da Prato, si mostrò indipendente per quanto rispettoso. E conobbe di persona anche Bernardino , quando andò a predicare nella cattedrale di Verona l’anno seguente, 1422, anzi in quei pochi mesi l’ebbe frequentatore delle sue lezioni. Frate Alberto allorché si presentò alla scuola di Guarino era uomo fatto e conosciuto per la sua predicazione. Passato da Firenze, dove conobbe tra gli altri il Niccoli, e da Padova e Venezia, dove conobbe i dotti Veneti, sopra tutti il Giuliani e il Barbaro, giunse a Verona nel settembre 1421, fornito di cognizioni sacre e di buone qualità oratorie ; gli mancava la cultura letteraria, un po’ di greco e un po’ di raffinatura nella forma latina. Ciò fu quello che egli imparò da Guarino, al quale conservò perenne riconoscenza ed affetto, tanto che ancora parecchi anni dopo, nel 1434, lo chiamava non il suo precettore, ma il suo direttore spirituale, perchè 10 aiutava a vestir di bella forma i dettati divini. 110. L’altro scolaro, Ermolao Barbaro, figlio del fu Zaccaria e ora sotto la tutela dello zio Francesco, venne a Verona qualche mese prima, nell’estate del 1421. Ma questi era ancora fanciullino, tredicenne appena, un portento di precocità intellettuale; eppure fanciullino come era aveva fatto la sua brava visita a Firenze dove conobbe e si fece « amici » 11 Traversari, il Niccoli, il Marsuppini. Ermolao fu più tardi vescovo di Verona. Questi due nuovi scolari diedero dopo un anno frutti della loro operosità : frate Alberto con un GIORNALE LIGUSTICO nj discorso pronunziato a Verona nella festa del Corpus Domini (n giugno 1422) ed Ermolao con la traduzione latina di Esopo dedicata al Traversari (i.° ottobre 1422). in. Nell’agosto del 1421 Guarino lavorava intorno al-1 orazione funebre per Giorgio Loredan, il vincitore di Gallipoli (nel 1416), caduto vittima in quest’anno stesso di un agguato sulle coste siciliane. Guarino aveva aggravato la mano sugli autori dell’ agguato, ma il Barbaro prudentemente 10 consigliò a mitigare alquanto 1’ acerbità del linguaggio, che nonostante rimase molto aspro. Non sappiamo se Guarino sia andato a recitare 1’ orazione a Venezia, dove del resto si suppone tenuta. Il Barbaro in quei mesi estivi peregrinava per 11 territorio padovano, vicentino e veronese, fuggendo la peste che infestava Venezia. Anzi a Montagnana il i.° ottobre si incontrò con Guarino. 112. Due altri avvenimenti dobbiamo registrare in quest’ anno : 1’ uno fausto , 1’ altro tragi - comico. Il fausto è la nascita del primo figlio Girolamo, venuto alla luce il 20 settembre. Gli mise nome Girolamo allo scopo di perpetuare la memoria dell’ amicizia con Girolamo Gualdo, a cui scrive che, se non potrà lasciare al figlio eredità di sostanze, cercherà di costituirgli un buon corredo di cognizioni. Ecco ora l’avvenimento tragi - comico. Un tale Antonio Quinto, tipo di demagogo da trivio, si intruse un bel giorno nel Consiglio di Verona e alla presenza di tutti e del podestà e del capitano cominciò una filippica contro Guarino, sostenendo che gli si dovea levare lo stipendio per non aggravare inutilmente il bilancio del comune. Informatisi gli astanti della sua condizione e come si fosse intruso , venne fatto uscire tra i fischi universali. Fuori di Consiglio poi fu tutto quel giorno un coro di lodi in favor di Guarino, specialmente da parte del Pasi, provveditor del comune. Guarino come è ben naturale da questo incidente guadagnò anziché scapitare. GIORNALE LIGUSTICO 113. Buon successo ottenne la prolusione di Guarino del 22 maggio 1422 al De officiis di Cicerone. Il Maggi ne volle una copia, accompagnata da considerazioni sulla sua struttura retorica. Questo fu l’anno della famosa scoperta delle opere retoriche di Cicerone, trovate dal vescovo Landriani a Lodi e decifrate e trascritte a Milano per opera di Gasparino Bar-zizza , di Cosiino Raimondi e di Flavio Biondo. La notizia della scoperta giunse a Verona nel giugno e il 18 dello stesso mese Guarino mandava al vecchio amico e collega Barzizza il suo scolaro Giovanni Arzignano, quale ambasciatore del circolo letterato veronese, a riportare una copia delle nuove opere ciceroniane. L’Arzignano tornò col solo Orator, che fu subito distribuito agli amici. 114. Nell’autunno passò Guarino a Valpolicella, dopo due anni che non c’ era stato. La corrispondenza da Valpolicella ci fa conoscere due nuovi e valenti scolari di Guarino: Giacomo Lavagnola veronese, che battè poi la via delle magistrature , fu capitano a Firenze, podestà a Siena e Bologna e senatore di Roma; e Tommaso Pontano, che frequentò di poi i circoli di Venezia e Firenze, e professò a Bologna e nell’ Umbria. 115. Alla fine del 1422 o al principio del 1423 nacque a Guarino il secondo figlio Esopo Agostino. Nell’ aprile 1423 si festeggiò anche a Verona Γ elezione del doge Francesco Foscari, tanto più che egli era conosciuto colà, essendovi stato capitano nel 1421. Guarino ebbe l’incarico di redigere a nome della città una lettera di congratulazione. La monotonia delle solite occupazioni fu interrotta quest’ anno da una gran gita fatta per il contado veronese negli ultimi giorni di luglio e nei primi di agosto. Vi prese parte una numerosa comitiva di uomini e di donne : c’ erano p. e. Guarino, lo Zendrata, il Concoreggio, il Sabbioni, lo Spolverini, il Manfrin, il cui cavallo fece per parecchi giorni dipoi le spese ai motteggi e alle risate degli amici. Ci furono divertimenti di caccia, GIORNALE LIGUSTICO II7 di pesca e soprattutto gran mangiate. Nella brigata c’era una persona nuova per noi, ma che d’ora innanzi diverrà nostro conoscente, Flavio Biondo da Forli, esule dalla sua patria, il quale errando da un paese a un altro in cerca di un punto d appoggio capitò eventualmente per pochi giorni a Verona. Nell autunno Guarino fece la solita villeggiatura a Valpolicella. 116. Ma ecco avanzarsi un anno tempestoso per Guarino, il 1424. I timori della pestilenza si erano affacciati sin dai primi decembre del 1423 e Guarino allora stesso pensava ad un eventuale ricovero. La minaccia continuava verso la metà gennaio 1424, ma pare che poco dopo sia entrata una sosta. 117. Intanto veniva il febbraio e Verona riceveva la visita di un personaggio illustre, l’imperatore Giovanni Paleo-logo di Costantinopoli. Era arrivato a Venezia il 15 decembre 1423. Ivi si fermò un paio di mesi e in quel tempo fu ossequiato da Leonardo Giustinian e da Francesco Barbaro, che adoperarono con lui il linguaggio greco. Egli senz’altro riconobbe in loro degli scolari di Guarino, nè si ingannava; e domando notizie di Guarino, che egli ricordava benissimo. Ripartito alla volta di Milano, fece sosta a Verona, dove entrò il 21 febbraio, accolto solennemente dalle autorità, salutato da un discorso di Guarino e ospitato nella badia di S. Zen. Guarino ebbe così occasione di rinfrescar le dolci memorie del suo soggiorno a Costantinopoli e di conoscere alcuni del seguito dell imperatore, coi quali più tardi strinse intima amicizia, p. e. 1 Aurispa. Fu in quella circostanza che egli seppe una cattiva novella. Gli raccontarono come il Filelfo introdottosi in casa di Giovanni Crisolora, nipote del morto Manuele , ebbe commercio impudico con la moglie e indi sposo la figliola. Il Poggio riferisce alquanto diversa-mente: che il Filelfo abusando dell’ospitalità offertagli dal Crisolora gli viziò la figliola e che indi per interposizione GIORNALE LIGUSTICO di alcuni mercanti italiani lo scandalo fu riparato con un matrimonio. Il giorno dopo Γ imperatore riprese il viaggio. 118. Ai primi di maggio troviamo Guarino già in villa; ciò significa che la pestilenza faceva progressi. Questa volta non è la villa di Valpolicella, ma di Montorio, altra bella posizione dei dintorni di Verona. Montorius è il mons ώραίος, il mons speciosus, come Polizella è πολύζηλος, il paese desiderato. Le stanze doveano essere un poco in disordine ed egli pone subito mano a racconciarsi la propria camera da letto, incaricando l’amico Faella di fornirgli da Verona dei mattoni. A Montorio stava a suo agio, senza troppe preoccupazioni, ora godendosi la campagna, ora studiando e corrispondendo con gli amici e scolari, che erano chi in città, chi fuori. Tra gli scolari ne incontriamo tre nuovi : un veneziano, Bernardo Giustinian , figlio di Leonardo , amico di Ermolao Barbaro; un veronese, Bartolomeo Genovesi; un fiorentino, Mariotto Nori, del quale avremo occasione di occuparci ancora più tardi. 119. Da Montorio poi faceva frequenti escursioni nei paesi circonvicini a trovarvi gli amici. Così il 26 maggio andò a visitare Giacomo Lavagnola nella sua villa di Poiano; il 4 e 5 giugno fu a Zevio « a rinfrescare l’amicizia » col Faella, che da forse un mese era stato nominato vicario di quel distretto. Qualche giorno dopo dovette incontrarsi a S. Sofia col Salerno e col Maggi e insieme con essi fece la seconda passeggiata a Zevio. E questa seconda riuscì oltre ogni credere dilettevole. « Sta bene lo studio, dice Guarino, ma di quando in quando uno svago ci vuole: tanto per ristorare le forze e tornare al lavoro con maggior lena. In fondo il frutto delle lettere non è mica di amare la solitudine, ma anzi di fuggirla e imparare a vivere nel consorzio degli uomini: non basta vivere, bisogna anche convivere ». Il Faella, che conosce il gusto dei suoi ospiti, li accoglie pre- GIORNALE LIGUSTICO II9 sentando loro senz’ altro un bel codice antico di santi padri. Non ci volea di meglio per Guarino, che lo contempla avidamente e rispettosamente e vi leggicchia dentro qua e là. Eccoli intanto a mensa i quattro bravi amici: ma « mensa socratica » , sobria e per compenso condita di motti arguti, di urbanità , di citazioni classiche , di serietà e di facezie. « Si siede non tanto per mangiare, quanto per ragionare ». E dopo la mensa non mancarono i canti e i suoni. Perchè doveano mancare? « Non fa Vergilio cantare il crinito Iopa alla mensa di Didone ? e Omero non fa cantare Demodoco alla mensa di Alcinoo ? » 120. Il 25 giugno passò dalla villa di Montorio a quella di Valpolicella per assistere alla mietitura: « l’occhio del padrone ingrassa il cavallo ». Ivi trovò anche il tempo di tradurre i Paralleli di Plutarco e mandarli al Lavagnola. Ma non era trascorso un mese dacché stava a Valpolicella, quando Guarino sente parlare di casi di peste anche nei paesi limitrofi alla villa. Visto dunque che tanto in città , quanto nel contado non c’ era più scampo , si risolse di cercare altrove un rifugio e sceglie Venezia. Intanto andrà egli solo a preparare il posto; indi tornerà a prendere la famiglia. 121. Partì il 28 luglio, pernottando a S. Martino in casa dell’ amico Concoreggio , per trovarsi pronto il mattino seguente di buon’ ora. Andò a Venezia, preparò il posto e dopo pochi giorni fu di ritorno a Verona, dove trovò una brutta novità, la morte del padre di Battista Zendrata. Fa intanto i fagotti e con la moglie e i due bambini va a S. Martino. Ivi mette la moglie, incinta, su una mula, carica i due bambini in due corbelli su un’ altra mula, monta a cavallo anche lui e la carovana si muove alla volta di Este per passare di là a Venezia. Ma che è che non è, la famiglia di Guarino agli ultimi di agosto si trova a Trento. Probabilmente appena messisi in cammino , ebbero notizia del divieto ai Veronesi 120 GIORNALE LIGUSTICO di entrare a Venezia, perchè provenienti da luogo infetto. Allora Guarino mutò strada e si riparò nel Tirolo. Ivi portò anche la suocera. 122. Si rifugiò dapprima a Trento , ma anche là dopo qualche giorno si ebbero casi di peste; e allora egli mutò residenza e ancora ai primi di settembre si trasferì in un paese vicino, a Perzen o Pergine. Il paese gli fece un’ ottima impressione. Già era di buon augurio il nome stesso, da περί ζψ (pro vita). « Bella la posizione. Sull’alto del colle il castello, a basso le abitazioni, all’ intorno campi ben coltivati, verdeggianti prati, orti fiorenti. Scorre tra mezzo il paese un fiumicello, che con le onde cristalline invita a bere e col mormorio concilia il sonno ; e lì presso tre laghi. Ivi divertimenti di caccia e di pesca. Gli abitanti poi abbastanza ospitali e servizievoli ». Questa fu la prima impressione ; ma dovette ben presto modificarla e infatti più tardi sentiamo che egli giudica molto diversamente i Tirolesi, chiamandoli barbari ed eterni beoni. Un tal concetto dei Tirolesi egli del resto l’aveva alcuni anni innanzi, quando nel 1419 scrivendo al Maggi, che stava a Riva di Trento, diceva di quegli abitanti coi suoi soliti scherzi di parola : ii non tam filiis vacant quam phialas vacuant nec tam liberos patres erudiunt quam Liberum patrem hauriunt. 123. Ed ora al Maggi stesso compie il quadro: « Alcuni popoli ebbero protettore Saturno, altri Nettuno, altri Apollo; qui il patrono è Bacco. A lui è sacro tutto l’anno, anzi tutta la vita di questa gente; ma c’ è poi la sua testa solenne. Quel giorno, mattino, mezzodì e sera, è un continuo trangugiare inni a Bacco e tutti bevono e chi più beve più crede campare. Uno tracanna i tre secoli di Nestore, un altro tracanna la longevità propria e quella dei figli e dei nipoti. Chi vuota il bicchiere tutto d’un fiato, vive lunga età; chi non lo finisce , guai per lui ! la vita gli si troncherà a mezzo. E io GIORNALE LIGUSTICO 121 che vedo tutto ciò e che ne sento nausea, devo far l’occhio ridente e batter le mani. Me mi chiamano la gru, perchè ho il collo liscio e sottile. Questa gente qui, uomini e donne, hanno il gozzo e taluni tanti piccoli gozzi, come se portassero intorno al collo una collana di ova. E come ne vanno superbi! e chi non ne ha, peggio per lui. Infatti ne vuoi sentire una? Testé è rimasto vacarne un posto di parroco. I candidati erano due e il paese tentennava assai nella scelta, quand’ ecco si presenta un terzo competitore con un enorme gozzo. Manco a dirlo; è stato scelto lui, per quanto fosse ignorante e poco costumato; ma l’uomo gozzuto qui è il Messia ». Altrove chiama porci i Tirolesi, aggiungendo che temeva non gli accadesse quello che accadde ai compagni di Ulisse nell’ isola di Circe. 124. Fatta però la dovuta tara allo scherzo e all'esagerazione , nel Tirolo Guarino non si trovò male, eccetto le preoccupazioni per il prossimo parto della moglie e per la scarsezza del danaro. Ma per il danaro pensava il suo parente Zendrata, che ora gli riscuoteva alcuni piccoli crediti, ora si faceva anticipare la mesata dello stipendio. Del resto Guarino ricorreva in ogni suo bisogno alla sagace e affettuosa cura dello Zendrata, col quale corrispondeva frequentemente per mitigare così il dolore dell’ assenza. Si teneva in stretta relazione anche col Maggi , al cui consiglio faceva sempre capo prima di prendere qualche grave risoluzione. Nè dimenticava gli altri amici che erano a Verona, quali i fratelli Cattaneo , Damiano Borgo , Leonardo Alighieri, il Guidotti, il Nori, il Genovesi ; o fuori di Verona , come il Faella vicario a Zevio e il Salerno rifugiatosi per la peste a Reggio. 125. Ma intanto a Verona si preparava una brutta sorpresa al nostro Guarino. Un poco profittando della sua assenza, un poco della circostanza che tra qualche mese gli scadeva il quinquennio, un poco della maligna calunnia messa in giro 122 GIORNALE LIGUSTICO da taluni che egli curasse più gli scolari interni che non pubblici: profittando di tutto ciò qualche suo invidioso prese a muovergli guerra e tanto maneggiò che il Consiglio del comune stava per pigliare la deliberazione di non rinnovare il quinquennio a Guarino e di licenziarlo. Lo Zendrata e il Maggi si adoperarono molto in quest’ occasione per scongiurare il pericolo; ma chi più di tutti ruppe una lancia per l’onore di Verona e di Guarino, fu un suo discepolo, il quale pronunziò davanti al Consiglio un bellissimo discorso, splendido monumento della riconoscenza professata dal discepolo e dell’ affetto inspirato dal maestro. Peccato che il caso ci abbia negato il nome del generoso giovane. 126. Comincia egli col dire che quella è la sua primizia letteraria e che intende offrirla alla gratitudine che nutriva verso il precettore. Traccia la vita di Guarino per sommi capi, rammentando i suoi primi studi, l’andata a Costantinopoli, il ritorno, la condotta a Firenze, a Venezia, a Verona. Ricorda gli onori e gli elogi tributatigli dalla casa imperiale di Costantinopoli, dai suoi scolari, Γ invito a Mantova rifiutato, la magistratura di Scio. Mette in rilievo le benemerenze civili di Guarino verso Verona, ma soprattutto il suo carattere morale, di cui fa un quadro commovente, in particolar modo dove parla della sua generosità nel perdonare o non nuocere ai suoi nemici e del suo amore per la giustizia nel proteggere i deboli contro i prepotenti. Quanto alla calunnia che Guarino prediligesse gli alunni interni a scapito dei pubblici, la respinge sdegnosamente ed energicamente, egli che come studente pubblico non si accorse mai di quella parzialità. 127. Questo fu un altro piccolo trionfo per Guarino, come nel 1421 : quantunque egli non avea bisogno di una simile soddisfazione, chè gliene era stata data una da fuori, la quale potea ben compensarlo delle misere invidie di qualche suo GIORNALE LIGUSTICO I23 concittadino. Infatti nella prima metà di novembre gli venne un invito da Venezia e uno da Bologna. L’invito di Bologna « era più onorifico per l’antichità e la fama di quell’Ateneo », l’invito di Venezia « era più lucroso per le vecchie e rispettabili conoscenze » che vi avea Guarino. Egli stette in forse fra le due città, ma nel medesimo tempo interrogava gli amici di Verona per sentire gli umori del Consiglio; giacché egli « preferiva un modesto collocamento in Verona a uno lauto altrove ». Il partito degli onesti vinse e lo Zendrata esortò Guarino a ritornare in patria; ciò prova che la rielezione era assicurata. 128. L’ appianamento di questa difficoltà fu coronato dal parto felice della moglie, la quale il 7 decembre a Trento, dove erano tornati da Pergine il 21 novembre, diede in luce un maschio. Guarino e i parenti furono contenti del maschio e il padre gli mise nome Manuele per gratitudine verso il suo antico maestro e perchè il figlio avesse uno stimolo continuo a ben fare, se voleva rendersi degno del nome che portava. Cosi Guarino può pensare al ritorno. Intanto partì lui agli ultimi di decembre, lasciando a Trento la moglie e i bambini, per il ritorno dei quali si sarebbe atteso che fosse passato il crudo rigore invernale. 129. Era appena tornato Guarino, che il Consiglio nella seduta del 10 gennaio 1425 lo confermò per un altro quin quennio con le medesime condizioni del primo. Però nelle considerazioni che accompagnano la proposta ce n’è una nuova e che torna a lode di Guarino, dove si dice che il Consiglio, avendo inteso dei molti onorifici inviti pervenuti a Guarino da altre città, reputava conveniente non lasciarsi sfuggire un personaggio che era di decoro e di utilità a Verona. La famiglia avrà forse aspettato la primavera; certo era di ritorno nel principio dell’ aprile. Guarino pertanto riprese tranquillamente le sue occupazioni, intramezzate da I24 GIORNALE LIGUSTICO qualche gita fuori. Così ne fece una nell’ aprile a Vicenza a trovarvi il Barbaro e il Biondo, ne fece una nel luglio a Montorio e una terza a Venezia nel 16 ottobre per un pubblico incarico. 130. Ma la gita a Montorio fu per una funesta circostanza, la morte della suocera , che egli amava e apprezzava molto perchè virtuosa quant’ altra donna mai. « Le faccende domestiche erano per essa un passatempo ; avea senno e prontezza virile negli affari di maggior gravità; conosceva bene il mercato, ponderava le parole, nelle liti era rispettato il suo consiglio, in casa faceva ella da medico ». Era morta di perniciosa sulla fine di giugno e Guarino sentì bisogno di un poco di pace campestre per mitigare il dolore della perdita. Nel-l’autunno non andò egli a Valpolicella, mandò invece la moglie a sorvegliare la vendemmia, poiché essa dopo la morte della madre « era diventata erede come delle sostanze così delle incombenze materne ». 131. Intorno all’agosto incontriamo a Verona il Giuliani coi figli e con Filippo Camozzi, maestro di casa. Forse era venuto con qualche pubblico incarico del governo di Venezia. Con altri due amici veneziani si trovò Guarino agli ultimi di settembre: i due Ermolai, il Barbaro già suo scolaro e il Donati. Il Donati veniva da Vicenza, dove stava col podestà Francesco Barbaro, a visitare Verona che non aveva mai veduto. Guarino gli fece da guida. 132. Quest’anno abbandonarono la scuola di Guarino due dei suoi più famosi allievi: Martino Rizzoni veronese, più tardi maestro della Isotta Nogarola, il quale andò nel settembre a Venezia come institutore privato in casa Tegliacci; e Giovanni Lamola bolognese, che a un dipresso nel medesimo tempo si ritirò a Bologna, di dove lo ritroveremo nuovamente in corrispondenza con Guarino. 13 3- Nel giugno dell’anno seguente 1426 ci fu Γ arrivo in GIORNALE LIGUSTICO I2> Verona dei figli Paolo e Bonaventura di Giacomo Zilioli consigliere del marchese di Ferrara; essi venivano alla scuola di Guarino e con ciò si rendevano più intimi i legami d’ affetto della famiglia Guarini con la corte di Ferrara. 134· nello stesso mese un avvenimento triste conturbò l’animo di Guarino: la morte di Giannicola Salerno, rapito nella età di soli 47 anni agli amici e alla patria, l’amico d’infanzia e il condiscepolo di Guarino e più tardi il suo rispettoso e amorevole scolaro. Incontrandolo poco innanzi un suo conoscente mentre andava a scuola da Guarino: « Cavalier Nicola, gli disse, che vai a fare a scuola a codesta età » ? A cui Nicola: « A viver la vera vita, la vita dello spirito ». « E quando finirai » ? « Quando sarò stanco di diventar più dotto e più virtuoso ». Guarino più che per i suoi meriti come magistrato, lo ammirava per la sua grande virtù. Sono singolari i giudizi che del Salerno hanno dato Lorenzo Giustinian e Bernardino da Siena: due monaci che la chiesa ha beatificati. Il Giustinian diceva che chi amava Dio non poteva esimersi dal venerare il Salerno. Bernardino poi dopo aver avuto un colloquio col Salerno, nel partirsi da lui si battè il petto esclamando: Povero me, che mi credevo che la virtù albergasse sotto la cappa del monaco ; sotto la cappa di quel cavaliere ce n’ è tanta da farmi arrossire. Quando morì era uno degli amministratori per la guerra di Venezia col Visconti e nella carestia che in quel tempo travagliava Verona egli si adoperò assai a provvedere di grano i suoi concittadini. Guarino gli elevò un perenne monumento d’affetto in una delle sue più belle orazioni, che egli recitò pubblicamente : « piangeva egli e piangeva il pubblico che lo ascoltava ». Indi la mandò al Rizzoni a Venezia, perchè la diffondesse tra i comuni amici dell’ estinto, quali i Giustinian e i Barbaro. 135. L’ autunno di quest’anno toccò a Guarino andare a 126 GIORNALE LIGUSTICO Valpolicella a sorvegliare la vendemmia. La moglie dovette stare a Verona per il parto e Γ n ottobre diede in luce il quarto figlio , Gregorio. Nè « tra lo spumar dei tini » dimenticò gli studi, chè tradusse in quei giorni il Filopemene di Plutarco e lo dedicò al Maggi. E nemmeno mancarono le riunioni geniali degli amici, che andavano a Valpolicella a passare un paio di giornate. Anzi in una di quelle occasioni , dopo pranzo, Guarino comunicò « per frutta », egli dice, una lettera da Firenze di Mariotto Nori. Erano presenti il Lava-gnola, il Genovesi, il Brugnara, il Faella, il Maggi e altri. A Firenze per opera di un « uomo di vetro », di un « fanfarone » era successo un piccolo scandalo alle spalle di Guarino; e il Nori gliene dava partecipazione. Guarino ben lontano dall’adontarsene, lesse in crocchio e commentò la lettera, ridendo egli il primo ed eccitando le risate dell’ uditorio. 136. Nel 1427 Guarino fabbricò. I figli gli crescevano, egli dice, e la casa doveva essere allargata. In effetto i figli crescevano, perchè dal 1421 al 1426 gliene nacquero quattro e presentemente la moglie era incinta del quinto, che nacque tra l’ottobre e il novembre e fu anch’ esso maschio, Niccolò. Guarino non sospettava certo che il numero avrebbe continuato a salire fino ad arrivare nel 1441 a tredici: e tutti vivi! Per un uomo che aveva preso moglie a 45 anni non c’era male. I lavori della fabbrica lo importunarono alquanto. « Non mi chieder lettere, scrive al Rizzoni, perchè le riceveresti piene di polvere e di arena. Mattoni, cementi, calcinacci mi rintronano le orecchie, mi offendono le narici; non prendo più libri in mano e son quasi diventato muratore aneli’ io , sporcandomi tra i ferramenti e la calce. Non vedo 1' ora di uscirne ». 137. Questo scriveva nell’agosto; nel settembre era a Valpolicella. Ma nemmeno in villa gli die’ pace la fabbrica; c’erano sempre dei residui da ultimare, per i quali si serviva 127 della cooperazione dell’ amico Benedetto Cremonese, maestro privato. Benedetto era amico della famiglia Guarini e anche della gazza che formava la delizia del piccolo Girolamo; anzi gliela mandò a salutare. Girolamo fu molto soddisfatto del-Γ attenzione. Il secondogenito Esopo Agostino, che, come il suo omonimo favolista greco, « si dilettava di fiabe e di apologhi rusticani », andò in campagna a S. Floriano a trovare la sua balia , ma ivi ammalò; poco dopo però era fuori di pericolo. 138. Da Valpolicella avea Guarino progettato un’altra gita, come quella del 1419, al lago di Garda col Brenzoni, ma non si potè muovere, un po’ perchè avea continue visite di amici veronesi, un po’ perchè il numero dei convittori che portava con sè era tanto grande , che quando uscivano « pareano uno stormo di uccelli o di locuste: dove trovar mezzi di trasporto e alloggio per tanta gente? » La sera del 13 ottobre vide dalla villa un gran splendore di fiaccole a Verona. Egli non ne indovinava il motivo; seppe dipoi che si festeggiava la battaglia di Maclodio, vinta il giorno avanti (12 ottobre) dal conte di Carmagnola, condottiere al soldo della repubblica veneta, contro il Piccinino, condottiere al soldo del Visconti. T39· Quel fatto d’arme levò gran rumore allora e commosse l’animo anche del nostro Guarino, che ideò un’orazione in lode del vittorioso condottiero. Intorno all’orazione lavorava nel principio del 1428; nel febbraio era già compiuta. Dopo di aver detto nell’ esordio che anche il tempo presente non difetta di uomini illustri e che è giusto rendere il dovuto omaggio alla grandezza del Carmagnola, Guarino divide il discorso in due parti. Nella prima parte espone la vita del condottiero , nella seconda ragiona delle sue virtù militari e civili. Le virtù militari vengono messe in luce specialmente con la vittoria sul Malatesta a Brescia (del 1421) 128 GIORNALE LIGUSTICO e con la vittoria di Maclodio (del 1427) ; le virtù civili col governo di Genova affidatogli dal Visconti. Termina Guarino col celebrare la repubblica veneta, che seppe comprendere e apprezzare i meriti del voloroso condottiero, quando appunto egli era fatto segno all’ invidia e alla calunnia. 140. La prima metà dell’ anno 1428 corse tranquilla. Ma tra la fine di giugno e il principio di luglio si manifestarono dei sintomi di peste a Verona. I cittadini cominciarono a mettersi in salvo e gli scolari disertarono le lezioni ; allora anche Guarino provvide ai casi suoi e si ricoverò a Valpolicella sulla fine di luglio. Ivi stette almeno un tre mesi, attendendo sempre allo studio con gli allievi convittori, e quando si assicurò che il pericolo era cessato, tornò in città. Nel decembre i timori si rinnovarono e già erano corse pratiche tra Guarino e lo Zilioli per cercare un rifugio in Ferrara. 141. Sui primi del 1429 abbiamo una sosta. Però nel marzo si riaffaccia il pericolo: ci furono alcuni casi di morte. Che si farà ? giacché Guarino sente che anche Ferrara è minacciata. Negli ultimi di marzo le morti aumentano e Guarino ha ricevuto un nuovo invito di recarsi a Ferrara. Questa volta alle premure dello Zilioli si sono unite quelle del marchese; Guarino non può rifiutare e ringrazia. Ma come staccarsi dai suoi Veronesi, che gli vollero tanto bene? Gli bisogna tempo : « non uno strappo vuol essere, ma una scucitura » ; aspettino almeno tutta l’estate che egli possa accomodare le sue faccende. 142. Se non che il morbo incalza e il tre d’aprile Guarino si decide alla partenza, domandando al marchese la lettera di passo per i suoi stati; chiede al Consiglio di Verona la licenza di assentarsi con la famiglia e gli viene concessa con deliberazione del 7 aprile. Qualche giorno dopo imbarcò la famiglia e poche masserizie e per l’Adige prese la via di Ferrara, dove lo troviamo già il 23 d’ aprile. GIORNALE LIGUSTICO 129 143. Guarino in Verona insieme con le funzioni di maestro esercitò anche quelle di cittadino. Non passò anno dal 1420 al 1428, in cui egli non avesse un posto nelle pubbliche amministrazioni della sua città. Fu dei 72 deputati lotius anni nel 1421. Fu consigliere aggiunto nel 1422, consigliere effettivo dei 50 nel 1423, 1425, 1427, 1428; consigliere dei 12 nel 1424, 1426. Nel 1425 fu della commissione per il riordinamento dello spedale di S. Giacomo e Lazzaro. 144* Fece paite di parecchie ambasciate: dì una a Vicenza nel 1425 per umi questione di acque che danneggiavano il territorio veronese; di una a Venezia nel 1424 per una questione che aveva il comune di Verona col clero riguardo alle collette. È questa probabilmente i’ ambasceria, nella quale Guarino « mise in opera tutta la propria energia, affrontando anche coraggiosamente le suggestioni degli avversari ». Per la medesima questione tornò a Venezia nel 1425. Ambasciatore a Venezia lo incontriamo anche nel 1428 per ottenere l’allontanamento di alcune bande armate, che infestavano le campagne del Veronese. Quando non poteva andare egli in persona , scriveva. Così scrisse a Francesco Barbaro raccomandandogli l’interesse di alcuni Veronesi ; scrisse a Daniele Vettori parole forti e infiammate per muovere il governo della Serenissima a mettere un riparo alle continue sollevazioni dei contadini delle campagne veronesi; scrisse a Lodo-vico principe di Fermo nel suo passaggio per il territorio di Verona pregandolo dì risparmiare i contadini. 145. Nelle occasioni solenni la parola dotta ed elegante di Guarino si faceva interprete dei sentimenti universali della città, come nel 1423 per 1’ elezione del doge Francesco Foschi , nel 1424 per la venuta in Verona dell’imperatore di Costantinopoli. Ogni anno poi all’ entrare o all’ uscir di carica dei podestà e capitani, che la Serenissima mandava a Verona, Guarino componeva quei discorsi d’uso, ai quali Giorn. Ligustico. Anno XV111. 9 GIORNALE LIGUSTICO sapeva sempre dare un certo carattere di originalità. Essi ci sono rimasti tutti ; e quanto piacessero allora , è dimostrato dal gran numero di esemplari che ne furono tratti. Guarino faceva anche il consulente gratuito, soprattutto quando era chiamato in lite qualche povero , che non aveva i mezzi e tanto meno il coraggio di tener testa alle prepotenze di qualche insolente. 146. Questo il quadro della vita e dell’ operosità di Guarino negli anni che dimorò a Verona. Ma Guarino non visse solo per Verona e per i Veronesi, sibbene anche per gli amici e colleghi che avea di fuori; anzi per un umanista la vita consiste più, si può dire, nel commercio epistolare con gli amici di fuori, che negli avvenimenti del luogo dove egli insegna. E noi infatti vedremo che una vasta e molteplice rete di relazioni congiunge Guarino con un gran numero di città e di circoli letterari, i quali saranno ora passati brevemente in rassegna. Così avremo la seconda parte e il compimento del quadro. 147. Per cominciare dalle città della Serenissima repubblica veneta e dall’ estremo settentrione, incontriamo a Ci-vidale nel Friuli un gruppo d’amici, anzi di parenti di Guarino per parte di sua moglie : i Gioseppi, famiglia oriunda di Verona, della quale vivevano due fratelli Pietrobono e Costantino; aveano una nipote Bartolomea, cugina per parte di madre di Taddea, moglie di Guarino. Era allora in Verona Cecilia Ferrari, madre di Lodovico, un giovinetto che studiava con Guarino, cugino egli pure per parte di madre di Taddea e di Bartolomea. Le relazioni tra i parenti di Verona e di Cividale erano cordiali, perchè alla fine del 1423 Guarino avea ideato di rifugiarsi a Cividale per la pestilenza. I Gioseppi avevano interessi a Verona, pei quali si pigliava cura Guarino , che alla sua volta li teneva informati delle GIORNALE LIGUSTICO r3i proprie notizie, p. e. della morte della suocera, del numero dei figliuoli, della salute della moglie. Nel 1428 la Bartolomea si sposò a Giovanni da Spilimbergo, buon maestro di retorica, che insegno a Cividale e ad Udine; e da allora in poi si strinsero intimi legami di amicizia tra Guarir.o e il maestro Giovanni. L* annunzio del matrimonio fu dato da Giovanni stesso a Guarino, il quale rispose congratulandosi e accettando la sua amicizia. Lettere di congratulazione scrisse anche il piccolo Lodovico Ferrari. 148. Con Padova Guarino mantenne rapporti negli anni 1419- 1420, finché ci si trovarono il Gualdo ed il Barzizza, al quale ultimo domandò sulla fine del 1419 Quintiliano e Asconio Pediano, per cominciare il suo corso di retorica a Verona. Ma quando il Gualdo si stabilì definitivamente in Vicenza, sua patria, e il Barzizza nel 1420 si trasferì a Milano, invitato dal Visconti ad insegnare colà, vennero a mancare i principali vincoli che tenevano congiunto Guarino a Padova , se si eccettui il breve tempo nell’ estate del 1421 , in cui ci soggiornò il Barbaro, che era fuggito da Venezia per la pestilenza. 149. Vivissime sono invece le relazioni con Venezia. Di là giunse nel 1419 la triste notizia della morte di Giona Resti, vittima della pestilenza. Nel 1420 1’ amico Cristoforo 1 ai ma, il maestio vagante, lascio Venezia e andò a insegnare a Vicenza , sua patria , chiamatovi dalle continue insistenze dei concittadini, con gran dispiacere di Leonardo Giustinian, il quale aveva affidato alla sua cura il piccolo Bernardo. Il Giustinian quando dava a Guarino questa notizia stava a Murano, dove trascorreva tranquillamente i mesi del calore estivo , riposandosi dalle fatiche dei pubblici uffici e cominciando ad esercitarsi nel canto, che egli poi adattò alle Laudi, delle quali divenne in seguito autore fecondo e famoso. 150. A Venezia il Barbaro, che non aveva ancora princi- 132 GIORNALE LIGUSTICO piato la sua carriera diplomatica e amministrativa, continuava a studiare e a ricorrere a Guarino per lumi. Era anch egli ammogliato e la sua Maria già era diventata amica della Taddea di Guarino. E amici comuni erano molti Veronesi , quali il Maggi, il Pellegrini, il Brenzoni, i Verità. Nel 1421 il Barbaro peregrinò alcuni mesi a cagione della pestilenza che infestava Venezia e si incontro con Guai ino nel i ottobre a Montagnana. In quest’ anno Guarino compose Γ orazione funebre per Giorgio Loredan. L anno seguente un’ altra morte di persona veneziana lo rattristò , la morte di Bianca, modello delle madri di famiglia , figliuola di Francesco Pisani allora podestà di Verona. 151. La venuta di Ermolao Barbaro a Verona avea ìesi più intimi i vincoli di Guarino con la famiglia Barbaro. Era stata anzi progettata una gita di Guarino a Venezia, ma siccome era d’inverno e tempo piovoso, egli preferì, diceva, di andarci « con la penna piuttosto che coi piedi ». Del ìesto il Barbaro stava sulle mosse per recarsi a Treviso ad assumere la pretura di quella città, che fu il primo suo passo nella carriera pubblica. Entrò in carica agli ultimi di decembre 1422 e la depose nel decembre dell anno seguente. 152. In quell’anno (1423) Treviso diventò un piccolo centro umanistico; bastava il Barbaro per dar vita a un circolo letterario, ma ci capitò anche il Giustinian. Vi andarono pure i due famosi minoriti, Alberto da Sarzana, uscito allora dalla scuola di Guarino, e Bernardino da Siena, che dopo aver predicato a Treviso passò nel settembre a Feltte e indi a Belluno. Guarino invidiava al Barbaro e al Giustinian i colloqui coi due monaci ; e realmente i due patrizi veneti e Guarino appartenevano a quella categoria di umanisti, che conciliavano la cultura pagana con un sincero sentimento cristiano. Il Barbaro di natura sua tendeva all’ ascetismo e agli studi sacri; anzi dopo 1’ incontro con Ira Bernardino prese GIORNALE LIGUSTICO I53 1* abitudine di intestare le lettere da Gesù, di che più tardi lo canzonava il Poggio; il Giustinian fu cantore di Laudi ed ebbe un fratello beatificato, Lorenzo; Guarino era studiosissimo dei testi sacri ed ebbe in casa un figlio sacerdote, Manuele. 153. A questa piccola ma eletta schiera si aggiunse Flavio Biondo , che giunse a Treviso nella seconda metà inoltrata dell’anno stesso 1423. Il Biondo era andato nel 1422 da Forli sua patria a Milano a trattare in nome della sua città qualche pubblico interesse. Arrivò a Milano appunto nel tempo che il Barzizza era occupato a decifrare il codice Lo-digiano delle opere retoriche di Cicerone. E approfittò dell’occasione per trarsi copia del Brutus, che mandò al Giustinian a Venezia e a Guarino a Verona. Cosi si mise in relazione con gli umanisti veneti. Nel ritorno in patria si fermò a Ferrara, dove conobbe quei letterati, tra cui il Mazzolati; e fu anzi col mezzo di lui che fece recapitare il Brutus a Guarino. Arrivò in Forlì al principio del 1423 , quando già si preparava la sommossa contro gli Ordelaffi, alla quale prese parte anch’ egli. La sommossa scoppiò nel maggio, ma ebbe infelice esito , perchè la città iu occupata dal Visconti. Il Biondo con tutti gli altri complici dovette esulare. Errò in qua e in là; nel luglio ci comparisce a Verona, più tardi lo rivediamo a Ferrara, ad Imola; finalmente fu invitato a Treviso dal Barbaro, che lo prese come proprio segretario. E così il Biondo trovò per qualche tempo una posizione onorevole presso la repubblica di Venezia, di cui fu poi fatto cittadino. 154. Saputo Guarino dal Casalorsi che il Biondo era tornato col Barbaro da Treviso a Venezia, gli scrive per alcuni codici , che lo prega di fargli avere da Pietro Tommasi. Il Biondo e il Tommasi dunque si erano conosciuti. Nel gennaio e febbraio di quell’anno, 1424, i Veneziani ospitarono 134 GIORNALE LIGUSTICO l’imperatore di Costantinopoli, e il Barbaro e il Giustinian 10 accolsero con un discorso greco ; il che tornò a lode del loro maestro Guarino, il quale pochi giorni dopo vide pari-menti l’imperatore a Verona. Alla metà di aprile Guarino per un'ambasceria andò a Venezia e rivide gli amici. Troviamo quest’anno a scuola a Verona Bernardo Giustinian insieme con Ermolao Barbaro, ma le lezioni furono interrotte dalla pestilenza. I due allievi al primo affacciarsi del pericolo si rifugiarono a Venezia, dove contava di recarsi pure Guarino. 155. E ci andò infatti alla fine di luglio per apparecchiare 11 posto alla famiglia, ma tornato a Verona dovette mutar direzione, perchè Venezia chiuse i passi ai provenienti da luoghi infetti. Quando gli amici di Venezia seppero del di-spiacevole contrattempo e che Guarino era confinato sulle montagne tirolesi, tutti unanimi, il Parma, il Barbaro, il Giuliani, i Giustinian, sin dal principio di settembre fecero pratiche presso Guarino per trarlo fuori di là in luogo migliore e gli offrirono intanto Murano, finché si fosse tolto il divieto. Non accettò, forse perchè a Pergine si era accomodato abbastanza bene. Qualche mese dopo Venezia offriva a Guarino un nuovo collocamento come professore; la proposta partì dal Barbaro, dal Giustinian e dal Giuliani. Guarino stette un po’ in dubbio ma poi rifiutò, perchè riconfermato a Verona. 156. Del 1425 andò a stabilirsi in Venezia il suo scolaro Martino Rizzoni in qualità di institutore privato in casa Te-gliacci. Guarino lo mise subito in relazione coi principali suoi amici veneziani e corrispondeva frequentemente con lui per sorreggerlo coi suoi amorevoli e savi ammonimenti nei primi passi della nuova carriera e animarlo nei primi sco-raggiamenti. Infatti non tutti i figli del Tegliacci corrispondevano alle cure del Rizzoni ; ma il vecchio maestro gli ri- GIORNALE LIGUSTICO I35 peteva di lasciar correre Γ acqua per la china, inculcandogli V uti foro di Terenzio. A suo tempo poi interpose i propri buoni uffici presso il Tegliacci per fargli ottenere un aumento di onorario. Nel 1426 Guarino si servi del Rizzoni per diffondere a Venezia l’elogio funebre del Salerno. Cosi l’ebbero il Giustinian e il Barbaro. Il Barbaro nella metà di quel-Γ anno era stato ambasciatore a Roma e nel ritorno a Venezia diede relazione a Guarino di una gita a Genzano e dei codici greci che vide nel chiostro di quel paese. Di un’altra ambasceria a Roma fu incaricato il Barbaro due anni dopo , nel 1428, e in quell’ occasione portò con sè il nipote Ermolao. 157. Nel 1427 ritornava da Costantinopoli a Venezia Francesco Filelfo , il quale avviò pratiche con Bologna per ottenervi un posto di professore. L’intermediario di queste pratiche fu Guarino. 158. Della stima che godeva Guarino a Vicenza fa testimonianza l’invito venutogli di là nel 1420 ad occupare il posto di insegnante lasciato libero dal Filelfo. Il Filelfo insegnò a Vicenza per lo meno l’anno scolastico 1419-1420; nel marzo del 1420 partì da Vicenza per Venezia e di là per Costantinopoli. Guarino , già nominato a Verona, non potè accettare. Intanto facea pratiche presso quella comunità per succedere al Filelfo Giorgio da Trebisonda, aiutato in ciò dalle raccomandazioni di Francesco Barbaro e di Pietro Tommasi ; anzi a questo scopo fece egli una corsa a Vicenza nel gennaio. Il Trebisonda riuscì nel suo intento e fu nominato professore a Vicenza. (Continua). R. Sabbadini. GIORNALE LIGUSTICO VARIETÀ G EN VA E NON IanUA SECONDO IL VeRNAZZA. Il barone Giuseppe Vernazza, che fu, non solamente archeologo, terso scrittore nella lingua del Lazio, epigrafista vaioloso e letterato nostro ragguardevole, applicossi altresì a molte e disparate materie. J1 perchè la sua miscellanea, che manoscritta si conserva nella palatina di Torino, viene consultata tuttodì con proficuo risultamento da quanti attendono agli studi bibliografici, letterarii ed artistici. La nummografia e la sfragistica furono pure argomento de suoi studii, ed a saggio darò qui una sua lettera, che credo inedita, e che si ritrova autografa nel volume 55 della citata sua Miscellanea. Essa fu scritta da lui il 12 luglio del 1816 a Gaetano Ambel procuratore generale del Re a Torino; ed è un erudito parere sull’ opportunità di scrivere Gtnva e non lamia trattandosi di accennare a quella città nella serie dei titoli che dovea far uso il Re di Sardegna, dacché quella Regina del Mediterraneo era stata unita dopo il trattato del 1815 al resto de suoi dominii. E che ben siasi apposto il Vernazza nella sua sentenza, ce lo confermano gli scritti di chiari autori, sussidiati dalla critica maggiore odierna. Basta leggere i dotti lavori dell’abate Raggio (1), del can-nonico Luigi Grassi (2) e di Giacomo Lumbroso (3) per dar piena ragione al filologo piemontese. La lezione quindi (1) Roma, discorsi due, Torino, 1848. (2) Nel volume III, pag. 525 degli Atti delia Società Ligure di Stor. Pat. (5) Giornale Ligustico, anno II (1875), pag. 325. GIORNALE LIGUSTICO I37 di Genua che secondo il Dilthey (Archiv für neuere Spr. u. Lit. CIII, i} p. 40) collega Genua (Genova) Genuce (Ginevra) e Genabun (Orléans o Gien) è la più esatta. Essa darebbe per base comune a questi tre nomi di città la radice gen, genu ginocchio. E così parimente il Beker nella Zaitschrift für die Altorbwnswissenschaft (1051, p. 451) è d’avviso che la forma primitiva si conservò più pura nei nomi Genua, genuenses e genuates della Liguria. Tale è pure la etimologia propugnata dal Vanicek, EtymoJogisches Wòrterbuch der Lateinischen Sprache (l&74> Ρ· 5°)· Insomma mentre i due primi di cotesti scrittori tedeschi riconoscono la ragione della denominazione di Genua in una nuova curva descritta dal mare o dal fiume, quest’ ultimo la scorge in una prominenza del suolo. Presentata la disertazione vernazziana alla classe delle scienze morali, storiche ecc. della R. Accademia delle scienze nel- 1 adunanza del 14 luglio 1816, essa fu unicamente accolta con queste parole, forse perchè trattandosi di un incarico avuto dal Governo, non si credeva di licenziarla al pubblico. « Il barone Vernazza ha letto una sua lettera scritta ieri al signor G. Ambel procuratore generale di S. Μ. I colleghi sulla proposizione del Conte Corte secondata dalla voce unanime, hanno determinato che sia copiata nel registro dell’adunanza di oggi ». G. Claretta. Al signor Gaetano Ambel procuratore generale di S. M. Torino, 12 di luglio 1816. Richiesto di esporre a V. S. ill.ma intorno alla leggenda delle nuove monete del Re il mio parere, io non penso che Genova si possa latinamente scrivere in alcun altro modo che Genva. Così fu scritto da Tito Livio, così dal maggior Plinio. E la famosissima tavola di bronzo anteriore di più di cento i38 GIORNALE LIGUSTICO anni all’era volgare, trovata nel 1507 in vai di Polcevera, che ancor presentemente si conserva in Genova dice Genvates. È vero che le monete della città di Genova coniate nel privilegio del 113 9 nella quale vogliamo comprendere anche quelle di Galeazzo Maria Sforza trucidato a Natale 1476 hanno la parola lamia; e similmente in quella del Re Lodo-vico XII si trova Comvnitas Ianve, ma l’uso dei bassi tempi non dee poter prevalere all’ autorità certissima dei Romani. Le monete dei Dogi, cominciando da Simon Boccanegra che fu doge dal 1339 al 1344, e per la seconda volta dal 1356 al 1363, e le altre dei dogi hanno dvx Janvensivm ovvero come in quella di Niccolò Zoagli del 1394 dvx Ianvae. E questo è anche un motivo acciocché il Re usi Geriva; onde imiti piuttosto la consuetudine latina che non quella dei Dogi. Non è già come successore dei dogi che il Re acquistò 1’ autorità di coniar monete in Genova e di qualificarsi duca di Genova. Dal nuovo sistema italiano confermato dal trattato di Parigi de’20 novembre 1815, il Re ha la sovranità di tutto il territorio della soppressa Repubblica di Genova. Adunque nella città di Genova, divenuta città di provincia, il Re può come in qualunque città o terra de’ suoi dominii aprire 0 chiudere a piacer suo la zecca ed esercitarvi ogni atto regale. Inoltre nel 1556 e nel 1579 sì vede nelle monete genovesi dvx et gubernator Reipublice Genvensis sicché anche i Genovesi , disingannati dalla tavola sopradetta di bronzo, si accorsero finalmente che Γ uso di Ianva era uso d’ignoranza. Quando poi si scrive con maiuscole il latino, si dee stare alla ortografia delle monete, dei marmi, dei bronzi, dei codici antichissimi. In nessuno di questi luoghi si trova mai nè la I nè la U che sono invenzioni della stampa francese del 1550, nè se non rarissimamente, e nè anche ne’ secoli buoni la vocale E si trova unita con un sol nesso alle vocali A ed O per formar dittongo. giornale ligustico i39 Io penso che la dignità del Re si dee mantenere anche nelle cose minute e minime, e che per conseguenza dee la sincera ortografia scrivere Dux GenvAE , e che nelle monete non dee introdursi alcun punto fra Γ una e Γ altra parola ancoraché si tratti di vocaboli troncati. Altrimenti non s imiterebbero più i Romani, Γ autorità dei quali non si può ricusare. Ho 1 onore di essere col maggior rispetto Di V. S. 111. Dev. obbl. Servitore, il barone Vernazza. SEPOLCRO LIGURE SCOPERTO IN AMEGLIA — OTTOBRE 1890 Il contadino proprietario Francesco Marchi d’Ameglia in questo Circondario nel ridurre a coltivazione un suo terreno boschivo presso quella borgata, alla profondità di più che un metro, s’ avvenne in un grosso cumulo di pietre di cava del-1’ altezza di circa met. 0, 40 sotto il quale stava un lastrone di pietra bruna della Vicina Puna del Corvo ; rimossa ogni cosa, gli si presentò allo sguardo una cassa di pietra quadrilatera contenente parecchi vasi. Il Marchi ebbe la lodevole idea, non comune a tutti nel suo caso, di richiudere la cassa non solo, ma di tenerla in custodia nella notte successiva onde non avvenissero guasti , e mandò ad avvertirmene. L’ addomane 20 ottobre per tempo fui sul luogo, ed ebbi la rara soddisfazione di ritrovare il tutto nelle migliori condizioni. È una cassa sepolcrale orientata a N E, formata da sei lastre della pietra bruna, 0 marmo bardiglio del Corvo, esattamente lavorata a forma quadrilatera , colle dimensioni di m. 0, 67 in lunghezza, 0,41 in larghezza e circa 0, 40 in profondità. I lati più piccoli ben riquadrati, sono tenuti fermi sulla lastra del fondo dai due più grandi sporgenti, dalla 140 GIORNALE LIGUSTICO terra pigiata esternamente e dal pesante lastrone coperchio che basava con esattezza sulle quattro lastre laterali. Ed è tanto perfetta questa costruzione, che, ad onta d’un parziale abbassamento del terreno, non penetrò nell’ interno dalle connessure che poca acqua infangata, la quale ha lasciato nel fondo un deposito della spessura di circa sei centimetri di sottilissima mota ed un leggiero intonaco intorno ai vasi. Nell’ interno della cassa erano cinque ossuarii, quattro vasi accessori, quattro unguentari ed una cuspide di lancia con relativo puntale. I vasi eran tutti inclinati a N E in causa dell’ abbassamento del terreno sopra indicato , ed i coperchi usciti di posto poggiavano sul rispettivo ossuario : potei pero constatare che gli stessi cuoprivano i vasi col piede in alto. Gli ossuari contengono in buono stato le ossa cremate; nei tre maggiori sono ossa d’adulti, nei più piccoli di bambini. I vasi erano collocati in gruppo nel mezzo della cassa, e cosi distribuiti. Alla sinistra dello spettatore (che supponiamo appoggiato al lato N E della cassa) Γ ossuario che descrivo al η. i. Che è il più grande; presso al lato di prospetto il n. 2. Che gli succede in dimensioni; presso al n. 1 verso il lato N E avvicinandosi al centro i numeri 3 e 4 ed in ultimo il n. 5. Negli interstizi e presso ciascun ossuario erano collocati quattro unguentari, e tutt’ intorno quattro vasetti accessori , de’ quali, il più grande una coppa ansata, presso 1’ angolo N N O. Appoggiata allo stesso angolo era la lancia, ritta, colla punta sul piano inferiore della cassa : poco discosto ii puntale , rovesciato presso il lato N E. Nell’ interno dell’ ossuario n. 2 e superiormente alle ceneri, erano due fibule, una d’ argento 1’ altra di ferro , un fermaglio da cinturone, un anello di bronzo, e due targhette pure di bronzo ritore alle estremità a modo di gancio. Nell’ altro n. 3 un piccolo fermaglio da cinturone, e nel n. 4 il gastone d’ un piccolo anello di bronzo. GIORNALE LIGUSTICO I4I Dei cinque ossuari, quattro sono a largo ventre , senza manichi, senza piede, con breve collo sporgente , di pasta rossigna, non raffinata e mista a qualche frammento di pietra, fatti a mano, mal cotti, spalmati in nero e senza ornamenti. L attro ossuario assai piccolo ha forma di cono tronco, fatto al tornio con creta rossa raffinata, ben lisciato e senza alcun ornamento. Se ne ha un bell’asemplare a Cenisola in maggiori dimensioni. (V. Notizie 1879, tav. Vili, fig. 8). Le ciottole coperchio son tutte fatte al tornio con creta più fine, verniciate in nero. Sono diligentemente lavorate, ben cotte, con piede e senza manichi : la forma a campana non è eguale in tutte, più o meno rigonfiata, con labbro ritto o rientrante. Una nel fondo interno ha un’impronta indecifrabile. Ossuario n. 1 altezza m. 0, 26, diametro della bocca 0, 20, massima circonferenza in parte superiore 0,75. Ciottola coperchio altezza 0, 10, diametro 0, 20. n. 2. alt. m. 0, 19, diam. bocc. 0, 10 circ. mass, in par. sup, 0, 60. Ciott. cop. alt. 0, 09, diam. 0, 14. n. 3. alt. m. 0,12, diam. bocc. 0,10, mass. cìrc. par. sup. 0,41. Ciott. cop. alt, 0,05, diam. 0, 13. n. 4. alt. 0,20, diam. bocc. 0,12, mass, circ. mediana o,66. Ciott. coper. alt. 0, 09( diam. 0, 16. n. 5. forma conica alt. 0, 10, diam. bocc. 0, 10. Ciott. cop. alt. 0,05, diam. 0, 12. I quattro unguentari 0 lacrimatoi fusiformi sono in creta rossa, fatti al tornio e differiscono fra loro nelle dimensioni da cent. 8 a 14 in altezza e da cent. 8 a 12 in circonferenza. Tra i vasi accessori il più che si distingue è una coppa alta m. 0,08 col diametro di 0,13, con piede sporgente, fatta alla ruota; ha due anse in forma di anelli orizzontali; è in creta rossa verniciata in nero, e per ornamento ha nel fondo interno due cerchi concentrici, intorno ai quali son 142 GIORNALE LIGUSTICO disposte sette palmette improntate e chiuse dentro una fascia di cinque cerchi composti da lineette oblique. Altri due son fatti a mano in modo rozzo e grossolano, spalmati in nero, con largo ventre, breve collo, larga bocca e labbro sporgente. Uno ha Γ altezza di ni. o, 07, diam. bocca 0,07, mass, circonferenza 0, 21, l’altro alt. 0,06, diam. bocc. 0, 05 , mass. circ. 0, 10. Il terzo presso a poco eguale agli altri nella forma, ha la bocca più ristretta, e da un lato un’ ansa a cordone che dal ventre va ad attaccarsi al labbro. Alt. m. 0, 12, diam. bocc. 0,05, mass. circ. 0, 15. Gli oggetti d’ ornamento sono assai scarsi e consistono in due fìbule, una in argento Γ altro in ferro ; un anello in bronzo, frammento d’ altro più piccolo anello pure in bronzo; due fermagli da cinturone, e tre ganci di bronzo. La fibula d’argento a vermiglione semplice con soli tre giri di spirale ha la forma della coppa di un cucchiaio comune, ed è perfettamente eguale ad altra di Cenisola (V. Notizie 1879, tav. IX, fig. 2). L’ altra di ferro a doppio vermiglione con arco semplice e lunga staffa. Anello di bronzo a spirale diviso da tante coste separate da altrettante sinuosità, ha la forma di serpe. Frammento di piccolo anello di bronzo con gastone sul quale è graffita una incisione che non si potè decifrare per Γ incrostazione di cui è in parte coperto. I fermagli da cinturoni constano d’ una lastra rettangolare di bronzo munita in uno dei lati più corti da due listelli rivolti a gancio. I ganci sono formati da una targhetta di bronzo colle due estremità ripiegate dalla stessa parte. La cuspide di lancia spezzata in punta misura presente-mente compreso il bossolo m. o, 34, ma intera doveva avvicinarsi ai cent. 40 ; ha la forma di foglia d’uliva colla costa mediana. Con questa è il suo puntuale lungo 0, 17. GIORNALE LIGUSTICO I43 Fatte ulteriori e più minute ricerche entro gli ossuari, mi venne fatto rinvenire una piccola fibula ad arpa , due frammenti pure di fibule di egual filone e dimensioni , tutte a semplice spirale, ed una moneta di bronzo che non fu possibile riconoscere per la densa patina da cui è ricoperta. Da poche traccie però, non ben celate dall’ossido, si può ritenere sin un’ asse romano, e forse, pel suo peso di gr. 33, e per la nota irregolarità nel peso delle monete romane, un sestentario. (V. Cavedoni monete consolari, pag. 175). Come dissi altrove non è la prima volta che in Ameglia siensi fatte simili scoperte, ma di quasi tutte solo se ne serbò la memoria. Nel 1886 in un terreno del Prof. Cav. Agostino Paci si mise in luce una tomba, della quale detti particolare informazione (V. Notizie 1866, pag. 114) e posi in chiaro le rimarchevoli differenze che passavano, sia nel rito che nelle costumanze, tra questa ed i sepolcri di Cenisola. Il sepolcro scoperto ora dal Marchi mette in più chiara luce tali differenze. Evidentemente la gente che depose questo sepolcro è la stessa di Cenisola. Ivi ogni cassa è sepolta in un cumulo di pietre , gli ossuari e vasi accessori per lo più fatti a mano, e questi non mai dentro gli ossuari ma intorno agli stessi, una coppa ansata inverniciata in nero, lacrimatoi, una fibula d’argento a forma di cucchiaio, e non mai cenere del rogo nel fondo della cassa che solo è ingombra di terra d’infiltrazione. In questa il cumulo di pietre sta sopra la cassa, il vasellame corrisponde , e di più si volle dare ai piccoli vasi accessori la forma arcaica del bicchiere-campana iberico tradizionale nei sepolcri liguri. La tomba Paci al contrario è deposta in un cavo artificiale della roccia, e solo pochi cunei di pietra servono a tenerla saldamente unita; gli ossuari sono sepolti nella cenere del rogo, nessun vaso accessorio, e nell’interno degli os- ï44 GIORNALE LIGUSTICO suari un elegante vasellino chiuso con entro ossiccine non umane ed un balsamario spezzato di smalto egizio; molti gli °S§etti ornamentali in oro , argento , bronzo e vetro , parte negli ossuari e parte sparsi nella cenere. Ciò posto è manifesta la differenza di rito e ai costumanze tra i due sepolcri d’Ameglia, il che viene a stabilire che non furon lasciati dalla stessa gente : uno è del più schietto tipo ligure, nell altro è prevalente Γ elemento etrusco. Il sepolcro Marchi dunque dee ritenersi per ligure , e la sua semplicità d’ arredamento, la più rigorosa osservanza del rito e le fibule in maggioranza a vermiglione semplice, lo farebbero creder più amico di que’ di Cenisola. Evidentemente appartiene ad una sola famiglia chè son ben distinte le ossa degli adulti da quelle dei bambini; e la circostanza del trovarsi accumulati in un de’ maggiori ossuari, colla moneta, i migliori oggetti ornamentali, induce a credere, che in esso si custodiscano le ossa del capo della casata. Ritengo trattarsi di tumulazione simultanea; forse una pestilenza, una invasione nemica od altra subitanea catastrofe, avrà imposto alla carità degli amici il pietoso ufficio della tumulazione simultanea. Nè si creda che la presenza della moneta romana in uno degli ossuari abbia a fare ostacolo all’ essere il sepolcro ligure od alla sua antichità. Anche a Cenisola, e solo nei sepolcri più ricchi ov’ erano oggetti ornamentali d’ argento , si trovarono monete romane ma in picciol numero; in più che settanta sepolcri, soli due argenti ed undici bronzi , e di questi., tre disposti in fila nel fondo d’ una cassa , pochi deposti nell’ interno degli ossuari, altri cogli oggetti d’ ornamento sul ventre dei vasi fra loro a contatto ed una o con un foro da un lato per servir da pendaglio (V. Notizie, novembre I^79 3 pag. 295) ; a Barbarasco un bel argento della gente Giulia (Cohen, tav. XX, fig. 10) custodito tra due dischi di bronzo ribattuti insieme intorno all’ orlo per tenervelo chiuso GIORNALE LIGUSTICO HS come in un astuccio (V. Notizie , marzo 1884, pag. 95) , e nessuno se ne rinvenne a Ceparana, a Viara, a Monterosso ed a Vernazza. Usavano dunque i Liguri del gruppo Cenisola le monete romane non a compimento del rito funebre, ma qualche volta le deponevano nei loro sepolcri come oggetto prezioso e d’ ornamento. Siffatta costumanza era pur mantenuta ad Ameglia; infatti abbiamo una sola moneta in cinque ossuari, e questa in unione ai migliori oggetti ornamentali, deposta superiormente alle ossa combuste in un solo ossuario. Neppure la moneta fa ostacolo all’ antichità del sepolcro , poiché è noto che 1’ asse romano divenne sestentario tra il 490 ed il 513 di R. e nulla s’oppone a eredere , che alla fine del terzo od ai primi del secondo secolo av. e. v., alla quale età si può assegnare il sepolcro, i Liguri d’Ameglia fossero in possesso di simili monete. Già dissi che la borgata d’Ameglia è nel mezzo d’ una necropoli che la cinge in semi-cerchio. Nella zona orientale di questa necropoli si è scoperto ora il sepolcro Marchi ed altri in passato, de’ quali vidi alcuni vasi del tipo Cenisola che si conservano presso il sig. Avv. Cav. Fiori; nella zona occidentale , a quanto mi si assicura da chi ebbe parte in que’ scavi, si dissotterrarono sepolcri, che oltre al vasellame, aveano molte grane d’ ambra ed oggetti d’ oro , tra quali il monile da me descritto (V. Giornale Ligustico , fase. VII, Vili, 1887). In questa zona si scoperse la tomba Paci. Si potrebbe pertanto credere che in Ameglia vivessero gente di diversa schiatta forse solamente separate nel rito del sepolcro. Senocchè con due soli sepolcri di diverso tipo è prematuro un giudizio ; ma ho fede che ulteriori scoperte e più maturi studi chiariscano questo importante soggetto. Frattanto credo possano meritare d’esser sottoposti all’ esame degli studiosi i seguenti fatti che emergono dalla riferita Giork. Ligustico. Auno XVIII. io GIORNALE LIGUSTICO esposizione. In Luni, che dagli storici e geografici greci e latini fu chiamata città ora etrusca, or ligure ed ora romana, non si rinvennero che reliquie romane-imperiali; in questo paesello sulla riva destra e presso la foce d’ un fiume navigabile , che sorge sulla sommità d’ un colle tra quella città ed il Portus Lunae, s’incontrano monumenti di schietto tipo ligure, ed altri con prevalenza etrusca (i). L’Ispettore degli scavi — Paolo Podestà. SPIGOLATURE E NOTIZIE Nuove scoperte nell’ antica Luni. — Nelle Notizie del 1886 (p. 5,35) (Cfr. Giorn. Lig. 1886, p. 174) si disse di alcune epigrafi latine rinvenute negli scavi fatti eseguire dal sig. marchese Giacomo Gropallo nei suoi possessi, compresi nell’ambito dell’antica città di Luni. Oltre le epigrafi di età classica una delle quali onoraria, si trovò un frammento d’iscrizione cristiana, che fu attribuito all’antica chiesa di s. Marco, che sorgeva in quella località e della quale anche ai tempi nostri restava qualche rudero (ib. p. 35). Presso questa chiesa di s. Marco erano stati rimessi in luce nel principio dello scorso secolo vari titoli latini, uno dei quali posto in onore di Augusto, patrono della colonia (C. I. L. XI, n. 1330, 1335, 1362, 1388). Era chiaro che queste scoperte accennavano a luogo pubblico, e di capitale importanza per la topografia e la storia della città nel periodo romano. Il terreno ove tali rinvenimenti si fecero, appartenne prima ai Benettini, dei quali furono eredi i conti Piccedi. Oggi è proprietà della contessa Piccedi-Benettini, consorte del marchese Giacomo Gropallo. Questi volle non ha guari intraprendere nuove indagini, dopo i saggi fatti nel 1886, come sopra si è ricordato, e prescelse l’area rispondente all' interno della diruta chiesa. La sorte fu oltremodo propizia a queste ultime ricerche, come rilevasi da quello che segue. Le nuove indagini, secondo che è stato accennato, si fecero nell’ interno della diruta chiesa di s. Marco. (1) Il sepolcro fu acquistato dal Ministero dell’I. P. per la raccolta pubblica d’ antichità liguri in Genova. giornale ligustico *47 Da tempo assai remoto i pochi ruderi di questa chiesa erano coperti da un vasto cumulo di pietrami:, avanzi di antichi edificii, che occupava una larghissima superficie, elevandosi a parecchi metri dal suolo. Il Gropallo fece ìimuovere tutto questo ingombro, ed in tal modo potè mettere in luce tutta la pianta della chiesa non solo, ma anche un alzato di due metri e più di elevazione, che circonda 1’ abside. La pianta consiste di un quadrilatero, dalla porta d’ingresso, orientata a nord-ovest, alla confessione, di m. 30,50 di lunghezza, e m. 19,00 di larghezza. La confessione o altare maggiore si alza dal pavimento della chiesa m. 1.13, e si compone di un abside semicircolare, della lunghezza dall’asse al vertice dell arco di ni. 5,50, e del diametro all’asse di m. 7,80. Intorno all’abside gira un ambulacro, nel quale si scende per mezzo di due gradinate di tre scalini, poste ai due estremi dell’ambulacro stesso, che ha la larghezza di m. 0.80, la lunghezza di m. 12,00 e la profondità dal piano dell’abside di m. 1.13. Ha pavimento di opera sectile, in lastrine di marmo bianco e nero, con disegno a forma di cassettoni di buon gusto ed in mediocre conservazione. In un interstizio, formato con arte tra Γ ambulacro ed il muro esterno , è praticata con regolare scomparto uua cassa sepolcrale, di modo che la sua altezza superiore eguaglia il piano dell’abside, vale a dire m. 1.X3 dal pavimento dell’ambulacro. La sua forma è rettangolare, e misura m. 1,80 x o-8o χ ι,ιο. Era chiusa alla superficie da grossi lastroni di pietra bruna del Corvo; rimossi i quali si presentò allo sguardo degli scopritori un cadavere in perfetto stato di conservazione, che in breve si decompose in minuta polvere. La distanza che corre da questo punto al muro esterno compresavi la larghezza dell’ambulacro, è di m. 2.30, corrispondenti nella sua totalità a quella del diametro dell’ asse. Al centro della curva dell’ambulacro è cavato un passaggio, che da quel punto arriva all’asse dell' abside, dividendo in due parti la confessione. È formato da due mura parallele, senza intonaco, con avanzi di coloritura in rosso, e privo di pavimenti. Non si è potuto conoscere se tale passaggio fosse stato coperto da voltino 0 da lastroni, perchè era ripieno di materiale ; onde è incerto l’uso a cui fosse destinato, quantunque tutto porti a credere che fosse la cripta sottostante all’altare, come si ha esempi nelle chiese primitive. Da ambedue i lati dell’abside erano praticate due nicchie, delle quali si conserva solamente quella del lato nord-est, della lunghezza di m. 3,50, e della profondità di m. 2,60. Dal confronto delle opere murarie or descritte col recinto esterno, ma- 148 GIORNALE LIGUSTICO nifesta apparisce la diversità dei tempi nei quali furono eseguite, sia pel modo grossolano di lavorazione che in quelle si scorge , che pel materiale impiegatovi, consistente spesso in rottami di anfore ed in frammenti di marmi architettonici tolti evidentemente da edifici più antichi. Esternamente l’abside, che mantiene la forma circolare, è decorata da sette luci rettangolari, incorniciate da fasce, sulle quali posano altrettante mezze colonne, il tutto in mattoni lavorati con arte e buono stile. 'I ale decorazione ad opera laterizia ,è addossata ad altro muro , come si vede nell’ interno, costruito in basso con grossi rettangoli di tufo , ridotti a scalpello, disposti a filari regolari, superiormente con grossi mattoni pure disposti in piano a filari regolari. L’ opera è ben condotta, e diversamente dall’ altra sopra accennata la giudico del buon tempo, così per l’accuratezza e perfezione del lavoro, come pel materiale di grossi mattoni, dei quali quelli impiegati nella decorazione esterna misurano m. 0,30, altri m. 0,40 in lunghezza, e m. 0,10 di spessore. I mattoni che compongono le colonne hanno forma circolare, così costruiti prima della cottura. Nel-1’ esterno si scorge qualche restauro, eseguito con tasselli di marmo ; e nell’interno si conserva una parte dell’ intonaco, che doveva essere colorato in verde scuro, come si rileva da alcune sfaldature che presentano tal colore. Anche la nicchia laterale si mostra di opera più recente. All’esterno ha forma semicircolare come l’abside ; e corrispondente a quella dell’abside centrale le si volle dare una decorazione. Ma invece di farla di opera laterizia si fece in grossolana muratura, con luci incorniciate da fascie o pilastri, non mai intonacata. Il rettangolo da cui prende forma la chiesa è a circa m. 1,00 di profondità dal suolo. È pavimentato con lastre di marmo bianco, nel mezzor ed in musaico lateralmente a sinistra, che è la parte per ora scoperta. Ma di questo musaico restano pochi avanzi, lavorati in modo rozzo e grossolano, con tasselli di marmo bianco e nero, formanti stelle e croci, nel modo che si vede in altri musaici provenienti dagli scavi di Luni, collocati nella cappella domestica Podestà a Sarzana, che sono menzionati dal Promis. Non v’è indizio di altari lungo le pareti, le quali pare fossero coperte da intonaco rosso cremisi, giudicando dalle sfaldature dell’ intonaco medesimo che si trovano sul pavimento. Dinanzi all’ abside dell’ edicola laterale, a circa tre metri di distanza, si rinvenne un piccolo pozzo coperto da lastrone. Ha la profondità di circa m. 2,00, ed è costruito in forma circolare con frammenti di mattone. Il suo diametro è di m. 0.40. L’acqua ci è tuttora limpida. Ma il marchese Gropallo non si accontentò di questa scoperta, e volle GIORNALE LIGUSTICO I49 allargare il campo delle ricerche. A tale oggetto apri una trincea lunga m. 10.00, nel mezzo della chiesa, partendo dall’asse dell’abside; e ben presto mise in luce una serie di pilastri, tutti disposti in ordine su due linee parallele, che si distaccano dal muro che separa l’abside dalle due edicole laterali. Approfondito lo scavo, a poco a poco emersero per intiero dal terriccio in cui eran sepolti, ancora aderenti su solido imbasamento di grosso pietrame. Sono dieci ; due in marmo bianco statuario ; tre in bardiglio ; cinque in bianco veneto. Sono scorniciati, e disposti cinque per parte , 1’ uno esattamente dirimpetto all’altro. Non sono perfettamente uguali nelle dimensioni, che variano dai m. 0,95 ai 0,65 di altezza, e dai m. 0,75 ai 0,50 di larghezza per ogni lato. I due primi erano incastrati nel muro , dal quale sporgevano per m. 0,32; gli altri erano isolati. Distavano l’uno dall’ altro m. 1,77. Di questi dieci pilastri, o basi, come li chiamano i donatori, due sono anepigrafi, ed otto sono iscritti. Uno ha iscrizioni in tutti i quattro lati ; gli altri sei uno per ciascuno. Un undecimo fu trovato fuori di posto rovesciato ; è di bardiglio unicolore del Corvo, diverso dagli altri, perchè a forma esagona, con base e cornice ; anch' esso reca un’ epigrafe. Sopra due di tali pilastri era fortemente infissa con ferro e piombo una base tonda, alta m. 0,20, composta dal plinto e da due tori con listello, intramezzato dalla scoria ; e sopra quelli che sono al n. 1, tanto al lato destro che al sinistro, era anche una base quadrilatera, alta 111. 0,27. Siffatti pilastri sostenevano statue, come si vedrà dalle epigrafi. E di tali statue nessuna nel1’ area rispondente all’ interno dell’ edificio fu raccolta. Solo esternamente se ne recuperarono dei rottami, tra i quali sono notevoli, oltre a pezzi di gambe, di braccia, di panneggi, quattro frammenti dai piedi alle ginocchia , e due busti virili ammantati, con incavo per innestarvi la testa. La profondità dello scavo dal pavimento della chiesa alla base dei pilastri è di circa ni. 2,00. Tale scavo non fu condotto che fino al punto in cui giungeva il cumulo dei rottami, cioè a 10 metri dall’asse dell’abside, un terzo circa della lunghezza dell’ edificio, non consentendo il tempo diventato piovoso di procedere oltre. Si potè constatare 1’ esistenza sul posto dei dieci pilastri, che erano saldamente uniti alle rispettive fondazioni. Nella estrema parte della chiesa, presso il muro della facciata, appariscono quattro cunicoli, disposti in linea parallela colle mura laterali della chiesa, dei quali fino ad ora non si può conoscere Γ estensione. Sono costruiti con muratura a cemento, e con volta a pietrame del Corvo. GIORNALE LIGUSTICO A questi sono sovrapposti altri due di uguale forma e dimensione, e tutti sono ripieni di ossa umane. Servivano senza dubbio a sepoltura cristiana. Esteriormente alla chiesa, di contro alla porta d’ingresso, ed a circa quattro metri da questa, si innalza il campanile di forma quadrata. Non è molto la sua altezza raggiungeva parecchi metri, ma ora è ridotta a soli m. 2,50 dal suolo, colla larghezza di ogni lato di circa m. 2.00. Ha la porta d’ingresso rivolta verso la chiesa. Nella esposizione delle epigrafi, volendo procedere in ordine, secondo la posizione che avevano i pilastri, incomincio dall’abside al lato destro, ove è il pilastro segnato col η. I, e continuo fino col η. V. Ritornando nell’ abside, ricomincio dal lato sinistro al n. la, e procedo come sull’altro lato fino al n. Va. 1. Pilastro I. EX DECRETO · ORDO · LVNENS ET CIVES . INMORTALIBVS BENEFICIIS · RELEVATI · OBMEMO RI Λ M POSTERITATI · TRADENDAN STATVAM COLLOCARVNT · LVCILIO CONSTANTIO-PRAESIDI.MAVRETANIAE ET TING1TANIAE · V · C · CONSVLARI TVSCIAE ET VMBRIAE Altezza m. 0,70, larghezza 0,65, sporgenza dal muro 0,32. 2. Pilastro II. L · TITINIVS L · I PETRIN . DVO · VIR Signa . ahenea . pvblic SARSIT . ET . REPOSlT · ET BASTS Q.VAE . DER ANT . DE SVO sic Alt. m. 0,85, larg. 0,65 per ogni lato. L’epigrafe è incisa nella faccia di fronte al pii. II A. Ciascun cippo è rettangolare e non presenta rilievi od ornati di sorta. 3. Pilastro III, L · TITIVS · L · L · PHILOMVSVS B A S I M . DAT Alt. m. 0,65, larg. per ogni lato 0,50. L’epigrafe è di fronte al pii. III A; le altre facci e son levigate. 4. Pilastro IV. M · PESCENNIVS M -L-EROS · BASIM · DAT GIORNALE LIGUSTICO Alt. m. 0,65, larg. per ogni lato 0,50. 5. Pilastro V. CN . TVRELLIVS . CN · L SALVIVS · B · D · Alt. 0,65, larg. 0,50. Il pilastro Ια è anepigrafe. 6. Pilastro Ila. TITINIAE·L . F Alt. m. 0,85, larg. per ogni lato 9,65. Il pilastro Illa è anepigrafe. Il pilastro IVa servi in varie occasioni, come si deduce dalle seguenti epigrafi che vi si leggono. 7. Da una parte : M·TVRTELLIO·L · F GAL . RVFO Alt. m. 0,95, larg. 0,75. L’epigrafe è scolpita nella faccia di fronte al pilastro IV. 8. Da un’ altra : MAGNAE VRBICE AVG · CONIVGI IMP · CAES . M . AVRE 283-285 e. v. LI CARINI BENEFI CI INVICTI AVG ORDO LVNENS D N M E O R V M I primi cinque versi sono scalpellati ; gli ultimi tre si conservano incisi nel marmo inalterati. 9. Nel terzo lato : a MAGNO·ET INVICTO IMP · CAES · C · VaL DIOCLETIANO P.F-AVG-PONT-MaX 286 e. v. TRIB.POT.ÎIÏ.COS.n PP-PRO-COS-ORDo POPVLVSQ.· LVNEn D N · M il VS L’ epigrafe è scolpita nella faccia di fronte all’abside. GIORNALE LIGUSTICO 10. Pilastro Va. La sorte medesima toccò al pilastro od alla base n. Xa. Servi da principio per un monumento od una statua ad un magistato municipale , leggendovisi in un lato : M - PESCENNIO · Q DVO . VIRO · PHRYX . L . POSVIT Alt. m. 0,95 , larg. 0,75. L’epigrafe è scolpita nella faccia di fronte al pilastro V. 11. In altra faccia fu poi scritto questo titolo a Galerio (292-305 e. v.): GALERIO vah RIO-MAXI MIANO . NOB -CAES · PRINCIPI · IVVENTvTIS · ORDO · LVNENS D · N · M . E . L’ epigrafe è nella faccia di fronte alla porta d’ingresso. 12. Dall’altro lato fu inciso questo titolo a Massenzio (306-312 e. v.): MAGNO·ET· INVICTO-IMP . CAESARI · M · AVR · VAL . MAXE sic TIO.P.F.AVG-PON. MAX . TRIB . POT · P-P-PROC-ORDO-Lv NENSIVM · D · N · M · • EI VS L’ epigrafe è scolpita nella faccia opposta a quella ov’ è scolpita 1’ epigrafe M. Pescenio. 13. Dall’ altro lato : ORDO · POPVLVSQ. LVNENSIVM D . N . M EORVM L’epigrafe è scolpita nella faccia di fronte all’abside. 14. In un pilastro esagono, trovato fuori posto leggesi : giornale ligustico L · PONTIO · L . F STRABONI DVO · VIR ·ΙΓΐ TR . MIL · ÎÏÏ PRAEF.EQ.-ET.CLASSIS Alto m. 0,80, larg. per ogni lato 0,30. 15. Cippo fastigiato : D a M C L A V D I A E SABINAE M · VINISIDIVS RESTITVTVS CONIVGI KARISSIMAE Alt. m. 0,85, larg. nella faccia di prospetto 0,40, nelle laterali 0,22. 16. Lastra marmorea con cornice in parte guasta: lung. m. 0,47, alt. 0,44. D M M · EPIDIO · CELE RI-MI.CL-PR.RA MIL · ΑΝ · XIX · VIX AN.XLIV.NATION DALM.POSV.LICI NIVS. SVPER-B.M 17. Su piccola base marmorea di m. 0.10 x 0,04: PHILODAMVS PRO.FILIO V-S . LVB . ME Si recuperarono inoltre questi altri avanzi di titoli : 18. Frammento di m. 0,25 x 0,22. /■'"u................... c ο ÏO NIA E 19. Due frammenti, il più largo m. 0,23, alto m. 0,15, il secondo largo x54 GIORNALE LIGUSTICO m. 0,25, alto pure 0,15 che conservano queste poche lettere, alte m. 0,11^ che mostrano aver appartenuto allo siesso titolo. 20. Frammento di ni. 0,40 X 0,20 : ’NVS ET · OCTÀ CVLA·PAREN ES . 21. Frammento di m. 0,27 x 0,20: 22. Frammento di m. 0,19 X 0,16: 0 · SATVR N D V S A · 23. Frammento di m. 0,18 χ 0,16: Si ebbero pure questi due frammenti cristiani : 24. Il primo è largo superiormente m. 0,34, inferiormente m. 0,25, alto m. 0,35 : _l Dì Pi SCI EVTER Il ALMAE POTENSs CVIVS HIC S'CAIA - PVLETIA sic E P R E a) 1 S O ( b) ; I A Li ]VT ALIS · HE |DES . B · M NAE ETi M ia F ia Pm TkL» giornale ligustico 25. L’ altro è di m. 0,11 χ ο,ιο: 1 REDI P sLEDIC I PART Come abbiamo accennato, nell’ interno dell’ edifìcio non si rinvennero statue, ma molti frammenti di queste, e di marmi architettonici si dissotterrarono nelle adiacenze della chiesa, e nel gran cumulo di rottami che in parte la ricopriva. Il marchese Gropallo raccolse e collocò ogni cosa in un vasto locale annesso alla casa colonica ; ed in tal modo lia iniziato una raccolta che spera arricchire di anno in anno con nuove scoperte. La raccolta, come è al presente, si limita agli oggetti rinvenuti durante gli ultimi scavi ; e può quindi credersi che, specialmente i marmi, appartengano alla decorazione dell’ uno e dell’ altro edificio. Meritano di essere notati i seguenti pezzi : — Marmo. Quattro torsi di statue togate dai piedi alle ginocchia. Due busti virili ammantati, con incavo tra le spalle per la sostituzione delle teste. Alcune teste, di piccole proporzioni. Due piccole statue rappresentanti due matrone sedute, con doppia tunica, ambedue mancanti della testa, nel luogo della quale sta ancora infitto un pernio di bronzo. Sono di fino lavoro e non molto danneggiate. Una misura in alt. m. 0,25, l’altra, ben finita da ogni parte, è di poco più piccola. Statua muliebre mancante della testa, delle braccia e dei piedi, alta m. 0,27. Ha una tunica di velo (vestis eoa) che lascia trasparire le forme del corpo ; dalle spalle le pende un manto di stoffa più pesante che rigetta indietro. È discretamente modellata, ed il marmo è trattato abbastanza bene, specie il velo, ben riuscito per la sua leggerezza. Una lastra di marmo bianco di m. 0,75 X 0,70, quadrilatera, i cui lati convergono superiormente in arco, con ornato semplice a cornice. Vi sono scolpite, a rilievo, due figure di giovinetti, dalla cintura in su, colle teste a mezzo profilo. Di veste non si scorge che un’ ampia fascia, a pieghe regolari, che da ambe le spalle discende e si unisce nel petto. Il lavoro è rozzo e non finito. Molti frammenti di colonne lisce e scanalate ; molte basi e capitelli, tra’ quali alcuni corinzii, di buon lavoro; molti pezzi di cornici, cornicioni ed altri membri architettonici, e tra questi alcuni decorati con meandri di buon gusto e finissimo intaglio. Meritano particolare attenzione un capitello e due frammenti di cornice 0 fascia, in pietra rossa del Corvo, decorati con fregi a fogliami e fiori GIORNALE LIGUSTICO di ottimo stile e diligentissimo lavoro. Alcuni capitelli e colonnine spirali di stile medioevali e tra queste una intera, alta m. 0,80 con ornati di pessimo gusto, la quale per la sua rozza esecuzione può trovar riscontro nella scultura seguente. Cilindro di marmo, alto 0,24 e di 0,40 di circonferenza. Alla sua estremità superiore è frammentato , ma la rottura lascia scorgere la continuazione del lavoro ; 1’ altra estremità è tondeggiante. Il cilindro è un poco compresso, e nelle due fascie maggiori sono scolpite, a bassissimo rilievo, vedute di prospetto, due figurine interamente nude, una di uomo, l’altra di donna. La forma data a queste figure è la più rozza e goffa che possa mai immaginarsi. Due circonferenze irregolari, o, a dir meglio, due protuberanze, una minore dell’altra ed unite assieme da corto tramezzo, si che la più piccola sia sovrapposta alla maggiore, rappresentano la testa ed il torso. Nella prima con altrettanti fori, sono tracciati gli occhi, il naso e la bocca; dalla seconda, lateralmente ed inferiormente si distaccano quattro appendici in linee irregolari per indicare le braccia e le gambe. Le estremità delle braccia terminano in protuberanze, divise ove da tre, ove da quattro solchi per indicare le mani smisurate; ed alle estremità delle gambe, i piedi informi, in una delle figure sono rivolti in linea parallela alle braccia; nell’altra non ve ne è indizio. Sotto il torso, tra le gambe delle due figure, sono scolpiti, in modo evidente il sesso del maschio e della femmina ; e pare che questa dovesse essere la nota caratteristica della composizione, poiché 1’ artista ha impiegata la sua migliore abilità per mettere in maggiore evidenza queste parti. Più in basso, e sotto ciascuna figura, non si capisce bene cosa abbia voluto rappresentare l’artefice. Tra 1’una e l’altra figura sono scolpite tre altre figurine, una più in alto e due più in basso, rappresentanti tre fanciulli, il primo più adulto e gli altri bambini. Le figure principali occupano circa una metà del cilindro, e sono rilevate dal fondo, dai 3 ai 4 mill. 11 marmo è bianco; ma pare abbia una patina che gli dà l’impronta di un antico macigno. Degno di singolare riguardo è un leone in marmo bianco statuario, di forme colossali (m. 1,47 X 0,97). È accovacciato sopra un plinto, colle zampe anteriori distese. Sotto l’artiglio destro tiene un piccolo quadrupede. La testa sollevata con bocca aperta si rivolge a sinistra. È modellato, ma non finito, come usasi nelle sculture cosi dette da giardino. Doveva fa? parte d’una fontana, poiché la bocca è ridotta in modo da contenere un tubo che seguita sino sotto al plinto : ma in tempi a noi più vicini fu mutata la sua destinazione. Questo leone fu scoperto al lato esterno sud-ovest della chiesa, e poco discosto fu rinvenuto un grosso rettangolo di marmo di m. 1,6$ X 0,75 X 0,50 GIORNALE LIGUSTICO I57 decorato in uno dei lati con fascia, listelli e cornicione dentellato : è senza dubbio il frammento di un architrave che probabilmente , colle colonne scanalate, delle quali si trovarono molti rocchi del diam. di m. 0,45 e 0)47 > iacea parte dell’ architettura all’ ingresso dell’ antico edificio. In questo rettangolo fu scavata una buca quadrilatera di m. 0,85 X 0,60 x 0,24, che dovette servire ne’ tempi di mezzo per vasca di fontana pubblica della quale era parte principale il leone. Nel vano che sta oltre la vasca , è un foro corrispondente a quello sotto il plinto del leone , per dare passaggio alla fistula acquaria. Terracotta. Un quadrellone da pavimento in creta rossa, senza bollo , di m. 0,54 per lato. Due tegole di m. 0,55 x 0,45. Un orcio in creta rossa, lavorato al tornio, con pareti sottili e proprio coperchio munito di pomo; alt. m. 0,18, circonferenza m. 0,47. Due unguentari in creta gialla, con piede a punta; alt. m. 0,11. Due antefisse con testa gorgonica, ben lavorate. Molti frammenti di vasi aretini, a pareti sottili e tinta rossa corallina, uno dei quali reca impresso il bollo, in forma di piede: MON. Cinque lucerne monolicni, ordinarie, senza ornati: una sola reca il bollo: FORTIS. Un peso di forma rettangolare, coi lati convergenti all’un de’ capi che è attraversato da un foro. Quattordici fusaiole, senza ornati, tra le quali alcune in pietra nera. Due grossi tubi quadrati, con grosso foro, pure quadrato, nel mezzo, alti m, 0,35 e 0,15 di lato; il foro ha m. 0,06 per lato. Molti frammenti di vasi, tra i quali, uno con tre lune solcate, a rilievo. Pezzi di lacrimatoi, di antefisse con figure e di ornati, di fasce e fregi decorativi. — Vetro. Molti frammenti di vasi, ampolle, lacrimatoi, piattelli. Un’ansa di vaso, di colore opalino, a forma di nastro con cordone rilevato nel mezzo, rivolto a collo di oca. Intorno a questo manico gira un anellino di bronzo, mobile, al quale pare fosse stata saldata una catena. Un emisfero di diametro, nella base, di m. 0,08, massiccio e pesante. È a fondo nero con fiamme di un bel rosso, della base, in varie direzioni convergono al vertice. Intorno alle fiamme si veggono sparse alla rinfusa molte mezzelune, forse per difetto di fusione e non ad arte. — Osso e avorio. Due frammenti di cerniera fatti con l’osso della tibia del bue, lunghi m. 0,10 del diam. interno di m. 0,02. Uno è munito nel centro di un cerchio rilevato, largo m. 0,02; l’altro è provveduto di tre fori, distanti l’un 1’ altro circa m. 0,02. Un cucchiaio di avorio ed altri frammenti; aghi crinali, stili da scrivere e molti frammenti di simili oggetti. — Bronco. Due cardini con bella patina. Pezzi appartenenti a serrature. Una chiave. Alcune borchie rappresentanti teste di animali. Due campanelli. Alcune fibbie, tra le quali una assai fina e ben lavorata, i58 GIORNALE LIGUSTICO forse oggetti da bardatura. Uno stilo da scrivere, ben conservato. Un utensile di uso indeterminato, con croce greca alla sommità. — Ferro. Fornimenti di una cassa di legno, consistenti in grappe, serrature, chiavistello , cerchioni e molti chiodi. Un vomero di m, 9,26 X 0,20. Una scure. Ferri da cavallo, morsi, due sproni, uno con punta semplice, l’altro con punta in forma di capocchia conica di chiodo. Molte fibbie, pendagli ed oggetti di bardature. Lame di coltelli ed altri strumenti taglienti. Lancie e giavelotti. Un grosso fornimento composto di diverse sbarre in varie forme, che pare fosse destinato a sostenere un’ insegna o trofeo. Il martello di una campana, frammentato nella parte inferiore, lungo m. 0,30, circon. m. 0,18. Narra il B. De Rossi (Coll, storica) che il can. Benettini dissotterrò ai piedi del campanile una campana ; ora il martello di cui si tratta fu rinvenuto nello rtesso luogo. — Piombo. Frammenti di fistole acquarie , anepigrafi. — Vasi di pietra oliare. Meritano speciale ricordo alcuni frammenti di vasi, e relativi coperchi, di pietra micaschistica del Capo Corvo , condotti con molta arte al tornio , con cerchi e cordoni concentrici, rilevati , e che vincono al confronto i vasi di pietra oliare de tempi barbarici. Pare che 1’ uso di questi vasi fosse comune in Luni, perchè se ne incontrano frammenti in ogni scavo : ciò dimostrerebbe, che in quella città, nelle cui vicinanze non difettava la materia prima, fosse in pratica l’industria dei vasi di pietra oliare. — Monete. Furono poi rimesse a luce monete consolari ed imperiali, che il marchese Giuseppe Gropallo di Giacomo con sommo amore per lo studio raccolse e classificò. Le consolari sono di argento , e sono due : P una è della famiglia Servilia, l’altra della Titia. Le altre, eccetto l’ultima che è di oro, sono tutte imperiali di bronzo. Le persone alle quali si riferiscono sono: Augusto, Claudio, Antonia di Druso seniore, Vespasiano, Domiziano, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, le due Faustine, Commodo, Settimio Severo, Caracalla, Macrino, Gordiano III, Claudio Gotico, Carino, Dio-desiano, Massenzio, Costantino, Giuliano, Gioviano, Valentiniano, Teodosio , Giustino. Fin qui degli scavi praticati nello scorso anno, i quali ebbero un risultato di non dubbia utilità per la storia e la topografia di Luni. Con eguale alacrità il marchese Gropallo ha ripreso, nel passato settembre, i lavori di scavo, ma non con eguale fortuna. Riaperta la trincea che aveva lasciata in sospeso, ben presto trovò ostacolo in una parete che attraversava il piano dell’ edificio in tutta la sua larghezza. Da quel punto, sino alla parete d’ingresso, il suolo è occupato dai cunicoli ripieni di cadaveri, ai quali ho sopra accennato, co- GIORNALE LIGUSTICO r59 strutti con muratura a cemento e voltino a botte. Ve ne sono sei, quattro disposti in linee parallele ed altri due costruiti superiormente nel vano tra un voltino e 1’ altro, e percorrono tutta la lunghezza dall’ ingresso sino alla parete traversale, in una zona corrispondente a quella tenuta dai pilastri marmorei sopra descritti. Le altre due zone, a fianco di questa mediana, sono divise dalla parete d’ingresso, sino all’ abside delle cappelle laterali, in tante cellette separate da muratura, molte delle quali coperte da voltini, adibite pur queste come sepolture. La qual cosa ci fa pensare che nel mezzo vi fosse la sepoltura comune, e lateralmente le private. Le fondazioni di queste pareti divisorie furono impiantate poco sotto il pavimento dell’antico edificio, e per questo lavoro fu, senza dubbio, impiegato il materiale che al medesimo era servito, poiché in gran parte constano di grossi rettangoli di tufo, riquadrati diligentemente, alternati con opera incerta. Di questi rettangoli, due misurano m. 0,85 χ 0,54 X 0,40, un altro m. 0,60 x 0,50 X 0,40. É manifesto, che tale opera sotterranea fu eseguita a’ tempi della chiesa cristiana, ed è pure probabile che per quest’ opera si abbattessero gli altri pilastri che forse erano innalzati seguitando le due linee sino all’ ingresso dell’antico edificio ; dei quali pilastri due eguali per dimensioni ai sopra descritti, con importanti epigrafi, furono dissotterrati nelle adiacenze della chiesa nel 1706 dal can. Benettini, ed ora si conservano nel palazzo Pic-cedi-Benettini , in Sarzana. E che siffatte opere murarie fossero eseguite nei tempi della chiesa e forse in diversi periodi distinti l’uno dall’altro, secondo le richieste de’ privati, lo dimostra il fatto, che nelle fondamenta di un muro divisorio, fu trovato un gruzzolo di monetine medioevali, di sottilissima lamina di argento. Questo scavo non ci ha dato intorno al monumento sottostante, nulla di più di quanto conoscevamo prima ; solo la gran quantità di rettangoli di tufo, rinvenuti in quelle murature ci richiama alla niente le costruzioni del tempio di Augusto, ciò che potrebbe servire ad assegnare a quell' e-poca le fondazioni dell’ antico edificio. L’ oggetto più notevole è un cippo fastigiato, di marmo bianco , alto ni. 0,8$, largo m. 0,40, con clipeo decorato nel mezzo del timpano. Porta inciso a bei caratteri il titolo funebre, di Claudia Sabina, edito qui sopra al n. 15. Con questo scavo si mise in luce la nicchia dell’ altro altare corrispondente a quello superiormente descritto. Come risulta dalla riferita esposizione dello scavo, ci troviamo alla presenza di due monumenti sovrapposti, cioè di una chiesa cristiana co- ι6ο GIORNALE LIGUSTICO strutta sulle rovine di un più antico edificio. Del superiore , la forma architettonica e la tradizione ci palesano l’uso a cui era destinato, del-l’altro non è facile giudicare, perchè ad eccezione dei pilastri e delle epigrafi poco ci rimane dell’antica sua struttura. Tuttavolta le epigrafi dedicate ad imperatori e ragguardevoli personaggi dall’ Orde populusque Junensium valgono per sè sole a farci fede che ci troviamo nell’ edificio pubblico più importante di quel Municipio. P· Podestà. (Dalle Notizie degli scavi, del mese di Dicembre). * * * Merita di essere additato agli studiosi uno studio riassuntivo di L. Val-rozer dal titolo : Étude sur l’institution des consuls de la mer au moyen-age, dove si tocca anche di Genova (Nouvelle Revue historique de droit français et étranger, xv, 36). BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO G. Bertolotto. Gabriello Chiabrera ellenista? Genova, Sordo-Muti, 1891. Con questa monografia il dott. Bertolotto incomincia una serie di studi intorno ai liguri che coltivarono la lingua greca. E poiché si è detto da tutti quelli che discorsero del poeta savonese com’egli conoscesse così bene gli scrittori greci, e Pindaro specialmente, da far credere avesse piena conoscenza degli originali nella propria lingua, ΓΑ. indaga se questa affermazione possa reggere al confronto della critica oggettiva, onde propose a se stesso il quesito che sta in capo al suo lavoro. La conclusione è affatto negativa, ed apparisce desunta da argomenti inconfutabili, rilevati dalla vita del poeta stesso, dall’esame di alcuni libri d’autori greci da lui posseduti nelle traduzioni latine, e singolarmente dalla sua corrispondenza, donde chiarissimo emerge, a nostro giudizio, com’ egli non possedesse per lo meno tale e così perfetta cognizione di quella lingua classica, da « essere securo del sentimento 0 degli scrittori che desiderava conoscere. Aspettiamo la prosecuzione di questi utili studi, della quale già abbiamo veduto bell’ esempio nello scritto sopra Ansaldo Cebà comparso nel giornale quotidiano Colombo. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO l6l TOMMASO STIGLIAMI CONTRIBUTO ALLA STORIA LETTERARIA DEL SECOLO XVII. (Gontinuaz. v. pag. 421 dell’annata 1890). Ma, del resto, nulla possiamo aggiungere intorno al valore di quest’ edizione del Can^oniero a ciò che dicemmo per l’edizione del 1605. Osserviamo infatti la stessa divisione in otto libri (1), ai quali però non sono più premesse quelle lettere di cui facemmo già cenno, parlando della prima edizione delle rime: invece tutto il volume è dedicato al Cardinal Scipione Borghese, presso il quale , in quello stesso anno, lo Stigliani avea preso servizio (2). Di più, precedono il volume due canzoni di Virginio Cesarini, che lo Stigliani tolse dal « volume delle composizioni » di quel mecenate, la prima delle quali s’ aggira su soggetto amoroso , riprendendosi lo Stigliani per aver tentato di schivare gli strali d’amore (3), e nella seconda si esorta il poeta a por termine (1) È inutile rammentare qui che ancora manca uno studio esterno sul canzoniere italiano; ad esempio, nel Seicento fervè lotta tra il Marino e lo Stigliani sul primato della divisione in soggetti delle loro liriche. Cfr. Aprosio, Sferia poetica, pag. 43, che scrive: « Intorno poi all’esser tolta [quella tal divisione] allo Stigliani, v’ è chi crede altrimenti: perché le Nuove Fiamme di M. Ludovico Paterno stampate in Lione da Guglielmo Rovilio l’anno 1468 portano alla seconda pagina la stessa divisione ». (2) Mazzuchelli, Op. cit. (3) Comincia: Stigliani, io già ti dissi, Che «resti d’ Amor segno agli strali, E che senza provar l’ire fatali Meglio era, che prigione a lui t’offrissi. Giork. Ligustico. Anno XVIII. u IÉ2 GIORNALE LIGUSTICO al Mondo Nuovo, che potrà gareggiare col Furioso ! (i) Né le somiglianze sono appena esteriori, perchè, a parte i numerosi rifacimenti, ai quali, per lo sviluppo dell’ attività del poeta dovrà far capo chi abbia in animo di tessere una completa monografia su di lui, le rime sono quasi le medesime dell’edizione del 1605, in cui non compariscono, è vero, Ma la tua mente intesa A più severa impresa, Allor il mio parlar ben non udissi. Or preda sei d’ un adorato sguardo ; E ’n tuo soccorso ogni rimedio è tardo. fi seguita: Ma di rossor modesto Nobil vergogna la tua fronte asperge, Stimi viltà, se nel tuo sen s’immerge Pensier d’ amore a dotte cure infesto ; Amore è colpa usata, E d’ un’ alma infiammata Ingiusto è il biasmo nel dolor funesto Fragile è Ί nostro petto, Amore invitto, Talvolta il non errar quasi è delitto. W Stiglian, pubblica voce oggi condanna L’ arti di Febo, e di stoltizia accusa Chiunque in compagnia d* inclita Musa Sovr’ Elicona di salir s’ affanna. Né forse a torto il suon di tosche lire Biasmano i saggi a impure fiamme ancelle, Che sol d’ un volto 1’ adorate stelle E lodano d’ Amor gli scherzi e l’ire..... Ma perché del Colombo il chiaro vanto Da te, Stiglian, cantato ancor si cela? Scoprilo ornai, che Febo a me rivela Ch’ al Ferrarese egual sarà Ί tuo canto..... Tempo verrà, che fra tue dotte carte Aprirà la prudenza i suoi misteri, E per entro a’ tuoi barbari emisperi Di cortesia ritroverassi 1’ arte. Già veggio il sol della virtù cadente Seguir Italia in su’ tuoi libri, ed indi Le sagge menti trar 1’ oro de gl’ Indi, Di cui della tua lingua è ’1 rio lucente. GIORNALE LIGUSTICO 163 quei componimenti poetici, scritti per burlare « la maniera idiUistica ma vi sono per contro alcuni di quegli odiosi indovinelli che procurarono la proibizione del libro (1). Quello (1) Gl Inquisitori permisero la ristampa di alcuni di essi « che nel senso letterale non hanno apparenza di lascivia, come avevano quegli altri » Can^oniero, pag. 217. Ecco, del resto, gl’Incipit degl’indovinelli, con la chiave, avvertendo che quelli segnati con un asterisco sono comuni alle due edizioni. 1) Lo scrivere: Sapete ciò che faccio, o donne belle, (sonetto) 2) Gli occhi: Noi siamo duo, che come s’ entra in letto (ottava) 3) Il gonfiar del ballone : Donne, io ho parlato chiar se non v’ annoio (sonetto) 4) Il lento: Madonna io ho un cotal, eh’ è per mio uso (sonetto) 5) La braghetta delle calie: Donne, che si, eh’ io vi fo travedere (ottava caudata) 6) L'incudine e il martello che lavorano: Femina e maschio un sopra 1’ altro stava (ottava) 7) La cadetta: Dentro un buco peloso io ho tal hora ([ottava) 8) Madre e figliuolo che allattano : Stavano duo di différente sesso (sonetto) 9) La padella in cui si cuoce la salciccia: Sopra alquante fassine, hoggi si stava (sonetto) 10) Il fuso: Son pria sottile, e in prezzo maggiormente (ottava) 11) L’ovo: Io chiudo in bianca pelle il capo rosso (ottava) 12) La spada: Son cosa lunga, e ut la pelle avvolta (sonetto) 13) La candela di sevo: Pende d’ alcun peluzzi un cotaletto (ottava) 14) Il mangiare : Io vidi un uom, eh’ in un forame fesso (sonetto) 15) Il naso: Qual è quel membro, che mai non inghiotte (ottava) 16) Lo scaldaletto: Grosso di capo, di faccia pertugiato (ottava) 164 GIORNALE LIGUSTICO però di veramente importante che si rinviene in questo quarto libro degli amori giocosi è tutta una serie di poesie, nelle quali lo Stigliani satireggia a tutto potere all’ indirizzo del Marino e della sua scuola. Queste poesie si dividono in idilli, sonetti e madrigali; i primi sono tre: Y Amante disperato « dirizzato al Signor D. Virginio Cesarmi », Y Amante stoltisavio dedicato al card. Barberini e la Musa del secolo Nostro che non ha dedica; i sonetti sono sei e i madrigali diciannove, 17) 11 lavar delle mani: De Γ usar le mollitie io tanto godo (ottava) 18) L* ago da cucire: Son ritto, aguzzo, e da un capo bugiato (ottava) 19) La chiave: Presso la pancia mi pende un cotale (ottava) 20) La sanguisuga: Son tutta coda, e di color brunetto (ottava) 21) Minestra di rise: Liquido seme, e bianco com’ argento (ottava) 22) Il guanto: Sono un buco arrendevole di pelle (ottava) 23) La pulce: Io sono un non so che pronto e vivace (ottava) 24) Il cappello: Son, Donne, un copcrchiuol tondo, il qual copro (ottava) 25) U archibugetto, detto pistola: Porto sotto le calze per rispetto (ottava) 26) Il ditale: Vo’ avete, Donne, un vóto vaselletto {ottava) 27) Lo stucchetto del cerusico: Ecco una cosa coverta di pelle (ottava) 28) L’istrumento di bronco per conciare il collare a lattughe: Trovasi un lungo scapatocchio, e dritto (oliava) 29) La campana: Son senza denti una si larga bocca (oliava) 30) La fica, frutto: Sporca di nome e dolce di pastura follava) 31) Il grembiale donnesco: Son lo strumento da coprir le donne (oliava caudata) GIORNALE LIGUSTICO I65 ai quali s’ aggiunge una canzonetta : e tutti questi componimenti poetici sono, ci avverte il poeta « composti nella maniera poetastrica ove però s’avvertisca essere in alcuni luoghi qualche frasi, o parola buona, ma esservi state poste per legar’ insieme le viziose e sregolate ». Nell’ esordio del primo idillio lo Stigliani, dirigendosi al Cesarmi, dice che * il buon cantor Carmenio », cioè egli stesso Per ristorarsi da’suoi gravi studii, Prese in stile a cantar dal suo diverso. In quello stil, che tu schernisci tanto, Dell’ odierno volgo dei Cantori : Che ben diletto porge, Com’ il canto far deve : 32) Lo sparviere: Ho capo e busto, e m’assottiglio e ingrosso (oliava) 33) Lo scopettino: Donne, io di rosso imberrettato fui (ottava) 34) Il latte humano: Conosco un succo human bianco, e soave (ottava) 35) La scarpa: Buco son io d’ una comun vacchetta ('ottava) 36) La pentola, 0 pignatta: Io son bocca fuor nera, e dentro rossa (ottava) *37) La tartaruga 0 testuggine: Io son magra di gola, ed ho il gavazzo (sonetto) *38) Il gallo: Se ben nessun mi batte, io grido forte (sonetto) * 39) La grattugia : Ho cent’ occhi e non vedo (madrigale) *40) Il pescare: Calossi un huom da ben, eh* ò insidiatore (ottava) *41) Le forbici: A un tempo stesso io sono un solo, e due (ottava) *42) Il cotogno: Cosa son io che seggo a capo chino (ottava) *43) Porco in salame: Essendo stato in vita san del corpo (ottava) GIORNALE LIGUSTICO Ma lo porge di riso: Non di compiacimento. Odilo, come disse, Odi le note sue, E trastullo ne traggi, e ’nsieme essempio. E qui, cOn evidente allusione al Marino e ai marinisti, comincia a poetare grottescamente con frasi irte di metafore strampalate e di bisticci ridicoli : Già infarinata, e sparsa Di matutini albori La bianca molinaia d’ Oriente, Macinava nel Cielo Il frumento vermiglio Delle minute stelle, Colle rotanti mole Delle sfere celesti: E lo tritava in candidetta polve, La quale è quella poi, che divien giorno. Che diss’io molinaia? Anzi più tosto Send’ ella diventata Della corte di Giove Lucida cuoca, e guattera serena; Coceva il di nel gran paiuol del Cielo, Sopra la brace delle stelle ardenti, Per far vivanda agli occhi De’ miseri mortali : Vivanda di lustror fulgida, e rara, Vivanda di splendor nitida e chiara. L altro idillio, ì’Amante stoltisavio non è, cosi nella forma come nel contenuto, dissimile dal primo. Il poeta si rivolge al Barberini, del quale esalta i suoi studi di greco, invitandolo ad ascoltarlo. GIORNALE LIGUSTICO Se conoscer desij più apertamente Del tuo saggio sonar l’alta dolcezza, Le sconce dissonanze odi d’ altrui. Odi in che sozza guisa, E ’n che deforme modo, Oggi la turba ardisca De’ citaristi ignari. Toccar le degne fila Della lira toscana, Per isciagura della nostra etade ; I quali or’ io scherzando imitar voglio, Coni’ a diporto far sovente soglio. Quindi narra di un legista, certo Graziano, che s’era portato in un luogo solitario per gustare le scolastiche ferie..... Né più saliva, come suol, togato, Su la dotta bigoncia A spianar d’ Ulpiano Le scoscese dottrine Coll’ argano legai da i cento mangani. Anzi snudato s’ era Della tumida gonna, e faldeggiante, Ch’ al corpo gli compon ricca gualdrappa. Ed erasi svestito Dell’ immenso coperchio, e sfericoso, Ch’ alla testa gli fa rotondo tetto, Deposte avendo ancora Le manual vagine, che gli tengono Sepolte fin’ a gomiti le braccia. Si eh’ egli rimanuto in uno schietto Domestico farsetto Fra 1’ arcane muraglie Del famigliare ostello Un asinel sembrava, Che stato dal signor pur dianzi fusse Di salma disonusto. ι68 GIORNALE LIGUSTICO Nella sua solitudine il dottor Graziano si lamenta della crudeltà di una certa Simona, sua amante, che lo fa soffrire ; e decide di uccidersi : Io voglio, io voglio appendermi per gozzo Ad un nodo corsoio, Senza di qui partirmi. V oglio, che 1’ alma m’ esca Per calle adulterino In forma d’ uno strepito fetente, Alla barba dell’ invido Carmenio (i). Su su scendasi ornai dal dir’ al fare, E dalla lingua calisi alle mani. Come fu la mia vita una commedia. Cosi sia la mia morte una tragedia. Già la strozza m’ aggroppo. Già sullo scanno salgo. Già consegno il capestro all’ architrave. Già è compiuto il tutto. 1 eiò mentre il grottesco personaggio (sotto le spoglie del quale noi non dubitiamo debba effigiarsi l’Achillini, in quel tempo già famosissimo, e da tempo professore d’ umanità a Bologna), sta per spiccare il salto, si pente, perché osserva : Non voglio orbar Simona D’ un suddito si fido ; Non voglio orbar Falcidio D’ un amico si vero ; Non voglio orbar Carmenio D’ un ostacol si duro : (i) In quella copia del Can\onitTo con postille autografe da noi già indicata, tra questo verso e il seguente sono aggiunti questi altri: Invido della fe’ eh’ io e Vanilio All’ unico Falcidio aveam giurato, Componendo un fedel triumvirato, Del quale egli si beffe a grave torto E dice che noi tre parean più tosto A chi ci mira uniti. GIORNALE LIGUSTICO 169 e, unendo gli atti alle parole, conclude : Ed intanto io mi stralcio le ritorte, E smonto giù con tua licenza, o Morte. Quello però che più interessa per noi è naturalmente 1 ultimo idillio, la Musa del secolo nostro, nella quale lo Stigliani più che altrove cercò di sfogare la sua bile. Finge il poeta di andare a diporto per il monte Parnaso, e di scontrarsi nella musa raffigurata in Una difforme Donna Avvegnadio, eh’ ella non veglia fusse La qual si contraffatta era di membri, Che nessun d’essi il suo sito godea: Oltr’ esser tutti falsi, oltr’ esser tutti Organati a ritroso, Si che veduto avresti Star quasi il braccio ove star de’ lo stinco, E ’l petto ove le terga: E parer tergo il petto, e stinco il braccio. Ella di gigantea sendo statura, Ma prolissa, e gracile, Ceffuto, e rincagnato Avea lo scarno e pallido visaggio, Con fronte bieca e scarmigliate chiome, Che sembravano proprio I crin della sassifìca Medusa. La musa era vestita di Metafore sfacciate, Ed ipperbole fiere, e disperate: Apparendo nel campo Un frivolo ricamo Di graduazioni sciocche, E di ripigli insulsi, Con fil cuciti di prosopopee. Intempestive, e ree. GIORNALE LIGUSTICO Qui il poeta, con evidente allusione a\Y Adone, che, come vedremo, considerava un informe ammasso di episodi non uniti con naturale graduazione, aggiunge: Ma quel che più pativa all’ occhio altrui Era, che fuor degli squarciati trinci Spuntavan sconciamente Cumuli di moltiplici episodi, Che 1’ uno all’ altro eran a caso annessi, Come tra lor le frondi Son dell’ indico fico. Al vedere quella « eteroclita donzella » il poeta esclama « esterrefatto » : O delle Donne altero e raro mostro, O larva singoiar de’ nostri giorni : Dimmi chi sei, ch’io di te possa annunzio Portar’ alla propaggine mortale Giù del colle versale. E la Musa risponde sardonicamente: Io t’accorgo, che tu sei sciocco affatto: Né sai, che cosa sia Bellezza, e leggiadria: Non essendo invaghitoti a prim’ occhio, Né postoti in ginocchio, Com’ a molti di fare è convenuto La primier volta, che m’ hanno veduto. Io non son mostro, né tampoco sono Larva, com tu m’appelli: Ma son la musa dell’ età presente, Nasciuta gli anni a dietro a sorte in Cirra. Son quella, che candisce il nome altrui Col glorioso zucchero de’ carmi, Perché l’oblio noi roda, e non lo tarmi (i). (i) Nell’edizione postillata dopo il verso Larva com lu m’appelli vi sono i seguenti da sostituirsi agli altri: Ma son la Musa dell’ età presente 'Nasciuta gli anni addietro in Cirra a sorte. Generommi un gran membro Napolitan eh’ ai canti GIORNALE LIGUSTICO 171 Il poeta a queste parole rimane istupidito, ma fìnge di credete alla Musa, alla quale fa de’sardonici complimenti; ed essa lo invita a seguirlo: Ch io voglio imbalsamar la tua memoria, E mirar la tua fama: Innalzandoti a Γ etra Sovra volanti piume Di colti idilli, e di canzon leggiadre; Si che tanto avrai senno Quant’ ebbe valentigia Il pugnator crinito, Ch’ i Filistei conquise Coll’asinina face: E chiare diverran tue rime rance (2). Pero il poeta a quelle pazze millanterie della turpe Dea si schermisce, affermando di dover raggiungere Apollo: Cosi lasciando io lei In quel pratetto sola Negli orti entrai musaici, e quindi poscia Venuto al gran delubro, Che là in mezzo si situa : Mi prostrai dello Divo alla presenza. Avea duo testimonij bolognesi Con deplorar Tersicore mia madre, La qual trovò a dormir fuori del monte. Son quella Musa, quella Che confetta e candisce il nome altrui Col glorioso zucchero dei carmi, Perché 1’ oblio noi tarmi Quella che rompe il capo a morte ria Questa che 1’ uom disamina e lo ’ndia. (2) Nelle postille marginali dopo quest’ ultimo verso sono aggiunti i seguenti, ne’ quali sono indicate tutte le opere del Marino: Per lo che poterai Ancor tu compilare e in luce elicere Lire, Sampogne, Epitalami), Tempij, Adoni, Murtoleidi, Ritratti, Galerie E Sferze, e Padri Nasi, e Dicerie. I72 GIORNALE LIGUSTICO Apollo stava sul trono, presso il quale sedevano I celebri trombetti D’ Orlando, e di Goffredo : E i lodatori egregi Di Lauretta e di Bice : Col sampognier d’ Opico, e Meliseo, E con quel di Mirtillo: fi poi sedea raen degna altra brigata (i). e t.on lui si lamenta perché si permette che Quella vana fantasma, Quella falsa chimera Ch’ ha l’ingegno de’ giovani infollito se§ga Parnaso. E Apollo risponde: Carmenio, io mai non vidi Costei di cui tu parli : Ma ben da’cigni ebbi 1’ altrier ragguaglio, Ch’ ella vantando vassi D’esser suta da me quassu chiamata E criata Arcimusa; Nova, che si spiacquette alle mie vive Uditrici vagine; Nova, che si frizzommi Per li meati dell’orecchie il core: Ch io ratto imposi al mio censor saccente, La qual qui stanza in un castel di vetro, Ch’ egli gir ne dovesse In compagnia d’ una quadriglia armata D’ altri censor minori, (i) Questi versi sono cosi cambiati nel riiacimento manoscritto: I lodatori egregi Di Beatrice, di Laura e di Fiammetta, D’ Orlando e di Goffredo, Col sampognier d’ Opico e Meliseo E con quel di Mirtillo: oltra Ί burlesco Biasimator della romana corte. GIORNALE LIGUSTICO 173 A traboccarla giuso Con critiche forcine. Ed egli andovvi, ed andavi ogni die. Ma rinvenir ancor non 1’ ha possuta, Conciosia cosa, eh’ ella Sfugge a tutta sua possa 11 cospetto de’ Savi, Ed intanando vassi Per li fianchi del monte Tra gli più ombranti sterpi, Che sian nella boscaglia lauretana: Facendo solo udirsi, Quasi seconda Orfea, Ad asini, a cameli, a scimie, a struzzi, Ed ad altri bestiali ascoltatori. Dopo di che Apollo invita il poeta di unirsi ai cercatori della dea, ed egli ubbidisce. Poi venni co’ ministri al luogo, ov’ era La novella Megera, I quai con saldo fune Di robusti argomenti L’avvincigliaro a un tratto; Bench’ ella dibattendo i falsi membri Con temerarie scosse Di satirici motti D’ ubbidir discrepasse All’ apollineo editto, e anzi chiamasse il poeta « spia e fallitore ». La Musa è infine consegnata a Carmenio, il quale termina l’idillio con Γ esortare i giovini a non seguire le fallaci orme. Banditela del tutto, Banditela per Dio Fuor delle vostre carte: Se non volete eh’ elleno tantosto Facciano avvolgimento alla tonnina, 0 dian munizione alla latrina. *74 GIORNALE LIGUSTICO È facile comprendere l’importanza di queste rime giocose, che, se pur ispirate allo Stigliani da un odio acerrimo pel Marino e per i suoi amici, erano però in una certa guisa 1 eco di una parte dei letterati d’ allora. Questa corrente , ostile al più grande dei poeti del Seicento, è importante appunto perché sorse in pieno marinismo, quasi come reazione al gusto letterario di una schiera di poeti, tra’ quali annoveriamo, senza tema di errare, il Tassoni, il Ciampoli, il Preti, 1 Achillini e in parte, almeno nel contenuto, il Ri-nuccini e il Chiabrera; contro di essi, i quali prendevano a soggetto delle loro poesie l’amore, si scagliava il Testi, in quel- 1 ode per la morte di Virginio Cesarini, nella quale, tra l’altre cose, diceva : Or de Γ Itale cetre è somma lode Cantar quel, eh’ a gran pena Frine oseria tra ciechi orror notturni. E più in là: Narrarsi odo ben io con dolci carmi De la Dea di Citera, E del leggiadro Adon gli amplessi e i baci ; Ma non sento però, eh’ al Dio de 1’ armi Osi tromba guerriera Sacrar con 1’ alto suon note pugnaci. dove 1 allusione al poema del Marino è manifesta. Però la nuova scuola, se cosi vuol chiamarsi, non fu in aperta conti addizione con quella marinesca, perché abbiam veduto che lo Stigliani, e con lui il Testi, il Chiabrera, il Rinuccini ed altri, seguirono spesso le pedate del fortunato poeta. Insomma non vi fu vero e proprio antimarinismo che non debba confondersi con quel periodo di reazione che s’intitolò dell Arcadia, come crede il Mango, il quale in un arruffatis- GIORNALE- LIGUSTICO simo opuscoletto (i) osserva che l’antimarinismo è « quella reazione, che ha intendimento letterario, e non altro fine che quello di combattere direttamente la maniera del Marino mediante gli studi classici, l’esempio della propria poesia, e altri scritti ». iali sono appunto i canoni che si prefisse di contrapporre l’Arcadia al marinismo, né si può concepire una scuola diversa da quella arcadica che abbia gli stessi preconcetti e le medesime tendenze e, diciamolo pure, tutte quelle vacue sentimentalità degli Arcadi. Il Caravelli, in un suo lavoro forse troppo allungato e nel quale, senza molte prove di fatto giunge a una conclusione sia pure affrettata, ci sembra che riassumi meglio la questione, nel considerare, come fa, quel periodo che abbraccia appena mezzo secolo, come un lavoro di preparazione all’Arcadia: lotta feconda che volle combattere più che la poesia del Marino , i marinisti nell' abuso di metafore e di bisticci (2). Intanto il 2j marzo del 1625 moriva in Napoli il Marino : e mentre tutta Italia lamentava la perdita del piti grande dei poeti di quel secolo, anzi, com’ ebbe a scrivere con grottesca rettorica l’Achillini al Preti, del più grande poeta dell’umanità (3) ; mentre quasi contemporaneamente il Baiacca, Segretario del Cardinale Scaglia, e il Loredano, il famoso autor (1) Antimarinismo, Studio del dottor Francesco Mango, Palermo, Tipografia del Giornale di Sicilia, 1888, pag. 5. È noto che quest’opuscolo suscitò una violenta polemica sopra un certo diritto di priorità tra I’ autore e il Caravelli. Cfr. Una pirateria letteraria (nel Periodico Vita Nuova, 1890, n. 17), Ancora dell’ antimarinismo, Notifie e documenti del dottor Francesco Mango, Palermo, 1890 e Ancora una parola sulla pirateria letteraria del dott. Franc. Mango, Prato, 1890. Una tale questione, la quale è uscita anche dal campo della convenienza, è indegna degli studiosi non pure, ma della gente seria. (2) Pirro Schettini e l'Antimarinismo, Studio di Vitt. Caravelli , Napoli, 1890. (j) Marino, Lettere, pg. 21s. GIORNALI- LIGUSTICO della Dianca, ne stendevano la vita, pubblicandola in edizioni a parte (i); lo Stigliani ch’ebbe sempre paura di lui per le sue potenti amicizie, potè respirare, e da Roma, che pur era centro molto importante del marinismo , dimorando in essa il Falconio, il Mascardi, il De Simeonibus ecc., prepararsi a difendere la sua riputazione, della quale fu sempre gelosissimo. Nel 1626 noi sappiamo eh’ era attorno a rivedere il Mondo Nuovo, ormai già terminato, come appare da una lettera con la quale il poeta ringraziava gl’Insensati di Perugia per averlo fatto membro di quell’Accademia (2), e nello stesso anno, scusandosi col cardinal Pignatelli di non poterlo raggiungere a Morlupo, scriveva : « Io vorrei cosi in Morlupo servir V. S. Illustrissima colla presenza, come in Roma la servo col desiderio. Ma poiché il bisognarmi assistere alla correzion del mio Can^oniero, eh’ ora si ristampa, mi necessita a dimorarci, differisco a settembre prossimo l’adempimento di questo debito (3) ». Durante la revisione del Cannoniere egli si trovò di nuovo nelle difficoltà finanziarie, perché nell’aprile del 24 era morto il Cesarini, e cosi gli era venuta a mancare la rendita dei cento ducati; s’aggiunga che il cardinal Scipione Borghese non gli dié mai la promessa pensione di cinquanta scudi (4), onde il poeta, in una lettera diretta ad Alessandro (1) Cfr. il mio Marino, pg. 41. (2) Stigliami, Lettere, pg. 108. (3) Id., pag· 63. Del Can\oniero si fece una nuova ediz. nel 1625 in Venezia per Evangelista Deuchino, ma non abbiamo notizia di quella del 26, che certamente non fu fatta. Una copia dell’edizione del 1625 con numerose postille autografe a margine è posseduta dalla Vittorio Emanuele; forse essa era destinata come originale per l’edizione del 1626. (4) « Io non solamente non ho avuto dal Signor Cardinale la pensione nuova di centoventi scudi, la quale m’ era stata da lui promessa in ricompensa della mia ordinaria provvisione, che non corre (o per meglio dire, che crero tanto ch’io non l’arrivo mai) u· Stigliani, Lettere, pg. 71. giornale ligustico 177 Angelico a Cattaro, scriveva: « Io ora ne son restato in puris naturalibus come era quando da Parma venni a Roma, cioè colla sola entrata, eh’ io ho in Matera, la quale a spenderla qui non mi basta, dovendone spesar tre bocche; ed a spenderla in Matera , non v’ è tutto il mio compiacimento, né tutta la mia riputazione, avendo da quella Comunità saputo per sua lettera, eh’essa, s’io v’andassi, non mi menerebbe buona la franchigia del mio abito ». E s’augurava la morte, la quale 1’ avrebbe « sottratto non solo alle fatiche letterarie, che faceva ed alla persecuzione che v' aveva, e al-l’indisposizioni che pativa, ed agl’ incomodi, che sentiva; ma principalmente alle molte tribolazioni dell’animo, che l’accompagnavano di ogni tempo (1) ». Ma non ostante le sue strettezze finanziarie, lo Stigliani era sempre occupato in faccende letterarie. Per ribattere i vecchi attacchi del Marino pensava sempre a dare alla luce un’opera apologetica: ne abbiamo notizia sin dal 1623, parlandosene nella prefazione del Balducci al Cannoniere (2); ma i seguaci del Marino sempre rimproverarono allo Stigliani il non aver pubblicato il libro quand’ era vivo 1’ avversario , e avevano pienamente ragione, perché, sebbene lo Stigliani, per bocca del Balducci, sempre assicurasse di averlo composto in vita del Marino, è un fatto però eh’ esso usci due anni dopo la morte dell’ emulo. Né valse una dichiarazione, firmata da molti, che attestavano d’aver letto Y Occhiale prima della morte del Marino, poiché, ad ogni modo, lo Stigliani (1) Stigliani, Lettere, pg. 72. (2) « L'Occhiale sopraddetto, Apologia disputativa, nella quale fra l’altre materie, che si trattano, si difende ancora esso poema (il Mondo Nuovo) da que’ si fatti oppositori, e da altri ». Giors. ligustico, .-/uno XV111. 12 178 non potè giustificarsi di non averlo fatto stampar prima (1). « Noi infrascritti - affermavano i firmatari (2) - per la presente facciamo piena testimonianza d’aver letto, et veduto il libro quarto dell’Apologia del Sig. Cavalier Stigliani, la quale si chiama Γ Occhiale, un gran pezzo fa, ed in vita del Signor Cavalier Marini. E questo diciamo per la verità in Roma, il di 28 d’ottobre 1625 ». E il Balducci nella prefazione scriveva; « Io non ho, Signori Lettori, mandate in obluvione le promesse, che vi feci, quando diedi alle stampe le rime purgate del Signor Cavalier Stigliani ; cioè eh’ alla giornata io sarei tuttavia venuto pubblicando ad una ad una tutte 1’ altre opere di quello. Perciocché ora tengo sotto la correzion de’ Superiori il suo Mondo Nuovo compito per darlo subito fuori, eh’ esso venga spedito: appresso al quale havrete 1’ apologia detta 1’ Occhiale3 distinta in quattro libri, opera del quale io son d’ opinione molte cose dover i giovani in questo secolo imparare, le quali non si sono mai più sapute. Ma perché per alcuni necessari]' rispetti conviene all’ autore di far vedere prestamente il Quarto Libro d’ essa Apologia , (1) Ecco il titolo dell’opera: Dello / Occhiale / Opera difensiva, / Del Cavalier / Fr. Tomaso Stigliani. / Scritta in risposta al Cavalier / Gio: Battista Marini. / il * * * * / Dedicato all’Eccellentiss. / Sig. Conte D’ Olivares. / Con licenza de’ Superiori, e Privilegio. / ( ) / In Venetia, MDCXXVII. / Appresso Pietro Carampello. (2) Essi erano: Lottario Conti, il quale affermava d’aver veduto V Occhiale nel dicembre del 1624, Ludovico Sanmartino D’Agliè, Francesco Bracciolini, Giuseppe Teodoli, Alessandro Angelico, Ferrante Carli, Andrea Boncompagni, Giuseppe Amicucci, e Pompeo Garigliano. L’Aleandri (Difesa, pag. a 6 v.) afferma che due de’ « sopranominati valenthomini » gli dichiararono « che dallo Stigliani non fu letta loro se non certa particella di quanto hora nell’ Occhiale si contiene »; a noi poi sembra strano vedere tra i sottoscrittori il D’Agliè che fu amicissimo del Marino , cui indirizzò un' ode, la quale fu premessa alla Sampogna. GIORNALI- LIGUSTICO I79 io ho voluto in questo mezo donarvelo come faccio: e fac-uolo oltracciò a fine di non lasciare (secondo dice il pro-\erbio) vota la scena, e per suggerir qualche degna esca alla nostra virtuosa aspettazione. Che se bene il Sig. Cavalier Marini è già passato a miglior vita, anche questa parie fu fatta vivente lui, ed in quelle prime settimane, eh’ egli di Parigi venne a Roma , si come io so di certa scienza, e si come indubitatamente apparisce dalla sottoscritta fede de’ degni personaggi, che insino allora lessero manoscritto il tutto ». Dunque 1 Occhiale, se fu pensato di scrivere quattro anni prima, effettivamente, ove il Balducci dica il vero, fu steso nel 25, forse quando il Marino, giunto trionfante in Roma, ritornando dalla Francia, mosse maggiormente l’invidia dello Stigliani. Esaminiamo ora Γ Occhiale, che per un quarto di secolo tenne desta l’attenzione degli scrittori italiani. Esso è diviso in due parti: nel primo si esamina Y Adone esteticamente, cioè in complesso; nella seconda filologicamente, verso per verso. Lo Stigliani vuole « dare sopra Y Adone il suo pieno parere , senza il quale alcuna parte della studiosa gioventù potrebbe forse rimanere per alcun mese ingannata da questo confettato componimento, il quale altro non essendo in vero, che un morto mascherato da vivo; ed avendo tolta in prestito un’anima posticcia, e straniera: falsamente camina, e bugiardamente rispira e rifiata (1) ». Vuole « con questo aggiungimento di libro [cioè il complemento ai tre, col primo dei quali lo Stigliani si giustificava « dalle imputazioni date al suo procedere », col secondo si difendeva « dalle riprensioni fatte a’suoi scritti », e col terzo crivellava « co’ termini dell’ arte tutte l’opere del Marino insino ad ora venute in luce, salvo Y Adone: e questi libri parte non furon mai scritti] sottraere aìY Adone tutti i predetti puntelli segreti. e (1) Occhiale, pg. 11. ι8ο GIORNALE LIGUSTICO tutte Γ occulte forcine che lo sostentano in aria; e se esso dopo ciò rimarrà in piedi, siasi in buon’ ora », perché an-ch’ egli Γ avrà caro ; ma se esso cadrà « abbiasi la dovuta pazienza; perciocché non è lecito nell’arti , e nelle scienze gabbar nessuno, ma tanto meno un mondo tutto (i) ». Quindi lo Stigliani, addentrandosi nella critica dell’Adone, comincia col dire che per giudicare serenamente del valore di un poema eroico conviene esaminarlo « dapprima secondo il tutto , e poi secondo le parti. Secondo il tutto s’ esamina se si ventilano le quattro qualità, che si diffondono per l’intero corpo di quello, le quali sono la Favola, la Locuzione, la Sentenza, e ’1 Costume: e secondo le parti s’esamina se si ventilano i tre membri della sua quantità de’ quali uno non entra neir altro, ma stanno successivamente separati, e sono Γ Introduzione, il Viluppo, e lo Scioglimento ». Per quanto si riferisce alla Favola, egli rimprovera al Marino la mancanza di unità nell’ azione del poema, il quale deve contenere in sé « la semplice azione di un personaggio solo, il quale abbia , o non abbia altri personaggi dipendenti, cioè sia aiutato dall’altrui ministerio, o faccia da sé solo ». Egli quindi condanna che nel poema molti personaggi non sieno tra loro collegati, come Adone , Venere , Marte , Vulcano , Falsirena, ognun de’ quali fa parte a sé. Seconda condizione della favola è, a dir dello Stigliani, di essere compita « cioè avere il principio, il mezzo e ’l fine locati nel debito sito e ben rispondenti tra loro ». Invece la fuga di Amore e la caccia di Venere non sono sufficienti « a generar tanti accidenti, che poi seguono ». Quindi mancanza di principio. Non v’ è il mezzo perché « da essi accidenti non può originarsi la morte d’Adone, la quale nasce dalla falsa gelosia di Marte, senza concorso d’altre cagioni, e senza appartenenza (i) Occhiaie, pg. 12. GIORNALE LIGUSTICO 18 I d altri casi ». Infine il poema manca del fine perché « da essa morte non si distralciano tutte le rimanenti difficoltà ». La terza condizione della favola - séguita lo Stigliani -« che è Γ esser grande, si è quando la sua quantità sta racchiusa fra i due termini estremi, cioè fra la picciolezza, e la smisuratezza ; » e l'Adone difetta di questa proprietà « perché la sua qualità sensata è si minuta e si stretta, che defrauda la conceputa curiosità di chi ascolta, non essendo altro in sostanza che questa brevissima faccenda. Venere s’invaghisce di Adone, da cui senza difficoltà ottien quanto brama : ma perché il giovane per la gelosia di Marte resta ucciso da una fiera, ella lo trasforma in fiore ». Questo per la piccio-per la smisuratezza « perché la sua quantità mentale è tanto spaziosa et immensa, che confonderebbe sicuramente la memoria di Mitridate, somigliandosi ad un vastissimo gigante, eh’ abbia in corpo una ossatura nana, ovvero ad una rana, che camini su i trampoli ». La quarta condizione si è che la favola « sia ben episodiata, cioè che abbia buone uscite; » invece Y Adone altro non è « eh’ una grandissima farraggine di digressioni, le quali stanno appiccate una al- 1’ altra senza appoggio di favola, in guisa appunto , che le foglie dei fichi d’India s’uniscono tra sé senza aver troncone, o pedate; » e accennando alla straordinaria quantità di episodi onde è fertile il poema, rassomiglia Y Adone al Calila e Dimna (s’intende , nella veste italiana dovuta alla elegantissima penna del Firenzuola), nel quale un episodio produce una quantità enorme di filiazioni, oppure a quel « moderno personaggio di Coviello Napolitano, » che « allunga si facilmente in palco i suoi ragionamenti col sempre saltar di palo in frasca ». Venendo alla quinta condizione della favola « la quale è, che sia ravviluppata (cioè che contenga non miseria sola, nè sola felicità, ma miseria dopo felicità o felicità dopo miseria), Ιδ2 GIORNALE LIGUSTICO non appartiene qui a tutta l’azione, ma solo ad alcune parti di quella: » VAdone manca di questa condizione, perché, riguardo alla semplicità « molte sue parti contengono o sola miseria, o solo felicità, » e per quanto si riferisce « all’ in-veschiamento , fa [il Marino] una mistura non ravviluppata, ma impiastricciata, la quale non si capisce, né diletta, non essendo fatta con buona catena, né con legittime mutazioni, e riconoscimenti (i) ». La sesta condizione della favola « sì è che sia mirabile , cioè che generi negli animi degli ascoltatori la meraviglia coll’ avvenimento di cose inaspettate, nuove e diverse ». Però tale meraviglioso può « cadere per tre vie, per vulgarità, per furto, e per reiterazione ». In questi tre difetti cade Y Adone: per il primo perché molte (i) A questo proposito lo St. narra questo aneddoto: « Aia buon per Γ autore, e meglio per li lettori, eh’ egli non ha posto in questo poema una certa sua descrizione di discordia, eh’ un tempo è , diceva di voler porvi, la quale mi fece udire in Parma presente il dottor Magnani, fatta a gara della Discordia dell’Ariosto, eh’ avvien nel campo di Agramante. Di che (cioè che tal descrizione qui non sia) ora deono cosi esso autore, come essi lettori, avere alcuno obbligo a me: il qual mi ricordo, che dopo aver ostinatamente fattamela leggere tre volte da lui medesimo, e non averla mai saputa intendere, proruppi liberamente in tali parole per la vecchia domestichezza , eh’ era tra noi : « Signor mio , questa non è discordia , ma confusione , né credo che concorra con PAriosto, ma con Nembrotte ». « Come diavolo (mi rispose egli alquanto riscaldatosi) che questa non è discordia? Sentitela in prosa ». E qui con fervente ansietà cominciò da capo a raccontarla a mente. Ma intrigatosi più assai che prima, e spesso ricorrendo cogli occhi al foglio, eh’ avea in mano, non ne venne a fine, ché dal mio riso, e da quel del Magnani, quasi rapito a ridere ancor’ esso , voltò ragionamento e disse: « Non vo’per ora fa-tigar l’ingegno in provar questa cosa , anzi vo’ recitar altro : perché so che voi v’ infingete di non intenderla per diletto, eh’ avete di farmi entrare in barca ». E cosi restaurò la conversazione col recitare alquanti lieti sonetti burleschi ». Occhiale, pg. 44. GIORNALE LIGUSTICO 183 parti della sua azione avvengono secondo il comun corso delle cose mondane, come è per esempio il raccontamento di Clizio; » per il secondo « perché se vi è alcune parti, eh’ abbiano in sé i dovuti requisiti della meraviglia, non possono produrla, perché non trovano ignorante il lettore, essendo tutte rubate di peso da altri scrittori » specialmente da lui; « come è per esempio la storia di Dorisbe , e di Cloridoro figliuolo finto di Erbosco, » la quale - a dir dello Stigliani - è la medesima « con quella di Tarconte, e di Nicaona, ed ha Tistesso progresso, l’istesso esito, e l’istesse circostanze ; » cade infine « per reiterazione, perché non varia né nodi , né scioglimento , ma si serve spesso de’ medesimi ». Settima condizione della favola « che è Tesser credibile, importa più che tutte l’altre insieme, ed in questa agitur de foto asse, per esser la più essenziale nell’ arte poetica, la quale, a diffinirla in ristretto, altro non è che for-mazion del verisimile ». Il quale si divide in necessario e contingente. L’Adone difetta della prima qualità, in quanto che « la sua favola non può esser creduta né tutta, né parte dal lettor cristiano , essendo cosa totalmente pagana, e gentile , cosi ne’ personaggi, come nell’azione; » difetta della seconda « perché molte sue parti sono incredibili, benché fossero avvenevoli, come è per es. quando nel C. XIV una quantità d’api ammazza colla puntura uomini armati. Il che può bene essere, trovandosene di quelle che sono velenose : ma il dirlo in un poema eroico si è contro l’obbligo del buon favolatore, il quale dee più tosto servirsi dell’ impossibile, che si crede, che del possibile che non si crede; per rispetto che 1 adeguato uditor delle poesie non è altri, che il comunal popolo per concorde sentenza de’ miglior critici. Che però diceva Dante : Spesso a quel ver, c’ ha taccia di menzogna Chiuder si dee le labbra. 184 GIORNALE LIGUSTICO L’ ottava condizione della favola - séguita il feroce oppositore - « che è 1’esser gioiosa, convien solamente al fine, ed è quando il personaggio personale conseguisce felicemente quel, che s’ avea proposto per frutto dell’ azione ; » invece i personaggi àe\Y Adone finiscono male, perché Adone muore ucciso, Venere resta sconsolata, e Marte cade in disgrazia di Venere. « Il qual fine atroce convien bene alla tragedia più volte, ma non mai all’ epopea, non essendone infine al di d’oggi stata scritta niuna, che non si termini in allegrezza , se non forse da qualche sregolato romanzatore, e massime in lingua nostra, quali in ispezialtà furono quel del Morgante, e quel della Leandra. De’ quali due libri l’uno finisce colla morte d’esso Morgante, e de’ Paladini, e l’altro colla morte d’ essa Leandra , uccisa per amor portato a Rinaldo ». La nona ed ultima condizione della favola « che è 1 esser varia, si è il contener personaggi, ed accidenti, de’ quali l’uno non sia simile all’ altro, ma si dissomiglino per quante vie sia possibile alla lor necessaria convenienza. Puossi questa vera varietà contaminar per due strade, e cioè, per similitudine di persona, e per similitudine di avvenimento; » e l'Adone cade in questi due difetti: nel primo « perché le persone più importanti son tutte Dei (da Adone in fuori), tutte lascive e tutte innamorate, e tutte effeminate, senza pur eccettuarne Marte stesso » ; nel secondo perché « gli avvenimenti son tutti miracoli, tutte trasformazioni, e tutti amori osceni ». (Continua). M. Menghini. GIORNALE LIGUSTICO I 85 VITA DI GUARINO VERONESE (Continuazione, vedi pag. 13$). 159. Guarino e il Trebisonda si erano conosciuti a Venezia nel 1417-1418, dove per alcuni mesi il Trebisonda udì le lezioni di Guarino; ma non furono in buoni rapporti di vicinato quando insegnavano l’uno a Verona, l’altro a Vicenza. Il Trebisonda avea molta boria greca, congiunta a leggerezza giovanile, e non conosceva il latino che un po’ grammaticalmente: tre circostanze che impedivano di renderlo simpatico a Guarino. Quando gli scolari di Guarino passavano da Veiona a \icenza, pare che il Trebisonda nell’accettarli alla sua scuola li sottoponesse a un esame troppo pedantescamente grammaticale; e Guarino, più stilista che grammatico e abituato ad elevarsi dalla parola al pensiero e al sentimento, doveva aver concepito un certo disprezzo per quell’ uomo. x6o. E a lui infatti allude con frasi coperte, ma molto acri, in una lettera del 1421. Ivi parla di certi mostri d’uomini, che « arrivati alle prime pagine della grammatica si dànno il pomposo nome di scienziati. Essendo soli essi ignoranti, si credono giusto appunto i soli sapienti e non par loro vero, quando si imbattono negli allievi altrui, di dimostrarne la ignoranza, interrogandoli su quelle pedanterie, che essi hanno imparato a furia di sgobbo e che sono indegne di un uomo e da lasciarsi ai ragazzetti, quali sono le figure, i casi, i gerundi e quisquiglie di simil genere. La sorte di gente di tal fatta è che gli scolari entrano da loro rape ed escono carote ». Il Trebisonda rimase a Vicenza certo sino al termine del 1426, in ogni modo non molto dopo, ι86 GIORNALE LIGUSTICO perchè nel 1428 era tornato per qualche tempo in Grecia; e poi egli lasciò Vicenza, mentre Guarino stava ancora a Verona. Anzi, diceva lui, la dovette lasciare per le mene di Guarino, che era geloso del suo vicino collega; secondo invece una testimonianza più attendibile, la vera ragione era che egli con le sue fanfaronate avea nauseato i Vicentini. 161. Contemporaneamente al Trebisonda insegnò a Vicenza il vicentino Cristoforo Parma, ma come institutore privato. Cristoforo era prima a Venezia, ma i Vicentini fecero tante premure, che lo ottennero nel 1420, quantunque non deve aver molto incontrato. Qualche anno dopo lo ritroviamo a Venezia. Negli anni 1420-1421 era in Vicenza Pietro Tommasi, medico e letterato veneziano e vecchia conoscenza di Guarino. Saputo Guarino che il fratello, già morto, di Pietro aveva composto un trattato sulla povertà, gliene domanda un esemplare con uno dei suoi soliti giochi: « arricchiscimi, gli scrive, della tua povertà, perchè io possa conoscere sì grande virtù e imparare ad esercitarla di buon animo ». Il Tommasi lo aveva incoraggiato a tradurre in latino una orazione greca di Manuele Crisolora, anche per rendere un tributo alla memoria dell’ illustre maestro. Guarino non la tradusse, ma per compenso rispose al Tommasi affettuose parole in lode del Crisolora. A Vicenza Guarino aveva molti amici, quali il Francaciani, Matteo Bissaro, Niccolò Dotti, suo scolaro, ε più di tutti Girolamo Gualdo, col quale teneva viva corrispondenza, scambiando codici, mandandogli i propri lavori, p. e. l’orazione funebre per il Loredan, e informandolo dello stato della sua famiglia. Girolamo era come uno di casa e Guarino volle perpetuare la loro scambievole amicizia mettendo il nome di Girolamo al suo primogenito. Nemmeno nel 1424 sulle montagne trentine Guarino si dimenticò di lui e da Pergine gli mandò le proprie notizie. GIORNALE LIGUSTICO τ 87 ι62. Più attivi si fanno gli scambi di Guarino con Vicenza nel 1425, l’anno in cui vi andò podestà Francesco Baroaro. Era stato nominato a quel posto sin dal 1424, ma quello fu anno di gran peste a Vicenza e il Barbaro si trattenne a Venezia. Avea preso possesso della nuova carica certo al principio del 1425 e portò seco il Biondo, come segretario, e il nipote Ermolao; più tardi ci troviamo qualche altro della famiglia Barbaro ed Ermolao Donati. Ivi Francesco Barbaro rinnovò 1’amicizia col Gualdo, che aveva conosciuto a Padova e a Venezia. Col Barbaro Guarino corrispose frequentemente, soprattutto per raccomandazioni spettanti al suo ufficio di podestà, sempre ben inteso con la clausola συν σου. Col Biondo era pure in frequente relazione ora per codici, come quello dell’Epistolario Pliniano, di cui l’arcivescovo Capra desiderava una copia, e delle opere retoriche di Cicerone; ora per affari di altro genere, come l’incarico dato dal Biondo a Guarino di cercargli dei cavalli e un cuoco. 163. La risposta di Guarino sul cuoco comincia con un saluto culinario. Indi segue dicendo che voltate le spalle alla letteratura si dedicò tutto al mestiere della cucina. « Ho raccolto intorno a me una assemblea di guatteri, vivandieri, parassiti e mangioni e ho messo loro innanzi il nome del cuoco vescovile, quale candidato al posto da te offerto. La candidatura fu accolta ad unanimità e con plauso. Quel cuoco netta così bene i piatti, che quando non gli basta lo strofinaccio, chiama in aiuto la lingua e anche i calzoni. È pure molto economico; così p. e. se qualche animaluccio gli cade dalla testa nelle pietanze, si fa uno scrupolo di levamelo : sarebbe un assottigliare la porzione; parimenti si dica di qualche goccia che gli si stacchi dal naso. E misura il condimento, anzi per risparmiare il lardo adopera il sego. Uomo inoltre quietissimo, chè dorme giorno e notte per le gran sbornie ISS GIORNALE LIGUSTICO che piglia. Lo chiamano Chichibio ». È noto che Chichibio è il protagonista di una novella del Decamerone. 164. Il Biondo aveva con sè la moglie e doveva far con essa una gita a Verona, la quale sarebbe riuscita graditissima a Guarino, perchè così le loro donne avrebbero avuto occasione di conoscersi. Ma il Biondo non potè. Guarino in compenso gli mandò per qualche tempo a Vicenza il piccolo Girolamo. Andò poi egli due volte a Vicenza: la prima nel- 1 aprile, la seconda nel giugno. Nella prima Guarino vide Giovanni da Castelnuovo, maestro di retorica, che stava allora a Vicenza. La visita gli fu restituita per parte degli amici di casa Barbaro dai due Ermolai, il Barbaro e il Donati. Nella funesta occasione della morte della suocera Guarino ricevette parole di sincera condoglianza e di conforto dal giovinetto Ermolao Barbaro e dal Gualdo. Il Gualdo in quel tempo partiva per Firenze, dove aveva ottenuto una magistratura, con lettere commendatizie del Barbaro e di Guarino. i6j. Da Vicenza partì più tardi, nell’ottobre, anche il Biondo per andare a Padova come segretario di Francesco Barbarigo, nominato di fresco capitano di quella città. Quel posto fu ottenuto dal Biondo per mezzo dei buoni uffici di Guarino e del Barbaro. Il Barbaro si trattenne molto ancora a Vicenza, sino cioè al principio dell’anno seguente 1426, perchè attendeva alla compilazione e pubblicazione degli statuti della città: lavoro poderoso e grandemente meritorio, che immortalò la pretura vicentina del Barbaro. Alla fine del 1425 era ultimato e Guarino, pregato dai Vicentini e dal suo diletto scolaro, gli premise l’introduzione. 166. Nel 1426 il Gualdo tornò dalla magistratura di Firenze , portando notizie di quella città. Nell’agosto del 1427 prese moglie. Alle nozze era stato invitato anche Guarino, ma non potè andare. « Del resto, gli scrive, non hai per- GIORNALE LIGUSTICO 189 duto nulla, perchè ad aprir certe brecce in certi castelli ci vuole la tattica nuova di voi altri giovanotti; noi veterani del secolo passato abbiamo una tattica ormai antiquata e che adesso non serve più ». E ritorna poi su queste allusioni scherzose e un po’ ardite: « Quanto sei valoróso patrono per i tuoi clienti, altrettanto devi essere robusto guerriero con la tua Penelope; decet enim bisce primis congressibus ut quantum te lectio singularem, tantum te lectus pluralem cognoscat. Qua in re culare, imi! curare voliti dicere, debebis, ut non solum tu uxorem duxeris, ut scribis, sed et te uxor ducat, ut mutua sit vicissitudo ». Nel giugno 1428, quando il Gualdo per la peste si era da Vicenza ricoverato a Sarego, Guarino gli mandò in dono il suo S. Agostino, postillato da lui quando era in Tirolo, perchè con quella lettura ingannasse le lunghe ore d’ ozio, traendone insieme frutti di pietà cristiana. 167. Non meno che tra Guarino e Vicenza, il Gualdo servì di anello di congiungimento tra Guarino e Firenze. Egli andò due volte a Firenze. La prima nel 1420 e fu una gita di piacere. In quell’ occasione il Gualdo conobbe personalmente fra gli altri il Niccoli e il Traversari, coi quali parlò a lungo di Guarino. A Firenze aveano concepite speranze di riaverlo, ma erano illusorie; Guarino « a niun costo sarebbe più tornato a Firenze ». Si parlò anche delle invettive pubblicate in quell’anno contro il Niccoli da due suoi nemici, l’uno dei quali il Benvenuti, quegli stessi che non avevano risparmiato nemmeno Guarino quand’era in Firenze. Egli era già stato informato di tutto dal Niccoli e dal Traversari, ma ora che il Gualdo di ritorno da Firenze gli fornì notizie più minute, si sente oltre ogni credere nauseato. 168. La seconda volta che il Gualdo andò a Firenze fu nel 1425, quando ottenne per mezzo dei buoni uffici di Francesco Barbaro la magistratura della mercanzia in quella città ; partì nell’ agosto con lettere commendatizie del Barbaro 190 GIORNALE LIGUSTICO e di Guarino. Così Guarino ebbe occasione di rinfrescar la memoria con gli amici fiorentini. Tornato il Gualdo nel 1426, gli scrisse di un certo scalpore sollevato da un tale a Firenze contro Guarino, su di che dava maggiori ragguagli una lettera da Firenze di Mariotto Nori. 169. Nè fu questo il solo screzio che ebbe Guarino nelle sue relazioni con Firenze. Ce ne fu un altro, e quello veramente dispiacevole. Si trattava del Bruni. Era stato riferito da persone autorevoli, ma pare malignamente, che il Bruni a Firenze in presenza dei Medici e di altri avea sparlato di Guarino in modo da ledergli 1’ onore. Del che egli sdegnato scrisse, non al Bruni direttamente, e in ciò fece male come egli stesso confessa, ma ad amici comuni, lagnandosi del-Γ offesa in modo molto vivace e risentito. Per tal guisa Γ incidente, che doveva esser leggero, ingrossò e già si minacciava una rottura fra i due vecchi e provati amici. Il Bruni pare sia stato il primo a muovere i passi per toglier l’equivoco e scrisse, verso il febbraio del 1421, al Salerno allora podestà a Siena. Il Salerno si interpose subito tra i due contendenti e con buon esito, poiché Guarino rispose a lui, che il malinteso era cessato e scrisse nel medesimo tenore al Bruni. Il Bruni non rispose, ma non ce ne era bisogno: tutto era appianato di tacito accordo; dall’altra parte stuzzicare certe ferite ancor fresche, sia pure con retta intenzione, è sempre pericoloso; il silenzio è il miglior partito. Del resto Guarino non mancò mai, scrivendo agli amici di Firenze, di mettere i saluti per il Bruni. Quando poi si presentò una favorevole occasione, la nomina del Bruni a cancelliere della repubblica fiorentina nel 1427, allora Guarino se ne congratulò con lui per lettera. E il Bruni rispose in guisa da dare ampia soddisfazione al vecchio amico, toccandogli delicatamente dell’ antico litigio e ringraziandolo delle congratulazioni. GIORNALE LIGUSTICO 191 170. Del rimanente, tolti questi due screzi, le relazioni di Guarino con Firenze furono sempre cordiali, soprattutto col Niccoli, col Traversari, con Angelo Corbinelli, con Giovanni Boscoli e, meno il piccolo incidente, col Bruni. Nel 1422 Ermolao Barbaro, suo alunno, dedicò al Traversari la versione latina di Esopo. Nel febbraio del 1424 capitò a Firenze dal Traversari frate Alberto da Sarzana, che gli parlò piacevolmente di Guarino. Nel 1423 andò a Verona a studiare con Guarino Mariotto Nori, un raccomandato del Traversari. Il Nori era stato qualche tempo prima commesso d’affari a Venezia di Palla Strozzi; venuto a Verona, vi si trattenne un paio d’anni; indi passò alcuni mesi a Mantova a copiar codici per i principi Gonzaga; tornò a Verona e di là nel 1426 rimpatriò a Firenze. 171. Aveva una bella calligrafia, specialmente nella scrittura che allora chiamavano « antica ». Guarino andava in visibilio quando ne parlava e gli fece copiare un Giustino. Era un bravo giovinotto, di buona famiglia, ma aveva un difetto: l’instabilità congiunta a un po’ di vanità. Guarino lo chiamava figlio di Eolo sia perchè mobile, sia perchè borioso; quando p. e. parlava de’ suoi antenati, contava miracoli e le sparava grosse quanto mai. Ma saputo pigliare per il suo verso, gli si faceva fare quel che si voleva. Nel rimpatriare si fermò a Ferrara, dove conobbe lo Zilioli , che gli propose la trascrizione di un Servio antico e diffìcilmente decifrabile. Le pratiche durarono a lungo in mezzo a molte incertezze, ma finalmente dopo più di un anno la copia fu compiuta e Γ eleganza e 1’ esattezza dell’ esemplare soddisfecero Guarino e lo Zilioli, compensandoli così del patito ritardo. 172. Il numero degli amici di Guarino a Firenze è cresciuto negli ultimi mesi del 1425 con l’arrivo dell’Aurispa, che fu nominato professore di quello studio. Nel 1427 par- 192 GIORNALE LIGUSTICO tiva da Verona alla volta di Roma Marco Campesano; nel passaggio per Ferrara fu da Guarino raccomandato allo Zilioli e nel passaggio per Firenze al Nori, al Niccoli, al Boscoli. 173. Non molto intimi nè molto frequenti sono i rapporti di Guarino con Roma, dove non c’è che il Poggio, che lo tenga in una certa corrispondenza con la curia pontifìcia. E nelle sue lettere a Guarino il Poggio non si dimentica del Barbaro, il quale del resto si trovò con lui due volte a Roma: nel 1426 e nel 1428. Tutte e due le volte ci andò come ambasciatore; nel 1426 di ritorno passando da Firenze riconciliò il Niccoli col Bruni. Non mancavano poi Veronesi che andassero a Roma; così nel 1421 ci fu il Salerno a prendere possesso della dignità senatoria e a recitarvi il discorso di ringraziamento innanzi al papa; nel 1425 c’era il canonico Filippo Regini, alunno di Guarino, nel 1426 un prete Alessandro che dava un po’ da dire sulla sua condotta, e non so in quale anno un altro prete, Antonio Malespina vicario del vescovo. A Roma si recò, per non poter reggere al peso delle imposte, nel 1425 un amico del circolo fiorentino, Antonio Corbinelli, e in quell’anno stesso vi morì, con gravissimo dolore e lutto di Guarino, che era stato da lui ospitato in casa propria a Firenze e che 1’ amava come un fratello. La triste notizia fu partecipata a Guarino dal canonico Filippo e da Guarino al Barbaro, che parimenti stimava ed amava P estinto. 174. Guarino fece una gita a Mantova, che gli lasciò poco gradita impressione, perchè in tre giorni che vi stette non seppe ben distinguere se era giorno 0 notte. « Ivi non si vede che acqua e non si odono che rane. Le case sono in maggior numero che gli abitanti; nelle piazze si trovano le alghe e per le strade si inciampa nei porci ». Quando vi andò c’ era il Giuliani, probabilmente con qualche pubblico GIORNALE LIGUSTICO τ93 ufficio. A Mantova Guarino conosceva il vescovo. Nel 1425 eiavi vicepodestà un veronese, Galesio della Nichesola, al quale Guarino scrisse una lettera, perchè rintracciasse una orazione di Cicerone trovata in Verona e migrata colà. 17 5- Guarino godeva molta stima presso i signori Gonzaga, che lo invitarono alla loro corte come institutore. Non accettò e poco dopo fu invitato Vittorino da Feltre, suo alunno a Venezia, che nutriva sempre amore e rispetto per il suo maestro. I buoni frutti della scuola di Vittorino si videro ben tosto in una lettera che il principino Lodovico, decenne appena, scrisse nel 1424 a Guarino. Guarino rispose compiacendosi dei felici risultati e congratulandosi che dal maestro inetto, che avea prima, fosse passato sotto la disciplina di Vittorino, che egli chiama optimus vir e doctissimus magister e dal quale gode di sentirsi lodato. « Del resto se mi chiama suo precettore, più che merito mio, è bontà e gratitudine sua, il quale ottimo com’è mi decanta quale desidererebbe che io fossi. E quel poco che io gli insegnai, e quanto poco sia stato lo so io, egli lo esagera al punto da far di una pulce un elefante. Prendilo pertanto, se hai fede in me, a guida nella vita e nello studio e imita costantemente il suo esempio ed egli diventerà per te quello che dice Omero di Fenice per Achille: eccellente maestro di ben dire e di ben operare ». Il principino gli domandava una redazione corretta dell’ Orator di Cicerone e Guarino gliela promette, appena avrà il modo e 1’ opportunità. 176. Anche a Brescia troviamo un piccolo nucleo di amici di Guarino; ma è costituito non di elementi stabili, sibbene raccogliticci, ed ha breve vita, dal 1427 al 1428; gli elementi appartengono al gruppo veneziano. È il caso a un dipresso di Treviso nel 1423. Brescia fu, si può dire, il perno delle operazioni strategiche della guerra combattuta negli anni 1426-1428 tra Milano e Venezia. La Serenissima Giorn. Ligustico, Antio XVIII. 13 194 GIORNALE LIGUSTICO mandò a Brescia in qualità di capitano Niccolò Malipiero, in qualità di podestà Pietro Loredan. Il Loredan si portò come cancelliere il Biondo. 177. Il Biondo pertanto era stato nel 1425-1426 a Padova col Barbarigo e ora nel 1426-1427 accompagnava il Loredan a Brescia. Ma in quest’ anno lasciò il servizio della repubblica veneta. Forlì dopo un triennio di occupazione viscon-tesca era stata sgombrata e consegnata in potere del papa Martino V, che vi mandò a governarla Domenico Capranica. Il Biondo così era libero di rimpatriare, anzi ottenne un posto presso il Capranica e intanto avea fatto partire per Forlì la famiglia; egli vi andò nell’agosto 1427. Guarino fu in frequente carteggio col Biondo a Brescia, a cui si raccomandava ora perchè gli trovasse una serva, ora perchè gli narrasse gli avvenimenti della guerra. Ma sugli avvenimenti della guerra poteva informarlo meglio Battista Bevilacqua, che aveva un comando nell’ esercito sotto la condotta suprema del conte di Carmagnola. E in effetto gli descrisse minutamente la giornata di Maclodio; e della descrizione si giovò Guarino nel comporre l’elogio del Carmagnola, del quale mandò copia al Bevilacqua perchè lo diffondesse. Guarino avea progettato nel maggio di quell’anno, 1427, una gita a Brescia a trovarvi il Biondo, ma non lo fece. Non ne dovette smettere del tutto l’idea, perchè in quel torno trattava col Capra, arcivescovo di Milano, un abboccamento a Brescia, quantunque nemmeno questa volta ci andò. 178. Col Capra entriamo nel circolo milanese. Il Capra fu fatto arcivescovo di Milano nel 1414, ma non entrò in stabile possesso della sua residenza che nel 1422. Prima di quel tempo avea preso parte attiva al concilio di Costanza, dove si trovò presente per la elezione di Martino V. Indi fu incaricato di alcune ambasciate alle corti europee, p. e. in Germania, donde tornava nel 1422 e fu allora che fece l’ingresso a Milano. giornale ligustico 195 Nel principio del 1428 passò governatore a Genova, dove stette circa un quinquennio; e poi prese parte al Concilio di Basilea, ma per poco tempo, chè mori colà nel 1433. Fu uomo illuminato, promotore degli studi, ricercatore di codici e perciò lo vediamo in intimo e frequente commercio con gli umanisti. Guarino e il Capra erano vecchi conoscenti, ma da molti anni non si scrivevano ; solo nel 1425 rinnovarono 1 amicizia. In quell’anno il Capra, saputo che Guarino aveva scoperto e divulgato il nuovo codice dell’ Epistolario di Plinio, gli scrisse pregandolo di allestirgliene una copia. Guarino lo soddisfece servendosi dell’ opera del Biondo. Nel 1427 andarono a Milano Francesco Brenzoni e Filippo Regini canonico, veronesi; e in quell’occasione ci fu scambio di lettere affettuose tra Guarino e il Capra. 179. Guarino allora interpose l’arcivescovo perchè gli ottenesse da Giovanni Corvini un Macrobio ; ma Γ interposizione non giovò a nulla; il Corvini era stato battezzato dal Capra per un’ arpia, poiché accumulava codici senza farne parte agli amici. Nè era stato quello il primo tentativo di Guarino per aver codici dal Corvini, specialmente un Gellio e un Macrobio, ai quali fece Γ amore parecchio tempo. Avea già interposto il Casati, un milanese, conosciuto nel 1419 per mezzo del Maggi, avea interposto lo Zilioli, ma sempre inutilmente. Da ultimo Guarino cercò di mettersi in corrispondenza diretta col Corvini e ciò fece nel principio del 1428, prestandogli un proprio codice. Ma il Corvini anche questa volta duro; sicché Guarino ebbe ragione di risentirsene e dargli dello scortese, giurando che non gli presterebbe più codici. 180. Giovanni Corvini era nativo di Arezzo , donde partì presto per Milano e ivi entrò al servizio del Visconti come segretario. Morì nel 1438. Aveva buoni rapporti con gli umanisti fiorentini, quali il Niccoli, il Traversari, e coi mi- 196 GIORNALE LIGUSTICO lanesi, soprattutto col Barzizza, che fu institutore di uno dei suoi figliuoli. La passione predominante del Corvini era raccoglier codici, dei quali possedeva già una rilevante collezione sin dal 1412, p. e. un Epistolario ad Attico, una commedia latina a noi ignota e quel Gellio e quel Macrobio, a cui dava la caccia Guarino. 181. A Milano in quel tempo veniva su un forte ingegno, che spiegò grande operosità nel campo politico e nel campo letterario: Pier Candido Decembrio, nato nel 1399 a Pavia. Ivi bambino dai tre ai quattro anni aveva ricevuto le carezze di Manuele Crisolora, che insegnava a Pavia nel 1400-1403. Nel 14x3 il padre Uberto faceva pratiche per collocarlo presso la curia pontificia, ma preferì poi di metterlo al servizio del duca Filippo Maria Visconti; morto il Visconti, il Decembrio passò nella curia. Negli anni 1420-1430 le relazioni del Decembrio si fecero estesissime. Corrispondeva con Ogniben Scola, che stava a Pinerolo, con Gerardo Lan-driani vescovo di Lodi, coi Bossi di Como, con Feltrino Boiardo di Ferrara, col Loschi a Roma, con Galasso Correggio e Tommaso Cambiatore a Reggio, con Carlo Fieschi e Giovanni Stella a Genova e col De Marinis arcivescovo di quella città, coi Medici, col Niccoli e col Bruni a Firenze. Non parliamo dei letterati e uomini di stato del circolo milanese, come Zanino Ricci, Guarnerio Castiglioni, il Becchetti, Cambio Zambeccari, Antonio da Rho, il Capra, il Barzizza. 182. Nel 1425 strinse rapporti anche con Francesco Barbaro e con Guarino. Nell’ottobre di quell’ anno il Decembrio andò a Venezia, a trattare con la Serenissima un acquisto di vettovaglie per Milano. Contava egli di visitare il Barbaro e nel passar da Verona anche Guarino; ma la partenza da Venezia fu affrettata e le due visite non furono fatte. Ciò non tolse al Decembrio, tornato che fu a Milano, di scrivere all’ uno e all’ altro e stringere per lettera quell’amicizia, che GIORNALE LIGUSTICO 197 non aveva potuto personalmente. Guarino corrispose volentieri all’ invito e da buon maestro correggeva gli errori di greco delle lettere del Decembrio, il quale allora moveva i primi passi nella conoscenza di quella lingua. 183. Sulla fine dello stesso anno andarono ambasciatori a \^enezia anche il Corvini e il Barzizza. Il Barzizza intendeva parimenti di fermarsi a Verona a salutar Guarino, ma ne fu impedito pur esso. Glie ne scrisse un paio d’ anni più tardi, chiedendogli scusa, nella occasione che gli raccomandava Francesco Mariani, suo allievo, il quale si recava a studiare il greco da Guarino. Il Barzizza stava a Milano sin dal 1420, come professore di retorica. Ivi nel 1422 rese un gran servizio alle lettere, decifrando e dividendo in capitoli le opere retoriche di Cicerone trovate a Lodi dal vescovo Lan-driani. Il codice fu portato al Barzizza a Milano da Giovanni Omodei; il Barzizza lo fece esemplare dal cremonese Cosimo Raimondi. In quell’ anno stesso Guarino mandò a nome degli umanisti veronesi il suo alunno Giovanni Arzignano dal Barzizza a trarre una copia del nuovo codice. Ma per allora non si potè ottenere che Y Orator. Solo più tardi, nel 1428, Guarino ebbe per mezzo del Lamola un apografo intero ed esattissimo dell’archetipo di Lodi. E un altro codice ebbe per mezzo del La-mola , il Macrobio cioè del Corvini. Il Lamola era a Milano dalla fine del 1426, in cerca di nuova fortuna. Ivi aveva trovato una occupazione presso Cambio Zambeccari e intanto si era messo in relazione con l’arcivescovo Capra e con altri illustri personaggi di Milano. 184. Avanti di andare a Milano il Lamola stava in Bologna, sua patria. Quando seppe nel 1419 che Guarino era passato a Verona, andò alla sua scuola, che frequentò sino all' ottobre circa del 1425. Così il Lamola diffuse a Bologna la fama del suo maestro e Guarino intrecciò vivo commercio epistolare con quell’ antico e rinomato centro di studi. Assai GIORNALE ligustico vi contribuì anche la presenza in Bologna del Salerno, che fu podestà di quella città il secondo semestre del 1419, e si acquistò tanto la stima pubblica, che allo scader dell’ufficio gli venne riconfermato per un altro semestre, dal gennaio al giugno 1420, onore raro a concedersi. Una bella prova della nominanza che godea Guarino a Bologna 1’ abbiamo neir offerta di una cattedra che gli fu fatta nel 1424 dai Bolognesi, i quali del resto non si perdettero di coraggio al primo rifiuto e rinnovarono qualche tempo dopo, verso il 1430, l’invito per mezzo di Alberto Zancari amico di Guarino; ma anche la seconda volta rifiutò. 185. Bologna nel tempo che Guarino insegnava a Verona presenta un vivace e molteplice movimento di operosità letteraria. Non ultima fra le cause è la parte che vi presero l’arcivescovo Niccolò Albergati, liberal mecenate, e il suo segretario Tommaso Parentucelli, il futuro papa Niccolò V. Entrambi corrispondevano con gli umanisti di Firenze e cercavano codici. xVIa lo scovatore era proprio il Parentucelli, che nei viaggi dell’Albergati nel 1427-1428 in Lombardia e a Ferrara, dove trattava, la pace come intermediario fra Venezia e Milano, visitò monasteri e chiese in cerca di codici, p. e. il monastero di Nonantola sul territorio di Modena e quello di Pomposa presso Ferrara, la chiesa di S. Ambrogio di Milano, la Certosa di Pavia, la cattedrale di Lodi. Scopritore e possessore di buoni codici era pure il Rinucci, segretario del veneziano Gabriele Condulmier, amico di Guarino, il futuro papa Eugenio IV e allora (1424) legato apostolico a Bologna. Troviamo a Bologna altra gente di minor levatura, p. e. tra il 1424 e il 1425 Berto Ildebrandi, An-dreozzo Pierucci senese, frate Andrea da Rimini, Giovanni da Luni, Antonio grammatico, Giovanni Toscanella, un antico scolaro di Guarino a Firenze, Tommaso Pontano, suo scolaro di Verona. GIORNALE LIGUSTICO I99 186. Un novello impulso fu dato agli studi in Bologna dalla venuta dell’ Aurispa. Egli tornava da Costantinopoli col seguito dell’imperatore. Si fermò con lui a Venezia, a Verona, e con lui andò a Milano, dove si trattenne sino al giugno del 1424. Di là prese la via di Bologna. L’Aurispa giungeva coi suoi trecento codici greci, con l’aiuto dei quali sperava di carpire da qualche città, p. e. da Firenze, un grasso collocamento. Egli era esperto mercante di codici e sapea trarre il maggior profitto possibile dalla sua merce. Però le trattative con Firenze gli andarono fallite, almeno per il momento; intanto dovette acconciarsi ad accettare una cattedra di greco a Bologna. Guarino, che nel febbraio 1424 lo aveva conosciuto a Verona, nel febbraio dell’anno dopo, di ritorno dal Tirolo, gli scrive congratulandosi dell’onore che gli avevano reso i Bolognesi. Le pratiche con Firenze ebbero miglior esito nel 1425 ; infatti nel settembre dell’anno stesso l’Aurispa partì per quella città dove aveva ottenuto la cattedra di greco. 187. Prima che l’Aurispa lasciasse Bologna, vi capitò Antonio Panormita, lo studente girovago, che dopo aver peregrinato per Firenze, Padova, Siena, veniva a piantar le tende a Bologna. Con l’Aurispa erano conoscenze vecchie; ivi rinnovarono l’amicizia e il poco tempo che stettero insieme lasciò traccia in alcuni epigrammi dell’Ermafrodito, al quale il Parnomita dava allora gli ultimi tocchi. 188. La pubblicazione dell’ Ermafrodito a Bologna nel gennaio del 1426, se pure non uscì qualche mese prima, fu uno degli avvenimenti più memorabili di quei tempi. Le poche voci, che in sul principio gridavano allo scandalo, rimasero coperte dal coro universale degli applausi, che partivano dagli umanisti spregiudicati, ammiratori della forma disinvolta e facile e avidi di quelle nudità pagane, che aveano gustate in Ovidio, negli epigrammi di Marziale, nei Priapei 200 GIORNALE LIGUSTICO e un pochino anche in Catullo. L’ opposizione grossa e pericolosa sorse più tardi, quando , calmato il primo entusiasmo, i minoriti dal pulpito ebbero agio di scagliar F anatema sul sacrilego libello. E dico anche opposizione pericolosa, intendendo quella che fu mossa al Parnomita dal partito milanese , capitanato dal frate Antonio da Rho; poiché quel partito aveva una certa autorità e presso il pubblico e nella corte e a furia di punzecchiare scosse la posizione del Pa-normita in Pavia. 189. L’araldo dell’ Ermafrodito fu il Lamola, che lo spedi a Guarino ad insaputa dell’ autore stesso, e poi andò a Roma a diffonderlo tra gli umanisti della corte pontifìcia, dove lo lessero subito il Loschi, il Poggio ed altri. Guarino, l’uomo dei severi costumi, il paladino del matrimonio, l’esatto osservatore delle pratiche cristiane, divorò quegli epigrammi, dove si predicava tutto il contrario di ciò che egli sentiva e professava, e ne fece propaganda a Verona. Il giudizio che ne diede nella lettera al Lamola è rimasto famoso, possiamo dire, quanto V Ermafrodito stesso. 190. Egli ammira la dolcissima armonia del verso, la spontaneità della dicitura, la naturalezza della frase, la scorrevolezza del periodo. Ma il componimento è lascivetto e alquanto procace. « E che forse per questo si dovrà scemar lode all’ ingegno del poeta? Apelle e gli altri pittori dipinsero nude certe parti del corpo che devono star celate: meritano perciò minor lode? Non ammireremo la valentia di un artista, anche quando ci ritragga al vero e maestrevolmente un verme, una biscia, un topo, uno scorpione, una rana, una mosca, che pur sono bestie poco simpatiche, anzi moleste? Io per parte mia lodo il poeta e applaudo al suo ingegno e mi diletto dei suoi motteggi, faccio buon viso alle piacevolezze e approvo quella petulanza, che sa di postribolo. Del resto io mi rido delle prediche di certi scioc- GIORNALE LIGUSTICO 201 chi, i quali non vedono salvezza all’infuori delle lagrime, dei digiuni, dei miserere e non sanno che altro è vivere altro è scrivere. Io do retta invece al mio illustre compatriota Catullo, che ne sa qualche cosa più di loro e che dice chiaro e tondo, come l’onestà e la decenza si deve cercare nel poeta e non nei versi, i quali anzi dilettano, quando siano un tantino lascivi e solleticanti. E Catullo era pagano. Prendete un cristiano, S. Girolamo, scrittore severissimo e casto e vedrete che anche egli adoperava frasi oscene, quali non adoprerebbe il più sfacciato libertino ». Termina proclamando il Panormita, poeta siciliano, il redivivo Teocrito. 191. Da questo momento in poi si strinse tra il Panormita e Guarino un’ amicizia che durò, meno qualche piccola musoneria, cordiale e inalterata. La corrispondenza tra i due umanisti si fece subito frequente e il Panormita mandava codici a Guarino, come un Erodoto e un Cornelio Celso. Di Celso pare sia stato il Panormita lo scopritore. Certo lo pubblicò Guarino per il primo nel 1426 e 1’ ebbe da Bologna per mezzo del Panormita e del Lamola. In ricambio Guarino fornì loro le notizie fresche fresche delle strepitose scoperte fatte da Niccolò da Cusa in Germania, tra le quali nientemeno che la Repubblica di Cicerone, che si risolse poi nel Somnium Scfpionis. Niccolò da Cusa, il futuro cardinale, era più conosciuto allora come Niccolò da Treviri; aveva accompagnato, ventiquattrenne appena, nel 1425 in qualità di segretario il cardinale Orsini nella sua legazione di Germania e avea scoperto a Colonia un gran numero di codici: dicono ottocento. 192. Negli anni 1426-1428 con la società del Panormita a Bologna c’era oltre il Lamola anche Bartolomeo Guasco, altro scolaro e maestro girovago, che fece il mercante in Sicilia, poi il diplomatico, indi il professore e finalmente di 202 GIORNALE LIGUSTICO nuovo il diplomatico e che conosceva gli umanisti bolognesi e fiorentini. Degli umanisti fiorentini parlò al Panormita il Barbaro, passato a Bologna neir ottobre del 1426, di ritorno da Roma. In quell’ occasione il Barbaro avea riconciliato a Firenze il Niccoli e il Bruni. Nel 1427 si trasferì da Venezia a Bologna la famiglia Tegliacci e con essa P institutore Martino Rizzoni. Al Rizzoni Guarino volea far conoscere il Panormita, affinchè d’accordo gli procurassero un Prisciano, di cui era in possesso Alberto Zancari; ma a quell’ora il Panormita non stava più in Bologna, essendo partito per Firenze e Roma. Il commercio epistolare col Rizzoni è sempre frequente; egli teneva informato Guarino delle novità bolognesi e scambiava con lui notizie letterarie. Un bel giorno venne la malinconia al Rizzoni e volea farsi monaco. Guarino glie ne scrisse, non proprio dissuadendolo, ma dandogli a capire che ci pensasse bene e che prima passasse parola con lui. 193. Il Rizzoni si trovò a Bologna col Filelfo, che vi era arrivato sin dal febbraio 1428, passando per Ferrara, dove raccomandato da Guarino fece conoscenza di quei signori e letterati e vi lasciò tanto buona impressione, che nel 1429 lo invitarono ripetutamente a insegnare colà. L’anno 1428 egli ottenne un collocamento a Bologna, per il quale sin da Venezia aveva fatto premure presso Guarino. Quando Guarino seppe dal Rizzoni, che il Filelfo si era collocato a Bologna, se ne compiacque, ma gli rincrebbe che avesse accettato l’offerta per un solo semestre. Non gli sembrava nè decoroso, nè vantaggioso. Addebitava al Filelfo, pare, un po’ troppo di fretta. « Con un collocamento così precario non guadagna nè il professore nè l’insegnamento ». Ma il Filelfo aveva altre mire: egli mirava a Firenze che, partito l’Aurispa, ricco di codici ma piuttosto povero di scienza, scorgeva nell’ingegno vasto e poderoso del Filelfo giornale ligustico 203 un ottimo acquisto per il proprio Studio. E infatti nel 1429 il Filelfo andò professore a Firenze. 194· Più che mai intimi sono i legami di Guarino coi letterati e la corte di Ferrara. Guarino avea colà molti conoscenti, come Federico Spezia, Stefano e Lelio Tedeschi, Giovanni Coadi, i cavalieri Alberto della Sale e Feltrino Boiardo, Ugolino Elia, Niccolò Pirondoli, col quale ultimo scambiava semi di ortaglia e di piante. « Desidero come pegno di amicizia che le tue piante allignino qui da me , in modo che col loro fiorire e crescere fiorisca e cresca Γ amor nostro e invecchiando verdeggi e verdeggiando invecchi. Consegnerai al latore della presente alcuni noccioli di pesche duracine, ma badiamo bene! di razza genuina e degni del donatore. Me li hai promessi e so dall’ altra parte che sei esperto coltivatore. È giusto poi che come dai miei orti sono partiti semi e piante a colonizzare i tuoi, così ne partano dai tuoi a colonizzare i miei. In tal guisa le pesche venute qui dal suolo ferrarese potranno ripetere quella sentenza platonica (riferita da Cicerone) : noi non siamo nate solo per noi, ma anche per la patria e per gli amici. E poiché tu sai ben coltivare i campi, devi anche imitarli (come dice nuovamente Cicerone) nel rendere che essi fanno il cento per uno. Vi aggiungerai anche dei semi di finocchio ». Come si vede, due citazioni ciceroniane in proposito di semi. 195. Fra tutti i Ferraresi i più assidui corrispondenti sono Ugo Mazzolati e lo Zilioli. Il Mazzolati era intimo di Guarino sin da Venezia; ora le relazioni diventano più cordiali e il Mazzolati tiene informato il suo illustre amico veronese di ciò che avviene a Ferrara, come della nomina dello Zilioli a consigliere del principe e degli scandali a corte, p. e. la decapitazione della Parisina e la fuga di Meliaduce, figlio del marchese; lo mette in relazione coi letterati che capitano a Ferrara, come col Biondo, che alla fine del 1422 204 GIORNALE LIGUSTICO mandava per mezzo di lui a Verona il Brulus di Cicerone; gli invia qualche codice da emendare, come un Gellio, uno Svetonio; gli regala delle penne d’oca, di cui andava rinomata Ferrara, non fosse altro per indurlo a scrivere più spesso; gli fa presente di pesci delle paludi Ferraresi per la quaresima. «I tuoi pesci, gli risponde Guarino, mi sono arrivati quali messaggieri della imminente quaresima e mi hanno avvertito che purtroppo i giorni della baldoria sono finiti e che bisogna mutar dieta e sistema di vita, pensando un poco anche all’anima e tenendosi a stecchetto col mangiare. Anzi a rendere gli onori di casa ai tuoi illustri messaggeri ho destinato della gente non meno illustre, p. e. un Cicerone, un Fabio, un Lucio, un Lentulo, un Macrobio, un Cornificio. Così saranno in buona compagnia ». 196. Ma venne il giorno funesto che troncò questo legame di gaia e schietta amicizia: nella prima metà del 1427 il Mazzolati morì. « Perdita per me gravissima, che era egli onest’uomo e fedelissimo amico, il quale in me amava un figliolo, venerava un padre, rispettava un maestro e io ho perduto in lui un padre, un figlio, un discepolo. Mi contorta però che egli tal morì qual visse. E chi infatti visse più retto, più liberale, più fedele del mio Ugo? Ci è da trarre un ammaestramento da questa morte: che noi dobbiamo trovarci pronti al fatai passo, poiché da un momento all’ altro siamo esposti a perire. Il mio Ugo io lo amai vivo e lo amo morto ». 197. L’ altro grande amico ferrarese di Guarino era lo Zilioli , consigliere intimo del marchese d’Este fin dal 1422. Egli era sempre a fianco del signore, di cui Guarino lo chiama « il fido Acate ». Nel 1426 mandò a scuola a Verona i due figli minori Paolo e Bonaventura. Il figlio maggiore Ziliolo studiava a Ferrara, dove si dottorò in legge nel 1427 insieme col suo fedel compagno Ugolino Elia, 205 altro corrispondente di Guarino. I due figli minori arrivarono a Verona nel 1426. Fu loro dato per aio un Antonio da Orzinovi, chiamato il Bresciano, che prima era stato copista a Padova e di là nel 1424 andò a Verona da Guarino. Furono poi raccomandati specialmente alle cure della Taddea, e in tal modo fra la Taddea e le donne di casa Zilioli si strinsero legami d'affetto; e le Zilioli mandavano spesso regali alla famiglia Guarino. « Abbiamo per legge d’amicizia, scrive allo Zilioli, tutto in comune fra noi; mancava che mettessimo in comune i figli, che come per nascita sono tuoi, cosi per adozione saranno miei. Io li abituerò a vivere socraticamente, cioè con poco cibo e alla buona. Ma il meno che darò loro in cibo lo compenserò in tanta maggiore istruzione e dottrina, acciocché te li restituisca più buoni e più dotti di quando me li hai affidati ». 198. Fra gli amici di Guarino, che in questo periodo di tempo andarono a Ferrara 0 vi passarono, notiamo il bolognese Zancari e il Panormita, che visitarono Ferrara , questi nel principio del 1427, raccomandato e presentato da Guarino, quegli nel principio del 1428. Vi passò Mariotto Nori quando tornava nel 1426 a Firenze; vi passò il Filelfo nel febbraio del 1428, diretto a Bologna. Il Biondo vi passò almeno due volte: la prima nel decembre del 1422, la seconda nel principio del 1428. La seconda volta egli avea con sè la famiglia; pare perciò che vi si sia trattenuto a lungo. In questa occasione tanto il Biondo quanto lo Zilioli trattavano con Guarino per trovare un maestro a Meliaduce figlio del marchese. Lo Zilioli aveva suggerito una persona, ma Guarino ne lo sconsiglia con frasi risolute; non sappiamo a chi si alludesse. Piuttosto credo che Guarino abbia messo innanzi il nome dell’Aurispa e si combina infatti che ΓAurispa si stabili in quel tempo a Ferrara e che appunto poco dopo fu nominato maestro di Meliaduce. 20 6 GIORNALE LIGUSTICO 199. Tutta questa intimità e questi vincoli con Ferrara contribuirono non poco a trarvi colà Guarino. Mancava solo una occasione ed essa venne con la pestilenza. Guarino cercava un rifugio e gli fu offerto a Ferrara. Egli accettò; ma c’era in lui l’intenzione di abbandonare Verona? Probabilmente non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui stesso. Di Verona egli non si poteva lagnare; vi era anzi amato e gli dispiaceva staccarsene. Senonchè una volta messo il piede in Ferrara, si trovò quasi senza volerlo attratto nell’orbita di quell’astro maggiore; e Verona rivide il suo Guarino come cittadino e come amico, non lo riebbe più come insegnante. (Continua) CONTRIBUTI ALLA STORIA GENOVESE DEL SECOLO XV I tredici documenti, alcuni dei quali di peculiare importanza, che ora per la prima volta vengono resi di pubblica ragione, si rinvennero fra le schede del padre G. B. Spotorno, di chiarissima memoria, possedute oggi dal rev. sacerdote Nicolò Spotorno di Albisola Superiore, nipote ex fratre di lui. Non consta d’onde provenissero all’illustre professore, nè per qual motivo egli, tanto benemerito della storia ligure, non ne abbia fatto soggetto di erudita pubblicazione. Suppongo che i documenti gli siano stati affidati nell’ultimo periodo di sua vita, e che la morte prematura gli abbia impedito di occuparsene di proposito. L’ odierno possessore rev. Nicolò Spotorno volle con squisita cortesia porre i documenti a mia disposizione, ed io compio di buon grado al dovere di qui porgergli le più sentite azioni di grazie per la liberale comunicazione. giornale ligustico 207 Certamente non si potrà mai deplorare abbastanza che questi documenti non sieno stati editi dall’insigne erudito, il quale li avrebbe illustrati da pari suo, con quella copia di dottrina e quell acume di critica che caratterizzano tutte le sue monografie. Tuttavia la iattura sarebbe stata assai maggiore se, per incuria degli eredi o per altra ragione, i documenti stessi fossero andati perduti: ed è ancora qualche cosa che, per gentilezza di chi li ha conservati, io mi trovi ora in grado di licenziarli alle stampe e di richiamare su di essi l’attenzione degli studiosi. I documenti di cui si tratta consistono per la maggior parte in lettere indirizzate da personaggi amplissimi a Pileo de’ Marini, arcivescovo di Genova nella prima metà del secolo decimoquinto. Gioverà pertanto rievocare, anzitutto, alla memoria del lettore i tratti più salienti della fisionomia di questo prelato, che fu certamente in Genova ai suoi tempi una delle individualità più cospicue così per dignità come per merito ed importanza politica. Pileo de’ Marini era nato a Genova nel palazzo di sua famiglia in Carignano, verso il 1370, dal nobile Ambrogio de’ Marini che fu più tardi Governatore della Corsica, ove morì nel 1403. Nel 1401 trovavasi a Roma in ufficio di Protonotario apostolico, quando da papa Bonifacio IX fu designato ad occupare la cattedra arcivescovile di Genova rimasta vacante per la morte di Iacobo Fieschi ivi avvenuta Γ anno precedente. Le cronache contemporanee descrivono con enfasi il suo ingresso solenne in Genova, e i felici pronostici a cui diede luogo. Mons. Agostino Giustiniani, dopo aver detto che la sua entrata « fu onorata quanto si possa dire, perchè si commosse tutta la città a ricevere il nuovo arcivescovo », aggiunge che « era l’arcivescovo molto giovane, ma ornato roS GIORNALE LIGUSTICO d’ogni virtù, e di lui s’aspettavano cose rare e grandi o (Annali, 1. V). Inauguro il suo episcopato con una serie di atti informati ad un alto e retto sentimento del suo ministero apostolico, fra i quali è senza dubbio meritevole di particolare menzione l’istituzione del magistrato detto della Misericordia, altamente benemerito della religione e della patria. Non scevra di biasimo, invece, fu la condotta politica di lui Quando egli venne a prender possesso della sua arcidiocesi, volgeva ormai il quinto anno da che, dopo sei rivoluzioni che ne aveano, volta a volta, modificata la costituzione politica, Genova crasi assoggettata alla signoria del re di Francia; il quale, a tenore della convenzione stipulata sotto la data dei .j di novembre 1396, la governava per mezzo di un suo luogotenente. Però nel gennaio 1400, il governatore francese Collard de Colleville avea dovuto abbandonare le redini del governo e la città in seguito ad un tumulto popolare: dopo di che la città era stata governata, piuttosto di nome che di latto, però sempre a nome del re, prima da Battista Bocca-negra poi da Battista Franchi, ambedue eletti dal popolo. Ora, ai 31 di ottobre dell’anno stesso in cui il nuovo arcivescovo avea fatto il suo ingresso in Genova, vi entrava pure trionfalmente e con gran seguito di cavalieri e di lanti il nuovo governatore Iranccse, maresciallo di Bouciquaut, co! titolo di Luogotenente del Re di qua dei monti. Il nuovo governatore, uomo di ferrea tempra, iniziò il suo governo con un sistema di repressioni, invero eccessive, ma il cui effetto immediato fu di incutere sgomento nelle fazioni che insino allora aveano dilaniato la città, e troncare i nervi ad ogni velleità, non pure di ribellione, ma di opposizione. lira appunto la forma di governo che molti in quel tempo vagheggiavano, come la meglio rispondente ai bisogni della giornale LIGUSTICO 209 tanagliata citt.\, cui le fazioni intestine aveano ridotta alla condizione di « nave senza nocchiero in gran tempesta ». Data la situazione, ossia avuto riguardo all’ambiente ed al momento storico, e tenuto conto eziandio di un coefficiente di indole psicologica, da non trascurarsi nella fattispecie, dico dell influenza che i caratteri forti sogliono esercitare sui deboli, non dee recar meraviglia che l’arcivescovo de’ Marini sia stato caldo fautore del Bouciquaut e del suo governo. Piuttosto è a deplorarsi che impari, a gran pezza, alla speccliiatezza dei costumi e alla coltura dell’ ingegno sia stata in lui la forza d’animo. Furonvi bensì fra l’arcivescovo ed il governatore delle questioni, in cui il primo diede prova di qualche energia nel difendere le proprie prerogative minacciate dalle frequenti scorrerie che l'autorità politica faceva nel campo della giurisdizione ecclesiastica; fra le quali questioni va ricordata, come abbastanza vivace, quella dibattutasi nel 1403 a proposito di alcune feste religiose che il Bouciquaut voleva abolire e il de' Marini conservare, anzi accrescere. Ma non è mcn vero che in altre pratiche di ben maggiore importanza, l’arcivescovo si dimostrò ligio e servile alla politica francese, anche a scapito della propria dignità e dei superiori interessi della patria c della Chiesa. Intendo parlare, sopratutto , della parte da lui rappresentata nella famosa adesione di Genova alla comunione dell’antipapa Benedetto XIII (Pietro de Luna), avvenimento che costituisce uno degli episodi più caratteristici di quel dramma politico-religioso a cui fu dato il nome di Scisma d’ Occidente, e la cui azione si svolse nel periodo durante il quale la dignità suprema della Chiesa fu tenuta da più pontefici ad un tempo. Quando il de' Marini venne arcivescovo in Genova, lo scisma della Chiesa durava da ventitré anni. Papa di Roma Ck*«. Unnw. i«« XVUt. 14 210 GIORNALE LIGUSTICO era Bonifacio IX; di Avignone, Benedetto XIII. Le condizioni dei due antagonisti non erano però quelle d’una volta: e mentre Bonifacio conservava l’obbedienza dell’Italia, della Germania e dell’Inghilterra, Benedetto avea molto perduto di sua autorità, specialmente in Francia; dove una sinodo nazionale tenuta a Parigi nel 1398 — dissenziente la sola Università di Tolosa — lo ritenne scismatico, approvando la proposta di disdirgli l’obbedienza: in conseguenza diche, abbandonato dagli stessi suoi cardinali, due soltanto dei quali erangli rimasti fedeli, era stato ridotto a rinchiudersi nel suo palazzo di Avignone , mentre il popolo tumultuante da una parte, e il maresciallo di Bouciquaut assediante dall’ altra, gli intimavano di dimettersi. L’astuto pontefice riuscì tuttavia a scongiurar la tempesta, grazie alla intromissione del re Martino d’Aragona, e più particolarmente ai buoni uffici del duca d’Orleans, il quale, preoccupato della singolare condizione in cui si sarebbe trovata la Francia, di non riconoscere, cioè, nè l’uno nè l’altro dei due pontefici pretendenti, tanto si adoperò che ottenne dal re Carlo VI la proclamazione del ritorno alla disdetta obbedienza. All’epoca di cui c’intratteniamo, la posizione di Benedetto XIII, sebbene alquanto modificata in meglio, trovavasi quindi tuttora assai scossa; e non ci voleva di meno che un gran colpo di mano per ridargli il prestigio tanto offuscato dagli ultimi avvenimenti. Si capisce come la politica francese avesse il suo. interesse a che la tiara di Avignone brillasse di nuovo fulgore, e si capisce perciò come il maresciallo di Bouciquaut, quello stesso che tre anni prima aveva assediato il papa in Avignone, accettasse ora con pari disinvoltura l’incarico di farlo riconoscere in Genova, dove popolo e clero erano sempre stati devoti al papa di Roma. GIORNALE LIGUSTICO 21 I Più difficile è a spiegarsi come 1’ arcivescovo Pileo siasi piestato a questa manovra: ma la chiave della sua condotta in questa, non meno che in altre pratiche, è a ricercarsi, anzitutto, nella debolezza dell’animo di lui di fronte al carattere dispotico e pervicace del Bouciquaut. Molta parte ebbe in queste pratiche Battista Lomellino, personaggio di grandi aderenze, e più ancora il cardinale Ludovico Fieschi, il quale avea, allora appunto, defezionato dal collegio di Roma per ricevere il cappello cardinalizio dall’ antipapa Benedetto. Lungo sarebbe tener dietro alla strie dei maneggi condotti con molta abilità dal governatore, coll’aiuto del Lomellino, del cardinale Fieschi e dell’arcivescovo de’ Marini. Basterà qui ricordare come il risultato fu che nell’ ottobre del 1404, poco dopo che in Roma a papa Bonifacio era succeduto Innocenzo VII, l’arcivescovo, il clero e il popolo di Genova tecero solenne adesione a Benedetto XIII; e come l’edifìcio così ben costrutto avesse finalmente il suo coronamento, quando ai 16 di maggio del 1405 , Benedetto XIII poneva per la prima volta il piede in Italia, entrando trionfalmente in Genova, dove stabilì per più anni la sede pontificia, allo scopo , come diceva egli, di poter più da vicino occuparsi dell’unione della Chiesa (1). Il de’ Marini non tardò ad accorgersi del passo falso a cui lo avea spinto il Bouciquaut. A lui, meno che ad ogni altro poteva sfuggire il fatto a cui accenna colla solita circospezione il Giustiniani, cioè che « ancorché il popolo di Genova avesse fatto tanto onore al papa Benedetto, e per cagione e rispetto del Governatore e (i) Ad onore del vero non vuoisi tacere che anche S. Vincenzo Ferrerò, il quale negli anni 1406 e seguente predicava in Genova con gran successo, era caldo fautore dell’ antipapa Benedetto, suo connazionale. 212 GIORNALE LIGUSTICO del cardinale Ludovico de Flisco, novamente fatto, ciascheduno amasse il pontefice, nondimeno la più parte, anzi quasi tutto il popolo teneva in secreto che Innocenzo, il quale dimorava in Roma, fosse vero papa ed universal pastore » (i). Essendo intanto morto papa Innocenzo VII (Γ406), ed avendo il collegio dei cardinali di Roma eletto a suo successore Gregorio XII, parvero per qualche tempo ravvivarsi le speranze di coloro che davano opera a cercare una soluzione alla crisi che travagliava la Chiesa. Il nuovo papa, infatti, avea scritto a Benedetto XIII, promettendogli di esser pronto a rinunciare al papato quando nella abdicazione fossero d’accordo ambedue; e Benedetto gli avea risposto rinnovando a sua volta le promesse di rinuncia. Per comporre le differenze, si combinò, anzi, fra i due papi una conferenza da tenersi in Savona: senonchè si rese ben presto evidente anche ai più fiduciosi che se il papa di Roma avea poca voglia di por termine col proprio danno allo scisma, quello di Avignone non ne aveva, come mai ne aveva avuto, alcuna (2). Il progettato abboccamento di Savona essendosi risolto in una vergognosa mistificazione, coloro ai quali stavano since- (1) Annali, 1. V, anno 1405. Anche Giorgio Stella (Annales Ianuenses, ap. Muratori, XVII, 1204-1209) dice che mentre i Genovesi per compiacenza verso il loro Governatore aderirono esteriormente all’antipapa, tuttavia nel loro cuore si conservarono fedeli al vero papa di Roma. Magra scusa, invero. (2) « .... e lo scisma tuttavia cresceva, perchè questi due papi, Benedetto e Gregorio, non volevano cedere Γ uno all’ altro, ancorché simulassero di volerlo fare e di voler rinunziare, ma gli effetti erano in contrario » (Giustiniani, 1. c., anno 1406). » Si fecero molte orazioni e processioni per causa dell’unione della Chiesa, ma non si concluse cosa alcuna, perchè tutti e due i papi dicevano molte cose, ma le opere non erano corrispondenti alle parole » (Id., ibid., anno 1407). GIORNALE LIGUSTICO 213 lamente a cuore gli interessi della Chiesa si persuasero esser giunto il momento di tentare altre vie. Fu allora che il de’ Marini si risolse finalmente ad uscire dalla falsa posizione in cui si trovava, sottraendosi in pari tempo alla comunione di Benedetto XIII e al giogo del governo del Bouciquaut. Nell’anno 1408, scrive il prefato annalista, « l’arcivescovo Pileo, vedendo che il papa Benedetto non si curava troppo dell’ unione della Chiesa, si partì dalla città e si ridusse in Toscana ». Anche la Francia, del resto, ricominciava a staccarsi 1’ un dì più che l’altro da Benedetto, e l’Università parigina nel maggio dell’anno stesso lo accusava presso Carlo VI di aver agito con mala intenzione e deliberato in cuor suo di non approdare alla tanto sospirata unione. Il re radunava un concilio nazionale, e dava ordine al maresciallo di Bouciquaut di arrestare T antipapa; cosa che egli avrebbe eseguito collo stesso zelo onde quattro anni addietro ne aveva promosso il riconoscimento in Genova, se il papa non avesse preso il volo fuggendo da Portovenere a Perpignano. Allora i cardinali delle due obbedienze si accordarono per convocare un concilio a Pisa, che si aperse, infatti, il 25 di marzo 1409. Disgraziatamente questo concilio, invece di comporre lo scisma, non riuscì che a complicare viemaggiormente la situazione già tanto imbrogliata: giacché avendo il concilio deposto entrambi i papi ed innalzato al pontificato Alessandro V (Pietro Filargo da Candia), i due papi deposti, e con essi i loro aderenti, rifiutarono di acconciarsi alla decisione del concilio pisano: onde, invece di due papi, se ne ebbero tre ad un tempo. Nè la morte, avvenuta nell’ anno seguente, di Alessandro V mutò la condizione delle cose, essendo stato eletto a succedergli il cardinale Baldassare Cossa col nome di Giovanni XXIII. 214 GIORNALE LIGUSTICO A Genova intanto era caduto il governo francese, e Pileo de’ Marini, che avea preso parte al concilio pisano, si affrettò a far ritorno alla sua arcidiocesi, adoprandosi quivi per Γ elezione a capitano del popolo di Teodoro II Paleologo, marchese di Monferrato (i). Caduto dopo quattro anni anche il governo di Teodoro, il de’ Marini seppe abilmente destreggiarsi fra i partiti che si contendevano con diversa fortuna il potere: tanto che nessuno di questi mai potè credersi abbastanza forte senza l’appoggio di lui; onde egli fu in realtà più d’una volta l’arbitro e il moderatore della situazione politica del suo paese. Nè in Genova soltanto, ma eziandio al di fuori si estese la fama e l’autorità di lui. Avendo Γimperatore Sigismondo di Lussemburgo, salito allora al trono di Germania, indotto papa Giovanni XXIII a convocare un concilio in Costanza (14.14) per 1’estinzione dello scisma d’occidente e la riforma della Chiesa, ragguardevolissima fu la parte che l’arcivescovo Pileo de’ Marini ebbe in questo concilio, dove fu uno dei procuratori della nazione italiana, e non pur si distinse come oratore del concilio all’ imperator Sigismondo, ma figurò fra i più zelanti promotori della riforma ecclesiastica. E noto che il concilio di Costanza depose i tre papi, e ne nominò un nuovo nella persona del cardinale Ottone Colonna, che assunse il nome di Martino V (17 novemb. 1417); effettuandosi per tal modo finalmente la sospirata ricomposizione dell’ unità della Chiesa. Dopo la chiusura del concilio, Pileo tornò in Genova, donde non consta siasi più allontanato se non provvisoriamente: e fu quivi gran fautore di disciplina, di istruzione e di buon costume nel clero; non senza tuttavia esercitare una assidua ingerenza nelle faccende civili e politiche della sua patria; (1) Teodoro II, marchese di Monferrato, aveva per moglie la beata Margherita di Savoia, di cui Pileo de’ Marini fu devoto ammiratore ed amico. GIORNALE LIGUSTICO 215 come, del resto, a prescindere anche dalle testimonianze degli storici contemporanei, risulta abbastanza dai documenti che qui pubblichiamo. Cade qui in acconcio il ricordare per incidenza come sotto il suo episcopato avesse principio nel 1420, per opera del dottore Bartolomeo Bosco, l’ospedale di S. Maria de Misericordia, detto poi di Pammatone. Ferdinando Ughelli (Italia sacra) crede che il de’ Marini sia morto poco dopo la chiusura del concilio di Costanza: ma che egli ancora vivesse nel 1422, si evince dagli annali tanto dello Stella, quanto del Giustiniani, i quali fanno menzione dell’orazione da essolui recitata in quell’ anno ai quattro consiglieri ducali che Filippo Maria Visconti aveva delegati al governo di Genova; e che fosse parimenti in vita del 1426, lo attestano i nostri documenti, uno dei quali può, anzi, essere posteriore a tale data. Gio: Battista Semeria (Secoli cristiani della Liguria'), sulla scorta di induzioni assai plausibili, ne protrae la morte fino al 1436. Checchenessia, è certo che con questa non si spense la fama di cui godette in vita; chè lungamente sopravvisse per tradizione nei concittadini la memoria di sua dottrina e delle sue operose virtù. Uberto Foglietta ci dà la misura del concetto in cui l’insigne prelato era tenuto ai suoi tempi, scrivendo : « unici profecto exempli virum ex multorum saeculorum memoria fuisse Pileum Marinum, omnes, ad quos fama pervenerit, fatebuntur ». Veniamo ora ai singoli documenti. I. II primo di essi è una lettera di Ludovico III della seconda casa d’Angiò, re di Gerusalemme e di Sicilia, colla quale questi raccomanda all’arcivescovo Pileo de’ Marini di conti- 21 6 GIORNALE LIGUSTICO nuare nel patrocinio della propria causa in Genova , ringraziandolo intanto di quanto già avea fatto nell’interesse della medesima. Quale fosse questa causa è noto. Ludovico III d’Angiò pretendeva al trono di Napoli in virtù dei diritti ereditati dal padre Ludovico II, morto da pochi anni in Provenza, e aspirava quindi ad essere adottato pei successore dalla regina Giovanna II (i), nella quale, per mancanza di prole, veniva a spegnersi la linea degli Angioini di Durazzo. Antagonista di Ludovico nell’aspirazione alla successione di Giovanna, era Alfonso λ" il Magnifico, re d’Aragona e di Sicilia, suo cugino per parte di madre ; e siccome la regina, lia i due pretendenti, diede la preferenza a quest’ultimo (1420), adottandolo per figlio e successore, e investendolo del ducato di Calabria, l’Angioino si accinse a far valere colla forza delle armi le proprie ragioni, proseguendo così la politica del padre e del nonno contro le tendenze degli Aragonesi. In quell anno stesso venne perciò dalla Provenza a Genova, dove avea bensì nome ed ufficio di doge Tommaso da Campo-iregoso, ma nel fatto già esercitava grande autorità Filippo Maria Visconti duca di Milano, di cui l’arcivescovo Pileo de Marini era fin d’allora, non pur fautore, ma agente in Genova. Il Visconti favoreggiava apertamente l’Angioino, del quale avea, anzi, avuto l’idea di sposar la sorella Maria, e per contro, mirando egli al dominio di Genova, non potea non veder di mal’occhio l'incremento degli Aragonesi, nemici naturali e rivali di essa sul Mediterraneo. Mercè i suoi buoni uffici, Ludovico ottenne pertanto dal doge di poter aim,ire una flotta di cinque grosse navi e nove galee, sotto (i) Giovanna II era succeduta sul trono di Mapoli al re Ladislao, suo fratello, morto senza figli nei 1414. giornale ligustico 217 il comando di Battista da Campofregoso, fratello del doge stesso, colla quale mosse verso Napoli per costringere la regina Giovanna a disdire l’adozione di Alfonso e a proclamale la propria; non dissenziente il papa Martino V, mal disposto anch esso verso il re Alfonso pel favore che questi continuava, anche dopo il concilio di Costanza, al deposto 1 ietro de Luna. Il re aragonese, dal canto suo, si dispose a tenei fi onte all avversario: e la guerra che ne seguì venne combattuta con varia fortuna sotto la direzione dei due più abili Condottieri dell’epoca, Muzio Attendolo Sforza per Ludovico, e Braccio da Montone per Alfonso; finche verso la fine dell’anno seguente (23 novembre 1421), i due pretendenti accettarono la mediazione e la proposta del papa di uscire entrambi dal regno, lasciando al papa stesso di decidere a suo tempo, cioè dopo la morte della regina, intorno alla questione dell’ adozione. Era questa piuttosto tregua che pace : imperocché mentre Ludovico, ottemperando ai preliminari, consegnò Castellamare ed Aversa ai legati pontificii e si ritirò a Roma per proseguirvi le trattative, Alfonso continuò a soggiornare in Napoli, dove si rese, anzi, inviso alla regina con una serie di atti diretti a spodestarla. Fu allora che il duca Filippo Maria Visconti, d’intesa col papa, si proferse mediatore fra Ludovico e Giovanna II, e ne favorì segretamente l’accordo, inducendo la regina a disdire la prima adozione e ad adottare l’Angioino per figlio ed erede del regno in vece di Alfonso. Queste pratiche ebbero luogo nei primi mesi del 1423; e non appena la regina ebbe dato la sua adesione alle proposte del duca, Ludovico si preparò a raggiungere il teatro delle operazioni militari che doveano tener dietro alle trattative diplomatiche e costituire la seconda fase dell’ azione. La lettera che qui si pubblica fu dunque molto probabil- 2 I 8 GIORNALE LIGUSTICO mente scritta nel 1423, quando già Ludovico era informato del buon esito delle trattative condotte dal Visconti, ciò che ben risulta dal titolo di « genitrice » onde designa la regina. Pochi mesi dopo, egli era in Aversa presso la regina Giovanna , che prodigava a lui i titoli di duca di Calabria , di figlio ed erede, già elargiti a re Alfonso, e più tardi lo troviamo a combattere in compagnia dello Sforza, sotto le mura di Napoli, contro lo stesso Alfonso e i suoi Aragonesi. Quanto agli affari di cui re Ludovico nella sua lettera raccomanda al de’ Marini di occuparsi in Genova , trattasi evidentemente delle pratiche dirette ad indurre Genova a prendere parte attiva con una flotta alla impresa dell’Angioino contro il re aragonese. Genova era allora governata, a nome di Filippo Maria Vi -sconti duca di Milano, dal conte di Carmagnola: il quale riusci, infatti, coll’appoggio del partito capitanato da Pileo de’ Marini, a far accettare dal Consiglio la proposta da lui formulata d’ordine del duca, di una spedizione navale destinata ad appoggiare sul mare le operazioni militari di re Ludovico contro gli Aragonesi. Fra questi e i Genovesi eranvi, del resto, molti conti da sistemare, non ultimo dei quali l’assedio di Bonifacio e l’occupazione di Calvi nel 1420; e nulla in quel tempo era più atto ad eccitare in Genova gli spiriti popolari che la prospettiva d’ un impresa diretta contro il re d'Aragona e i suoi Catalani. Fu allestita pertanto un’armata composta di tredici galee, una galeotta, un brigantino e tredici navi (1), alle quali si unirono due galee éd una galeotta (1) Il Giustiniani (1. c., anno 1423) ci ha conservato i nomi dei comandami i singoli legni di questa armata. Anche Gian Vincenzo Verzellino {Delle memorie etc. della città di Savona, I, p. 293) ricorda quelli di due savonesi, Paolo Sansoni e Bartolommeo Borello , che presero parte alla spedizione di Napoli in qualità di comandanti, 0 patroni, come allora GIORNALE LIGUSTICO 219 provenzali, più altre due galee armate in Genova a spese di re Ludovico, il tutto sotto il comando in capo di Guido Torello, Condottiero parmigiano al servizio del Visconti ; con offesa evidente del conte di Carmagnola, ormai caduto in disgrazia. Questa armata salpò da Genova il 7 di dicembre del 1423, e dopo aver occupato Gaeta, Procida e Castellamare a nome di Ludovico d’Angiò, e indotto Sorrento ed altre terre del litorale ad inalberare la bandiera angioina, ottenne finalmente anche la resa di Napoli (24 aprile 1424) difesa invano dall’infante Don Pietro d’Aragona, fratello di re Alfonso. Quanto a quest’ultimo, da più mesi avea dovuto partire colla propria flotta, non pur da Napoli ma dall’ Italia, chiamato d’ urgenza in Catalogna dalla guerra colà scoppiata fra i fratelli di lui e Giovanni re di Castiglia. Ma rimandando a miglior tempo la rivincita, mentre era in viaggio per Barcellona, avea intanto sfogato la sua bile contro Marsiglia, che espugnò e mise a sacco a titolo di rappresaglia per la guerra che l’Angioino gli muoveva nel regno di Napoli. (VI 2o (A tergo) Reuerendissimo in Christo patri, Archiepiscopo Ianuensi et amico nostro speciali, Ludouicus rex Ierusalem et Sicilie, etc. (1) (Intus) Reuerendissime in Christo pater, amice noster specialis. Vestras per harum latorem Ianue primo huius scriptas recepimus, quarum seriosus tenor habebat quod vigilibus studijs vestra Reuerendissima Paternitas suas interponat operosas vices pro nostris illuc agendis eorumque votiuo exitu quem feliciter secuturum sperabat. Unde, reuerendissime in Christo pater, dicevano, il primo di una galea e il secondo di una nave, e avrebbe potuto aggiungere a questi anche il nome di Galeotto del Carretto, marchese del Finale, che comandava appunto la prima delle galee dell’armata. (1) Il titolo di Re di Gerusalemme e di Sicilia era stato conferito dal papa Alessandro V a Ludovico II duca d’Angiò, quando questi, nell* agosto 1409, venne dalla Provenza a Pisa per quivi assumere, colle insegne di Gonfaloniere della S. Chiesa, il comando dell’esercito della Lega costituitasi per l’impresa di Roma occupata allora dal re Ladislao di Napoli. 220 GIORNALE LIGUSTIGO etiamsi leti extitinius, e: vobis ad gratiarum actiones possetenus assurgimus, vos affectuose rogamus quatenus ad tam celebriter ceptorum pro-secucionem placeat, ut confidimus, anelare. Certificamus etiam quod de hijs que partem nostram contigerint, nichil omissum erit; sed nec quidem omitendum quid credimus de hijs que per reuerendissimam genitricem nostram fienda fuerint aut attendenda. Parati ad omnia beneplacita Paternitatis vestre reuerendissime, quam incolumem conseruet Altissimus, ut optamus. Scriptum Rome, die xvmr mensis martij, indictionis prime. idem Ludovicus Rex Iohannes etc. ir. Il documento che segue è la copia, comunicata dalla regina Giovanna II di Napoli a Pileo de’ Marini, di un memorandum da essa indirizzato a papa Martino V a proposito delle ostilità scoppiate fra essa ed Alfonso re di Aragona e di Sicilia, suo figlio adottivo ed erede del trono. Il memoriale è diretto al papa nella sua qualità di tutore del regno di Napoli, e in base alla supremazia feudale che la Santa Sede esercitava sul regno stesso. La regina espone in esso le cose un po’ a modo suo e da un punto di vista troppo personale: oltreché il documento è compilato in una forma rettorica e manierata, che non è, del resto, senza riscontri negli atti della cancelleria napoletana di quell’epoca. Tuttavia, come materiale storico, il documento in discorso ha un particolare interesse, vuoi per la sua veste ufficiale, vuoi perchè, mentre conferma in complesso molti fatti già registrati nelle cronache del tempo, li modifica però in alcuni particolari. E da assegnarsi con piena sicurezza all’anno 1423 , sulla base dei fatti in esso esposti. Si osserverà che non vi si fa alcuna menzione di Ludo-dovico III d’Angiò, sebbene alla data di esso Giovanna già GIORNALE LIGUSTICO 221 avesse combinato coi duca Filippo Maria Visconti di disdire 1 adozione di Alfonso a favore di Ludovico. Ma questo memoriale è da considerarsi, anzitutto, come un documento diplomatico, il cui scopo era di preparare un fondamento giuridico alla nuova adozione, già stabilita in massima, dell’Angioino. Il resto l’avrà poi esposto a voce l’oratore « informato a pieno della sua volontà e intenzione » , che Giovanna promette di inviare senza indugio a papa Martino V. (.A tergo) Reuerendissimo in Christo patri et domino , domino Pileo de Marinis, Archiepiscopo Ianuensi, patri et domino suo singularissimo Ianue (.Intus) Sanctissimo in Christo patri et clementissimo domino meo, domino Martino, diuina prouidentia pape V.'0, sacrosancte Romane ac uniuersalis ecclesie dignissimo summo pontifici. Beatissime pater et clementissime domine mi, post humilem recomen-dationem et pedum oscula beatorum. Fontem pietatis ingratitudo desiccat, quod indigne a quo non debemus excepti sumus. Notorium est, non solum in Ytalia, sed in toto pene orbe terrarum quod nos illustrem regem Ara-gonensem, inter ceteros mundi christicolas principes dilectum, olim arro-gauimus in nostrum filium cum certis capitulis, in quibus inter cetera canebatur expresse quod dictus Rex habere deberet ducatum Calabrie et Castrum Oui, nec se, nostra vita durante, aliquatenus intromittere promisit, sub religione preferti juramenti, de regimine, officijs, gratijs et introitibus huique regni. Quod juramentum quomodo fuerit sub verbo et fide regijs obseruatum, inferius demonstratur. Assignatis quidem oratoribus et commissarijs dicti Regis prefÿis ducatu Calabrie et Castro Oui, venit Rex ipse ad maritimas oras Neapoli, et accensus cupidine dominandi, nolebat de classe desscendere nisi haberet Castrum Nouurn, et Vi-cariatum generalem totius regni cum plenaria auctoritate faciendi quascumque gracias, ordinandi quoscumque officiales, et percipiendi omnes introitus et cetera peragendi que nos facere poteramus, reseruatis nobis admodum paucis terris, quarum maior pars in manibus tunc nostrorum rebellium consistebat. Posteaque voluit castra Auerse, Castrimaris de Stabia, Acerrarum et totius ducatus Dalmasie et interposite regionis. Et deinde castra comitatus Cupersani, et nouissime ciuitatis Brundusij, una siquidem de terris 222 GIORNALE LIGUSTICO nobis, ut premittitur, reseruatis. Et ulterius, dum Cayete morabamur, conceptis sinistre per eumdem Regem certis suspicionibus, ut a nobis haberet securitatem accedendi per totum regnum nobis non postulantibus sed sue voluntati obtemperantibus fecit securitatem consimilem, scilicet sub iura-mento ac verbo et fide regalibus sub bulla aurea de tractando nos honorifice tamquam matrem, et quam possemus libere per totum regnum insedere quo vellemus. Et ulterius voluit prefatum Vicariatum ad vitam, tamquam personam nostram propriam in omnibus representans, reseruato nobis dumtaxat supremo dominio et prefatis paucis terris, ut premittitur, reseruataque omnia nos, non volentes sue infrenate voluntati resistere, concessimus, contra tenorem capitulorum. Quiquidem Rex sue immense dominandi cupidini modum non statuens, seu nolens imponere, sed potius ingratitudinis vicio se totum subiciens, effectus immemor tam illustrissimorum beneficiorum per eum a nobis, ut premittitur, acceptorum, prius magnum Senescallum regni Sicilie (i) sub eius saluoconductu per totum sua manu scripto secure venientem, personaliter arrestauit. Et deinde con-festim venit cum multitudine armigerorum ad Castrum Capuanum , et personam nostram cum fraudulentia capiendi, percusso inibi pluribus volne-ribus castellano Castri predicti ut hanc sequeretur cospirationem et machinationem, quod est horribili dictu audiri, conceptam per filium contra matrem. Et cum id, sicut Deus voluit, non successisset, nos et dictum Castrum obsedit (2) magno equitatus et peditatus exercitu, magnisque et multis fossis et sbarris; a qua obsidione quam virtuosissime personam nostram et dictum Castrum liberauit magnificus et strenuus armigerorum capitaneus Stortia de Attendulis, Comes Gudimole (3) cum palafrenarijs (1) Costui che da un illustre storico odierno fu a buon dritto qualificato per « la maggiore sventura morale e politica della regina Giovanna » (Carlo Cipolla, Storia delle Signorie italiane, P* 39°)> era Giovanni Caracciolo , signore di Avellino ecc. , chiamato volgarmente Ser Ianni. Per ben quindici anni (1417-1432) egli tenne « ambo le chiavi » del cuor di Giovanella, come la chiamavano i Napoletani, e le volse girando e rigirando si soavi, che la regina, per sua disgrazia non meno che per sua vergogna, mai seppe far a meno di lui e sempre si conformò in tutto e per tutto ai suoi voleri. Giovanna aveva innalzato il suo favorito alla carica di Gran Siniscalco del Regno fin dal 1418. (2) Il testo, in generale assai scorretto, dice obsedi. (3) È questi il famoso condottiero Muzio Attendolo Sforza , conte di Cotignola, signore di Tricarico, Conestabile del Regno etc. ecc., padre di Francesco Sforza che fu poi duca di Milano. Il fatto d’ arme a cui qui si accenna fu uno dei più brillanti che ricordi la storia miliiare di quel tempo. Alle sollecitazioni della regina che dal Castel Capuano ove trovavasi assediata ne invocava 1’ aiuto , lo Sforza accorse precipitoso con un reparto non superiore a 600 cavalli e GIORNALE LIGUSTICO 223 sacrosancte Romane ecclesie, Compater et Consiliarius noster, confecto hinc inde atrocissimo bello absque nostra scripcione preconij, omnibus clarissime notum est. Deinde vero pridie aplicata eius classe ad portum Neapolis quam prepararat pro implendis per nephas insidiis per eum tempsis indignissime contra nos ut conspirationem a diu conceptam contra personam nostram executionem ponetur. Propter huiusmodi dampnatam libidinem dominandi, prefatus Rex malitiose agens, dedit intelligi populo Neapolitano quod nullam offensam facere contra eos intendebat, sed tantum contra dictum Sfortiam et eius exercitum , ut se vindicaret de conflictu exercitui suo dato, nec non ut se nobiscum concordaret et nostram per omnia fatetur voluntatem; ac plures Neapolitanos dolose seduxit ne pararent insidias contra eum. Quibus subdolis verbis Regijs et aliquorum Neapolitanorum, Neapolitanus populus fidem prebens, nullam reparationem et defensam fecit contra prefatam classem et gentes regias, et sic Rex ipse, hostili et doloso bello, insurrexit, sicut impius et ferus filius contra piam matrem, et contra iam illustrem virum, miserabilem ciuitatem Neapolitanam. De quo ex causis premissis non bene reparata, non mediocrem partem quasi ex improuiso et etiam ipsa classe propter iam habitam victoriam quasi totaliter fluxipensa, ferro et flammis, more barbarico, cum gentibus dicte classis, in qua sunt quatuor galee Sarracenorum, prima die, absente dicto Sfortia et eius exercitu qui ad reducendum Auersam ad nostram obedientiam accesserat, occupauit, et occupatam in plateis super et subter vehementer fortificauit; et cum dictus Sfortia cum dicto exercitu, sequenti die, venisset in succursum Neapolis, commisso acerrimo prelio inter eumdem Sfortiam et Regiam gentem ab ortu solis usque ad vesperas, videns dictus Sfortia se quasi Regijs et dictorum Neapolitanorum insidijs circumuentum, nec per populum aliquam fieri defensam, 300 fanti : mentre i Catalani che sotto il comando di Alfonso cingevano Castel Capuano, stando a test-monianze attendibili, erano in numero di 4000 tra cavalli e fanti. All’avanzarsi dello Sforza , i Catalani si formarono in colonna e gli mossero incontro compatti per sbarrargli la via : ma egli investi la colonna con tale impeto che la sbaragliò completamente, impadronendosi benanche dello stendardo reale. La vittoria dello Sforza è registrata dai Giornali napoletani (ap. Muratori, XXI, 108S) sotto la data dei 30 di maggio del 1423, dal Minuti (Vita di Mu^io Attendalo Sforma, nella Miscellanea di storia italiana, Torino 1869, VII, p. 286) sotto quella dei 26 del mese stesso. Alfonso fu ridotto a chiudersi in Castel Nuovo : senonchè , essendo lo Sforza partito per recarsi a cingere d’ assedio Aversa, il re ebbe tempo di mandare ad avvertire la flotta catalana, allora in viaggio per alla volta di Bonifacio; la quale si presentò, infatti, dinanzi a Napoli il giorno 18 di giugno; cosicché quando lo Sforza, richiamato, tornò sui suoi passi, giunse appena in tempo per trarre in salvo la regina da Castel Capuano e condurla seco in Aversa. 224 GIORNALE LIGUSTICO se cum suo exercitu reduxit ad Formellum ; propter quod, Regie gentes, nullo resistente, cum maxima ferocia occuparunt reliquam partem duitatis. Quis enim posset suarum gentium inhumanam feritatem discretissime enarrare? Sacras namque spoliarunt ecclesias, incolas miserabiliter denudarunt, matronas et ingenuas mulieres, proh pudor, pro eorum libidine in naues ire cogerunt, pueros de parentum complexibus euellerunt, partus de utero mulierum vulneribus extrahentes, plures utriusque sexus ore gladij peremerunt, et, quod detestabilius est, moniales ac zenobitas de sacris monasterijs excluserunt, et deinde conficerunt quicquid eorum inhumanis feritas et rabies barbarica persuasit. Et rebus sic stantibus, nos de omni reconsiliacione cum eodem Rege, propter premissas atrocitates penitus disperantes, nec intendentes cum eo de cetero aliquam habere concordiam, nolentesque (i) eorum ferocissimam seuitiam amplius experiri (2), sed ilorum obsidionem effugere (3) et in nostra consistere propria libertate, prefato Castro nostro Capuano, ac etiam Castro Sancti Herasmi victualibus et armigeris et alijs oportunis, comunitate ab inde associata fidissime per prelatura Sfortiam et eius exercitum, venimus ad hanc ciuitatem Nolanam, ubi per magnificum Nolanum et palatinum Comitem, magistrum ìustitiarum Regni Sicilie , cum omni maximo iubilo recepta sum, assignato per eum, licet considerata eius integerrima fide opus non esset, Castro seu fortalicio duitatis eiusdem pro nostra fida residentia et tutela, et omnes Comites, Barones et circumuicini ad me veniunt, oblationes terrarum et castrorum eorum similiter facientes, nec non ad ebedientiam veniunt continue omnes mei demaniales. Significans ulterius excelse Beatitudini quod hodie tractatum habuimus super castrum et ciuitatem Auerse, ad quam capiendam prefatum Sfortiam cum eius exercitu destinauimus ; que omnia Sanctitate V estre intimare curaui, ut de omnibus notitiam habeat pleniorem, transmissura ad conspectum excelse Sanctitatis quam celeriter meum alium oratorem de mea voluntate et intentione plenarie informatum. Altissimus excelsam Sanctitatem diu et feliciter conseruare dignetur, ut obtat Ecclesia sua sancta. Scriptum Noie, sub anulo meo secreto, die XVIU mensis Iunij, prime indictionis. Iohanna Regina. Excelse Sanctitatis Vestre humilis et pudens filia Iohanna Secunda Re- Hungarie gina Iehrusalem etc. Sicilie. (1) 31 testo dice volentesque. (2) Id. expediri. (3) ld. ilaram obsidionem cffigere. GIORNALE LIGUSTICO 225 III. b una lettera del duca Filippo Maria Visconti, signore di Genova (1), agli Anziani di questa città, sotto la data del 27 di giugno 1424. In quell anno i genovesi avevano inviato al duca due oratori, Pietro de Franchi e Carlo Lomellino, coll’incarico di reclamare contro le esorbitanti imposizioni onde erano stati gravati. Il duca ricevette con molte cortesie gli oratori di Genova nella sua favorita residenza di Abbiategrasso ; e nell’ intento di mostrarsi compitissimo, volle far sapere ai Genovesi Γ esito della missione prima ancora che gli oratori fossero di ritorno in patria: al quale effetto spedì agli Anziani della città la (1) La dedizione di Genova al duca di Milano Filippo Maria Visconti erasi effettuata il 2 di novembre 1421 , per atto stipulato fra il Doge Tommaso da Campofregoso e i Commissari ducali Guido Torello e Francesco da Carmagnola. In quest’atto si stabiliva che Genova passerebbe sotto la signoria del Visconti alle stesse condizioni in cui era stata poco prima sotto quella del Re di Francia. Senonchè il conte di Carmagnola, che rimase in Genova come Governatore a nome del Duca, riusci a persuadere i genovesi di affidarsi al Duca con una dedizione incondizionata: al quale effetto, sul principio del 1422 una ambasciata di ventiqnattro persone recossi a Milano per giurarvi fedeltà al Visconti in base a tale pleniore dedizione. Ai 17 di gennaio del 1422, il conte di Carmagnola essendo partito per Milano, ressero la città a nome di Filippo Maria Visconti, dapprima Urbano di S. Alosio, più tardi (}i marzo) quattro Consiglieri ducali, Pietro dei Zorzi, Pavese, vescovo di Novara, Guido Torello, Condottiero parmigiano, Sperone di Pietrasanta, Milanese, e Franchino di Castiglione, dottore in legge, Pavese. Il reggimento di questi Consiglieri durò fino al giorno 5 di dicembre, nel quale fece ritorno a Genova, in qualità di Governatore, il conte di Carmagnola, che vi rimase fino al novembre del 1424. Giorni. Ligustico.Anno XFII1. 15 226 GIORNALE LIGUSTICO seguente lettera, nella quale riassume per sommi capi ciò che egli avea risposto in ordine alle lagnanze di cui gli oratori s’ erano fatti Γ eco presso di lui. La lettera, manco a dirlo, è un modello di ipocrisia ufficiale, e vi traspare da cima a fondo quello spirito di astuzia e di doppiezza a cui si informano tutti gli atti politici di quel principe. Espressioni melliflue; parole lusinghiere; proteste di benevolenza e di affezione; promesse di vantaggi e di favori: ma, in sostanza, nessuna concessione ai legittimi reclami: e le imposizioni rimangono quali vennero decretate. Dopo tutto ciò, non so qual viso avranno fatto i genovesi alla esortazione colla quale si chiude la lettera, di viver lieti e bearsi nella speranza dei benefici effetti che delle sue promesse avrebbero quanto prima risentito! Dux Mediolani et Papié Anglerieque Comes, ac Ianue dominus Venerabilibus viris Antianis ciuiutis nostre lanue, dilectissimis nostris. Venerabiles viri, dilectissimi nostri. Per vocem nobilium et egregiorum virorum Petri Iulle de Francis et Caroli Lomelinî, Oratorum vestrorum, plene percepimus queeumque nobis, vestri parte, habuerunt exponere, et facta super omnibus bona et matura consideratione, exibuimus eisdem responsiones quas redeuntes ad vos Oratores ipsi, vobis non ambiguiter referent seriatim, ita ut aliud non videatur esse dicendum. Iuuat tamen aliqua summatim pertingere. Et dicimus quod onerum ac impensarum quibus hactenus grauati fuistis, nos utique summe piguit atque piget, cum omnia illius carissime comunitatis nostre incommoda propria reputemus. Et certe si temporum conditio permisisset ut prouisionem facere superinde quiuissemus, credat nobis vestra deuotio, summe libenter fecissemus eandem; habeatque dilectio vestra certissimum quod concessiones et gratias antea vobis per nos factas nequaquam violari disponimus, ymo, si iam facte non essent, denuo concederemus et faceremus easdem. Est enim animus ciuitatem illam nostram nedum in statu quo eam habuimus con-seruare, sed augere et sublimem eam facere ac ampliare et ornare quantum nostre poterunt facultates. Et per immortalem Deum nostrum magis noster animus gloriatur prospero et felici statu quem speramus ipsam GIORNALE LIGUSTICO 227 ciuitatem, nostri opera, habituram ultra quod unquam habuerit, quam fauoribus aliquibus quos valeamus ex ea recipere ; nec ignoramus quod magnos quidem et utiles recepimus ex ipsa fauores, ac recipere possemus in posterum. Videbitis autem quod intra tempus exiguum circa reductionem et moderationem impensarum ille nostre comunitati incumbentium tam occasione prouisionis Gubernatoris illic nostri, quam stipendiariorum deputatorum ad illius urbis custodiam, talem ac tam salubrem faciemus prouisionem quod vester inde animus non ambigimus contentus remanebit. Et sic dictis Oratoribus vestris respondimus, ipsique vobis sunt oris organo relaturi. Aduisantes vos quod ut predicta maiorem efficaciam et credulitatem haberent et habeant, voluimus eis esse presentem Albertum de Marinis, cancellarium Gubernatoris nostri prefati; ex quo ea ipsa et alia omnia dictis Oratoribus exibita responsa poteritis etiam late sentire, ac intelligere super quibuscumque per Oratores ipsos exibitis, plene mentem meam. Viuite ergo leti et gaudete, ac amplectamini bonam spem, quia procul dubio taliter faciemus quod bonos et vobis gratos circa promissa breui in tempore sentietis effectus, ut memorati Oratores vestri latius vobis referre poterunt viua voce. Data Abbiate, die xxvii Iunii, anno Mccccxxmr. Zaninus. (Continua). Vittorio Poggi. VARIETÀ Un episodio dell’elezione di papa Adriano iv. Avvezzati, come siamo, alle ferrovie e ai telegrafi, si crede comunemente che ne’ secoli scorsi il propalarsi d’una notizia e la trasmissione d’una lettera fosse una faccenda da volerci una mezza eternità. Ci voleva il suo tempo , senza dubbio : pure, in certi casi straordinarissimi, i nostri bravi vecchi sapevano sfruttare in modo maraviglioso gli scarsi mezzi di trasmissione che avevano. Valga come un esempio la velocità sorprendente con cui arrivò a Lucca la nuova dell’ elezione di papa Adriano VI. 228 GIORNALE LIGUSTICO Il i dicembre del 1521 morì Leone X, nella fresca età di quarantadue anni. Il conclave, per dargli un successore, ebbe soltanto principio il 17 di quel mese; e fervendo allora accanita la guerra tra la Francia e l’impero, in tutti era grande Γ interesse e la curiosità di vedere chi riuscisse eletto; giacché Francesco I, da una parte , e Carlo V, dall’ altra, facevano ogni sforzo e mettevano in opera ogni mezzo perchè la tiara passasse sulla testa d’ un loro partigiano. Il cardinale Giulio de’ Medici, benché contasse sedici voti nel conclave, accortosi che era assolutamente impossibile per lui di salire allora sulla cattedra di S. Pietro, volle almeno il vanto di designare il novo papa ; e, dopo varie prove infruttuose , il 9 gennaio del 1522, d’accordo con don Giovanni Manuel, ambasciatore di Carlo V, propose Adriano· d’Utrecht. I cardinali vecchi e tutti quelli di parte francese,, che erano contrari all’ elezione di Giulio , per paura che la tiara divenisse ereditaria nella famiglia de’ Medici, colti così alla sprovveduta, fecero buon viso a quel nome; si passò quindi agli squittinì, e Adriano d’ Utrecht, cardinal di Tor-tosa, stato già pedagogo di Carlo V, ignoto all’universale e che non aveva messo mai il piede in Italia, tranne uno, ebbe il voto di tutti. Alle ore venti di quello stesso giorno, 9 di gennaio, fu solennemente proclamata la sua elezione, con maraviglia degli stessi cardinali, che , appena 1’ ebbero fatto papa, per testimonianza d’un contemporaneo (1), « rimasero come morti », non sapendo render conto a sé medesimi d’aver preferito « un barbaro e assente » (2); e poco mancò non fossero presi a sassate dal popolo romano, che all’ inat- (1) Gradenigo Luigi, Sommario della relazione di Roma; in Alberi, Relazioni degli Ambasciatori Veneti; serie II, vol. Ili, p. 74. (2) Guicciardini F., Istoria d’Italia, alla miglior legione ridotta dal professor Giovanni Rosini; VII, 90. GIORNALE LIGUSTICO 229 tesa notizia avvampò dallo sdegno (1). Il re Francesco I, che aveva detto all’ ambasciatore inglese Cheyney : « essere » persuaso che a Roma non costumava di dare i voti se-» condo l’ispirazione dello Spirito Santo (2) », dovette convincersi che aveva colto nel segno! Il Cardinale di Tortosa, che prese il nome di Adriano VI, venne dunque proclamato Vicario di Cristo (giova ripeterlo), il 9 di gennaio, alle ore venti; il giorno 10, alle ore diciassette, la Repubblica di Lucca ebbe la nuova di questa elezione; e l’ebbe per bocca del Targa, Maestro di Poste a Firenze, che aveva ricevuto l’incarico di recare in tutta fretta il lieto annunzio all’ eletto. Ne rende irrefragabile testimonianza una deliberazione della Signoria Lucchese, che qui trascrivo: Die X Ianuari 1522. El Targha, maestro di poste a firenze, questo di soprascricto, circa hore 17, comparse, venendo in poste, dinanti a’Mag.cl Signori, et expuose come il R.mo conclave, il giovedì precedente, che fu a di 9, circa hore 20 publicò et dichiarò summo pontefice il R.m0 cardinale Visuensis, della terre di olanda, fiamingho, governatore in hispania del ser.mo Imperatore, et già suo pedagogho dum erat in minoribus; et che lui era espedito di firenze con animo di dare nuova a sua R.ral Sig.r‘a della assumptione sua al pontificato. Dio sa quello ne habbi provisto di uno sancto et buono pastore per la pace et unione della s.,a fede et di tucta la religione christiana. Et hoc factum est admodum, et est mirabile in oculis nostris che questo R.m°, non conosciuto, nè mai stato a Roma , sia da 40 R.mi cardinali, quasi tucti italiani, stato assumpto alla s.'1 sede apostolica. Vidit Deus, qui sit benedictus in saecula saeculorum. (1) Iovii P., Vitae illustrium virorum. Basileae, MDCLXXVIII; tom. II, p. 11?. (2) De Leva G., Storia documentata di Carlo V in correlatione ali’Italia; II, 126. 2j0 GIORNALE LIGUSTICO Posteriormente fu scritto in calce alla deliberazione: Dipoi inteso il nome del prefato R.mo est: Adrianus de barbante Eohani presbiter cardinalis detursensis tt. sanctorum Iohannis et Pauli (i). Otto giorni dopo la Repubblica deliberava di regalare dodici scudi al Targa, in premio d’avere, prima d’ogni altro, recato la notizia dell’ elezione d’Adriano VI. Giovanni Sforza. Una lettera di Luigi Corvetto. La natura aveva dotato quest’uomo singolare, che rese alla Francia segnalati servigi economici, di mente eletta, d ingegno pronto ed accorto, d’ animo buono; ma gli era stata avara di quella saldezza di carattere, onde giustamente 1 uomo s’innalza in cospetto della sua coscienza e della società. Altri, discorrendo di lui, ha voluto con male intesa pietà tacere di questo suo capitale difetto, mentre alcuno, meglio consigliato, non lo nascose, pur cercando ragione di scusa nell’indole mite, e in certi suoi ideali politici che furono, a quanto sembra, la guida della sua vita (2). Colpisce certamente il vedere come il giacobino, quantunque temperato, del 1797, facilmente si pieghi alle successive mutazioni, per diventar più tardi partecipe d’un governo rea- (1) R. Archivio di Stato in Lucca. Anziani al tempo della libertà; reg. 142, part. II, c. V tergo. (2) Cfr. Solari, Elogio storico, Genova, Pagano 1824. De Nervo, Le comte Corvetto, Paris, Levy 1869 (Recensioni di Crocco in Rivista Universale, X, 207 ; Belgrado in Arch. Stor. ltal., T. S., XI, 136). Spinola, Studio intorno la vita politica del conte Luigi Corvetto, Genova, Sordo-muti 1870. GIORNALE LIGUSTICO 231 zionario per eccellenza. E questo suo voltarsi avviene senza scosse e come cosa naturale, tanto bene la pieghevolezza della sua indole s' adagiava ai nuovi ordinamenti, secondando con invidiabile disinvoltura il modificarsi delle idee, e delle condizioni d’uomini e di tempi. Esempio in vero non unico, nè, pur troppo, raro, in quel periodo turbinoso in cui cosi pochi si mantennero puri da miserabili debolezze, mentre i più si mostrarono veri ed ultimi rappresentanti d’ una generazione scema ormai di nervi e di polpe. Ma comunque si voglia giudicare della sua mutabilità politica, non si potrà sottrarlo al biasimo d’ aver rinunziato alla patria, dopo aver cooperato efficacemente ad asservirla alla Francia. Infatti, allorquando fu mandato a Genova il Saliceti a sostituire come ministro plenipotenziario il generale Dejean, riusci facile al nostro genovese di capire con quale intento politico egli si recava in quella citta, e non penò punto a chiarirsi fautore dell’annessione alla Francia, dando mano a preparare questo avvenimento, coonestato da una deliberazione del Senato abilmente provocata, e dal successivo plebiscito, che ben poteva dirsi una vera e propria coercizione. Il no scritto dall’ animo fiero di Agostino Pareto, merita in vero un ricordo onorevole in tanto abbassamento di servilismo. Al Corvetto, già conosciuto da Napoleone, era riserbato premio condegno all’ opera sua. Venne di subito (egli che si era innanzi ritratto dalla Consulta legislativa della Repubblica per condurre con piena libertà le sue pratiche) preposto al Consiglio Dipartimentale nuovamente istituito, e quando il 20 giugno l’imperatore fece il suo ingresso solenne in Genova, egli in quel suo ufficio gli porse il saluto del Consiglio in questo tenore (1): (1) Galletta di Genova, (1805) n. 4> Pag· 2^. 23 2 GIORNALE LIGUSTICO Sire, Le conseil général du département de Gènes présent ici ses hommages a V. Μ. I. et R. Sire, Vous avez délivré le bon peuple de Gênes: Vous l’avez adopté: Vous n êtes ici qu au milieu de vos enfans: tous nos maux sont obliés: tous nos sentimens sont fondus dans un seul, celui d’un attachement sans bornes à la Personne Auguste de V. Μ. I. et R. Nous n en sommes, Sire, que meilleurs sujets. Nos devoirs les plus sacrés s allient ainsi à nos affections les plus douces. Sire, ne dédaignez pas la simplicité de nos expressions. Héros, Sou-\rain, et Père, recevez le tribut de l’admiration, de l’amour et de cette fidélité si chère a nos cœurs, que nous venons de jurer. A sì fatte parole, le quali ci danno già una buona e chiara testimonianza delle attitudini adulatorie del Corvetto, fece seguire poche ore dopo queste altre, accolto in udienza dal-l’Imperatore insieme col Prefetto : Sire, II y a peu d’heures, que j’ai eu l’honneur d’être auprès de V. Μ. I. et R. 1 interprète des sentimens du conseil général du Département de Gênes. Ces sentimens seront les mêsmes, tant que le souffle de la vie animera nos cœurs: la fidélité, la soumission, la reconnaissance, l’amour, voilà, Sire, les élémens de notre existence politique et civile. Mais aussi combien de bienfaits n’attendons nous pas de la magnanimité de votre cœur paternel! Gênes vous présénte son Port-franc, sa Banque, son commerce, son organisation judiciaire. Tout attend les émanations de votre munificence auguste. .......Pardon, Sire.....c’est l’amour de mon sol natal, qui m’inspire. Sire, vous êtes plus grand que Cesar: il vous appartient de changer sa dévise: venei, voyez et rendez-nous heureux. L entusiasmo saliva fino alle vette del lirismo, ugualmente disdicevole al lodato ed lodatore. GIORNALE LIGUSTICO 233 H la ricompensa non si fece aspettare, che ricevette dalle mani stesse dell’ Imperatore le insegne d' ufficiale della Légion d’onore, e poco dopo, come ricordo, s’ebbe una ricca scatola adorna di brillanti ; quindi la promessa della sua nomina a consigliere di stato. Appunto in questa opportunità scrisse la lettera che vede qui la luce per la prima volta (i): Sire, Vous m’avez nppellé a La Légion d’honneur: Votre sublime dévise - Honneur et Patrie - était gravée dans mon cœur: elle s’y trouvait depuis long-tems associée à Napoléon. Le Prefet de votre Palais m’a donné par votre ordre un nouveau gage de vôtre souvenir: - c’etait au moment, où V. Μ. I. et R. venais de quiter Gênes. Cet marque de bonté ne fit alors que me faire sentir plus profondement vôtre absence. Mais je le garderai, Sire, ce gage précieux, et je puiserai dans le nom auguste, dont il porte l’empreinte, l’amour de mes devoirs, et l’idée de toutes les vertus. V. Μ. I. et R. me fait encore annoncer ma désignation prochaine au Conseil d’Ëtat ; et c’est ici, que les expressions manquent, à mes sentimens. L’emotion vive, et profonde d’une reconnaissance immortelle soulage en quelque manière une âme sensible. Mais une reflexion affligéant vient se mêler à ce sentiment délicieux. Ah ! si ma bonne volonté ne pouvais pas suppléer la faiblesse de mes moyens, si un attâchement inviolable au service de V. M. et de ma nouvelle patrie constituait tout le mérite de vôtre fidèle sujet, si je ne pouvais repondre à vos bienfaits, et à vos hautes intentions .... Sire, souvenez-vous alors, que je suis votre ouvrage: Vous n’aurez point fait un ingrat. Je ne serai que malhereux. De V. Μ. I. et R. Gênes, 30 messidor an. 13. Très humble, très-dévoué, et très fidèle sujet Louis Corvetto. Questa lettera fa tenore ai discorsetti d’ occasione innanzi riferiti, e ribadisce la taccia d’ adulazione che emerge a chiaro (1) Fra gli autografi della Biblioteca Universitaria di Genova. 234 GIORNALE LIGUSTICO lume dalla vita del nostro genovese. Al quale non si vogliono certamente disconoscere meriti singolari e notevoli , ma essi fanno maggiormente deplorare la versatilità e la pieghevolezza del carattere. Considerando le sue vicende noi rileviamo con molta curiosità il fatto, certamente non comune, di quest’uomo il quale é così aiutato da fortuna da salvarsi non solo in tutti i cambiamenti politici, ma ridursi agevolmente in porto e primeggiare sempre, adattandosi ai nuovi ambienti, alle mutate contingenze. Accetta, più audace degli altri, i principi della democrazia pura, la domina, e non è scosso, quando, venuta meno, salgono i repubblicani temperati al governo di cui egli fa parte; poi, seguendo l’astro di Bonaparte, esercita la sua influenza sulle modificazioni portate agli ordinamenti della Repubblica Ligure, e spiana la via all’unione della sua patria colla Francia: diventa imperialista con Napoleone, quindi rinnega la rivoluzione e si raccoglie sotto le ali dei Borboni. Nè in ciò la fortuna sola lo assiste, ma la finissima accortezza ond’ era dotato, ben mascherata da un’ indole melliflua, facile a commuoversi, quasi ingenua. Per il che forse non senza ragione il P. Luigi Serra nel dramma satirico I Novemviri (i), quantunque ingiusto ed eccessivamente severo, ce lo rappresentò ipocrita e segreto maneggiatore di quei retroscena politici, ordinati coi ministri di Francia, ch’ebbero virtù di operare in Genova tanti rovesci d’ uomini e tante mutazioni di governi. Potrebbe quindi ritenersi nel fondo non del tutto fuori del vero, quanto lo stesso poeta lasciò scritto di lui nella Lanterna magica (2): (1) Pubblicato ne Le piccole miserie, Genova 1864. (2) È inedita, ma i versi che riguardano il Corvetto, con altre strofe, vennero pubblicati dal Clavarino , Annali della Repubblica Ligure, Genova, Botto, 1853, 49· GIORNALE LIGUSTICO 235 Corvetto ognor mellifluo È un jiorellin di maggio Cangiante, carezzevole , Che agli altri soprastà. In molle arena Non mai Sirena Muover ingannevole Fu vista a rovinar con miglior grazia. Sempre a prometter facile E a mantener difficile, Fa iella colle lagrime la sua mobilità. A. N. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Parrocchie dell’archidiocesi di Genova, per Angelo e Marcello Remondini; Genova, Tip dei Tribunali, 1890 (1). Sono ben tre volumi usciti tutti nell’ anno passato, in continuazione degli otto precedenti. Contengono le Regioni nona, decima e undecima; ed illustrano rispettivamente la Valle di Fontanabuona coi vicariati di Leivi, Cicagna, Favaie, Uscio e Neirone, la Valle di Bisagno coi vicariati di Bargagli, Rosso, Struppa e Bavari, la Valle di Polcevera coi vicariati di Serra, Sant’ Olcese e Rivarolo. Nè qui è il caso di rifarci alle lodi che altra volta abbiamo date all’ampio lavoro; ma diciamo che nei volumi or annunciati ci sembrano adunati in copia anche maggiore del consueto i documenti editi ed inediti, il materiale epigrafico, e con le notizie religiose altresì le memorie di belle arti, d’usi e di costumi, e di famiglie. Di quasi ciascuna parrocchia vediamo inoltre non lievemente accresciuta la serie fin qui nota dei rettori, e ciò in (I) Cfr. Giorn. Lig., a. 1888, p. 478; a. 1890, pp. 80 e 238. 236 GIORNALE LIGUSTICO ispecie pei secoli anteriori al XVI, che è sempre il periodo più difficile ed oscuro. Nella Regione undecima osserviamo però che non è del Bracelli, ma di un anonimo, la descrizione inedita della Pote-stacia Pulciferae, desunta dal codice Beriano D. 4. 4. 1 (p. 403); nè il brano fu riferito in esatta lezione, dovendosi correggere omni frugum genere laddove uscì stampato omnium frugumque, e vino in luogo di duo che non ha senso. Con piacere notiamo poi confermata la identificazione del-1 antico Campus Florentianus, o S. Stefano delle Fosse, col- 1 ora fiorente borgo di Teglia, il cui nome (ben dice il sac. A. Remondini) non è certamente di ieri », conoscendosi un Cipriano Cambiaso di Teglia del 1264, ed un notaio Nicolo « da Teglia di Rivarolo » rogante su lo scorcio del secolo XIV. Ai quali si può aggiungere Benedetto Mantica da Teglia, orafo peritissimo, a cui vantaggio il card. Giorgio Fieschi interpose nel 1441 i propri uffici presso il comune di Siena (cfr. Varni, Fonditori in bronco, p. 5). Dell’etimo di Teglia non si occupa l’autore (chè sarebbe stato uno sconfinare il suo campo) ; nè pensiamo noi di risolvere il dubbio che può affacciarsi intorno alla derivazione di tal nome da tegia , fienile e tugurio 0 capanna coperti di fieno (cfr. Muratori, Antich. ital., diss. XIII), ovvero da teli a che il Du Cange spiega modus agri aut vineae. Solamente osserviamo che gli esempi riferiti nel Glossarium, di terre monastiche così appellate, ci renderebbero più presto inchinevoli alla seconda opinione, potendosi bene immaginare che i Benedettini di S. Mauro, introdotti dall’ arcivescovo Siro II, l’anno 1139 7 nella chiesa di S. Stefano in Campofiorenzano, acquistassero in quelle vicinanze uno di sì fatti poderi. Intorno alla primitiva costruzione del santuario di N. S. della Vittoria, di cui si discorre sotto il vicariato di Serra, non sarà forse discaro il seguente documento inedito, il quale GIORNALE LIGUSTICO 237 ci serba il nome di Giovanni Maria Lichino rettore di Mon-tanesi, ed attribuisce a lui il merito della iniziativa di quella fabbrica « con Γ elemosina de’ privati » (1). Pro ecclesia sanctae Mariae de Victoria. Ser.n,i Signori, Per gratia particolare di Nostra Signora, l’anno del 1625, ottennero i Polceveraschi nel territorio di VV. SS. Ser.”', compreso nella cura di S. Andrea di Montanesi, vittoria da’ Francesi; e per recognitione di questa gratia e memoria perpetua della stessa, si è fabricato dal r> Gio. Maria Lichino, rettore di detta chiesa, con l’elemosina de’ privati, una capella dedicata a Nostra Signora sotto nome di Nostra Signora della Vittoria. È però vero che non resta ancora compita, nè redotta a perfetione, pel mancamento de’ denari. Perciò detto reverendo Gio. Maria, che ebbe da VV. SS. Ser.me per quest' effetto la nomination d’ un bandito, della quale, per la conditione de’ tempi presenti, non ha potuto cavare impunità corrispondente al bisogno , per ciò si è astenuto a farla, supplica VV. SS. Ser.me a volere suffragarlo di maggior gratia della detta di sopra, affinchè l’opera di tanta gratitudine verso la divina bontà habbi la dovuta per-fettione. Il che per essere conforme la bontà di VV. SS. Ser.me, spera ottenere; alle quali etc. 1628, die 10 iulii Ser.mus et Ill.mi Procuratores Lectis supradictis precibus per dictum rev.dum D. Mariam supplicantem presentatis, examinato negotio, ad calculos, omni modo etc., concesserunt et concedunt dicto rev.d° supplicanti ius et auctoritatem nominandi, et ab exilio remitti petendi, alium exulem ex iis qui a Ser.mis Collegiis via ordinaria remitti possunt, cum solitis tamen conditionibus, quod scilicet, si perpetuus, saltem cum requisitione, si temporaneus saltem....... exularet, et pacem ab offensis habeat; et quicquid e dicta nominatione elicietur, erogari debeat a dicto supplicanti in fabricatione cappellae de qua in dictis precibus etc. Et ita etc. Et pro conditionibus predictis observandis etc. Felix. (i) Archivio di Stato in Genova. Senato, a. 1628, filza 4.* 238 GIORNALE LIGUSTICO Del resto Tuso di venire in soccorso delle chiese e d’altri luoghi pii nella guisa che narra il riportato documento , era allora consueto nella Repubblica genovese. Eccone una riprova in quest altro, che concerne la riedificazione del convento di S. Francesco della Chiappetta; e gioverà anch’esso di aggiunta a ciò che ne scrisse il Remondini sotto la parrocchia di Murta, e prima di lui il Persoglio nelle Memorie di questa parrocchia (1). Ser.”'' Signori, Il convento di S. Francesco della Chiapetta è luoco antichissimo, preso e tabricato dal medemo santo, dove esso habitò per qualche tempo e vi fece etiandio un Capitolo. Adesso dalle ingiurie del tempo è trattato in maniera che si possa dire quasi rovinato et inhabitabile, et in particolare la chiesa che sta per cadere. E perchè non restino al tutto estinte le memorie di quella santa habitatione, sono supplicate le Signorie Loro Serenissime della sua solita pietà verso quella chiesa, acciò resti sovenuta nella sua totale rovina. L’opeta è di molta pietà, e degna della prò-tettione delle SS. LL. Ser.me, a quali etc. 1640, 26 octubris. Dictis reverendis fratribus conventus S. Francisci de Chiappeta con-cessum ius et actio nominandi, et ab exilio remitti petendi, exuleni ex iis qui a Ser.mo Senatu via ordinaria remitti possunt, sine conditionibus; modo remittendus pacem habeat ab offensis et sit in satisfactione Excellentissimorum de Palatio. Per Serium Senatum ad calculos. ___Io. Franciscus. L. T. B. SPIGOLATURE E NOTIZIE ì^el fase, della Rivista Italiana di Numismatica pel 1890, Giuseppe Ruggero ha pubblicate altre due Annotazioni Numismatiche Genovesi, cioè la X e la XX. La prima tratta delle monete attribuite dal Gandolfi ai ogi X e XI, la seconda discorre dei minuti del governatore Filippo di Cleves. (1) Arch. cit. Senato, a. 1640, filza 12.· B. GIORNALE LIGUSTICO 239 * * Nello stesso fascicolo Ercole Gnecchi descrive tre luigini inediti della principessa Giulia Centurione-Scotti, marchesa di Campi. * * * Col 1891 VArchivio Storico Italiano ha iniziata la sua quinta serie ; e nel primo fascicolo di essa il prof. Pio Rajna pubblica un dotto e curioso articolo su l’etimologia e la storia arcaica del nome. « Napoleone ». L’ili. professore addita uno degli antichi esempi di questo nome nel genovese Napoleone di Voltaggio, console de’ placiti l’anno 1249 e inviato a papa Urbano IV nel 1263. Ma esempi poco meno antichi, di questo medesimo nome , si raccolgono del pari in altre delle nostre famiglie, specie tra gli Spinola e i Lomellini. Il Rajna dichiara in una nota che non è stato a cercare e non sa dire per quale motivo e su qual fondamento san Neopolo, tramutato in Napoleone per effetto del desiderio di trovare ai Napoleonidi un patrono celeste, sia stato costretto a cambiare anche di posto nel calendario, togliendolo cioè al 2 di maggio per fissarlo al 15 di agosto. Rispondiamo che questo cambiamento fu esso pure un atto di servile adulazione verso il primo dei Napoleonidi, allo scopo di far coincidere la festa del santo con quella del cesare gallico, il cui genetliaco cadeva appunto nella solennità dell’assunzione di Nostra Donna. * * * Il sac. Giovanni Brizzolara ha testé pubblicata in bel volume la Storia dell’ abbazia parrocchiale e plebana di S. Andrea di Borione (S. Pier d’Arena, Tip. Salesiana). * * Nel Journal Officiel de la Rép. Française del 21 maggio si riassumono le importanti comunicazioni fatte alla Società Geografica di Parigi dal visconte Caix de Saint-Amour, intorno alla conquista delle Canarie impresa ne! 1402 da Giovanni di Béthencourt e Gadiffer de la Salle. Vi si dice, tra 1’ altro, che fra i due compagni nacquero poi dei dissidi, a seguito de’ quali il De la Salle se ne tornò in Europa; « et on le retrouve, en 1409, devant Gênes avec le maréchal de Boucicaut ». * * * Il nostro egregio collaboratore Remigio Sabbadini ha licenziato per le stampe uno studio importante intorno a Giovanni Aurispa. Egli illustra un periodo notevole dell’umanesimo in Italia, e porge documenti ignorati intorno a parecchi uomini che per diverse ragioni si levarono in fama. Quivi troviamo fatta non piccola parte ai nostri genovesi, e meglio chiarite le condizioni de'la cultura nella Liguria. Ne sarà parlato più ampiamente secondo il merito dell’ opera. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Pietro Orsi, Come fu fatta ΓItalia, Torino, Roux, 1891. — La paura del finimondo nell’ anno mille, Torino, Roux, 1891. La storia del nostro risorgimento non è conosciuta tra noi così universalmente come sarebbe nostro stretto dovere, ed in Italia troppo poco 240 GIORNALE LIGUSTICO s’ è fatto per renderla veramente popolare. Siamo su questo punto lontani le mille miglia dall’ attività prodigiosa spiegata dalla Francia in pubblicazioni riflettenti la sua grande rivoluzione. In un libretto di piccola mole, ma di valore rispondente pienamente allo scopo, il professor Pietro Orsi, del R. Liceo Foscarini di Venezia, ha raccolto le conferenze tenute il settembre scorso ai maestri e maestre della provincia. Con stile piano ed efficace, qua e là condito sobriamente di qualche piacevolezza , ci fa sfilar dinanzi in tanti quadri oltre un mezzo secolo di patriottismo, come direbbe il Bonfadini. Non pretende dir cose nuove , ma riassumere e raggruppare i fatti più accertati, perchè i più ne abbiano una cognizione sicura e degna di un buon italiano. Quanti credono ancora ciecamente alla ormai sfatata leggenda del-\ Anno Mille — e non sono pochi — leggano l’altra conferenza del- 1 Orsi, pure tenuta a Venezia nella primavera scorsa. Sentiranno ripetere in torma più popolare quanto Γ Orsi fin dall’ 87 nel suo noto ed importante studio sull’yinno Mille aveva messo in chiaro, esser cioè parto della fantasia di molti , troppi scrittori dal Bettinelli al Carducci le raccapriccianti descrizioni dell’ appressarsi della fine del mondo , poiché nessun documento contemporaneo al 1000 accenna particolarmente a tale credenza. G. R. Λ incenzo Crescini. Il contrasto bilingue di Romhaldo di V aqueir as. — Padova, Randi, 1891. (Estratto). L egregio autore di questo scritto, nella sua brevità diligente e assai importante, ha voluto innanzi tutto restaurare il testo critico del celebre contrasto, tenendo come base il codice estense, e a riscontro i due manoscritti parigini ben noti. Così ha seguito le norme della sana critica, ponendo in calce le varianti grafiche delle strofe genovesi, e a corredo alcune note erudite. Il ragionamento premesso al contrasto consta di due parti, l’una storica, altra lessicografica. Nella prima tocca dell’ opinione posta innanzi da coloro che lo precedettero, intorno al tempo in cui fu scritto il contrasto, e ritiene non senza fondamento che possa essere anche anteriore al 1190 circa, data concordemente accettata fino a qui. Senza negare poi che Rambaldo ci narri un’ avventura realmente accaduta, pone il dubbio se non si tratti piuttosto di uno scherzo poetico attinto dalla sua fantasia , tanto più considerando come la poesia sia in relazione con le pastorelle, genere di componimento allora diffusissimo, di che per opportuni confronti viene il C. a mostrare la verità. Anzi di qui trae nuovo argomento per credere come non si tratti di una dama o di donna comec-chesia d’ elevata condizione, bensì una cittadina volgare di non comune bellezza sia essa da vero esistita 0 saltata fuori dalla immaginazione del poeta. La seconda parte è destinata agli appunti linguistici rispetto al dialetto genovese; dialetto, che, secondo ben osserva 1’ A., non abbiamo precisamente nella forma genuina e primitiva lasciataci da Rambaldo, ma con le contaminazioni dei trascrittori provenzali, i quali per naturai conseguenza, posto pure che la forma originale rispecchiasse esattamente fa parlata dialettale, fecero una curiosa mistura di provenzale e di genovese. Sappiane che il C. attende ad una ristampa di altre scritture genovesi m verso e in prosale lavora operosamente intorno ai nostri poeti provenzali Lanfranco Cicala e Bonifazio Calvo. Desideriamo veder presto i risultati dell’ opera sua. Pasquale Fazio Responsabile. giornale ligustico 241 CONTRIBUTI ALLA STORIA GENOVESE DEL SECOLO XV (Continuazione e fine, vedi pag. 227) IV. Il duca Filippo Maria Visconti annuncia al Governatore (conte di Carmagnola) e al Consiglio della città di Genova una vittoria riportata dalle sue truppe in Romagna, ordinando che il fausto avvenimento venga festeggiato anche in Genova con processioni, falò e scampanate. Trattasi della battaglia combattuta il 22 di giugno 1424 presso Zagonara, fra le truppe fiorentine unite al corpo di Carlo e Pandolfo Malatesta, in numero di circa 9000 cavalieri, da una parte, e l’esercito visconteo, superiore in forza, sotto il comando dei condottieri Secco da Montagnana ed Angelo della Pergola, dall’altra: nella quale i collegati ebbero la peggio; e la sconfitta fu tale che mentre Pandolfo Malatesta, facendo forza di sproni, riuscì a stento a mettersi in salvo, Carlo suo fratello e con esso i più distinti ufficiali della Lega vennero presi e condotti prigionieri a Milano. È noto che Filippo Maria, memore dell’antica amicizia con Carlo Malatesta, il quale in altri tempi aveva tenuto il governo della Lombardia e l’amministrazione dei due pupilli di Gian Galeazzo Visconti, accolse onorevolmente lo sfortunato condottiero, e non solo non esigette da lui il prezzo del riscatto, ma lo rimandò colmo di doni al suo stato di Rimini: nel che dimostrò, come sempre, un gran tatto politico. Carlo e Pandolfo erano figli di Galeotto Malatesta signore di Rimini. Carlo era nato il 1368 e morì dopo cinque anni Giorx. Ligdstico. Anno XVIII. Ι(ς 242 GIORNALE LIGUSTICO dalla rotta di Zagonara, nel 1429: Pandolfo, signore di Brescia ecc., nato il 1370, morì nel 1427. Il Zanino da cui sono controfirmati questo e il precedente documento, è quel Zanino Ericio 0 Erizzo, già scrivano di Facino Cane poi cancelliere di Filippo Maria Visconti, quel desso che fu emulo astioso del conte di Carmagnola e forse autore della deplorabile rottura della lunga amicizia che legava questi al Visconti. Dux Mediolani, Papie Anglerieque Comes, ac Ianue dominus Domino Gubernatori et Consilio. Magnifice, et venerabili dilecti nostri. Dirigens continuo in melius res nostras, Divina Clementia benigne permisit ut victoriosus et felix exercitus noster inimicas gentes nostras que in partibus Romandiole contra nostras antehac semper, Deo laudes, inuictas, temerario motu venire presumpserant, cum ceteris manibus in conflictum omnino posuerit, et in stragem, captis magnifico domino Karolo de Malatestis ceterisque conductoribus et pre-stantibus viris, excepto domino Pandulfo, qui, vi calcarium et festino equi cursu, dicitur aufugisse, quamquam de fuga eius, propter superuenientem noctem dum aufugeret haberi nequiuerit certitudo. Quod iocundissimum et celeste nouum a bonorum omnium largitore, clementissimo Deo nostro, sicut et alia quoque bona recognoscentes, et recognoscere intendentes, volumus quod in eiusdem laudem et reuerentiam, totiusque celestis curie decus, ac pignum gaudij et leticie, triduanas illic fieri processiones solem-niter faciatis, et excelsa et circumluminiosa fallodia cum amenis et meli-fluis campanarum sonitibus, sicut in alijs felicibus rerum nostrarum successibus fieri consueuit. Data Abiate,die ultimoIulij,anno MCCCCXXIIII. Zaninus V. Filippo Maria Visconti scrive a Pileo de’ Marini arcivescovo di Genova per ringraziarlo dell’ opera da lui prestata nel disbrigo di alcune pratiche, delle quali avevano poco prima trattato a voce fra loro nell’ occasione che il de’ Marini erasi GIORNALE LIGUSTICO recato in persona a Milano. Gli raccomanda inoltre di ado-prarsi a tuttuomo, d’accordo col governatore (i), nell’interesse del suo stato genovese. E siccome l’arcivescovo aveagli rappresentata la convenienza di decorare di una onorificenza mi itare il nobile genovese Carlo Lomellino, quello stesso eie la lettera η. Ili ci insegna essere stato inviato, l’anno innanzi, Oratore di Genova al Duca, questi risponde di essere dispostissimo ad insignire il Lomellino della meritata decorazione, e che alla prima occasione non tralascerà di conferirgliela di mano propria. Come si evince anche dal tenore di questa lettera, Pileo de Marini era in rapporti abbastanza stretti col Duca Filippo Maria, il quale gli professava la maggiore deferenza e faceva grande assegnamento sui suoi buoni ufficii. Vedesi del pari come egli si recasse personalmente alla corte del Duca in Milano per trattarvi di affari importanti e di indole riservata. (A tergo). Regredissimo iti Christo patri, dilectissimo nostro domino Pileo, Dei gratia Archiepiscopo Ianuensi. (intus). Reuerendissime in Christo pater, dilectissime noster. Intelleximus per literas vestras quam prudenter et virtuose gesserit se, ac operata sit vestra Paternitas, circa ea de quibus pridie, quando hic eratis, vobiscum locuti fuimus. Indeque Paternitati vestre regratiamur habunde, vestram laudabilem operam plurimum commendantes, rogantesque ut intelligendo vos cum reuerendissimo domino etc., Gubernatore illic nostro, studeatis continuo intendere ad ea que salubritatem illius nostri status concernere (i) In quell’anno (1425) governava Genova, per Filippo Maria Visconti, Iacobo degli Isolani, Diacono Cardinale di S. Eustachio, Bolognese, noto nella storia burrascosa di quei tempi, specialmente per aver tenuto l’ufficio di Legato in Roma a nome di papa Giovanni XXIII, nel tempo che la città fu presa e occupata da Braccio da Montone e dal Tartaglia; nella ■quale circostanza egli erasi racchiuso in Castel S. Angelo, dove tenne fermo fino alla liberazionedi Roma per opera dello Sforza il 27 di agosto 1417 244 GIORNALE LIGUSTICO videantur, sicut in Paternitate vestra ample confidimus et speramus. Et quia literarum finis subiungit, nobisque persuadet ut nobilem Carolum de Lomellinis militari cingulo decoremus, dicimus quod sumus ad hoc plus-quam bene dispositi; et si litere vestre nobis reddite fuissent ante ipsius Caroli hinc recessum, hanc profecto rem leto animo executioni mandas-semus ; cum prefatus Carolus suis virtutibus et respectibus per vos tactis, eo sit dignus honore. Verum alio tempore, quando eumdem Carolum pro aliqua re notabili ad nos venire contigerit, sicuti modo venit, curabimus, ipsum huiusmodi militia insignire. Nec materiam hanc prefato domino etc. Gubernatori commisimus, in absentia dicti Caroli, secundum auisamentum vestrum, quia eam nobis, pro maiori ipsius Caroli honore, duximus reseruandam. Data Mediolani, die II0 Augusti MCCCCXXV. Filipus Maria Anglus, Dux Mediolani et Papie Anglerieque Comes, ac Ianue Dominus. Franciscus VI. Filippo Maria Visconti ringrazia, anzitutto, 1’ arcivescovo Pileo de’ Marini di certe comunicazioni epistolari che riconosce ispirate da vivo e cordiale affetto. Si dichiara poi dolentissimo di non poter pel momento ottemperare al desiderio dell’arcivescovo, che instava perchè gli venisse restituito il palazzo di sua ordinaria residenza, ossia 1’ arcivescovato, allora occupato da Opizzino di Alzate, Commissario ducale per le cose della guerra; e ciò a causa delle anormali e difficili còndizioni in cui versava il governo ducale in Genova, le quali esigevano che 1’ Opizzino stasse a continuo contatto col Governatore, e abitasse perciò un palazzo attiguo alla residenza di quest’ ultimo. Lo prega quindi a pazientare un altro po’, e non tralascia finalmente di promettergli che quanto prima, non appena le circostanze lo permetteranno, la casa occupata dall’ Opizzino verrebbe sgombrata e restituita, con affidamento che per l’avvenire l’arcivescovo non ne sarebbe più spossessato per qualunque evenienza. GIORNALE LIGUSTICO 245 Opizzino di Alzate, Milanese, era stato mandato a Genova da Filippo Maria col titolo ora enunciato di Commissario ducale sopra le cose della guerra, nel mese di luglio di quest anno 1425: nella quale qualità, sebbene gerarchicamente suboidinato al Governatore, era egli in realtà che « maneggiava tutte le faccende » (Giustiniani). Nella giornata dei 25 di gennaio 1436, nella quale i Genovesi scossero il giogo visconteo, Opizzino di Alzate fu tagliato a pezzi dai sollevati presso la chiesa di S. Siro. (A tergo) Reuerendissimo in Christo patri, dilectissimo nostro domino Pileo, Dei gratia Archiepiscopo Ianuensi. (Intus) Reuerendissime in Christo pater, dilectissime noster. His diebus certas recepimus Paternitatis vestre literas, per quas plura auisamenta valde laudabilia nobis datis, que bene comprehendimus ex ingenti et cordiali affectione procedere; proindeque vobis regradamur amplissime. Et quia multum instatis ut domum vestram que tenetur per Opecinum de Alzate iubeamus expediri, ita quod in ea possitis, iuxta solitum, residere, dicimus et rogamus quod, cum necessarium sit ut idem Opecinus domum habeat palacio reuerendissimi domini Gubernatoris illic nostri valde propinquam, propter casus occurrentes ex quibus oportet ut horatim se cum prefato domino Gubernatore reperiat, patientiam habere velitis et esse contentus ut ad aliquot usque dies, et in istis arduis casibus, dictus Opecinus eam teneat. Persuademus enim nobis et confidimus, ymo certi reddimur, quod, necessitate exigente sicut nunc, dictum Opecinum nedum in domo, sed in lecto vestro proprio libenti animo assumeretis, causa nostri. Auisantes tamen vos quod cum dabitur temporis magis commoditas illic parari facere disponimus et faciemus aliam domum contiguam ille prefati domini Gubernatoris pro residentia tam dicti Opecini quam aliuscuiuscumque ex nostris qui haberet apud eum residere. Ita quod futuro tempore domus vestra per aliquo casu non occupabitur, sed vobis continuo expedita remanebit. Data Mediolani, die XX Augusti, anno MCCCCXXV. Filipus Maria Anglus, Dux Mediolani et Papie Anglerieque Comes, ac Ianue Dominus. Franciscus 246 GIORNALE LIGUSTICO VII. Il vescovo di Scio espone all’arcivescovo di Genova Pileo de’ Marini come, appena insediato nella sua diocesi, divenisse oggetto di persecuzione da parte dei Maonesi dell’isola (1), i quali con mille vessazioni cercavano di scalzare la sua giurisdizione a beneficio di quella del vescovo greco (2). Si (1) La Maona era il titolo, ossia la ragione commerciale, di una società anonima che esercitava l’amministrazione di Scio, e i suoi membri (Mahonenses), sebbene appartenenti in origine a diversi casati non legati tra loro da vincoli di parentela, formavano un albergo, che è quanto dire un aoDreSa^° giuridico di famiglie che, abbandonando il proprio (ad eccezione di una sola, quella degli Adorni), aveano assunto il nome di Giustiniani. In base alla convenzione del 1347 ^ Comune di Genova e la Maona, spettava al primo P alto dominio, la giurisdizione civile e criminale, non-cnè il comando militare dell isola; mentre il dominio utile era esercitato dai Giustiniani, costituiti, come si è detto, in società anonima o ditta commerciale sotto il titolo di Maona. (2) La religione dominante in Scio era la cattolica romana, e la diocesi latina dell isola comprendeva quattro chiese parrocchiali e otto monasteri. Tuttavia accanto alla latina continuava a coesistere la chiesa greca, con istituzioni proprie, con chiese e monasteri del proprio rito, sotto la giurisdizione di un vescovo greco, eletto dalla popolazione e confermato dal patriarca di Costantinopoli, previo giuramento di fedeltà alla Maona. L accusa che il nuovo vescovo di Scio fa in questa lettera ai Maonesi di favorire la giurisdizione greca a detrimento della chiesa latina non sembra abbastanza fondata ; potendosi, anzi, eccepire in linea di fatto che, non molto dopo, sotto il pretesto di una cospirazione ordita dai Greci a danno dei Maonesi, 1 episcopato greco di Scio venne da questi soppresso; e perfino la cattedrale greca di S. Maria, tenuta a quei tempi per la chiesa più bella dell’Arcipelago, fu da essi più tardi tolta ai Greci e assegnata, in un colle ricche sue rendite, alla mensa del vescovo latino. Veg-gasi Carlo Hopf, Storia dei Giustiniani di Genova, nel Giornale Ligustico, 1881 e 1882. GIORNALE LIGUSTICO 247 raccomanda quindi caldamente a lui, perchè voglia spendere 1 suoi buoni uffizi per trarlo da tante tribolazioni. Questo nuovo vescovo di Scio è certamente frate Ludovico dell Ordine di S. Agostino, di cui non si avevano fin qui notizie certe che dal 1427 al 1434. Egli era succeduto ad Antonio Pallavicino, del cui episcopato si ha contezza ancora nel 1423 (1). Lo stile pretenzioso e la dicitura infiorata di reminiscenze classiche rivelano nell’ autore della lettera un dilettante umanista del Rinascimento. (A tergo) Reuerendissimo in Christo patri et domino, domino Pileo, Dei et Apostolice (sedis) gratia Archiepiscopo Ianuensi. (Intus) Ihesus Reuerendissime in Christo pater. Tandem dextris numinibus nauigauimus, telluremque Chiam leti suscepimus. Sed hec letitia de breui versa est in amaritudinem, quia quos sperabam in filios et fratres recipere, hii me spreuerunt et in diem spernunt, cupientes iurisditionem nostram funditus diluere et grecam augere, etiam inuitis Grecis. Insuper quid egerit erga me in tan (sic) paruo tempore, si volueritis, narrabit vobis Karolus noster: ut maiora omittam, uno contentus sum. Ordinarunt isti Mahonenses ne aliquis seu aliqua de albergo Iustinianorum ecclesiam nostram, sine qua ecclesiastica sacramenta percipere non possit, ingrediatur; et adhuc in pertinatia perseuerant. Patienter omnia tolerarem equiore animo, si cuius mihi conscius culpe, et si iniuscam penam meritam tamen iram ferrem; seu aliquid sinistri verbo seu opere a me haberent. Saluo si moleste ferunt quia nobilis sum. Quare, precibus quibus possum, precor eandem Paternitatem me commendatam habere velit in me, de faucibus istorum eripe quoquo modo; nam gratum mihi feceritis et inimLis meis. Spero attinentes nostri procurabunt ad propulssandas tantas iniurias aliquid adiumenti a magistratu. Dignetur eadem Paternitas, in qua satis confido, operam dignam dare in id optinendo. Me prelibate Paternitatis orationibus humiliter commendo: quia maximis fluctibus patitur Ecclesia Catolica hic. (i) Gams, Series Episcoporum Ecclesiae universae, vol. I, p. 448. 248 GIORNALE LIGUSTICO Augeat pius Ihesus vestra incrementa felicia, et confundat inimicos et persecutores ecclesiastice libertatis. Valete. Ex Chio, die XVI Ianuarij, anno MCCCCXXV. L. Episcopus Chiensis. II sigillo della lettera, in ceralacca, porta una targhetta o scudo ogivale con croce. A sinistra della targa, nel campo, appariscono traccie di lettere indistinte a rilievo. Vili. Pietro Fieschi, Console di Caffa, riferisce all’arcivescovo Pileo de’ Marini intorno ad un tumulto a cui avea dato colà occasione la notizia della nomina fatta anticipatamente e di motu proprio dal Governatore di Genova , Cardinale Jacopo degli Isolani, del nuovo Console che doveva succedere al Fieschi, nella persona di Gerolamo Giustiniani. Questa disposizione non appariva a Calìa abbastanza legale, essendo d’uso costante che il nuovo Console fosse nominato a suo tempo dal Consiglio di Genova: inoltre era stato oggetto di viva discussione la questione di sapere se, dato il caso che il nuovo titolare non si fosse presentato in tempo, dovesse il Fieschi dare la consegna dell’ufficio interinalmente ad altri. Veramente , la disposizione non era per sè stessa tale da ferire l’amor proprio del Fieschi, visto che il Giustiniani, nuovo titolare, non doveva entrare in carica se non quando il Fieschi avesse compiuto 1’ anno del suo consolato : veniva bensì a tarpare le ali a molte aspirazioni e a troncare bruscamente chi sa quante pratiche in corso. In fondo, queste agitazioni erano piuttosto uno sfogo del malumore che andava di mano in mano accentuandosi contro la signoria di Filippo Maria Visconti; malumore di cui anche in Genova si moltiplicavano i sintomi, ma che pronunciavasi più vivacemente nelle colonie, dove l’azione dell’autorità politica si GIORNALE LIGUSTICO 249 faceva sentire assai meno che nella metropoli, e quindi a minori restrizioni andavano soggette le manifestazioni del sentimento popolare. Il pi esente documento ci permette di inscrivere il nome di Pietro Fieschi nella serie finora incompleta dei Consoli di Caffa. (A teigo) Reuerendo in Christo patri et domino, domino Pileo Dei gratia Archiepiscopo Ianuensi. (Intus) Reuerendo in Christo pater. Post recomandationem uolo uos auisaie de excessu hic occurso. Hinc est quod placuit reuerendissimo domino Cardinali Gubernatori a se ipso solo ut, finito anno meo, mihi sucedat dominus Ieronimus Iustinianus in officio consulatus. Litere predicte cum ducte fuerunt versus terram, habita notitia de predictis, domini Fede-ricus Spinula et Filipus Figonus masarij uenerunt ad me dicentes si habebam notitiam de literis dominacionis. Respondi quod ilud audiui, sed ilas non uidi quia in me non erant. Lecte fuerunt litere predicte, per quas mihi mandabat prefatus reuerendissimus dominus Gubernator ut, finito anno meo, eligebat Consulem predictum dominum Ieronimum. Ego respondi literas predictas recipiebam cum ila reuerencia prout debebam de domino suo, et ueniat dominus Ieronimus in literis nominatus, et consulatus officium consignabo, ut alio si esset in literis nominato, sed quod mihi non erat mandatum, solum domino Ieronimo et non alio, non uolebam alicui alio officium consignare. Et feci legere literas predictas coram consilijs nostris. Non contempti de hoc, aliqui maliuoli fecerunt conspirationes hominum de populo et artificum, dando literis predictis aliud inteletum quo putatus eram, tamquam ribelis ut melius mouerent populum ad furorem etiam cum armis. Uenerunt ad palatium, uolendo literam pre-dictam legere, et cum lecta fuit coram omnibus, et dissi uerba supradicta: si dominus Ieronimus ueniret, libere officium consignassem, licet fuisset contra ordines et decreta per prefatum dominum gubernatorem facta. Nonobstante hoc, ilud consignassem et libenter ad alias uenissem. Habito per prius consilio cum domino Iohanne de Tortis de Castronouo, uicario hic misso per illum qui tunc regebat pro illustrissimo domino nostro, qui mihi dissit non debebam officium consignare quam solo domino Ieronimo in literis nominato. Non contempti de hoc, et perseuerando de male in peius, fecerunt conspirationes et consilia extra palatium, et contra meo 250 GIORNALE LIGUSTICO mandato; in quibus elegerunt octo qui uiderent supra eorum consientijs si debebam officium consignare alio quam domino Ieronimo, in literis non nominato. Non ponere uoluerunt ilud uiderent de iure, sed supra eorum consientias, que tales sunt ut Deus nouit ; qui erant mihi suspectissimi, saltem quinque ex ipsis. Ad que omnia non consensi, sed protestatus fui ut expedit, qui octo simul fuerunt, et non de acordio. Aliqui ex ipsis miserunt pro predicto uicario, ad uidendum si de iure ilud facere debebat; qui eis disit ut superius relatum est. Alii nolebant secundum eorum consientias, uolebant Consulem eligere ad requisicionem aliquorum rabiosiorum, de quibus omnibus fuit auctor dominus Federicus Spinula, quem uos bene cognoscitis, Baptista et Iohannes Spinula, et pro consultore Filipus Pinelus cum multis de populo, facendo multas conspiraciones et promouendo totam ciuitatem quoque ad furorem. Ego uetaui ut ciuitas non ponatur ad arma, semper dicendo cicius uolebam de palatio eici cum togis, et baculum esset mihi per uim de manibus leuatum, quam cum armis illos deuincere, causa non ponendi ciuitatem in scandalis. Omnes ciues, uel maior pars ipsorum, tam nobiles quam populares, mecum erant pro iustitia manutenenda. Aliqui burgenses habebant appetitum, et sic dictum erat eis ascendere ad officium consulatus. Hec facta fuerunt mihi pro inuidia ed rabie aliquorum supra-dictorum, qui sunt tales ut Deus scit. Scribo de predictis dominacioni et consilijsut uelint prouidere in predictis, quod sit in futurum ceteris in exemplum. Post predicta, illi de populo uidentes non fouebant iustitiam, ut datum erat eis inteligi, uenerunt ad me ueniam postulantes; quibus peperci, et sic fuit opus pro electione de meliore. Restat dominus Federicus, qui si non uolet se reducere, procedam contra ipsum iustitia mediante. Uolui de predictis sic prolixe uos auisare, et rogare ut uelitis uos excellentissimo prefato reuerendissimo domino Cardinali Gubernatori querelam facietis de predictis, ut uelit in hijs factis taliter prouidere ut sit ceteris in exemplum. Quia iam per duas uices fecit mihi pauchum honorem, primo de certis comissionibus hic factis Lodouico de Camulio, secundo quia unquam fuit uisum quod Consul remoueretur nisi a successore suo a Ianua destinato; qua de causa ilud fecit, libenter uellem audire; ex quo rogo si placet si illam uobis dicet, mitatur per..........cugnato meo, et ilud sibi dicatur qui illud mihi scribet. Unum non obmittam. Si hic non fuisset dictus dominus Federicus et Filipus Pinelus, aliqua de predictis et alijs hic non essent. Non alia, quod dexidero satis ibi esse. Dominus uos conseruet ad uota. Datum Caffè, die secundo novembris, MCCCCXXV. Petrus de Flisco Consul Caffè, manu propria. GIORNALE LIGUSTICO 25I IX. Rachello (1) Dall’ Oro, Bolognese, Commissario del Duca Filippo Maria Visconti presso la Curia romana, rappresenta all arcivescovo Pileo de’ Marini avergli S. S. il papa Martino V conferito motu proprio la Precettoria di S. Giovanni gerosolimitano nei sobborghi di Genova (oggi S. Giovanni di Pre), fin dal giorno stesso in cui era giunta a Roma la notizia che detta Precettoria erasi resa vacante per la morte del titolare Corrado Spinola. Aggiunge esser giunto ora a sua cognizione che 1’ arcivescovo aveva col predetto beneficio una differenza, pendente dinanzi la Curia romana: laonde non volendo a verun patto stare in giudizio contro l’arcivescovo , lo prega di voler sospendere ogni prosecuzione della lite, essendo sua intenzione di sottoporsi alla ragione e comporre ogni differenza secondo l’equità e alla amichevole; al quale effetto delega da Roma due suoi procuratori, Lorenzo e Nerino di Bologna perchè lo rappresentino presso l’arcivescovo in Genova (2). (1) Rachello da Rachele, come Raffaello da Raffaele, Gabriello da Gabriele etc. Nella lettera seguente lo stesso personaggio è nominato Racbiel. (2) La cosa non procedette così liscia come si lusingava il Rachello. A Genova si vide di mal occhio che un beneficio così ambito venisse conferito ad un forestiero. Da chi ci aveva interesse fu fatta correr la voce che Rachello avesse usurpato con frodi la Precettoria di S. Giovanni , siccome quello che incaricato dal duca Filippo Maria Visconti di adoperarsi presso la Curia romana, nella sua qualità di Commissario ducale in detta Curia, perchè il beneficio venisse conferito a Spinetta Spinola, avea invece brigato a proprio favore e ottenuto egli stesso la collazione. Ciò invero non sembra molto probabile, giacché il Duca non era uomo da passar sopra a una burletta di questo genere; ma il fatto diede luogo a molte contestazioni e a reclami, come si rileva anche dalla lectera η. X che fa seguito alla presente. 252 GIORNALE LIGUSTICO (.A tergo) Reuerendissimo in Christo patri et domino , domino Pileo , Apostolice sedis gratia Archiepiscopo Ianuensi, domino meo honorandis-simo. Ianue. (Intus) Reuerendissimo in Christo pater et domine, domine mi singularissime. Humili recommendatione premissa, prout non ambigo Reueren-dissimam Paternitatem vestram sensisse usque de mense Iulii proxime preterito, sanctus dominus noster Papa, sentiens preceptoriam sancti Iohannis Gerosolimitani in suburbijs Ianue situatam vacare per mortem quondam domini Conradi de Spinolis extra Romanam curiam defuncti, ipsam eodem met die quo peruenit notitia ad eius sanctitatem michi motu proprio contulit, cum expeditione bullarum gratis de mandato per totum, presentibus quam pluribus prelatis et notabillibus cortexanis. Quam collationem flecsus genubus et pedis osculo humiliter et gratanter acceptaui, maxime cum iam diu afectauerim dictam religionem intrare in qua summo desiderio optaui residuum dierum meorum cum aliquali fructu spiritualiter concludere. Cum autem hoc donum michi reputem datum adeo pro satisfactione mei boni propositi et optime voluntatis, ipsi omnipotenti Deo regratior et supplices orationes exhibeo, ut michi concedat gratiam qua mediante in eadem religione proficere valeam, cum honore corporis et anime remedio salutari, \erum, Reuerendissime Pater et domine, quia michi dixit familiaris et capellanus vester, qui hic est et michi videtur persona satis discreta et bene modesta, quod Reuerendissima Paternitas vestra habet certam differentiam cum predicto beneficio, que hic pendet in curia, ego sibi respondidi et Reuerendissime Paternitati vestre scribo quod inter Reuerendissimam Paternitatem vestram et dictum beneficium seu regentem illud nulla debet esse controuersia, saltem que sit iuditialiter ventillanda, tam pro honore partium quam conseruatione beneficij, ymo de plano videri debet cuius est iustitia, et illa sibi debet sine contraditione concedi. Et sii me offero facere pro parte mea. Et sic supplico dominationi vestre ut modo similiter facere dignemini, quia quanto Reuerendissima Paternitas vestra prudentior et sublimior est, tanto magis obligatur ad con-seruandum omnia beneficia, videlicet quodlibet in statu suo dando unicuique et redendo quod suum est, ymo et suplendo si deficeret iuxta potentiam vestre facultatis. Eapropter, Reuerendissime Pater et domine, supplico per presentem ut Reuerendissima Paternitas vestra auferre dignetur et suspendere omnem litem, cum intentio mea sit in unaquaque re me subijcere rationi, etiam omni semoto strepitu aut figura iudicij, et sic me offero quandocumque et supplico Reuerendissime Paternitati vestre GIORNALE LIGUSTICO ut sic similiter facere dignetur, quia magis Deo gratum erit et hominibus magis acceptum, offerens me semper stare iuri de plano et etiam equitati. Et sic et dictum beneficium meum et etiam personam meam Reuerendissime Paternitati vestre recommendo, tamquam patri et domino singulari. Supplicans insuper ut procuratores meos Laurentium et Nerinum de Bononia, et substituendos ab eis recommissos habere dignemini in omnibus sibi occurrentibus, sicut spero. Paratus semper ad Reuerendissime Paternitatis vestre mandata. Datum Rome, die ultimo nouembris 1425 et clausa die XII°. Eccelse Reuerendissime Paternitatis creatura Racellus etc., Preceptor sancti Iohannis Yerosolimitani Ianuensis, cum umili recommendatione, Ducalis Commissarius in Romana curia. X. Argomento di questa lettera, 0 supplica che dir si voglia, è la stessa Precettoria di S. Giovanni di Pre di cui nella lettera precedente. Il Consiglio degli Anziani e gli Ufficii delle Provvisioni e della Guerra della città di Genova sottopongono a S. S. il papa Martino V, la Precettoria di S. Giovanni essere stata usurpata per inganno da Rachele Dall’ Oro, mentre era ormai passato in prescrizione per antiquata consuetudine che della medesima fosse investito un cittadino genovese. Supplicano pertanto Sua Santità perchè voglia revocare la collazione di detto beneficio fatta in testa al Rachele, e conferire la Precettoria a Spinetta Spinola figlio di Nicolò, in considerazione delle benemerenze del padre e di tutta la famiglia degli Spinola, devotissimi alla S. Sede apostolica. Beatissime pater. Scimus apostolicas aures, licet maioribus rebus intentas , hac quam dicturi sumus materia crebro pulsatas ; sed tamen, quoniam nobis et uniuerso populo Ianuensi resta (sic) admodum cordi et queremoniam hanc reicterare compellimur. Egro namque animo perferimus Rachielem De Auro de Bononia per manifestam delusionem usur- 254 GIORNALE LIGUSTICO passe, ne dicamus nobili conciui nostro domino Nicolao Spinule, veruni universe familie Spinulorum, ac, ut verius dicamus, huic ciuitatem (sic) eam preceptoriam sancti Iohannis quam fuerat monitus ab illustrissimo domino nostro duce Mediolani pro Spinetta filio dicti domini Nicolai efficaciter procurare. In qua re quantum contra fecerit honestati ; quantum bonorum morum offenderit obseruanciam, quantum uniuerso Ianuensi populo billem irarum sibi acuerit, sit illius conscientia iudex; presertim etiam, cum ex quadam antiquata iam consuetudine transierit in pre-scriptionem preceptoriam ipsam semper esse in manibus alicuius Ianuensis ciuis. Quod parum aduertisse videtur RachieI, qui omnia posposuit, dummodo rem suam ageret ; si vero inferre iniuriam tam grandem est rem facere. Itaque ne sedem apostolicam diutius immoremur recensendo notoria, sedem apostolicam obsecramus quatenus pro benemeritis eiusdem domini Nicolai totius familie Spinulorum sedis apostolice deuotorum dominum fidentes deuotionis intuitu dignetur eumdem Rachielem, qui delusorie et surreticie impetrauit, reuocare ab eiusmodi promocione, ipsamque preceptoriam benigne conferre pretacto Spinete nobili nato eiusdem domini Nicolai, sicut in clementia vestre Beatitudinis confidimus et speramus; in quo eadem Beatitudo nobis gratiam faciet spectabilissimam. In queque apostolica iussa sincere parati. Data Ianue, MCCCCXXVI, die sexto aprilis. Eiusdem Beatitudinis deuotissimi precatores Consilium Antianorum et Officia Prouisionis et Guerre Civitatis Ianue. Nicolaus. Sanctissimo ac Beatissimo in Christo patri, domino domino Martino, divina fauente clementia, sacrosancte Romane ac uniuersalis Ecclesie dignissimo summo pontifici. XI. Dopo la campagna del 1423-24 in cui 1' armata genovese sotto gli ordini di Guido Torello, condottiero di Filippo Maria Acconti, ridusse in pochi mesi la riviera di Napoli, inclusive la capitale del regno, alla soggezione di Ludovico III d Angiò (vedi sopra, docum. η. II), non eranvi più stati fatti d arme ragguardevoli fra i Genovesi e gli Aragonesi. Perdurava tuttavia lo stato di guerra fra i due popoli rivali : e le GIORNALE LIGUSTICO 2S5 navi aragonesi veleggiavano su e giù lunghesso la Riviera ligustica e nelle acque della Corsica, per favorire ad un tempo i movimenti dei nemici interni ed esterni di Genova, e recar danno al commercio genovese. Il duca Filippo Maria a cui premeva di porre un termine a questo stato di cose, anche a costo di qualche sacrificio, vagheggiando, anzi, in cuor suo il disegno di una alleanza col re Alfonso d’Aragona, entrò sui primi del 1426 in trattative di pace con quest’ ultimo. Era dapprima disposto, almeno ne corse la voce, a cedere all’Aragonese, in corrispettivo dell’ alleanza a cui mirava, i castelli di Bonifacio e di Calvi in Corsica (1): senonchè dovette ben presto convincersi che una tale cessione, oltre a riuscire estremamente invisa alle due popolazioni, non otterrebbe mai il consenso dei Genovesi, i quali annettevano la massima importanza al possesso dell’ occhio marino, per la cui difesa aveano più volte sparso il loro sangue ; laonde recedette da tale proposito ; e nel trattato di pace, che fu infatti conchiuso nell’ aprile (2), venne stipulato che re Alfonso rinunciava ai suoi pretesi diritti su Calvi, Bonifacio e altre terre della Corsica, ricevendo, invece, in consegna, sotto determinate condizioni, le due terre di Portovenere e Lerici ai confini della Riviera di Levante. (1) Di tutta la Corsica erano questi ormai i soli luoghi su cui i Genovesi esercitassero effettivamente un pieno dominio. Il rimanente del-l’isola era diviso in varie giurisdizioni, parecchie delle quali conservavano bensì una tal quale dipendenza da Genova, però con molte fluttuazioni, a seconda della prevalenza dell’ uno 0 dell’ altro dei partiti che si contendevano il potere nelle singole terre. (2) Sembra che i trattati di pace fossero due, uno stipulato in marzo, al quale si riferisce la ratifica del Visconti, sotto la data dei 29 di detto mese, edita dal Du Mont (Corps diplom. II, 2, 183-84, η. 117), l’altro ai primi di aprile. 25 6 GIORNALE LIGUSTICO Il documento che segue è appunto una istanza colla quale il Sindaco, il Consiglio e la intiera Comunità di Calvi, non appena giunta loro la voce che correva della cessione, per parte del duca Filippo Maria, di Calvi e Bonifacio al re d’Aragona, si rivolgono all’ arcivescovo Pileo de’ Marini per pregarlo di voler interporre i suoi buoni ufficii perchè venisse in qualunque modo scongiurato il pericolo onde erano minacciati, di cadere sotto la dominazione del re serenissimo e degli esosi suoi Catalani. Il documento è una bella pagina di storia che onora tanto i Calvesi per « Γ indomato amore » e i virili propositi a cui si informa, quanto i Genovesi per aver saputo, mercè un saggio e paterno governo, inspirare ai loro sudditi tali sentimenti d’affetto e di devozione. (A tergo) Reuerendissimo in Christo patri et domino, domino Archiepiscopo Ianue, patri dignissimo. (Intus) Reuerendissime in Christo pater, et domine dignissime. Pre-sentialiter Ianuam ambaxiatores nostros transmictimus, habita noticia de pace facta inter illustrissimum dominum, dominum Ducem Mediolani et serenissimum Regem Aragonum ; de qua pace, considerata utilitate et immenso comodo prouenientibus ille percarissime comunitati et nobis, summum superferamus gaudium. Sed postmodum auditis que publice dicuntur, scilicet castrum Bonifacii et Calui in dicta pace danda esse prefato serenissimo Regi, nos vero ut mortui restauimus, actenta ea que tamquam fidelissimi Ianuenses erga dictos Catalanos fecimus et operauimus (i). Et (i) Nell’autunno del 1420, il re Alfonso d’Aragona, alla testa d’una flotta catalana, dopo aver raffermato il suo dominio sulla Sardegna, si volse alla Corsica , dove accampava dei diritti, occupando , senz’ altro , Calvi e stringendo d’ assedio Bonifacio. In Genova si allestì di tutta fretta una flottiglia di sette galee di cui fu dato il comando a Giovanni da Campofregoso coll’ incarico di portar soccorso ai Bonifacini. La flottiglia salpò da Genova verso la fine di dicembre, e trovata 1’ armata catalana schierata in linea alla bocca del porto di Bonifacio in modo da GIORNALE LIGUSTICO 2)7 nunc, considerato venire debere sub illa crudelissima dominacione, et domos et bona nostra tanto sudore acquisita deserere, mortuos esse reputamus. Ignorantes quid in predictis per nos sit agendum, saluo ad uos et ad alios bonos Ianuenses famosos et protectores nostros recurrere. Quod \ obis (non) placeat tam bona et loca pulcra amicti pati debere, acquisita iam diu et ab inimicis tanto sumptu tantaque sanguinis effusione defensa; nec non eciam patientur (sic) tam inopem generacionem per orbem disperdi, nec sanguis tot inocentium animarum sub nomine vestro Ianuensi effundatur. Dignemini itaque, domine reuerendissime, virilem ac animosum animum vestrum erga facta nostra dirigere, et non permitti nos omnes in tali modo perire; Reuerendissime Paternitati vestre notifkantes primo nos sub nomine et vexillo magnifici Comunis Ianue mori, quam sub illa nequissima progenie restare et, non valendo, durare pocius locum istum ardenti igne comburere quam in illis sanguinollentis manibus peruenire, propagantes etiam vobis non solummodo mares, sed femine in armis iruisse, potius mortem affectantes quam tam miserabilem habere vitam. Data Calui, MCCCCXXVI, die XXI martij. Sindicus, Consilium et universa Comunitas Calui, fidelissimi Ianuensium seruitores. sbarrarne l’entrata, l’investi con tale impeto che ne sfondò il centro, penetrando di forza nel porto, nonostante che da terra le bombarde aragonesi postate sulle alture facessero fuoco sulle galee genovesi, tre delle quali, anzi, non presero parte al combattimento. II bisogno di riparare alle sofferte avarie e curare i feriti determinò dopo pochi giorni, da una parte, i Genovesi a riaprirsi colla forza un varco fra le navi catalane e far ritorno a Genova; dall’altra, re Alfonso a sciogliere l’assedio e veleggiare verso Napoli — dove, del resto, già erano in corso le pratiche relative alla sua adozione a figlio ed erede della regina Giovanna _ non senza però lasciare un presidio delle sue truppe in Calvi. Senonchè 1’ occupazione aragonese poco durò in Calvi ; chè, un bel giorno, il presidio catalano insolentendo contro la popolazione, questa si sollevò in massa e, scacciatolo a viva forza, proclamò con entusiasmo il ristabilimento della signoria di Genova. Questo è appunto il fatto a cui si allude nel passo commentato dalla presente nota. Giorx. Ligustico. Amo XVIII. l7 258 GIORNALE LIGUSTICO XII. Se la vita politica dell5 arcivescovo Pileo de’ Marini fu amareggiata da serii dispiaceri, di alcuno dei quali ho più sopra toccato, non andò esente da amarezze neppure la sua giurisdizione ecclesiastica. Prova ne sia la seguente lettera, colla quale il Preposto Generale di S. Croce di Mortara lo apostrofa con singolare veemenza accusandolo di vessazioni, prepotenze e atti arbitrari perpetrati a danno di sacerdoti e di chiese soggette alla sua prepositura, sebbene situate nella arcidiocesi genovese. Non so se, e fino a quale punto, potessero dirsi fondate in fatto le recriminazioni dirette contro il de’ Marini da questo Preposto Generale dell’ Ordine mortariense, personaggio certamente amplissimo per dignità ecclesiastica, annoverando ben quarantotto chiese sottoposte alla sua giurisdizione, per quanto costituite in diversi episcopati. Mi auguro che il documento qui pubblicato invogli qualche studioso delle patrie memorie a praticare particolari indagini intorno ai fatti e alle persone in esso accennate, nell’intento di decifrare una pagina della storia ecclesiastica ligure che forse non sarà destituita di interesse. (A tergo) Reuerendissimo in Christo patri, domino etc., Archiepiscopo Ianue. (Intus) Reuerendissime pater. Prepositura mea quadraginta octo ecclesias subiectas sibi habet in diuersis episcopatibus constitutas, licet non omnes in priuilegio sint descripte, cum post illud sint adepte, de quibus publica sunt instrumenta. Inter quas in diocesim Ianue sunt octo situate, quasque predecessores vestri ellecti a prepositura antedicta ad episcopatum Ianue certas ex zello ordinis Mortariensis donauerunt, qui postmodum aliquam earum nullactenus inquietarunt. Quos Presules tam virtute et nobilitate quam scientia et sanctitate vos non puto precellere, qui mit- GIORNALE LIGUSTICO tendo falcem indebite in messem alienam non cbrruistis michi subditos prioies olim de Casinelis , de Arbario et de Priano , omne causa iusta cessante de facto quod in contemptum vestre religionis et cleri vituperose incarceraueritis et nuper illum de Borbonino, et ab eis omnibus tributa tirampniter extorquendo, deferendo similiter quin ymo eis vi sacramentum indebite fidelitatis. Hoc etenim zelus religionis vos non induxit, nec dillectio persone mee, ut nuper scribitis. Nescio tamen si plus solito me diligatis; a fructibus tamen adhuc non apparet. Et si presbiter Iacobus, prior ecclesie mee sancti Iohannis de Borbonino, est vilissimus filius sacerdotis et ancille, hec non constant michi; sed imputetur vobis, vel ei qui ipsum ordinauit. Sed aliud est :n causa. Si enim presbiteros omnes quos in vestris ecclesiis instituistis fore de legiptimo matrimonio procreatos perscrutastis, hoc ignoro, nec si interfuistis natiuitati ipsius fratris Iacobi et fratris Loysij de Regno. De occupatore Sancte Marie de Albario et certis alijs de quibus nunquam fecistis molestiam, occaxione autem aliarum vobis dicam oretenus, Deo annuente. Sicut enim ex habundantia cordis os vestrum loquitur, sic quoque meum. Et prout vos vestrum jus et honorem, sic ego sum dispositus meum defensare. Qui nimis emungit elicit sanguinem. Data Mortarij, XX Januarij. Generalis Prepositus Sancte f Mortariensis etc. XIII. Questo documento , Γ ultimo dei plico, non spetta, a dir vero, alia serie degli antecedenti, non avendo alcun rapporto diretto nè coi personaggi nè cogli avvenimenti a cui quelli si riferiscono, ed essendo inoltre posteriore di ben ventidue anni al più recente di essi. Ho creduto cionondimeno che fosse prezzo dell’opera il pubblicarlo insieme agli altri, coi quali ebbe comune la sorte per tanti anni, anche perchè fa parte del regesto di un Doge circa al quale non abbondano finora i documenti. È un atto di procura del Comune di Genova, rappresentato dal doge Giano da Campofregoso e dal Consiglio degli Anziani, in testa a Giovanni Capello, per ricuperare un bastimento genovese stato catturato more 26ο GIORNALE LIGUSTICO piratico da una galea fiorentina nelle acque di Savona, e condotto a Pisa. Il documento è in pergamena, e porta la data del 50 di settembre 1448. In nomine Domini amen. Illustris et excelsus dominus Ianus de Campofregoso, Dei gratia Ianuensium Dux, et magnificum Consilium dominorum Antianorum in sufficiente et legitimo numero congregatorum. Agentes nomine et vice excelsi Communis Ianue, et prò ipso Communi : omm modo, iure, via et forma quibus melius et validius potuerunt, creauerunt et constituerunt suum et ipsius Communis verum et certum Sindicum et Procuratorem et quicquid melius dici aut esse possit, virum prouidum Iohannem Capellum ciuem Ianuensem, absentem tanquam presentem, specialiter, ad comparendum coram magnificis et potentibus dominis Prioribus Artium et Vexillifero Iusticie Communis et Populi Florentie, ac coram magnificis Consulibus maris Ciuitatis Pissarum, ab eisque ac coram eis et ab unaquaque persona, corpore, collegio et uniuersitate, nomine ipsius illustri domini Ducis et Communis Ianue, petendum, procurandum, recquirendum et recuperandum nauigium emptum per Jacobum Squarsaficum et a Raphaele Vaca patronisatum , et a quadam Florentinorum triremi super Saonam captum, Pissasque conductum cum omnibus quantitatibus rerum, mercium et bonorum subditum nostrorum , more piratico in eo interceptorum : ac in dicta materia procurandum et protestandum , absoluendum et liberandum quoscumque fontes hujus prede, prout eidem Sindico melius utiliusque videbitur. Dantes et concedentes dicto nomine prenominato Sindico suo in his omnibus et singulis supra-scriptis, et circa ea et in dependentibus, emergentibus et connexis ab illis amplam et generalissimam auctoritatem, arbitrium et potestatem cum pleno, libero et generale mandato , et etiam speciale ubi specialius exigatur, omnia et singula procurandi, faciendi, recuperandi, ac absoluendi que ipse utilia putauerit, et que omnis procurator, sindicus et mandatarius sufficienti potestate instructus facere posset, ipsique domini constituentes possent, si rebus ipsis intercessent, et protestandi si et quando ac quomodo ei videbitur; ac promittentes, nomine quo supra, in notario pubblico et excelsi Communis Ianue cancellario inferius nominato, ut pubblice persone stipulanti et recipienti nomine et vice omnium et singulorum quorum interest, intererit vel interesse poterit, quomodolibet in futuro sese omni tempore ratum, gratum et validum habituros quicquid ab eodem Sindaco et Procuratore in premissis et circa ea et in dependentibus, emer- GIORNALE LIGUSTICO 261 gentibus ac connexis ab eis tractatum , procuratum , factumue fuerit in hac materia. Quodque contra ea vel eorum aliqua non facient vel venient aliqua ratione, occasione, causa vel ingenio que dici vel escogitari possint quouis modo sub ypotheca et obligatione omnium bonorum suorum eo nomine presentium et futurorum. De quibus iusserunt confici hoc pubblicum documentum a me notario et cancellario subscripto. Actum Ianue, in palacio Ducali Communis, videlicet in camera inferiori retro magnam salam in qua consilia presentialiter celebrantur. Anno dominice natiuitatis millesimo quadringentesimo quadragesimo octauo, indictione nona, secundum morem Iannuensem , die lune , ultima septembris ; presentibus egregiis Ambrosio de Senarega et Francisco de Vernacia, cancellariis Communis Ianue, testibus vocatis specialiter et rogatis. Nicolaus de Credentia Thome pubblicus imperiali auctoritate notarius et Communis Ianue Cancellarius, presens instrumentum publicavi, licet aliis negociis publicis occupatus per alium transcribi fecerim, apposito in eo signo instrumentis meis apponi solito, in testimonium premissorum. Segue l’approvatone di due postille 0 aggiunte nel testo. Vittorio Poggi. VITA DI GUARINO VERONESE (Continuazione, vedi pag. 206). Guarino a Ferrara (1429—1460) Primo quinquennio (1430—1435) 200. Guarino giunse a Ferrara nell’ aprile del 1429 e appena giunto meditava di ripartirne, perchè anche ivi si era manifestata la peste. Si rifugiò in un paese vicino, ad Argenta, nella casa di Luigi Morelli, insieme coi figlioletti dello Zilioli, col loro institutore Antonio Bresciano e con alcuni 262 GIORNALE LIGUSTICO amici ferraresi. Nei primi giorni tutto camminò bene; ma verso la metà di giugno Argenta fu invasa con violenza dal-Γ epidemia. Guarino senza indugio sparpagliò parecchi dei suoi domestici, mandandoli chi qua, chi là, ma non potè evitare che tre della sua casa fossero attaccati : il suo parente Giovanni d’Este, Paolo Zilioli e P institutore Antonio. Antonio si salvò, ma Giovanni e Paolo rimasero vittime. Lo Zilioli ritirò subito in casa Γ altro figlio, Bonaventura. .201. La morte di Paolo fu un grave colpo a Guarino, ai genitori, ad Antonio Bresciano, il quale fece di tutto per salvarlo e non se ne potea dar pace. Il più forte fu il padre; la madre ne rimase tanto desolata, che solo al veder persone che glie lo rammentassero dava in smanie. Così 1’ n novembre Guarino andò a Porto, su quel di Ferrara, dove villeggiavano gli Zilioli per tenersi lontani dalla peste ; procurò bensì di nascondere la sua venuta, ma ciononostante donna Zilioli lo seppe e questo bastò per rinnovarle l’acerba ferita. Il povero Guarino sentì profondo dolore di quella perdita. Lo chiamava il « suo Paolo ». « Giovinetto di buona indole, d’ingegno, modesto, studioso e che facea concepire di sè le più belle speranze. Oh quanto giovamento mi aspettavo da lui per i miei figli ! » Morì munito di tutti i conforti della religione ed ebbe un accompagnamento se non pomposo, che non lo permetteano le condizioni sanitarie, certo affettuoso. 202. Dopo la disgrazia di Paolo, Guarino cambiò di alloggio, andando ad abitare nella casa di Giacomo del Bando. Nella casa di Luigi Morelli, che fu chiusa, lasciò una parte delle masserizie e supellettili, le quali più tardi, nell’agosto, gli furono rubate da un monaco, che vi si era introdotto nonostante che fosse luogo infetto. Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames, esclama Guarino nel raccontare le prodezze del frate, homo religiosus, paupertatis professor! GIORNALE LIGUSTICO 263 203. In sul principio di luglio si diffuse la falsa notizia della morte di Guarino. La notizia giunse anche a Pavia, dove la udì il Panormita da un prete venuto da Venezia, il quale Γ aveva intesa colà da certi veronesi. Il Panormita non si può trattenere dallo scriverne all’Aurispa, che era in quel tempo a Ferrara, sfogando il proprio cordoglio per sì grave perdita e tessendo sincere e magnifiche lodi di Guarino, di cui esalta specialmente la modestia, i meriti letterari e la bella abitudine che aveva d’incoraggiare gli studiosi e gli amici. Conchiude eccitando l’Aurispa a comporre lui più degnamente Γ elogio dell’ illustre defunto. 204. Effettivamente la notizia si era sparsa in Verona, dove e amici e cittadini tutti lo piansero morto, esaltandone le virtù e i meriti. Quando lo Zendrata si accertò della falsità di quella voce, ne scrisse a Guarino, esponendogli quanto lutto avesse destato in Verona il triste annunzio e congratulandosi, perchè annunzio di morte falsa è presagio di vita lunga. Guarino lo ringraziò chiamandosi fortunato che a lui vivo fosse toccato di sentire le lodi che gli sarebbero state tributate dopo morto. Coglie nel medesimo tempo occasione di dire quant’ egli ami la sua città nativa, con la quale, anche peregrinante per diverse terre in cerca di aria salubre, mantiene pur sempre affettuosa corrispondenza. 205. Così egli si ricorda al compare Damiano Borghi, ad Agostino Montagna, a Bartolomeo Brenzoni, al Maggi, agli Ottobelli, ai Fano. A Verona si erano ricoverati anche alcuni amici di fuori, quali Stefano Tedeschi e Tommaso Cambiatore, che stava allora traducendo in ottava rima Γ Eneide. 206. Lo Zendrata visitò Guarino ad Argenta, di dove passò nell’ agosto diretto a Forlì. Per mezzo di lui Guarino affittò la propria casa di Verona. Ivi abitava la madre e per la madre sola era troppo vasta. « Sarebbe stato opportuno 264 GIORNALE LIGUSTICO prendere a pigione per lei la casetta di Antonio Verità, che stava di faccia ; la sua si poteva affittare per un paio d’anni, chè tanti egli contava di rimaner fuori : cosi se ne sarebbe cavato un certo profitto ». Raccomandava però allo Zendrata di trattar la faccenda con la madre molto delicatamente, sia per l’affetto che ella portava a quella casa, sia perchè le rincrescesse Γ assenza del figlio da Verona. 207. Quando nemmeno ad Argenta si sentiva più sicuro per il diffondersi del contagio, pensò Guarino di mutar paese e si recò nel 27 settembre a S. Biagio a cercarvi un’ abitazione e scelse quella di Paolo Rasponi ; poscia vi andò con la famiglia. Ivi rimase sino al 21 decembre, nel qual giorno ritornò a Ferrara. 208. La vita di Guarino in questi ultimi mesi di fuga fu molto angustiata. In famiglia continue malattie e morti : morti di amici e malattie delle fantesche e dei bambini. Niccolò, 1 ultimo nato, ammalò di vermi e poi di febbre per la dentizione, Agostino e Gregorio di febbre, Manuele di una caduta, poiché vivace com’era giocando cadde e si ruppe la nuca. A Guarino toccava far da balia. L’abitazione era ristrettissima. « Una sola camera serve da dormitorio, da cucina, da granaio, da portico, proprio come la povera gente che del medesimo abito si fa ora mantello, ora camicia, ora lenzuolo. Spesso i bicchieri, le pentole, i piatti, i codici si disputano il posto. Mi accade di stender la penna verso il calamaio e la intingo nella saliera, intanto che i ìagazzi mi fanno intorno uno strepito d’inferno ». 209. Uno dei pensieri che più affannavano Guarino era quello dell imminente parto della moglie; ma s’ingannò nei calcoli, perchè il 9 ottobre comincia a vedere i segni del prossimo parto e nel 30 decembre la moglie non aveva ancora partorito. Come trovare la levatrice? A S. Biagio ce n’ era una abbastanza brava, ma nemica giurata dell’ acqua e GIORNALE LIGUSTICO 265 troppo devota di S. Martino. E il giorno del parto che sarà di lui? Avrebbe dovuto abbandonare il letto, nè solo il letto, ma anche la stanza, poiché un’unica stanza avevano. Dove andare a dormire, se nel paese non c’erano alberghi? alcuni lo consigliavano a rifugiarsi in una stalla, chè là starebbe caldo; egli invece preferiva di farsi amico l’oste, affinchè la notte del parto gli desse alloggio. Oh perchè non sono ostetrico io ! esclama Guarino. Però, aggiunge, la moglie ha fatto un patto con me, di partorire di giorno, così i miei sonni non saranno turbati. 2I°· Tra i dispiaceri di Guarino vanno pure contate le disgrazie degli Zilioli; i quali formano ormai coi Guarini tutta una famiglia. E con lo Zilioli mettiamo insieme i suoi due generi: Niccolò Pirondoli e Ugolino Elia. A Giacomo Zilioli morì prima la madre Teodora e quindici giorni dopo il piccolo Paolo; al Pirondoli morì la moglie, figlia di Giacomo , a Ugolino il piccolo figlio Girolamo, nipote di Giacomo; senza parlare della malattia mortale di Giacomo stesso, felicemente curata dal medico Filippo Pelliccioni. E in mezzo a tutti questi colpi 1’ animo dello Zilioli si mantiene sempre imperterrito. Guarino gli scrive lettere meste per compiangere le sventure di lui ed egli risponde dandogli coraggio, sicché Guarino deve più d’ una volta esclamare: « ero venuto a consolarti e sono invece consolato ». Nei primi di novembre Guarino cominciò a lavorare intorno all’ elogio di donna Teodora, dal quale ricaviamo ch’ella visse 65 anni, che si maritò a 16 anni con un Zilioli ed ebbe da lui sette figli, di O ' cui il primogenito fu il nostro Giacomo. Guarino attinse queste notizie dai due Zilioli, padre e figlio. Egli mette specialmente in rilievo la cura che donna Teodora aveva per i poveri. 211. Guarino fu visitato di quando in quando da quelli di casa Zilioli: nel luglio andò ad Argenta la contessa Pirondoli, 266 GIORNALE LIGUSTICO moglie di Niccolò; nel settembre ad Argenta e nel novembre a S. Biagio Ziliolo Zilioli. Guarino fece una corsa a Porto per trovare Ugolino Elia. Giacomo Zilioli mutava anche egli paese per fuggire la peste; ma gli affari lo trattennero gran parte a Ferrara, dove Guarino gli raccomandava spesso amici e conoscenti, p. e. Guido da Bagnacavallo imputato di furto, il visconte di Argenta, calunniato malignamente di non aver assistito ai funerali di Paolo, Giacomo e Pietro del' Bando, Biagio e Domenico de Martiis, don Antonio rettore di una chiesa di Argenta, Anna vedova di Luigi Morelli. « Tu ti seccherai di tante raccomandazioni, gli dice Guarino, ma la colpa è tua. Tu mi ami, mi stimi, la gente lo sa e corre da me, affinchè io interceda presso di te. Dall’altra parte a costoro io vado debitore di molti beneficii; quando e come potrei io ricambiarli? Ricambiali tu per me, giacché essi mi hanno servito con la persuasione di servir te ». 212. Tornato a Ferrara il 21 decembre si dà attorno a preparare il corso delle sue lezioni. Rimpatriare non gli sembra prudente, così nel cuor dell’inverno, coi bambini e con la moglie imminente a partorire. Dall’ altro lato la gioventù ferrarese lo invitava ad aprire scuola a Ferrara. Non gli pare svantaggiosa la proposta e intende fare l’esperimento. 213. Fu alloggiato primieramente in casa dei fratelli Strozzi: Niccolò, Roberto, Lorenzo, Tito; dal 1437 in poi abitò casa propria, che era stata degli eredi Boiardi e gli fu pagata dal marchese. 214. Poco dopo l’arrivo a Ferrara la moglie gli partorì una bambina, che doveva essere tenuta a battesimo da Ziliolo Zilioli; ma siccome era a Roma per un’ambasceria, così lo sostituirono il padre e la moglie Caterina. Al battesimo assisteva anche il marchese Niccolò. Per tal modo gli crescevano i Guarinelli ed egli aveva il suo bel da fare ad GIORNALE LIGUSTICO 267 attendere al loro allevamento e alla loro educazione. Girolamo il primogenito, sugli otto anni, già cominciava a scombiccherare qualche lettera, come nell’occasione che scrisse a Stetano Tedeschi, anche a nome dei fratellini, per ringraziarlo di alcuni doni loro mandati. I doni consistevano in formaggi, vino, vasellami; ma quello che più dilettava i Guarinelli erano certe saliere con figurine grottesche. Quelle figurine, quando essi si mettevano a tavola, erano fatte segno a mille giochi e motti: i Guarinelli le chiamavano per nome, le mostravano a dito, le castigavano, le ammonivano, mandavano loro sorrisi e le contraffacevano. Il padre invece contemplava la damigiana di vino, la quale egli votava molto parcamente, affinchè gli durasse un pezzo : « così in luogo di essergli incentivo alla intemperanza, essa gli era cagione di temperanza ». 215. La cultura letteraria a Ferrara quando vi arrivò Guarino era su per giù a quel medesimo livello, in cui si trovava nelle altre città italiane avanti che vi penetrasse Γ umanismo. Nelle scuole s’insegnava come e quanto si poteva insegnare in una scuola medievale; il latino che vi si imparava e vi si scriveva non veniva attinto alle fonti classiche, ma alla tradizione e alla consuetudine curiale; era il latino dei notai, dei glossatori, dei teologi; di greco manco Γ ombra. Di quelle condizioni della cultura ci lasciò un quadro desolante il Carbone; ma·ivi c’è della esagerazione retorica. E poi egli scriveva nel 1460, in un tempo in cui Ferrara possedeva una delle più fiorenti scuole umanistiche italiane. Di Mantova prima di Vittorino, di Padova prima del Bar-zizza, di Pavia prima del Panormita e del Valla si poteva fare il medesimo quadro. 216. Del resto anche prima che Guarino vi arrivasse, era penetrata a Ferrara la sua influenza per opera di Ugo Mazzolati. Del 1422 poi vi si era fermato qualche tempo il Biondo 268 GIORNALE LIGUSTICO e alla fine del 1427 vi si stabili l’Aurispa. L’Aurispa aveva cultura latina e greca, avea tra l’altro insegnato un anno nello studio di Bologna e un anno in quello di Firenze, ma non era stoffa da caposcuola. I codici più che interpretare ed emendare, li sapeva mercanteggiare; tutt’al più poteva essere un institutore privato, un buon pedagogo. E intatti a Ferrara fu chiamato dal marchese Niccolò quale institutore di Meliaduce, uno dei suoi ventun figli bastardi. E dell’aver scelto l’Aurispa gli va data lode; quantunque vi ebbe certo la sua parte Guarino. 217. Meliaduce era stato destinato dal padre alla vita ecclesiastica ; il figlio vi si oppose, anzi nel luglio 1425 scappò da Ferrara a Milano : cosa che naturalmente levò scandalo. Ma finalmente vi si adattò e vesti 1’ abito di abate del monastero di Pomposa vicino a Ferrara; fu anche protonotario. L’Aurispa, che già nei suoi primi anni era stato cantore nella collegiata di Noto, ne seguì l’esempio e nel 1430 vestì l’abito religioso, ottenendo dal marchese il posto di priore della chiesa di S. Maria in Vado, posto che non abbandonò mai per tutta la vita. 218. Nel 1431 fu chiamato alla corte di Ferrara anche Giovanni Toscanella e a lui fu affidata la educazione di Borso, un altro figlio di Niccolò. Alla chiamata del Toscanella non fu probabilmente estraneo Guarino. Borso fu uno dei successori del padre nel marchesato.·* Parimenti Guarino venne invitato a Ferrara quale institutore di corte e gli fu affidato Leonello, il figlio prediletto di Niccolò, che gli successe immediatamente nel governo. Come si vede, Niccolò non pensava da principio alla fondazione di un grande Studio pubblico, ma a raccogliere in corte un circolo dei migliori maestri del tempo; per l’appunto lo stesso scopo si era prefisso Gianfrancesco Gonzaga, quando nel 1423 invitò alla sua corte Vittorino da Feltre. L’idea dell’ università sorse più GIORNALE LIGUSTICO 269 tardi spontanea, dopo che già erano a Ferrara tutti gli elementi per costituirla. E il primo, il più forte impulso lo diede Guarino, il quale pur facendo il pedagogo di Leonello, apriva un corso privato per la gioventù ferrarese desiderosa di entrare nella nuova via degli studi classici; e intanto raccoglieva intorno a sè altri ingegni, quali ΓAurispa, il Toscanella, il Cappelli, il Marrasio, il Lamola, il Faccio, correggendo con essi testi e cercando codici ; e formava per tal modo un fascio di tutte quelle operosità individuali, che prepararono il terreno all’università, nella quale Guarino inaugurò nel 1436 il suo corso ufficiale. 219. Guarino a Ferrara assunse subito quella medesima posizione, che egli aveva a Verona e che forma una delle sue più notevoli caratteristiche. Egli cioè non è soltanto 1’ institutore del marchesino, il maestro della gioventù, ma è pure l’ambasciatore confidenziale della corte, l’oratore delle solennità sì principesche che cittadine. Così nel palazzo di Belfiore la pasqua del 1430 il marchese insigniva del cavalierato il veronese Paolo Filippo Guantieri, che andava magistrato a Firenze, e Guarino pronunziava il discorso d’ occasione. E con un discorso egli salutava nell’ anno stesso il ritorno di Ziliolo Zilioli da Roma, dove era stato con un incarico del marchese. Il discorso è un inno entusiastico alle virtù di Giacomo Zilioli e della sua famiglia. 220. Chi avrebbe allora pensato che soli quattro anni dopo, nel 1434, i due Zilioli padre e figlio sarebbero stati per reato di tradimento gettati nella torre di Castelvecchio ? Strani contrasti nella sorte degli uomini! Il padre fu strangolato l’anno stesso; il figlio fu lasciato in carcere tredici anni, dopo i quali venne rimesso in libertà, ma senza poterne godere i beneficii, perchè morì subito. Monumento della sua prigionia ci resta una commedia, la Michaelida, nella quale egli raffigurava il suo misero stato. 270 GIORNALE LIGUSTICO 221. Nel gennaio del 1431 Guarino andò a Ravenna, accompagnato da Brandelisio de’ Boccamaiori, ad esprimere, d’incarico del marchese Niccolò, le proprie condoglianze ad Obizzo da Polenta, signor di Ravenna, al quale era morto il padre. Nel luglio del medesimo anno fu creato vescovo di Ferrara Giovanni da Tussignano, e Guarino lo felicitò con un pubblico discorso. Solenne fu pure l’avvenimento del marzo 1432, che provocò due orazioni; l’una di Guarino, 1 altra di Paolo Maflei. Due nobili spagnoli, nemici implacabili, si erano sfidati a morte e dato l’appuntamento a Ferrara ; 1’ 8 marzo i due rivali erano sul terreno per azzuffarsi, quando il marchese Niccolò con bei modi si intromette e riesce a pacificarli. L’ orazione del Maffei è una ec-citatoria al marchese perchè impedisca il duello, quella di Guarino è una gratulatoria per la riconciliazione ottenuta. 222. L’anno seguente, 1433, passava per Ferrara l’imperatore Sigismondo reduce da Roma, dove era stato incoronato. A Ferrara arrivò il 9 settembre e ne ripartì il 16. Il giorno 10 Leonello salutò l’illustre ospite con un discorso scritto da Guarino. L’imperatore conferì le insegne equestri a cinque figli del marchese, tra i quali a Leonello. La cerimonia ebbe luogo il 13 settembre e in quell’occasione Guarino disse un discorso in onore di Leonello. E il discorso non manco in altra occasione, pure fausta, quando nel febbraio 1435 Margherita Gonzaga andò sposa a Leonello. Come dono di nozze Guarino gli offrì la traduzione delle Vite di Lisandro e Sulla di Plutarco. 223. Guarino, che amava molto i ragionamenti filosofici e religiosi, aveva a Ferrara l’opportunità di appagare questo suo bisogno. Una delle persone, con le quali si intratteneva di filosofia, era il milanese Filippo Pelliccioni, medico della corte Estense e di casa Guarini, quanto valente nella sua professione altrettanto dotto negli studi letterari ed esemplare GIORNALE LIGUSTICO nei costumi. Una volta nel 1430 si trovarono insieme nella villa di Belfiore, dove ragionarono di Platone. Frutto di quel ragionamento fu un lavoro di Guarino su Platone, nel quale narra la vita ed espone le dottrine dell’ illustre filosofo greco. Il lavoro fu dedicato al Pelliccioni. 223 bis. Del resto prendeva parte volentieri anche agli spassi, specialmente se conditi di reminiscenze classiche, quale fu la mascherata mitologica del carnevale del 1434. La ideò e la allestì Giovanni Marrasio. Spirito bizzarro questo siciliano ! Dopo aver trascorso gli anni giovanili a Siena, amando e cantando nùì’Angelinetum la sua bella Angelina, si ridusse nel 1430 a Firenze, dove godè le simpatie di tutti quegli umanisti ; ma fuggito di là quell’ anno stesso per la pestilenza, si recò a Padova a studiare medicina, « in mezzo alle paludi e alle rane ». Fece tre anni di medicina; passò indi a Ferrara, dove si stabilì parecchio tempo; da ultimo finì prete in Sicilia. Nella mascherata si vedeva un Apollo con raggiera in testa e un manto sino ai piedi, un Bacco barcollante e col tirso in mano, Esculapio con gran barba bianca, Marte e Bellona a braccetto e armati, Mercurio con le ali alle calcagna, Priapo con una canna in testa, Venere col pomo, Cupido con le freccie; e dietro a loro le Furie, le Parche, Ercole, Cerbero e via via. IL· Marrasio, in costume di Bacco, declamò dinanzi al marchese un carme sulle maschere; rispose poi per il marchese con un altro carme Guarino. 224. Memorabile fu in quell’ anno ( 1434) anche la quaresima, nella quale predicò a Ferrara frate Alberto da Sar-teano, Γ alunno di Guarino. Che gioia non dovette essere per Guarino, dopo dodici anni che non rivedeva il suo scolaro, e ora poterlo ammirare nella pienezza della sua vigoria oratoria! « Che specchio di virtù quel frate! che fascino nella sua parola, che erudizione, che scienza di GIORNALE LIGUSTICO cose divine ed umane, che facondia, che fulmini contro i vizi! » Guarino forniva ad Alberto buoni codici di testi sacri, p. e. il suo Lattanzio, e gli dedicò la Vita di S. Ambrogio. E nei loro colloqui fra i tanti altri argomenti devono a\er toccato spesso dell Ermafrodito del Panormita, l’idea fissa di frate Alberto, e c’è da supporre che il frate si sia fatto promettere da Guarino la ritrattazione di quel giudizio sull Ermafrodito, che era diventato famoso e che aveva scandalizzato tante persone. E in vero quando dopo la pasqua Alberto passò a Padova, scrivendo di là al ferrarese Bendidio, 10 pregava di chiedere a Guarino se si rammentava della promessa fattagli: chè a Padova pur tra le persone rispettabili il nome di lui non sonava troppo accetto, appunto per quel malaugurato giudizio. Finalmente pare che Guarino abbia preso una risoluzione e nel primo gennaio 1435 scrive la ri-trattazione; scelse il primo dell’anno e la scelta fu certo meditata : anno nuovo, vita nuova. 22). La ritrattazione è indirizzata al Lamola, lo stesso a oui era stata scritta la prima lettera. Questa ritrattazione produce, direi, una penosa impressione; sembra di sentire Guarino sotto il peso di uno scrupolo, che non è sorto spontaneo dalla sua anima, ma che gli fu suscitato da altri. Il pretesto poi della ritrattazione è puerile. Finge infatti di avere ricevuto una edizione dell’ Ermafrodito con la sua lettera premessavi come introduzione. Ma vide con grande suo stupore che la lettera era mutila di alcuni passi, di quelli appunto che temperavano, anzi distruggevano le lodi che egli aveva date al Panormita. Egli aggiunge adesso i passi tolti, spiegando meglio il suo concetto e pregando il Lamola che come aveva disseminato la prima lettera, la quale avea fatto il male, così disseminasse anche la seconda, la quale portava 11 rimedio. Ma Guarino si tradisce e qua e là nella lettera si incontrano delle espressioni troppo trasparenti, nelle quali GIORNALE LIGUSTICO 273 egli dimentica che vuol correggere il suo antico giudizio e fa chiaramente scorgere che lo ritratta. 226. Ma la cura principale di questo primo periodo (1430-1435) della dimora di Guarino in Ferrara fu l’educazione del suo nobile allievo, il marchesinò Leonello, già destinato a succedere al padre nel principato. Quando Guarino andò a Ferrara, Leonello aveva 23 anni. Era nato nel 1407. Avrà fitti i suoi primi studi elementari come si poteano fare in una città dove ancora non eran giunti gli umanisti; indi il padre lo mandò a scuola di guerra sotto Braccio di Montone: ciò fu nel 1422, quando Leonello aveva 15,anni. Tornò a Ferrara dopo la morte di Braccio, nel 1424. 227. La base fondamentale del metodo didattico di Guarino era Γ intimo legame del maestro con gli scolari : legame di affetto reciproco, di rispetto e di venerazione da parte degli scolari, di benevola familiarità e dolcezza da parte del maestro. Il maestro poi dovea sopratutto essere ai suoi scolari uno specchio vivente di onestà e costumatezza. Questo metodo l’aveva imparato da Guarino a Venezia Vittorino, il quale lo applicava e sviluppava presentemente in Mantova alla corte dei Gonzaga. E all’ efficacia di esso contribuiva non poco la reciproca e costante stima e benevolenza di V it-torino e di Guarino, che si riverberava nei loro allievi principeschi, quali Carlo Gonzaga e Leonello d’Este, senza dire che Leonello era fidanzato di Margherita Gonzaga, allieva di Vittorino, quella che nel 1435 egli condusse in moglie. 228. Guarino è orgoglioso e geloso del suo alunno. Il suo nome non morirà, perchè i posteri lo congiungeranno con quello di Leonello: Guarinus Leoiielli. « Io sono umile e oscuro; ma di rimbalzo la mia oscurità verrà illuminata dal tuo splendore. Non vediamo noi il pantano percosso dai raggi solari generare fiori bellissimi ? » Lo vuole sempre vicino a sè. Quando egli è lontano, Guarino è in continua G io ut. ligustico. Anno XVin. iS GIORNALI· LIGUSTICO preoccupazione per la sua salute e lo invidia ai campi, che egli percorre, agli amici, che lo accompagnano. Le frasi che egli adopera verso Leonello sono quelle stesse di una madre verso il figliolo: « Testolina gaia, dolcezza mia, volto amabile, aspetto adorato ». 229. E Leonello in ciò lo secondava mirabilmente. Ecco come gli risponde dalla villeggiatura di Porto: « Ieri, di giorno, stavo leggendo il mio Cesare, soletto nella mia stanza; non volevo lasciarmi sorprendere dalla sonnolenza di quest’ afa estiva e nel medesimo tempo ne provavo gran diletto. Ed ecco intanto giungermi la tua bella e affettuosa lettera. Con che benevolenza, con che sollecitudine ti preoccupi della mia salute! Ed è giusto. Se noi ci prendiamo cura, per semplice istinto, di tutti i nostri simili, che non faremo per quelli che ci sono legati da intimi vincoli d’affetto! Vedi dunque che non è proprio il caso che tu debba scusarti. Tutt altro! Bisognerebbe non aver cuore per rimproverare 1 affettuosa sollecitudine di chi si preoccupa del nostro stato; anzi quella sollecitudine merita le nostre lodi, il nostro plauso ed è la più bella prova che si è amati. E io lo so che tu mi ami, non fosse altro per l’obbligo che ha ogni anima ben nata di corrispondere all’ amore, e 1’ amore mio per te è immenso, ardente, come quello di un figlio verso il proprio padre, anche perchè cosi vollero i nostri antichi, che veneravano quale un padre il precettore ». 230. E alle parole aggiungeva i fatti, giacché ora donava al suo maestro del grano, ora gli mandava le primizie della sua caccia: caprioli, fagiani, quaglie. Quelle bestiole erano morte, eppure venivano apportatrici di tante cose a Guarino, venivano messaggere del suo Leonello ed egli le baciava ricevendole e preparava ad esse quella onorata sepoltura che loro si conveniva : « bruciate sul rogo all’ uso antico e seppellite nello stomaco tra una lieta brigata di amici ». GIORNALE LIGUSTICO 275 231. Leonello era . appassionato per la'caccia e Guarino gliela inculcava: perchè nel suo insegnamento dallo sviluppo morale e intellettuale non bisognava mai scompagnare lo sviluppo fisico. Questo era un felice ritorno alla educazione greco-romana, applicata e diffusa specialmente da Vittorino. E poi non è la caccia una preparazione alla guerra, anzi una simulazione di guerra? « Ci si alza il mattino per tempo, si affrontano i geli, gli ardori, la fame e la sete; ivi attacchi veri e finti, imboscate e lotte, colpi di freccia e di giavellotto: insomma una battaglia ». E oltre la caccia gli consigliava i giochi, p. e. il gioco della palla: « anche Alessandro e Scevola si dilettavano di giocare alla palla. E buone sono le passeggiate in campagna. I grandi Romani dopo le cure di Stato non si vergognavano di prendersi un divertimento all* aria aperta; Scipione e Lelio nei loro momenti d’ozio andavano sulla spiaggia di Gaeta a raccogliere gusci di ostriche e a far mille chiassate ». 232. E il nuoto? « Oh il nuoto oltre che refrigerare il corpo, gli dona elasticità. Come è bello da una riva erbosa e verdeggiante gittarsi in un fiume dalle onde cristalline e ora tuffarvisi, ora lasciarsi trasportare supino dalla corrente, ora romper l’acqua con le braccia. L’uomo che sa nuotare ha si può dire natura doppia: quella degli animali di terra e quella dei pesci. Quanti illustri personaggi antichi e moderni non furono valenti nuotatori. Basti ricordare Orazio Coclite, che si salvò a nuoto nel Tevere dagli assalti di Porsena, Cesare , che si salvò dall’ insurrezione alessandrina a nuoto sul mare, Alessandro .... Ma Alessandro era troppo imprudente e per essersi bagnato nelle rigide acque del Cidno fu a un punto di perderci la vita. Valga il suo esempio a renderti prudente, o Leonello ». 233. Non meno che all’educazione fisica del suo allievo badava Guarino alla sua educazione morale, avendo sopra- ιηβ GIORNALE LIGUSTICO tutto di mira gli ammaestramenti die si riferivano ai suoi obblighi di principe. A questo fine gli tradusse due opuscoli di Isocrate, nell’uno dei quali sono epsosti i doveri dei sudditi verso il sovrano, nell’ altro i doveri del sovrano verso i sudditi. La virtù che più di ogni altra gli inculcava era la clemenza, quantunque Leonello per natura sua fosse mite e clemente e solesse ripetere la parola di Tito : non dovere un principe lasciar partire nessuno dal suo cospetto senza conforto. 234. Ma dove Guarino concentrò la sua operosità didattica fu nell’ educazione letteraria; e qui trovò terreno fecondo e docile. Leonello aveva veramente trasporto per gli studi; e Guarino fu orgoglioso di affermarlo al Niccoli, quando nel 1431 passò da Ferrara. E non solo coltivava la letteratura latina, ma anche la volgare e le arti belle, la musica, il canto e la pittura. Fra le discipline prediligeva la storia, fra gli autori Cesare, che era il suo ideale come scrittore, come capitano e come uomo politico; e per questo appunto Guarino gli fece una redazione dei Commentarii di Cesare. Gli traduceva gli autori greci, specialmente Plutarco, e gli cercava codici. Alla ricerca dei codici prendeva parte anche Leonello, come nel domandare al cardinale Orsini le nuove commedie di Plauto e nel far venire da ogni dove manoscritti della Storia naturale di Plinio, della quale Guarino preparava una redazione, che fu terminata nel 1433. 235. Quando poi Leonello era fuori in villeggiatura, se incontrava nelle sue letture qualche difficoltà, si rivolgeva al suo maestro, che subito gli risolveva i dubbi e approfittava di quelle occasioni per dargli massime e precetti. « Allorché leggi non biascicar le parole, ma pronunziale a voce alta; ciò oltre che aiutare la digestione, imprime meglio nella mente i pensieri. Percorso un periodo, raccogline mentalmente il contenuto: se non hai capito la prima volta, leggilo e rileggilo, imitando i tuoi bracchi, che quando sen- GIORNALE LIGUSTICO 277 tono la selvaggina nelje stoppie e non riescono a scovarla, fanno e rifanno le medesime peste. Terminato un capitolo, fermati un poco a riassumerlo tutto; ma il riassunto non deve essere letterale, bensì baderai al senso; letteralmente ripeterai solo i luoghi più salienti: una frase elegante, un bel-Γ aneddoto, un’ arguta risposta. Sceglierai poi un giorno nel mese a ripassarti tutti codesti luoghi. Opportuno sarà anche che tu ti prenda un ripetitore, col quale riepilogare le lezioni imparate e non dimenticare mai di notare in un quaderno le principali nozioni che man mano acquisti nelle tue letture, ordinandole e classificandole. Se ti manca il tempo, pigliati un ragazzo intelligente che ti copii e disponga la materia ». 236. Dei suoi studi classici Leonello ha lasciato documenti in alcune orazioni e lettere. Le prime volte gliele sbozzava o gliele correggeva Guarino, se forse non gliele componeva per intero, ma in seguito egli potè fidarsi alle proprie forze. Non c’ è da lodare ivi nè la scelta dei concetti, né la eleganza della forma; una certa facilità vi si incontra, ma nulla più. Guarino vedeva in lui tutto bello, ma Γ affetto gli preoccupava il giudizio. In ogni modo lo stile ha tutto il colorito Guariniano. 237. E ora che abbiamo esaminato 1’ operosità di Guarino in Ferrara, usciamo di là e vediamo quali vincoli lo congiungono con altri centri di studi. Col Friuli era in rapporti per mezzo del professore Giovanni da Spilimbergo suo parente, che fino al 1432 insegnò a Cividale, indi a Udine. Lo Spilimbergo gli chiedeva dei sussidi per l’illustrazione dei classici latini, specialmente di Plauto, e Guarino lo teneva informato delle ultime novità e nel medesimo tempo gli faceva delle benevole esortazioni di carattere molto intimo: si direbbe che in famiglia ci fossero delle discordie. 238. A Verona Guarino aveva tanti amici e parenti ed è naturale che egli fosse in continua corrispondenza con la 278 GIORNALE LIGUSTICO sua città natia. I Fano, gli Ottobelli, i jLombardi, lo Zendrata, il Maggi, Galasio Avogari non si dimenticavano di lui, che seguitava a indirizzarli e soccorrerli nei loro studi. Ma nel febbraio del 1430 lo colpi una grave e inaspettata sventura: gli mori la madre. L’aveva lasciata a Verona, donde la buona vecchia non si era mai mossa. Era solita ammalare d’inverno, ma la primavera le riportava la salute; questa volta le portò la morte. La dolorosa notizia gli fu data dallo Zendrata giusto appunto quando egli attendeva buone nuove di miglioramento. « È proprio cosi la nostra vita: siamo destinati a morire. Lo so bene che il pianto è inutile, ma è un legittimo tributo di affetto filiale ». Sollievo nel grave lutto gli fu 1’ essere stata la madre assistita premurosamente nella malattia e le parole di sincera lode dettele sul feretro dal Maggi. 239. I Veronesi non si sapevano rassegnare di aver perduto Guarino e cercavano di farlo rimpatriare. Pratiche erano state avviate a questo scopo sin dal 1432; ma era il tempo in cui ardeva la guerra tra la Repubblica veneta e il Visconti; e Guarino, per mostrarsi grato dell’invito, rispose doversi aspettare migliore occasione. L’ occasione si presentò l’anno dopo, 1433, in cui fu conchiusa la pace. Il Consiglio di Verona aveva portato lo stipendio da 150 scudi a 200 per allettare maggiormente Guarino. E l’affare pareva conchiuso e se ne parlava a Ferrara, a Verona, a Venezia; quando tutto a un tratto Guarino dà al Consiglio una risposta gentile sì, ma che toglieva l’adito a ogni ulteriore speranza. Si capisce che nella deliberazione ci entrava anche la questione economica, perchè Guarino prendeva a Ferrara 350 scudi, ma il vero motivo fu che il marchese vi si oppose risoluta-mente, desiderando che si compisse Γ educazione di Leonello. Allora Guarino seguitava ad essere maestro di corte. 240. Capitava poi a Verona or questo or quello, per cui Guarino aveva occasione di mettersi in corrispondenza coi GIORNALE LIGUSTICO 279 suoi concittadini. Cosi ■ nel 1430 vi fece una gita il marchese Niccolò per assistere a un matrimonio nell’ illustre famiglia dei dal Verme. Nell’autunno del 1434 vi andò podestà Francesco Barbaro, al quale appunto allora Guarino dedicò la Vita di Focione tradotta da Plutarco. Il Barbaro per la via dell Adige arrivò a Lendinara, dove fu ospitato dal conte di Sambonifacio, col quale parlò di Guarino, indi pernottò nella casa di Guarino a Villa Bartolomea. Il conte di Sambonifacio era stato nei suoi primi anni governatore di Padova, quindi fece la carriera militare sotto Braccio di Montone; presentemente viveva ritirato nel suo feudo di Lendinara, dove attendeva agli studi teologici, per i quali ricorreva spesso ai consigli di Guarino. Tenne a cresima un figlio di lui e cosi gli diventò compare. 241. Comica fu la comparsa a Verona nel 1433 di un Calabrese. Era di statura piuttosto bassa, di persona smilza, gambe un po’ storte, volto di color terriccio, guardatura guercia. Costui un bel giorno con un vestito stracciato e in stivaloni si presenta sulla piazza di Verona, seguito da un gran codazzo di curiosi, e improvvisa dinanzi al podestà un rimbombante discorso, infarcito di versi dei poeti d’allora. Quando dagli astanti gli fu chiesto chi fosse, egli rispose : « sono Antonio Panormita, poeta laureato, al servizio del duca di Milano ». Sarebbe curioso sapere se questo ciarlatano avesse veramente veduto il Panormita e Γ avesse praticato in modo da poterlo contraffare, chè non è improbabile che il Panormita offrisse qualche appiglio alla caricatura. Comunque, a Verona il nome del Panormita, da quando Guarino vi avea diffuso l’Ermafrodito, era venerato ; e i Veronesi fecero a gara per rendere onore all’ illustre ospite. Intanto qualcuno ne scrisse a Ferrara a Guarino , il quale capito di che si trattava rispose subito dando i connotati del vero Panormita. Seppero così che il vero Panormita -non era 28ο GIORNALE LIGUSTICO guercio e domandarono al Calabrese come avesse quel difetto. Il furbo matricolato inventò che era stato per una malattia. Gli domandarono il diploma della laurea poetica ed egli rispose che Γ aveva dovuta vendere per comprarsi da mangiare. E continuò a menare per il naso i Veronesi, finché Guarino non spedi a Verona una lettera a lui diretta dal Panormita; allora si persuasero; e il ciarlatano andò altrove forse a ripetere il gioco, poiché l’aveva già fatto anche prima nel Piceno. 242. Intima, come si vede, e frequente era la corrispondenza di Guarino col Panormita; e tale essa si conservò tutto il tempo che il Panormita rimase a Pavia, cioè sino al principio del 1435, quando passò al servizio di Alfonso d’Aragona. Anzi fu per mezzo del Panormita che Guarino si tenne in stretta relazione col circolo letterario lombardo di Pavia e Milano, ma più di Pavia. 243. Fra i tanti del circolo pavese, oltre il Panormita, conosciuti da Guarino nomino Catone Sacco e Maffeo Vegio, luminari della giurisprudenza, il secondo anche poeta e autore di libri educativi, e Lorenzo Valla, che allora faceva il suo primo ingresso, diremmo, ufficiale nella grande famiglia degli umanisti italiani. Bello e veramente eroico quinquennio fu questo (1431-1435) per lo Studio pavese! Francesco Pizolpasso, vescovo allora di Pavia e più tardi arcivescovo di Milano, uno dei più dotti ecclesiastici del tempo, pigliava parte attiva a quel movimento letterario; Francesco Bossi vescovo di Como vi insegnava diritto. Era viva ancora 1’ eco della voce venerata di Gasparino Barzizza, che aveva chiuso a Pavia nel 1430 la sua lunga carriera di insegnante e la sua lunga vita, quando vi venne a insegnare il Valla, presentato dal Panormita. 244. C’era tra costoro due una differenza di 15 anni, eppure il Panormita già celebre non disdegnava di andare a sentire GIORNALE LIGUSTICO 281 le lezioni del Valla, giovanotto appena; se non che questa fraterna armonia non ebbe a durare più di due anni. Intorno a quei due grandi si raccoglieva una turba numerosissima di allievi ed insegnanti, che cercavano godersi la vita alternando la serietà e Γ operosità dello studio con la gaiezza clamorosa e con la spensieratezza dei convivia e delle compotationes. Fu di là che il Valla lanciò nel mondo stupefatto e scandalizzato il suo libro Sulla voluttà, in cui per la prima volta venivano solennemente rivendicati e affermati i diritti del senso sullo spirito; fu di là che il Panormita diffondeva per la prima volta in Lombardia la conoscenza di Plauto. E tempo di fiere polemiche fu quello : del Valla contro i giuristi, che egli mandava a imparar grammatica; del Panormita contro i minoriti, che non gli sapevano perdonare 1 Ermafrodito; e da ultimo del Panormita contro il Valla; poiché i due umanisti avevano troppa coscienza delle proprie forze e, come suole avvenire, non poterono star lungamente insieme senza che sorgesse Γ invidia a dividerli. 245. Il primo passo a mettersi in relazione col circolo pavese lo fece Guarino. Già da Ferrara a Pavia andavano e venivano spesso persone d’ affari e di studio e c’ era quindi occasione di scriversi. Una di queste occasioni si presentò a Guarino nel 1430, quando andava a Pavia suo nipote Lodo-vico Ferrari. Quel nipote e sua madre Cecilia avevano una questione di eredità ad Alessandria e Guarino li raccomandò al Panormita, il quale parte con Γ opera sua parte con la cooperazione di alcuni personaggi della cancelleria ducale riusci a dar loro vinta la causa. Egli pose molto impegno nella protezione assuntasi e mostrò sincero affetto ai due raccomandati, che egli chiamava scherzosamente i suoi Gua-rinastri e ai quali concesse ospitalità nella propria casa. 246. Verso il luglio dunque del 1430 Lodovico Ferrari andò a Pavia e Guarino ne approfittò per mandare un sa- 282 GIORNALE LIGUSTICO saluto al suo Panormita, a cui da qualche tempo non scriveva, e per dargli notizie della sua nuova posizione a Ferrara. 247. La gradita impressione prodotta da questa novella sull’animo del Panormita è da lui manifestata con queste caratteristiche parole : « posso senza commuovermi sopportare l’inedia, le malattie, la povertà, fin anco Γ invidia degli uomini; ma non so padroneggiarmi davanti alla propizia fortuna degli amici ». Di ricambio egli annunziò a Guarino la sua nomina di poeta aulico del Visconti e nel 1432 l’incoronazione poetica per mano dell’ imperatore Sigismondo. Ad ognuno di questi annunzi Γ animo di Guarino esultò di gioia. 248. Il Valla e Guarino non si erano ancora veduti; ma il Valla trovò una occasione di andare a Ferrara a visitarvi l’illustre umanista, per il quale nutriva sincera stima. Egli aveva pubblicato nel 1430 il suo libro De voluptate in forma di dialogo, nel quale gli interlocutori erano personaggi del circolo romano e fiorentino: tra essi anche il Panormita. Nel 1433 pubblicò la seconda edizione col titolo mutato De vero bono e mutò anche gli interlocutori, sostituendoli con personaggi del circolo pavese e milanese, ma escluso il Panormita, col quale allora era in discordia. Di questa seconda edizione il Valla deliberò di far dono anche a Guarino e di portargliela in persona, per aver cosi opportunità di stringere conoscenza con lui. Ciò fu nel settembre 1433, quando il Valla si licenziò da Pavia. Il Panormita cercò di predisporre l’animo di Guarino contro il Vaila, prima che costui arrivasse a Ferrara. Guarino però, uomo di molto buon senso e prudente, rispose alto alto al Panormita, schermendosi con frasi generiche, che non compromettessero la libertà del proprio contegno. Il Valla faceva allora un giro per Ferrara e Firenze, donde si sarebbe recato ad insegnare a Milano e a Genova. A Ferrara si trattenne un paio di gorni. (Continua). R. Sabbadini. GIORNALE LIGUSTICO 283 LIGURI ELLENISTI ANSALDO CEBÀ. ' % Ansai dus Cebà vixit anuos LVIll nunquam moriturus (i). Del genovese Ansaldo Cebà molti scrissero le lodi, e fra questi è degno di speciale menzione il P. Spotorno che ne inseri Γ elogio fra quelli dei liguri illustri (2), e nella sua Storia letteraria (3) ci delineo il profilo del Cebà come uomo e come scrittore. Ma lo Spotorno, pur indicando come fonte principale delle notizie intorno alla vita di Ansaldo, l’epistolario di costui (pubblicato nel 1623, con dedica ad Agostino di Stefano Pallavicino), lasciava ad altri designato il compito di tessere del Cebà una biografia particolareggiata. A tal lavoro si accinse il chiarissimo abate N. Giuliani, che indagando pazientemente e diligentemente nelle scritture del Cebà stesso e in quelle dei contemporanei, i quali ebbero alcuna relazione con lui, mirò, com’ egli dice, a far rivivere questo scrittore, eh’ è certamente una delle più insigni figure della ligure letteratura. Ma la dissertazione del Giuliani, comparsa a più riprese nel Giornale Ligustico (4), è rimasta disgraziatamente incom- (1) Quest’epigrafe accompagna il ritratto del C. che si trova riprodotto in principio delle Lettere di Ansaldo Cebà scritte a Sarra Copia e dedicate a Marcantonio Doria (Genova, Pavoni 1623) e nell’ « Atcippo » ib. 1623. (2) Vedi Elogi di Liguri illustri, 2.‘ edizione riordinata, corretta ed arricchita da D. Luigi Grillo (Genova, Ponthenier, 1846), vol. II, p. 65. (3) III, 83, 210; IV, 19, 124, 130, iSS· (4) Giorn. Lig., 1882, p. 386 e annate sgg. 284 GIORNALE LIGUSTICO piuta : e forse per questo noi non troviamo nel Giuliani, come neppure nello Spotorno , nel Tiraboschi, nel Maffei, nel Crescimbeni, messo sufficientemente in rilievo un lato interessantissimo della attività letteraria di Ansaldo. Vi si hanno bensi degli scarsi accenni agli studi greci fatti dal Cebà, ma la figura di lui come ellenista resta ancor troppo perduta nell’ ombra. Noi certo desidereremmo conoscere da chi Ansaldo fu iniziato allo studio del greco idioma, scoprire il metodo e le prime scuole ove veniva esercitandosi e seguirne i progressi nella lingua più veneranda (com’ei la chiama) dell’antichità (1); ma in quali scuole si fosse egli formato il primo patrimonio letterario, non piacque a lui di dircelo e nelle lettere (2) pubblicate Γ anno della sua morte , si manifesta uno studio continuo di avvolgersi di una certa misteriosa impenetrabilita, di nascondere le date e confonderne la serie contro l’ordine cronologico. Non di meno noi sappiamo che nella seconda metà del secolo XVI, Genova era una città di molteplici studi, che vi abbondavano maestri indigeni e forestieri, che già verso il 1553 vi erano stati chiamati i Gesuiti (5)? è ragionevole pertanto congetturare che i suoi primi passi sulle strade greche (com’ei s’esprime), il Cebà li facesse in patria. Ma dove attese con ordine e metodo alle lettere fu nello studio di Padova, ove stette con una sua « piuttosto rabbia che volontà (4) » circa quattro anni. « Tutto quello eh’ 10 ho scritto dai 25 sino ai /J anni, così egli scriveva a suo nipote (1) εν σεμνότατη διαλέκτφ. Vedi più sotto l’epistola greca al Menochio. (2) Lettere / d’Ansaldo / Cebà / ad / Agostino / Pallavicino / di Stefano / in Genova / per Giuseppe Pavoni, / MDCXXIII con licenza dei superiori - in 4.“. (3) Cfr. Giuliani, Giorti. Lig., 1882, p. 390, 403. (4) Lett. « ad incerto » p. 12. GIORNALE LIGUSTICO 285 Nicolò Cebà, é stato con cognizione, di lettere; e quando dico lettere, non intendo di quelle imparate sen%a consiglio e sen^’ ordine, delle quali tu vedrai far professione ad alcuno nella città nostra, ma voglio dir di quelle ove fui dirigalo per convenevole spazio di tempo da chi n era professore nello studio di Padova (1). E là , appunto , dovette acquistare quella rara conoscenza del greco che gli assegna un posto meritato fra i più distinti ellenisti del secolo XVI. Sappiamo infatti da lui stesso che a Padova leggeva, con crescente diletto , Omero e Demostene (2), autori eh’ egli dovette in seguito studiare assai profondamente, perchè in più luoghi dei suoi scritti mostra di conoscerne, con invidiabile dimestichezza, non solamente il testo, ma anche le glosse degli scoliasti greci. A Padova leggeva pure, per sua stessa testimonianza, le opere di Aristotile: e ciò era naturale, poiché dal 1577 al 1590 professò, in quello studio, filosofìa Aristotelica quel Giasone di Nores (3), cipriotto, di cui il nostro Ansaldo serbò grato ricordo celebrandolo nei suoi versi. Giovane « che non toccava ancora il ventesimo quarto anno (4) », il Cebà studiava l’etica di Aristotile, ed è pre- (1) Lett. p. 232. Cfr. anche il mio scrìtto Gabriello Chiahrera ellenista? (Genova, Sordo-muti, 1891) p. 7. (2) Lett. p. 8 « ad incerto »:..... « Vi confesso che leggo Homero, e Demosthene con più diletto..... ». (3) Giuliani, Op. cit. in Giorn. Lig., 1882, p. 409. Riccoboni (Ant.) De Gymnasio Patavino, p. 79. (4) Lett. p. 13 « ad incerto »:... « Et ecco che cosi destramente v’ho fatto sentir con le parole eh’ io studio l’ethica di Aristotile... Che vi par di un giovine che non tocca il ventesimo quarto anno?....» (Da Padova, senza data. Ma essendo il Cebà nato nel 1565, la lettera deve essere stata scritta poco prima del 1589). 286 GIORNALE LIGUSTICO ziosa, nel suo candore, la confessione delle difficoltà che incontrava nella lettura della poetica dello Stagirita : « né mi spaventa eh’ io debba, in mia coscienza, conoscere d’intenderla poco, perchè ho notalo chi l’allega assai volte sen^a intenderla niente (i) ». Quanti grecisti odierni, di minor merito del Cebà, avrebbero il coraggio di una confessione così aperta?..... Pindaro talvolta non gli piaceva, perchè alcuni di quei suoi iperbati (i moderni li chiamano meno felicemente voli pindarici) gli sembravano aver piuttosto origine da poco favor di musa, anziché da grande violenza di furore. Pure ammette che tal furore , in Pindaro « non travolge mai tanto 1’ ordine delle parole, nè la regola delle figure che fra i nuvoli, per così dire, delle une e delle altre non apparisca assai chiaro lo splendore dei sentimenti »; ma osserva (non traspare ben chiaro se in tesi generale o riferendosi a Pindaro esclusivamente), che, « quando ciò avviene e che bisogna penar troppo per ravvisarli, il diletto della poesia viene ad essere tanto temperato che pochi son quelli che vogliano la fatica di cercarlovi (2) ». Plutarco è da lui messo fra gli scrittori di amena lettura. Au demeurant, scrive ad Andrea Spinola (3), je m’en passe le long des jours, que lisant, que me promenant: mes livres sont les vies de Plutarque et quelques autres semblables, c’est à dire de gentil entretien. Dalle sue opere, specialmente dall’ epistolario, dalle chiose a Teofrasto e dal dialogo sul poema eroico o il Gonzaga, noi apprendiamo eh’ egli aveva letto Aristofane, Anacreonte, (1) Lett. p. 16 « ad incerto ». (2) Lett. p. 80 « A Monsignor Antonio Olgiato ». (3) Lett. p. 134 (da Genova, senza data). Cfr. anche Lett. pag. 179 a Leonarda Spinola. GIORNALE LIGUSTICO 287 Basilio, Dione Crisostomo, Ateneo, Eschilo, Euripide, Foci-lide, Esichio, Esiodo, Luciano, Senofonte, Suida, Temistio, Teognide, Stobeo, Platone, Flavio Giosefo, Tucidide ed altri. E non si creda eh’ egli leggesse codesti autori in traduzioni, giacché mostra troppa famigliarità col testo greco , e s’ ac-corge persino di abbondare troppo in citazioni greche, tanto che di ciò tenta scusarsi col padre Melchiorre (pag. 131): quod graece aliqua scribam cave ineptae ostentationi adseribas; nemo enim huiusmodi puerilitates magis horret. Sed ea aut proverbia, aut auctorum quomodocumque dicta, aut certe (quod superstitioni fortasse imputes) voces, quae minus apud latinos purae. Con buona pace di Ansaldo, io son tentato a credere che 1*1’ ostentazione, non inetta ma legittima, c’ entrasse per qualche cosa. Ho passato in rapida rassegna gli scrittori greci letti e citati da Ansaldo, perchè si veda quanto ampia fosse la lettura di lui e lo studio diretto sui modelli classici dell’antico mondo ellenico; ma ciò non vale a mostrarcelo in tutto il suo splendore di grecista. Codesto hassi a riguardare come il patrimonio ellenistico di lui: vediamone i frutti. Precipuo fra questi è certamente la sua traduzione dei « caratteri » di Teo-frasto, non tanto per sé stessa, quanto per le appostevi chiose. In quel libro, comparso per le stampe del Pavoni nel 1620, il Cebà si dimostra non solo valente interprete del pensiero filosofico del greco Autore, ma valoroso anche nella critica del testo e, in singoiar modo, nella critica congetturale. Anzi io non dubito di asserire che di non poche delle felici congetture, onde si fa bella la moderna critica tedesca sul testo teofrasteo, devesi la paternità al nostro Ansaldo, quantunque (ed è strano!) il nome di lui non venga neppure ricordato una volta nell’ampio repertorio deU’Engelmann-Preuss. Inoltre molte considerazioni filologiche, storiche, filosofiche troviamo 288 GIORNALE LIGUSTICO nel grecista genovese, le quali ricorrono ripetute (e non di seconda mano soltanto!), ammirate e lodate come novità negli studi sul discepolo di Aristotele , comparsi nel nostro secolo, dal Wimmer, al Pinzger e al Hanow (i). Rivendicare pertanto all5 Italia il merito di aver per la prima preparato gran parte di quel ricchissimo materiale biologico, che ci ritorna ora colla marca di fabbrica tedesca, dopo che la filologia classica è passata dal periodo italiano della Rinascenza, a quello franco-belga, dall’olandese-inglese al germanico (2), sembrami compito non di ricercatore soltanto, ma anche di buon italiano. Facciano — come mi augurava in una sua lettera il collega prof. G. Setti — altri giovani per gli Ellenisti delle altre regioni italiche, quello eh’ io tento di fare per gli Ellenisti della mia Liguria, e prepareremo uniti un contributo non dispregevole per una illustrazione completa della filologia greca in Italia. Ma ritorniamo al Cebà, e ai « Caratteri » da lui tradotti. Egli con felice intuizione sospettò mutilo il testo di Teofrasto, nel luogo appunto ove poi vennero ad aggiungersi due altri capitoli (il 29.0 e 30.°), trovati da Giovanni Cristoforo Ama-duzzi in un codice vaticano del secolo XI e pubblicati in una splendida edizione Bodoniana a Parma nel 1786 (3). È curiosa la storia delle peripezie che sofferse quel lavoro giovanile, com- (1) Pinzger, Ueber Charaktere des Theophrast, Ratib. 1S33-39. — Hanow, De Theophrasti Caracterum libello, Lipsiae 1858. L’edizione del Wirnmer è del 1866, Paris, Didot. (2) Cfr. Urlichs (L.), Grundlegung und Geschichte der Philologie in Handbuch d. Klass. Alberthums-wissenschaft von D/ I. Müller (I, p. 39 sgg·)· (3) Characterum ethicorum / Theophrasti Eresii / capita duo / hactenus anecdota / quae / ex Cod. MS. Vaticano saeculi XI / Graece edidit latine vertit / praefatus est et annotationibus / illustravit / Iohannes Chri- stophorus Amadutius. — Parmae / ex regio typographeo MDCCLXXXVI. GIORNALE LIGUSTICO 289 posto dal Cebà poco più che trentenne. — Cediamogli per poco la parola : « È vero, egli scrive a Don Girolamo Centurione, che son circa vent’ anni eh’ io interpretai i Caratteri morali di Teofrasto, e gli inviai al signor Gian Vincenzo Pinelli, con intensione di pubblicarli ; ma come 1’ ardore fu giovanile, così feci poco appresso differente pensiero, e procurai di riaver da lui l’originale d essi in forma di quarto scritto di mia mano : che però non fu mai possibile, con tutto eh’ egli il consegnasse per portar-lomi, a certi mercatanti, dai quali io non potei averne soddisfazione: e se non fosse che poi il medesimo Pinello da una copia, che ne ritenne ber se, me ne provvide d’uri altra, io non saprei oggimai ciò che si fossero: perchè fui sì poco cauto la prima volta, che soffersi di mandargli l’originale senza ritenermene la copia. Ora io non so come questo libro sia pervenuto in mano del Signor Cardinale Borromeo (Federico), se forse 0 dalla libraria del Pinello (la quale però alla sua morte prese altra volta che quella di Milano) 0 pure da chi Γ ebbe a Venezia per doverlomi consegnare, non 'e ito fortuneggiando fin che s’ 'e salvato in casa di S. Signoria Illustrissima. Ma comunque si sia, 10 ho un gran desiderio di due cose: Γ una, che mi facciate grazia di riconoscere s’egli e l’originale in quarto scritto di mia mano, 0 pure quella copia che se ne ritenne il signor Gian Vincenzo: e Γ altra che, se pur fosse vero che cotesto Signore avesse in animo di farlo stampare, procuriate con quel più efficace mezzo che potete, eh’ egli noi faccia : perciocché nella traduzione credo eh’ io avrei, rivedendola, da ritoccar qualcosa : e nelle chiose, che, come vedete, son molto piene, non ne mancherebbe qualch’ altra da togliere, da correggere e da variare E son certo che se il medesimo Cardinale che, per quanto intendo, ha gusto di buone lettere, leggerà il libro più attentamente, si ritrarrà dall’ opinione che voi mi dite eh’ egli ha di lui, e non vorrà pubblicandolo, senza ninno utile pubblico, farne dispiacere a me, 11 quale, ancora che noi conosca di presenza, gli sono però e per Giorn. Ligustico.Anno XVIII. 19 290 GIORNALE LIGUSTICO le qualità sue e per la santa memoria di San Carlo, servidore affezionatissimo » (1). A monsignor Antonio Olgiato (p. 77) ripeteva, press5 a poco colle stesse parole, il suo reciso rifiuto alla pubblicazione di quella, eh’ egli chiamava, « fatica » giovanile. .Ma più tardi, stretta relazione col cardinale, gli scrive mostrando il desiderio di poter venirsene a stare per qualche giorno a Milano, per correggere nella sua versione gli errori del copista: a Per quel che tocca al variarla, dice egli, secondo il gusto e la cognizione eh’ io ho al presente (oltre che forse non porterebbe il pregio), la mia indisposizione mi ne toglie ogni speranza » (2). Questa sua asserzione ci dà modo di spiegarci un fatto che destava qualche maraviglia nell5 Amaduzzi (3). Costui dilani si domandava come mai un uomo cosi erudito ed acuto, 1) Lett. p. 70. Vedi pare altre notizie sol a Caratteri » ibidem, pa— IP®6 77- ΐ4θ, 217-18, 231, 246-47, 266, 529 e passim. {2 Les. ρ. 140 « Al Cardinal Federico Borromeo * : e......ancora correggerei volentieri quella njia fatica sopra i Charatteri di Tfaeotrasto, s 10 potessi veci-mene a star per qaaiche giorni a Milano: E dico che la correggerei, intendendo degli errori del copista, che. per quel che tocca si variarla secondo il gesto e la cognitione, eh’ io ho al presente Oltre che torse non porterebbe il pregio) !a mia indispositione me ne toglie ogni speranza » Genova, senza data . (3) Praej. p. 57. c Mirandum car Cebà noster, vir sane acutos et em-ditus, cuarr; qui alius, interpretationem suam non ultra XXIII capot produxerit. ets: eics italica versio cusa fiaerit Genuae anno CiDIDCXX. qtso tempore— capita characterum ethicorum Theophrasti a Casaubono csqne an XX'. iil extensa -aérant, eaqoe ex Logdanensibss typis anno COIDXCII 12m prodierant: quae sane editio Cebeam interpretationem \~VTÌI annororo spano anteverterat. Teeq eo magis hoc mirari contigit quod Cdbà ipse m adnotationibos suis saepius ad Casauboni emendadones, et observa- tiones._ provocare non dabitet_ Forte noluit senes illud opns perficere e- -ntejrare, quod iuvenis hand ex omni parte absolutum tractaverat. Siquidem patet es eius ad Card. Borromejam dedicatione, hanc versionem icveEiiiDus annis ipsum adomasse, quo tempore forsitan nendam Casan-bani additiones innotuerant ». GIORNALE LIGUSTICO 29I quale il nostro Ansaldo, avesse pubblicato la versione italiana di soli 23 capitoli dei «caratteri» di Teofrasto, mentre dal Casaubon il testo Teofrasteo era stato accresciuto di altri 5 capitoli e 1 edizione di lui, comparsa a Lione l’anno 1592, aveva preceduto di 18 anni la pubblicazione del volgarizzamento di Ansaldo ; tanto più strano Γ Amaduzzi trovava la cosa, in quanto che il Cebà ci richiama spesso alle note ed emendazioni del commentator francese. Credeva pertanto l’Amaduzzi che Ansaldo vecchio non abbia voluto completare un lavoretto lasciato incompiuto sin dalla giovinezza, quando le addizioni casauboniane non erano ancora troppo note. A me pare da ricercarsi la cagione di cotesto fatto nelle cattive condizioni di salute in cui versava il Cebà verso l’anno della stampa di quel libro, come appare dalla lettera ci-tata (1); oltracciò egli mal soffriva ritoccare in vecchiezza le scritture giovanili, perchè, diceva egli stesso, «lo stile di unJ età non si conviene con quello d’ un’ altra » (2 ). ■Ma Ansaldo non si mostrò ellenista solamente col tradurre egregiamente un autore greco nella propria lingua volgare : egli seppe anche rivestire il pensiero suo di forme greche , giacché fu abilissimo nel maneggio oltre che della lingua latina, anche della francese e della greca (3). (1) Dall’ epistola greca al Menochic vedi più sotto,, ci appare già sofferente e tormentato dalla tosse Bel 1614. (2} Cebà (Ansaldo), Eserci-i Accaiimki (Genova, Pavoni, 1621). Nella Dedica: c Le scritture dei giovani patiscono di moEti difetti: ond’io che dettai le presenti son già quasi trent anni, doveva per avventura, o rimanermi dal pubblicarle, o studiarmi di ripulirle. Ma perchè____ lo stile di un’ età Eoa si conviene con quello di un' altra, io mi son fatto scrupolo di nasconderle, e ho stimato danno di ritoccarle ». (j) Lo S[potomoJ neîlt EL·gì iti Liguri illustri, ed. c., Π, p. 66: « si avvolse tutto nelle lettere greche, latine e italiane : nè fai straniero nel- 292 GIORNALE LIGUSTICO Della rara facilità con cui scriveva in quest’ ultimo idioma, ci dà una prova il carteggio di lui col padre Menochio. Fu costui Giovanni Stefano Menochio, figlio del celebre giure-consulto, di patria pavese: entrato nella compagnia di Gesù nel 1593 in età di 17 anni, scrisse, oltre i suoi dotti commenti alla bibbia, un libro di trattenimenti eruditi dal titolo Stuore, e fu versatissimo nella lingua greca (1). Che la corrispondenza fra lui e il Cebà fosse, a volte, sia pure parzialmente, in greco idioma, lo rileviamo dalla lettera a pagina 158 (2), ma l’unica epistola greca che del Cebà al dotto gesuita ci resta, è l’ultima della raccolta: sta a pag. 365 e io ne do qui una trascrizione fedele , risolvendone tuttavia, per ragioni tipografiche, i varii compendii paleografici. Vi aggiungo in fronte una versione volgare eh’ io ne ho tentato, persuaso che non riuscirà discara agli studiosi, se non altro per l’importanza che l’epistola del Cebà, per vari aspetti, presenta. Γ ebraiche ». Non parla della lingua francese che pure era posseduta, in modo raro, dal Cebà, come dall’ epistolario di lui ognun vede. A giudicare da qualche sonetto inserito fra le lettere a Sarra Copia Ebrea (p. 4), pare che il Cebà verseggiasse anche con disinvoltura in lingua spagnuola. (1) Cfr. TiRABOSCHi, Si. d. Lett. It. (Firenze 1812, v. 8, p. 15 S)-Sotuello, Bibl. scriptt. Soc. Iesu, p. 504. (2) Da Genova, senza data; termina: «nel rimanente gli esercitii della mia penna son diminuiti e l’infermità del corpo moltiplicate...... E tenetemi nel numero dei vostri amici più cari ; ricordandovi che non è dovere eh’ un par vostro habbia aggiunto al mio nome quel φίλη κεφαλή per solo termine di cortesia ». Lo stesso padre Menochio è pure ricordato incidentalmenle nella lettera (p. 352) a Marcantonio Doria. GIORNALE LIGUSTICO 293 'ΓΩ ΣΕΒΑΣΜΙΩ ΙΩΑΝΝΗ ΣΤΕ-ΦΑΝΩ I (ι). Μενωχίι,υ άνσαλδος ό Κεβά εΰ πράττειν. Σύ μέν ώσπερ ο'ίκοι ώ Ιωάννη (sic, s.sp.) στέφανε, διά της έλ | λάδος πε [ ριπατεϊς, εγώ δέ ώς έπί της ξένης περιπλανώμαι. διό καί μοι ’αγα-πητόν, εϊ σου με | τρικώς έπιστεί-λαντος, εγώ καταλογάδην άπο | κρινουμαι. άλλα μην τί φησω ύπέρ ών την έμήν έμεγάλυνας | έποποί-ϊαν; μέγα μέν αν έπί τούτο φρονοΐμι, εί μή σε φιλικώς | μάλλον, ή κριτι-κώς κεχειροτονηκέναι ύποπτεύοιμι. όπωσοΰν | μέντοι το πράγμα έχη, ούκ άποβλητή ή του κεβά ραφω | δία, του μενωχ,ίου ύπέρ αυτής έλληνί-ζοντος. έν σεμνοτάτη γάρ | διαλέκ-τφ τά φαυλότερα κατατίθεσθαι ου προσήκον, καί ταυ | τά οοι, ώ άρι-στε , εϊ τίς ποτε άλλος σοφωτάτφ. περί της έμής | δ συ γράφεις, σκοπιάς (2), έρυτριών έγώ άναγινώσκω. AL VENERABILE GIOVANNI STEFANO MENOCHIO. Ansaldo Cebà salute. Tu certo, 0 Giovanni Stefano, te ne vai passeggiando per le greche strade (3) come in casa tua, ma ivi io, come in terra straniera, vo tentoni. Per ciò mi dee bastare, se, mentre tu mi hai scritto in versi, io ti risponderò in prosa. Ma dunque che t’ho io a dire per le parole con cui magnificasti la mia epopea? Certo avrei di che andar superbo per questo, se io non sospettassi che tu hai sentenziato più con animo d’amico che di critico. Comunque però stia la cosa , non è da sprezzarsi la epica del Cebà ora che il Menochio Γ ha celebrata in greco. Dire , infatti, nella lingua più veneranda, inutili complimenti (4) non sarebbe dovere e tanto meno per te, o ottimo, che (1) L’iota, vuoi subscriptum, vuoi adscriplum è generalmente, ma non normalmente trascurato. (2) Σκοπιά indica sempre , in Omero , una vetta di monte di ampio sguardo. Non possedendo noi i versi greci, che il Menochio aveva mandati al Cebà, riesce naturalmente un po' oscura l’allusione che si cela in quella parola. Dal contesto della lettera pare che si voglia alludere al contrasto tra la fierezza che traspariva dalla persona alta, slanciata e severa del Cebà colla debolezza per cui aveva anch’ egli pagato il suo tributo agli amori e glorie mondane (γήίνα ού κολετρα). (3) Ho tradotto διά της 'Ελλάδος per le greche strade, riferendomi alla maniera propria del Cebà. Cfr. lett. p. 16: « Fin che non mi senta meglio in gambe per correre le strade italiane, non voglio curarmi troppo di χορ-picare sopra le Greche ». Anche nelle rime, e precisamente nel sonetto al Chiabrera, usa 1’ espressione via Greca e bel cammin francese. (4) Un pensiero somigliante è espresso nella lettera allo stesso Menochio che è a pag. 158: «.....ricordandovi che non è dovere eh’ un par vostro habbia aggiunto al mio nome quel φίλη κεφαλή per solo termine di cortesia ». GIORNALE LIGUSTICO δψιλήν (ι) μέν | έχει τό σώμα οικίαν, άλλ’ ή ψυχή τά γήϊνα où κολετρά (2). πέ | τρα αδτη (ώς καί έγώ τραγωδών όμηρίσω) παιπαλόεσ-σα έστίν, οδρος (sic) άγχίαλος, πάντα μετέωρα: (sic) μέριμναι δμως, οΰκ | ο!δ’ όπως , άνερχόμεναι, την έμήν ταράσσουσι διάνοιαν, καί πάν | των εμέ ταπεινότερον κατεργάζονται ανθρώπων, τί μοι φής | γαληνότατος πέρι; ή γαλήνη ούδεμία παρ’ έμοί, η (μετά | ποιητοδ ετι ραψωδών λέγω) ή έμή γαλήνη οδκ έπλετο νη I νεμίη. πολλοδ δέω τής τών ταραχών απουσίας εδδαιμονίζεσθαι. τά λυρικά δπ’ έμοδ σοι πεμπόμενα μαρτύρεται οδ τά πρό | τερα μόνον τής έμής αμαρτήματα νεότητος, αλλά καί εκείνων | τά δευτέρως έπα-νορθώματα. έν οΐς μέντοι πάσι, ταϊς τών I ήθών συγνώμην έχοντα, ταίς τών μέτρων σε λιπαρώ προσέ | χειν αίτίαις. πολλά μοι δοκώ έκ περιουσίας έκεΐ φλυαρών, | καί τά τώνπιερίδων κειμήλια οΰκ άεί κατά τρόπον ταμιεδεσθαι. | ειλικρινής γε, ώς έπιτοπολδ ή διάλεκτος, καί τάχα που νοή | ματα Ιστιν δτε ένθουσιά-ζοντα. συ μέντοι κριτής άληθέστε-ρος. I άλλά γάρ περί τών ήμετέρων άλις, άμφί δέ σάς τών έσ9·ήρ βί I βλων δποθέσεις οδδέν άλλο εχω είπείν, ήσε (3) έκάστην διστίχω | οΐον όμηρικψ άνοίγοντα, πλείους hai , se altri giammai, Tetrissimo giudizio. Quanto alla mia (come la chiami) Specola, arrossendo il riconosco. Il corpo bensì ha elevata magione, ma l’anima non conculca le terrestri cose. E (affinchè io pure pomposamente omereggi) alla è la rupe, sopra il mare a picco - s’erge lo scoglio, pendulo per l’aere - è tutto. Non di meno delle cure, non so come sopraggiunte, conturbano la mia mente, e mi rendono di tutti gli uomini più tapino. Che mi dici tu intorno alla serenità ? Calma veruna è presso di me o (per dirtela ancora epicamente col poeta) non sen\a vento mi toccò bonaccia. Son ben lungi dal felicitarmi per l’allontanamento delle agitazioni. Le liriche da me inviate a te fan testimonio non solo dei primi errori della mia gioventù, ma anche delle conseguenti ammende di quelli. Ed in quelle liriche, dunque, ti prego fortemente a tener conto dell’ indole mia (avendomi indulgenza) e delle ragioni del metro. Io mi reputo ivi aver detto molte cose inutili senza necessità e non aver sempre distribuito secondo ragione i tesori delle muse. Schietta vi è, per lo più, la lingua e forse qualche volta i pensieri inspirati. Tu però sarai giudice più verace. (1) δψιλήν errore di iotacismo per δψηλήν. (2) Κολετράω è parola aristofanesca. Cfr. Nubi, 552: Τοϋτον δείλαιον κολετρώσι άεί. Lo scoliasta ed Esichio ivi la spiegano καταπατοΰσι = proculcant. Il Vanicek, Griechisch und Lateiniscb Etym. Wòrterbuch, lo deriva dalla rad. kar; κολ-ε-τράω (cfr. calc-i-tra-re) mit Füssen treten , stossen. (3) sic = ή σε. GIORNALE LIGUSTICO 295 των ύποθέσεων, ή τού ποιη | ματος έραστάς κατασκευάσειν : άλλ’ οδ-σοι (ι) φθ-ονώ δόξης, ήσπερ έγώ | αίτιος, εί μή γάρ έγώ τήν έσθ-ήρ έποιησάμην, σύ τόν όμηρον | ούκ αν άπείκασας. άμφω αρα, σύ τά πρωτεία λαμβάνων, | έγώ τοίς δευτε-ρείοις άρεσκόμενος, ού πρός άλλή-λους φιλονεική | σομεν. πλείονα ού προστίθ-ημι, βήττειν γάρ ή έλληνί-ζειν δαψι | λέστερος ών τυγχάνω, ε^ωσο ώ φιλτάτη κεφαλή, καί έν τη τού I ϊερείου προσφορά τήν ύπόσχεσιν μέμνησο άποδιδόναι. Καρηνια | νόθεν έκατομβαιώνος μηνάς τη πέμπτη έπί δεκάδι. Ma basta delle cose mie. Circa i tuoi argomenti ai libri dell’Ester, non ho altro a dirti se non che tu, cominciandone ciascuno con un distico proprio omerico, procaccierai più ammiratori degli argomenti che del poema : ma io non ti invidio co-desta gloria, della quale sono io la cagione, giacché, se io non avessi composta l'Ester, tu non avresti agguagliato Omero. Entrambi dunque, tu avendoti il primato, io contentandomi dell’onore secondo, non vorremo contendere tra noi. Non aggiungo di più: poiché io mi trovo essere in tossire più facile che a scriver greco. Stammi sano, o caro capo, e nell’offerire dell’osti;i ricordati di tener la promessa. Di Carignano, il 15 del mese di Ecatombeone. Il Cebà, sistematico ommettitore di date, non segna l’anno in cui scrisse l’epistola surriferita: non parmi tuttavia difficile poter assegnarla all’anno 1614. Difatti in essa vien fatta menzione di un poema epico che il Cebà doveva avere di fresco inviato al gesuita , e in fine della lettera appare che la sua Reina Ester era ancora da pubblicarsi: il primo pertanto dovette essere Labaro il mendico, pubblicato appunto in Genova nel 1614 coi tipi del Pavoni, giacché Y Ester vide la luce 1’ anno appresso. Dalla lettera stessa si apprende ancora come il Menochio scrivesse degli argomenti per Y Ester, quel poema, composto in meno di 22 mesi, che il Cebà riteneva per « lo più nobile (1) sic = οδ σοι. 296 GIORNALE LIGUSTICO parto dello ingegno suo (1) » e che destò tanta aspettazione nell’ Italia tutta e tante delusioni al suo apparire , e che oggidì è quasi al tutto obliato (2). Tali argomenti erano essi in lingua volgare o in lingua greca, come lascerebbe sospettare Γ espressione ivi adoperata di distico omerico? Io almeno non ho trovato alcuna notizia di essi nè in Spotorno, nè in Giuliani, nè in altri. E non sarebbe senza importanza conoscerli, se ancor è possibile rintracciarli, per avere un’ illustrazione meno insufficiente di quella che abbiamo ora di quel poema, che fu posto all’ Indice (3) e sulle cui fortunose vicende resta da fare ancora molta luce (4). Dott. Girolamo Bertolotto. (1) Vedi lett. c. a Nicolò Cebà suo nipote: « Il poema d’Ester dell’eccellenza o viltà di lui darà forse più diritto giudicio un altro secolo... Io lo tengo per lo più nobile parto dello ingegno mio ». (2) Cfr. Spotorno, St. lett. d. Lig., IV, p. 126 sgg. Vedi anche G. Chiabrera, Lett. a Bernardo Castello, pp. 223 e 192. (3) Spot., St. lett., IV, 127. Vedi anche A. Neri, in Giorn. Lig. 1888, p. 212. (4) Ho creduto fino a poco tempo fa che lo stesso argomento dell’ Ester seducesse anche il Chiabrera, giacché esistono nella R.“ Biblioteca Universitaria frammenti poetici mss. su quel soggetto biblico, con disegni a penna, attribuiti, questi, a Bernardo Castello, ritenuti, quelli, come autografi del Chiabrera. Se non che il Neri, che degli autografi Chiabrereschi è stato benemerito illustratore (cfr. Giornale storico della lett. italiana, 1889), mi accerta essere codesta attribuzione poco attendibile, e, forse, neppure i versi stessi sono opera del Chiabrera. 1 ' i GIORNALE LIGUSTICO 297 VARIETÀ UNA ISCRIZIONE GENOVESE RECENTEMENTE SCOPERTA IN SOLDAIA. L illustre prof. Ladislao Jurgievicz ha diretta alla Società Ligure di storia patria la seguente lettera, che siamo lieti di pubblicare : A l’ Honorable Société di storia patria. — Gènes. Odessa, le 26 avril (8 inai) 1891. La Société Odessoise a l’honneur d’expédier ci-joints trois exemplaires de son Compte-rendu pour Vannée 1889-1890, dont l’un à Mr. Desimoni et un autre à Mr. l’abbé Amedeo Vigna. C’est avec plaisir que je profite de cette occasion, pour faire part de la trouvaille que nous avons fait dernièrement dans la forteresse génoise de Soldaia (aujourd’hui Soudac). Le 23 fevrier v. s. on a découvert dans le fondement d’une maison en ruines, que l’on croit être celle du commandant russe, ou plutôt une caserne, après la prise de la forteresse sur les Turcs (appelée par les conquérants forteresse de S.' Cyrille) une dalle de pierre sableuse de la longueur de 222 centimètres, larg. 68, épaiss. 15 cent., avec l’inscription suivante entre deux armoiries: -j- MCCCCLXXI DIE XXI MADII HOC OPVS FACTVM. FVIT TE MPORE REGIMINIS EGREGI ET POTENTIS VIRI DNI LEON ARDI TARTARI HONOR: CONS VL1S ET CASTELANI SO[l]dAIE. t I - Le consul de· ce nom ne nous a pas été connu. Non moin intéressant est la médaille en bronze, de la grandeur d’une pièce de 5 francs, mais beaucoup plus mince, trouvée dans une carrière d’Akkernian (Moncastrod des Génois): 1 i 298 GIORNALE LIGUSTICO Av. Saint George à cheval, perçant avec sa lance un dragon. Tout autour la légende : s. georgivs eqvitvm patronvs. Rv. Un vaisseau sur une mer orageuse; sur la proue, devant un saint assis, le patron du vaisseau tendant les mains et suppliant de lui prêter secours ; à la poupe une figure tendant les mains vers le ciel. Autour l’inscription : in tempestate secvritas. Il est à présumer que la médaille a été frappée après la cession des colonies génoises de Crimée à la Banque de Saint-George , pour servir de talisman contre les tempêtes assez fréquentes dans ce parages. Le Vlee-Présldent de la Société lmp. d'hlst. et d’autlq. LaDISLAS JURGIEVICZ associé de la Société di storia patria. La Società Ligure, e quanti amano le nostre antiche memorie, saranno gratissimi al prof. Jurgievicz delle sue importanti comunicazioni, alle quali aggiungeremo che gli stemmi onde è fiancheggiata l’iscrizione, dovrebbero essere quello consueto di S. Giorgio, e l’altro dei Tartaro: d’azzurro a tre fascie doppio addentellate di oro. Ci permettiamo però di dissentire dall’ egregio Professore di Odessa relativamente alla medaglia di Akkerman; al quale proposito, pregato da noi, cosi ci scrive il ch. dott. Solone Ambrosoli, conservatore del R. Gabinetto Numismatico di Brera: « I du-» cati in oro, i talleri e le medaglie e medagliette d’ogni » dimensione in argento, al tipo del san Giorgio, colla » nave per rovescio, e le leggende: s. georgivs eqvitvm » patronvs, e in tempestate secvritas , appartengono ad » una classe particolare di pretesi talismani, coniati a Cre-» mnitz in Ungheria, incominciando dallo scorso secolo, e » poi riprodotti all’infinito, nei diversi metalli. Ve ne sono » quindi moltissimi che non hanno altro valore, fuorché » quello del metallo e dell’ eleganza come porte-bonheur ; i » più antichi invece (dico antichi relativamente) sono più pre-» giati, quantunque non costituiscano una rarità. Si trovano GIORNALE LIGUSTICO 299 » già descritti in: Kòhler, Vollstandiges Ducaten-Cabinet, Han-» nover, 1760 (pag. 1008, n. 3092), c in Madai, Vollstândiges » Thaler-Cab inel, Konigsberg, 1765 (pag. 758, n. 2379) ». . L. T. B. NOTE UMANISTICHE. Prendo occasione a queste poche note dal libro di Carlo Braggio. Giacomo Bracelli e l’umanesimo dei Liguri al suo tempo ( i ). FLAVIO BIONDO. A pag. 287-292 del suo lavoro il Braggio comunica cinque lettere del Bracelli al Biondo, le quali vengono opportune per rischiarare la cronologia delle opere del Biondo. Il miglior lavoro sul Biondo l’ha scritto il Masius (2). A ricostruire uno dei più oscuri decenni della vita di lui, del 1422 al 1432, ha contribuito l’Epistolario guariniano, del quale ho pubblicato alcuni saggi nella Vierteljahrschrift fiir Kultur der Renaissance (3). Presentemente si occupa del Biondo il D.r Lobeck di Dresda, dal quale attendiamo importanti comunicazioni. Per la cronologia dell’ Italia illustrata del Biondo, il Masius (p. 51) non conosce nessuna testimonianza diretta. Ora per mezzo della prima lettera del Bracelli, in data i.° aprile 1448, sappiamo che in quell’anno Y Italia era già cominciata e che il Biondo domandava per mezzo dell’Imperiali al Bracelli la descrizione della Liguria per inserirla in detta opera. (1) Genova, tipogr. Sordo-muti, 1891. (2) Flavio Biondo. Sein Leben und seine IVerke, Leipzig 1879. (3) Anno I. 300 Così con la seconda lettera, del 30 decembre 1448, veniamo a conoscere il tempo, in cui fu pubblicata la Roma instaurata, infatti la lettera comincia: delati sunt tandem in manns meas ii libri quos sub instaurato (Jrbis titulo recens edidisti. Il Masius (p. 48) trovò questa lettera in un codice di Dresda, ma senza data. Dalle altre tre lettere del Bracelli desumiamo notizie sulle Historiae del Biondo. In una di esse, in data XVIII kal. décembres il Bracelli promette di mandare al Biondo gli Annali di Genova dal 1100 al 1405: ab anno circiter millesimo et centesimo usque ad quadringentesimum et quintum ; e chiede tre mesi di tempo per la copiatura. Dalla seguente, in data pridie non. febr. ) apprendiamo che il Biondo sotto la data quarto idus decembres (cioè 10 decembre 1454) gli avea scritto, dichiarandosi pronto ad aspettare i tre mesi della copiatura. Però il Bracelli ha fatto sollecitare il lavoro e gli manda gli Annali con la presente lettera. Da essa conosciamo che si tratta degli Annali di Giorgio Stella. L’altra lettera, XVII hai. rnaias 14, ci informa che il Biondo avea già ricevuto gli Annali. Di qui si dovrebbe dedurre che le Historiae non erano ancora finite agli ultimi del 1454 e ai primi del 1455* Eppure sappiamo da una lettera del Biondo al Barbaro (1), che le tre prime Decadi erano pubblicate sin dall’ottobre 1453· Bisogna ammettere che il Biondo anche dopo la pubblicazione continuasse a ritoccare l’opera sua. Più strana è la contraddizione con un’altra lettera del Biondo al Bracelli, nella quale è scritto : in promptu tibi esse dicis gestarum a populo Getinensi rerum notitiam ab anno Christi undecies centeno ad quintum usque quaterdeciesque centenum. Qui evidentemente si allude agli Annali dello Stella dal 1100 al 1405. Ma la lettera (1) Fr. Barbari, Epistol., ed. Quirini, p. }o6. GIORNALE LIGUSTICO 3OI del Biondo, veduta dal Masius (p. 35), ha la data 18 decembre 1449. Ci dev’essere errore nell’anno, perchè queste trattative fra il Biondo e il Bracelli cadono nel 1454. Alla lettera 22 aprile 1448 del doge Giano Fregoso al Biondo , recata dal Braggio a pag. 26 , se ne aggiunge qui un’ altra, pure di Giano e dello stesso anno (1). Spectabili amico nostro carissimo, domino Biondo Forliviensi, apostolico secretario. Etsi tardius, quam pro voluntate nostra fuisset, spectabilis amice noster, redditae nobis sint litterae vestrae, quas sub decimonono novembris mensis ad nos scripsistis, gratissimae tamen nobis fuerunt, cum omnia in eis essent et amoris et prudentiae plena. Non est ignotus diu nobis sensus vester, et quo animo ac fide nobis ac rebus nostris affecti estis longe experti sumus. Idque inter cetera fortunae nostrae munera semper computavimus, quod vos amicum habeamus, existimantes nihil humanae vitae magis conducere quam bonos amicos habere; eos presertim, qui, ut vos, tales esse et velint et sciant. Successus nostros dominus Deus secundavit, boni animi nostri non ignarus; nosque ipsi nobis non defuimus et imperium bonis artibus partum, melioribus etiam, si fieri poterit, retinebimus, ita ut 111 patriam pietatem, in amicos benevolentiam, in socios fidem, in subditos iustitiam servare videamur. Patriae enim pater et libertatis defensor non minus esse quam appellari volumus. Haec omnia cum a consiliis vestris non differant, imperii nostri fundamenta delegimus. Pleraque tempore nostro Reipublicae Ianuensi restituimus diu non possessa ; eodemque facto novissime contra Finarii tyrannum iusta arma movimus ; et expugnata iam arce Castelfranchi in burgum Finarii tormenta convertimus, brevi, nec sine ratione, sperantes victoria potiri posse, licet Galli ad opem ei ferendam parare se videantur. Is quidem locus erat, qui, riparias nostras intermedius, plerumque Rempublicam nostram perturbare consueverat, indomita et diuturna tyrannide efferatus. Post haec, nisi fuerimus lacessiti, stabili pace honestoque otio imperium administrabimus, consiliorum vestrorum non inmemores; habebitis nos pari in vos benevolentia semper affectum. Data die VIII Ianuarii 1448. Ianus etc. dux etc. (i) R. Arch. di Genova. Reg. Litter. 1426-1503, n. 829. 302 GIORNALE LIGUSTICO FERDINANDO SPAGNOLO. Il Braggio a pag. 118-121 parla di un giovane spagnolo, di nome Ferdinando, disputatore arguto, il quale faceva il giro delle corti, dando saggio dei suoi talenti, e nel giugno del 1446 capitò anche a Genova. Di lui dà estesa relazione il Bracelli in una sua lettera. In un’altra dello stesso anno e mese il Cassarino racconta di un barbaretto, barbasculus , straniero, che faceva andare con le sue dispute in visibilio i Genovesi: gli sciocchi però, non lui, il quale getta sul barbasculus tutto il suo disprezzo. Il Braggio esita a identificare il personaggio della lettera del Bracelli con quello della lettera del Cassarino; ma è tutt’uno senza dubbio. Reco qui sotto il testo della lettera del Cassarino, trasmessami dallo stesso Braggio. Il rex ivi nominato è Alfonso di Napoli, presso cui il Curio, al quale la lettera è indirizzata, doveva essere andato per un’ ambasceria. Il barbasculus era stato anche a Napoli, ma non vi avea fatto fortuna. Il re Alfonso era spagnolo, come il disputatore girovago; e siccome sapeva barbari gli Spagnoli, così non gli volle dar retta. Ciò ho voluto avvertire , per identificare il nostro Ferdinando con quel tale Ferdinando di cui parla il Valla in una sua lettera (1). Combina la nazionalità: tutti due spagnoli; combina il nome, Ferdinando; combina l’età: tutti due sono sui vent’anni circa. Quello che fa meraviglia è Γ entusiasmo con cui ne parla il Valla. Ecco dunque la lettera : Antonius Cassarinus Iacobo Curio, viro liberalissimo, Genuensi cancellario s. p. d. Nonne dolore vel misericordia potius, Iacobe suavissime, dignum est plerosque ex nostris tam inique de se ac civibus suis sentire, ut nihil (1) Epistolae principwn, Venetis, 1574, p. 362. GIORNALE LIGUSTICO 3°3 apud se sit, placere his quod possit, tantoque et tara insolenti esse domesticarum rerum fastidio, ut non possint, nisi externa aut peregrina quae sunt, laudare, et, si quid praeclarum habent, non tam id admiratione dignum putent quam, si quid est aut novum aut peregrinum , perinde magnum aliquid apud alios potius natum gaudent? Cratylus ille, seu quivis alius, apud Lacedaemonem cum in tricentorum numero ascriptus non esset, gaudens atque exultans domum revertebatur; et cum ab eo quaereietur an, cum repulsam passus esset, tanto gestiret gaudio, laetus sum, ait, si patria mea tricentos habet, quam ego sim, meliores. Vir ille sapiens et patria caritate flagrans praelatos sibi tot cives gavisus est. Nos tanta hoc tempore sumus inconsiderantia , tam iniqui in nos iudices , ut non modo de nostris male sentiamus, sed perverse ac maligne externis ac novis postponamus, et tanta veri cognoscendi inscitia nos detinet, ut sola placeant quae nescimus et consueta quae sunt repudiemus. Itaque fit ut publicorum malorum causas interdum mirari desinam , cum tam male inter se homines conveniant, et Platoni vehementer assentiar, qui civitates tunc pessime se habere dicit, cum omnes cives alicuius civis incommodum ad se pertinere non existimant. Idcirco te laudare satis non possum, qui non modo, cum apud regem potentissimum magno et fructu et honore posses manere, malueris operam tuam patriae praestare, sed quod solus hoc tempore mihi visus es, qui patriam caritatem retinueris, qui pro eius laude et decore certaris, nec, ut Plato ait, insanienti populo similia decantaris.^Nam qui urbis suae ac civium dedecus ad se pertinere non existimat, non modo civis est improbus, sed mente et sensu parum constans. Venit, ut nosti, barbasculus ille homo non minore insolentia quam insania , sine litteris sine lepore atque adeo sine sensu , tanta impudentia quantam omni hominum generi esse non credam , qui cum insania sua multitudinem imperitam convocasset et nescio quos caelos aut elementa blacteraret et quae miracula conficta streperet, a plerisque nostrum consalutatus est ; et cum se in tot flexus ageret et, ut Marsyas ille, in fluvium vertere et exundantem loquaciam , non defuerunt e nostris nec desunt , qui hanc insaniam vocare sapientiam non dubitent; et barbarum hominem et incultum latinos homines demirari non pudet, qui linguae volubilitatem et verborum examen praeclarum quid putant, cum nihil insaniae sit propius. Adhibitus est, ut scis, ab amico nostro in convivium. Ibi homo omnium insulsissimus, ut qui nec temporis nec loci aut hominum rationem haberet sed qui oblatrare tantum quaereret, coepit apud quosdam de situ stella- 304 GIORNALE LIGUSTICO rum et anima disputare, postremo iudaicas litteras iactare, ut facile appareat has prius quam latinas didicisse. Eiusmodi ego absurditates cum viderem et intempestivam loquacitatem et enostris plerosque quasi attonitos et solum quae non intelligunt demirantes , malui silentium sequi quam tantae me intemperantiae committere, ut iniocundius convivium nunquam viderim et merito illud dixerim: « esse cibo haud poterit nihil unquam ingratius isto » ; et dehinc me inculpant cives nostri, quod tacuerim ; et me ex silentio, invidum , illum ex multitudine verborum doctum putant. Sed quam parum sapiant, vide , si credunt qui plura loquantur doctiores. Hominem ego hunc si ad litteras devocabo aut si aculeos illos litterarum excitare voluero, gravius sibi, ut vides, propositum erit certamen, in quo multitudo illa iuvare illum non poterit. Sed de me sileo, ad illum redeo. Audivi saepe mulieres gravidas diutius fuisse et, cum exacti menses adessent, ventum solitas parere; ita de barbasculo isto plane accidit, ut vento et verbis solum tumeat. Haecne fierent, Iacobe mi, « si testiculi vena ulla paterni viveret in nobis », (Pers. 1, 103) ut barbarum atque imperitum admiraremur et ut has intemperies non modo non insectaremur sed modestiae et continentiae nostrorum anteferremus? Rex, ut nosti, catus homo, suae gentis hominem ferre noluit quia, praeter nostros, omnes inscios et barbaros vocat. Nostri cives tam male de bonis artibus merentur, ut insaniam non modo nullo convitio, sed praemio insuper dignam iudicent, nec ob aliud, nisi quod quid ille dicat non intelligunt, tamquam magnum quid ille afferat mirentur. Itaque te et viitutem tuam laudo, qui, cum ceteri patriae laudis obliviscerentur , eius tu solus memor fueris et cum domesticum alii decus oppugnarent, pene solus inventus es qui fortiter illud tutari non dubitaveris, et cum ceteri, ut dixi, pene insanirent et prave atque inscienter iudicarent, urbis tuae honestatem defenderis. Non sunt pro patria certamina fugienda, nec offensiones formidandae. Veniet, mihi crede, tempus ac dies, in quo nebulonis ac praestigiatoris illius insania detegetur, et furor et turpitudo palam fiet omnibus. Tunc omnis ista imperitorum multitudo , quae nihil certi , nihil iudicati habet, se et iudicium suum , quemadmodum in omnibus antehac fecit, et culpabit et damnabit, teque non modo virum doctum sed patriae amantem recteque sentientem iudi-cabit. De me autem utinam eiusmodi ille esset, in quo aliqua appareret litterarum peritia; efficerem ut intelligeret non eandem rationem esse et multitudini et doctis velle probari. Sed non usque quaque efficiet temperare mihi ut possim, quin homini tam importuno aliquando ostendam GIORNALE LIGUSTICO 305 potius sibi fuisse, si maluisset silentium sequi, quam urbem hanc contemptui et ludibrio habere. Vale. Genuae, III.0 idus Iunii 1446. L Ili vio del Petrarca. A pag. 143, nota 2, il Braggio dà notizie sul Livio del Petrarca. Quel codice passò ai Fregoso e andò da ultimo a finire nella Biblioteca Nazionale di Parigi, dov’ è tuttora. Al Braggio sono sfuggiti i documenti da me pubblicati (1), dai quali risulta come in Milano si sperava nel 1437 , contando sui torbidi di Genova, di venire in possesso del Livio dei Fregoso. Il codice passò a Napoli dove lo vide il Valla (2). Pare dunque erroneo quello che dice il Braggio, cioè che il codice durò nella casa Fregoso sino al secolo XVI. Antonio Cassarino. A pag. 22 il Braggio parla del Cassarino e della sua morte. La morte è posta comunemente nell’ anno 1444. Il Braggio accetta questa data, nonostante che avesse tra mano la lettera sopra citata del Cassarino, la quale è del 1446. Effettivamente l’anno 1444 è sbagliato, come io ho dimostrato nella Biografia docmwitata di Giovanni Aurispa (3), dove mi intrattenni alquanto sul Cassarino. La cronologia degli ultimi anni del Cassarino resta così fissata: nel 1435 andò da Genova a Costantinopoli; tornò a Genova nel 1438 e ivi morì nel 1447. Zanino Fticci. Quel Zanino Ricci, a cui accenna il Braggio a pag. 10, era nel circolo politico e letterario di Milano un personaggio (1) Museo italiano di antichità classica, III, pag. 412-420. (2) Ibid. pag. 412. (3) Noto 1891, pag. 170-173. Giork. Ligustico. Anno XVIII. 20 30 6 GIORNALE LIGUSTICO di una certa entità. Suo fratello Antonio, abate , reggeva la chiesa di S. Ambrogio. Sino almeno dal 1422 Zanino occupava un posto di segretario presso il Visconti e il suo nome si incontra spesso nei documenti dell’Osio (1). L’ultimo documento che lo riguarda è del gennaio 1428; e in effetto Zanino morì nei primi mesi del 1428. Corrispondeva con Gasparino Barzizza, che scrisse una consolatoria nella circostanza della sua morte (2). Su altre sue relazioni con gli umanisti dà informazioni la mia Cronologia della vita del Panormita e del Valla (3). Le lettere di Seneca a Paolo. A pag. 174 accennando a queste lettere il Braggio soggiunge: « e allora chi non avevaie per autentiche »? La epistola del Bracelli, in cui sono citate le lettere di Seneca a Paolo, è del 1448 (p. 289). Molti anni prima il Valla avea composto un opuscolo per dimostrare che quelle lettere erano apocrife; l’opuscolo è da esso così ricordato nelle sue Adno-tationes in Raudensem (4): « de ementitis ad Paulum epistolis et Pauli ad eum (Senecam) alio opere disputavimus. Le Adnotationes furono scritte nel 1442 (5). Del resto all’autenticità di quelle lettere non si credeva nemmeno a Ferrara dal circolo di Guarino (6). Remigio Sabbadini. (1) Osio, 11, p. 104, 107, 117, 119, 120-123, 129, 133, 150, 151, 156, 242, 243, 284, 290, 296, 324-325, 353. (2) Barzizii Gasparini et Guiniforti, Opera, p. 57; 214. (3) Pag. 30, 35, 37, 38. (4) Edizione di Colonia 1522, pag. 49. (5) R. Sabbadini, Cronologia della vita del Panormita e del Valla, p. 146. (6) Angeli Decembrii, Politia literaria, pag. 57. GIORNALE LIGUSTICO 307 GÊNES SAUVÉE. L’assedio del 1800 ispirò anche le muse. Non solo le nostre — come con la sua invidiabile genialità dimostrò L. T. Belgrano nelle « Imbreviature di Giovanni Scriba » — ma ancora la bolsa epica francese del periodo imperiale, pro-vantesi a seguire affannosamente col verso slombato le vittorie napoleoniche. Musa pedestre davvero, male in arnese o miseramente rimpannucciata di roba altrui quella del signor C. M. Morin, commissario di guerra nella « grande armée »; ma va tenuto conto della buona intenzione, e poiché l’autore prende le mosse dal virgiliano .......quaeque ipse miserrima vidi Et quorum pars magna fui..... può esser interessante vedere come abbia saputo tradurre in verso le proprie impressioni intorno al memorando fatto. Il poema usci a Parigi nel 1809, coi tipi di Giguet e Mi-chaud, col titolo : « Gênes sauvée ou le passage du Mont St. Bernard. Poème en IV chants avec des notes historiques par C. M. Morin ». Nella prefazione l’autore si presenta al' pubblico. Entrato giovane nell’ amministrazione militare, durante le discordie civili — di rivoluzione non si parla ormai più — ebbe agio di conoscere da vicino parecchi dei migliori generali, di assistere a molti fatti d’ armi. Lontano dagli uomini che ha conosciuto ai tempi del blocco di Genova, ma legato ancora con loro dal ricordo dei benefìzi ricevuti — leggi tra le righe desideroso di ingraziarsi Massena — protesta di non voler narrare se non i fatti di cui fu testimonio oculare. Dove la memoria gli farà difetto, ricorrerà al Thiébault, e veramente è questa la sua fonte princi- 3o8 GIORNALE LIGUSTICO pale ; spesso il Morin non sembra far altro che mettere in brutti versi la prosa efficace del primo storico dell’assedio. S’il faut remplir les voeux d’un ame impatiente Et céder aux transports de ta muse brûlante, Consacré par l’histoire et plein de majesté. D’un sujet éclatant recherche l’unité. De Gènes la superbe en ses malheurs plus fière Peins les derniers efforts, l’attitude guerrière : Ses murs, ses ports, ses mers et les mont sourcilleux (sic), Tout y rappelle encor mille exploits glorieux. Transmets à l’avenir ce siège mémorable, Dis la gloire du chef, sa constance admirable, Le maux des citoyens, les travaux des soldats Tous par la faim, le feu dévoués au trépas. Cosi la gloria , apparsa alla mente agitata del poeta, lo spinge a cantare di Genova nel 1800, ma prima d’arrivarci che giri ! Per poco non abbiamo una vera biografia di Mas-sena, che finalmente viene a prendere il comando dell’ esercito francese in Liguria. Ve lo attende un triste spettacolo. L’ esercito disordinato, disobbediente ai suoi capi, travagliato dalle malattie ed affranto dalle privazioni, accorre incontro al suo nuovo duce, che giunge preceduto dalla fama delle * sue vittorie, del suo valore, della sua giustizia. I soldati gli si affollano intorno — rotta ogni disciplina — ed un prode veterano « accablé par les ans, moins que par la souffrance », gli espone i bisogni, le speranze dei compagni. Il Massena, che in principio ha fatto il viso arcigno e rampognato severamente i soldati, si piega a più miti consigli e con un discorso paterno eccita 1’ entusiasmo dei suoi, che ritornano volonterosi tra le file. Il resto del primo canto è Thiébault verseggiato. Basti riferire gli argomenti : « attaque précipitée de l’ennemi — il coupe la ligne de l’armée française a Savone — la flotte GIORNALE LIGUSTICO 309 anglaise intercepte les communications — le blocus de Gênes est déterminé ». Nel principio del secondo assistiamo ad un consiglio di guerra presieduto da Massena. Questi esponendo i suoi piani, fa una lunga descrizione di Genova e suoi dintorni. È la nota descrizione tolta àùYEssai historique et politique de l’état de Gênes, copiata per primo da Thiébault, poi dal Petracchi, dal Graberg, da tutti insomma gli storici di quel periodo. Je contemple ces monts clefs de la Ligurie, dice Massena, Sur eux notre défense et s’étend et s’appuie, Je découvre au levant ces rochers orgueilleux Qui gardent le Bisagne en son cours tortueux, ecc. e più sotto con quei ridicoli travestimenti di parole dovuti alla rima: L’ennemi l’a forcé: déjà cernant Gavi 11 marche sur Calvo, se porte sur Jovi ; oppure : Il commande Savone, occupe Albissola, Nos braves repoussés ont délaissé Stella. Nel primo e secondo canto 1’ elemento fantastico ha .ben poca parte : col terzo Γ autore si allontana un po’ più dal Thiébault e, riprendendo il motivo epico tradizionale, ci presenta Massena, agitato nel sonno da tristi presentimenti sulla sorte futura dell’ esercito e della città. Dio manda a confortarlo Γ ombra d’ un guerriero , dal venerando aspetto , mo- s jio GIORNALE LIGUSTICO strame le cicatrici delle ferite, riportate in guerra, È il prode Dugommier, sotto al quale nei primi fatti della guerra delle Alpi e all’ assedio di Tolone Massena ha compiuto le sue prime gesta. Dugommier coll’ autorità che gli viene dal nome e dall’affetto quasi paterno per Massena, conforta il valoroso comandante di Genova vaticinando prossimo 1’ arrivo di un esercito numeroso a soccorrerlo. Crée par le génie un armement immense Loin de vous en secret part du sein de la France; Des glaciers de la Suisse il franchit les remparts : Sous vos murs redoutés, ceints de leurs boulevards Si l’armée ennemie est toujours engagée L’Italie est conquise et la France vengée. Rincorato dalla fortunata apparizione, Massena annunzia all’ esercito ed alla cittadinanza genovese il prossimo sopraggiungere di un esercito liberatore, ma intanto gli occorre un ultimo supremo sforzo. I cittadini mostrano allora desiderio di concorrere alla difesa della patria e molti di loro , condotti da un Ademaro, in cui il poeta ha voluto personificare i patrioti, chiedono a Massena di entrare tra le file francesi. Il generale li accoglie con entusiasmo e dando loro per capo lo stesso Ademaro, esclama : Volez sous mes drapeaux: je vous dois tous mes soins, Prévenant vos désirs, j’ai formé vos cohortes: Veillez sur vos remparts et protegez vos portes. Ademaro diventa l’Achille del poema, a Massena sembra riserbata la parte del magnanimo Agamennone. Nell’ infuriar della mischia Ademaro si trova di fronte « l’infame » Asseretto, il noto generale genovese, che sul principiare dell’assedio era passato nel campo nemico, lo sfida a singoiar tenzone ed in presenza dei due eserciti, che hanno sospeso per un GIORNALE LIGUSTICO 311 momento le ostilità, ha luogo il duello. Assereno — contro alla verità storica — muore, disprezzato da tutti. Son sang impur rougit ces retraites champêtres. L’ennemi qu’il servait (salaire affreux des traîtres) Accueille son trépas par des cris insultants Foule aux pieds des chevaux ses restes palpitants, Ces restes qui bientôt, tout couvert de souillures A l’hyène des bois serviront de pâture (H) A rappresentarci gli orrori della carestia è destinato nel principio del quarto ed ultimo canto l’episodio di Elvira, pasticcio alla Radcliffe, caratteristico dei tempi. Elvira, amante riamata d’ Ademaro, non ha potuto sposarlo per odi di famiglia, ma è stata costretta a detestate nozze. Stremata dalla fame e dalle sofferenze si risolve a venire a chieder soccorso non per sè, ma per Γinnocente suo bambino, ad Ademaro, sebbene questi falsamente informato, disprezzi Elvira. Il soccorso giunge troppo tardi, ma rifulge ad ogni modo Γ innocenza d’ Elvira e la generosità di Ademaro. Intanto che la fame e le malattie travagliano Γ infelice città, il generale, per placare la divinità, ordina un « pubblico sacrifìcio ». Mentre si sta celebrando, un «superbe guerrier», che è l’aiutante generale Reille, appare improvvisamente e fa sospendere la funzione, ed all’ esercito ed al popolo fa il racconto del passaggio del gran San Bernardo. Rinasce allora la speranza, e per quanto la fame tormenti ognuno ed ai mali della carestia si aggiungano gli orrori del bombardamento, par sempre più vicino il giorno della liberazione. Massena è costretto alla resa, ma in ogni modo trionfa il valore francese, e il vincitore di Marengo premia l’eroico difensore di Genova dandogli il comando degli eserciti d’Italia e di Genova riuniti. E con questo ha termine il poema. Pur essendo poca cosa in sè, meritava di essere rammentato il lavoro del Morin. Certo ha più che altro per scopo d’incensare col valoroso 312 GIORNALE LIGUSTICO Massena, allora duca di Rivoli, e tra poco principe di Essling, il grande Napoleone, e per questo non si eleva per nulla sopra al gran numero di componimenti poetici congeneri contemporanei; però a lettori liguri può, se non altro, sembrar curioso, poiché contribuisce ad illustrare una bellissima pagina di storia genovese. Giuseppe Roberti. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA R. Sabbadini ; Biografia documentata di Giovanni Aurispa. Noto, Fr. Zammit, 1891. Il Prof. Sabbadini, noto per altre ed importanti pubblicazioni intorno all’ umanesimo, ha portato di recente un nuovo prezioso contributo agli studi da lui prediletti con questo suo volume intorno all' Aurispa. Anche il pregievole lavoro del Voigt malamente soddisfaceva al desiderio degli studiosi, in questa parte come in altre, ne è da farne carico al dotto e benemerito straniero se in opera di mole ragguardevole non volle, 0 gli mancò il modo, di dilungarsi nella ricerca di molti particolari. Di opere speciali si aveva difetto, per non dire mancanza assoluta, sebbene, o per diritto o per traverso, parecchi abbiano parlato dell’Aurispa. Ma infine, pur sommando tutto, una vita intera sicura documentata di lui non usciva: vi ha provveduto ora il Sabbadini ed assai bene: non esito ad asserire che il suo lavoro sull’ umanista netino sarà considerato come capitale da tutti coloro che si occupano di queste ricerche. Che cosa 1’A. abbia inteso di fare è detto nell’avvertenza che precede : « Alla continuità biografica io ho rivolto sopra tutto i miei sforzi, fissando per 1’ una parte le date di quelle GIORNALE LIGUSTICO 3 13 lettere degli epistolari editi, le quali o furono scritte dal-1 Aurispa e all’ Aurispa o parlano di lui, e per Γ altra cercando lettere inedite nelle biblioteche italiane e documenti negli archivi...... E ho ottenuto soddisfacentemente il mio scopo, poiché dall’anno 1414 al 1460, in cui morì, io accompagno anno per anno Γ Aurispa ... Ho inoltre messo assai meglio in chiaro il principale aspetto dell’ Aurispa, la sua attività cioè nello scoprire e diffondere codici; cosi p. e. mi e riuscito di illustrare in modo inaspettato la parte da esso avuta nella scoperta e diffusione del commento di Donato a Terenzio ». Colla concisione di linguaggio che è segno della chiara coscienza del fine, è qui indicato che cosa P A. voleva e che cosa ha ottenuto. Non è poco, ne converrà il lettore. Quanto al metodo osservato nello scrivere il libro, esso fu subordinato del tutto allo scopo. I numerosi documenti cercati dal S. e scoperti in biblioteche estere e nazionali, dovevano innalzare pietra a pietra il laborioso edifizio : vennero quindi intercalati senz’altro nel testo e questo si propose di cementare e nulla più, nel suo rigoroso processo, la ricostruzione biografica. Ecco quindi un libro dove la personalità dell’autore è, per così dire, nulla; dove tutto ha la rigidezza e severità di una dimostrazione matematica. Metodo che senza dubbio ha i suoi pregi, quando dei molteplici elementi forniti dal tempo non si voglia tener conto per illustrarlo, quando avendo lo sguardo unicamente ed esclusivamente all’uomo, si voglia di proposito trascurare l’ambiente. Il S. ha probabilmente pensato tra sè e sè che lo storico del complesso movimento umanistico ha ancora a venire, che tarderà dell’ altro e che frattanto può giovare, anche a-scapito dell’ estetica, apparecchiare un buono e serio materiale con precisione scientifica. 314 GIORNALE LIGUSTICO Pur inclinando, per conto mio, al metodo opposto, non so dargli torto, tanto più allorché sono in presenza di uno scavo di prim’ ordine, condotto con mano cosi sicura e fortunata. Intorno all’ Aurispa ferve il lavoro dell umanesimo e ciascuno degli uomini più celebrati del tempo dice la sua parola. Segnatamente del Panormita v’ha buon numero di lettere finora inedite, che delineano meglio quella singolare figura di artista cortigiano, erudito ed epicureo, cui fa contrapposto un nobile passo di una lettera di Teodoro Gaza che gli studiosi dell’ epoca saranno certo grati al S. di avere pubblicata. Quell’ uomo che rifiuta i favori di Alfonso d Aragona, scusa l’indegno abbandono verso lui di papa Pio II e, cadente sotto il fascio degli anni, si compone, prima di morire, nella calma solenne della morte, nulla chiedendo più a coloro che non era più in grado di servire , è sublime di stoica virtù. Anche di uomini genovesi, o che cooperarono alla coltura genovese, parecchie sono le notizie ed importanti. In un giornale che si occupa specialmente di cose ligustiche è naturale che di essi si faccia particolare menzione. E prima di tutto godo che per via diversa dalla mia, ma pur concordante, il Sabbadini abbia stabilito 1’a. 1428 per l’arrivo dell’ arcivescovo di Milano, Bartolomeo Capra, a Genova, dove veniva come governatore; e che un passo del Muratori (Rer. hai. Script. XVII. p. i$oo) tagli la testa al toro, anche per la data precisa, che fu il 28 febbraio, come già aveva asserito il Bianconi (Lettere sopra Celso, p. 116, n. 9). Intorno a Bartolomeo Guasco, uno dei più curiosi e notevoli maestri vaganti del sec. XV, due lettere a lui dirette dall’ Aurispa porgono particolari che fanno risaltare meglio la stima onde godeva il nostro grammatico. Non discutiamo ora s’egli fosse genovese di nascita, o solo di elezione in seguito alla lunga dimora che fece in Liguria, ed alla protezione accordatagli dalla potente famiglia GIORNALE LIGUSTICO 315 Fregoso. La prima lettera tocca appunto di questi rapporti : P umanista siciliano fa le lodi di un Nicolò (forse il Fregoso di cui il Guasco era precettore), si felicita dell’annunciato viaggio di lui a Bologna dove allora dimorava P Aurispa, e gli offre nell’ occasione il suo piccolo alloggio. « Ea causa offero tibi in hac mea domo cellam unam nostris studiis aptissimam ». La lettera è del 1424. Più importante la seconda di alcuni anni posteriore, ossia più precisamente del 1431. E documento della vita attiva e diciamo anche della natura versatile del Guasco: negoziante in Sicilia, più tardi secretario di principi e in quell’anno maestro di grammatica. Citiamo: « Ego quidem cum multis coniecturis et rebus iamdiu animadverterim sapientiam tuam, nunc praesens vita tua eam opinionem maxime confirmat. Nam dum apud Siciliam, id enim fortuna suadebat, negotiator fuisti et quidem non obscurus, postea te ex secretis apud quosdam principes vidi et quidem clarum doctum : nunc vero te rhetorem et grammaticae praeceptorem audio, magna cum tua utilitate et summo honore. Quare, vir optime, persevera, nam pro tua natura et disciplina istas extremitates Italiae oratoria eloquentia complebis ». La lettera non indica dove il Guasco allora si vivesse, ma molto probabilmente si trovava a Genova. E le metamorfosi dell’ inquieto uomo non erano per anco finite, se è vero ciò cui per incidenza accenna il Bracciolini, ch’egli nella sua dimora in Corsica, tra il ’49 e il ’53, quando accompagnò colà Gian Galeazzo Fregoso, ci stesse con ufficio di podestà (1). Anche sul Cassarino si danno buone notizie. Il Sabbadini, valendosi di una lettera estratta dalla importante miscellanea Tioli, esistente nella biblioteca Universitaria di Bologna, ha (1) Spicilegium Romanum, Romae 1844, t. x. p. 366, n. 95, lett. di P. Bracciolini al Guasco. 5i6 GIORNALE LIGUSTICO potuto stabilire la data probabile della morte di lui in Genova nel 1447. A me ne aveva dato indizio il ms. Bracelliano che si trova nella nostra Civica biblioteca, e ne fui forviato da un passo del Filelfo che ebbi il torto di non bene considerare. Del che mi chiamo candidamente in colpa (1). La lettera riportata dal Sabbadini fornisce inoltre sul grammatico siciliano qualche utile particolare anteriore alla sua dimora in Liguria. Era vissuto nella metropoli bisantina quattro anni scarsi, non dieci, siccome errando scrivono gli storici della sua isola e nel 1438, di ritorno, era approdato a Venezia. Nel 1440 una lettera del Filelfo lo presuppone di già accasato nella città che fu sua ultima dimora. La parte dell’ appendice che riguarda il Curio è piuttosto scarsa : tuttavia per la vita dell’ elegante e colto copista, che passò i suoi anni migliori in corte degli Aragonesi, importa aver fissato approssimativamente Γ epoca del suo esodo da Genova. Ciò fu tra il '51 ed il '55. Va parimente ricordata una lettera dell’Aurispa a Tommaso Fregoso, illustre mecenate di tanti dotti genovesi e non genovesi, altra prova, se bisognasse, delle relazioni che 1’ umanista netino intrattenne numerose e cospicue con uomini liguri, e finalmente l’inventario dei codici di esso Aurispa che è di interesse assai più generale per la storia del sapere del secolo. Concludendo, il Prof. Sabbadini ha assunta e condotta a termine una fatica di cui gli saranno grati senza dubbio tutti gli studiosi del nostro umanesimo : la figura principale, per virtù de’ nuovi documenti ora prodotti, prende perfetto rilievo, ed anche le figure secondarie sono poste in miglior luce. C. Braggio. (1) Cir. G. Bracelli e l’Umanesimo dei Liguri, in Atti Soc. Lig. di St. Patria v. XXIII, p. 23. GIORNALE LIGUSTICO 317 « SPIGOLATURE E NOTIZIE Nell 'Archivio Storico Siciliano (a. 1890, p. p.) il prof. G. B. Siragusa pubblica una notevole monografia su Le imprese Angioine in Sicilia negli anni 1338-1341, con nuovi documenti; ed è fra questi una lettera dell’agosto I339> con cu' 'I re Pietro II di Aragona chiede aiuto di navi a Genova, per discacciare gli Angioini invasori. * * * La Rivista Italiana di Numismatica per l’anno corrente (pp. 128), contiene un secondo articolo di Ercole Gnecchi, il quale seguita a discorrere dei luigini di Tassarolo e di altre zecche liguri; e porge in ultimo la Bibliografia numismatica dei luigini italiani contraffatti a quelli di Dombes. * Nel tomo I, par. II, del Nuovo Archivio Veneto, il prof. Guido Bigoni pubblica: Un corrispondente napoletano di Francesco Apostoli, che il dottore Girolamo Tomich, nativo di Castelnuovo d’Albania. L’Apostoli, veneziano, e ben definito dal Bigoni come « tipo notevole tra la folla di venturieri letterati che sorse nel secolo XVIII », esercitò dal 1790 al 1794 1’ ufficio di confidente degli Inquisitori di Stato di Venezia, « quando, sospettato non solo di poco zelo, nell’ esercizio delle sue funzioni , ma di colpevoli corrispondenze col Tilly, console della Repubblica francese a Genova, il 5 luglio 1794 gl’inquisitori... lo condannarono a due anni di relegazione a Corfu ». La sentenza del magistrato rileva tra l’altro, e si duole, che le corrispondenze dell’Apostoli col suddetto ministro di Francia erano « avanzate a tal grado, che una lettera di esso Apostoli qualificante un individuo francese per buon patriota, si reputasse d’ egual valore....... di un attestato di civismo dell’ incaricato d’affari (francese a Venezia) Giacobi ». * * * Nel fase. XIII degli Indici e Cataloghi pubblicati a cura del Ministero della Istruzione, sotto il n. XLVI si descrive un codice della Legenda aurea di Iacopo da Voragine, posseduto dalla Biblioteca Nazionale di Milano. Il codice, molto ben conservato, e che fu già dell’ antica Biblioteca di Brera, porta questa soscrizione finale: Reuerendifratris lacobi de auoragine de legendis sanctorum opus perutile hic finem habet scriptum per me Zenonem de pegoraris anno ab incarnatione domini 1493 die XI septembris. « Il co- 3ι8 GIORNALE LIGUSTICO dice (soggiungevil suo descrittore F. Carta) è adorno di un principio il quale consiste in un leggiadro incornìciamento e in un’ iniziale istoriata. Nel mezzo del lato inferiore del fregio , che corre pei margini e che si compone di fogliami, fiorami, pallottoline di colore e tratti a penna , si vede, dentro una corona di lauro, uno stemma che porta - d’oro a una banda di rosso caricato di tre stelle d’oro. La storia chiusa nell’iniziale U di Universum tempus etc., rappresenta Maria Vergine col bambino Gesù in atto di accogliere benignamente un dignitario ecclesiastico , 1’ ordinatore del lavoro, che le viene presentato da saut’Ambrogio, che ha lo staffile legato alla mano sinistra e nella destra il pastorale. Questa miniatura, bella ma un po’guasta, è opera di ignoto artista lombardo, se pure non è del medesimo scrittore Zenone Pegorari, che però non consta positivamente fosse miniatore ». * * * In una appendice di Documenti inediti su alcuni miniatori... che operarono in Lombardia, lo stesso Carta produce sotto il η. XVI un rogito di Pietro Maria de Grassis fatto nella Certosa di Pavia il 6 maggio 1567, al quale interviene come testimonio : Dominus Octauius de Siminis, filius quondam D. Antonii, habitans in loco turris del Mangano campanee suprane Papié. E commenta « Ottavio Semini è il noto pittore genovese al quale appartengono i freschi del palazzo Marino in Milano. Al fratello Andrea, che tanto operò nella Certosa di Pavia, si riferisce un altro documento inedito, esistente nell’Archivio notarile di Milano, dal quale si rileva che egli ricevette dal Procuratore della Certosa 26 scudi d’ oro d’Italia in pagamento omnium picturarum factarum ab hodie retro (cioè fino al IO dicembre 1566) per dictum D. Andream tam in ecclesia prefacti monasterii supra fatiatam a parte interiore ipsius ecclesie, ubi est picta Ascensio beatissime Virginis Marie et due Sibille, quam in refetorio et procuraria et aliis locis ipsius Monasterii; nec non expensarum factarum tam per dictum D. Andream quam per alios duos pictores Ianuenses in itinere, veniendo ad dictum monasterium nostrum et redeundo ad dictam civitatem Ianue, qui duo pictores venierunt in adiutorium ipsius domini Andree ». BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Alessandro d’Ancona, Origini del Teatro italiano, libri tre con due Appendici. Torino, Loescher, 1891. Dire della bontà intrinseca e dell’ importanza di quest’ opera fonda-mentale della nostra letteratura drammatica, riesce per lo meno superfluo, dopo il giudizio concorde, e universalmente accettato, dei dotti italiani e stranieri. Ed una delle prove, davvero singolare fra noi in codesta ragione di lavori, si è 1’ aver veduta esaurita la prima edizione, tanto da esser diventata assai rara, e posta ben spesso tra i desiderata dei librai. GIORNALE LIGUSTICO 319 Fu dunque ottimo pensiero quello di procurarne una seconda stampa, la quale dovesse recare tutte quelle giunte e quegli accrescimenti domandati dagli studi, e dalle varie pubblicazioni uscite in luce dal 1877 in poi, ritoccando sagacemente qua e là anche l’esposizione, dove era consigliato dalla chiarezza e dalla semplicità. L’ opera non ha subito davvero alterazione, nè cambiato fìsonomia, poiché in generale rimangono fermi i principi e i criteri posti od illustrati dall’ autore ; la qual cosa prova una volta di più la eccellenza del lavoro, frutto di lunghe ricerche e di studi maturi. Senonchè una bella serie di nuovi fatti e di documenti vengono qui a dar maggior peso alle affermazioni ed ai criteri stabiliti, portando eziandio assai lume allo svolgimento della letteratura drammatica, ed alle costumanze de’secoli passati. L’autore ha saputo, con quella maestria che gli è famigliare, giovarsi dell’ ampio materiale, introducendo nel testo tutte quelle giunte, le quali avevano vera e propria importanza, senza trascurare una quantità di accenni di minor momento, onde s’impinguano opportunamente le note, che si palesano perciò sempre più notevoli per apparato critico e bibliografico. Anche la modificazione apportata nella divisione della materia di tutta l’opera torna utilissima. Mentre si aveva innanzi l’intera esposizione partita in quarantadue capitoli tutti di seguito, ora si hanno tre distinti libri, ne’ quali però non viene turbato nè 1’ ordine nè il numero dei capitoli, ma gli argomenti trattati in quelle tre parti si presentano meglio definiti e determinati. Due appendici chiudono l’opera. La prima discorre della rappresentazione drammatica del contado toscano, e si trovava anche nella prima edizione , sebbene qui sia pur essa accresciuta; 1’ altra riguarda il teatro mantovano nel secolo xvi. Questa importante monografia venne da prima pubblicata nel Giornale storico della Letteratura italiana, e ricomparisce qui in luogo acconcio ed opportuno aumentata di parecchie notizie e di nuovi documenti. Cosi la trattazione principale riceve suo compimento, potendosi ben dire che le vicende del teatro mantovano sono tanto notevoli nel periodo indicato, da considerarsi di singolare importanza per lo svolgimento della drammatica italiana. Vogliamo notare a nostro scopo la notizia di una rappresentazione fatta a Genova nel 1490, e desunta da due lettere conservate nell’Archivio di Milano, l’una del protonotario Stanga al Duca, l’altra la risposta. « Lunedi sul tardi » scrive il protonotario da Genova, 24 febbraio, « messer Zoanne Adorno, fece una farsa de doj peregrini, li erano lui et Bernardino Adorno, in forma de todeschie, cum quattro famiglie, cum abiti de raso, foderati de veluto verde cum molte gioie et perle de granda valuta a la testa e a le calce, et cum loro erano quatro cantori cum turche de raso creme-sile, quali a la presentia del signor Conte et del magnifico Governatore et de molti altri, cantarono l’inclusi versi, deli quali m’è parso darne aviso all’ Ex. V., maxime essendo pregato da messer Zoanne predicto, quale me ne ha fatto grande instantia ». 320 GIORNALE LIGUSTICO Il duca risponde : « Havemo veduto li versi de la farsa facta da messer Johanne Adorno, per li quali ne è declarata la qualità dela farsa, et cum quale nobiltà de ingenio et signo de amore verso noi, messer Jhoanne si sia mostro. Haveti facto prudentemente ad darne aviso de epsa, perchè non ne povressimo avere ricevuto maiore piacere. Però che li versi sono de quantità, che in qualunche cosa fosseno facti, havrieno propria et par-ticular causa de piacere, et el subiecto è stato sì nobile et cum si espresso segno de riconoscere l’amore quale portamo al Governatore et a lui, che veramente ne deve essere gratissimo. N'e laudereti adunche messer Johanne in specialità, quanto più povreti, dicendoli che ad el piacere , quale ne havemo ricevuto, niente altro li mancava, se non che havessemo veduto fare la representazione cum el recitare li versi i>. Il « Bacco in Toscana » di Francesco Redi e la poesia ditirambica, con ..... del medesimo, saggio di Gaetano Imbert. Città di Questo studio è fatto con molto giudizio e con piena cognizione del soggetto ; ha pregio altresi della novità, poiché viene per il primo a trattare l’argomento con ampiezza di materiali e con larghe vedute. Precede una introduzione, nella quale si toccano i punti principali che devono poi ricevere illustrazione e svolgimento. Nel primo capitolo si discorre dei ditirambi e delle poesie bacchiche scritte prima del Redi, rilevando ne’ primi le tre forme, l’anacreontica, la mostruosa e la giocosa; nelle seconde, quali maniere abbiano seguito i poeti del secolo XV al Chiabrera ed al Malatesti, donde il Redi certamente attinse, rifacendosi, come del resto molti de’ contemporanei, al celebre savonese. Il capitolo secondo è specialmente dedicato al Bacco in Toscana, del quale si studiano prima i manoscritti, si riproduce poi il ditirambo nella sua lezione critica, e si pongono in fine le indicazioni delle stampe. Di qui si passa a dire in singoiar modo della composizione del Bacco, in qual guisa ebbe suoi principi nella mente dell’ autore, come si andò svolgendo e venne poi ad assumere l’atteggiamento e il contenuto che gli è rimasto. Poesia dettata in forma lepida e scherzevole, con evidente intenzione letteraria. Nel terzo capitolo si parla della poesia ditirambica dopo il Redi. La materia assai ampia richiedeva una razionale partizione ; onde l’autore ha innanzi tenuto discorso degli imitatori del Bacco, de’ novatori più o meno felici e degli scrittori dialettali, con utili confronti ed anche osservazioni. Le conclusioni logiche che si possono trarre da questo studio, vengono riassume sinceramente e con lucidità dall’ autore nella conclusione. L’ appendice reca una serie notevole di rime inedite del Redi. Rileviamo (p. 84) che il Redi era in corrispondenza con a un tale Anfrano Franzoni 0 genovese. Egli è quell’Anfrano Mattia, che ebbe càr-teggio anche con Carlo Dati (cfr. Propugnatore, 1876, vol. IX), e del quale si trovano notizie nell’Aprosio, Biblioteca Aprosiana, Bologna 1673, p. 401, nel Leti, Italia regnante, Genova, 1676, IV 347, e nel Corazzini, Memorie della famiglia Frontoni, Firenze 1873, Pag· 59· Pascluale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 32I VITA DI GUARINO VERONESE (Continuaz. v. pag. ζ>ι) 249. L’ accoglienza di Guarino deve essere stata soddisfacente, perchè il Valla la ricorda con una certa compiacenza. Noi del resto sappiamo che Guarino professava verace stima al Valla, a cui più tardi lodò le Elegante con quelle parole, che il Valla ripeteva non senza orgoglio: Laurenti laurea et Valla vallari corona ornandus es. E quest’ amicizia reciproca fu cementata da Girolamo Guarini, quando andò nel 1443 a Napoli al servizio di re Alfonso, raccomandato al Valla. Si capisce che quella visita a Ferrara sia stata sentita con dispiacere a Roma dal circolo del Poggio, del Loschi, del Rustici, tutti nemici del Valla. A Roma anzi dicevano che tra il Valla e Guarino si era un poco mormorato del circolo romano e che Guarino erasi mostrato freddo verso il Valla: voci nate, come è facile spiegare, dalla gelosia e in parte anche da una erronea relazione che di quell’ incontro mandò a Roma ad Antonio Loschi il figlio Niccolò, il quale allora studiava sotto Guarino a Ferrara. 250. In questo tempo Guarino oltre che per la sua fama di dotto e venerato maestro, correva sulle bocche dei Pavesi e dei xMilanesi per una polemica, che gli venne sollevata contro da Pier Candido Decembrio. La cagione più che letteraria era politica. L’ orazione di Guarino in lode del conte di Carmagnola, composta nel principio del 1428, si era divulgata per tutta la Venezia e la Lombardia, suscitando Giorn. Ligustico. Anno XVIII. 21 GIORNALE LIGUSTICO sentimenti molto diversi, giacché i Veneziani si compiacevano di quegli elogi prodigati al loro gran generale, il vincitor di Maclodio, e i Milanesi se ne rodevano, scorgendo elevato alle stelle il disertore del Visconti. Quando Guarino passò a Ferrara, gli amici di Pavia e di Milano facevano a gara peravere, col mezzo del Panormita, copia di quell’orazione. L’ ebbe anche Cambio Zambeccari e da lui Pier Candido Decembrio. Allo Zambeccari, il cospiratore bolognese, che non si preoccupava della questione politica , Γ orazione piaceva; ma non piacque al Decembrio, attaccato al partito ducale, tanto più che giusto allora, nel 143 1, si erano riaccese le ostilità fra Venezia e Milano. E giusto allora sentivano a Milano la mancanza del Carmagnola, sicché il Decembrio non potè soffrire di sentirlo tanto lodato nel discorso di Guarino. Intraprese dunque una confutazione di esso, indirizzandola, non so quanto opportunamente, allo Zambeccari. 251. La confutazione, pedantesca, minuziosa, aggressiva, procede passo passo col testo di Guarino, verso cui è talvolta molto acre e in generale poco rispettosa. Nè l’orazione di Guarino ci perdette, bensì ci guadagnò, perchè la confutazione la rese più ricercata e dell’ una e dell’ altra si moltiplicavano gli esemplari. Guarino seguendo il suo costume non se ne dette per inteso, ma ci fu chi pensò di prender le sue difese: il Panormita. Egli infatti ribattè gli argomenti del Decembrio, ritorcendogli contro i propri colpi, e tessè 1’ apologia di Guarino. E il Decembrio non si diede vinto, ma replicò, lanciando una invettiva contro Guarino e il suo apologista. La questione però non ebbe altro seguito, poiché dietro consiglio del Panormita stesso Guarino poscia, non si sa se con una lettera o con dei versi, disse le lodi del Visconti, per mostrare che nelle lodi del Carmagnola non c’ era entrata la partigianeria. Ciò del resto dovea corrispondere anche agli intendimenti del marchese Niccolò, la cui po- GIORNALE LIGUSTICO 323 litica era conciliativa e il quale non voleva dar motivi di disgusto a nessuno dei suoi vicini. 252. Partito da Pavia il Panormita, i legami di Guarino col circolo lombardo si rallentarono molto, anche perchè il movimento intellettuale si andava trasportando sempre più da Pavia a Milano e quindi allontanavasi dal centro di attività, dove operava Guarino. Il Panormita lasciò Pavia nel pi incipio del 143J e andò a Palermo, sua patria. Ivi si fermò poco tempo, dopo di che si imbarcò a Messina nell’aprile dell anno stesso con Alfonso di Aragona e si diresse alla volta di Gaeta. D’allora in poi egli fu attratto nell’ orbita del re Alfonso e le sue relazioni con ΓAlta Italia e con Guarino diventarono più rare. Anzi a Guarino nella partenza cagionò un grave dispiacere. 253. Guarino nel 1433 circa gli aveva prestato la propria copia delle nuove dodici commedie di Plauto del codice Orsi-niano, la quale il Panormita si portò seco a Palermo. Quando di là si trasferì a Gaeta, egli vi lasciò una parte de’ suoi codici e tra essi il Guariniano. Guarino avendo inteso della partenza del Panormita e come si era portato via il proprio codice, se ne accorò profondamente e scrisse a parecchi amici pavesi, i quali gli confermarono che il Panormita non sarebbe più tornato. Per allora Guarino dovette mettersi 1’ animo in pace. Quando poi nel 1442 Alfonso d’Aragona entrò vincitore in Napoli, allora si diresse a lui con lettera, pregandolo di ottenergli dal Panormita la restituzione del codice Plautino: invano. Si rivolse direttamente al Panormita: invano; nuovamente al re Alfonso: sempre invano. Gli fu forza aspettare l’anno 1444, in cui il Panormita fece una corsa a Palermo. In quell’ occasione riprese i suoi codici, tra i quali il Plautino e lo rimandò a Guarino nei primi mesi del 1445. GIORNALE LIGUSTICO 254. Quanto penò ora Guarino a riavere il suo apografo di Plauto, altrettanto avea penato prima ad avere 1 archetipo Orsiniano. L’Orsini, pur non sapendolo leggere, lo teneva gelosamente custodito presso di sè e per parecchio tempo non ne fece parte agli umanisti, che d’ ogni dove gli rinnovavano gli assalti per cavarglielo di mano. Inùtilmente gli fu chiesto da Milano, inutilmente da Ferrara, donde partirono due suppliche: 1’una di Leonello d’Este, l’altra, molto caratteristica , del nipote di Guarino, Lodovico Ferrari. Lo stesso esito ebbero le pratiche del Traversari e del Niccoli da Firenze. Quante volte non ritentò a Roma la prova il Poggio! ma sempre senza successo; tanto che in un momento di cattivo umore protestò che ormai non 1’ avrebbe più preso5 nemmeno se gli venisse offerto. Guarino ricorse a un altro mezzo. Era andato a Roma, con un incarico del marchese, il giovane giureconsulto Ziliolo Zilioli; a lui si rivolse ac- Ο σ .1 ciocché facesse pratiche per avere il codice: anche questa volta fatica sprecata. Solo Lorenzo dei Medici, che si era recato nel 1431 a Roma con l'ambasciata fiorentina a tare omaggio al nuovo pontefice Eugenio IV, solo egli riuscì con molta arte a trar di mano all’arpia il codice e a portarlo a Firenze. A Ferrara esso giunse, direttamente dallOrsim, l’anno seguente 1432. Cosi Guarino lo copiò e mandò il proprio apografo al Panormita. 255. Si è veduto Ziliolo Zilioli a Roma nel 143°· ^er mezzo suo e per mezzo di Meliaduce d’Este e del suo institutore Aurispa, andati a Roma alla fine del 143I, Guarino ebbe occasione di rinfrescare le proprie conoscenze coi porporati e con gli umanisti della curia, quali il cardinale Albergati, il cardinale Capranica, il Poggio, il Loschi, il Rustici. Ma la corrispondenza con quel circolo si animò di più, quando Guarino lo ebbe più prossimo, giacché nel giugno del 1434 la corte pontificia si trasferì a Firenze. GIORNALE LIGUSTICO 25 6. Senza di che le comunicazioni tra Ferrara e Firenze erano già prima assai vive, specialmente perché Ferrara era il consueto convegno degli ambasciatori degli stati belligeranti italiani. Il marchese d’Este manteneva con molta astuzia e prudenza la sua posizione neutrale e veniva per questo sempre scelto come intermediario nei trattati di pace. Così nel 1432 e nel 1433 ci fu convegno di plenipotenziari a Ferrara; la prima volta vi andarono come incaricati della repubblica fiorentina Cosimo dei Medici e Palla Strozzi, la seconda volta il solo Strozzi : entrambi erano stretti da vincoli di antica amicizia con Guarino. Nel 1431 era passato, di ritorno da Verona, per Ferrara il Niccoli e si abboccò con Guarino, col quale ragionò di codici e di studi; e nel 1433 era andato da Ferrara a Firenze il Lamola, come institutore privato in casa Strozzi. Ora poi che la corte pontificia stava a Firenze vi si recarono a far visita ad Eugenio IV i due fratelli Estensi Leonello e Meliaduce, coi loro aiutanti il cavaliere Feltrino Boiardo e il cavaliere Alberto della Sale. 257. Quegli anni nei quali la corte pontificia si piantò a Firenze, prima dal 1434 al 1436, poi dal 1439 al 1443 nel tempo del Concilio, costituiscono uno dei momenti più fecondi e più felici dell’ umanismo italiano. I letterati della corte papale si trovarono allora insieme con quelli di Firenze, la culla del grande movimento umanistico, dove erano nel massimo fiore il Traversari, il Bruni, il Niccoli, il Marsup-pini. Ne era partito 0 ne stava per partire il Filelfo, ma in compenso veniva da Basilea l’Aurispa coi suoi nuovi codici scoperti in Germania e specialmente col commento di Donato a Terenzio. E in quell’ intreccio di attività, in quello scambio di cognizioni e di vedute si agitarono grandi questioni, che nel periodo umanistico ebbero varia fortuna e spesso divisero il campo in due partiti. Esse versavano sulla preminenza 326 GIORNALE LIGUSTICO ira i capitani antichi, sulla natura della lingua latina, sulla preferenza da darsi al latino o al volgare italiano, sulla superiorità dei Latini o dei Greci. Le due ultime furono cominciate specialmente a discutere nella seconda dimora della corte pontifìcia a Firenze (1439-1443); le altre due furono discusse nella prima dimora e propriamente nell’anno 1435, anzi su per giù nello stesso mese: tra il marzo e l’aprile. In esse, la questione cioè sulla preminenza fra i capitani antichi e quella sulla natura dell’antico latino, si trovò impegnato anche Guarino. 258. Era a Firenze con la corte pontificia un giovane ferrarese, Scipione Mainenti, amico comune di Guarino e del Poggio. Avea studiato diritto civile a Bologna e di là era passato a Firenze nel 1429. Nel 1433 avea fatto la sua gita a Basilea, donde era tornato con alcuni codici nel 1434. In quell’ anno stesso si era dottorato a Bologna. Fatta una breve sosta in patria, si era trasferito a Firenze, dove si accompagnò alla curia che egli seguì poi sempre. Fu eletto nel 1436 vescovo di Modena e morì nel 1444. Scipione Mainenti era entusiastico ammiratore del suo omonimo romano, tanto che il pio Alberto da Sarteano ne lo rimproverava , sembrandogli che paganeggiasse un pochino troppo. 259. Per deferenza all’ ammirazione dell’ amico Mainenti il Poggio gli scrisse una lettera, nella quale fra i capitani antichi dà la palma a Scipione. A Scipione aveva dato la palma anche il Petrarca; Pier Candido Decembrio invece presso a poco nel tempo stesso della lettera del Poggio dava la palma a Cesare. Ciò era naturale nel Decembrio, che rendeva così omaggio alla maestà Cesarea del suo Filippo Maria Visconti. Ma il Decembrio a riscontro di Cesare poneva Annibaie, il Poggio al contrario confrontò Cesare con Scipione. Egli nella sua lettera esamina anzitutto i giudizi GIORNALE LIGUSTICO 327 degli antichi, indi la vita dei due grandi capitani e viene alla conclusione che Scipione nella virtù e nella rettitudine fu molto superiore a Cesare e che non gli fu inferiore nella gloria militare. 260. Leonello reduce dalla sua gita di Firenze portò a Guarino a Ferrara i saluti del Poggio e una copia della lettera sulla preminenza di Scipione. Guarino lesse la lettera e ne rimase scandalizzato. Egli scorse nel Poggio addirittura un detrattore, un calunniatore di Cesare, un Caesaro-mastix e gli scrisse contro una violenta confutazione : « Come hai il coraggio di chiamar Cesare parricida linguae latinae? No parricida ma litterarum expolitor et munditiarum parens ». E cita le testimonianze degli antichi, mettendo in chiaro quanta cultura ci fu in Roma e dopo Cesare e sotto Augusto e durante Γ impero e come Cesare promosse molto gli studi. « Nè Cesare tolse le istituzioni repubblicane: le vere cause della rovina di Roma furono Γ avarizia e il lusso. E se vi furono imperatori iniqui, ve ne furono anche di buoni; e Cesare non è responsabile degli iniqui, come S. Pietro non ha colpa dei papi malvagi che gli succedettero ». Indi esamina l’adolescenza di Cesare e mostra, contro l’asserzione del Poggio, che in essa Cesare diede ottimi indizi di animo forte e generoso. « Perchè vai pescando, o Poggio, tutte le accuse mosse a Cesare dalla malignità e che sono naturalmente sospette e taci il buono di cui si ha notizia sicura? Perchè interpreti malamente azioni di Cesare, che considerate da un animo imparziale sono invece oneste ? — Cesare si servì di largizioni per farsi eleggere console. — Ma lasciando le largizioni, cosa allora comune, chi ha più merito dei due : Cesare eletto con tanta lotta o Scipione eletto perchè nessuno si presentava? Non vedo che si deva rimproverare a Cesare di aver proposto il domicilio coatto dei Catilinarii, giacché non fu egli il solo; e Catone che lo osteggiò non 328 era poi quell’irreprensibile uomo, che potrebbe parere. — Ma si fece prorogare il comando della Gallia. — E non pensi alla capitale importanza di quella guerra ? Del resto Cesare in guerra fu clementissimo e umano. — Ma si avvili negli amori di Cleopatra. — E Scipione non amò una schiava? Dici che fu poca gloria vincere i Galli imbelli. Leggi il giudizio di Sallustio e mi saprai poi dire se erano imbelli ». Da ultimo Guarino difende Cesare dall’ accusa di essere stato il distruttore della libertà, mostrando che la libertà di Roma era già morta da prima e che Cesare fu anzi quegli che la ditese. Conchiude che Scipione fu vir bonus, civis pusillanimis, imperator excellens, che Cesare fu civis magnanimus, princeps prudentis simus, imperator excellentissimus. 261. La lettera di Guarino fu intitolata a Leonello, l’ammiratore di Cesare; e fu certo per deferenza a lui, se mise tanto calore e, diciamolo, acrimonia nella confutazione del Poggio. Il Poggio replicò indirizzando la lettera al Barbaro, da lui scelto arbitro della contesa. Nel preambolo egli confessa di non sapersi persuadere come mai Guarino abbia preso in sul serio una questione accademica, trattata unicamente per esercizio di ingegno, e che vi abbia mischiata tanta acrimonia; egli non trova altra ragione di tanto accanimento se non il supporre che c’ entrasse di mezzo Leonello: e non s’ingannava. 262. La replica del Poggio è molto moderata. Egli ribatte uno per uno tutti gli argomenti di Guarino. Cicerone, Vergilio , Sallustio, Orazio vissero sotto Cesare, ma nacquero e furono educati al tempo della repubblica. Vi furono valenti grammatici sotto l’impero, ma tutti insieme non valgono una pagina di Varrone; dopo morto Cesare non si trova un comico come Plauto, un oratore come Cicerone; e questo dicasi pure dei filosofi, dei giureconsulti. Da ultimo il Poggio con una lunga serie di testimonianze antiche dimostra 1’ as- GIORNALE LIGUSTICO 329 surdità della tesi di Guarino e che Cesare non distrusse la liberta di Roma, anzi la promosse. 263. Quest’ ostilità terminò meno d’ un anno dopò con 1 interposizione di Francesco Barbaro. La personalità era assolutamente esclusa dalla disputa e 1’ amicizia tra Guarino e il Poggio fu delle poche veramente costanti e sincere di quel tempo; fu quindi facilissimo il riavvicinamento. 264. L’altra questione, non oziosa e accademica, almeno per noi, come la prima, ma vitale e di un grandissimo valore storico, si aggirava sulla natura della lingua latina. Ecco come è nata. Nel marzo 1435 in Firenze nell’anticamera del palazzo dove alloggiava il papa si trovavano il Biondo , il Loschi, il Poggio, il Rustici, Andrea Fiocchi. Discutevano sulla lingua latina e sulla sua natura, se cioè al tempo di Roma antica gli illetterati e i letterati parlassero la medesima lingua. In mezzo alla discussione compari nell’ anticamera il Bruni, mandato a chiamare dal papa. Subito colleghi ed amici si rivolsero a lui per sentire la sua autorevole parola. Fu allora che il Bruni lanciò quel suo audace e famoso giudizio: il volgo romano antico parlava il medesimo linguaggio delle nostre plebi presenti. La parola del Bruni divise senza altro il campo in due partiti; stettero con lui il Loschi e il Rustici, gli si dichiararono contrari il Biondo, il Poggio, il Fiocchi. Più tardi si schierarono contro il Bruni anche Carlo Marsuppini e Leon Battista Alberti. Ma intanto il Bruni dovette entrare dal papa e la discussione rimase interrotta. 265. Portavoce del partito contrario al Bruni si fece il Biondo, il quale tornato a casa pensò di ordinare e raccogliere le proprie idee e quelle degli amici e dare ad esse forma di dissertazione. La dissertazione usci il primo aprile 1435 intitolata al Bruni. GIORNALE LIGUSTICO 266. Il Biondo pone la quistione nei suoi veri termini; indi ribatte gli argomenti addotti dal Loschi, dal Rustici, dal Bruni nella prima discussione; da ultimo entra nel tema e sostiene la propria tesi, appoggiandosi alle testimonianze di Cicerone. Egli ammette una differenza di grado tra la lingua della classe colta e quella della classe incolta. Quella differenza é dovuta in parte allo studio, in parte al contatto con la migliore società. Ma tutti i Romani parlavano il latino grammaticale , perchè così lo aveano da natura. La moltitudine intendeva non solo ma sapeva anche apprezzare tanto le orazioni del Foro quanto le rappresentazioni del teatro. Del resto non fa bisogno per capire aver la cultura di chi parla: altro è parlare, altro intendere. 267. Il Bruni rispose al Biondo in data 7 maggio. Ribattè Γ argomento degli oratori, dicendo che in senato e nei tribunali il pubblico era di gente colta e che perciò parlava il latino letterario; il pubblico del Foro era misto e quelli che capivano erano colti; del resto non doversi dimenticare che gli oratori parlavano un linguaggio volgare, che poi traducevano in linguaggio letterato per la pubblicazione. Ribattè l’argomento del teatro, cercando di mostrare che il pubblico non vi andava tanto a sentire la recitazione, quanto a vedere l’apparato scenico e la mimica. La confutazione specialmente di questo secondo punto è addirittura puerile. Però non manca una certa felice intuizione. Il Bruni con tatto fine distingue, sulla scorta di Cicerone e di Varrone, le forme volgari Bellius vella vellatura dalle letterate Duellius villa vectura, ma è troppo poco. 268. Il vero argomento del Bruni è un sentimento soggettivo. Egli non può nè persuadersi nè credere che altri, specialmente se istruito, si persuada, che una donnicciola romana sapesse p. e. distinguere filiis da filiabus, cecidi da cecidi e parlasse il latino di Terenzio e di Cicerone senza averlo GIORNALE LIGUSTICO 33 I studiato. Quel latino lo sapeva ben lui quanta fatica gli era costato e non si rassegnava che a Roma si avesse a cosi buon prezzo. 269. A Ferrara la questione si era pure agitata e Guarino ne parlò spesso con Leonello, con Angelo Decembrio, col Boiardo e col Pirondoli. Questi due ultimi pareva che stessero dalla parte del Bruni; risolutamente col Bruni stavano Leonello e il Decembrio, i quali notavano che in Roma c’erano scuole e maestri e che perciò la lingua si doveva impararla; se il volgo la avesse posseduta per natura, erano inutili i maestri e le scuole. Guarino invece si mise dalla parte del Biondo. Egli ripiglia i due argomenti tratti dal Foro e dal teatro, aggiungendo nuove citazioni e nuovi schiarimenti. Sopratutto riguardo al Foro insiste sull’ esistenza degli stenografi anche in antico e ritiene perciò che noi abbiamo le orazioni quali venivano recitate. Si indugia a lungo a dimostrare, con l’autorità specialmente di Cicerone, che la latinità in Roma non si imparava, come sostiene il Bruni, ma ciascuno la portava con sè nel sangue per eredità. 270. Distingue però i tempi primitivi nei quali la latinità si parlava incoscientemente, dai tempi recenti, nei quali la si parlava coscientemente cioè studiandola. I periodi della lingua latina secondo Guarino sono quattro: il periodo di Giano, il periodo di Latino, il periodo dei monumenti letterari e il periodo della decadenza. Nei tre primi il latino è litteralis e va man mano perfezionandosi, nel quarto per influenza dei barbari si imbastardisce, perde la propria fìso-nomia, si snatura e diventa vulgaricus. Solo qua e là nelle provincie si incontrano ancor tracce dell’antica fìsonomia litteralis e in questo proposito Guarino cita alcuni esempi dallo spagnolo. Dichiara da ultimo, che vi doveva essere una differenza tra la lingua del volgo e quella dei dotti, il latino dei quali possedeva vocaboli di una secretior quaedam intelligentia. 33 2 GIORNALE LIGUSTICO 271. Su questa differenza, già notata dal Biondo, ritorna il Filelfo, il quale ha trattato la questione in due lettere, schierandosi contro il Bruni. Il Filelfo distingue in Roma un sermo litteralis grammaticus e un sermo vulgaris latinus forensis. Il sermo litteralis appartiene allo stile elevato, p. e. alla filosofia ed alla poesia epica; così Cicerone adopera calliditas per indicare una facoltà intellettuale, dove che il popolo prendeva la parola in ben altro senso; così Vergilio adopera olii invece di illi. Il senno vulgaris era la lingua usuale del senato, dei tribunali, del foro, dei teatri, del parlar domestico; il sermo vulgaris contiene naturalmente delle sgrammaticature; p. e. Terenzio adopera emoriri per emori. Ma la differenza fra Γ uno e l’altro sermo è admodum parva; esempi di senno vulgaris rispetto al litteralis sono i genitivi ornali tumulti senati vieti rispetto ai genitivi ornatus tumultus senatus victus, le forme barbaries barbariei rispetto a barbaria barbariae. Così i grammatici non ammettono il nominativo nex, che si può adoperare nel sermo vulgaris; non ammettono che il solo ablativo sponte, dove che Cornelio Celso ha suae spontis. 272. Una obbiezione muove il Filelfo al Bruni sull’ esistenza del volgare italiano nei tempi di Roma antica, che cioè di esso non c’ è rimasto nessun monumento. Inoltre Guarino e il Filelfo, per mostrare l’assurdità della ripugnanza che aveva espresso il Bruni ad ammettere la grammaticalità del volgare romano, citano un fatto del quale essi furono testimoni. Entrambi erano stati a Costantinopoli, Guarino nel 1403, il Filelfo nel 1427, e ivi aveano notato che il volgo parlava il greco grammaticalmente, conservando cioè le terminazioni dei casi, dei numeri, dei tempi, come si riscontra negli antichi autori greci. GIORNALE LIGUSTICO 333 Guarino a Ferrara Secondo quinquennio (1436—1440) 273. Col 1435 Leonello esce dalla tutela pedagogica di Guarino, quantunque il suo maestro non lo abbandonò mai anche dopo, soccorrendolo sempre dei suoi consigli negli studi. Terminata così la condotta, per la quale Guarino era stato invitato alla corte degli Estensi, un’altra e non meno onorifica gliene offerse la città. 274. Con un primo decreto in data 29 marzo 1436 il Consiglio gli assegnava di stipendio 150 ducati, non compresa la pigione di casa, per la quale gli venivano pagate 100 lire marchesane. Naturalmente Guarino fece delle rimostranze sullo stipendio, poiché egli come institutore privato di Leonello riscoteva 350 ducati e ora come pubblico insegnante ne avrebbe riscossi meno della metà. In un seconda deliberazione del 30 aprile il Consiglio gli assegnava per lo stipendio 400 lire marchesane e gli lasciava le 100 per la pigione; cosi su per giù si arrivava a 300 ducati e Guarino potè accettare. La nomina valeva per un quinquennio dal giorno in cui egli cominciava il corso. Le condizioni erano: due lezioni nei giorni feriali, una nei giorni festivi e che il corso fosse gratuito. 275. Guarino inaugurò il corso il i.° maggio, ma fu corso breve; e per giunta a S. Luca non si potè ripigliare, perchè Guarino era fuori di Ferrara a cagione della peste. Nel decreto di nomina c’ era la clausola che in caso d’ assenza per motivo di epidemia gli si sarebbe pagato solo metà dello stipendio. Ciò prova che il morbo doveva già serpeggiare nell’ aprile. Nell’ agosto Guarino si risolse a partire. Sul principio di settembre avea mandato innanzi il figlio 334 GIORNALE LIGUSTICO Girolamo ed egli si apparecchiava al viaggio col rimanente della famiglia. Per luogo di rifugio fu scelta la sua villa di Valpolicella. Ivi avrebbe riprese per un momento le antiche abitudini, sarebbe tornato alle gradite occupazioni della vendemmia, avrebbe riveduti i vecchi amici. 276. Quale delusione! gli parve di andare in paese nuovo, le vecchie conoscenze non c’erano più, procacciarsene di nuove non era il caso ; laonde egli senza volerlo si sente trasportare col pensiero alla nuova patria, « che gli è nutrice anzi madre adottiva », al suo Leonello, che egli ama tanto 7 D e dal quale dovrà con suo rammarico star lontano per più mesi. Come ingannare il tempo dell’ assenza ? con la corrispondenza epistolare. Ma egli, Guarino , non vuol presentarsi con le mani vuote; invierà dei frutti del suolo veronese, non però di quelli che pascano il corpo, bensì che siano cibo allo spirito. E i frutti sono usciti dall’ intelletto di due vergini veronesi, le sorelle Nogarola, Isotta e Ginevra. 277· Queste due donne sono fra le produzioni più caratteristiche del periodo del rinascimento. In esse per la prima volta Γ umanismo si sposa alla gentilezza femminile, specialmente nella Isotta, che rimase per questo riguardo insuperata; e con esse l’indirizzo Guariniano toccò in Verona il suo apice. Non è solo ora che la nobile famiglia veronese dei Nogarola fa la sua comparsa nella letteratura; già prima 1 Angela e Giovanni, il poeta petrarchesco, aveano levata fama di sè, ma vere umaniste non sono che le due sorelle. Noi le possiamo dire uscite dalla scuola di Guarino, quantunque non sia stato egli il loro maestro; ma quei due fiori gentili sbocciarono sul suolo che egli aveva fecondato e loro maestro fu un suo scolaro, Martino Rizzoni. 278. Martino Rizzoni, prediletto alunno di Guarino, fu alla sua scuola di Verona sino al 1425, nel settembre del quale anno passò a Venezia, dove si collocò come institutore GIORNALE LIGUSTICO 335 privato nella famiglia dei Tegliacci. Con essi era stato a Bologna negli anni 1427-1428; di là si trasferirono a Firenze, finalmente verso il 1430 il Rizzoni tornò in patria e ivi aperse scuola pubblica, che fu frequentata dalle sorelle Nogarola. Un esame accurato delle lettere delle Nogarola e specialmente della Isotta mostra evidenti le tracce dell’influenza Guariniana : la stessa verbosità, gli stessi sentimenti, le stesse frasi, le stesse reminiscenze poetiche innestate continuamente nella prosa. Però se nella educazione delle due sorelle Guarino ebbe solo parte indiretta, l’ebbe invece diretta nell’introdurle e presentarle ai circoli umanistici del suo tempo. 279. Coi letterati veronesi le Nogarola si erano già messe in corrispondenza, come con Giacomo Lavagnola, alunno di Guarino, che sposò la loro sorella Bartolomea, con Damiano ed Eusebio Borghi padre e figlio, con Giorgio Bevilacqua, che era andato a studiare giurisprudenza prima a Padova, indi a Bologna e che non si potea dimenticare di quella bellissima partita di caccia fatta insieme con le Nogarola a Verona, nella quale « la più bella preda che egli riportò fu la loro amicizia ». Erano in relazione anche con Venezia, dove aveano dei parenti, p. e. Antonio Borromeo, e con Vicenza, dove il maestro Ogniben Leoniceno tradusse per loro un opuscolo di Crisostomo. Molto giovò alla diffusione del loro nome la presenza di Francesco Barbaro, che si trovò a Verona come podestà dall’ottobre 1434 all’ottobre 1435, e al quale le due sorelle scrissero poi lettere. Quelle lettere si leggevano avidamente in pubblico con gran plauso di tutti, i quali proclamavano le Nogarola degne di esser figlie di Cornelia; Giorgio Bevilacqua aggiungeva che la miglior gloria di Verona era stata sino allora Guarino, ma che le due sorelle lo avevano oscurato. Per mezzo del Barbaro esse fecero conoscenza col nipote di lui, il protonotario Ermolao, e con Giacomo Foscari, figlio del doge Francesco; e scrissero al- 336 GIORNALE L1GUSTIGO Γ uno e all’ altro. Ma più fortunate senza confronto furono le lettere scritte al Foscari, perchè capitarono in mano di Guarino. 280. Le due lettere al Foscari sono dell’ottobre 1435 e ci rappresentano forse i primi saggi letterari, coi quali le due sorelle entrarono nel consorzio degli umanisti. Quelle due lettere furono trasmesse l’anno di poi (1436) dal Foscari a Guarino, che allora villeggiava a Valpolicella. Guarino ne rimase entusiasticamente ammirato e rispondendo al Foscari esaltò l’eleganza e 1’erudizione delle Nogarola, chiamandole le « mosche bianche » di quel secolo, a petto delle quali perdono e Penelope e Aracne e Camilla e Pentesilea. « Sogliono i Veronesi lodare chi le nostre biade, chi le nostre frutta, i nostri vini e i nostri olii, chi l’aria delle nostre campagne e dei nostri colli; ma pare non si siano accorti di queste due fanciulle, che sono il più bel frutto di cui possa andare orgoglioso il nostro suolo. O giovani, state ora attenti a non lasciarvi passare innanzi da queste due fanciulle, altrimenti si ripeterà a voi il motto antico: le donne sono uomini e gli uomini sono donne ». 281. Guarino mandò copia delle due lettere al suo Leonello, il quale fu ad esse largo di altrettante lodi. Non è a dubitare che il Foscari appena ricevuta la risposta di Guarino la trasmise all’Isotta, la quale di quegli elogi si sentì profondamente tocca e solleticata e ne prese ardimento a scrivere a Guarino. Ma come fare a indirizzarsi a un tant’ uomo, essa per la prima, appena iniziata negli studi letterari e per di più donna? Nella lotta tra il pudore e la gratitudine vinse la gratitudine ed ecco l’Isotta ringraziare Guarino delle lodi che egli si degnò di prodigarle e che la tramanderanno ai posteri immortale congiunta col nome di lui. Questa lettera è la più caratteristica, la più elegante, la più erudita di quante ne scrisse l’Isotta. Vi sono citati autori greci e latini, antichi GIORNALE LIGUSTICO 337 e moderni, non escluso lo stesso Guarino; il discorso è infiorato di aneddoti classici e di versi latini. L’elogio che ella fa di Guarino supera in entusiasmo quello che egli fece di lei; e compiange Verona che si lasciò sfuggire un cosi illustre personaggio, Γ onor degli studi e il più gran vanto d Italia, e chiama felice Ferrara e accorto Leonello d’Este, che se lo seppero acquistare. 282. Guarino sul finire dell’ anno (1436) ritornò da Valpolicella a Ferrara, fermandosi a passare il Natale a Verona Vuoi per le noie della partenza e dell’arrivo, vuoi per le occupazioni che lo sopraffecero nei preparativi del nuovo corso, egli non pensò nemmeno che dovea rispondere alla Nogarola. Ma ci penso ben ella, che di quel ritardo ebbe a soffrire tristi conseguenze. Tutti a Verona sapevano che ella avea scritto per la prima a Guarino. Gli uomini probabilmente non ci avran fatto caso, ma le donne si. L’invidia è sopratutto una passione femminile; e chissà come le Veronesi doveano sentirsi crucciare di quella fanciulla, che si era tanto sollevata al disopra del suo sesso e che riceveva tributo di lodi da ogni parte. La Isotta visse e morì vergine e nessuno può osare in sul serio di gettare anche l’ombra del sospetto sulla condotta di lei. Ma le donne che emergono fra le altre offrono purtroppo il fianco alla malignità; è la sorte toccata a Saffo. Se pertanto le donne veronesi aveano malignato sul-1’ardire, che esse chiamavano spudoratezza, della Nogarola nello scrivere per la prima a Guarino, ora che Guarino non rispondeva esse si sentivano vendicate. Anche Guarino col suo silenzio dava ragione a loro ed esse erano bene nel diritto di insultare la sfacciata : e la insultavano veramente. 283. La povera Isotta si vide perduta e scrisse novella-mente a Guarino, mendicandogli una risposta, ma nel medesimo tempo accusandolo di poca generosità, perchè egli, uomo, avea permesso col suo silenzio che si recasse onta a una donna. Giorn. Ligustico. Anno XVIII. 22 GIORNALE LIGUSTICO La risposta di Guarino questa volta non potea farsi aspettare e infatti parti il giorno stesso che egli ricevette la lettera della Nogarola. Le scuse del ritardo venivano da sè : le innumerevoli occupazioni scolastiche e domestiche. Le muove affettuoso rimprovero d’essersi lasciata vincere dallo sconforto, dove che ella col suo ingegno e con la sua dottrina aveva il dovere di mostrarsi superiore al suo sesso oltre che nella cultura anche nella forza del carattere. Le dà poi piena soddisfazione, confermando il proprio giudizio favorevolissimo sui meriti letterari di essa e accordandole la facoltà di servirsi della sua risposta per mettere a tacere i malevoli e gl’ invidiosi. 284., La parsimonia epistolare di Guarino verso la Nogarola fu largamente compensata dai suoi scolari veronesi che studiavano con lui a Ferrara, e in particolar modo da suo figlio Girolamo, da Luigi Zendrata, da Tobia Borghi. Tutti tre questi giovanottini fecero le loro prime prove nel campo letterario scrivendo ciascuno la sua brava epistola alle Nogarola, sfoggiando la loro recente erudizione classica e citando versi e bruciando un grano d’incenso all’ ingegno e alla fama delle due straordinarie fanciulle. E la Isotta puntuale rispondeva a uno per uno, ringraziando, lodando, incoraggiando. Il Borghi per le nozze di Ginevra nel principio del 1438 compose un’egloga, della quale mandò una copia alle due sorelle e a qualche altro amico di Verona, come Galasio Avogari, che cominciava allora ad entrare nella repubblica letteraria. U Avogari studiava di preferenza Plauto e nei dubbi ricorreva per consigli a Guarino. Il Borghi lodava molto lo stile di lui. Apparteneva al circolo veronese degli Ottobelli, del Fano, degli Zendrata, del Rizzoni, dei Mercanti, di Asino « il quale di asino non ha che il nome e beati gli altri asini che fossero asini siccome lui ». GIORNALE LIGUSTICO 239 285. Del resto il quinquennio 1435-1440 fu il periodo veiamente fecondo, veramente umanistico delle due Nogarola o meglio dell’Isotta, perchè Ginevra nel 1438 pigliato marito, disse addio agli studi. Nel 1438 stesso ΓIsotta con la famiglia si trasferì a Venezia, per sottrarsi ai pericoli della gueria che allora infieriva tra i Veneti e i Milanesi. In Venezia potè conoscere da vicino i letterati di quel circolo; con Verona si mantenne in relazione per mezzo di Damiano Borghi; ma quando nel 1441 rimpatriò, essa era mutata di molto. Avea sorpassata la trentina; si trovò sola senza la sorella, la sua compagna di studio; a prender marito non volle pensare e così si abbandonò interamente alle proprie tendenze ascetiche, che già fanno capolino qua e là nelle lettere del periodo anteriore. L’ ascetismo soffocò in lei l’umanismo; il fenomeno non era isolato; un decennio prima Gregorio Correr veneziano disertava gli studi e i circoli umanistici per consacrarsi al culto di Dio. 286. Nell' aprile del 1437 Guarino ebbe una doppia prova di stima e di affetto dal marchese, che lo fece cittadino di Ferrara e gli pagò la casa allora comprata dagli eredi Boiardi. In riconoscenza di tale generosità Guarino dedicò a Leonello la traduzione delle Vite di Pelopida e Marcello di Plutarco. E oltre che dal principe, egli riceveva testimonianze di vero affetto e di stima dai suoi scolari, tra i quali pubblica e clamorosa prova, che costò poi parecchie noie a Guarino, glie ne dette un Andrea Agasone. 287. Costui nel marzo 1437 era andato per alcune faccende da Ferrara a Venezia. Ivi, alunno come era di Guarino, nelle ore libere cercava libri e ragionava di studi e del suo maestro, che era tanto amato a Venezia. Fra le novità letterarie gli capitò in mano la Retorica di Giorgio da Trebisonda, che era stata composta verso il 1435. La percorse e con sua sorpresa si imbattè in quel passo, dove il Trebi- 540 GIORNALE LIGUSTICO sonda fa la critica stilistica della orazione di Guarino in lode del Carmagnola. Si accorse che in quella critica c’ era del— Γ acrimonia. Nè vide male. 288. Il Trebisonda sin dal tempo che insegnava a Vicenza avea concepito gelosia di Guarino, che allora insegnava a Verona; egli anzi credette che il licenziamento da Vicenza fosse dovuto alle mene di Guarino. Passato a Venezia, trovò occasione di dir male di lui, specialmente quando gli fu mostrato Γ elogio funebre per Teodora Zilioli, il quale egli giudicò assai sfavorevolmente, non fosse altro perchè colui che glielo mostrò proclamava Guarino il primo oratore d’Italia. Non gli parve quindi vero di cogliere un’ occasione qual si fosse per sfogare il suo malanimo contro il grande oratore e 1’ occasione gli si offerse nello scrivere la Retorica, dove criticò la più famosa delle orazioni di Guarino, quella in lode del Carmagnola. 289. Andrea Agasone non potè trattenere lo sdegno e scrisse a un condiscepolo di Ferrara, Paolo Regini, denunziando al pubblico lo scandalo, inveendo contro « il vile calunniatore » ed eccitando la scolaresca ferrarese a vendicare solennemente 1J onore di Guarino. Non è a dubitare che la lettera di Andrea andò in mano anche di Guarino e che egli vietò a chiunque di immischiarsi nella faccenda, come non se ne immischiò egli stesso. Ma se ne occupò bene per proprio conto il Trebisonda, il quale buttò giù contro Guarino un’ invettiva ignobile e piena di insolenze e per giunta la dedicò a Leonello, quasi volesse mostrargli quanto torto avesse avuto a concepire si grande stima di Guarino. Veramente il Trebisonda non potea scegliere più infelicemente la persona, a cui confidare gli sfoghi della sua invidia, poiché è tutta invidia quella che schizza dalla lettera. Si fece però forte di un pretesto; infatti egli credette o finse di credere che Andrea Agasone fosse Guarino stesso, il quale GIORNALE LIGUSTICO 341 avesse per viltà cercato di nascondersi sotto la maschera di un pseudonimo. Il cognome Agasone potrebbe essere un pseudonimo, perchè in latino significa mo^o, ma non era pseudonimo il nome: in ogni modo non certo pseudonimo di Guarino. 290. L’anno dopo Guarino e il Trebisonda s’incontrarono a Ferrara, dove il Trebisonda si era recato al Concilio , essendo da poco entrato al servizio di Eugenio IV ; e in quell’ occasione Guarino gli fece capire che certe ragazzate non erano permesse ad uomini seri e che perciò bisognava por termine alla polemica. 291. Il Concilio portò nel 1438 un insolito movimento a Ferrara. In sul principio dell’ anno arrivarono Eugenio IV con la sua corte da Bologna e T imperatore Giovanni Paleo-logo col suo seguito da Costantinopoli. Quante vecchie conoscenze non rivide ora Guarino! il Poggio, il Traversari, il Mainenti, l’Aurispa, il Rustici, il Biondo, il Pisanello. E quante non ne strinse di nuove ! quella di Leon Battista Alberti, del Porcelli, del melanconico Lapo da Castiglionchio, morto l’anno stesso; e fra i Greci del Bessarione, di Gemisto Pletone, di Niccolò Sagundino, senza contare i dignitari ecclesiastici che in tale occasione convennero a Ferrara. Ivi egli potè praticare da vicino Eugenio IV, a cui dedicò la versióne di due omelie di S. Basilio ; al Mainenti dedicò la versione della Mosca di Luciano e scrisse un carme fn lode del Pisanello, che gli donò un quadro di S. Girolamo fatto da lui e che allora appunto diede mano alle sue famose medaglie, aprendo la serie con quella dell’ imperator greco. Guarino si chiama superbo di potere aver comune la patria con quel grande artista, il cui nome sarà immortale come sono immortali le sue figure, nelle quali sa infondere tanta vita. 292. Oltre a queste produzioni letterarie, a cui fornì pretesto la presenza della corte pontificia in Ferrara, Guarino 342 GIORNALE LIGUSTICO ebbe anche noie dal Concilio, poiché dovette recitare un discorso di apertura e servire d’interprete fra i Latini e i Greci e correr di qua e di là or per questa or per quella faccenda. Eppure a lui pareva di intorpidire e di batter la fiacca: « malattia del resto che gli aveva appiccicata il Concilio, che di tutto si occupava fuorché di risolvere l’importante questione, per la quale era adunato, l’accordo cioè tra i Latini e i Greci, e che si cullava nella quiete e nei passatempi e la cui maggior sollecitudine era di liberarsi da ogni sollecitudine ». 293. E così in effetto il Concilio poco o nulla conchiuse a Ferrara, donde levò, non appena terminato l’anno, le tende e le trasportò a Firenze : si avanzavano due grandi nemici, la pestilenza e la guerra. Dei due pericoli il più temuto era la guerra, che allora più che mai si combatteva accanita fra Venezia e Milano ; ma questo pericolo fu dissimulato e venne messo invece in rilievo quello della pestilenza. Giusto il contrario di ciò che succedeva a Guarino, il quale della guerra non dovea preoccuparsi più che tanto, ma si preoccupava seriamente della pestilenza. Sin dagli ultimi di settembre egli pensava già alla fuga e aveva designato due luoghi : o Rovigo 0 Lendinara presso il conte Sambonifacio, al quale si era raccomandato per Γ alloggio. In ultimo però preferì Rovigo, dove lo troviamo stabilito con la moglie e coi dodici figli già nel' gennaio del 1439. 294. A Rovigo stette l’intero anno, poiché il 23 decembre non ne era ancora partito; e viene il dubbio se abbia colà tenuto scuola, come avvenne altra volta, che in tempi di pestilenza lo Studio fu trasportato per un anno da Ferrara a Rovigo; ma questo non pare sia stato il caso nel 1439. Ad ogni modo Guarino ebbe continua occasione di corrispondere con gli amici ferraresi, vuoi per congratulazione, siccome quando Giacomo della Torre fu creato vescovo di Reggio e GIORNALE LIGUSTICO 3 43 quando a Soccino Benzi nacque un figlio, del quale egli era stato scelto a padrino; vuoi per condoglianza, siccome quando morì il figlio a Feltrino Boiardo. Altra luttuosa circostanza fu la morte di Margherita Gonzaga, moglie di Leonello da appena cinque anni, mancata ai vivi il 7 luglio e per la quale Guarino scrisse un’ orazione. 295. Con Leonello più volte ancora ebbe occasione di carteggio sia per commendatizie, sia per ammaestramenti, quale quello sul modo d’intestare le lettere. Qualche volta invece coglie il destro di dargli ammonimenti civili. Così nell’ agosto Leonello andava a caccia e si credeva che arrivasse fino a Rovigo, ma tornò indietro, perchè non trovava selvaggina. « Eppure, gli scrive Guarino, qui ci sarebbe da far buona preda, non però di selvaggina, bensì di uomini, che vai molto di più. Questa brava gente ha per te e per la tua dinastia profondo e sincero rispetto, pur non essendo tu mai stato in mezzo a l’oro; chissà quanto ti amerebbero vedendoti qui. È saggio consiglio che i governanti si mostrino di quando in quando ai loro sudditi, per dar loro una sensibile prova d’affetto e per accertarsi delle loro condizioni e dei loro veri bisogni ». 296. Tal altra volta sono ammonimenti filosofici, che Guarino vuol dare al suo allievo, ma incorniciandoglieli con un bozzetto. Un giorno infatti di ottobre essendo Guarino uscito da Rovigo a passeggiare sull’ argine delTAdige, si incontrò in un solitario : aspetto severo, larghe spalle, lunga barba, fronte rugosa. All’abito lo riconobbe per greco. Doveva essere uno dei tanti venuti con Γ imperatore al Concilio 1’ anno precedente. Scambiatisi il saluto, il Greco domanda a Guarino che facesse a Rovigo; a cui risponde, che era fuggito dalla pestilenza. Il Greco rimane scandalizzato di una simile pusillanimità in un uomo, che avendo tanto studiato i classici avrebbe dovuto imparare da essi il disprezzo della 344 GIORNALE LIGUSTICO morte. Guarino da quell’animo schietto ed ingenuo che era gli rispose, non senza uno spruzzo d’ironia, che il disprezzo della morte in teoria lo insegnava anche lui, ma in pratica avea paura della morte, la quale priva l’uomo di tanti beni e lo getta a marcire in una fossa. Allora ripigliò il Greco, mostrando come la vita ha più guai che beni e che paventare la morte è pazzia, perchè il corpo quando è morto non ha più senso e 1’ anima immortale vola in cielo. E perchè non ti uccidi dunque ? replica Guarino, anche questa volta un po’ ironicamente. Il Greco gli oppose la massima, che della nostra vita non siamo padroni noi, ma Dio solo. — Tutto questo ragionamento filosofico tra il Greco e Guarino non è altro che la parafrasi di quanto è esposto nel Somnium Scipionis di Cicerone. 297. Tutta la corrispondenza di Guarino in quest’anno si riduce al circolo ferrarese e al circolo veneto. Da Padova gli è venuta l’offerta di una nuova amicizia, del Baratella. Antonio Baratella nacque in Camposampiero nel Padovano, sulle rive del Musone, che egli celebrò nella sua Musonea. Abitava una villa detta Lauregia. Fu alunno del Barzizza e amico dì Sicco Polenton e di Lodovico Sambonifacio, il compare di Guarino; mori nel 1448. Nel 1439 stava componendo 1’Antenoreis, poemetto su Padova, quando gli venne tra mano Y Astyanax del Vegio. Allora concepi l’idea di cantare anche Polidoro, un altro degli infelici troiani periti miseramente. E compose la Polydoreis, intitolandola e mandandola a Guarino con una prolissa accompagnatoria in versi. Guarino gli rispose anche in versi, ma secco secco, limitandosi a dirgli che i suoi poemi erano degni di Vergilio , ed eccitandolo a condurre a termine Y Antenoreis. 298. Del resto Guarino aveva ben altra voglia che di occuparsi di letteratura e di poesia. L’anno 1439 fu per lui uno dei più fortunosi. Ardeva la guerra micidiale di Venezia GIORNALE LIGUSTICO 345 e Firenze contro il Visconti, nella quale il marchese di Ferrara avea preso parte in favor di Venezia, mandando nel campo veneto il conte Taddeo d’Este. Taddeo si era trovato alla difesa di Brescia nel famoso assedio del 1438, nel quale si immortalò Francesco Barbaro, allora governatore di quella citta in nome della repubblica veneta. Condottiero in capo del Visconti era il Piccinino, il quale nella prima metà del 1439 fece scorrerie sul territorio veronese; e in quella occasione ebbe a soffrire gravi danni anche la villa di Valpolicella di Guarino. Glieli raccontò un Veronese venuto di là: « cacciati i contadini, calpestate le messi, spogliata la villa, gettati a terra i tegoli, scassinate le serrature; appena i muri si erano salvati ». 299. E questo fu nulla a petto di un altro dispiacere, che afflisse Guarino in quell’ anno malaugurato. Correva da qualche tempo per le bocche di tutti un distico latino oltraggioso alla repubblica veneta. Di quel distico fu da taluno designato come autore Guarino, il quale quando gli fu riferita quella voce stava a letto malato di febbre con due figliuoli. Lo assalse un indicibile dolore e uno sconforto disperato, che trasfuse in un’ angosciosissima lettera al Giuliani e al Giustinian, ai quali protesta solennemente essere quella una nera e vile calunnia e li scongiura di difendere presso il senato veneto la sua innocenza. Naturalmente il Giustinian gli rispose, che non se ne desse pensiero, perchè tutti a Venezia conoscevano la devozione e i meriti di Guarino verso la repubblica; che del resto quel distico era noto da un gran pezzo prima. 300. Ma intanto la pestilenza, la guerra, la febbre, il distico finirono con lo stordire il povero Guarino , « come quel tale che ricevuto un colpo nella testa da dotto che era diventò stupido e perdette la memoria ». A farlo risensare molto giovarono le lettere dei suoi amici veneti, dopo che 546 GIORNALE LIGUSTICO era tornato in Ferrara nel gennaio del 1440, quali Gabriele Tegliacci e Leonardo Giustinian, ma sopraumo quest’ ultimo, a cui rende grazie entusiastiche di essere stato prosciolto dalla calunnia del distico. Nell’ occasione che Guarino scriveva al Giustinian, Girolamo suo figlio scriveva al figlio del Giustinian, Bernardo, accludendogli nella lettera alcuni versi. Bernardo rispose molto affettuosamente a Girolamo, congratulandosi dei progressi che taceva negli studi e ricordando con vera compiacenza i tempi, in cui essi furono insieme a Verona scolari del padre Guarino. 301. Un altro Giustinian, il cavaliere Orsato, mandava a Guarino i saluti del Barbaro, reduce a Venezia dalla guerra; ed ecco Guarino congratularsi con l’illustre patrizio della gloria immortale acquistatasi nella difesa di Brescia. « Non era più solo ormai Archimede che obbligò Marcello, fino allora invincibile, a levar 1’ assedio di Siracusa; anche il Barbaro insegnò al Piccinino, tante volte vincitore, ad esser vinto, obbligandolo a levar l'assedio di Brescia. E tutto ciò non tanto con la forza e la violenza, quanto con 1’ astuzia e l’ingegno, con la mansuetudine e con l’affabilità, trattandosi dall’ una parte di respingere gli assalti degli assediami e dall’altra di mantener Γ ordine e la perseveranza negli assediati. Meritata fu dunque P accoglienza trionfale che gli fecero i Veneziani ». 302. Di qui ognun vede· che Guarino, diversamente da altri umanisti, non perdeva mai d’ occhio tra le cure degli studi gli avvenimenti politici del suo tempo. Ma nessuna guerra attirò tanto la sua attenzione e gli tenne 1’ animo sospeso e angustiato, quanto quella dei collegati contro il Visconti. E veramente delle guerre italiane che egli potè vedere fu la più accanita e la più grave. Era però giusto che, come ne seguì con ansia le varie vicende, così ne salutasse con gioia la fine, specialmente quando la pace gli parve per GIORNALE LIGUSTICO 347 sempre assicurata con 1’ adempimento di una promessa, tante volte lasciata balenare e tante volte delusa, del matrimonio cioè di Bianca Visconti col conte Francesco Sforza. E nel- 1 ottobre del 1441 finalmente si celebrò il sospirato matrimonio, « che sarebbe stato all’Italia intera pegno di perenne pace e di tranquillità dopo i miserandi disastri della guerra. Si levi dunque giulivo l’inno nuziale ai ben augurati sposi : allo Sforza il sapiente reggitore del Piceno, il ristoratore della potenza pontificia, fiorentina e veneta, il condottiero glorioso che tiene in pugno tutta l’Italia; a Bianca, la candida stella nunzia di prosperità all’ uman genere, delicato rampollo della magnanima stirpe, che generò Galeazzo, Bernabò, Giovanni, Filippo Maria; la novella sposa sabina, che riconcilia i genitori coi mariti, la novella Giulia, che riconcilia i suoceri coi generi ». 303. Nel 1441 Guarino fu colpito da due disgrazie di famiglia. A Verona gli morì più che sessagenario Battista Zendrata, cugino di sua moglie e padre di Lodovico, suo scolare, il quale in questo tempo avea già lasciato Ferrara ed era ritornato a Verona. Battista era stato molto affezionato alla famiglia di Guarino, al quale avea reso in ogni tempo, e specialmente nelle calamità, preziosi servigi e di cui fu sempre Γ intimo confidente e lo schietto consigliere. Anche Girolamo Guarini lo amava molto e nella consolatoria che scrisse al figlio Lodovico mostra profondo rammarico per la perdita del brav’ uomo, di cui con compiacenza ricorda le carezze ricevute quand’ era piccino a Verona e che ardeva dal desiderio di rivedere, desiderio ahi! bruscamente deluso: « Dio ce 1’ ha dato, Dio ce 1’ ha tolto, sia fatta la sua volontà ». La lettera spira tutta la rassegnazione che noi siamo usi di sentire nelle consolatorie di suo padre. Nè Guarino lasciò Lodovico senza conforto e gli scrisse ricordandogli come oltre al diritto di succedere nelle sostanze del padre, 348 GIORNALE LIGUSTICO avea pure il dovere di succedergli nelle virtù. E in effetto Lodovico fece onore alla memoria paterna e come magistrato e come letterato. 304. L’ altra disgrazia toccata a Guarino fu la morte di una bambina. Era 1’ ultima di tredici figli, natagli da poco. Mori mentre egli villeggiava nel tempo delle vacanze estive. Agli amici che gli recarono la triste novella rispose da vero stoico: « Se fosse vissuta, l’avrei avuta cara tra la corona degli altri figli, ma sia fatta la volontà di Dio. I beni terreni devono considerarsi come le rose; finché ci sono, prendiamo pure diletto della loro presenza; quando sono scomparse, a che prò’ crucciarsi più di quando non esistevano ancora? Ringraziamo intanto Iddio, che la puerpera abbia avuto un parto felice ». (Continua). R. Sabbadini. LA SUPPELLETTILE SACRA NELLE CHIESE MINORI (Continuaz., v. 1890, pag. 264). IV. Tornando ai Tesori, e in generale alla suppellettile sacra di cui le chiese erano depositarie, pur troppo non potrà mai deplorarsi abbastanza che la maggiore e forsanche la più ragguardevole parte delle dovizie ivi accumulate, sia andata nel corso dei secoli miseramente perduta 0 dispersa , e non ne sopravviva oggi che qualche scarsa memoria tramandataci da antichi inventari. Tale e tanta iattura vuoisi, anzitutto, ripetere dal fatto dei saccheggi e delle depredazioni a cui chiese e monasteri an- GIORNALE LIGUSTICO 349 darono soggetti per opera delle soldatesche, durante le guerre che insanguinarono P Europa dal secolo xiv in poi. Nella storia d’Italia è rimasto famoso, come tipo del genere, il sacco di Roma del 1527, quando i Lanzichenecchi di Giorgio Frundsberg, uniti agli Spagnuoli del Conestabile di Borbone e ai fanti italiani di Fabrizio Maramaldo, di Sciarra Colonna e di Luigi Gonzaga , per ben dodici giorni fecero de populo barbaro di tutto quanto eravi di più prezioso per materia e per arte nella metropoli del cristianesimo e della civiltà. Ma ben si può affermare in genere, che non v’ ha chiesa o monastero alquanto dovizioso che non sia stato messo a ruba più 0 meno volte nel corso delle tante guerre di cui fu teatro la penisola insino al chiudersi del ciclo napoleonico. Si capisce come in queste rapine venissero presi più specialmente di mira gli oggetti d’ oro e d’ argento. Ovunque e sempre, la preziosità della materia costituì il principale ostacolo alla conservazione dei cimelii spettanti alla suppellettile sacra. Da quando Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, spogliò la statua di Giove del famoso pallio intessuto d’ oro e tempestato di gioie, sulla considerazione che era troppo freddo per l’inverno e troppo pesante per Pestate, i Tesori delle chiese sempre fecero gola non solo ai ladri volgari, ai Barbari 0 alle soldatesche in guerra, ma a regnanti e a governi civili. Delle grandi imprese militari, dei più importanti avvenimenti politici e sociali fecero le spese, almeno in parte, i Tesori delle chiese. È questa la ragione della scarsità relativa delle oreficerie antiche fra i cimelii della suppellettile sacra a noi pervenuti. Già nel secolo x era sparita dalle chiese di Roma la quasi totalità delle meravigliose ricchezze di cui il Liber Pontificalis ci ha tramandata la memoria. Fin d’allora avresti invano cercato nelle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo le oreficerie 3)0 GIORNALE LIGUSTICO onde splendevano ai tempi di papa Leone III (i), e in quella di S. Giovanni in Laterano, omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput, l'incredibile profusione degli ori, degli argenti e delle gemme che l’autore della vita di S. Silvestro riferisce alla munificenza dell’ imperatore Costantino. Le guerre successive non fecero che assottigliare vieppiù il poco rimasto dei primi secoli del medio-evo , e per analoghe ragioni si andarono via via eliminando e perdendo i monumenti posteriori al secolo x, e quelli del Rinascimento che di mano in mano erano venuti a sostituirsi agli antichi. Per le Compagnie di ventura il saccheggio delle chiese e dei conventi costituiva, come oggi si direbbe , un cespite d’ entrata, il cui provento era considerato quale un articolo del loro bilancio ordinario. Le mosse dei Condottieri, il cui obbiettivo era sopratutto di arricchire, venivano spesse volte determinate non tanto dai punti strategici del rispettivo teatro d’ azione, quanto dalla ubicazione d’ un santuario o d’ una abbazia che offrissero la prospettiva d’ un ricco bottino senza troppi rischi e fatiche. Ad avventurieri della risma di quelli della Gran Compagnia, il capitano della quale, Guarnieri duca di Urslingen, con tanto di scritta ageminata a lettere d’ argento sul davanti della corazza , si intitolava « nemico di Dio, di pietà e di misericordia » , non potea certamente essere argomento di scrupolo il far man bassa sul Tesoro di un cenobio o di una (i) A quelle che costituivano la decorazione permanente della chiesa, e di cui ho dato un cenno sommario nel capitolo secondo , è d’ uopo aggiungere il materiale dei sacri utensili, degno all’ intutto della circostante magnificenza, sapendosi, ad esempio, che nell’occasione della sua incoronazione, Carlomagno offri alla basilica di S. Pietro tre calici d’oro, il primo dei quali a due anse e ornato di gemme pesava 58 libbre, il secondo 37 e il terzo 36 (Liber Pontificalis, in Leone III, t. II, p. 155)· GIORNALE LIGUSTICO 35 1 cattedrale; massime se il Tesoro andasse fra i rinomati per copia e preziosità di cimelii. Ma più scrupolosi in opera di rapina non si mostravano, del resto, i Condottieri delle bande al servizio dei papi: la Compagnia Santa sotto il comando di Giovanni Acuto informi. Che più? perfino un re — il re Ladislao di Napoli — movendo alla conquista di Roma, faceva del saccomanno la base del suo programma politico e amministrativo (r). Altra causa al depauperamento dei Tesori erano le taglie o imposizioni, onde in tempo e per cagione di guerra venivano gravati i monasteri e le chiese dal vincitore, e talvolta anche dal vinto; per far fronte alle quali, i monaci e i capitoli alienavano di sottomano molti oggetti d’ arte preziosi. Correvano i tempi in cui era in tutto il suo vigore la massima che la guerra si alimenta colla guerra ; e le truppe belligeranti prevvedevano il più delle volte ai propri bisogni taglieggiando non pure il paese nemico, ma anche P amico e il proprio. Molte e forti imposizioni di guerra ebbe a subire in tempi e circostanze diverse la Certosa di Pavia, tantoché i suoi priori si trovarono alcuna volta nella condizione di dover fondere al crogiuolo importanti cimelii di oreficeria per soddisfare ad esorbitanti esigenze delle autorità militari. Una delle cose che più mi colpirono quando nel 1890 presi in consegna la Certosa, quale Commissario Regio per quell’insigne monumento, fu di trovare che la tanto rinomata suppellettile sacra negli armadii delle due sagristie riducevasi a pochi argenti di niun pregio artistico e del complessivo va- (1) Egli si faceva precedere da un vessillo sul quale era scritto a grandi lettere : Io sono un povero re amico delli saccomanni. Amatore delli popoli e distruttore delli tiranni. 352 GIORNALE LIGUSTICO lore di poche centinaia di lire. Quale disinganno per un appassionato ricercatore di cimelii antichi ! Talora le contribuzioni forzate erano imposte dall’autorità politica dello Stato per sopperire a bisogni straordinari. Al pagamento della taglia di centomila lire, imposta al comune di Monza da Francesco II Sforza duca di Milano, allorché nel 1530 riebbe dall’imperatore Carlo V il possesso del suo ducato, contribuì in parte il Tesoro della basilica monzese; molti cimelii del quale fornirono 1’ oro pel conio delle monete occorrenti allo sborso della taglia. Per questo ed altri motivi, ai tempi del Frisi (1794) già mancavano a detto Tesoro una corona d’ oro gemmata, colla relativa croce e catena dello stesso metallo e lavoro, quattro calici a duplice ansa, 0 vasi d’oro gemmati, una pisside parimenti d’oro e una quantità di perle, gemme e pietre preziose (1). Gli stessi papi imposero talvolta alle chiese dello Stato Pontifìcio di spogliarsi di una parte delle proprie oreficerie per supplire alle deficienze dell’ erario. Così nel 1797 le (1) Anton Francesco Frisi, Memorie storiche di Monza e sua corte. Milano, 1794, I, p. 3. Le corone al tempo del Frisi non erano dunque più quattro , quante ne figurano sul già citato antico bassorilievo in marmo oggi murato sulla porta maggiore della basilica; ma riducevansi a tre, cioè alla corona di ferro, a quella della regina Teodolinda e all’ altra del re Agilulfo marito di lei, la quale ultima venne poi, come già più sopra ho accennato, derubata e fusa quando trovavasi a Parigi sul principio di questo secolo. Ebbi dianzi parimenti occasione di toccare del miserabile stato in cui tornò da Parigi il Sacro Catino della cattedrale di Genova; e potrei al-1’ uopo tessere un lungo elenco di analoghe iatture colà subite dai nostri cimeli:, molti dei quali, come appunto la corona di Agilulfo, più non fecero ritorno in patria. Poiché il governo francese avea depredato l’Italia di tanti e sì preziosi capilavori d’arte, sembra che avrebbe dovuto dare a questa almeno la consolazione di saperli ben custoditi e convenientemente trattati. * giornale ligustico 353 chiese delle Marche e dell’ Umbria dovettero privarsi di non pochi cimelii della rispettiva suppellettile, per corrispondere all appello del papa Pio VI che le invitava a provvedere ai bisogni dell erario esausto in seguito alla invasione irancese. Il generale Colli, al servizio del papa, si fece in quell’ occasione consegnare dall’amministrazione della Santa Casa di Loreto tanti ori ed argenti pel valore di circa due milioni di lire. Ma di assai maggiore entità fu lo spoglio quivi perpetrato dal Bonaparte nel febbraio del 1797. La basilica di Loreto , occupata dall’ avanguardia del generale Marmont, fu depredata dei sacri arredi e il suo Tesoro requisito ed esportato : perfino il vetusto simulacro della Madonna, rozza scultura in legno di cedro ricoperta di ricchissima veste trapunta d oro e costellata di gioie venne levato dal Santuario e spedito a Parigi (1). Nella Germania e nell’ Inghilterra, alle cause che contribuirono altrove alla distruzione e alla dispersione dei Tesori (1) Mancano dati attendibili per determinare con sufficiente approssimazione il valore effettivo del Tesoro del Santuario di Loreto. 11 Direttorio francese, in base a rapporti certamente inesatti, fin dal 14 di aprile del 1796, aveva accennato al Bonaparte la convenienza di metter le mani su quel Tesoro, che riteneva del valore di dieci milioni di lire sterline (Lettera di Letourneur al gen. Bonaparte, data 25 germinale, anno IV). Bonaparte, sotto la data dei 10 di febbraio 1797, l’indomani della resa di Ancona, scriveva da questa città al Direttorio che gli ori e gli argenti ammontavano a circa sette milioni di franchi (Correspond., II, p. 318, n. 1475). Il gen. Marmont, che comandava la spedizione, afferma nelle sue Mémoires (lib. II) che non vi si rinvenne più di un milione di lire in argento; l’oro, le gemme e altri cimelii di piccolo volume e di gran pregio essendo stati sottratti e posti in salvo. Lo stesso Bonaparte con lettera dei 15 di febbraio, ragguagliando il Direttorio dello spoglio eseguito, conferma non essersene ricavato più di un milione (Correspond II, p. 333, n. 1497). Ma trattasi di operazioni eseguite senza controllo. Gickn. Ligustico, Anno XVllI. 25 354 GIORNALE LIGUSTICO delle chiese, si aggiunse nel secolo xvi e nel seguente il fanatismo religioso suscitato dalla Riforma e 1 abborrimento dei primi Protestanti per le esteriorità del culto cattolico. Nè bisogna dimenticare che in ogni luogo e tempo i cimelii di oreficeria trovarono un vero nemico nella moda, ossia nel gusto artistico delle singole età. L’accanimento onde gli architetti del secolo xvn e del seguente sfigurarono la maggior parte degli edificii medioevali , raffazzonando con membrature e rivestimenti di stile barocco i più insigni monumenti dell’ architettonica romanza e dell’ ogivale, può dar la misura dell’ influsso che esercita la moda sul sentimento artistico. Questo influsso, poi, è naturale che si faccia maggiormente sentire nell ambito delle arti industriali ; fra le quali una delle più suscettibili è certamente 1’ oreficeria. Una volta non si dava alcuna importanza al peculiare interesse che un cimelio, eziandochè rozzo, può offrire dal punto di vista della storia dell’arte. Se non era giudicato bello alla stregua dell’ epoca , lo si relegava fra le cose deprezzate. In questo caso , se si trattava di un monumento architettonico, siccome sarebbe riuscito troppo ostico il distruggerlo, si contentavano di ridurlo a miglior forma, addobbandolo nello stile del tempo in modo da fargli fare la figura dell Omero tradotto dal Cesarotti. Se il monumento condannato era una scultura o una pittura, il più delle volte veniva messo da parte o passava in seconda riga, visto che non sarebbe tornato il conto di adibire il marmo o la tavola ad altro uso. Trattandosi, invece, di un oggetto di oreficeria, la cosa era ben differente. La fusione era facile, e la materia si prestava con docilità a ricevere altre forme. Quindi è che, mentre sarebbe affatto insolito che uno scultore si decidesse a servirsi d' una statua antica, per quanto rude , per trarne fuori una nuova, nè salterà mai in testa ad un pittore di raschiare GIORNALE LIGUSTICO 355 un trittico dell’ epoca di Cimabue pei- ridipingervi sopra, 1 orafo si procura generalmente la materia prima fondendo al crogiuolo altri ori ed argenti lavorati. Sotto questo rispetto si può dire che P oro e Γ argento ripioducono, in certo qual modo, nel campo dell’arte quel processo di trasformazione incessante della materia in cui consiste la vita della natura : e io vo pensando che se alcuno si trovasse in grado di ritessere la serie delle metamorfosi per cui passò traverso i secoli, pogniamo, una libbra d’ oro , a far tempo dal giorno che ricevette la sua prima forma artistica sotto il martello di un toreuta dei tempi omerici , e venendo fino a quello in cui subì l’impronta del conio che la tradusse in lire sterline — la più bella fra le monete odierne — costui, dico, potrebbe a buon dritto esclamar col poeta Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio, Che se quello in serpente e questa in fonte Converte poetando, io non Γ invidio. Leggo nella storia dell’ abbazia di S. Germano di Prés che la sontuosissima cassa, coperta di lamina d’ oro cosparsa di gemme, ex voto offerto a quella abbazia nell’888 dal re Eude per riporvi le reliquie di S. Germano , all’ intercessione del quale egli riferiva la vittoria da lui riportata contro i Normanni sotto le mura di Parigi, venne nel 1408 consegnata dall’ abate Guglielmo a tre orafi perchè la fondessero e ne formassero una nuova nel gusto stilistico del tempo. E trovo ancora che il vandalico abate rimase talmente soddisfatto di tale sua innovazione, che poco dopo fece fondere nello stesso crogiuolo un ricchissimo paliotto stato offerto all’ abbazia da uno dei suoi predecessori fin dal 1236 (1). (x) Dom. Bouillard, Histoire de Γabbaye de Saint-Germain de Prés. Paris, 1734, pag. 59, 166 e segg. 35^ GIORNALE LIGUSTICO È storia di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Sotto il regno di S. Luigi, la cassa di S. Genevieffa, prezioso lavoro di S. Eligio, venne fusa e rinnovata in base ad analoghi criterii. Lo stesso Francesco I, gran fautore di belle arti, non si peritò di fondere nel 1522 la grata d’argento di squisito lavoro entro la quale Luigi XI aveva fatto racchiudere la tomba di S. Martino in argomento di sua riconoscenza al Santo per la morte di Carlo il Temerario (1). Il papa Urbano Vili spogliava il Pantheon degli ornati antichi di bronzo ond’erano rivestiti i travi del portico, per adoperarne la materia nella fusione del macchinoso gruppo della Cattedra di S. Pietro condotto dal Bernini per la tribuna della basilica vaticana. Ai tanti cimelii eliminati dai Tesori pei motivi fin qui esposti, è d’ uopo aggiungere i non pochi trafugati e i mol tissimi altri che vennero in tempi e circostanze diverse alienati alla chetichella da capitoli, da fabbricerie, da opere, da confraternite o da parroci, per adibirne il ricavo alla estinzione di debiti, in restauri o decorazioni o ad altri fini più o meno legittimi. La famosa Madonna di Raffaello detta di S. Sisto , oggi nella Galleria di Dresda, fu venduta nel 1754 dai monaci cassinesi del monastero di S. Sisto di Piacenza, coll’ annuenza del papa Benedetto XIV, per ventiquattromila scudi , addu-cendosi a scusa della non mai abbastanza deplorata alienazione le molte passività di cui era gravato il monastero (2). (1) Jules Labarte, Histoire des arts industriels au Moyen-âge et à l'époque de la Renaissance. Paris, 1864, I, pag. 392 e seg. <2) Nella Biblioteca civica di Piacenza si conserva il testo dell’ istanza colla quale l’abate e i monaci del monastero di S. Sisto rappresentano a S. S. il papa Benedetto XIV, che, trovandosi il monastero gravato al sommo di debiti « tra per le passate guerre e per gli scarsi raccolti » , e presentandosi 1’ occasione propizia di sottrarsi a tali debiti e rimettere GIORNALE LIGUSTICO 357 La massima parte dei cimelii che oggi si ammirano nelle pinacoteche e nei musei proviene dai Tesori delle chiese, e venne alienata, il più delle volte clandestinamente, dalle rispettive amministrazioni, nell’ intento di procurarsi i mezzi per far fronte a spese di restami e di ornamenti, o semplicemente per convertire in rendita un capitale infruttifero. Queste alienazioni abusivamente perpetrate a danno del patrimonio artistico e archeologico della nazione, sono piaga antica d’Italia, e già la Repubblica veneta erasi preoccupata ai suoi tempi della gravità del male, promulgando severe disposizioni contro le sacrestie che trafficavano di tutto ciò onde la pietà e 1’ arte avevano arricchito i santuari. Ma l’indegno mercato continua pur troppo anche oggidì, nè si esagera affermando che la suppellettile sacra è in via di lenta ma incessante liquidazione. E pazienza ancora quando i cimelii venduti rimangono in paese. Non è gran tempo che il Capitolo della metropoli-tana di Torino si mostrò disposto a vendere ad un museo estero il più prezioso ornamento del suo Tesoro, dico il celeberrimo messale del cardinale Domenico Della Rovere dei conti di Vinovo, cimelio unico piuttosto che rr.ro nel suo genere, e giudicato superiore a quanti se ne conoscono in Italia, non esclusi Γ ufficio miniato da Giulio Clovio pel cardinale Alessandro Farnese, oggi nella Biblioteca nazionale di Napoli , e lo stesso breviario del cardinale Grimani della il monastero nel pristino lustro colla vendita del quadro di Raffaello, pel quale veniva offerto al monastero « l’eccedente prezzo di scudi venti-quattromila » , supplicano S. S. a conceder loro la facoltà di effettuare delta vendita, onde si ripromettevano « vantaggio spirituale e morale del loro monastero ». Io noto in proposito che la vendita del capolavoro venne effettuata , ma non per questo il monastero ritornò al « pristino lustro ». 358 GIORNALE LIGUSTICO Biblioteca di S. Marco in Venezia. Il Capitolo avrebbe tanto più dovuto astenersi dalla sacrilega alienazione, in quanto che fu appunto il cardinale Domenico Della Rovere, vescovo di Torino, che eresse di pianta e a tutte sue spese, su disegno di Meo del Caprina da Settignano, la metropolitana di S. Giovanni (i). Intanto il messale avrebbe preso la via d’oltr’alpe, se il Municipio di Torino, conscio della peculiare importanza non solo artistica ma storica e patria del cimelio (2), non ne (1) Si capirebbero le pratiche che i canonici della metropolitana torinese avessero fatte presso la Casa Reale nell’ intento di ottenere, per riunirli al proprio nel Tesoro di S. Giovanni, i tre altri messali di rara bellezza che lo stesso cardinale avea fatto eseguire per suo uso a Roma sullo scorcio del Quattrocento , e che oggi si ammirano nel Museo storico di Casa Savoia. Ma è incomprensibile che il Capitolo di una cattedrale si risolva a disfarsi per quattrini della più preziosa fra le memorie spettanti al fondatore della cattedrale stessa e per di più vescovo di Torino. (2) Il cardinale Domenico Della Rovere, Piemontese, dell’ antico e nobilissimo casato dei signori di Vinovo, fu ornamento e splendore della corte di papa Sisto IV. Questi, di omonima ma oscura famiglia ligure, trovò di che appagare la sua vanità nella compiacenza onde il Piemontese, lusingato a sua volta dall’ambizione di risultare parente del papa, si prestò ad accomodare il proprio albero genealogico in modo che al suo fusto facessero capo per antica diramazione i Della Rovere di Savona, o meglio di Albisola, a cui apparteneva il pontefice. Checchenessia di ciò, è certo che Sisto IV lo proseguì di singolare affezione, conferendogli, oltre alla dignità cardinalizia sotto il titolo di S. Vitale, il vescovato di Torino e altri ricchi benefizi. Il cardinale Domenico Della Rovere, successore nel titolo e nell’ufficio cardinalizio al fratello Cristoforo, fu senza dubbio uno dei più splendidi prela:i del suo tempo, e non pochi monumenti attestano anche oggidì la sua liberalità e munificenza. Eresse in Roma un magnifico palazzo non lungi da S. Pietro, e quel gioiello artistico che è la prima cappella a destra nella chiesa di S. M. del Popolo , architettata da Baccio Pontelli, GIORNALE LIGUSTICO 359 avesse deliberato l’acquisto pel Museo civico al prezzo di lire quarantamila. Ma quanti sono in Italia i Municipii che in circostanze analoghe farebbero altrettanto ? Cosi una immensa quantità di cimelii spettanti più specialmente alla suppellettile sacra usci e continua ad uscire d’ Italia. Chi non ricorda l’alienazione dei famosi avorii di Volterra, contro la quale tanto si gridò pochi anni addietro ? È forse antica 1’ esportazione dei codici Pallavicini dalla cattedrale di Lodi e dei quattordici corali della chiesa di S. Sisto in Piacenza, sontuosamente miniati nella seconda metà del Quattro-cento, i quali passarono per poco prezzo nella collezione del Cavaleri in Milano , d’ onde emigrarono presso il Cernuschi a Parigi ? e quella del reliquiario di S. Geroldo, pure da Piacenza? Non fu di recente schiodato dalla croce 1’ insigne Cristo d’ argento della cattedrale di Acquaviva per venderlo ad un rigattiere che lo rivendette al Rothschild? Non furono in questi ultimi tempi dalla amministrazione dell’ Oratorio di S. Bernardo presso Savona ceduti per cinquecento lire ad un negoziante di anticaglie tre quadri antichi a scomparti e fondo d’oro, uno dei quali, d’inestimabil prezzò per la storia dell’arte ligure, essendo firmato da Angelo Piccone savonese, sotto la data del 1345, venne poi dopo varie vicende acquistato per lire 12000 dal Brambilla di Milano? Ciò che riesce più incredibile si è che le amministrazioni le quali si resero colpevoli di queste espropriazioni possano trarre argomento di scusa dallo stesso Vaticano ; dove, dipinta dal Pinturicchio e adorna dello stupendo mausoleo destinato ad accogliere la salma del fratello e di lui; in Piemonte i castelli di Cinzano e di Rivalta, e il duomo di Torino. GIORNALE LIGUSTICO inflitti, venne testé venduto ad un incettatore straniero per conto del Museo di Kensington la Natività della Vergine, mosaico dell’ Orcagna già sulla facciata del duomo di Orvieto (i). Ma lasciando per ora i fatti contemporanei, e facendo ritorno al punto d’ onde mi sono sviato per questa non breve intramessa, dirò seguitando che in Francia 1’ epoca più fatale per i Tesori delle chiese, tu quando nel 1793 la Convenzione , spinta dalla necessità di provvedere alla difesa nazionale, condannò al crogiuolo la massima parte delle oreficerie onde constava la suppellettile sacra. Coloro pei quali le produzioni dell’ arte costituiscono altrettanti documenti per lo studio del periodo storico a cui cronologicamente si riferiscono, non sapranno mai consolarsi di questa misura superlativa della Convenzione francese : tanto più se si considera che il ricavo ottenuto mediante la fusione di tanti e sì preziosi cimelii non corrisponde a gran pezza al valore effettivo dei medesimi; essendo evidente che per molti dei monumenti cosi fusi — cito a caso il famoso trittico d’oro istoriato a bassorilievi che Carlo il Calvo aveva donato alla abbazia di S. Dionigi, e l’abate Sugero avea poi fatto adattare a paliotto nel secolo xii — il valore della materia prima, per quanto ragguardevole , non poteva rappresentare che ben poca cosa a confronto di quello speciale che 1 oggetto stesso avea come monumento , sotto il riplice rispetto dell’arte, dell’archeologia e della storia. (1) Quei mosaico fu lavorato nel 1362 dall’Orcagna sulla facciata del duomo di Orvieto, d’ onde venne tolto dopo più di quattro secoli, nel- I occasione del restauro della facciata, dal governo pontificio; il quale, sostituitolo con una copia, lo fece trasportare nello studio di mosaico in Vaticano per conservarlo meglio e perchè servisse da esemplare. giornale ligustico In Italia il momento della maggiore dilapidazione e dispersione dei Ί esori delle chiese corrisponde al periodo rivoluzionario che tenne dietro alla campagna del generale Bonaparte nel 1796. Il Bonaparte requisiva a titolo di contribuzione di guerra le opere d’ arte di maggior pregio che trovava nei paesi occupati dalle sue truppe vittoriose e le spediva come trofei, in un colle bandiere conquistate sul campo di battaglia, a Parigi, ove più tardi, sotto l’impero, furono raggiunte dalle tante altre destinate a costituire, con quelle, il Museo Napoleone, e d onde non tutte ritornarono nel 1816 (1). I suoi generali facevano altrettanto, colla differenza che non sempre erano disinteressati personalmente al pari di lui, e alcuni requisivano o asportavano per conto proprio. Lo Sposalizio di Pietro Perugino, tolto dai Francesi alla cattedrale di I eiugia , in seguito al trattato di Tolentino, per essere inviato al Museo del Louvre, scomparve allora senza lasciar (1) Fra i molti esempi che potrei addurre, ne sceglierò tre interessanti la storia dell’ arte in Liguria. L insigne ancona a tre scompartimenti dipinta nel 1490 da Giovanni Massone di Alessandria, di commissione del papa Giulio II, per la chiesa di S. Francesco in Savona, fu bensì trasportata a Parigi pel Museo Napoleone, ma pare essersi sviata nel ritorno perchè mai non raggiunse la nativa sua sede. La famosissima tavola di N. S. Assunta, portante la firma di Ludovico Brea e la data del 1495, oggi nel duomo della stessa città, quando partì per Parigi constava di nove scompartimenti, 0 quadri, ma ne ritornò con soli sei. Un’altra tavola non meno preziosa, rappresentante la genealogia di G. C. e firmata Laurentius Papicnsis fecit anno ijj], emigrò allora pari-menti da Savona (ove serviva da ancona nella cappella dei Multedo in S. Giacomo) a Parigi ; ma non ne ritornò ; essendo colà caduta miseramente nella Senna mentre, la si trasferiva da un luogo all'altro! 362 GIORNALE LIGUSTICO traccie di sè e trovasi oggi, non si sa come , nel Museo di Caen. Alcuni generali e alti funzionari francesi, misero assieme allora in Italia delle collezioni d’ arte e di archeologia , con mezzi analoghi a quelli onde più tardi nella guerra di Spagna , il maresciallo Soult si formò una celebre galleria di quadri di scuola spagnuola. Come se ciò non bastasse, molte insigni opere d’ arte vennero in quel periodo indebitamente regalate da Comuni e da altre autorità a generali e commissari francesi. Lo Sposalizio della Vergine, dipinto nel 1504 da Raffaello per la chiesa di S. Francesco in Città di Castello, venne regalato nel 1798 dal Consiglio municipale di quella città al generale Giuseppe Lechi (1). L’ammirabile cammeo in sardonica orientale a tre strati, colle teste coniugate del re di Siria Demetrio I Sotere e di Laodice sua sposa, cammeo che conservavasi nella sala del Consiglio dei Dieci nel palazzo ducale di Venezia, dove era incastrato nell’ interno di uno stipo contenente molti cimelii appartenuti nel secolo xvi al cardinale Gri-mani, fu nel 1797 dato in dono dalla Municipalità di Venezia al sig. Lallemand ministro di Francia presso la Repubblica (2). (1) Nel 1801 il quadro fu venduto dal generale Lechi al sig. Giacomo Sannazzaro di Milano, dal quale nel 1804 passò in eredità all’Ospedale Maggiore di detta città. Nel 1806, in seguito a reiterate istanze dell’Ac-cademia di belle arti, il governo, con decreto Vicereale dei 28 di maggio, ne fece acquisto per la Pinacoteca di Brera. (2) Dopo qualche anno il cammeo passò per vendita nel museo del-l’imperatrice Giuseppina, e trovasi oggi all’ Ermitage di Pietroburgo. Vittorio Poggi, Lettere inedite di Fulvio Orsini al card. Alessandro Farnese, con annotazioni archeologiche, p. 23, b. GIORNALE LIGUSTICO 363 Un altro cammeo non meno eccellente, colla testa di Drusilla figlia di Germanico e sorella di Caligola, incrostato con altri sei nel muro di una delle sale del tesoro nello stesso palazzo ducale, venne parimenti dato in regalo nell’ anno stesso e allo stesso ministro cittadino Lallemand dal governo provvisorio di Venezia (1). Il salterio di Angilberga, figlia di Ludovico re di Germania e moglie dell’ imperatore Ludovico II il Pio, codice di prezzo inestimabile, scritto a lettere d’ oro e d’argento su membrana purpurea, fu donato nel 1802 dai monaci di S. Sisto di Piacenza, insieme con un S. Anseimo dello Spagnuolo, al commissario della Repubblica francese Moreau de Saint-Mery che di que’ giorni « vendeva la propria protezione a chi voleva comprarsela » , come ben dice in proposito il chiarissimo mio amico conte Giuseppe Nasalli (2). E forse a questi regali se ne aggiunsero altri due, cioè un quadretto di Raffaello già esposto in uno dei due tempietti in fondo alla chiesa, e un piatto di maiolica dipinto pari-menti da Raffaello e che un documento attendibile designa come conservato nella foresteria del monastero (3). Anche qui 1’ esempio veniva dall’ alto , essendo stato dato dallo stesso papa Pio VI, il quale, quando il generale Bonaparte si disponeva ad invadere gli Stati della Chiesa, gli avea mandato incontro il cav. d’Azara coll’ incarico di scongiurar la procella e di offrirgli anzitutto in regalo , con spirito di fina adulazione, un busto antico di Alessandro Magno, lavoro (1) Ennio Quirino Visconti, Opere varie, III, p. 426. (2) Giuseppe Nasalli, Per le vie (fi Piacenza, VII, c. XI. Il salterio di Angilberga venne più tardi riscattato a gran prezzo in Parigi dall’ illustre piacentino Poggi La Cecilia e da esso restituito alla patria. Trovasi ora nella Biblioteca civica di Piacenza. (3) Gius. Nasalli, op. cit., ibid. 364 GIORNALE LIGUSTICO esimio di greco scalpello in marmo pentelico. La missione del cav. d’Azara fallì, è vero, completamente: ma il busto di Alessandro venne aggradito, ed è tuttora al Museo del Louvre. In Liguria, dove scrivo queste pagine, sotto l’influsso delle idee rivoluzionarie francesi, il governo, fin dal 28 di marzo 1797 avea fatto compilare Γ inventario degli ori, degli argenti e dei mobili delle chiese: il che, intanto, avea dato occasione ad una quantità di sottrazioni, sotto il pretesto di salvare una parte di detti oggetti dalla minacciata rapina. Nel successivo 1798, d’ordine del governo democratico, funzionante dal 13 di giugno 1797, sull’esempio della Convenzione francese, venne effettuato lo spoglio dei singoli Tesori delle chiese. Dovendo restringermi ad un esempio che valga a porgerci in certo qual modo la misura dell’ entità di tale spogliazione in Liguria, lo desumerò di preferenza, anche perchè l’argomento mi è più famigliare, dal Santuario di N. S. di Misericordia presso Savona. Lo spoglio delle chiese e del santuario di N. S. di Misericordia venne effettuato nei giorni 13 e 14 di aprile del 1798, o, come allora dicevasi, dell’anno II della Libertà Ligure. Non siamo finora in possesso di dati sicuri per determinare il numero e il valore degli oggetti requisiti. Fu scritto che vennero allora consegnati al commissario del governo della Repubblica Ligure, cittadino Domenico Silvani, dal cittadino avvocato Francesco Maria Ricci, altro dei membri del Magistrato della Madonna di Misericordia e depositario governativo delle gioie e degli ori ed argenti tolti alle chiese di Savona, tanti argenti pel peso di libbre 2076, 9, non comprese le gioie : ai quali bisognerà dunque aggiungere gli ori e le gemme che, come vedremo, erano molte. Però la nota degli oggetti sottratti, quale fu compilata ai nostri tempi sugli appunti mss. del prefato avv. Fr. Maria Ricci e del GIORNALE LIGUSTICO 3é5 sig. Giovanni Cassirtis, è fuori d’ ogni dubbio assai incompleta. Per esempio, si sa da documenti a stampa che le lampade d argento erano circa ottanta ; mentre sull’ anzidetta nota non figurano che in numero di dieci a dodici. Non si fa alcun cenno in essa di una grande quantità di gioielli ben conosciuti ; e noi sappiamo , dice in proposito il chiarissimo prevosto cav. Cesare Queirolo, « di calici d’oro e d’argento e di altri preziosi arredi che facean parte del Tesoro del Santuario, e che disparvero nel sacrilego bottino , senza che se ne abbia notizia ». La tradizione, desunta da persone del tempo, afferma che delle spoglie del Tesoro del Santuario furono caricati ben sette carri da buoi : e si calcola dai più moderati che il valore delle medesime non fosse inferiore ad un milione e mezzo di lire , anche non tenuto conto in tale apprezzamento del merito artistico (i). (i) E io confermo la tradizione , mi scriveva a questo riguardo quel dotto cultore delle patrie memorie che è il can. arciprete cav. Andrea Astengo, editore delle memorie del Verzellino, anzi aggiungo che, trattandosi di gemme e oreficerie, il valore mi pare al di sotto del vero ; nè si parla poi del valore che le oreficerie aveano come opere d’ arte. Per mettere in rilievo quanto sia al di sotto del vero la nota suddetta degli oggetti tolti al Santuario, non vi sarebbe di meglio che conoscere a quale somma approssimativa ascenda l’attuale Tesoro, composto quasi esclusivamente di oggetti donati posteriormente allo spoglio, tenuto conto dei moltissimi alienati di mano in mano dalla Commissione per convertirli in denaro a beneficio dell’ annesso Ospizio. Io son sicuro che tenendo calcolo di tutto , si avrebbe una somma non inferiore alle 500,000 lire. Ora se in così breve spazio di tempo e in tempi così critici fu donato al Santuario per una somma così rilevante , quanto non sarà egli stato donato nel corso di oltre a due secoli, in tempi in cui la fede era assai più viva e la devozione a questa madonna era così grande ed estesa? In oggi gli ori dedicati al Santuario sono moltissimi ; e dovremo credere che in allora tutta 1’ oreficeria sarà consistita in una medaglia con catenella, di un’oncia e un quarto di peso, che è quanto risulterebbe dalla 366 GIORNALE LIGUSTICO Non si parla poi delle tante sottrazioni di seconda mano onde le spoglie stesse furono oggetto, prima che di esse venisse effettuata la formale consegna al commissario Silvani ; e forse anche dopo. Sta in fatto che insaccate le oreficerie e trasportate su carri tratti da buoi a Savona , vennero quivi deposte e ammonticchiate alla rinfusa in una sala del palazzo detto allora della Madonna, perchè di proprietà del Santuario (i) ; dove pare che non fossero troppo ben custodite. Basterà dire che la sig.ra Veronica Isnardi , madre dell’illustre Scolopio che fu precettore di S. M. il re Vittorio Emanuele II e Rettore dell’ Università di Genova , penetrata di soppiatto nella sala ora detta , che trovò socchiusa (!) , ne sottrasse una ricca corona, che più tardi ridonò al Santuario ed è quella stessa che oggi cinge la fronte del simulacro (2). Ma se non esistono o non si conoscono documenti donde si possa attingere una nozione esatta di quanto fu sottratto nel 1798, non mancano però gli elementi per un elenco de’ principali oggetti che costituivano il Tesoro del Santuario trentotto anni prima dello spoglio. E ciò potrà bastare allo scopo. più volte citata nota? Credo che questo solo riflesso basti per convincere ognuno che lo spoglio fu di importanza molto maggiore di quanto si dice, specialmente tenuto conto del prezzo delle gioie. (1) È il palazzo ove attualmente ha sede il Municipio di Savona. (2) L’amministrazione del Santuario nel 1810 la fece rimontare alla imperiale e tempestare di gemme, quale oggi si vede, dall’orefice Semino di Genova. Servi alla incoronazione della statua per mano del papa Pio VII nel 1815. Il Garoni (Guida storica, economica, artistica della città di Savona, p. 241) calcola anch’egli che il Tesoro rapinato avesse un valore di un milione e mezzo di lire: ma erra affermando che la rapina venisse perpetrata nei primi anni del secolo e per opera dei « francesi cristianissimi, che abbellirono Parigi coi modi medesimi con che il ladro abbellisce la sua sposa ». GIORNALE LIGUSTICO 367 V. Conosciutissimo in Liguria e fuori è il Santuario di N. S. di Misericordia nella vallata di S. Bernardo a pochi chilometri da Savona; meta, per più secoli, di illustri pellegrinaggi (0> gran centro di divozione anche al presente, ove (1) Ecco alcuni dei personaggi storici che visitarono il Santuario. Don Filippo di Spagna (poi Filippo II), figlio dell’imperatore Carlo V, nel 1548· Emanuele Filiberto di Savoia colla consorte Margherita sorella d Enrico re di Francia, nel 1561 e 156}. Francesco Maria della Rovere, duca d' Urbino, nel 1556. Il cardinal Boncompagni, poi, Gregorio XIII, nel 1556. L’imperatrice Maria d’Austria, nel 1581. Carlo Emanuele I di Savoia nel 1585. Camillo Borghese, nunzio di papa Clemente Vili a Filippo II re di Spagna, nel 1595. Alberto arciduca d’Austria nel 1595, poi nel 1599 c°Ha sposa Isabella, Chiara, Eugenia, figlia di Filippo II re di Spagna. La regina Margherita d’Austria, sposa di Filippo III re di Spagna, con 1' arciduchessa sua madre nel 1599. La Duchessa di Mantova nel 1606. Il cardinale Giovanni Doria nel 1607. Filiberto di Savoia, Gran Priore di Castiglia, nel 1614, e nel 1621 in compagnia del cardinale Maurizio suo fratello. 11 duca di Feria, Governatore di Milano, nel 1618. Il principe Tomaso di Savoia nel 1620. Il cardinale Francesco Barberini, legato pontificio, nipote di Urbano Vili, nel 1621. Il cardinal Domenico Rivarola nel 1626. Il cardinal Gian Domenico Spinola nel 1629. Il duca di Mantova nel 1634. La principessa Maria, Infanta di Savoia, nel 1641. Donna Anna Barberini, nipote di Urbano Vili, nel 1647. Il conte di Ognate, già Viceré di Napoli, nel .'655. Il catdinal Antonio Barberini nel 1665. Il Principe Mattia di Toscana nel 1666. Il duca di Ossuna, Governatore di Milano, nel 1670 e 1672. Don Pietro d’Aragona, ex Viceré di Napoli, nel 1672. Il duca di Uceda, ambasciatore di Spagna al papa, colla consorte , nel 1669. Il conte di Lemos, generale delle galere di Napoli, nel 1701. Il cardinal Francesco Maria de’Medici, fratello di Cosimo III, nel 1702. Elisabetta Farnese, sposa di Filippo V re di Spagna, nel 1714. Il cardinal G. B. Spinola nel 1741. Il principe Don Filippo, Infante di Spagna, nel 1745, etc. Nel nostro secolo vi furono i papi Pio VII (1815), e Pio IX, quando ancora prelato andava Nunzio apostolico al Chili, i re Vittorio Emanuele I, colla regina sua consorte (1815), Carlo Felice, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele II. 368 GIORNALE LIGUSTICO convergono processionalmente una volta all* anno le popolazione di molti paesi del circondario, sede di geniali ritrovi a numerose brigate cittadine durante la bella stagione, soggetto di curiosità e di studio all’ escursionista, così per le memorie storiche che ad esso si connettono come pel peculiare interesse che presenta dal punto di vista artistico. Il tempio, infatti, è opera monumentale della 2.* metà del Cinquecento, e al processo di sua costruzione e decorazione, che ebbe compimento nei primi lustri del secolo xvn, presero parte i più distinti architetti e scultori che lavorarono in Liguria nel decorso di quel periodo, Pace Antonio Sormano e il figlio Giambattista, Taddeo e Giuseppe Carlone di Rovio, Pietro, Giambattista e Cristoforo Orsolino , etc. Il suo interno, ricco di marmi ornamentali e figurati, è istoriato a fresco per mano di Bernardo Castello, grande amico del Chiabrera, al quale quella « nobile pittura », come egli la chiama, somministrò occasione e argomento di nobilissima canzone (i). Molte e di singoiar pregio sono le opere d’ arte quivi contenute : tele del Dominichino, del Tintoretto, del prelcdato Bernardo Castello, di Orazio Borgianni, di Giovanni Battista Paggi, e di illustri pittori locali, quali Paolo Gerolamo Marchiano, Bartolomeo Guidobono, Gerolamo Brusco, etc.; statue e sculture a basso ed alto rilievo, fra le quali primeggia una meravigliosa Visitazioni che passa a buon dritto pel capolavoro, in questo genere, del Bernini, siccome quella che assomma in sè tutti i pregi senza alcuna delle mende carat- (i) È quella che incomincia : Sei aitoio loggione Di «juctla ville alpiaa La gitile peregrina Che per peine le ginoufct'a atterra, eii. GIORNALE LIGUSTICO 369 eie di quel grande artista (1); ex voto e donarii in cena e gioielleria , suppellettili ed arredi esimii per la j * materia e più ancora per la squisitezza del Quest ultima categoria, ossia il Tesoro propriamente detto, come gii dissi, quasi onninamente di oggetti provenuti al Santuario posteriormente allo spoglio del 1798. Quale fosse .ili epoca in cui venne depredato non risulta ocumenti ufficiali; ma se risaliamo alla descrizione che principali suoi cimelii ci lasciò il can. Giacomo Picconi nel 1760 (2), troveremo di che ricomporre colla mente tale un insieme di ricchezze da togliere ogni carattere iperbolico alla leggenda popolare, tanto più se si tien conto dell’ incremento che il lesoro stesso dovette di necessità conseguire durante i trentotto anni che trascorsero dalla data del 1760 a quella dello spoglio. Il Santuario non avendo cominciato ad acquistare fama, come tale, se non sullo scorcio del secolo xvi, si capisce «.orne al contenuto del suo Tesoro rimanessero poco meno che estranei i cimelii medioevali e del Rinascimento. Dal punto di vista dell’ interesse artistico, storico o archeologico, il Tesoro del Santuario di Savona non avrebbe quindi potuto a gran pezza competere con quelli di altre chiese liguri. Nessuno fra gli articoli della sua suppellettile poteva, invero, vantar l’importanza del Sacro Catino, della cassa di S. Giovanni Battista, della croce dei Zaccaria, del piviale (1) Questa ancona in marmo del Bernini sostituì nel 1665 un dipinto su tela di Guido Reni rappresentante lo stesso soggetto; quadro di cui si ignora il destino. Fu eseguita in Roma per commissione della nobile famiglia albisolese dei Siri, e valutata in quel tempo duemila scudi. (2) Giacomo Picconi , Storia deir apparizione e dei miracoli di N. S. di Misericordia di Savona. Genova, presso Bernardo Tarigo, mdcclx. Gio». Ligustico. Arno Vili. 370 GIORNALE LIGUSTICO detto di papa Gelasio II e di altre preziosità del Tesoro di S. Lorenzo di Genova: come invano avresti in esso arcato alcunché da contrapporre a parecchi interessantissimi cimelii che prima del 179S erano e soltanto in parte ancor sono in quello di Savona, quali la Rosa d'oro e l’ostensorio piramidale di papa Sisto IV ( 1) ; il pastorale, la croce, le sei statue di apostoli e la pianeta di papa Giulio II (2); quell’ammirabile oreficeria che è il gruppo della Fuga in Egitto, dovuta al bulino di Benvenuto Cellini, la stauroteca (i) La cosi detta rosa d'oro fu inviata da Sisto IV al comune di Savona e presentata in nome di lui agli Anziani il 21 di marzo 1478 da Enrico Della Rovere, marito di Franchetta sorella del papa. Consisteva in una quercia d’oro con ioglie e ghiande, insegna gentilizia dei rove-reschi, ed era alta due palmi e mezzo. L’ ostensorio, di architettura ogivale , con figure a tutto rilievo, è in argento dorato e pesa ventotto libbre. Porta la data del 1476· (ì) 11 pastorale, di argento dorato, allo palmi 10 c adorno di figure a rilievo e di «malti. con ritorto finiente in serpe , fu usato dal cardinale Giuliano Della Rovere, poi papa Giulio li, quando era vescovo di Savona. Ha la data del 149«. e ΡΜΑ ,ibbrc 9 c oncic 4· La croce è d' argento dorato con decorazioni in cristallo di rocca, smalti c statuette di egregio lavoro. Le sei statue di apostoli, dell' altezza di palmi tre, parimenti di argento durato — dono degno, anche pel pregio artistico, della munificenza di Giulio 11 — portavansi in processione disposte intorno ad una statua maggiore di N. S. Assunta in gruppo con tre angeli, dello stesso metallo, alu palmi quattro e del peso di libbre }6, che la comunità di Savona avea fatto eseguire da Camillo di Molteno in Milano nel * 5ì * co,la sPesa di scudi 667, }2, il. La pianeta è di raso violaceo, fiorata in scia con figure a ricamo d oro. Dall’ inventario della Masseria del duomo di Savona compilato da Agostino Abati nel 1542 e testé pubblicato dal ch. Ο. V araldo, rilevasi che conscrvavansi in duomo, quali regali di Giulio 11, anche una pace e quattro candelabri d'argento, due dei quali con decorazioni in cristallo di rocca, e tutti insigniti dell'arma roveresca. giornale ligustico 371 del vescovo Pietro Gara e parecchi altri utensili sacri dell’epoca dei due papi rovereschi (1); la mitra detta del B. Ottaviano, il baldacchino di papa Clemente VII (2), etc. 1 er contio si può affermare che P arte dei secoli xvn e xvm eravi rappresentata in tutta la ricchezza del suo sviluppo, in tutta la serie delle sue fasi tecniche e stilistiche. Registrerò qui sotto alcuni fra i cospicui oggetti di detto 1 esoro, desumendone la notizia dalla precitata monografìa a stampa del Picconi (il quale, a sua volta, oltre all’aver avuto contezza de visu degli oggetti descritti, attinse una gran parte (lì 11 gruppo del Cellini, in argento dorato, pesa libbre 2, oncie 7. La croce, o stauroteca, del vescovo savonese Pietro Gara II (1472-1498) e in argento dorato, costellata di gemme e perle con lavori in filigrana. Pesa libbre 6, oncie 2. Altri cimelii dell'epoca dei papi rovereschi o di poco posteriori sono il baculo del cerimoniere in legno eeotico decorato d’argento, col pomo in cristallo di rocca; le mazze pei pontificali, in argento dorato, dalle teste esagonali fregiate di smalti e di pitture, coll’arma del cardinale Agostino Spinoia (1528-1537); gli argenti e i paramenti sacri in broccato d oro a ricami, del cardinale savonese Marco Vegerio, (1505-1516), del prefato cardinale Spinola, di Carlo Del Carretto arcivescovo di Avignone, pure savonese, etc. (2) La mitra del B. Ottaviano vescovo di Savona, (1119-1128) è segnalata nelle memorie del secolo scorso come « tutta fregiata, anzi ricoperta di perle ». Fra le divers- mitre eravene una ricchissima, dono del cardinale Agostino Spinola. Il baldacchino di papa Clemente VII è di broccato d’ oro e seta colle armi Medici e Spinola, essendo stato donato da Benedetta moglie del patrizio savonese Alfonso Spinola, fratello del cardinale Agostino. Fu ricevuto sotto di esso, addi 10 di novembre 1533, papa Clemente VII reduce da Marsiglia, ove avea assistito alle nozze di Caterina dei Medici sua nipote col terzogenito di Francesco I d’Orleans, poi Enrico II. Nel 1543, l’imperatore Carlo V prendendo parte alla processione del Corpus Domini in Savona, portò un asta di questo storico baldacchino in compagni* dell’arcivescovo di Toledo e di altri prelati, principi e alti dignitari. 372 GIORNALE LIGUSTICO dei dati relativi ai medesimi dai cronisti locali Verzellino , Alberti, Lamberti, e da altri documenti), non senza aver presenti le note, per quanto incomplete, che degli oggetti sottratti nel 1798 compilarono ai nostri tempi il parroco Cesare Queirolo e il teologo G. B. Brunengo, sui già menzionati appunti manoscritti trovati nelle schede dell’ avv. Francesco Maria Ricci e del sig. Giovanni Cassinis, sincroni allo spoglio. Reliquiari Reliquiario d’ oro con decorazioni in smalto, dono del nobile genovese Luigi Centurione, 1740; Altro sferico di cristallo sostenuto da due angioli d’argento colle ali dorate, posati su piedestallo d’ argento dorato nel cui mezzo Γ arma gentilizia di Alessandro Siri vescovo di Sagona, 1639; Altro d’argento in parte dorato, di forma rotonda , con cupola sostenuta da tre colonnine. Contiene un cilindro di argento entro cui la reliquia. Dono del vescovo di Savona , Pier Francesco Costa, 1596; Altro d’argento, di forma quadrilatera, con cupola poggiante su quattro colonnette e sormontata da statuetta di S. Rosalia. Ai vertici degli angoli si librano quattro angeli, e sotto la cupola si eleva altro minor reliquario rotondo dello stesso metallo. Dono del savonese Giacomo Besio dimorante a Palermo. Calici Quattro di oro purissimo, il primo dei quali dono di Francesco Maria Della Rovere duca di Urbino, 1566; il i.° del savonese Giuseppe Francesco Ferrerò arcivescovo d’ Urbino, x597 (1); il 3.0, lavorato a bulino, di Lavinia de’ Marini pa- (1) Giuseppe Ferrerò Arcivescovo d’ Urbino, Consigliere di Stato di Enrico IV re di Francia e Vice Legato di Avignone , uno degli uomini più eminenti, per ingegno e dottrina, del suo tempo, nacque in Savona GIORNALE LIGUSTICO 373 trizia genovese, 1749, e l’ultimo, con lavori di rilievo, del cardinale G. B. Spinola, 1751. Sette d’ argento, fra cui unp donato dal principe di Monaco, 1656; un altro collo stemma dei Grimaldi, 1681; altro con pregiati lavori di alto rilievo, del cardinale Giorgio Spinola, 1724; altro con ornati a bassorilievo, 1724; altro di squisito lavoro, in peso libbre 7, ex voto del Principe d’Ar-dore, 1753 ; etc.. Fra gli ostensorii ne trovo segnato uno d’ argento a raggi, del peso di libbre 5, offerto dall’ arcivescovo d’ Urbino monsignor Ferrerò, 1598; e un altro ricchissimo, pure d’argento, di forma sferica e del peso di libbre 6. Due angioli in atto di sostenere una corona imperiale posante sopra il giro della sfera entro alla quale si colloca l’ostia, mentre al di sotto della sfera si aggrappano altri angeli. N. 55 diamanti guarniscono la corona; n. 32 sono disposti lunghesso il giro della sfera (1); e 5 altri sotto il gruppo degli angeli infe- nel 1561. Assunto nel J597 all’Arcivescovato di Urbino, fu dapprima carissimo al duca Francesco Maria, tanto che questi, non contento di averlo chiamato a tale dignità e d’avergli donato una villa principesca, volle anche inserita nell’ arma di lui quella dei Della Rovere. Insorti dei dissapori fra lui e il duca, si ritirò aRoma, donde fu chiamato a lar parte del Consiglio privato del re di Francia. In tale ufficio trattò con successo, fra le altre, due pratiche importantissime, quella, cioè, relativa alla benedizione del re e 1’ altra della dispensa del matrimonio di Caterina sorella del medesimo col duca di Lorena. Nel 1607 fu nominato vice Legato d’Avignone , dove mori il 16 di marzo 1610 di appena 49 anni, alla vigilia di essere insignito della porpora cardinalizia. La sua salma venne trasportata in patria e tumulata nella chiesa di S. Giacomo, che fu per più secoli il Pantheon di Savona ed è oggi, proli pudori ridotta a reclusorio militare di pena. (r) Nella nota pubblicata dal Queirolo , i diamanti sono in tutto 93 , cioè n. 33 intorno alla sfera, n. 55 alla corona e n. 5 nel gruppo. Inoltre il peso dell’ ostensorio è di libbre 6 e oncie 4· 374 GIORNALE LIGUSTICO riormente alla medesima, tutti di gran valore. Porta le iniziali di donna Livia Grillo Doria Spinola, nel cui nome fu presentato dal duca di Tursi Gian Andrea Doria, 1737. Fra le pissidi, una donata dalla principessa d’Avello, 1641, altra d’argento dorato, dal prefato arcivescovo d’Urbino, 1598, (1); etc. Fra i turiboli, quello con ricca navicella presentato dal patrizio genovese Angelo Lomellino, etc.. Arredi d’altare Mons. Sebastiano Albani, savonese, avea donato al Santuario tutte le sue argenterie da altare. Così pure mons. Stefano Siri. Un tabernacolo d’ ebano punteggiato e ornato di argento , con Sacrum Convivium e relative tavolette d’ argento, di egregia fattura, era dono della principessa d’Avello, 1641 ; un altro d’argento, ricchissimo, collo stemma dei Morando, 1666, etc. Nella stessa categoria vanno compresi gli infrascritti argenti: il paliotto istoriato a figure d’ alto rilievo, del peso di oltre a 82 libbre, con in mezzo la figura di N. S. di Misericordia fra S. Domenico e S. Francesco, 167 s Statue massiccie 4, dono di patrizie genovesi ; Sacrum Convivium con sue tavolette , in peso libbre 13 , portante lo stemma dei Riario; Croce con crocifisso, del peso di libbre 14, coll’ arma dei Raimondi, nobili genovesi ; Croce del peso di libbre 30, dono dei Gavotti ; Decorazione in argento massiccio della nicchia entro cui è (1) Noto qui di passata còme lo stesso mons. Ferrerò mandasse in dono in quell’ anno stesso all’ Oratorio di S. M. di Castello in Savona un bel crocifisso d’ argento del costo di 400 scudi, di cui, manco a dirlo , si è perduta ogni notizia. GIORNALE LIGUSTICO 375 collocata la statua, con Γ arma della città di Savona e figure di pulii in rilievo (i); Trono dell’altare (2); Custodia e gradini dell’altare, 1666 (3); i soli gradini costarono al nobile Gian Domenico Spinola pezzi 250 da otto reali ciascuno. Due Angioli da una parte e dall’altra della nicchia, del peso di oltre a 13 libbre; Una quantità di svariati vasi da altare, due dei quali offerti dalla Duchessa di Mantova di ritorno da Parigi, ove era andata a tenere a battesimo il figlio del re suo nipote; e altri assai da noti patrizi liguri ; Candelieri di diverse forme e dimensioni. Mi limito ad accennare i seguenri : N. 2 in forma di angeli, con arma dei Gavoni ; » 4 a piramidi triangolari con ricchissima decorazione id. ; » 2 a fusto di colonna con motivi ornamentali di squisito lavoro, dono del nobile Franco Borsotto ; » 2 del peso di libbre 71, di mons. Francesco Raimondo; » 2 del peso di libbre 26 ; » 2 in peso libbre 17 ; (1) Nella nota degli oggetti consegnati al Commissario della Repuhblica Ligure trovasi la partita : N. 2 putti e contorno del nicchio spezzato in n. 28 pezzi, del peso di libbre 43 e oncie 4. (2) Nella nota suddetta leggesi : Trono disfatto, del peso di libbre 20 e oncie 4. (3) Nella nota di cui sopra: Custodia e gradini disfatti in pezzi n. 38, del peso di libbre 30 e oncie 8. L’altare odierno della Madonna è pure d’ argento a due gradini, e costrutto in modo che, levato il tabernacolo, si divide in due parti, le quali tirate 1’ una a destra e l’altra a sinistra, lasciano in mezzo lo spazio per apporvi la scala per cui i devoti ascendono al bacio dei piedi. 37^ GIORNALE LIGUSTICO N. 2 in peso libbre 9 ; » 2 di ugual peso, etc. ; doni di famiglie patrizie savonesi. Lampade AI tempo del Picconi ne pendevano in chiesa 67, tutte di gran valore, non poche di singoiar pregio artistico. Altre erano riposte nel Tesoro. Teneva il pi imo luogo « per la maestà del dono e del donatoi e » quella assai grande che offerse il serenissimo Senato di Genova per la pace conchiusa nel 1673. Il suo corpo di argento, su cui brillavano le armi e corone d’oro, diramavasi in tre braccia, in' modo da formar quattro lampade in una, del peso totale di libbre 34. Eravene una bellissima, mandata in dono da S. M. P im-peiatrice Maria d Austria nel 1581; un’altra, di cristallo, del valore di lire duemila, era dono del duca di Ossuna , Governatore di Milano, 1673» un' altra, con cento doppie annesse, 1 aveva offerta la duchessa di Medina-Celi, etc. Alcune ostentavano forme singolari. Due di esse, dono di Gian Andrea Doria duca di Tursi e di donna Livia sua moglie, 1699 > erano costituite da un’ aquila d’ argento con un tridente fra gli artigli. Una, formata a cuore , l’aveva presentata il P. Ansaldo Mari. Quella offerta dal cardinale Lorenzo Raggio nel 1678 riproduceva lo stemma gentilizio di lui ; era formata da uu leone che sostiene un cuore , il tutto d’argento ; in cima al cuore ardeva di continuo la fiamma, e al disopra allargavasi il cappello cardinalizio d’ argento dorato, vagamente disposto con fiocchi dallo stesso pendenti. Di forma triangolare era quella di lavoro assai pregevole e della valuta di cento zecchini inviata nel 1733 dal colonnello d’artiglieria Guglielmo Barone di PfetFershoven , moravo; la quale portava da un lato l’effigie a bassorilievo della Madonna titolare, da un altro l’arma gentilizia del donatore e dal terzo finalmente una epigrafe di dedica in otto linee. giorkale ligustico 377 Voti Fra i più ragguardevoli erano quelli offerti dalla città di Savona in tre grandi tavole d’ argento istoriate a rilievo. La i. eia stata presentata nel 1631, in rendimento di grazie per la preservazione dalla peste. Eravi effigiata la città colle principali vie, fabbriche e mura; costò oltre a duemila scudi. Il 2. quadro rappresentante del pari a bassorilievo la città di Savona fu offerto in ringraziamento per essere andato a vuoto il tentativo diretto contro la città nel 1672 da Raffaele Della Torre alla testa d’ un reparto di truppe del duca di Savoia. Il 3.0 ex voto rappresentava Savona in prospettiva dalla parte del mare verso il porto, veduta dal colle di San Giacomo, e fu presentato a ringraziamento dell’ esser la città rimasta illesa dal bombardamento minacciato dagli Inglesi ai 26 di luglio 1745. Di voti minori trovo che nel 1798 fu riempiuto un gran sacco del peso di libbre 210 di argento, più un altro contenente pezzi n. 68, del peso di libbre 38 e oncie 10 (nota Queirolo). Gioielli Ecco un elenco sommario dei più conosciuti: Gioiello composto di N. 1600 diamanti, molti dei quali di gran valore, apposto al petto della statua da donna Isabella Guiron duchessa di Uceda moglie dell’ ambasciatore del re di Spagna al Papa, 1699. Guarnizione al collo della statua, costituita da 308 diamanti trapuntati su velluto nero e da cui pende un grosso rubino del valore di mille doppie; valore totale calcolato in sessanta mila lire. Quattro gioielli di giacinti e diamanti appesi al collo della statua da Don Pietro d’Aragona, Viceré di Napoli, 1672. Corona d’ oro tempestata di diamanti e di gemme, del peso di oncie ventisei e mezza. Cingeva il capo della sacra statua, alla quale era stata donata nel 1665 da Carlo Doria sotto 378 GIORNALE LIGUSTICO condizione che non potesse venir sostituita da altra se non di maggior valore. Stando ai dati proferti dalla nota del Quei-rolo, questa corona era costellata di N. 1183 diamanti, 329 rubini, 206 smeraldi, 52 zaffiri, 9 topazi, 2 granate, 600 tra fiamminghe e faccelle e 2 ametiste. Altra corona d’oro gemmata del peso di oncie 10 e del costo di scudi romani 176, circa mille lire. Fu mandata in dono da! Capitolo di S. Pietro in Vaticano di Roma nel 1770, come risulta dall’iscrizione incisavi alla base (1). Gli ornamenti della statua, oltre alla corona dianzi descritta, sono così indicati nella nota edita dal Queirolo : Pretensione della statua, gioie..... . N. 296 Nodo del petto, pietre e gioie..... » 779 Smanigli con gioie......... 146 Guarnizione del manto in due pezzi, con gioie » 7263 Cintura con pietre preziose...... » 577 Fiori del manto, id., ........ » 2622 Cuore col nome di Maria, tutto a diamanti ; dono di Ge- rolamo Durazzo, estimato lire ventimila. Altri ornamenti e gioielli : N. 22 rose di diamanti, ossia gioielli di varie figure e tutti (1) Come i papi mandano la rosa d’ oro a principi o a comunità, è uso del Capitolo di S. Pietro in Roma di inviare in dono corone ai più famosi simulacri. La corona donata dal Capitolo di S. Pietro alla Madonna di Misericordia nel 1770 non fu posta altrimenti sul capo della statua , quella regalata precedentemente dal Doria essendo di un valore di gran lunga superiore. Spogliato il Santuario nel 1798, e portate ambedue le corone, colle altre spoglie, in Savona, ne fu sottratta una, come già narrai nel capitolo antecedente, la quale è appunto quella dei canonici di S. Pietro. Questa corona, fatta poi rimontare e arricchita di pietre preziose, venne posta sul capo della statua, ove tuttora si trova, dal papa Pio VII nel 1815. 379 di gran valore, i cui donatori sono registrati nella storia del Picconi ; Ricca gorgiera di diamanti, id. ; Vezzo di rubini, id. ; Filza di grosse perle, id. ; Id. con pendenti, id. ; Catene d oro con croci e gioielli, n. 16; Anello singolare, dono di donna Vittoria Doria ; Prezioso gioiello di diamanti formanti la croce di Sant’Iago, dono del marchese di Villamaggiore ; N. 2 croci di Sant’Iago guarnite 1’una di 150 diamanti e 1 altra di 21 fra diamanti e topazi, dono di D. Carlos Ra-mirez di Bachedano, 1698 ; Anello con diamante del valore di 400 ducati lasciato dal savonese Alessandro Ferreri barone di Tricarico, 1611; Collana di diaspro con quattordici bottoni d’ oro, ed una croce d’ oro con granate nelle quali era incisa la passione di G. C.; N. 2 pendenti d’ oro guarniti di 40 diamanti ; più altri quattro diamanti assai grossi ed un rubino di straordinaria grandezza rinchiuso entro un cuor d’ oro ; dono del conte di Mombasilio, 1666; Gioiello di n. 47 diamanti, 1679; Gioiello d’ oro con croce rossa di Sant’ Iago, guarnito di n. 150 diamanti con ornamento sovrapposto guarnito esso pure di diamanti, 1680; Catena d’oro lavorata, del peso di oncie quindici e mezza, 1680; Spada con guardia e manico di agata guarnito di diamanti e rubini, e un bastone d’ avorio con manico di diaspro guarnito di diamanti , dono di Gian-Andrea Doria, duca di Tursi, 1710; N. 2 vezzi di perle in numero di 400, dono Brignole, 1704; 380 GIORNALE LIGUSTICO Gioiello di n. 53 diamanti legati in oro, dono del marchese di Bedmar, 1708 ; Farfalla d’oro costellata di n. 24 diamanti e 16 smeraldi, dono Franzone, 1711; Paio pendenti con 11. 17 diamanti, dono barone Cattaneo, 1712 ; Grossa croce d’ oro con n. 6 grossi zaffiri e 16 diamanti, id. mons. Francesco Maria Sacco, savonese, vescovo di Brugnato, 1716; Cuore d’ oro, 1730, id. Gavotti ; Id. 1734, id. Gentile ; Globo d’argento dorato su cui incisa la leggenda inclvsos • refove, perchè nell’interno del medesimo erano scritti i nomi degli oblatori, 1742; Anello d’oro con diamanti, dono Doria, 1722; Croce d’oro con n. 6 smeraldi e 8 diamanti, id. monsignor G. B. Curio vescovo di Nebbio, 1741 ; Croce di Calatrava ornata di n. 9 grossi diamanti, id. marchese D. Antonio D’Albizzo, 1742; Cuore guarnito di 11. 10 diamanti, id. ; Anello d’ oro con grosso diamante, id. Serra ; Id. con diamante di gran valore, id. Gavotti ; Crocetta guarnita di n. 23 diamanti, id. Grillo Cattaneo, 1749 ; etc. etc.. Paramenti Sontuosissimi erano gli apparati che si conservavano nella sagrestia del Santuario, alcuni dei quali di interesse storico oltre all’ artistico. Noi sappiamo che Emanuele Filiberto Duca di Savoia donò al Santuario ricchi paramenti di broccato portanti lo stemma di Savoia, in rendimento di grazie per la nascita di Carlo Emanuele I nel 1563. L’anno 1625 il cardinal Francesco Barberini, nipote di giornale ligustico 381 papa Urbano Vili, mandò un sontuoso paramento, una pianeta e una cortina di gran prezzo : altro ricco paramento e pianeta con ornamenti a ricamo d’oro offerse nel 1628 Francesco Maria Della Rovere duca d’Urbino. Cosi sappiamo che nel 1641 la principessa Maria, Infante di Savoia, presentò una pianeta guarnita d’oro e d’argento di egregio lavoro e di gran costo, e più tardi un paliotto e una cortina analoghi. Ma troppo lungo, oltre che inutile, sarebbe il riandare la serie dei personaggi amplissimi che nel corso di tre secoli dotarono il Santuario di preziosi paramenti; e sebbene il Picconi affermi che dei donatori dei sontuosi apparati che ai suoi tempi si conservavano nel Tesoro una gran parte erangli ignoti, avendo i medesimi per modestia tenuto occulto il proprio nome, e di molti altri per le vicende dei tempi era andata perduta la notizia, tuttavia il catalogo che egli ci porge dei conosciuti, cui divide in due categorie, secondo che donarono ricchissimi o ricchi apparati, è tale da non invogliare a riprodurlo nemmen per sunto. Il sin qui esposto potrà somministrare un’ idea delle ingenti ricchezze che, a prescindere da altre categorie di beni, e nella sola sfera dei mobili rappresentati dai prodotti delle arti industriali, costituivano il patrimonio del Santuario di N. S. di Misericordia presso Savona nel 1798; di che giudichi il lettore quali perdite abbiano in genere subito i Tesori delle chiese in Liguria e altrove per effetto degli spogli perpetrati nell’ ultimo decennio del secolo xvm. (Continua). V. Poggi. 382 GIORNALE LIGUSTICO VARIETÀ Dì un sirventese-discordo di Bonifazio Calvo. Di poesie scritte in più lingue dai trovatori provenzali si conoscevano finora una canzone-discordo di Rambaldo di Vaqueiras e un contrasto bilingue dello stesso poeta (1) ; del sirventese - discordo di Bonifazio Calvo, del quale ora vengo a parlare, nessuno ha mai dato notizia determinata e precisa. Anzi nessuno finora lo avea riconosciuto come tale, quantunque un accenno del Nostradamus (2), sul quale ritorneremo fra poco, ripetuto poi da alcuni biografi antichi del nostro trovatore, avrebbe potuto spingere qualche studioso a rintracciare questo sirventese-discordo fra il patrimonio poetico che i canzonieri provenzali ci hanno conservato del Calvo. Ne solamente un nuovo esempio di discordo ci fornisce la poesia del Calvo, perchè essa ci si presenta con una forma e un contenuto diverso da quello delle due poesie di Rambaldo. La nostra poesia è un sirventese-discordo di contenuto storico, mentre la poesia di Rambaldo in cinque lingue è una canzone, il contrasto bilingue è pure una canzone ma a dialogo, e la contenenza d’ambidue amorosa, (1) Vedi la recente illustrazione di Vincenzo Crescini, Il contrasto bilingue di Rambaldo di Vaqueiras, Padova, Randi 1891 (Estr. dagli Atti e Memorie della R. Accademia di Sciente, Lettere ed Arti di Padova, voi. VII, disp. II). (2) Non avendo potuto servirmi dell’ edizione francese delle Vite de’ più celebri poeti provengali del Nostradamus, cito dalla traduzione del Crescimbeni, vol. II dei Conientarj all' Istoria della volpar poesia, Roma, Antonio de’ Rossi, 1710, p. 81. giornale ligustico 583 siccome prescrivono le Levs d'Amors (1), le quali dettarono queste leggi ricavandole evidentemente dai due esempi di Rambaldo stesso. Il sirventese-discordo di Bonifazio Calvo è dunque un nuovo esempio dell’ artificio poetico onde si compiacquero i trovatori di Provenza anche più famosi; più importante per noi, chè ci mostra come i nostri rimatori del secolo decimoterzo sapessero maneggiare la vicina lingua d’oltr'alpe, quando erano capaci d’adoperare una delle forme più artificiose della lirica occitanica (2). Ma prima un po’ di storia. Giovanni Nostradamus, nelle sue Vite dei più celebri poeti provengali, scrive nella biografia del Calvo : «.....produsse parecchie belle canzoni nelle lingue provenzale, spagnuola e toscana, che sentono di filosofia, nella quale era molto versato. Tra le sue canzoni (1) I. 342. (2) Ho detto nostro rimatore, perchè Bonifazio è italiano, non perché abbia poetato nel nostro idioma, sebbene questo non sia fuor del verosimile. E per la medesima ragione, sebbene il sirventese-discordo appartenga più alla letteratura provenzale, giacché nulla vi si riscontra de’ nostri volgari, faccio una noticina per avvertire che questa poesia poliglotta del trovatore genovese essendo stata composta tra il 1253 e il 1254, come sarà dimostrato in seguito, è più antica non solo delle tre epistole trilingui del padovano Matteo Correggiato (1332) di cui discorse nella Rivista critica (anno V, col. 122-125) Francesco Roediger, ma anche di quella canzone poliglotta che alcuni e recentemente il Prompt (Académie des inscriptions et belles lettres, agosto 1890), ma con troppa leggerezza, credo, tribuirono all’Alighieri. Del sirventese-discordo del Calvo non parlano nei loro trattati Delle Rime volgali nè Antonio da Tempo nè Gidino da Sommacampagna, sebbene questi dia le regole per il sirventese trilingue. Di poesie poliglotte, specialmente in forma di sonetto, ne abbiamo molte nella nostra letteratura, e su di esse può vedersi con utilità quel che ne dicono il Biadene nella sua Morfologia del Sonetto in Studi di FU. Rom., fase. 10, p. 177, e il Flamini nel libro La lirica toscana del rinascimento, Pisa, 1891, pag. 666. 384 GIORNALE LIGUSTICO se ne truova una composta di dette tre lingue, che indirizzò ad Alfonso re parimente di Castiglia, in cui lo persuade a muover guerra al re di Navarra e di Aragona per ricuperare le sue tene » (i). Questa notizia fu ripetuta tal quale dal Soprani (2), dal Giustiniani (3), dallo Zilioli (4), dal Galvani (5); nulla ne dissero il Basterò (6), il Diez (7) e lo Spotorno (8), il quale ultimo può dirsi il primo vero biogiafo del Calvo, giacché nella sua storia letteraria della Liguiia esaminò criticamente, per quanto era possibile allora, le notizie che del Calvo si aveano, e delle sue poesie diede diligente notizia e anche qualche saggio di traduzione giovandosi del codice Estense di rime provenzali. Dei recentissimi, il Mila y Fontanals notò il nostro sirventese nel suo (1) Op. cit. loc. cit. (2) Li scrittoi i della Liguria e particolarmente della Maritima di Raffaele Soprani. In Genova, mdclvii. Per Pietro Calenzani, p. 64. (3) Gli scrittori liguri descritti dall'Abbate Michele Giustiniani Patrizio Genovse. In Roma, appresso Nicol’Angelo Tinasi, mdclxvii. (4) L autografo dell Istoria delle Vite de’ Poeti italiani di Alessandro Zilioli veneziano si trova nell’Aprosiana di Ventimiglia ; io cito dalla copia che si conserva nella Marciana : cod. Marc. Ital. x a car. 40. (5) Osservazioni sulla poesia dei trovatori, Modena, Soliani, mdcccxxix, p. 114-115· U Galvani riferendosi alla canzone poliglotta attribuita a Dante dice. « Dirò prima solamente, che ne può Dante più vicinamente aver presa 1 idea da una di Bonifacio Calvo della quale parla così il Nostradamus ». Il Galvani, come gli altri moderni che si occuparono del Calvo, credette probabilmente che il sirventese-discordo del trovatore genovese fosse andato perduto. (6) La Crusca Provengale, in Roma, mdccxxiv, nella stamperia d’Antonio de’ Rossi, p. 80. (7) Non 11e parla nè nella Poesie der troubadours nè nei Leben und IVerke der troubadours. (&) Stona letteraria della Liguria. Genova, 1824, Ponthenier, vol. I, pag. 264 e segg. giornale ligustico 38s bel libio De los trovadores en Espaha (1); il Desimoni (2) non ne parla affatto; lo Schultz nulla ne dice nelle sue Lebensverhaeltnisse der ilalienischen trobadors (3), ma in una recensione delle Biografie provenzali edite dallo Chabaneau riferì un’osservazione di Carlo Appel, al quale la seconda stanza del sirventese pare scritta in portoghese (4). Questa osservazione riprenderò più tardi in esame; ora ritorno al Nostradamus, per investigare come egli abbia potuto avere la notizia di una poesia in più lingue di Bonifazio Calvo e di altre pure in lingua toscana e spagnuola. Trattandosi di un trovatore italiano, non è difficile ammettere che il Nostradamus potesse supporre che il Calvo avesse poetato anche nella sua lingua, quantunque non avesse visto poesie di lui in volgare. Che il Nostro componesse canzoni in lingua spagnuola, lo arguì forse dalla seconda stanza del sirventese-discordo scritta appunto in uno dei volgari della penisola iberica. Ma dove vide il sirventese il Nostradamus? Gli studi diligenti che sono stati fatti intorno ai canzonieri provenzali pervenuti sino a noi, escludono assolutamente che il Nostradamus abbia potuto vedere alcuno dei tre codici che ci hanno conservato il sirventese-discordo del Calvo. Ma com’è noto, quel che è giunto a noi non è tutto quel che possedevano i primi eruditi e biografi di letteratura provenzale. Si ha notizia infatti di molti canzonieri provenzali andati perduti, di alcuni de’ quali però, per buona ventura, abbiamo potuto conoscere il contenuto. E ad uno appunto di questi canzonieri perduti bisogna rivolgersi per ritrovare la fonte della notizia (1) Barcelona , Alvaro Verdaguer, 1889. II, p. 201-202. (2) Giornale Ligustico, XIII, 321. (3) In Zeitschrifl für Roman, philol., voi. VII, 175-235. (4) Zeitschrifl für roman, philol. 1886. p. 593. Giorv. Ligustico, Arno XVIJI. 25 386 GIORNALE LIGUSTICO riferita dal Nostradamus. Il Nostradamus in un glossario provenzale-francese, ancora inedito, riporta due passi di due poesie di Bonifazio Calvo traendole dal canzoniere provenzale, già posseduto dal conte di Sault, ed ora perduto (i). Da altre indicazioni che il Nostradamus stesso ci dà, risulta che le poesie di Bonifazio Calvo (in tutto 17) in quel canzoniere occupavano lo spazio di cinque fogli (dal 43 al 48); e siccome d’ altra parte sappiamo che questo canzoniere era di formato grande, così abbiamo abbastanza per credere che vi fossero contenute tutte quante le liriche del Calvo. Fra le quali il Nostradamus ne notò una scritta in più lingue e, poco esperto qual dovea essere nella conoscenza degl’ idiomi neolatini, diede nella Vita del Calvo, avuto riguardo anche alla italianità del poeta, quella inesatta notizia del sirventese che di sopra ho già riferita (2). Adunque Bonifazio Calvo genovese trovandosi alla corte di Castiglia, dove fioriva per la protezione del decimo Alfonso la poesia occitanica, circondato da trovatori che cantavano le cortesie e gli amori nella lingua di Provenza, e ammaestrato dall’ esempio di Alfonso medesimo, il quale mentre volle dare impulso alla prosa castigliana non disdegnò di poetare in galliziano, Bonifazio dico, anch’egli, fece mostra della sua (1) Sui canzonieri provenzali del conte di Sault vedi P. Meyer, Les derniers troubadours de la Provence in Bibl. d. l'École des Chartes, vol. XXX, p. 259. (2) Alcune notizie sulle fonti delle quali si giovò il Nostradamus nelle Vite, ricercò il Meyer nel suo studio già citato sui Derniers troubadours de la Provence, dove notò pure (pag. 259) che il ms. di Sault fu riconosciuto dal Nostradamus. iMa lo studio completo sulle fonti del Nostradamus insieme colla edizione delle Vite e del Glossario attendono gli studiosi dal prof. Camillo Chabaneau, alla cui squisita cortesia debbo le notizie fornitemi con anticipazione intorno al glossario provenzale-francese. Di questo sento il dovere di ringraziarlo qui pubblicamente. giornale ligustico abilità non solamente nel rimare in provenzale, nella qual cosa seguitava un andazzo allora comune in Italia, ma anche nel saper maneggiare la lingua galliziana nella quale ci avanzano di lui due canzoni (i). E quasi volesse dare maggiori prove della sua coltura e del suo ingegno, compose un sirventese-discordo nel quale adopera il volgar di Provenza, uno dei volgari della penisola iberica e il volgare della Francia del nord. Abbiamo detto che il sirventese-discordo di Bonifazio Calvo ha contenuto storico. Tutte le poesie politiche del Calvo (e sono buona parte del suo patrimonio poetico) appartengono al periodo della sua dimora in Castiglia, quando vi regnava Alfonso X (2). Alla corte del quale Bonifazio dovea primeggiare per coltura ed ingegno poetico sopra gli altri trovatori; e sopra tutti gli altri dovette essere caro ad Alfonso, che era cosi amantissimo della poesia. E Bonifazio ricambiava la buona accoglienza e la protezione che riceveva da Alfonso, col prendere a cuore gli interessi politici e dinastici del re. Gli altri trovatori della corte di Alfonso si limitano nelle loro poesie a cantare e levare a cielo la protezione che Alfonso accordava loro; qualcuno solamente allude nelle sue poesie alle aspirazioni del re all’ impero, affermando che ne (1) Si trovano nel Cannoniere portoghese Colocci-Brancuti pubblicato nelle parti che completano il codice vaticano 4803 da Enrico Molteni, Halle, Niemeyer, 1880, n. 341 e 342; e nel Cannoniere portoghese della Reai Biblioteca del palazzo d’ Ajuda, ristampato da F. Adolfo Varnhagen col titolo Trovas e cantares de un codice do XIV seculo, Madrid, mdcccxlix, n 100 e 101. Di queste due canzoni mi riserbo di dare P illustrazione in appendice alla edizione critica di tutte le poesie di Bonifazio Calvo alla quale attendo. (2) Sono state illustrate dal Mila y Fontanals, De los trovadores en E spana, Barcelona, Verdaguer , 1889, pag. 199-209. 388 GIORNALE LIGUSTICO è degno (i). Al Calvo invece, che aveva cantato le lodi di Alfonso appena giunto alla sua corte, perchè ancora fiorivano appo lui per sua volontà e protezione gioia e soliamo, a lui che in qualche poesia sembrò a taluno, come per es. al Millot (2), un buontempone che esortava il re ad amoreggiare, stava a cuore anche la grandezza politica e civile di lui. Onde ne lo esorta spesso nelle sue poesie a non trascurare nessuna occasione di mostrare la sua potenza militare, sì che i nemici non lo possano giudicare un re imbelle cui meglio piaccia andare cacciando che vestir Γ armatura. Alfonso X salito al trono nel 1252, avea in animo di compiere il disegno già maturato dal padre Ferdinando III, di apparecchiare una spedizione contro i Mori dell’ Africa. Al quale scopo avea ordinato che fossero costruite numerose navi, e dal pontefice Clemente IV avea ricevuto non solo l’approvazione dell’impresa, ma anche soccorsi in danaro. Se non che, faccende che più lo toccavano da vicino lo distrassero da quell’impresa; non ultima la questione che ebbe con la reggente di Navarra, Margherita vedova di Teobaldo I, il quale alla sua morte, avvenuta nel 1253, avea lasciato due figliuoli, appena di quindici anni il maggiore, di nome anch’esso Teobaldo. Già da antico i re di Castiglia aveano più volte messo innanzi pretese al possesso della Navarra; sì che anche questa volta temendo Margherita non avessero quelle a rinnovarsi, specie per trovarsi la Navarra governata da una donna, prevenne il pericolo afforzando il suo debole governo con l’alleanza del re Giacomo di Aragona , suocero di Alfonso, che ne avea sposato la figlia Violante. Il patto fa stretto a Tudela, e per esso Giacomo si obbligò a difendere (1) Sui trovatori alla corte di Alfonso X, vedi Milà, op. cit. pag. 194-246. (2) Histoire Littéraire des troubadours, vol. Ili, pag. 368-369. GIORNALE LIGUSTICO 389 Margherita da qualsiasi assalto del re di Castiglia. Non andò molto infatti e nel 1254 il re di Castiglia s’avanzò verso il navarrese ; la provvida regina, ben consigliata da Giacomo d Aragona, non fu colta alla sprovvista, e tutto avea disposto per una battaglia ed una seria difesa, prima che Alfonso avesse potuto metter piede nella Navarra. Ma la battaglia fra il suocero e il genero non avvenne; narrano gli storici che onorevoli personaggi ed alti prelati si offrirono mediatori per la pace, la quale fu conchiusa quasi subito (1). Per essa leobaldo II cominciò a regnare, riconfermando alla sua famiglia il reame di Navarra; per essa Alfonso se ne tornava senza aver nulla ottenuto, senza alcuna ricompensa, e, dobbiamo dirlo, poco onorevolmente. A questi fatti allude evidentemente il sirventese-discordo del Calvo. Nei primi versi il poeta dice di voler fare un nuovo sirventese al re di Castiglia, perchè non gli pare che abbia volontà di guerreggiare contro il re di Navarra e il re d’Aragona. Ora Alfonso non ebbe mai durante la sua vita altre occasioni di guerreggiare contro i due sovrani riuniti d’Aragona e di Navarra, fuorché quella di cui abbiamo di sopra esposto i fatti. Il sirventese dovette essere composto nel tempo in cui, morto Teobaldo I, Alfonso faceva credere di voler ridestare le antiche pretese, ma non pensava ancora a condurre il suo esercito alla guerra. E siccome Teobaldo 1 morì nel giugno del 1253 , così la poesia può assegnarsi 0 alla fine di quest’ anno 0 al principio dell’ anno seguente, giacché sappiamo che la pace fra i due re fu conchiusa sul principio dell’anno 1254. Alfonso, abbiamo detto, si contentava sola- (1) Historia generai de Espaiia desde los tiempos primitivos hasta la muerte de Ferdinando VII, par Don Modesto Lafuente. Barcelona, Montaner y Simon, 1888, IV, pag. 120-121. 390 GIORNALE LIGUSTICO mente di minacce, e a questo allude il poeta nella seconda stanza : Mas ieu oug za maintos dizer Que el non los quier cometer Si non de menassas..... Seguita poi Bonifazio ricordandogli che chi vuole uscire onorevolmente da una guerra deve nel farla porvi pensiero e senno, cuore e corpo, avere ed amici: ......... e quen Quer de guer’ ondrado seer, Sei eu rauit ben que li coven De meter hi cuidad’e sen, Cuer e cors , aver et amis. Quindi s! egli vuol ottener pregio da quello che ha impreso a fare, non s’indugi con minacce, ma s’affretti; chè, se vuole, egli può incontrare nel campo i due re d’Aragona e di Navarra: Que ia per voir oï comtier Que el puet tost au champ trover Li doi rei se talent el n’a. Conchiude il poeta avvertendo Alfonso, che se egli non fa vedere al re di Navarra e al re di Aragona la sua tenda e il suo gonfalone nelle loro terre, vi sarà ragione che si dica ciò che taluni già sogliono dire : ossia che a lui piace più cacciare che vestir 1’ armatura. Allude insomma all’ opinione che tutti aveano di Alfonso, giudicandolo un re poco amante della vita militare. Ed ora qualche appunto sulla lingua o meglio sulle lingue di questo sirventese-discordo. Il Nostradamus, lo abbiamo già detto, lo giudicò scritto in provenzale, spagnuolo e ‘toscano, e al Milà y Fontanals parve potesse essere tanto GIORNALE LIGUSTICO 39I francese quanto provenzale, pur notando due parole castigliane, quiser e fa^er, nell’ultimo verso della prima stanza (1). Vediamo che cosa ci sia di vero in queste affermazioni e che cosa si possa conchiudere rispetto alle lingue del nostro sirventese-discordo. Intanto possiamo dire sicuramente che di toscano non v’è alcuna traccia, almeno nelle condizioni in cui è pervenuto fino a noi; nemmeno, come non sarebbe stato improbabile, vi si può cogliere qualche forma dialettale genovese. La prima stanza è tutta provenzale, salvo le due ultime parole quiser e fa^er che appartengono al volgare adoperato nella stanza seguente. La terza stanza è francese, salvo anche qui le due ultime parole el n’a, le quali, secondo il mio tentativo di restituzione, sembrano appartenere alla lingua provenzale nella quale è scritta la stanza seguente nonché la tornada. In queste due ultime parole di ciascuna stanza, che appartengono sempre alla lingua in cui è scritta la stanza che segue, si vede chiaramente Γ intenzione del poeta di voler adoperare un artificio ritmico , che rendesse impossibile ai giullari di sconvolgere Γ ordine del componimento. Vengo ora per ultimo a parlare della seconda stanza, perchè richiede più ampie considerazioni prima di poterne determinare il volgare. Ho già accennato che l’Appel la crede scritta in portoghese (2); quest’affermazione è del tutto erronea, e (1) Milà, op. cit. p. 201, nota: « Este oscuro serventesio parece tan francés corno provenzal, y tambien se notan las palabras castellanas quiser y cuidado ». Nostradamus, op. cit., loc. cit. (2) Ecco 1’ osservazione dell’ Appel : « Er hat ein Liebeslied von vier Strophen in portugiesischer Sprache gedichtet (Monaci e d’OviDio, Crestomazia portoghese, § 61-62) wie denn auch die zweite Strophe von « un nou sirventes ses tardar » (101-17). — Hierauf hat mich Herr Dr. Appel 392 GIORNALE LIGUSTICO basterà, per dimostrarlo, ricordare che il portoghese non comporta il dittongamento dell’ e e dell’ o sotto accento, mentre la stanza cui l’Appel si riferisce ci dà ieu (v. 8) cuer (v. 14) e uno dei codici (I) quier (v. 2), dove dovremmo avere, se fosse portoghese, eu e cor (anzi cora^oìi) e quer. E anche se concediamo che ieu sia un’ alterazione del copista, perchè sotto al v. 11 ritroviamo la forma portoghese eu, restano sempre cuer e quier ad opporsi validamente. Nè si potrà obbiettare che Bonifazio Calvo avesse avuto l’intenzione di adoperare il portoghese, ma nel fatto poi per la sua inesperienza avesse confuso quello con un altro volgare di Spagna. Egli conosceva così bene il galliziano che, se di questo idioma avesse voluto servirsi, lo avrebbe scritto senza dubbio correttamente come già aveva fatto nelle altre due canzoni. Le due ultime parole della stanza precedente a quella della quale ci occupiamo sono, come notò anche il Milà y Fontanals, castigliane. Ma nella stanza seguente dove questo volgare dovrebbe, secondo l’intenzione del poeta, continuarsi, ci troviamo proprio dinanzi a .in castigliano puro ? La domanda si presenta naturalissima a chi comincia a leggere il primo verso : Mas ieu oug za maintos dizer. Mas è comune al provenzale, allo spagnuolo e al galliziano; ieu è della Provenza, ma può essere stato anche della Spagna centrale e precisamente dell’ aragonese, nel qual volgare aufmerksam gemacht — von seiner Kunntniss des Portugiesischen zeugt ». Da questa nota ricavasi che lo Schultz non conosce che una sola canzone portoghese del Calvo , quella inserita dal Monaci nella sua Crestomazia portoghese ; invece i canti portoghesi del Calvo, com’ ebbi occasione già di notare, sono due. Nello stesso errore cadde recentemente il Restori nella sua Letteratura Provenzale, Milano, Ulrico Hoepli, 1891, p. 107. giornale ligustico 393 sappiamo che (in antico almeno) il dittongamento dell’e sotto accento era frequente non meno che nel castigliano , e talvolta conservasi anche dove il castigliano aveva ridotto quel dittongo ad i. Onde icu aragonese poteva stare ad io castigliano , come al castigliano Dios sta il Dicos dei Die%_ mandamientos, che sono appunto attribuiti a quella regione (i). Le due torme che presentano maggiore difficoltà sono oug e maintos. Oug, che è certamente da audio, ci dà il dittongo iniziale au alterato in ou, ciò che non è del provenzale, sibbene può essere dei dialetti N. O. della Spagna e in via eccezionale del Leonese (2) ; partecipa invece oug del provenzale , per la caduta dell’ atona finale 0. Il contrario si rinviene in mainlos, dove abbiamo la parola provenzale maint con desinenza spagnuola os. Ora dobbiamo noi riconoscere qui un ibridismo di forme, oppure, osservando che nelle due parole oug e maintos ritroviamo elementi di due volgari, uno di qua, 1’ altro di là dei Pirenei, pensare che esse appartengono a un volgare intermedio, che nel nostro caso potrebbe essere Γ aragonese al quale già dicemmo poter appartenere Γ ieu considerato poco fa ? Proseguiamo la nostra indagine, e vediamo se qualche altro fatto potrebbe dare maggior consistenza alla nostra congettura che la stanza abbia delle caratteristiche aragonesi. Il quen del v. 10 non è certamente provenzale, come non è portoghese, che avrebbe quem, e nemmeno è castigliano, secondo il quale dovremmo avere il dittongamento dell’ e accehcata. Nei testi antichi, per quante ricerche abbia fatto, la forma quen non riscontrasi mai. Ben del v. 12 può essere (1) Di questo breve trattato didattico morale intitolato, Die{ mandamintos, vedi il testo e la illustrazione in Morel-Fatio, Textes castillans inédites du XIII siicle, in Romania, XVI, 364 e segg. (2) A. ìMorel-Fatio, Libro de Alexandre, in Romania, IV, 30. 394 GIORNALE LIGUSTICO provenzale; ma non certamente castigliano nè portoghese, per la stessa ragione del quen. Sei (sapio) del v. 12 è vero che può essere portoghese, ma se ne trova qualche esempio nella seconda parte della Chanson de la Croisade, che il Meyer (1) attribuisce a un poeta del paese di Foix, proprio al contine d’Aragona. Questa forma potrebbe quindi rappresentarci un altro elemento aragonese. Ma dove pare a me che questo volgare si manifesti più saldamente, è nel muit del v. 10. Tutti i mss. si accordano nel dare mun (2) : che la forma sia guasta non c’ è dubbio, giacché coll’ unico significato di mondo (3), che potremmo assegnarle, al contesto non ne vien senso alcuno. E dovendo emendare si pensa subito a muit, come già corresse il Milà y Fontanals, osservando che paleograficamente sta che l’asta del t nel ms. eh’ ebbe davanti il copista essendo piuttosto corta si confondesse facilmente con 1’ ultima gamba di un n. Ora una caratteristica dell’ aragonese è che il nesso latino l-\-t sia rappresentato da it, mentre nel castigliano è rappresentato da eh; e per di più nell’aragonese cade l’atona finale, che rimane nel castigliano (mucho) (4). Cuer del v. 4 ho già detto che non può essere portoghese: qui aggiungo che non è provenzale, ma ben riscontrasi nel castigliano antico e nelle altre varietà della Spagna centrale, non escluso l’aragonese. Le ultime parole, come ho già avvertito, sono francesi. (1) La Chanson de la Croisade contre les Albigeois, éditée et traduite par Paul Meyer, Paris, Renouard, mdccclxxix, t. II, p. exij e exiv. (2) Non tengo conto dell’altra variante num, che è evidentemente un facile scambio per mun, in una parola che è formata tutta da aste. (3) Mun potrebbe anche essere la forma catalana dell’ aggettivo possessivo , ma è chiaro che qui non fa al nostro caso. (4) A. Morel-Fatio , Textes castillans inédits etc., p. 368. giornale ligustico 395 Ora, dai fatti che abbiamo osservato non si può certamente trarre nessuna conclusione assolutamente sicura. La difficoltà cresce poi, per la ragione che delle caratteristiche dei volgari di Spagna, tranne il leonese (i), troppo poco si sa. Tuttavia, se le tracce d’ aragonese che abbiamo qua e là notato non bastano per affermare che la stanza sia scritta in aragonese pretto, pur dovendo proporre una congettura, a questa mi atterrei, tanto più che, volendo Bonifazio spingere Alfonso alla guerra contro il re di Aragona, era molto naturale che pensasse di punzecchiarlo facendogli sentire qualche suono di quel volgare che era il linguaggio dell’ avversario (2). Il nostro sirventese-discordo fu pubblicato per intero la prima volta dal Mahn (3) di sul codice parigino 854, cui si tenne piuttosto fedele. Dopo di lui nessuno, per quel eh’ io so, l’ha mai riprodotto per intero; alcuni biografi del Calvo ne hanno riportato qualche verso , pure di sul codice 854. Recentemente il prof. E. Monaci inseri in una sua raccolta di (1) Sulla varietà leonese, vedi alcuni appunti nel dotto studio di A. Morel-Fatio sul Libro de Alexandre che ho già citato. (2) Non sarà inutile agli studiosi eh’ io dia qualche appunto bibliografico per lo studio dell’ aragonese. Per la parte antica il maggior contributo è stato dato dal Morel-Fatio, il quale ne ha parlato a proposito dei Diez mandamientos e del Romance de Lope de Moros (Romania, XVI, 379-381), che secondo lui appartengono al volgare aragonese. Un riassunto delle poche caratteristiche dell’ aragonese antico fin qui riconosciute, si può vedere nell’Enciclopedia Britannica all’articolo Spain, al paragrafo in cui si discorre della lingua nella penisola iberica. È scritto dallo stesso Morel-Fatio. Per l’aragonese moderno, assai utile è il Diccionario de voces aragonesas precedido de una introducciòn filologica historica per D. Jeronimo Borao, Zaragoza, 1884, dove sono date anche molte altre indicazioni bibliografiche. (3) Gedichte, 619. GIORNALE LIGUSTICO Testi antichi spagnoli (i) tutto il sirventese-discordo, secondo la lezione eh’ io stesso gli comunicai e che è basata sul codice I con qualche emendazione. Il Milà y Fontanals, nella sua opera già citata, riferì una parte del sirventese con alcune sue correzioni, aggiungendo anche la traduzione dei versi da lui citati. Taccio (che sarebbe troppo e di nessuna importanza) di altri, che qualche verso riferirono e tradussero. Il testo che segue, diverso qua e là da quello da me dato nella Raccolta del Monaci, è costituito sopra i tre codici che ce lo hanno conservato: i due parigini 12473 (^0 e ^54 CO e Γ estense (d). Le fonti di questi codici e le loro mutue relazioni sono state già studiate dal Gròber, dal Mussafia e dal De Lollis (2). Secondo i risultati di questi dotti, K ed 1 avrebbero attinto a una fonte comune, e d ossia la parte cartacea del codice estense sarebbe stata compilata dal Bembo, a base del ms. di cui il dotto cinquecentista tacea maggior conto, cioè il parigino 12473. La costituzione del testo del nostro sirventese-discordo é dunque molto semplice : darò il testo di / con le lievi emendazioni da me proposte, notando però sempre a piè di pagina la lezione esatta del codice. E trattandosi poi di una poesia molto breve e che può dar luogo ancora ad un ulteriore esame, aggiungerò pure le varianti, che sono quasi sempre puramente grafiche, di K e d e le correzioni del Milà y Fontanals (M). Mario Pelaez. (1) Roma, Forzani , 1891, n. lxi. (2) Gròber, Die Liedersammlungen der troub., nelle Rom. Studien, II, 462; Mussafia, Del codice estense di rime provengali, in Sitiungsberichte der R. Akademie der Wissenschaften \u Wien. Philos.-Histor., 1867, band 55, 423 ; De Lollis , Ricerche intorno a cannonieri provengali, nella Romania, IX , 467 e nota. giornale ligustico 397 EN BONIFACI CALVO I t· 98, K f. 8r°-8ivo, d. f. 270a'b Un nou sirventes ses tardar Voill al rei de castella far, Car nom senbla ni pes ni crei Qu’ el aia cor de guerreiar Navars ni l’Aragones rei; 5 Mas pos dig n’aurai zo que dei El faz’o que quiser fazer. Mas ieu oug za maintos dizer Que el non los quier cometer Si non de menassas, e quen 10 Quer de guer’ ondrado seer Sei eu muit ben que li coven De meter hi cuidad e sen, Cuer e cors, aver et amis. Pcrquoi ja di au roi: se pris 15 Vuet avoir de ce qu’a enpris, Que el guerrei sens menacier; Que rien ne mont au mien avis. Qe ia per voir oï comtier Que el puet tost au champ trover 20 Li doi rei se talent el n’a. E se el aora non fa Vezer en la terra de la Soe tend’ e son confalon A lo rei de navarr’ e a 25 So sozer lo rei d’ Arragon, A cantar avenra razon Tal que solon de lui ben dir. 398 GIORNALE LIGUSTICO E comenzon a dire ia Que mais quer lo rei de Leon 30 Cassar d’ austor o de falcon C’ ausberc ni sobreseing vestir. Il titolo è tolto da K d. I Bonifici Calbo. — 3. K d sembla I pos. d pec. — 4. I K d quel. — 5. I K d laragones. — 6.1 K d naurai. d so. I q. K d qe. — 7. I K d fazo. K d qiser. — 8. M ieu ai oug sa maintz. — 9. M Qu’el. IKd mon. K d qer.— 10. d demenassa.— 10-11. I e qn quer. K eqenqer. d eqen qer. IKd degueron drado. — 12. sei eu] d seien. muit ben] così anche Μ. I munben. K non é chiaro se abbia num ben o mun ben. d num ben. que li] così anche Μ. I quelli. K d qelli conven. 13. De meter] così anche M Kd Demeter. hi] d la.— 14. aver] d aus.— 15. I Per quoi ia. K d Per qoi ia. M Perq’on a. au roi] così anche M K. d auroi. IKd se-pris. M repris. — 16. Vuet] così anche M. IKd Unet. I qua. Kd qa. KdM empris.— 17. Quel guerriers. — 18. I Kmontau. d montan. IKd tuien. — 19. Kd Que iai por. voir. ] d aoir. M Que ja per voir. Non ci guadagnerebbe però il senso correggendo ja in je? IKd oi. M ni per comtier. — 20 M Qu’l. — 21. IKd talente na. M talent n’a. — 22. M E s’eï. d uora. I K nos. — 23. d terre. — 24. soe] K sce. d soc. IKd tende son. — 25. Id Navarre a. — 26. I darragon. Kd daragon. — 27. d contar. M avera. — 31. IKd daustor. — 32. IKd causberc. M c’ ausberg. K sobre seinh. d sobresemti. — NOTE Le stanze di questo sirventese-discordo sono composte di sette versi ottonarli a rime mascoline, tranne i versi 3, 5, 6 che sono a rime femminili. Lo schema delle rime è il seguente ; a a b a b h c Le stanze sono, secondo la denominazione delle Leys d'Amor I, 336. capcaudadas, ossia ognuna di esse riprende nel primo verso la rima dell’ ultimo verso della stanza precedente. La tornada ripete nello stesso ordine le rime degli ultimi quattro versi della stanza precedente. Lo stesso sistema di rime, che non è molto comune nelle liriche provenzali, riscontrasi solamente in quattro altre liriche : una di Peire d’Alvergne (Choix, IV, 423), uno di Guillem de Cabestaing (Choix, V, 109), una di Bo-nifaci de Castellana (Choix, V, 108) e una finalmente del trovatore Alegret (Mahn, Gedichte, 18). GIORNALE LIGUSTICO 399 Di particolarità metriche di questo sirventese noto nel v. 5 la preposizione alla fine in rima, caratteristica che riscontrasi nella poetica ispano-portoghese. Un esempio di preposizione alla fine del verso in rima può vedersi in un Salut catalano edito recentemente dal Meyer, Nouvelles catalanes inédites, in Romania, XX, pag. 207, v. 584. No toquets a la font, car de Trabavlls orribles e co(c)entes etc. V. 9. Nei testi antichi si trova più spesso la forma acometer con Va prostetico e collo stesso significato di assalire. V. ii. Ondrado con 1’epentesi della dentale è meno comune che onrado. Se ne trovano parecchi esempi nel Libro de Alexandre (Bibl. de aut espan. LVII, st. 2510, v. 2.) e nel Libro de Apolonio {Bibl. cit. LVII, st. 434, v. 4). V. 17. I mss. hanno quel guerriers. Evidentemente il testo è guasto , giacché manca di una sillaba; e non saprei davvero qual significato assegnare al verso, qualora si volesse conservare guerriers come sostantivo. Certamente in suo luogo deve stare un verbo nel modo congiuntivo. L’emendazione non è facile, o per meglio dire, sarebbe facile, ma riesce ardita perchè bisogna rassegnarsi a dare il bando a due lettere e scambiare il posto dell’ i e dell’ e della seconda sillaba. Io del resto la presento non come una emendazione giustificata (che non può essere), ma come una congettura , che non voglio nemmeno dire probabile, per tentare di spiegare in qualche modo il verso. V. 18. Più sicuro senza dubbio mi sento a sanare il guasto avvenuto in tuien dato concordemente dai codici. Giacché non è inverosimile che un copista poco esperto abbia scambiato con un t la prima asta di una m che potè essere un po’ più lunga delle altre. V. 21. I mss. hanno talenti, che in questa forma non può essere francese come richiede il volgare della stanza ; quindi non ho dubitato di restituire talent el, tanto più che in questo modo si viene ad avere el n’a che non è francese, ma provenzale, conforme l’intenzione del poeta, il quale alla fine di ogni stanza ha messo alcune parole appartenenti all’ idioma usato nella stanza seguente. V. 22. Conservando il nos dei mss. la sintassi zoppica ; perciò ho corretto senza esitazione non. Ed ora che sono giunto alla fine, debito di gratitudine mi muove a ringraziare il prof. E. Monaci e il dott. C. De Lollis dei consigli dei quali mi furono larghi nell’ interpretazione di questo sirventese-discordo. 400 GIORNALE LIGUSTICO BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Capitoli della prima compagnia di disciplina di San Nicolò in Palermo del sec. XIV in volgare siciliano, pubblicati per la prima volta da un codice della Bib. Naz, di Palermo con illustrazioni storico-letterarie e filologiche dal D. Giacomo de Gregorio. Palermo, Clausen 1891 : in 8.° La compagnia che era governata da queste regole risale ai primi anni del sec. XIV, quantunque i capitoli siano stati compilati, secondo si legge, nel 1343. Il codice miniato donde venne esemplata la stampa appartiene al sec. XV, probabilmente alla seconda metà. Il testo è nel volgare indigeno, e viene opportunamente ad accrescere la serie delle scritture dialettali di quel tempo. I/A. ha premesso alla riproduzione dei capitoli un’avvertenza, nella quale porge alcune utili notizie storiche e fa rilievi comparativi non senza importanza. Seguono poi il testo gli appunti fonetici, morfologici e lessicali raccolti con buon metodo, e con discernimento. Nella introduzione i compilatori scrivevano: « Cumzosiacosaki congregati per lu bonu statu di la dieta cumpagnia in lu dictu loeu avissimu truvatu li capituli di flurenza e Killi di la cumpagnia di sanctu domi-nicu di ienua facti in li milii CCCVI a li 20 di marzu ». Queste parole ci manifestano che a Genova esisteva una compagnia di disciplinati, la quale aveva preso come patrono S. Domenico. A noi non ne è pervenuta notizia alcuna, ma è a credere fosse istituita sì fatta confraternita nella antica, e scomparsa chiesa dedicata appunto a quel santo. Laura Gropallo. Sorrisi e lacrime. Genova, Morando 1891. Con questo titolo la giovane autrice ha raccolto in un volumetto alcuni suoi racconti o, come oggi si dice, bozzetti. Sono dodici e recano la seguente intitolazione : Il segreto d' una zitella — La mamma è morta ! — Dalla mia finestra — Nobiltà di mente, costanza di cuore — Foglie secche — Natale — Auto-biografiia di una moneta — Amici d’ infanzia — Alla culla del bimbo morto — Bimbi infelici — Tardo ravvedimento — Due cugine. Sono queste le prime prove della signorina Gropallo, la quale entra così nel novero delle scrittrici, e dobbiamo confessare, senza adulazione, non infelicemente. Essa mostra buone attitudini a immagiuare e a colorire, mentre si chiarisce fina osservatrice della natura. Troviamo in queste pagine il calore della passione, e molto cuore, per il che ci attirano e insieme ci dilettano. V’ hanno sicuramente le incertezze proprie dei novizi ; alcune esagerazioni ed inverosimiglianze ; ma nel complesso i fatti ci sembrano narrati secondo verità, i personaggi si muovono e appariscono vitali; e vi si vede mantenuta quella economia che dà finitezza all’ opera d’ arte. Anche lo stile procede assai bene, e seconda opportunamente i vari atteggiamenti onde si svolgono le narrazioni. Così dicasi della forma, corretta abbastanza in generale, quantunque alcuna volta un po’ pedestre, ma per lo più spigliata e scorrevole. Buona la rappresentazione, e felice il dialogo. Ecco una giovane che studiando ed osservando potrà porgerci frutti più rapidi e assai migliori. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 4OI VITA Di Gl'ARINO VERONESE Guarino a Ferrara Ultimo ventennio (1440—1460) (Continuaz. e fine ved. pag. 248) 305. Nel maggio del 1441 Guarino venne confermato pioressore in Ferrara per un secondo quinquennio. Fu questo 1 ultimo anno che servì sotto il dominio del marchese Niccolò, il quale morì nel 26 decembre del 1441. Morì a Milano, donde fu trasportato il 28 dello stesso mese a Ferrara e quivi seppellito nella chiesa di S. Maria di Belfiore da lui edificata. 306. Pochi giorni dopo, nel 6 gennaio 1442, Guarino ne scrisse la commemorazione in forma di lettera a Leonello. « La piena del dolore mi ha fin qui tolta la facoltà di parlare e scrivere; ora dopo i primi sfoghi, rimessomi dalla commozione, posso darti quei conforti, dei quali io stesso avevo bisogno quando il colpo era troppo recente ». E gli fa un quadro lusinghiero delle virtù paterne. « Fu prudente nel saper mantenere l'integrità del suo piccolo Stato in mezzo a Stati potenti e ambiziosi e fra tante guerre, che gli romoreggiavano intorno. Fu benigno e le porte del suo palazzo erano aperte a tutti i cittadini che ricorrevano a lui. Fu mite nelle pene ed è notevole quella sua risposta: che un regnante non deve mai esercitare la crudeltà, qualche volta la severità, sempre la clemenza. Fu liberale e arricchì molti dei suoi sudditi; soleva dire che la ricchezza dei re è costituita dalla ricchezza dei cittadini. Fu grandioso e lo provano i monumenti che egli seminò come gemme in città e nel territorio. Fu forte nelle fatiche e lo attestano le guerre da lui sostenute nel primo periodo del suo governo, mentre Giorn. Ligustico, Anno XVIli. 26 402 GIORNALE LIGUSTICO nel secondo periodo egli attese alle arti della pace, acquistandosi anzi grandi meriti come moderatore e arbitro nelle contese altrui ». 307. Guarino qui è panegirista e perciò mette in rilievo le parti buone e lascia nell’ ombra le meno buone. Comunque, se p. e. sulla mitezza e sulla benignità di Niccolò lo storico fa le sue riserve, un merito incontestabile egli ebbe, quello di essersi costituito moderatore nelle controversie degli altri principati italiani ; e a quell’ arte egli va debitore del-1’ incolumità del suo Stato e della fama di principe scaltro. 308. Il passaggio dall'un governo all’altro avvenne in Ferrara senza scosse, tanto che Leonello non sentì nemmeno il bisogno di circondare il proprio palazzo di guardie: « la guardia la faceva l’affetto dei cittadini ». Già prima della morte del padre era Leonello stato da lui assunto collega nell’ amministrazione e avea perciò avuto occasione di mostrare le sue buone qualità, per cui era ben voluto dal pubblico. « La sua faccia bella, la fronte aperta, gli occhi sereni, la statura alta, la capigliatura bionda gli conciliavano la simpatia della gente. Inoltre di belle doti morali, come la religiosità, il sentimento della giustizia, l’accorgimento nella scelta dei propri consiglieri, avea già dato prima luminose prove; e ciò era sicuro pegno e buon augurio che egli si sarebbe dimostrato degno successore del padre ». 309. Le previsioni si avverarono; anzi egli fu migliore del padre, se non nella politica, certo in tutte le altre virtù e specialmente nella protezione delle arti e delle lettere. E cominciò senz’altro dal riformare Γ università, chiamando da ogni dove illustri insegnanti; basti notare tra i principali acquisti Teodoro Gaza, venutovi nel 1444. La solenne inaugurazione del nuovo istituto fu fatta da Guarino nel 1442 il 18 ottobre, festa di S. Luca, che era il giorno consacrato all’ apertura delle scuole. L’ oratore assunse di dimostrare che GIORNALE LIGUSTICO 403 Feiiara per opera di Leonello era diventata la vera sede degli studi; e passando in rassegna le discipline, che erano rappresentate nell università ferrarese, cioè la grammatica, la dialettica, la retorica, la fisica, la filosofia, la medicina, il dintto civile e il diritto canonico, mise in rilievo i pregi di esse e la loro reciproca connessione. 310· Guarino faceva doppia scuola: pubblica e privata. Alla pubblica dedicava il giorno, alla privata la sera. La lezione pubblica era doppia, nella mattina spiegava un poeta e un prosatore latino, nel pomeriggio leggeva ordinariamente greco. La sera e la notte erano dedicate ai convittori, che egli teneva in casa ; essi lavoravano sotto i suoi occhi e 1 avevano sempre li presente e pronto a rispondere a tutte le difficoltà che incontrassero. 311. Uno dei convittori più famosi e che merita di esser conosciuto un po’ da vicino fu Giano Pannonio. Il suo nome era Giovanni, ma egli se lo latinizzò; il cognome Cesinge, con cui è comunemente chiamato, è storpiatura di Csezmicze; era di origine ungherese e perciò assunse il soprannome di Pannonius. Era nipote di Giovanni Vitez, che fu cancelliere nella reggia ungherese, vescovo di Waradino, arcivescovo di Gran e da ultimo, nel 1471, cardinale. Fu mandato dallo zio a studiare sotto Guarino a Ferrara. Quando arrivò nel 1447 a Ferrara aveva un dodici anni e in breve tempo diede prova d’ingegno vivacissimo e di memoria straordinaria; s’impadronì ben presto del latino e del greco e cominciò a pubblicare saggi poetici, che riscotevano il plauso universale. 312. Giano aveva per il suo maestro un vero culto, come dimostra il Panegyricus composto in lode di lui, bellissimo monumento di ammirazione, di riconoscenza e di amore. E non solo a lui, ma alla sua famiglia egli nutrì schietta affezione. Così tanto nei fausti quanto negli infausti eventi di casa Guarini sapeva trovare una parola sincera di congratulazione o di 404 GIORNALE LIGUSTICO condoglianza. Per la morte della Taddea compose l’epitafio; per le nozze delle due figlie Fiordimiglia e Libera compose Γ epitalamio: Fiordimiglia sposò Guglielmo Calefini e Libera Salomone Sacrati, entrambi cittadini ferraresi. Maggiore dimestichezza strinse Giano coi figli maschi di Guarino e specialmente con Battista, che era press’ a poco della sua età, anch’ egli ingegno svegliato e precoce, e col quale « ebbe comuni gli studi, il tetto, la cella, il maestro ». 513. Dopo di Giano altri ungheresi vennero a Ferrara, p. e. un Simone, un Czepes, un Policarpo, che poi fu arcivescovo : una piccola colonia, come si vede. Fra i condiscepoli di Giano e di Battista c’erano a Ferrara p. e. Roberto degli Orsi di Rimini, Basinio da Parma, Galeotto Marzio di Narni, i quali diventarono poi famosi. 314. Nei cinque o sei anni che Giano fu a Ferrara noi possiamo., guidati dai suoi versi, gettar lo sguardo entro la vita e i costumi della scolaresca Guariniana. Ivi si studiava con vera passione: « Noi che dormivamo, dice Giano a Galeotto, sempre nella medesima stanza e mangiavamo alla medesima mensa, quante volte non vegliammo insieme fino alla mezzanotte, facendo violenza ai nostri occhi; quante volte non ci alzammo tre ore avanti giorno, lasciando il dolce tepore del letto ». Vero è che capitava pure il caso (e quale studente potrebbe in ciò scagliare la prima pietra?), nel quale i libri passavano dal tavolo di studio- alla bottega di un rigattiere ebreo; sorte toccata una volta a un Lucano, a un Ovidio, a un Vergilio, ai quali Giano avea chiesto inutilmente dieci scudi in prestito. 315. I convittori costituivano proprio una famiglia e Guarino iacea da padre, con la sua bonaria severità, lasciandoli liberi nei loro leciti passatempi. Un giorno una briga-tella di essi con a capo Giano combinarono una refezione, alla quale invitarono anche Guarino. Ma egli rispose che i GIORNALE LIGUSTICO 4O5 giovanetti non dovevano essere turbati nella loro baldoria chiassosa dalla musoneria di un vecchio ; e Giano a replicare : che la sua presenza, oltre all’esser 1’ onor della tavola, sarebbe stata un freno a qualche trasmodamelo dei commensali; che del resto la sua burletta poteva dirla anche lui, quantunque vecchio, e che essi aveano imparato giusto da lui come Tullio, Socrate, Catone con tutta la loro serietà si permettessero di quando in quando lo scherzo. 316. Però i suoi giovanetti egli li teneva sempre d’occhio; e Giano in una occasione che fu dai compagni portato, senza saperlo, in un cattivo ridotto, minacciò di denunziarli a Guarino. Ma non sempre il buon vecchio riusciva a evitare le scappatelle dei suoi scolari e talvolta gliele facevano i propri figli e sotto gli occhi, in casa , come quando uno di loro si prese troppa confidenza con la domestica ; e Giano a cantargli: « La tua indulgenza ti fa torto, o Guarino, e intanto sei la favola della città; uno dei tuoi figli ti ha reso suocero della tua fantesca e nonno; pensa che hai in casa delle figliuole da marito e apri gli occhi ». 317. Fra quegli scapatacci non mancava certo la satira, la quale diventava anche impertinente, come quando Giano si prendea gioco del suo confessore Lino, un frate francescano, 0 consigliava Rinuccio di portar fuori le sue figliole, p. e. alle prediche di padre Roberto 0 ai balli in piazza, se voleva maritarle. Talora la satira era di buona lega. Con Lodovico Carbone, alunno di Guarino, Giano non se la dicea troppo: « prima eri bragia, ora sei carbone, tra poco diventerai cenere ». Paolo poi gli dava a correggere i suoi versi, che egli rimandava senza nemmeno un segno: « sfido! bisognerebbe segnarli tutti; del resto tu non sai pronunziar bene il tuo nome, la prima lettera devi aspirarla » (paulus φαϋλος). 3x8. E si fossero fermati alla satira! C’era dell’altro. Molestavano le donne maritate e davano là caccia alle facili GIORNALE LIGUSTICO donzelle. Quella Tecla, che « quando cammina per le strade ha l’aria di una aitante matrona, dove che in casa pare una civetta spennacchiata », quella Silvia, che « va cercando in ogni studente il padre del proprio frutto », sono fino a un certo punto macchiette che possono correre. Ma quando discendiamo alle Lelie, alle Orsole, alle Lucie, allora il colorito degli epigrammi di Giano diventa marzialesco, anzi addirittura priapeo, tanto che certi vocaboli osceni egli non ha il coraggio di scriverli in latino e li scrive in ungherese. Incliniamo dei resto a credere che fossero più parole che fatti, più imitazione classica che realtà, come era il caso del— Y Ermafrodito di Antonio Beccadelli. 319· Questa la studentesca. Un altro scolaro di Guarino ci guiderà per entro al circolo letterario ferrarese. Il circolo socratico, quale fu idealizzato nei dialoghi platonici e quale rivisse in Roma p. e. nei dialoghi di Cicerone e nelle Notti attiche, di A. Gellio, ebbe una larga rifioritura tra gli umanisti. Rifiorì a Ferrara per opera di Guarino, nel tempo specialmente del governo di Leonello d’Este, il quale ne era il centro e 1 anima; il relatore fu Angelo Decembrio con la Politia literaria. 320. Angelo Decembrio, fratello di Pier Candido, dalla scuola del vecchio Barzizza, dove si trovò fanciulletto, era passato a quella di Guarino. Stava a Ferrara sino almeno dal 143 8 e vi si trattenne per tutto il tempo che governò Leonello, morto il quale, si trasferì alla corte di Alfonso in Napoli e, morto anche Alfonso, a quella dei re di Spagna. Compose epistole, panegirici poetici, elogi funebri, opere grammaticali e la Politia, importantissima, perchè con essa diffuse e rese popolare Γ insegnamento e il metodo guari-niano. 321. Nel circolo ferrarese c’era l’elemento vecchio e l’elemento giovane. Fra i vecchi nominiamo anzitutto il maestro, GIORNALE LIGUSTICO 407 Guarino. Gli altri erano Uguccione Contrari, uno dei più autorevoli consiglieri del marchese Niccolò, Giovanni Gua-lengo , i due cavalieri Feltrino Boiardo e Alberto Costabili; il Boiardo avea tradotto in volgare Y Asino di Apuleio, il Gualengo si dilettava di fabbricare e in una sua villetta del suburbio aveva imitato quella di Plinio. Fra i giovani notiamo il principe Alberto Carpi, alto della persona ed eloquente, imparentato con gli Estensi, Carlo Nuvoloni, i fratelli Nicola e Tito Strozzi, Francesco Ariosto, Leonello Sardi e il cavalier Tommaso Morroni da Rieti, maestro dell’arte mnemonica. 322. Alle riunioni del circolo non mancavano di quando in quando gli interlocutori avventizi. Così vi faceva qualche comparsa il minorità Agostino, ferrarese, buon predicatore e rispettato da Leonello e dagli altri; ma non erano accettate le sue teorie sui danni che provenivano dalla lettura dei poeti antichi. Tito Strozzi su questo punto non voleva dar quartiere al monaco; Guarino, più moderato, lo confutava con buone ragioni, alle quali il monaco non avea che ribattere, ma faceva le sue riserve: « non c’è da fidarsi troppo con voi altri oratori, che mutate il nero in bianco ». E la brigata rideva. 323. Peggio quando capitava nel circolo un pedagogo, come dicevano loro, 0 maestro di grammatichetta, come diciamo noi. Tito Strozzi lo prendeva a frustate, se lo lasciavano fare. Verso quella genìa perdeva la moderazione persin Guarino, il quale metteva in canzonatura le loro pedanterie. Uno di essi a Ferrara, un tal Palamede, si vantava di sapere a memoria tutto Vergilio e che, sentitone un verso da chiunque, avrebbe continuato col seguente. Tito lo lo incontra e gli recita il verso 19 dell’ Ecl. I: Urbem quarti dicunt Romam Meliboee putavi; Palamede senz’ altro seguitò : Stultus ego. Tito non ne volle più: te lo sei detto da te. 4oS GIORNALE LIGUSTICO 324. Ma comica sopra ogni altra fu la comparsa nel circolo di Ugolino Pisani. Si presentò nel suo consueto atteggiamento teatrale, con la capigliatura arruffata e lunga barba. Portava a leggere una delle sue commedie in prosa, nella quale gli interlocutori erano arnesi di cucina; gli astanti se la passavano di mano in mano, ridendo sotto i baffi e strizzando 1 occhio. Però il volumetto era di una perfetta calli— gìafia e rilegato elegantemente. Quel povero Ugolino era mezzo pazzo e mori pazzo, appena quarantenne. Entusiasta di Plauto, scrisse commedie in prosa, imitandone lo stile. Per pochi versi ottenne nel 1432 l’alloro poetico dall’imperatole Sigismondo. Giro le corti italiane ed estere, facendo il giullare, recitando le sue commedie, prendendo parte alle mascherate ed eccitando la curiosità specialmente delle donne. Gli era stato affibbiato il nomignolo di scimia letterata. 325. Il circolo si raccoglieva di solito nell’ appartamento -di Leonello, dopo il pranzo; qualche volta anche inter pocula. Altre volte invece la brigata si recava a caccia o faceva una gita nella villa di uno degli amici o al palazzo suburbano di Belfìoie 0 al castello di Bellosguardo; e ivi o sotto un portico o all ombra delle piante si intrattenevano in amichevoli discussioni letterarie. 326. Le discussioni versavano su argomenti di vario genere. Etano preferiti gli argomenti di letteratura romana e 111 specie la letteratura poetica. I due grandi poeti di Guarino erano Terenzio e Vergilio; da essi citava continuamente e su di essi fondava la prima educazione dei suoi allievi. E per riverbero 1 attenzione sua si fermava molto anche sui commentatori di quei due poeti, cioè Donato e Servio. Nè solo studiava Vergilio in sè, ma pure nelle sue attinenze con gli autori che lo precedettero e che lo seguirono , specialmente con gli storici, mettendo a raffronto tanto la materia quanto lo stile. Se dovea spiegare agli amici la teoria degli omonimi, giornale ligustico 4°9 egli tiaeva ricca messe di esempi da Vergilio. Se poi voleva piopoue un maestro di moralità, designava Terenzio. 327- Nel circolo venivano trattate importanti questioni estetiche, come quella dei rapporti tra il sostantivo e l’aggettivo nel verso e Γ altra della vera natura della brevità sallustiana. Faceano argomento di discussione anche la proprietà dei vocaboli, l’ortografia, i dittonghi; qualche volta il tema era archeologico, come sulle corone, sui pesi, sulle sigle, sui monumenti. Le interpretazioni si discutevano con la massima minuziosità. 328. Frequenti erano le questioni critiche: anzitutto sul- 1 autenticità dei testi. Non è di Cicerone la Rhetorica ad Herennium e il libercolo sui sinonimi, non di Ovidio il carme De vetula, non di Giovenale la satira xvi, non di Seneca le lettere a S. Paolo, non di Catone i distici morali, non di Cesare il Bellum Alexandrinum. Dopo l’autenticità, l’emendazione dei testi. Molto lavorò Guarino per colmare le lacune dei passi greci, particolarmente in Macrobio, Gellio, Quintiliano, i due Piini. Egli ha un concetto assai chiaro dell’opera dei copisti, i quali scambiano le parole 1’una per l’altra (invenis con veniens) o le mutano di posto, introducono nel testo le glosse marginali o lo alterano con le proprie interpolazioni. E qui Guarino si mette in cerca di codici, esercitando, fin dove può, coscienziosamente la critica diplomatica; ma dove i codici gli vengono meno, ricorre alla critica congetturale, chiamando in soccorso il nesso dei pensieri, i principii estetici, l’uso peculiare dello scrittore. 329. Fornivano materia a quei discorsi anche gli autori contemporanei e del secolo precedente. Il Valla era molto stimato a Ferrara e mólto studiato e i suoi principii grammaticali e stilistici facevano ivi legge. Poca stima si aveva invece dei tempi, a cui appartennero il Petrarca, il Boccaccio, il Salutati: tempi d’ignoranza e di lingua barbara. Gli scrit- 410 GIORNALE LIGUSTICO tori in volgare non erano apprezzati o tutt’ al più riservati da leggersi ai nonni e ai bimbi d’inverno sotto il camino. A Dante poi non sapea Guarino perdonare la prolissità della Commedia e Γ avere nel noto verso vergiliano Quid non mortalia inteso quid per car. 330. Ferrara nel 1447 ebbe uni seconda visita di irate Alberto da Sarteano, che vi predicò il quaresimale e Γ ottavario dell’Ascensione.. Guarino non mancò di andare a sentire « la cignea voce di quel celeste usignolo », il quale « quando inveiva contro i vizi diventava tromba, anzi tuono ». Il 7 maggio frate Alberto aprì 1’ ottavario con un discorso sulla dottrina teologica. Passò in rassegna tutte le discipline antiche e moderne, sacre e profane, mostrando la loro utilità e il diletto che se ne ritrae sì per lo spirito che per il corpo e proclamando regina di tutte la teologia. « Che profondità e vastità di erudizione in quel discorso, che acutezza di giudizio, che fiume di eloquenza! pareva il Po quando straripa; e parlò conservando sempre il suo timbro di voce per quattr’ ore di seguito e nessuno se ne accorse più che se avesse parlato una sola ora ». 331. Quale differenza tra questo monaco e Giovanni da Prato, che andò a predicare a Ferrara la quaresima tre anni dopo, nel 1450. In quella stagione Guarino leggeva Terenzio nella sua scuola. Non 1’ avesse mai fatto! Il monaco furibondo lanciò dal pulpito i suoi fulmini contro i poeti classici e chi li leggeva, li copiava, li spiegava nelle scuole, li conservava in casa, prendendo sopratutto di mira Terenzio. La questione sul poter leggere o no i poeti pagani non era sorta allora, nè finì allora; ma la maniera come la risolse Guarino ha la sua importanza, poiché egli riteneva che la lettura dei poeti classici fosse non solo innocua, ma anzi scuola di morale. GIORNALE LIGUSTICO 4II 332· Il monaco zelante dopo la predica scrisse una lettera a Guarino, cercando di condurlo sulla buona via e insinuandosi nel suo animo col protestargli quanto lo stimasse per il bene che gliene avea detto Alberto da Sarteano. Guarino gli rispose rispettosamente, pigliando le mosse giusto dall argomento che da frate Alberto era stato trattato tre anni innanzi. Alberto avea dimostrato che la teologia è la regina di tutte le altre discipline, le quali la servono come ancelle. « Or dunque, ragiona Guarino, se sono ad essa ancelle, bisogna bene studiarle per conoscer meglio la teologia; ed è così che lo studio dei classici ridonda a profitto della religione. Altrimenti incoglierà ai ministri del culto ciò che incolse a quel tal prete, che io ho inteso qualche anno fa, il quale predicando disse che gli etnici si chiamavano così perchè venivano dal monte Etna e volendo nominare Cadmo ripetè più volte Cadino, suscitando le risate del pubblico ». 333. La lettera è molto lunga e Guarino difende la sua tesi tenendosi sempre nel campo dell’ avversario e traendo perciò gli esempi dalla storia ecclesiastica. Egli ricorda anzitutto come Mosè e Daniele prima di comporre libri sacri si iniziarono alle scienze degli Assiri e Caldei. Ma il perno della discussione si aggira su tre grandi padri della chiesa, Basilio, Girolamo e Agostino, i quali, e sopra tutti Girolamo, si avviarono agli studi teologici per mezzo degli studi profani e mostrano nei loro libri continue reminiscenze di autori classici. Girolamo poi giova alla causa di Guarino anche per F alto concetto in che teneva Terenzio, F autore che è special-mente preso di mira dal monaco. Guai a toccare Terenzio a Guarino, il suo prediletto poeta, quello che prima di ogni altro egli leggeva e spiegava ai suoi scolari. Terenzio era per lui il modello dello stilista elegante, dell’ oratore perfetto, dello squisito educatore. « Se i suoi personaggi parlano e operano male, così richiede il loro carattere e non è da im- 41 ” GIORNALE LIGUSTICO putirsi a lui. Bruceremo forse Γ evangelisti, perchè ci rappresenta Giuda tnditore di Gesù ? » 334. Il monaco ibbozzò uni risposti, nella quile confuti punto per punto le argomentazioni di Guarino, citando alla rinfusa autori contemporanei, santi pidri e filosofi pagani. Conchiude che, ammesso pure che sia battuto lui, la ciusa rimane salva. 335. Del suo allievo Leonello, anche ora che è diventato principe, non si dimentica Guarino e gli dedica pur sempre qualche lavoro, p. e. nel 1444 la traduzione dell’opuscolo di Plutarco Stilla differenza ira 1’ amico e V adulatore, nel 1449 il trattatello sulla antica lingua latina, nel 1447 uno schizzo sul modo di dipingere le muse. Leonello era appassionato dell’ arte e volle in quell’ anno adornare dei ritratti delle nove muse il suo studio di Belfiore. Per le pitture si servi del Maccagnino, Guarino suggerì gli atteggiamenti e l’abito delle singole figure, dettando per ciascuna un verso da scriversi sotto. Il pittore seguì in parte i consigli di Guarino, in parte, come è ben naturale, si attenne al proprio gusto. Quelle pitture furono vedute e descritte da Ciriaco d’Ancona che si era, in uno dei tanti suoi viaggi, fermato a Ferrara nel 1449. 336. Grande allegria ci fu a Ferrara nei mesi di aprile e maggio del 1444 per le seconde nozze di Leonello con Maria, figlia naturale di re Alfonso d’Aragoni, nozze veramente illustri che legavano in parentela la casa d’Este col più potente degli Stati italiani; onde ben a ragione Ferrara assistette in quei giorni a spettacoli di ogni genere e vide d’ ogni parte d’Italia accorrer moltitudine e personaggi principeschi a rendere omaggio ai due sposi. Fra i principi convenuti colà vanno nominati Oddantonio di Urbino, Gismondo Malatesta di Rimini, il Malatesta di Cesena, Guidantonio di Faenza, Carlo Gonzaga di Mantova, Rodolfo di Camerino. GIORNALE LIGUSTICO 4 *3 Andò a prendere la sposa Borso, fratello di Leonello, imbarcandosi a Venezia su navi venete e sbarcando ad Ortona, donde fece la via di terra fino a Napoli. Da Napoli parti Maria d’Aragona ai primi d’aprile, scortata dal principe di Salerno e salutata da un epitalamio di Girolamo Guarini, che allora era alla corte di Alfonso. 337. Il 24 d’aprile giunsero a Ferrara e il giorno dopo nel castello del marchese si compì la cerimonia nuziale, che fu presieduta da Guarino. Egli domandò agli sposi se erano contenti di diventar marito e moglie; indi Leonello pose 1' anello matrimoniale in dito a Maria e Guarino recitò l’epitalamio d’ occasione. L’ultimo d’aprile poi si celebrò un altro matrimonio, di Isotta sorella di Leonello con Oddan-tonio d’ Urbino e anche questa volta Guarino recitò 1’ epitalamio. 338. Ma venne purtroppo il giorno del lutto, il giorno che Guarino dovè intonare al suo illustre allievo il canto funebre. Leonello ammalò gravemente nei primi di settembre del 1450. La città fu tutta in costernazione e il vescovo ordinò pubbliche preghiere in ogni cappella, in ogni chiesa, in ogni monastero. L’infermo era assistito dal marchese di Mantova. Niccolò, il piccolo e unico figlio di Leonello, dodicenne, era compreso aneli’ egli di tristezza per 1’ imminente pericolo e avea fatto voto di dieci scudi al beato Bernardino da Siena, da pochi mesi canonizzato, se il padre fosse guarito. « Dove li trovi i dieci scudi? » gli domandava Guarino che lo teneva in custodia. E Niccolò: « li chiederò a qualche amico di papà ». La malattia fortunatamente prese una buona piega e Leonello fu fuori di pericolo. Allora scoppiò generale il giubilo dei cittadini e Guarino nel congratularsi con Leonello della ricuperata salute propose di collocare tra i fasti da solennizzarsi ogni anno Γ8 settembre, il dì della guarigione. Ma fu gioia passeggera. Altri pochi giorni furono 414 GIORNALE LIGUSTICO aggiunti alla vita di Leonello, il quale morì il i.° ottobre deiranno stesso, e a Guarino non restò che recitargli l’elogio funebre. 339. La morte di Leonello sconcertò senza dubbio la posizione di Guarino a Ferrara e i Veronesi ne approfittarono, per appagare un loro voto, carezzato da tanto tempo, di riavere in patria l’illustre concittadino. Anche questa volta, come nel 1432, ci furono le premure private degli amici, le pratiche ufficiali del Consiglio veronese e 1’ elegia di Ve- ο O rona, che invitava nel suo seno affettuoso il figlio da tanti anni lontano. Guarino secondò quelle pratiche e ottenne che lo stipendio gli fosse portato da 150 scudi a 200 e stava preparato alla partenza; mancava solo la licenza del marchese. Ma la licenza non fu accordata e Guarino fu riconfermato a Ferrara, donde ormai non contava di muoversi più, avuto riguardo specialmente all’ età avanzata. 340. Borso se non nella cultura, certo nell’amor delle arti belle eguagliò il fratello; lo superò nella liberalità e nel lusso e magnificenza dei ricevimenti. Basti ricordare le feste per 1’ arrivo a Ferrara dell’ imperatore Federico III nel 1452, di papa Pio II nel 1459 e per il matrimonio di Beatrice d’Este con Tristano Sforza. 341. Federico III nel 1452 fece il suo famoso viaggio a Roma e a Napoli per ricevere dal papa la corona imperiale e per sposare donna Leonora, figlia del re di Portogallo. Nel-1 andata giunse a Ferrara di gennaio e tra le meraviglie che sorpresero gli astanti fu non ultima l’orazione che recitò all’imperatore il piccolo Galeazzo Maria Sforza, figlio del duca Francesco, fanciullo di otto anni. L’orazione gli era stata scritta dal Filelfo. Di Guarino non sappiamo se abbia per 1 occasione fatto nulla, ma difficilmente un suo discorso sara mancato. Non mancò ad ogni modo un lungo carme latino del suo scolaro Giano Pannonio, il quale con versi GIORNALE LIGUSTICO rimbombanti, con stile declamatorio e con immagini esagerate tratteggia un quadro desolante delle condizioni d’Italia, esprimendo le grandi speranze concepite per la venuta del- I imperatore, dal quale si attendeva una nuova èra di pace. II discorso è messo in bocca all’ Italia, « che si prostra ai piedi dell’imperatore in atteggiamento di nobile matrona, cinta di una corona di torri, vestita a lutto, con le chiome sparse, battendosi il petto e piangendo e singhiozzando ». 342. Nel ritorno da Roma Federico III ripassò da Ferrara di maggio. In questa seconda fermata Borso fu creato duca di Modena e Reggio e Battista Guarini recitò davanti all’ imperatore 1’ epitalamio per le nozze di Bartolomeo Pen-daglia con Margherita Costabili. 343. Non clamorosa come quella fatta all’ imperatore, ma pur sempre splendida fu l’accoglienza che ricevette Pio II, quando passò da Ferrara del 1459 nel suo viaggio a Mantova, dove era intimato il gran congresso per la crociata contro il Turco. Arrivò il 19 maggio e ne ripartì il 25. Guarino salutò con un’ orazione l’illustre pontefice « pio di nome e di fatto, il ripristinatore dell’età dell’oro, il ristoratore della cultura, il vero estimatore della virtù e del merito ». Suo figlio Manuele accompagnò il papa al congresso di Mantova. 344. Parimenti sontuose furono le feste per il matrimonio di Beatrice d’Este sorella di Borso con Tristano Sforza nel-1’aprile del 1455. Lo sposo era figlio di Francesco duca di Milano, il quale mandò il Filelfo a tenere il discorso d’occasione. Per il marchese compose l’epitalamio Guarino, il quale fa una particolare allusione al nome cavalleresco dello sposo; ciò che prova come egli stesso leggesse i romanzi cavallereschi, molto in voga del resto alla corte di Ferrara. 345. Gli epitalami di Guarino e del Filelfo furono cagione di un pettegolezzo tra i due umanisti. Fra essi non 4x6 GIORNALE LIGUSTICO c’era grande intimità, ma nemmeno ebbero mai a venire in discordia. Ora i maligni aveano notato che ali’ epitalamio del Filelfo il marchese Borso era stato largo di sole lodi, ma nessun regalo. In un crocchio di persone a Ferrara, dove si commentava 1’ accaduto, a Guarino scappò detto che Borso si era piccato, che il Filelfo avesse fatto il panegirico della famiglia dello sposo, scarseggiando molto nelle lodi della famiglia della sposa. Ci fu chi si prese la briga di riferire le parole di Guarino al Filelfo, il quale sentitosi offeso nel suo orgoglio scrisse a Lodovico Casella una lettera piena di insolenze contro Guarino. Egli poneva, come al suo solito, la questione addirittura tragicamente: « che forse Guarino si crede superiore a me? » Si capisce bene che Guarino non se ne diede per inteso e il Filelfo dovette restare col suo groppo in gola. 346. Appena riebbe Guarino da Borso la primiera posizione che aveva goduto sotto Leonello e potè riprendere le sue antiche abitudini, pensò il vecchio umanista di pagare un tributo di riconoscenza al suo illustre maestro Manuele Crisolora. Quel tributo parea dovessegli pesar sulla coscienza come un obbligo sacro da soddisfare, essendo che di tanti beneficati dal Crisolora nessuno gli aveva innalzato un monumento letterario degno di lui. Ora più che mai la sua fantasia rievocava la cara immagine del Greco, trasfigurata attraverso ai quarant’ anni trascorsi dall’ ultima volta che lo aveva veduto vivo. Se lo rivedeva risorgere dinanzi « bello della persona, le membra ben misurate e proporzionate, il volto rubicondo e la bionda barba che accresceva dignità all aspetto »; e dalla faccia serena partiva ancora quel sorriso intelligente e si sentiva tuttavia carezzato dall’ affabilità delle sue parole e dalla grazia dei suoi modi. Come si ingigantivano i suoi meriti letterari! « Prima del Crisolora P Italia era sepolta nell ignoranza, spezzato il filo della tradizione GIORNALE LIGUSTICO 417 ciceroniana, barbaio lo stile: il Crisolora aprì una nuova via agli studi , con lui comincia il rinascimento della civiltà antica ». 347· Preoccupato da questa idea Guarino si dà a raccogliere gli scritti del Crisolora e le lettere indirizzate a lui o quelle che parlano di lui, e si rivolge agli amici, come al-1 Ottobelli in Verona, al Poggio in Firenze, pregandoli di cercargli e mandargli scritture in lode del Crisolora. Così mise insieme l’orazione funebre del Giuliani, alcune lettere sue e d altri dirette al Crisolora 0 che trattavano di lui. Si rivolse quindi ai propri figli, eccitandoli a scrivere commemorazioni e panegirici del Crisolora; ed essi corrisposero subito ai desideri del padre, poiché Niccolò, Battista, Girolamo, Manuele gli indirizzarono affettuose lettere commemorative. A tutta questa collezione, della quale ci arrivarono parecchi saggi, diede il titolo di Chrysolorina. 348. Nella Chrysolorina dunque, intorno alla quale attese negli anni 1452-1455, Guarino ebbe collaboratori i propri figli, come li aveva collaboratori nell’insegnamento all’università. Infatti Girolamo fece un corso suo proprio, parallelo a quello del padre, sulla terza deca di Livio. In nome del padre recitò Manuele l’orazione inaugurale nel 1444; nel 1453 la recitò Battista, « il quale tra i figli di Guarino brilla come Sirio e Boote fra gli astri minori. Egli già (nel 1453) monta la cattedra come insegnante, parla nelle adunanze pubbliche come oratore e affascina l’uditorio, e le aule e le chiese echeggiano dei suoi plausi, intanto che il padre ne piange di gioia ». 349. In ciò riconosciamo una tra le principali e più originali caratteristiche del metodo di Guarino, quella di associarsi nel lavoro i suoi discepoli e i figlioli, moltiplicando così la propria operosità e rendendola più feconda e in certo qual modo perpetuandola dopo la sua morte, poiché Giorn. Ligustico. Anno Vili. 27 4-iS GIORNALE LIGUSTICO essi ne sarebbero stati gli eredi e i continuatori. È questo il suo gran principio, che egli inculca e ripete ad ogni momento nelle lettere, che i figli sono i legittimi eredi non tanto delle sostanze paterne quanto delle amicizie e delle virtù. E infatti uno dei suoi maggiori meriti fu 1’ essersi preparato un degno successore nel figlio Battista, il quale dopo morto il padre occupò la cattedra di lui, riempiendo del proprio nome e della propria operosità tutta la seconda metà del secolo XV. Però dei figli di Guarino il solo Battista fu vero umanista come il padre. Degli altri sei maschi Girolamo si accosta più a Battista per carattere umanistico, quantunque più tardi siasi dato alla carriera diplomatica. Anche Niccolò coltivò gli studi, ma nulla produsse in quelli. I quattro rimanenti percorsero carriere, le quali stavano in antitesi con Γ umanismo, poiché Manuele si fece prete, Gregorio medico, Leonello e Agostino notai. Agostino si applicò alla mercatura ed ebbe il posto di maggiordomo presso il marchese di Ferrara. 350. I figli di Guarino furono tutti educati sotto la sorveglianza paterna, ma poi uscirono di Ferrara e andarono altrove chi a perfezionarsi negli studi, chi a cercarvi una collocazione. Per tal modo essi contribuirono non poco a rendere più vive le relazioni del padre con gli altri centri letterari e con le varie città italiane. E nell’ esame infatti di quelle relazioni, le quali ora esporrò brevemente, ci si presenterà spesso or Γ uno or Γ altro dei figli di Guarino. 351. Cominciamo da Verona, dove essi andavano frequentemente a curare gli interessi della famiglia o a villeggiare a Valpolicella. È certo poi che Leonello, Niccolò, Gregorio, Battista si stabilirono qualche tempo o a Verona 0 in villa. E ivi attendevano agli studi e corrispondevano col padre, specialmente Niccolò e Battista. Niccolò era già arrivato a conoscere il greco e per darne un saggio al padre gli scrisse nel 1450 una lettera greca: e il padre se ne con- GIORNALE LIGUSTICO 419 giatulò, incoraggiandolo a continuare; nel 1452 egli carteggiava col padre per la compilazione della Chrysolorina e per una *-uiiosa lite che si dibatteva fra le città di Verona e di Brescia. Le due città vicine si disputavano la proprietà del lago di Garda. Guarino risponde al figlio, che la proprietà spettava a Verona, appoggiandosi all’autorità degli scrittori romani, quali Catullo, Plinio, Claudiano. 352. Battista prendeva già parte, come una volta il padre, ai pubblici affari di Verona; e nel gennaio del 1458 recitava il discorso di commiato al podestà Niccolò Marcello. Nello stesso anno diede un buon saggio dei suoi studi con la traduzione dell’ Agesilao di Senotonte, dedicata a Ermolao Barbaro, 1’ antico scolaro di suo padre, allora vescovo di Verona. L anno dopo, 1459, pubblicò il Libellus de ordine studendi ac docendi, nel quale rivela ottimo senso didattico e mostra di avere in sè trasfuso il metodo paterno. Non bisogna dimenticare che da poco era tornato da Bologna, dove aveva insegnato per due anni. 353. Ma non c’era di bisogno della presenza dei figli in Verona, perchè Guarino mantenesse vivi e cordiali rapporti con la sua città nativa. Si è veduto che Verona non dimenticò mai il suo Guarino , la quale fece nel 1451 1’ ultimo tentativo per riaverlo insegnante. Si davano poi circostanze in cui il Consiglio veronese dovea trattare qualche pubblico interesse col marchese di Ferrara e allora Guarino interponeva i suoi buoni uffici presso il principe. I suoi vecchi scolari lo ricordavano sempre, come 1’ Ottobelli, che gli cercava documenti per la Chrysolorina, e Silvestro Landi, che redigendo lo statuto della città di Verona fece nell’ introduzione onorevole menzione del suo maestro. E non mancava colà chi volesse erigergli un piccolo monumento; e questi era il suo compare Damiano Borghi, che gli fece forse scolpire un busto, per tramandare immortale il nome di lui. 420 GIORNALE LIGUSTICO 354. A Venezia si trovarono per qualche tempo i figli Niccolò e Gregorio. Niccolò accompagnava il marchese Carlo Gonzaga, di cui era segretario; Gregorio si era recato colà nel 1451 un po’ a perfezionarsi nella medicina e un po a conoscere quella città. Ma buon medico per gli altri e non per sè si lasciò ferire il cuore da una bella fanciulla, la quale gli rubava la pace e a cui desiderava dare la mano di sposo. La madre della fanciulla lece serie opposizioni, ma mercè l’interposizione di Francesco Barbaro le difficoltà furono appianate e Gregorio impalmò la sua Antonia. 355. Col mezzo di questi due figli le comunicazioni di Guarino col circolo veneziano erano tenute vive. Oltre che con Francesco Barbaro, egli corrispondeva col figlio di lui Zaccaria, con Bernardo Giustinian, col medico Niccolò Leonardi, con Marco Zane. In casa Barbaro ci fu nel gennaio 1453 una festa di famiglia per il matrimonio di Paola figlia di Francesco con Giacomo Balbi. Da Ferrara Guarino se ne congratulò per lettera e Giano Pannonio compose per quel-Γ occasione un lungo panegirico di Francesco Barbaro. In quello stesso anno Giano andava a Venezia raccomandato da Guarino al Barbaro; probabilmente era quello il tempo in cui il Pannonio, lasciati gli studi letterari dell’ università di Ferrara, si recava a frequentare il corso di giurisprudenza in quella di Padova. D’ora in poi i legami di Guarino col circolo veneziano si rallentano o si spezzano affatto, essendo morto nel principio del 1454 il Barbaro, che ne costituiva il nucleo. 356. Anche nelle relazioni di Guarino con la corte di Rimini incontriamo un figlio suo, Girolamo, che nel 1448 dedicò a Gismondo Malatesta una Vita di Senofonte. Guarino aveva avuto occasione di conoscere personalmente Gismondo nel 1444, quando esso venne a Ferrara ad assistere alle nozze di Leonello. Più frequenti diventarono le corrispondenze tra GIORNALE LIGUSTICO 421 Guarino e Rimini allorché si recarono a quella corte due suoi illustri scolari, Tobia Borghi e il Basini, stato allievo quest ultimo anche di Vittorino e del Gaza. A Rimini il Basini si trovò in lotta con due rivali, il Porcelli napoletano e Tommaso Seneca da Camerino, contro le cui maligne suggestioni egli dovea disputarsi la grazia del principe, il quale alla sua volta prendeva diletto di quelle guerricciole. Guarino era informato di tutto dal Basini. 357· L Basini conosceva, come allievo delle scuole di Mantova e di Ferrara, il greco, del quale erano digiuni il Porcelli e il Seneca. Costoro due cercarono di mettere in cattivo occhio presso il principe il loro rivale col pretesto che egli disprezzasse i Latini in confronto dei Greci; il Basini rispose vittoriosamente, mostrando la loro ignoranza e tessendo 1’ apologia degli studi greci. Qui scorgiamo un’altra prova della superiorità della scuola guariniana e un nuovo sintomo della guerra fra Greci e Latini. L’ altro scolaro di Guarino a Rimini, Tobia Borghi, fu storiografo di quella corte; infatti scrisse la vita di Gismondo, specialmente per eccitamento di Guarino, che gli delineò anche le principali norme per scrivere la storia, desumendole da Luciano. 358. Fra i principi convenuti a Ferrara nel 1444 alle nozze di Leonello ci fu Rodolfo di Camerino, fratello della famosa Costanza Varano, una delle umaniste del secolo XV. Certamente Guarino ebbe occasione di parlar di lei col fratello Rodolfo, quantunque egli già la conoscesse per fama e per aver letto i suoi scritti. Avea levato gran rumore la sua orazione recitata al conte Francesco Sforza e alla sua sposa novella Bianca Visconti, quando nel 1442 andarono a prender possesso della loro signoria delle Marche. D’ allora in poi la Costanza incoraggiata si mise in corrispondenza con principi, umanisti e umaniste, come il duca, Filippo Maria Visconti, Guiniforte Barzizza e l’Isotta Nogarola. Guarino, che 422 GIORNALE LIGUSTICO aveva ott’anni innanzi tributato il suo omaggio alla Nogarola, non si lasciò sfuggire ora (1444) l’opportunità di tributarlo con una lettera anche alla Varano, adoperando quasi le stesse frasi e le stesse lodi e mostrandosi in certo modo mortificato di presentarsele così da sè, senza averla conosciuta prima; che però non ce n’ era di bisogno, perchè egli era stato ammiratore dei suoi scritti, dai quali l’aveva imparata a conoscere molto bene. Il pretesto di scriverle gli fu fornito da un codice degli scolli di Cornuto a Giovenale, che esisteva in Camerino e di cui le chiedeva una copia. 359. Con la corte di Urbino troviamo in relazione Guarino e il figlio Battista. Duca di Urbino era Federico di Mon-tefeltro, non letterato ma protettore dei letterati, col quale Guarino carteggiava sin dal 1451. Ebbe poi occasione di conoscerlo personalmente nel 1457., quando Federico e Gismondo Malatesta si abboccarono a Ferrara con Borso d’Este, che essi aveano scelto per paciere; ma la pace non fu ottenuta. Al duca Federico si accompagnava anche Ottaviano Ubaldini, entrambi cresciuti in corte come fratelli. Ottaviano era letterato, fu allievo di Vittorino da Feltre e si occupava di studi latini e italiani; corrispondeva p. e. col Prendilacqua, col Filelfo, con Guarino; quest’ultimo anzi gli mandò come institutore uno dei suoi scolari, Marino Filetico. Battista Guarino si era incontrato con Ottaviano nel 1456, probabilmente in Bologna, e in quell’anno stesso gli emendò un Catullo. 360. Dico in Bologna, perchè Battista insegnò in quell’università due anni, 1455-1456, 1456-1457. Fu onore non ordinario per un giovanotto appena forse ventenne esser chiamato a dettar lezione in quell’ illustre ateneo. Il discorso inaugurale del decembre 1455 fu un trionfo per Battista. L’ uditorio era affollatissimo ; vi si notavano i rettori e ragguardevoli personaggi fra i quali il cardinal legato. Il vecchio GIORNALE LIGUSTICO 423 Guarino, quando ne udì la relazione in piazza a Ferrara da uno che veniva da Bologna, non potè trattenere dalla consolazione le lagrime. 361. In Bologna c’ era giusto in quegli stessi anni un altro figlio di Guarino, il canonico Manuele, che avea Γ ufficio di segretario presso il cardinal legato. Per mezzo di questi due figli Guarino tenea viva corrispondenza col circolo bolognese. Senza di che egli carteggiava con la famiglia Bentivoglio e col cardinal Bessarione, che fu legato in Bologna dal 1450 al principio del 1455. Essendosi recato a Bologna il suo scolaro Marco Aurelio, gli portò nel ritorno i Ricordi di Socrate di Senofonte tradotti dal Bessarione; con ciò fu offerta a Guarino Γ occasione di tributar meritate lodi al dotto Greco e di rinnovare l’amicizia stretta in Ferrara nel 1438 al tempo del Concilio. A Bologna predicavano di quando in quando due monaci veronesi di quel tempo, fra’ Timoteo e fra’ Matteo Bossi. Timoteo trovò in una di quelle circostanze, sembra, a Bologna la vita di S. Guarino, che fu trasmessa a Guarino da un monaco bolognese, fra’ Cipriano. Fu un’immensa esultanza per Guarino l’aver trovato il suo santo omonimo e fu fortuna per noi, poiché nel ringraziare Cipriano egli dà preziose notizie intorno ai suoi primi anni. 362. Quel Timoteo era uomo istruito e abbastanza spregiudicato , perchè scrisse un libro, la Sacra rusticitas, dove dimostra che lo studio delle lettere non nuoce alla pietà cristiana. Anche lui però, come tutti i minoriti, faceva la sua crociata contro il lusso, che allora cominciava a diventare una vera piaga sociale. E predicò contro il lusso nella quaresima del 1454 a Bologna, dove ebbe buon gioco, avendogli prestato mano forte il Bessarione, che già tre anni innanzi avea pubblicato ivi stesso un editto contro il lusso. Però gli attacchi di fra’ Timoteo erano specialmente rivolti contro le 424 GIORNALE LIGUSTICO donne. Ciò parve poco cavalleresco a taluno, che confutò' il monaco, e a Guarino stesso, il quale spezzò la sua lancia in favor delle donne. 363. Egli infatti ne scrisse a Santi Bentivoglio, capo partito a Bologna, censurando Γ eccessiva severità dei monaci, i quali parlavano astrattamente, anziché tener d’occhio le condizioni della vita pratica, e notando che mentre gli uomini hanno mille mezzi per mettere in vista i propri meriti, alle donne non è riservato altro mezzo che Γ ornamento. Due anni più tardi fra’ Matteo Bossi rimproverò a Guarino 1’ acrimonia di quella critica, ma Guarino gli rispose protestandogli che la sua stima e il suo affetto verso fra’ Timoteo non gli venne mai meno e tutto fini lì. 364. Un altro figlio di Guarino, Girolamo, praticò la corte di Napoli. Alfonso d’Aragona dopo sette anni di guerra riusciva finalmente vittorioso del suo avversario Renato e nel febbraio del 1443 faceva il suo ingresso trionfale in Napoli. Guarino sapeva che Alfonso era re magnanimo e liberale, sapeva che egli proteggeva le lettere e i letterati, sapeva che il Panormita e il Valla, suoi antichi amici, stavano da parecchio tempo alla corte di lui e vide perciò che gli sarebbe stato utile collocare a Napoli il proprio figlio Girolamo. Ma tastò prima il terreno; infatti nell’ottobre 1442 scrisse al re Alfonso esaltando le sue imprese guerresche, ma dando maggior rilievo alle virtù dell’animo, come la fede, la religiosità, la giustizia, la liberalità, la magnanimità e simili, e dimostrando che egli non era, siccome volevano far credere, straniero nel regno di Napoli, che la Spagna fu colonizzata dai Romani e diede poi a Roma gli imperatori Adriano, Teodosio e Marco Antonio Vero. In un’ altra lettera Guarino concentra le sue lodi sulla protezione che Alfonso accordava agli studi; e cosi si aperse la via a presentargli il proprio figlio Girolamo, il quale partì per Napoli nell’ ottobre del 1443 GIORNALE LIGUSTICO 425 con una lettera di raccomandazione del padre al Panormita e con una dell’Aurispa al Valla. 365. Alla prima lettera che Girolamo scrisse da Napoli al padre questi rispose tracciandogli le principali linee della sua condotta in corte. « Dopo Dio viene il re, indi il suo segretario ; i voleri del re devono essere tutti sacri per chi vive in corte. I cortigiani vanno trattati con urbanità e in modo da non suscitare la loro gelosia ». Caratteristiche sono le regole che gli dà sul contegno da osservare nelle conversazioni : « più che parlare ascolta; ma non avviare mai o non secondare la maldicenza a carico degli assenti; mostra di fare gran caso di ciò che dicono i presenti e non vantar mai la tua professione in confronto dell’altrui; sappi essere ora serio, ora gaio, ma senza trascendere in volgarità, e fa conto sopratutto che ogni tua parola debba giungere agli orecchi del re ». Gli raccomanda da ultimo di fuggir l’ira e l’avidità del guadagno e di mantenere scrupolosamente la segretezza. 366. I consigli del padre non caddero a vuoto e Girolamo seppe ben presto acquistare la fiducia del re che lo creò suo consigliere e segretario. Nè Girolamo si mostrò ingrato verso il suo protettore e non trascurava occasione di manifestargli la sua riconoscenza; come nel 1444 quando partiva da Napoli Maria per andare a Ferrara sposa di Leonello, e nel 1447 che compose un carme in lode del suo re per la riedificazione di Vibona (Monte Leone) , alla quale aveva dato il nome di Alfonsina. Di questo carme Girolamo mandò copia al padre, che ne tolse pretesto per scrivere al re, congratulandosi di così bella azione e discorrendogli a lungo intorno alla superiorità delle arti della pace sulle arti della guerra, e trovando da ultimo il modo di lodarlo non solo come mecenate ma anche come cultore degli studi e di raccomandargli il figlio Girolamo. 426 GIORNALE MGUSTIGO 367. Allorché nell’ottobre del 1443 Girolamo era giunto a Napoli con la commendatizia dell’Aurispa al Valla, quest’ ultimo si affrettò a scrivere a Guarino dell’ ottima impressione che gli aveva fatta il figlio, « il quale riproduceva esattamente il padre tanto nelle doti fisiche quanto nelle morali ». Nel medesimo tempo gli chiedeva una copia del Panegyricus di Plinio, offrendogli in ricambio il proprio opuscolo Sulla falsa donazione di Costantino, il lavoro più oratorio che egli avesse mai, a suo stesso giudizio, potuto scrivere. E fu in verità ardimento degno dell’ ingegno superiore del Valla e consentito solamente a Napoli, dove il governo di re Alfonso lasciava libertà di parola e proteggeva gli umanisti perseguitati dall’ inquisizione ecclesiastica. Quanta attività non aveva spiegata il Valla in quei pochi anni dacché stava alla corte di Alfonso ! Oltre all’ opuscolo sulla Donazione, avea terminati i sei libri delle Elegante e i tre della Dialettica, aveva preparato il libro delle Adnotationes contro Antonio da Rho, avea composti otto libri di confronti tra il testo greco e il testo latino del Nuovo testamento, avea tradotto in prosa latina i primi sedici libri dell’ Iliade e attendeva al-l’emendazione del testo di Quintiliano. 368. Nel principio del 1447 re Alfonso stava attendato a Tivoli, donde nel corso dell’anno intraprese la sua campagna contro i Fiorentini. Nel campo si trovavano anche il Valla e Girolamo Guarini. Venuta la stagione delle pioggie autunnali i due umanisti pensarono di ritornare a Napoli e presero la via di Siena. Ma s’imbatterono in una schiera di briganti, dai quali il Valla potè scampare a stento, mentre il Guarini fu catturato e maltrattato; poco dopo però si rincontrarono entrambi incolumi a Napoli. 369. Il Valla nell’anno seguente, 1448, lasciò per sempre Napoli e si stabili a Roma, dove il regno di papa Niccolò V gli accordava quell’ospitalità, che gli sarebbe stata GIORNALE LIGUSTICO 427 negata da Eugenio IV. Girolamo Guarini in quello stesso anno partì da Napoli, lasciando l’incarico di spedirgli le valigie a Bartolomeo Faccio. Pare che se ne sia tornato in condizioni non troppo floride , perchè il padre per fargli pagare lo stipendio ha dovuto presentare una supplica al re. Nel 1450 Girolamo aveva trovato un altro posto nella cancelleria di Modena. Il Faccio per avere avuto in consegna le valigie di Girolamo ebbe frequenti occasioni di scrivere al suo antico maestro Guarino, che egli amava e stimava sempre e al cui giudizio sottoponeva i propri lavori. Un bel giorno poi del 1451 le lettere del Faccio arrivarono non per mezzo del solito messaggiero; il messaggiero era nientemeno che il Panormita in persona: « a lui potrai chiedere, 0 Guarino, tutte le notizie che desideri di me; io non ho segreti per lui ». E Guarino abbracciò con effusione il grande e stimato amico suo, che allora per la prima volta imparava a conoscere personalmente. Il Panormita passava da Ferrara diretto a Venezia, dove si recava ambasciatore del suo re. Lo accompagnavano Luigi Puggi e il venticinquenne Gioviano Pontano. 370. Parimenti a Roma troviamo un figliolo di Guarino, Manuele, che vi si stabilì per alcuni anni a perfezionarvi i suoi studi ecclesiastici; oltre di che da Ferrara a Roma andava e veniva ogni anno l’Aurispa. Manuele e 1’ altro figlio Girolamo furono da Guarino con special cura raccomandati a Niccolò V nella lettera congratulatoria che gli scrisse per la sua assunzione al papato. 371. La lettera ha un poco l’intonazione retorica di un’orazione, ma essa esprime perfettamente i sentimenti suscitati in tutta l’Italia dall’inaspettata elezione di Tommaso Parentucelli. Ognuno infatti ammirava 1’ umile e povero figlio del medico di Sarzana elevato al massimo onore della chiesa, ognuno esaltava la sua pratica negli affari, ognuno scorgeva in lui il rimuneratore del vero merito e il dispregiatore del 428 GIORNALE LIGUSTICO danaro, ognuno salutava in lui l’inauguratore di un periodo di pace, ognuno encomiava la sua estesa e molteplice dottrina. Questi sono i cinque grandi titoli, che la pubblica opinione riconosceva al nuovo papa e questi sono i titoli messi in rilievo da Guarino. Però mentre il ceto degli umanisti concepì larghe speranze del nuovo papa per l’incremento della cultura, Guarino sembra di tali speranze non aver sentore. 372. Se ne accorse invece più tardi, quando anch’egli divenne uno dei tanti collaboratori del vasto piano di Niccolò V, di fondare una grande biblioteca di traduzioni dal greco. E nella dedica a Niccolò V della traduzione della Geografia Straboniana Guarino mette in vista questo merito del papa; ma non dimentica anche una particolare circostanza, ossia che il papa con la traduzione avea di mira gli interessi della leligione, in quanto che badava sopratutto alla traduzione dei testi sacri; e in ciò Guarino lo paragonava a Tolomeo Filadelfo, che fece tradurre la bibbia dai settanta. Sicché anche la Geografia di Strabone avrebbe dovuto servire agli intei essi della chiesa. « Senza dubbio; perchè la gente poteva vedere su quanta estensione di regioni imperasse la chiesa, la quale in tal modo veniva ad aumentare il suo prestigio ». C è veramente molta stiracchiatura, ma Guarino doveva aver capito che al papa premeva di far credere così. 373· A Guarino dunque venne da Niccolò V assegnata la traduzione di Strabone da nessuno prima tradotto. Sin dal 1448 Guarino domandava uno Strabone al Filelfo; ma non pare che sin d’allora avesse ricevuto Γ incarico dal papa; lo cercava forse per proprio uso. Non so se l’abbia trovato subito; certo lo possedeva nel 1451. L’incarico gli fu dato probabilmente nel 1452, perchè nel principio del 1453 la traduzione era alquanto inoltrata. L’idea di quella traduzione nacque in Niccolò V dall’ aver egli saputo che si tro- GIORNALE LIGUSTICO vava in Roma uno Strabone in possesso del cardinal Ruteno Isidoro. Ma siccome Isidoro nel maggio 1452 era partito con una missione per Costantinopoli, cosi avrà fatto intanto cominciare a Guarino la traduzione sul proprio esemplare, il quale era molto guasto : poi gli si sarebbe mandato Γ altro da Roma, come fu in effetto. Nel marzo del 1453 Guarino mandava a Giovanni Tortelli alcuni saggi della traduzione; altri ne mandava nel settembre dell’ anno stesso; allora aveva quasi finito il libro quarto. Nuovi saggi manda nel 1454, mentre annunzia che lavorava intorno al libro sesto. Nel medesimo tempo Guarino chiedeva danaro. Gli pesava sulle spalle una famiglia molto numerosa e per attendere alla traduzione avea dovuto trascurare 1 propri interessi e lasciare alcune lezioni private. 374. Nel febbraio 1455 il lavoro avanza con gran lena; ma come dovette essere rimasto il povero Guarino quando nel marzo intese la morte del papa ! Per la parte tradotta gli erano stati pagati mille scudi; e per il rimanente che fare? Gli sapeva male troncare a mezzo un lavoro così poderoso; onde si risolse a continuarlo e terminarlo per conto proprio; avrebbe poi trovato il mecenate che lo pagherebbe. Terminò la traduzione nel luglio del 1458. Cercò un mecenate a Firenze, forse tra i Medici, a cui offrirlo, ma l’offerta non fu accettata. L’ accettò 1’ illustre patrizio veneto Giacomo Antonio Marcello, dei cui meriti, specialmente militari, fa ampio elogio nella dedica. Il Marcello alla sua volta dedicò l’opera a Renato di Angiò. Questo fu, dopo la restituzione dei passi greci al commento vergiliano di Servio, l’ultimo grande lavoro di Guarino. 375. Morto Niccolò V, col suo successore Calisto III, indifferente 0 meglio contrario all’umanismo, Guarino non se la poteva intendere e così si rallentarono i suoi legami con Roma. Già sin dai tempi dello stesso Niccolò V degli 430 GIORNALE LIGUSTICO umanisti amici di Guarino soli il Tortelli e il Poggio aveano mantenuto regolare carteggio con lui. 376. Le sue relazioni col Poggio non hanno mai perduto della usata frequenza e intimità. Nel 1447 il Poggio pubblicò la. traduzione della Ciropedia di Senotonte. Ebbene, Guarino scrivendo al re Alfonso per tutt’ altro trovò il modo di nominare il Poggio e la sua Ciropedia, per dirgli che quell’umanista in tarda età (67 anni) aveva , come a Roma Catone, dato opera a studiare il greco e Γ aveva imparato prima che si venisse a sapere che egli lo studiava. La stessa lode fece Guarino del Poggio al giureconsulto Francesco Accolti, che allora professava a Ferrara, e la stessa lode ripetè poi direttamente al Poggio, aggiungendogli esser tanto elegante e disinvolta la traduzione, da sembrar proprio opera originale. Nel 1451 vide di mal occhio la polemica tra il Valla e il Poggio, suoi amici, e uni la sua voce a quella di Pietro Tommasi per riconciliarli, se non che furono sforzi inutili i suoi, quelli del Tommasi, del Barbaro e del Filelfo; la guerra finì soltanto con la partenza del Poggio da Roma. 377. Il Poggio lasciò Roma nel 1453 , nel quale anno fu chiamato a reggere la cancelleria fiorentina in sostituzione del morto Marsuppini. E da Firenze non interruppe mai la sua corrispondenza amichevole con Guarino, a cui chiedeva saggio della traduzione di Strabone e gli mandava libri per il figlio Battista. Ci fu una piccola nube per una falsa voce giunta all" orecchio del Poggio sul conto di Guarino e del Perotti; ma fu tosto dissipata. « Scusami, o Guarino, se per poco ho alimentato quel sospetto contro di te ; la tua lealtà m’ era ben nota ». E non diceva per complimento, giacché nel 1456 trattava con lui per mandare alla sua scuola in Ferrara i propri figli: «qui a Firenze, caro Guarino, i figli non li può mandare a scuola chi vuol farli educare a principii di sana moralità; perciò li affido a te ». Stupenda invi- giornale ligustico diabile gloriosa testimonianza di fiducia e di affetto, la quale compendia tutto un mezzo secolo di una operosità didattica mai venuta meno allo scopo, e di una amicizia che non ha riscontri in quell’ età. 378. Nell’ottobre 1459 mori a Firenze il Poggio. Dei grandi campioni dell’umanismo nati negli ultimi decenni del secolo precedente erano rimasti a lungo superstiti il Poggio e Guarino; ora restava Guarino solo. L’Aurispa, astro minore, due anni più vecchio di lui, strascicava alla meglio la sua decrepitezza in Ferrara. Nel decembre del 1459 l’Aurispa seppe che si era sparsa la falsa voce della sua morte; egli ne rise, ma poco dopo, nei primi mesi del 1460, la morte venne davvero. Al mancar d’ogni parente, d’ogni amico Guarino soleva scorgere un ammonimento della brevità della sua vita, un’avvertenza a tenersi pronto per il gran passo ; ma nessuna morte deve averlo messo sull’ avviso come quella del Poggio e dell’Aurispa. Gli erano premorti di pochi anni la moglie e i due figli Niccolò e Girolamo, entrambi nel fior dell’età; egli era sugli ottantasette : poco più poteva tardare anche la sua chiamata. 379. E infatti nei primi di decembre del 1460 ammalò di pleurite. Il giorno 4 sentendosi prossima la fine, si muni dei conforti religiosi e dettò il testamento: lasciava alle due figlie maritate le doti già costituite, alle due figlie nubili e alla orfana di Girolamo 800 lire per ciascuna; ad Agostino la casetta paterna in Verona e alcune terre; a Manuele una parte della casa in Ferrara; a Gregorio la villa di Montorio, alcune terre e un molino; a Leonello la casa di Valpolicella; a Battista la casa grande in Verona. Quel giorno stesso circondato e baciato dagli amici e dai figli , benedicendoli come Giacobbe, placidamente spirò. 380. Il trasporto della salma provocò un piccolo tumulto. I rettori dell’ università si disputavano il primo posto nel 432 GIORNALE LIGUSTICO corteo e la disputa si incalorì tanto, che il ieretro venne depositato e lasciato in mezzo alla via. Allora Luigi Casella, scolaro dell’estinto, alzando gli occhi al cielo: « Vi ringrazio, o Signore, che avete permesso questo scandalo per trarne un bene. L’ onore di trasportare la salma doveva essere riservato ai suoi scolari ». E ragunati altri allievi di Guarino, quali Pietro Costabili, Niccolò Strozzi, Annibaie Gonzaga, Francesco Accolti, Pietro Marocelli, Francesco Forzati, si tolsero sulle spalle il feretro e lo portarono alla sepoltura. Gli onori funebri gli furono resi da un altro suo allievo, Luigi Carbone, il quale tessè al maestro un entusiastico elogio, tratteggiando la sua vita, accennando le varie residenze da lui occupate, nominando i più famosi suoi scolari, esaltando le qualità del suo insegnamento e le sue virtù personali. 381. Il secondo giorno dopo la morte di Guarino, cioè il 6 decembre, il Consiglio dei Savi con lodevole proposito gli sostituì nella cattedra il figlio Battista, giudicato non inferiore al padre per abilità, virtù ed eloquenza. 382. Nel novembre dell’anno seguente 1461 i figli di Guarino presentarono un’ istanza al marchese Borso per la erezione di un monumento al padre. Borso nello stesso novembre diede parere favorevole e il Consiglio dei Savi votò il monumento da erigersi nella chiesa dei Carmelitani di San Paolo, alla sinistra dell’altare maggiore. Battista comunicò la deliberazione al fratello Leonello, incaricandolo di far preparare i marmi a Valpolicella. Il monumento fu costruito nel 1468. R. Sabbadini. GIORNALE LIGUSTICO 433 INDICE DEI NOMI PROPRI NELLA VITA DI GUARINO ( I numeri indicano i paragrafi ). A Accolti Francesco 376, 380. Adimari 88. Agasone Andrea 286, 287, 289. Agostino (Sant’) 166, 333. Agostino (frate) 322. Albanzani (degli) Donato 66. Albergati Niccolò 185, 255. Alberti Leon Battista 264, 291. Alessandro Afrodisio 89. Alessandro (prete) 173. Alfonsoe Valesioportoghesi 38,56. Alighieri Dante 329. » Leonardo 124. Alvaroto Antonio 13. Ancona (da) Ciriaco 335. Angiò (d’) Renato 374. Annibaie 259. Antonio (grammatico) 185. Apollonio Rodio 89. Apuleio 321. Aragona (d’) Alfonso 242, 249, 252, 253, 320, 336, 364, 366, 367, 368, 376. » Maria 336, 337, 366. Arezzo (d’) Antonio 33. Ariosto Francesco 321. Arzignano (d’) Giovanni 113, 183. Asconio Pediano 8$, 86, 105, 148. Asino 284. Aurelio Marco 361. Aurispa 42, 88, 117,172, 186, 187, 193, 198, 203, 216, 217, 255, 257, 291, 364, 367, 37°, 378. Avogari Galasio 238, 284. Giorn. ligustico. Anno XVIII. Bagnacavallo (da) Guido 211. Balbi Giacomo 355. Bando Giacomo 202, 211. » Pietro 211. Baratella Antonio 297. Barbadoro Girolamo 33, 87. Barbarigo Francesco 165. Barbaro (famiglia) 51. Barbaro Ermolao 37, 52, 87, 109, no, 118, 131, 151, 154, 156, 162, 164, 170, 279> 352. » Francesco 26, 27, 37 , 47, 48, 49, 50, 52, 56, 57, 58, 60, 69, 70, 71, 73, 74, 75, 77. 78, 85, 87, 88, 89, 94,109, no, III, 117, 129, 131, 134, 144, 148, iso, 151, 152, i53> 154, 155, 156, i58. 162, 165, 168, 173, 182, 192, 240, 261, 263, 279, 298, 501, 354, 355, 376. » Maria 150. » Paola 355. » Zaccaria (vecchio) 26 , 52, 56, 75, 94, no. » Zaccaria (giovane) 355. Barzizza Gasparino 4, 26, 37, , 58, 39. 43, 48, 51, 53, 55» 56, 57, 64, 66, 67, 71, 77, 81, 86, 87, 91, 105, 113, 148, 153, 180, I8I , 183, 215, 243, 297, 32O. η Guiniforte 358. 2S 434 GIORNALE LIGUSTICO Basilio (San) 89, 291, 333. Basini Basinio 313, 356, 357. Becchetti Giacomo 181. Bendidio Filippo 224. Bentivoglio Santi 361, 363. Benvenuti Lorenzo 41, 167. Benzi Soccino 294. Bessarione 291, 361, 362. Bevilacqua Battista 56, 177. » Giorgio 279. Biondo Flavio 113, 115, 129, 153, 154, 162, 163, 164, 165, 176, 177, 178, 195, 198, 216, 264, 265, 266, 267, 271, 291. Bissaro Matteo 161. Boccaccio Giovanni 329. Boccamaiori (de’) Brandelisio 221. Boiardi (famiglia) 213, 286. Boiardi Feltrino 181, 194, 256, 269, 294, 321. Boninsegni 33, 87. Borghi Damiano 124, 205, 279, 285, 353. » Eusebio 279. » Tobia 284, 356, 357. Borromeo Antonio 279. Boscoli Giovanni 170, 172. Bossi Francesco 243. » Matteo 361, 363. Bracco Francesco 56, 68. Brenzoni Bartolomeo 96, 97, 102, 138, 150, 205. » Francesco 178. » Niccolò 64. Brescia (da) Antonio 197, 200, 201. Broglio Tebaldo 12. Brugnara 13 s. Bruni Leonardo 14, 30, 31, 32, 37, 42, 49, 74, 80, 81, 82, 88, 169, 170, 173, 181, 192, 257, 264, 265, 266, 267, 268, 269, 271, 272. C Calefini Guglielmo 312. Calisto III 375. Cambiatore Tommaso 13, 14» *81 ) 205. Camozzi Filippo 131. Campesano Marco 172. Capodiferro Antonio 37. Cappelli 218. Capra Bartolomeo 30, 80, 162, 177, 178, 179, 181, 183. Capranica Domenico 177, 255. Capro 85. Caravello Marino 30. Carbone Lodovico 215, 317, 380. Carmagnola (conte di) Francesco 108, 138, 139, 177, 250, 251, 287, 288. Caronda 80,82 (correggi Teronda). Carpi Alberto 321. Carrara (da) Francesco 1. » Giacomo 7. Casalorsi Antonio 154. Casati 179. Casella Lodovico 345, 380. Castelnovo (da) Giovanni 164. Castiglionchio (da) Lapo 291. Castiglioni Branda 53, 86. » Guarnerio 181. Catone 328. Cattaneo Domenico 124. » Luigi 3, 34, 37, 124. Catullo 359. Cavalli Lodovico 69, 103. Celso Cornelio 191. Cesare Giulio 234, 259, 260, 262, 328. Cicerone 83, 86, 87, 88, 106, 113, 153, 162, 174, 175, 180, 183, 191, 195. 296> 328· Cipriano (frate) 361. Cipro (da) Filippo 56, 87. GIORNALE LIGUSTICO 435 Coadi Giovanni 194. Cola di Rienzo 10. Concoreggio Antonio 115, 121. Condulmier Gabriele 185. Contarini Niccolò 37. Contrari Uguccione 65, 66, 321. Corbinelli Angelo 33, 49, 170. » Antonio 33,40,49,87, 94, 173· Corner 56. Cornuto 358. Corradini Giannino 59, 69. Correggio (conte di) Galasso 14, 181. Correr Gregorio 285. Corvini Giovanni 179, 180, 183. Costabili Alberto 321. » Margherita 342. » Pietro 380. Cremona (da) Benedetto 137. Crisolora Giovanni 23, 64, 117. » Manuele 2, 15, 16, 17, 18, 20, 2i, 22, 23, 25, 29> 3'. 34, 35, 42, 48, 50, 51, 55, 56, 62, 63, 64, 68, 73, 80, 81, 88, 117, 161, 181, 346-348. Cristoforo Vicentino 61. Cusa (da) Niccolò 191. Czepes Elia 313. D Decembrio Angelo 209, 319, 320. » Pier Candido 14, 18, 181, 182, 183, 250, 251, 259. » Uberto 18, 181. Demetrio Cidonio 29. Demostene 88. Diogene 89. Donati 51. Donati Ermolao 131, 162, 164. Donati Girolamo 3. » Pietro 37, 38, 56. Donato Elio 257, 326. Dotti Niccolò 16i. E Elia Ugolino 194, 197, 210. Erodoto 191. Esopo no, 170. Este (d’) Beatrice 340, 344. » Borso 218, 336,340-345, 346, 359, 382. » Giovanni 200. » Isotta 337. » Leonello 218, 222, 226-236, 239, 254, 256, 260, 261, 269, 273, 276, 281, 286, 289, 294, 295, 296, 306, 308, 309, 319, 320, 322, 325, 335, 336, 337, 338, 339, 346, 356, 358, 366. » Meliaduce 195, 198, 216, 217, 255, 256. » Niccolò 65, 66, 141, 142, 214, 216, 218, 221, 240, 251, 286, 305, 306, 307, 321. » Niccolò (figlio di Leonello) 338. » Parisina 195. » Taddeo 298. EugenioIV 254, 256,290,291,369. Eutichio 85. F Fabris Giacomo 64. Faccio (Fazio) Bartolomeo 218, 369. Facino Niccolò 7. Faella Vitaliano 118,119, 124,135. GIORNALE LIGUSTICO Faenza (signore di) Guidantonio 336. Fano Tommaso 98, 205, 238, 284. Federico III 340-342. Feltre (da) Vittorino 53, 57, 75, 107, 175, 215, 218, 227, 231. 356, 359- Ferrari Cecilia 147, 245. » Lodovico T48, 245, 246, 254. Festo 84. Fieschi Carlo 181. Filelfo Francesco'42, 57, 117, 157, 158, 193, 198, 257, 271, 272. 341, 344, 345, 359» 373. 376. Filetico Marino 359. Filostrato 88. Fiocchi Andrea 264. Floro Valerio 61, 78. Fortini Paolo 33. Forzati Francesco 380. Foscari Francesco 114, 145, 279. » Giacomo 279, 280, 281. Francaciani 161. G Gaza Teodoro 309, 356. Gellio 179, 180, 195, 328. Genovesi Bartolomeo 118, 124, :35· Gioseppi Bartolomea 147. » Costantino 147. » Pietrobono 147. Giovanni (cavalier greco) 29. Giovanni XXIII 34, 35, 50, 79, 80, 81. Giovenale 328. Girolamo (San) 333. Giuliani Andrea 56, 6o, 63, 64, 68, 69, 77, 81, 109, 131, 155» 174, 299, 347. » Paolo 69. Giullari Cesare 34, 37. Giustinian Bernardo 118, 149, 154, 3°o, 355. » Leonardo 56, 60, 69, 73' 77, 89, iT7, 118, 134, '49, !52, 153, 154, 155, 156, 299, 300. » Lorenzo 134. » Orsato 301. Giustino 171. Gonzaga Annibaie 380. » Carlo 227, 354. » Gianfrancesco 107. » Lodovico 175. » Margherita 222,227,294. Gregorio XII 78, 79. Grisostomo Giovanni 88, 279. Gualdo Girolamo 56, 58, 60, 73, 74, 105, 112, 148, 161, 162, 164, 166, 167, 168. Gualengo Giovanni 321. Guantieri Paolo Filippo 219. Guarini (dei) Bartolomeo 1. » Battista 3 t2, 313, 342, 347, 348, 349, 351, 352, 359, 360, 379, 381, 382. » Esopo Agostino 115, 137, 208, 349, 379. » Fiordimiglia 312. » Girolamo 112, 137, 164, 214, 249, 275, 284, 300, 302, 336, 347, 348, 349, 356, 364, 365, 366, 567, 368, 369, 370, 378, 379. » Gregorio 135, 208, 349, 351, 354, 379· Antonia sua moglie 354. » Leonello 349, 351, 379, 382. » Libera (madre di Guarino) i, 206, 238. » Libera (figlia di Guarino) 214, 312. GIORNALE LIGUSTICO 437 Guarini Lorenzo i. » Manuele 128,152,208,34.3, 347, 348, 349. 361, 370, 379- » Niccolò 4, 136, 208, 347, ” 349, 351, 354, 378. » Taddea 104, 147, 150,197, 209, 214, 312, 378. Guarino (San) 361. » Nascita, primi anni e primi studi 1-20. A Costantinopoli 21-32. A Firenze: sue relazioni interne ed esterne 33-45. A Venezia: sue relazioni interne ed esterne 46-95. A Verona: sue relazioni interne 96-145 ; relazioni esterne 146-199. A Ferrara , primo quinquennio : sue relazioni interne 200-236; relazioni esterne 237-272. A Ferrara, secondo quinquennio: sue relazioni interne ed esterne 273-304. A Ferrara, ultimo ventennio : relazioni interne 305-350; relazioni ester-ne 351-378. Sua morte 379-382. Guasco Bartolomeo 192. Guasconi Biagio 33, 72, 80. Guglielmi 87. Guidalotti Alberto 69. Guidotti 124. 1 Ildebrandi Berto 185. Isidoro Ruteno 373. L Lamola Giovanni 96, 97, 105, 132, 183, 184, 189, 191, 192, 218, 225, 256. Landi Silvestro 353. Landriani Gerardo 113, 181, 183. Lattanzio 85, 88, 224. Lavagnola Giacomo 114, 119, 120, 279. Lelia 318. Leonardi Niccolò 72, 78, 355. Leoniceno Ogniben 279. Lino (frate) 317. Lippomano Marco 37. Livio 88, 348. Lombardi 238. Loredan Giorgio 111, 150, 161. 1, Pietro 176, 177. Loschi Antonio 7, 13, 30,61, 80, 81, 181, 189, 249, 255, 264, 266. η Niccolò 249. Lucia 318. Luciano 26, 291, 357. Lucrezio 85, 86. Luni (da) Giovanni 185. M Maccagnino 335. Macrobio 179, 180, 183, 328. Maffei Paolo 37, 221. Maggi 2, 92, 93, 96, 97, 104, 113, 119, 123, 124, 125, 135, 150, 179, 205, 238. Mainenti Bartolomeo 68. » Scipione 258, 259, 291. Malaspina 53. » Antonio 173. Malatesta Carlo 36, 78, 79, 108. » Gismondo 336, 356, 357, 359· 43 8 GIORNALE LIGUSTICO Malatesta Pandolfo 7, 108, 139. » signor di Cesena 336. Malipiero Niccolò 176. Manfrin 115. Manilio 85. Marcellino 85. Marcello Antonio 374. » Niccolò 352. » Nonio 83, 85, 86. Marinis (de) Pileo 181. Marocelli Pietro 380. Marrasio Giovanni 218, 223 bis. Marsuppini Carlo 87, no, 257, 264, 377-Martiis(de) Biagio e Domenico 211. Martino V 79, 177, 178. Marzagaia 6. Marzio Galeotto 313, 314. Mazzolati Ugo 67, 68, 153, 195, 196, 216. Medici (de’) Cosimo 49, 181, 256. » Lorenzo 49, 69, 72, 181, 254. Mella Bartolomeo 66. Mercanti Lodovico 96, 102, 284. Miani Pietro 30. Micheli Giovanni 37. Migliorati Lodovico 108, 144. Monaco Lorenzo 74. Montagna Agostino 205. Montefeltro (da) Federico 359. » Oddantonio 336,337. Montepulciano (da) Bartolomeo 30, 78, 80, 82, 84. Montone (da) Braccio 226, 240. Morelli Luigi 200, 202, 211. Morroni Tommaso 321. N Nicandro 89. Niccoli Niccolò 32, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 87, 88, no, 167, 170, 172, 173, 181, 192, 234. 254, 256, 257. Niccolò V 369, 370,371, 372,373, 374, 375-Nichesola (della) Galesio 87, 174. Nogarola Angela 6, 7, 277. » Bartolomea 279. » Giovanni 6, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 37, 277. » Isotta e Ginevra 6, 276, 277, 278, 279, 284,285. » Isotta 132, 281, 282. 283, 358. » Leonardo 12. Nori Mariotto 118, 124, 135, 168, 170, 171, 172, 198. Nuvoloni Carlo 321. O Omero 367. Omodei Giovanni 183. Ordelaffi 153. Orgian Matteo 7. Orsi (degli) Roberto 313. Orsini Giordano 191, 254. Orsola 318. Ottobelli Zeno 98, 205, 238, 284, 347, 353-Ovidio 328. P Palamede 323. Paleologo Giovanni 117, 291. Pannomio Giano 311-318, 341, 3 5 5- Panormita 187, 188, 189, 190, 191, 192, 198, 203, 215, 224, 225, 241, 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248, 250, 251, 252, 253, 318, 364, 369. GIORNALE LIGUSTICO 439 Paolinis (de) Paolo 2, 54, 87, 92. Paolo 317. Parentucelli Tommaso 185, 371. Parma C'.ristoforo 56, 68, 92, 93, 149, 155. l61· Pasi 112. Pellegrini Bartolomeo 96,103,150. Pelliccioni Filippo 210, 223. Pendaglia Bartolomeo 342. Perotti Niccolò 377. Petrarca Francesco 1, 7, 8, 10, 11, 15, 16, 259, 329. Philargis Pietro 18. Piccinino Niccolò 138, 298, 301. Pierucci Andreozzo 185. Piglio (da) Benedetto 80. Pigna (della) Guglielmo 4, 37, 64. Pinotti 14. Pio li 340, 343. Pirondoli Niccolò 67, 72,194, 210, 211, 269. Pisanello 291. Pisani Bianca 150. » Francesco 150. » Ugolino 324. Pisoni 96, 97, 103. Pistoia (da) Zomino 80. Pittato Federico 95. Pizolpasso Francesco 243. Platone 18, 88, 222. Plauto 234, 237, 253, 254, 284. Pletone Gemisto 291. Plinio il giovine 89, 101, 162, 178, 328, 367. » il vecchio 234, 328. Plutarco 26, 68, 73, 77, 120, 135, 222, 234, 240, 286, 335. Poggio 30, 58, 62,72, 75,78,80,81, 82, 83, 84, 85, 86, 88, 117, 152, 173, 189, 249, 254, 255, 258, 259, 260, 261, 262, 263, 264, 291, 347» 375. 376, 377, 378· Polenta (da) Obizzo 221. Polentino Lodovico 96, 103. Polenton Sicco 3, 297. Policarpo Giorgio 313. Poliziano Angelo 43. Pontano Gioviano 369. » Tommaso 114, 185. Porcelli 291, 356, 357. Praga (da) Girolamo 75. Prato (da) Giovanni 109, 331, 332, 333- 334· Prendilacqua Francesco 359. Prisciano 85, 192. Probo 85. Puggi Luigi 369. Q Quintiliano 85,86, 105, 148,328, 367. Quinto Antonio 112. Quirini Giovanni 26. R Raimondi Cosimo 113, 183. Rasponi Paolo 207. Ravenna (da) Giovanni professore a Padova 3, 4, 48, 51· » professore a Firenze 48. Regini Filippo 173, 178. » Paolo 289. Regno (del) Bartolomeo 80. Resti Giona 56, 149· » Lazarino 56. Rho (da) Antonio 181, 188, 367. Ricci Zanino 181. Rimini (da) Andrea 185. Rinucci 185. Rinuccio 317. Rizzoni Martino 132,134, 136,156, 192, 193, 277, 278, 284. Roberto (frate) 317. 440 GIORNALE LIGUSTICO Rossi Roberto 33, 40, 49. Rustici Cencio 30, 62, 72, 80, 84, 85. 249> 255> 2<54, 291. 5 Sabbioni Cristoforo 115. Sacco Catone 243. Sacrati Salomone 312. Sagundino Niccolò 291. Sale (della) Alberto 65, 194, 256. Salerno Giannicola 2, 8, 12, 13, 64, 73,87,119, 124,134, 156, 169, 173, 184. Salerno (principe di) 336. Saliceto (da) Bartolomeo 66. Sallustio 327. Salutati Coluccio 16, 329. Sambonifacio (conte di) Lodovico 66, 240, 293, 297. Sardi Leonello 321. Sarteano(da) Alberto 109, no, 152, 170, 224, 258, 330, 331, 332. Scala (della) Antonio 1. Scala santa 88. Scipione Africano 259, 260. Scola (della) Ogniben 3,37, 39,181. Seneca 328. Seneca Tommaso 356, 357. Senofonte88,89,352,356,361,376. Serego Cortesia 1. Servio 171, 326, 374. Settimio Lucio 85. Sforza Francesco 502, 341, 344, 358. » Galeazzo Maria 341. » Tristano 340, 344. Siena (da) Bernardino 109, 134, 132, 338. Sigismondo imperatore 80, 222, 247. Silio Italico 85. Silvia 318. Simone 313. Spezia Federico 194. Spilimbergo (da) Giovanni 147, 237. Spolverini x 15. Stella Giovanni 181. Strabone 372, 373, 374, 377. Strozzi Lorenzo 213. » Niccolò 213, 321, 380. » Palla 33, 40, 49, 87, 170, 256. » Roberto 213. » Tito 213, 321, 322, 323. Svetonio 195. T Tecla 318. Tedeschi Lelio 194. » Stefano 194, 205, 214. Tegliacci Gabriele 300. » Giovanni 132, 156, 192, 278. Terenzio 326, 331, 333. Tertulliano 85. Timoteo (frate) 109, 361, 362, 363. Tommasi Pietro 154, 158, 161, 576. Torre (della) Giacomo 294. Tortelli Giovanni 373, 375. Toscanella Giovanni 33, 185, 218. Traversari Ambrogio 33, 49, 73, 87, 88, 89, no, 167, 170, 180, 254, 257, 291. Trebisonda (da) Giorgio 57, 158, 159, 160, 161, 287, 288, 289, 290. Trevisan Zaccaria 28, 30, 70. Tribraco Gaspare 14. Trogo 88. Tucidide 88. Tussignano (da) Giovanni 221. U Ubaldini Ottaviano 359. GIORNALE LIGUSTICO 441 Valerio Fiacco 85. Valla Lorenzo 215, 243, 244, 248, 249, 329, 364, 367, 368, 369, 376. Varano (da) Costanza 358. » Rodolfo 336, 358. Vegezio 84. Vegio Maffeo 243, 297. Vergerlo Pier Paolo 3, 62, 66, 72, 78, 80. Vergilio 14, 205, 326. Verità (famiglia) 96, 97, 150. Verità Antonio 206. » Giacomo 103. 'Verme (dal) (famiglia) 240. Verme (dal) Gregorio 12. Vettori Daniele 56, 144. Visconti Bernabò 302. » Bianca 302, 358. « Filippo Maria 138, 139, 153. 180, 181, 247, 259, 302, 358. » Giangaleazzo 7, 18, 20, 302. » Giovanni 302. Vitez Giovanni 311. Vitruvio 85. Zabarella Francesco 30, 31, 37, 58, 72, 78, 80, 81. Zamoeccari Cambio 181, 183, 250. Zancari Alberto 184, 192, 198. Zane Marco 555. » Paolo 3, 22, 25, 51. Zen Carlo 69, 77. Zendrata Battista 98, 104, 115, 121, 124, 125, 127, 204, 206, 238, 303. » Lodovico 284, 303. » Niccolò 93. » Taddea 93. Zendrata (suocera di Guarino) 130. Zilioli Bonaventura 133, 197, 200. » Caterina (moglie di Ziliolo) 214. » Ferrara 201. » Giacomo 67, 133, 140, 141, 171, (72, 179, 195, 197, 198, 200, 210, 211, 219, 220. » Paolo 133, 179, 200, 201, 202, 210, 211. » Teodora 210, 288. » Ziliolo 197, 210, 211, 214, 219, 220, 254, 255. LA SUPPELLETTILE SACRA NELLE CHIESE MINORI (Continuaz. e fine ved. pag. 580) Vi. Alle depredazioni ufficiali della fine del secolo scorso si aggiunsero nel nostro le trasmigrazioni forzate delle migliori' opere d’ arte destinate ad arricchire il Museo Napoleone in Parigi, e le due soppressioni delle corporazioni religiose, 442 GIORNALE LIGUSTICO col conseguente incameramento dei loro beni, effettuate la prima dal governo napoleonico nel 1810, e la seconda ai nostri tempi; soppressioni che diedero inoltre luogo, tanto Γ una quanto P altra, ad una preventiva eliminazione di moltissimi oggetti preziosi per opera diretta o indiretta dei membri delle corporazioni stesse, nell’intento di sottrarli alla presa di possesso governativa (1). Arrogi che nelle vendite che di mano in mano si vennero fin qui effettuando dei conventi e delle chiese soppresse, 1’Economato dei Benefizi trascurò troppo spesso di salvare gli oggetti interessanti 1 arte e la storia, molti dei quali andarono miseramente a sciupo per P ignoranza o la cupidigia di barbari acquisitori. Dopo tante vicissitudini e in seguito ai tanti sperperi che ne furono la conseguenza, è gran ventura se non sia andato (1) Moltissimi, per non dir quasi tutti, i cimelii eliminati con questo pretesto di carità pelosa andarono, manco a dirlo, irreparabilmente perduti. Cito fra i mille il seguente fatto che desumo da una notizia dell’ illustre mio amico cav. Michele Caffi, e che può dar la misura di quanto avvenne ovunque. Le monache di Santa Chiara in Aquila possedevano un preziosissimo trittico di Nicolò d’Alunno da Foligno (1450), maestro dell’ingegno e del Pinturicchio. Nella circostanza della soppressione del 1861, il vescovo mons. Filippi lo ritirò presso di sè affinchè non venisse sottratto; e lo ritenne, non senza disporre tuttavia che, lui morto, venisse restituito a chi di ragione. Invece, il quadro, non si sa come , passò alle mani di due canonici fratelli, e da questi a quelle d’un ebreo di Roma, il quale ne pattuiva il prezzo in lire seimila , non pagate, e lo rivendeva in Roma pel doppio. Ogni traccia dell’affare pareva perduta; quando si seppe che il quadro trovavasi a Londra, dove veniva valutato dalle sessanta alle ottanta _ mila lire. Si aperse contro i due canonici e l’ebreo un processo, di cui ignoro l’esito: ma il quadro era ormai fuori del raggio d’azione dei nostri tribunali. giornale ligustico 443 perduto quanto di più prezioso e di più interessante eravi nel patrimonio delle chiese. Invece ciò che ne rimane, se è poco rispetto a quanto vi fu in altri tempi, può a rigore ancor dirsi molto se si tien conto delle circostanze che cospirarono ai danni dei Tesori. Le masserie, le opere, o fabbricerie che dir si vogliano, delle singole chiese sono tuttora depositarie di un patrimonio mobiliare che, a prescindere anche dal valore materiale, ha una importanza artistica, storica e archeologica di primo ordine. In pari tempo è d’uopo convenire che se la miniera è ricchissima, è, per contro, ben poco esplorata. Ove si eccettuino le chiese maggiori, i cui Tesori sono relativamente noti agli intelligenti d’ arte e anche al pubblico colto, sebbene non tutti nè in tutte le loro dovizie, la suppellettile delle altre rimane tuttavia poco meno che ignorata. Mentre i monumenti di pittura e di scultura che fanno bella mostra di sè sugli altari o lungo le pareti delle chiese, sono più o meno apprezzati dal pubblico, di cui attraggono Γ attenzione, la suppellettile sacra custodita sotto chiave negli armadii delle sagrestie, e solo in parte esposta in certe solennità agli sguardi dei devoti, resta negletta da molti, sconosciuta ai più. Qualche cosa di simile si riscontra, del resto, anche nei musei di antichità del regno per quanto risguarda le collezioni numismatiche. Il visitatore che ha percorso di mano in mano le sale del museo, ammirandone i monumenti, disposti secondo criterii non sempre uniformi ma quasi sempre esposti sotto il miglior punto di vista per essere apprezzati, arriva finalmente al medagliere, dove, quando pur non gli sia precluso Γ accesso dall’ assenza del custode, dovrà contentarsi di contemplare gli armadii nelle cui cassette stanno riposte le monete. A qualunque osservazione gli venga rivolta, il cu- 444 GIORNALE LIGUSTICO stode risponde che le chiavi degli armadii sono in mano del Conservatore, il quale, a sua volta, non è cosi facilmente accessibile. Anni addietro trovandomi di passaggio in una città del regno che non è ora il caso di nominare, dopo aver visitato le altre collezioni del museo, mi venne voglia di dare uno sguardo anche al gabinetto di numismatica, dove, infatti, m; occorreva di prendere alcuni appunti sopra un medaglione di Settimio Severo. Vi trovai un vecchio custode, al quale dovetti fare un’impressione ben curiosa, visto che io era appunto il primo visitatore che si fosse avventurato colà nei tre anni da che egli vi prestava servizio. Gli altri custodi, mi diceva costui con amarezza, sono tutti assai più fortunati di me. Essi veggono ogni giorno dei forestieri, e trovano cosi materia di distrazione, e anche occasione di scambiar qualche parola. Ma nessuno si attenta di arrivar fin qui. Lo stesso Ministro dell’istruzione Pubblica che fu un giorno a visitare la biblioteca, la pinacoteca e il museo di antichità, quando giunse al gabinetto di numismatica si contentò di affacciarsi alla porta, poi tirò oltre con tutto il suo seguito. D’altra parte, che cosa sarebbero andati a vedervi i visitatori? Tutti gli armadii sono chiusi e le chiavi le aveva con sè il Conservatore, il quale quando io fui colà trovavasi in campagna, dove, a quanto mi disse il custode, si tratteneva una buona parte dell’ anno. Vero è bensì che da quell’ epoca in poi le cose migliorarono e di molto: e sonvi oggi dei Conservatori di gabinetti numismatici — nel novero dei quali dovrà a buon dritto citarsi il eh. dott. Solone Ambrosoli del R. Gabinetto di Brera in Milano — che si pongono di buon grado a disposizione degli studiosi e ne soddisfano ogni inchiesta colla più squisita amabilità. GIORNALE LIGUSTICO 445 Contuttociò non pochi medaglieri in Italia sono tuttora inesplorabili : ed è il caso di domandare a che cosa servano queste collezioni numismatiche che si tengono sepolte entro le viscere di grossi armadii senza alcun prò’ per gli studiosi. Dove è a notarsi che tutto questo rigore, tutte queste misure di stile orientale non hanno mai impedito che nella maggior parte dei medaglieri si perpetrassero furti e fraudolenti sostituzioni. Si mettano pertanto in mostra, ordinati in serie e con opportune indicazioni, anche i tesori numismatici: e ne trarranno finalmente profitto e incremento non pur gli studi speciali ma la coltura generale. . Faccio certamente la dovuta parte alle difficoltà inerenti alle cautele di sicurezza che esigono la preziosità della materia e l’esiguità della mole: ma se si espongono nei musei gli ori, gli argenti e le gemme incise, non si vede il perchè debbano tenersi sepolte le collezioni numismatiche. Volendo abbondare in precauzioni, si potrebbe anche adottare il sistema praticato in qualche museo estero, di esporre, nel caso di esemplari unici o molto rari, dei fac-simili perfettissimi eseguiti in galvanoplastica, invece degli originali. Quanto al-Γ ambiente, è questione di sale e di vetrine guardate da un personale sufficiente: ma non deve esser questo un ostacolo insormontabile da impedire Γ esposizione di tale importantissima classe monumentale. Chieggo venia al lettore della lunga intramessa, e torno all’ argomento, deplorando che per le cause dianzi accennate e per altre che troppo lungo sarebbe qui esporre , la cognizione dei cimelii spettanti alla suppellettile sacra sia così circoscritta. Quanto gioverebbe àll’ incremento della storia dell’ arte e della cultura pubblica che in ogni provincia d’Italia si dasse opera a studiare e ad illustrare con opportune pubblicazioni, 446 GIORNALE LIGUSTICO in analogia a quanto si fa in Francia, in Germania e altrove, i Tesori delle singole chiese ! È questo un campo quasi vergine che la gioventù studiosa potrebbe coltivare con onore e profitto. Sarebbe intanto un primo passo su questa via il promuovere la sistemazione, l’ordinamento e la permanente esposizione al pubblico dei Tesori delle nostre chiese maggiori; alcuni dei quali oppongono tali ostacoli alla visita della loro suppellettile che maggiori non ebbe a superarne Giasone per trovarsi dinanzi al vello d’ oro. Chi pensi come il Tesoro di S. Lorenzo di Genova, per esempio, appartenga a tre enti diversi, che sono il Municipio, il Capitolo di S. Lorenzo e la Fabbriceria di S. Gio*. vanni Battista; ognuno dei quali tiene presso di sè la chiave dei propri oggetti; punto non stupirà se il visitatore, giunto sulla soglia del Tesoro, dinanzi alla quale, come sulla porta dell’ inferno, Cerbero, il gran vermo, Con tre gole canutamente latra, si spaventi delle pratiche a compiersi presso ciascuna delle tre autorità per ottenerne l’accesso, e preferisca di rinunziare alla visita (i). (i) Preoccupato di queste difficoltà e nell’intento di creare un cespite permanente di introito col quale provvedere di mano in mano ai restauri delia metropolitana genovese, un cittadino zelantissimo del patrio decoro e già benemerito per molti rispetti dell’arte e della storia patria, il eli. prof. Tammar Luxoro, proponeva testé di dar opera alla sistemazione ed all’ordinamento del Tesoro di S. Lorenzo nelle tre loggie sovrastanti alle porte d’ingresso sulla fronte del tempio; dove il Tesoro sarebbe ostensibile al pubblico nostro e forestiero mediante il pagamento di una tassa d’ entrata, come è d’ uso in tante cattedrali estere, e il cui annuo provento , previo il rimborso delle spese d’impianto e di manutenzione, si potrebbe erogare al progressivo restauro del tempio. GIORNALE LIGUSTICO 447 Ne sono soltanto le chiese maggiori e quelle di 2° ordine che possono vantare un materiale artistico e archeologico degno di essere ammirato e studiato. Anche le chiese minori, non escluse quelle di campagna, posseggono ordinariamente nella loro suppellettile dei cimelii interessanti la storia e 1’ arte. Non è già che non abbiansi a deplorare anche in queste e dispersioni e alienazioni di oggetti. Avidi speculatori non mancarono di braccheggiare ovunque nelle campagne e di scovare quanto di più interessante celatasi nella suppellettile sacra delle chiese rurali. Masserie , fabbricerie, confraternite e parroci di campagna alienarono a prezzi inferiori molte insigi# opere d’arte di cui non apprezzavano Γ importanza, per procurarsi i mezzi di riparare o abbellire le loro chiese, se non forse talvolta per fini meno legittimi : e il danno fu tanto maggiore quanto più crassa era l’ignoranza dei possessori e più fina la furberia degli acquisitori. Si demolirono antichi altari e si scomposero ancone in ceramica vendendole pezzo a pezzo. Si staccarono dalle pareti preziosi frammenti di sculture, venerandi trittici a fondo d’oro e tavole di maestri dei secoli XIV e XV, sostituendole con tele moderne e chi lo crederebbe? perfino con delle oleografie. Broccati, damaschi, velluti e altri tessuti antichi, merletti e pizzi di gran pregio, vennero cambiati con stoffe odierne a stampo e trine lavorate a macchina. Lavori di cesello e ageminature medio-evali e del Rinascimento si barattarono con argenterie dozzinali e con prodotti galvanoplastici. Contuttociò, nei campi stessi ove fu mietuta la messe v’ è ancora molto da spigolare per gli studiosi che si travagliano intorno alla ricerca di oggetti d’ arte e d antichità inediti o poco noti. Costoro faranno bene a non trascurare nelle loro indagini le chiese e gli oratorii dei piccoli comuni e delle campagne. Non v’ ha chiesa cosi lontana dall abitato , così 44§ GIORNALE LIGUSTICO elevata sul livello del mare o talmente nascosta fra le gole delPAppennino che non serbi qualche grata sorpresa all’ artista o all’ archeologo. Quante grate emozioni potrà 1’ escursionista provare, quale copia di dati interessanti raccogliere e consegnare nel suo taccuino, soltanto a visitare le chiese minori sparse qua e là lungo il cammino da lui percorso! Mi ricordo a questo proposito di una escursione, a cui presi parte molti anni fa, alle rovine di Velleia, la misteriosa Pompei dell’ Italia Superiore. Partiti da Parma in diversi amici, il programma portava di non distrarsi per via, ma di tirar dritti fino alla meta, anche per giungervi, per quanto possibile, scevri da altre impressioni. Viceversa poi, delle infrazioni al programma ve ne furono, e parecchie: avendo trovato qua e là, lungo la via, ma più specialmente in parecchie chiese, argomento e occasione di geniali e utili distrazioni. Giunti di buon mattino colla ferrovia a Fiorenzuola, prima di internarci nella vallata dell’Arda, cedemmo alla tentazioue di dare uno sguardo anche alla chiesa collegiata, semplice e bella costruzione di architettura ogivale. Ammessi, per cortesia di quell’ arciprete , nell’ archivio capitolare, ebbi quivi anzitutto una ben grata sorpresa: quella, cioè, di trovarvi fra altre pergamene di pregio storico un cimelio, per me ligure, di peculiare interesse; dico un codice membranaceo del secolo XV contenente un’ opera inedita del Beato Fra Iacopo da Varagine, arcivescovo di Genova, il simpatico autore della Leggenda aurea; codice fregiato, per di più, di leggiadrissime miniature di mano di suor Laura de Bossi di Pavia , il cui nome non figura finora nel catalogo degli artisti pavesi nè altrove (i). (i) 11 codice in foglio grande consta di 55 carte ed è legato da due tavole coperte di pelle e fermate con due borchie di ottone. Il testo giornale ligustico 449 D> li, poiché la vicinanza ce ne porgeva invito, non potevamo certamente dispensarci da una visita all’ abbazia di Chiaravalle della Colomba, uno dei più ragguardevoli monumenti dell’arte dei secoli XII e XIII, di cui ho tuttora dinanzi agli occhi l’elegante facciata, l’affresco e il sepolcro del Paradiso, o atrio, il maestoso interno e più particolarmente il chiostro, dove 1’ armonia delle linee e il giuoco dei chiai oscuri infondono nell’anima del visitatore un senso che non è tanto di tristezza quanto di pace ineffabile. Ripresa finalmente la via per Velleia, rimontando il corso dell Arda, ci trovammo ben presto a Castellarquato, centro di nuove e più svariate seduzioni. Nulla di più pittoresco di questo paese aggavignato sul dorso di un colle ai cui piedi serpeggia l’Arda, e d’ onde si gode la vista d’ uno stupendo paesaggio. Una rocca, imponente costruzione dei tempi feudali che incorona la vetta del poggio a picco sul torrente, colle sue mura rossastre in rovina, coi suoi quattro torrioni merlati agli angoli, dà all’ insieme del gruppo un carattere medioevale che i particolari punto non smentiscono. consta di tre parti; la i.* delle quali comprende l’ufficiatura in musica di S. Fiorenzo ; la 2.* contieue la leggenda della vita e dei miracoli del Santo, compilata nel 1288 da Fra Iacopo da Varagine, ad istanza di Bonifacio Ardenghi arciprete di Fiorenzuola; la 3.“ finalmente espone la storia della traslazione delle ossa del Santo stesso da Orange a Fiorenzuola, scritta parimenti dal B. Iacopo e del pari inedita. Il codice porta la data dei 30 di aprile 1485 e fu scriptus, notatus et miniatus a calamo, come dice la rubrica in coda al testo, di mano della prefata suor Laura de’ Bossi monaca del monastero di S. Maria di Gio-safat, detto il Nuovo, di Pavia. Disgraziatamente, delle magnifiche miniature ond’era ricco, la massima parte venne amputata da barbarica mano; non però modernamente, chè già nel 1750 il Poggiali ne deplorava la perdita. Giorn. Ligustico.Anno XVIII. 29 450 GIORNALE LIGUSTICO Il palazzo del Comune è un tarchiato edificio del Trecento con decorazioni eleganti in terracotta ai finestroni ogivali e alle porte : ha una scalinata all’ esterno che ricorda il cortile del palazzo del Bargello a Firenze; e le sue mura a mattoni, su cui, come su quasi tutte le altre costruzioni del paese, la mano dei secoli ha disteso, con diverse gradazioni di colore, una patina inimitabile, sono qua e là chiazzate di vecchie lapidi, preziosi documenti di storia locale. Ecco il duomo, un bel campione di architettura lombarda del secolo XII: la sua fronte vergine d' ogni restauro innamora colla purezza e semplicità delle linee; mentre il fianco adorno di un porticato, cosi per le linee architettoniche come pei motivi ornamentali e per le tinte del laterizio, armonizza mirabilmente col palazzo comunale che gli sta di contro. Annesso è il chiostro della stessa epoca e stile, con tuttintorno un loggiato a due ordini sorretto da colonne, in una delle quali campeggia lo stemma del comune coi castello donde trae il nome, altrove il monogramma del nome di Gesù, il cui uso come decorazione architettonica potrebbe qui apparire per avventura più antico dei tempi di S. Bernardino da Siena a cui generalmente lo si riferisce. La comitiva, ognuno seguendo i suoi gusti e le sue inclinazioni, si era sparsa qua e là, chi attratto da una collezione particolare di conchiglie e di ossami fossili di cui è ricco l’agro circostante, chi dal contenuto di alcune tombe della prima età del ferro da poco esumate nei dintorni, punte di freccia in selce, vasi fìttili, fibule, pendagli a forma di secchiello e altri bronzi del tipo di Marzabotto: altri era andato ad ammirare il mausoleo di Sforza Sforza, conte di Santa Fiora (+1575) nella chiesa dell’ex convento dei Riformati; altri finalmente eransi avviati pel monte Giogo a visitare i terreni conchigliferi di Diolo. Per conto mio, fu anche qui sopratutto nella sagrestia e GIORNALE LIGUSTICO 451 neU archivio del duomo che trovai materia di appunti artistici e archeologici. L’archivio che si apre sul loggiato del chiostro è una ricca minieia di svariati cimelii da fare invidia a più d’ un museo. Mi mancò il tempo di esaminare le bolle pontificie i cui piombi tondi pendevano allineati lungo le sponde d’ un tavolo, come poco saprei dire delle pergamene, dai sigilli ovali in ceia, dei vescovi di Cremona, e di altri documenti antichi disposti sugli scaffali d’ un armadio fiancheggiato da ritratti di peisonaggi locali: ma ben ricordo il vivo sentimento di curiosità e di piacere che destò in me la vista del cappino , o mozzetta, e del zucchetto in velluto cremisi, di papa Paolo III, Farnese, lasciati al Capitolo dal pontefice stesso a memoria di sua visita quando fu, del 1543, in Castellarquato a trovarvi la figlia Costanza sposa al conte Sforza di Santa Fiora (1). Un altro oggetto mi interessò vivamente e fu un ricco piviale a tessuto d’ oro istoriato di figure a ricamo in diversi colori, prezioso lavoro riferibile, così per la tecnica come per lo stile, al secolo XV, per quanto le tradizioni del paese gli assegnino una data assai anteriore. Ma ciò che più mi colpì e che ritengo un cimelio di eccezionale importanza, è un pallio dell’ epoca bizantina insignito di due rappresentazioni lavorate a trapunto e raffiguranti la comunione sotto le due specie del pane e del vino; un vero gioiello per la storia dell’arte cristiana, provenuto all’opera del duomo per dono (1) Il duomo di Mondovì conserva i paramenti pontificali, compresi il cappello cardinalizio, il rituale e il messale miniato, di papa Pio V, Ghislieri, che fu vescovo di Mondovì dal 1559 al 1566. In generale si può affermare che gli oggetti appartenenti a personaggi storici e interessanti il costume abbondano nelle nostre chiese minori. 452 GIORNALE LIGUSTICO di un Ottaviano patriarca di Aquileia morto in Castellarquato nel 1316 (1). Fra le rarità che attrassero la mia attenzione in sagrestia citerò un prezioso trittico del Trecento, un grande armadio ricco di intagli a rilievo, del secolo successivo, e più special-mente una croce di argento dorato con smalti, di egregio lavoro, cui una iscrizione incisa attorno alla base dichiara opera di Bartolomeo Cobi de Zuchonobis, bergamasco, sotto la data del 1544. E non tacerò finalmente di una curiosità del vestibolo, ossia di un crocifisso in legno, di scuola antica, con sotto una bizzarra epigrafe scritta su tre linee in modo che combinando rispettivamente le parole, apparentemente vuote di senso, della i.a e della 3.a colle corrispondenti della 2.a, ne risultano due esametri latini rimati (2). (1) Senza nulla voler detrarre al credito di cui meritamente godono alcuni ben noti cimelii che si conservano nei tesori delle cattedrali di Bamberg, di Aix-la-Chapelle, di Halbertstadt, di Sens, dell’abbazia delle Benedettine a Eichstadt, della chiesa di S. Eusebio di Auxerre, etc. etc., credo tuttavia che nelle sagristie delle nostre chiese non manchino dei campioni di stoffe antiche da stare a petto ai più celebrati fra gli esteri. (2) La riporto a titolo di curiosità, quale la trovo ricopiata sul mio taccuino : Ον AN DÌ TRI FERI PERE OS GVIS RVS STI TATE MIT H SAN MI CHRI PIE REDE Essa fa il paio con quest’ altra che leggesi a Somasca, terra del Bergamasco : αν AN TR DI MVL PA OS GVIS ISTI RA CEDINE VIT H SAN CHR MI DVL LA Nella stessa Castellarquato, sotto un’ imagine a fresco della Madonna lungo la via principale, un seicentista ha scritto HIC MANEAT DONEC FLVCTVS FORMICA MARINOS EBIBAT ET TOTVM TESTVDO PERAMBVLET ORBEM GIORNALE LIGUSTICO 453 Potrei proseguire, consultando gli appunti presi durante la successiva fermata a Lugagnano, dove il prof. d. Gaetano Chierici, di illustre memoria, ed io, arrampicatici a stento riuscimmo per prima cosa a trascrivere una epigrafe latina incisa ad emiciclo su di una lunetta marmorea sovrastante alla porta minore della parrocchiale, nella quale è detto che la chiesa venne principiata e finita da un mastro Oberto Feriendi nel 1219, al tempo del rev. Costantino sacerdote e signore di essa chiesa (1). Ma a che prò’ uscire dal quadro impostomi dal tema e dall’economia della presente memoria? Mi premeva soltanto di dimostrare con un esempio, raccolto a caso fra le mie reminiscenze, quante notizie d’ arte e di archeologia si possano qua e là racimolare in poco spazio di tempo, percorrendo vie meno battute e visitando chiese poco frequentate dai tourists. Ma quante cose non vanno scomparendo anche dalle chiese minori, e quanti tentativi non si fanno ogni giorno per detrarre qualche oggetto dalla loro suppellettile che è pur parte integrale del patrimonio artistico e archeologico della nazione ! Ho io bisogno di qui ricordare come si tentasse, or non è molto, di esportare clandestinamente da Cori il monumentale candelabro del cereo pasquale, opera preziosa dell’alto medio evo? come si cercasse di far emigrare d’ Italia 1’ Evangeliario di Rossano, codice greco miniato del V secolo in pergamena purpurea a lettere unciali d’argento e d’oro? È, anzi, nelle chiese minori che si perpetrano oggi più facilmente le alienazioni di oggetti d’arte , perchè appunto il (1) Solo più tardi seppi che l’iscrizione era già stata decifrata dal rev. Nicolli canonico di Fiorenzuola (Cortesi, Saggi geologici degli Stati di Parma e Piacenza, Piacenza, 1819, tav. Ili, fig. 2). 454 GIORNALE LIGUSTICO contenuto delle loro sacrestie è meno conosciuto, e quindi le esportazioni riescono meno avvertite. Le piccole chiese di campagna, specialmente, danno via per pochi soldi degli oggetti di cui non apprezzano l’importanza perchè di metalli ignobili o di meschina apparenza. Nel 1881 mi venne veduto nelle mani di un negoziante di anticaglie di Firenze, che ne avea fatto acquisto da una chiesuola rurale dell’ Italia Superiore, un interessantissimo cimelio della primitiva arte cristiana, intorno al quale posso somministrare i seguenti appunti che ebbi cura di segnare affinchè non ne andasse perduta anche la memoria. Pelvi o bacino tondo di rame, del diametro di m. 0, 36 e di una convessità di 0,08, con ombelico al centro del diametro di 0, 14; tutto istoriato a graffito di figure rappresentanti la vita e il martirio di S. Tomaso apostolo, secondo una leggenda dell’ alto medio evo desunta da atti apocrifi. Le scene effigiate nel concavo del catino sono, da sinistra a destra: i.° l’apostolo che catechizza una donna (1); 2.0 il battesimo di quattro giovinetti (2); 3.“ la guarigione di un ra- (1) Un edifìcio sormontato da cupola, alla cui sinistra ergesi una aguglia conica portante in cima una sfera; al di sopra, tanto della cupola quanto dell’aguglia, splende un astro, a significare che l’azione succede di notte. A sinistra della rappresentazione sporge 1’ abside del— l’edificio, la cui parte inferiore è a mattoni 0 lastre rettangolari, mentre la superiore presenta tre ordini di arcate. A destra è un portone aperto, di cui appare il battente sinistro colle mappe dei cardini e a metà altezza il catenaccio. 11 Santo, nimbato, imberbe, vestito di lunga tunica e pallio, la destra sollevata coll’indice e il medio ritti, è in atto di catechizzare una donna in tunica manicata col pallio e avvolta il capo d’ un velo, la quale ne implora devotamente la benedizione. (2) Una vasca battesimale circolare, a due ordini di arcate, entro la quale stanno immersi fino al busto quattro giovinetti nudi. A sinistra della vasca è il Santo in atto di battezzare due di questi giovinetti ; mentre gli altri due, già battezzati, stanno per dirigersi verso il lato op- giornale ligustico 455 gazzo (i); 3.0 Γevangelizzazione degli Indi (2); 5.° la cattura e la traduzione del Santo dinanzi al Re (3); 6.° la sua decapitazione (4). Al di sopra di queste rappresentazioni , ossia presso il labbro , graffito a meandro di tralci di vite , corre la seguente iscrizione : -+- fvlget apostolica hec pelvis copta trivphis ADTESTANS THOMÂ FIDEI MERVISSE CORONAM COLLVM PRO DNQ * FLECTENTEM SANGVINE FVSO. posto, dove un personaggio imberbe, vestito di lunga tunica riccamente ricamata e pallio, tiene spiegata con ambe le mani una sindone per asciugarli. (1) Lo stesso edificio di cui nella prima scena. Un personaggio barbato, in tunica succinta, presenta e raccomanda un ragazzo al Santo, il quale lo prende sotto la sua protezione accarezzandolo affettuosamente. (2) Il Santo è seduto sull’ abaco di un capitello sormontante un fusto di colonna con base, in atto di benedire. Alla sua destra sono una donna velata e vestita di tunica ricamata con pallio, ed un uomo imberbe, succinto, ambedue in atto di implorarne la benedizione; a sinistra una donna vestita come l’altra, a cui tien dietro un guerriero senz’ elmo in capo ma catafratto nel rimanente del corpo, ossia vestito di una armatura a squamme, senza altro indumento su di essa che una specie di grembiale. Questo guerriero impugna colla sinistra un’ asta pura. (3) Lo stesso edificio della 1.“ e 3-a scena. Il Re, imberbe, vestito di lunga e ricca tunica con sovrapposto pallio, è seduto di fronte su trono a spalliera, tenendo la sinistra appoggiata alla coscia, e nella destra lo scettro sormontato da un’aquila. Alla sua destra è il carnefice, in tunica corta e lungo pallio che dalle spalle scende insino a terra; ha stivaletti ai piedi, e impugna colla destra una larga spada, alzando 1 altra mano come per chiedere ordini. Dalla parte opposta si avanza un personaggio parimenti in corta tunica e stivaletti, il quale conduce dinanzi al Re il Santo, legato le mani con una catena di cui il manigoldo tiene un capo. (4) Il Santo è inginocchiato; il carnefice gli ha reciso il capo, cui tiene abbrancato pei capelli colla sinistra, mentre 1’ altra mano impugna ancora la spada. In alto, al di sopra del Santo, vedesi un arcobaleno con quattro stelle, donde esce un braccio per raccogliere Γ estremo respiro del martire, uscente dalla bocca di lui in forma di nuvoletta. 45 6 GIORNALE LIGUSTICO Al centro del bacino, ossia sull’onfalo è rappresentata la scena, molto obliterata, della deposizione del corpo del Santo (i). Non potrei escludere in modo assoluto che Γ esemplare da me descritto possa essere per avventura la riproduzione d’un originale alquanto più antico ; ma è certo che la tecnica del-1’oggetto, la grafia della leggenda, i motivi architettonici e ornamentali, il costume e tutti i particolari stilistici della rappresentazione riportano il cimelio al secolo VII o al- r vin (2). È sopratutto in questa classe di utensili, lavorati in metalli meno nobili e disusati oggidì nelle cerimonie del culto, che si trovano, relegati fra i ferravecchi delle sagrestie, degli esemplari di peculiare interesse per la storia dell’ arte : e non (1) Vi si scorge, sopra un alto e ricco letto, steso da sinistra a destra il corpo del Santo. Ai suoi piedi sono tre figure in atto di piangerlo, una delle quali agita il turibolo sul cadavere, mentre sulla loro sinistra volita lo Spirito Santo sotto forma di colomba. Della epigrafe che accompagnava questa rappresentazione ho potuto ricavare a stento questi frammenti + c7 FLETV PLEBIS NOCTE ////// CARE /// DOLENTIS ///// RVS TRIV /// CV DVCITVR AD TVMVLV. (2) Il compianto p. L. Bruzza che più tardi ebbe fra le mani questo o altro più obliterato esemplare, e ne tenne sommario discorso alla Società dei cultori della cristiana archeologia in Roma (marzo 1883), mentre riconosce anch’ egli che « la forma degli edilìzi rappresentati nel Graffito, le vesti e tutti i particolari dello stile hanno somiglianza coi tipi dei secoli VII e Vili », opina che Γ esemplare, oggetto della sua conferenza , sia piuttosto copia d’ un antico originale. Dato anche che ciò fosse , ben poco si detrarrebbe all’ importanza eccezionale di questo cimelio. Due bacini di soggetto e di arte affini a quello in discorso si trovarono, non è molto, in Betlemme, e ne ha dato notizia all’istituto di Francia il signor Clertnont Ganneau, che li attribuisce al secolo XII (v. Gaiette Archéol. 1884, p. 141. Bulliit di archeol. crisi, serie IV, anno II, p. 106). giornale ligustico 457 solo dell arte nostrana, ma anche della forestiera, essendomi occorso più volte di riscontrare non senza qualche sorpresa nella suppellettile sacra delle nostre chiese minori, provenutivi chi sa come e quando, perfino dei prodotti di antiche fabbriche arabe e persiane — ciotole, bacini e simili — decorati a cesello di superbi rabeschi alternati a versetti del Corano. Per finirla cogli esempi, ho visto ultimamente fra gli arnesi tuori d’ uso nella sagrestia della parrocchiale di Albisola Superiore, due curiosi piatti d’ottone, di lavoro tedesco. Il primo offre la rappresentazione in rilievo, a cesello, di Adamo ed Èva ignudi sotto P albero, intorno al fusto del quale sta aggavignato il serpente e dai cui rami hanno spiccato ambedue un pomo. Oltre all’ albero della scienza del bene e del male, ve ne sono degli altri, ad esprimere l’Eden; più in la vedesi un castello baronale colle torricelle agli angoli. Le figure sono rozze e arieggiano il fare secco della scuola di Luca Cranach. L’orlo del piatto è fregiato di foglie a cavo; e in giro alla rappresentazione corre la seguente iscrizione paleotedesca, in rilievo, ripetuta quattro volte e coll’interpunzione a puntini e a crocette variamente disposte : WART · GELVB · AL · ZE · EM · che si può tradurre « Expecta (et) fide prorsus in eum. » Il secondo mostra nel centro, parimenti a rilievo, un Angelo in lunga veste, stante, di fronte, in atto di sorreggere in ciascuna mano uno scudo privo di stemma. Il labbro è decorato di gigli a cavo, e intorno all’ Angelo è ripetuta quattro volte l’infrascritta leggenda a rilievo, circondata a sua volta da un meandro a cavo : WISHNBI · RAME 458 GIORNALE LIGUSTICO leggenda di colore oscuro circa alla quale non saprei che dire (i). E qui porrò termine a questa ormai troppo prolissa dissertazione, colla quale ho mirato, anzitutto, a richiamare P attenzione del pubblico colto sopra una categoria importantissima , e pur fin qui negletta, di monumenti, quale è quella costituita dalla suppellettile sacra delle chiese minori. Non mi dissimulo certamente che, raggiunto anche , per quanto è possibile, lo scopo che mi sono prefisso, non verranno perciò ad eliminarsi gli inconvenienti da me deplorati: il che non si otterrà finché per mezzo di una legge da lungo tempo invocata non si provveda con maggiore efficacia alla tutela ed alla conservazione dei monumenti e dei cimelii patrii, e in particolare alla integrità di quelli di cui sono depositarie le amministrazioni delle chiese, e finché non ven-aano regolate, in base a criterii inspirati al concetto che lo Stato è il tutore legittimo degli interessi dell arte e, in generale della civiltà e della cultura nazionale , P alienazione e P esportazione degli oggetti artistici e archeologici. In attesa degli implorati provvedimenti e a renderne possibile la retta applicazione, sarebbe intanto di tutta urgenza che per cura degli Ispettori circondariali dei monumenti e sotto la direzione dei Commissari regionali si procedesse alla compilazione di esatti e circostanziati inventari di tutto il materiale che costituisce la suppellettile sacra, ossia il patrimonio mobile delle singole chiese in ogni Circondario, e che (i) L'illustre Cari Pauli, a cui ne scrissi e che ne tenne parola con diversi germanisti, pensa che la prima parte possa essere una contrazione di più parole che si lascierebbe forse sconnettere in Wis h(i)n bi . rame ma anche con ciò non si riesce ad una plausibile spiegazione. giornale ligustico 459 tali inventari, illustrati da opportune fototipie dei cimelii più preziosi e più interessanti, venissero resi di pubblica ragione, per fissare così una buona volta la proprietà delle singole chiese e metterla al riparo da ogni ulteriore evizione. V. Poggi. DUE DATE , A NOSTRA SIGNORA DELLE VIGNE Insigne Collegiata di Genova e DUE LAPIDI 1 una in S. Lorenzo, V altra già in S. Tommaso Esame critico postumo del sac. Marcello Remondini letto alla Società Ligure di Storia Patria nella tornata del 6 marzo 1885. Ragione della presente Pubblicazione Il compianto D. Marcello Remondini, toltoci a 66 anni il i.° ottobre del 1887, aveva scritto nel 1885 una dissertazione sopra le due nostre venerate imagini di Maria Vergine, cioè N. S. del Soccorso nella Metropolitana, e N. S. delle Vigne nell’omonima insigne Collegiata; imagini quanto care alla pietà de’nostri avi altrettanto coperte d’erroneità relative alla storia, per cui, amatore del vero, come in altri argomenti (1), studiò diradarne le tenebre. Compiuto il lavoro, parve all’autore stesso soverchiamente prolisso, per una lettura da farne in una seduta della Società Ligure di Storia Patria: la volle allora divisa in due, leggendo le sue induzioni relative a N. S. del Soccorso nella tornata del 6 febbraio, pubblicate poi in questo Giornale a pag. 241 dell’annata 1886, e rimettendo ad un mese dopo le altre che riguardavano la imagine di N. S. delle Vigne. Queste potè leggere infatti nella seduta (1) Vedi Antiche Iscrizioni Liguri del sac. M. Remondini, Genova, 1882: — in ispecie per l’epigrafe di Rapallo — per quella di frate Oliverio nel Palazzo delle Compere — per l’altra dei sapienti Pisani, ecc. 460 GIORNALE LIGUSTICO del 6 marzo stesso anno 1885; e perchè allora il trattenimento riusciva breve soverchio, vi uni altri suoi apprezzamenti sulla nota scultura dei Bozolo esistente in S. Lorenzo e sopra una lapide allora scoperta abbattendosi l’antica chiesa di S. Tommaso. Lo scopo suo lo dicemmo, era di appurare il vero; perciò nel testo e in nota si querela che anche ai nostri di si riferisca solo quanto altri scrisse senza cercare di più e se ne dicano delle marchiane; e protesta che ci vuole un po’ di coraggio, e ripetere: ho verificato, non è cosi. Lesse egli adunque» ed espose le ragioni che lo indussero a conclusioni ben diverse dall’opinione antica, nella speranza che l’errore non abbia più luogo; ma fu mera lusinga la sua. Naturalmente, in proporzione della cittadinanza, gli uditori suoi eran pochi; e cosi nessuna meraviglia che un senese fra noi naturalizzato, D. Gaspare Olmi, tornasse nel 1891 a ribadire i confutati errori, come segneremo in aggiunta alla nota citata, anzi sarìa bene scusato se rispondesse: « che poteva io sapere di private osservazioni, di studi, e di dissertazione, non fatti di pubblica ragione? Da qui il bisogno di pubblicare questo Esame critico sull’ antichità del quadro di N. S. delle Vigne, e completare le indagini del compianto autore sopra le due sacre imagini del Soccorso e delle Vigne. Questo speriamo gradiranno i nostri lettori e gli amatori delle cose patrie appoggiantisi al vero, benché con qualche sacrifizio del naturale orgoglio (1). Amicus Caesar, amicus Plato, sed magis amica Veritas Genova, novembre 1891. A. R. (1) I Fieschi ed i loro ammiratori debbonsi persuadere che mons. Giustiniani errò segnando come a’ suoi dì essi già contassero settanta cardinali, mentre 1’ultimo di questi, Adriano, creato nel 1858, era il 13.0 o tutto al più il 14.° — I Rapallesi, devono ammettere che la chiesa loro fu consecrata si, ma in anno incerto, e non da Gelasio II; e che il serraglio infisso in facciata della chiesa loro, non è dell’anno 56 av. Cristo. — I terrieri di Castrofino in Polcevera hanno un marmo posteriore al 1000, e non del 506, come si presume. — Il B. Alessandro Sauli fu inviato giornale ligustico 461 Stimatissimi Soci, Eccomi in questa sera a comunicarvi due rettificazioni di date e parlarvi di due vecchie lapidi, una venuta ora alla luce per la demolizione dell’antica chiesa di S. Tommaso, l’altra già nota dei Bozolo in S. Lorenzo. Prima Rettificazione. Sor. quasi vent’ anni che io, non ancora aggregato al vostro rispettabile consesso, scriveva, e io e mio fratello stampavamo che il quadro esistente sull’architrave della nicchia all’altare di Nostra Signora delle Vigne,in Genova, porta la data dell’anno 1163 (1). Ma il mio scrivere e il nostro stampare di allora non era che l’eco in buona fede di ciò che altri avea scritto e stampato prima di noi: ed era un errore. Dopo vent’anni, ecco che altri imprende a scrivere intorno al medesimo sub-bietto. È questi il nostro compianto socio Antonio Pitto, il cui manoscritto, interrotto dalla morte, venne in luce sarà tra poco un anno, in continuazione della sua Liguria Mariana. Forse che l’errore è corretto? No: è ripetuto. « Picciol quadro » (si legge a pagine 66 di questa sua opera postuma) picciol » quadro rappresentante l’effigie di Maria Santissima col Divin » Pargoletto, con questa epigrafe sopra di Lei: Ego Mater » pulchrae dilectionis, e sul Bambino il motto: Alpha et Omega » e l’anno 1163 ». Vuol dire che quanto accadde a noi, cioè di essere tratti in inganno dalle altrui asserzioni, al signor Pitto accadde pure, e son per dire anche ad altri accadrà finché non sorga una voce che dica: ho verificato, non è così. Ora siccome ho fatto io questa verificazione un dieci anni fa, cosi parmi che quasi mi corra l’obbligo di non più vescovo in Corsica a continuare le benemerenze dei due monsignori Pallavicini, non neghittosi pastori come asseverò il P. Semeria, e prima di lui lo Spotorno che poi si corresse e ne fece elogi. — E così dicasi di tante altre erroneità, che copiansi senza vagliarle. (1) A. e M. Remondini, I santuari e le immagini di Maria SS. nella città di Genova, Genova, Tip. Caorsi, 1865, pag. 23. GIORNALE LIGUSTICO tardare a darne contezza, perchè l’errore non abbia più luogo; e così l’avessi fatto prima d’ora, chè forse una volta di meno sarebbe corso per le stampe (1)! Volgeva l’anno 1874 quand’ io, fatto vostro socio, incaricato da Voi della Raccolta delle iscrizioni medioevali, ed entrato nel proposito di assicurarmi sugli originali, per quanto m’era possibile, intorno alla veracità della lezione fattane in passato, ai 25 novembre per mezzo di una scala mi portai all’altezza di quel quadro, e vidi che esso non aveva data alcuna, e che le riferite sentenze non erano tutte, nè indicate al loro vero posto. Nel 1877, ai 31 di ottobre, ebbi anche modo d’esaminare di nuovo e meglio quell’antico dipinto. Non so per quali lavori all’altare della Madonna, il quadro era stato portato in sacristia. Io lo feci trarre dalla cornice, ne rimossi il cristallo, P ebbi insomma nelle mie mani in condizioni da poterlo con tutto agio contemplare e scrutare per ogni verso. Ebbene in questo quadro non solo non c’è il 1163 nè altra data di sorta, ma presentansi indizi da poter dire che esso non può essere più antico del secolo decimo quarto. Ad altri, che sia versato nella storia dell’ arte pittorica, il giudicarne dallo stile: a me basta l’aver visto la forma dei caratteri in che vanno scritte le diverse leggende. Questa è totalmene semigotica ed anche con qualche fioritura, il che cominciossi ad usare soltanto dopo il 1300. Ma pure altri ve lo lesse il 1163. Che rispondere, o colleghi? Questo « altri » non è, secondo me, che il Giscardi, benemerito della nostra storia ed epigrafia per le sue copiose raccolte, ma che tutti sappiamo contenere non pochi errori. Chi scrisse dopo di lui riprodusse il Giscardi. E poi se al Giscardi l’avesse (1) Il novello periodico intitolato la Liguria Mariana illustrata, supplemento mensile àtW'Ape, nel suo secondo numero di febbraio 1885, a pag. 14, sta in prova dell’asserto; perchè sei giorni prima che noi leggessimo questa memoria, stampava: nell’immagine di Maria collocata sull’alto della cappella di N. S. delle Vigne si legge la data del 1163. Lo stesso ripeteva nel 1891 G. Olmi, a pag. 25 del suo libretto: Il mese di maggio dei Genovesi, Genova, Tipogr. Arcivescovile [A. R.]. GIORNALE LIGUSTICO 463 comunicata un qualche Corradino del suo tempo, il quale dove è sciitto Francisci ha l’abilità di leggere Aranci secchi, che si dovi ebbe dire? Traveggole negli occhi, e qualche volta tra-veggole nel cervello. Sentite come un Corradino del nostro tempo si fa a spiegare queste stesse parole riferite dal Giscardi Alpha et Omega 116j — esse vogliono significare, die’ egli, che il quadro fu cominciato e finito nel 1163 (1). Risum teneatis, amici ! Ora torniamo a noi. No, data non ce n’ è, ed il quadro è un pezzo risecato da una qualche pala o trittico del secolo XIV. E qui, giacché è cosa tanto difficile il poterlo discernere al-1’ altezza in cui si trova ordinariamente collocato, stimo utile il descriverlo alquanto, secondo un disegno ch’io ne trassi alla meglio. La pittura è sul legno, ed il quadro è alto sessantotto centi-metri , largo cinquanta. La figura della Madonna è tronca presso la cintura, e con ambe le mani tiene il Figlio che le sta appoggiato al braccio destro. Questi, quantunque non gli si veggano le estremità, perchè la sua figura resta tagliata al ginocchio, si mostra ritto in piedi sulle ginocchia materne ; per la qual cosa è da dire che la Madonna sia dipinta seduta. Essa ha una veste dorata ed un manto azzurro dal capo in giù, serrato al soggolo con un fermaglio a rosa nel cui centro è un grosso bottone. Sulla spalla sinistra ha una stella, ed intorno al capo l’aureola con entro scritte le parole: Ego mater pulchre dilectionis. Il celeste Bambino ritto, come dissi, con al collo un monile ed una piccola croce, dipinti come se fossero di corallo, tiene le braccia distese e rivolte alquanto verso il centro di sua personcina, stringendo nella mano sinistra un cardellino dalle ali alzate, e nella destra come un papiro spiegato, il quale attraversa così a mezzo, si può dire, tutta la dipintura; e dentro di esso, non sul capo al Bambino, stanno scritte le parole: Ego sum alpha et o.... cioè: omega Intorno al capo invece, entro l’aureola e tra (1) Ved. Giuseppe Corradino, Raccolta d’iscrizioni lapidarie esistenti in Genova, Liguria e altrove; Ms. fol., sec. XIX, nella Civico-Beriana. 4 64 GIORNALE LIGUSTICO raggio e raggio del nimbo, sono queste altre: go sum lux mu. .. cioè: Ego sum lux mundi. Infine, dietro le spalle della Madonna, al suo omere sinistro, spunta come una rosa bianca dal cui centro sorge una specie di calicetto, e da questo bottoni e foglie che sembrano di giglio, e sopra a semicerchio un’ aureola con le due iniziali M S staccate e intramezzate d’ornati. Tutto accosto del margine spunta un’altra aureola colla sillaba do; e dall’altra parte, lungo la figura del S. Bambino, sono tracce di altre aggiunte. Ed è appunto per questo pezzo di aureola e per queste tracce eh’ io penso il quadro essere stato porzione, un giorno, di più grande pittura, come a dire una pala od un trittico con al centro Maria seduta, ed ai lati altri santi, come per es. S. Donato e S. Domenico. Il fondo poi del dipinto, che si appalesa al sommo del quadro, è un azzurro cupo tutto stellato: mi parve però effetto di posteriore raffazzonamento. Ora, Signori miei, che vorrà dire quel M ed S sulla mistica rosa e sui gigli ? si potrebbero intendere come iniziali delle due parole Mariae Symbolum? In quanto poi alla data del 1163, finirò con dire di chi ve la lesse, l’una delle due: o credette vederla in queste iniziali non bene apprese insieme alle lettere del propinquo pezzo di aureola; o, quel che pare più probabile, la travide, sbagliando, nell’aureola del S. Bambino, prendendo per mille cento il go sum e per sessanta sei il lux mu. In conclusione : nel quadro alle Vigne non è questa data; il quadro alle Vigne non può averla, come quello che porta con sè iscrizioni in caratteri i quali non possono essere anteriori al mille trecento. Ora vengono due dubbi; pel primo dei quali basterà una breve parola, per l’altro una cosa di più con vostra buona venia. , Seconda Rettificazione. Un’ altra lontanissima data è messa in mezzo da chi scrisse intorno al santuario di Nostra Signora delle Vigne, come già esistente sulla porta di questa chiesa, la data: dlx. Il Prevosto delle Vigne Salvatore Castellino, sotto il pseudo- giornale ligustico 465 nimo di Gio. Agostino Pollinari, dal Giancardi e dal P. Alerti, stampò nel 1718 (1) che sulla porta maggiore del tempio stava un immagine di Maria Santissima in bassorilievo con sotto a eggenda: Sancta Maria in Vineis dlx; e così ripeterono 1 successivi: il Giscardi, il Persoglio, noi fratelli Remon-c ini e 1 sig. Pitto, facendone più o meno conto secondo il vedere di ciascheduno. Trattandosi di cosa che non è più e non si può verificare, noi ci terremo scusati, e diremo da scusarsi tutti coloro che trovata l’asserzione la ripeterono. Però istituite ricerche e riflettuto anche un poco, vien naturale di fare due dimande. La prima. — Ma sotto il bassorilievo era proprio la data dlx? Lo Schiaffino, quasi ottanta anni prima del Pollinari, agli anni 991 - 997 de’ suoi Annali ecclesiastici della Liguria, tuttora manoscritti, la riporta così : S. Marie de Vineis anno dccccxviii (anzi nella copia di questi Annali che si ha alla Beiiana (2) è mccccxviii , ma certo per errore dell’amanuense). Ora chi ha ragione dei due? Chi lesse meglio, il Pollinari 0 lo Schiaffino? Ecco il dubbio. La seconda. — Dato che ci sia stato proprio il dlx, questa iscrizione la si potrebbe credere sincrona? Le date secondo il computo dell’ èra volgare, si sa che non furono prima di Dionigi il piccolo, che è quanto dire non prima del 540 o 530 al sommo. Possibile che a soli venti o trent’anni di distanza, vuol dire quasi appena inventato il nuovo sistema, una data secondo questo abbia a comparire sulla porta delle nostre Vigne? Possibile sì, ma io ne dubito; e conchiuderei tanto per il dlx quanto pel dccccxviii, che forse fu ciò scolpito in tempi bassi dopo il mille, per fissare in marmo una data di tradizione. (1) Narrazione cronologica dell’antica chiesa di S. M. delle Vigne , scritta da Don Gio. Agostino Pollinari; Parma, per Gius. Rossati, 1718, pag. 14. (2) Vol. I, pag. 16, segnato Dbis, 3,6, 5. — Il Perasso (Frammenti storici, presso l’autore che li copiò in 636 fogli) a pag. 607 afferma: che lo Schiaffino ha 981. Ed è cosa più consona all’anno 991 intorno a cui discorre. Giork. Ligustico. Anno XVIII. 30 466 GIORNALE LIGUSTICO Madonna ed Iscrizione dei Bozolo. Ora della Madonna dei Bozolo in S. Lorenzo. — Anche venti anni addietro, nello scrivere alcuni cenni storici sul culto di Nostra Signora del Soccorso nella cattedrale di S. Lorenzo, come ebbi già occasione di notare nell’ultima mia lettura, io da inesperto esordiva con dire poco cautamente che « quantunque il secolo XIV fosse già all’ ultimo suo volgersi,... » non pareva che in S. Lorenzo fosse altare veruno dedicato a » Maria » (1). Questa proposizione dispiacque al signor Pitto, e non a torto. Avrebbe potuto smentirla, come la smentii io medesimo un mese fa; ma, sfuggiti a lui gli argomenti opportuni e diretti, armeggiò di sbieco e fra le altre scrisse la seguente pagina: «Le notizie dei primi secoli, ne’quali non » è da credere che quivi (cioè nella cattedrale) una tal pietà » loro (la pietà dei Genovesi verso la Madonna) non si dimo-» strasse, convien dire che andarono sventuratamente smar-» rite; poiché ogni ricerca fattane tornò al tutto vana. » Svolgendo però dei manoscritti, ci venne dato conoscere » non 1’ erezione d’una cappella sotto l’invocazione della » SS. Vergine, sibbene d’una sua effigie col S. Bambino » in braccio, scolpita in marmo ad alto rilievo, ora locato » presso alla porta del Duomo, che dà sulla piazzetta, cui » chiamano di S. Giovanni il vecchio; e sotto vi fu apposta » un’ iscrizione » (2). L’iscrizione, che a dir vero è sopra e non sotto, viene dal Pitto riportata appiè di pagina in questi termini: -j* MCCCXXXXII . DIE . XV . AVGVSTI . S. IONIS . Q_. GVLLI . D. BOSOLO . FABR . FRATRVM . ET . HEREDVM . Poi continua: « Ed eccone l’origine: L’anno 1342, per la » pia disposizione d’un certo Giovanni Guglielmo Bozzolo, » ed in testimonianza della sua particolare divozione verso la (1) Ved. I santuarii ecc., pag. 3. (2) Ved. Pitto, Liguria Mariana, vol. Ili, Genova, Tip. Letture cattoliche, 1884, pag. 16. GIORNALE LIGUSTICO » gran Madre di Dio, sotto il sepolcro di lui, questa imagine « si collocò: essendo venuta la morte di lui il 15 di agosto » del citato anno. La quale imagine (conchiude egli colle pa-» iole dell annalista Schiaffino, facendole notare come quelle » nelle quali sta la forza del suo argomento) la quale imagine » fu in venerarazione per le grazie singolari; essendo per » ciò custodita con gran riguardo e lume continuo » (1). Benissimo, dico io, per ciò che riguarda la divozione dei nostri maggiori verso della Beata Vergine Maria, dimostrata da essi dinanzi a questa veramente bella imagine, che teneasi « custodita con gran riguardo »: del qual custodirla porta ancora oggi le traccie m due occhielli per arpioncini, che accennano ad una già esistente inferriata o vetriata o altro qualsiasi riparo. Benissimo, dirò ancora, per ciò che riguarda l’essere stata questa imagine annessa al sepolcro dei Bozolo, e per la ragione che il signor Pitto adduce; una volta però che sia ridonata alla sua giusta lettura la iscrizione, la quale tra i due nomi io[/;aw]Nis e gulli[c//;u'] non ha la lettera Q, che varrebbe quondam, ma la sigla 7, che sta per et, e dopo il cognome bo-solo ha la parola abbreviata tabr non fabr; non che dopo aver fatto osservare che Giovanni e Guglielmo non sono un solo personaggio, come lo fa il signor Pitto nel suo discorso, ma sono due fratelli, tavernieri : Iohannis et Gullielmi de Bo-solo tabernariorum fratrum. Benissimo, ripeto, per tutto questo; ma osservaste? Dal contesto mi pare inoltre come il sig. Pitto supponga che questa sacra imagine abbia un tempo riscossi gli omaggi dei devoti entro la chiesa, e poi sia stata tolta di là e locata ove si trova al presente, cioè nello stipite a sinistra della porta detta di S. Giovanni il vecchio. Ponderate bene quelle parole: ... ci venne dato conoscere non l’erezione di una cappella sotto l’invocazione della SS. Vergine, sibbene d’ una sua effigie... in marmo ... ora locato presso la porta, ecc. — Ora locato, dice, perciò prima d’ora non locato qui; e dove dunque? Dove cercava e dove avrebbe voluto (1) Pitto, loc. oit. 4-68 GIORNALE LIGUSTICO trovare una cappella dedicata alla Vergine, e trovò Γ erezione di questa imagine al sepolcro dei Bozolo, vale a dire in chiesa. E qui è dove cade il mio dubbio. — Donde avrebbe preso il signor Pitto questa notizia? Egli cita lo Schiaffino; ma lo Schiaffino attesta la divozione del popolo a questa imagine, non la sua postura entro la chiesa e la sua traslocazione dappoi. Anzi dice chiaro che sepolcro, iscrizione, Madonna, tutto è e fu nell’entrar della chiesa per la porta di S. Giovanni il vecchio. Ecco le sue parole all’anno J342 dei già citati Annali ecclesiastici: « Morissi in Genova in que-» st’ anno Guglielmo Bozolo, che fu sepelito nella chiesa » cattedrale di S. Lorenzo nello entrar della chiesa per la » porta della parte di S. Giovanni detto il vecchio; e nel » destro pilastro si legge l’epitafio della sua sepoltura, posta » a piedi di esso pilastro, eh’ è tale ( e qui lo riporta, ma » anch’ esso con degli errori). E sotto di esso fu scolpita di » molto rilievo 1’imagine di Maria Vergine col Bambino in » braccio, in testimonianza della divozione sua verso la » santissima Madre di Dio, nella protezione della quale som-» inamente confidando volle in sua morte depositare il suo » corpo sotto la sua custodia. Fu essa sacra imagine negli » anni andati in gran venerazione, per le grazie singolari » che ottennero le divote persone dal benedetto Iddio per » intercessione della Beata Vergine che la li verivano, si » custodiva con qualche riguardo e con lume continuo ; tale » imagine, a distinzione della Divozione (1) constituita pure » nella stessa chiesa, di Maria detta dei Bianchi, fu volgarmente » chiamata Madonna mora ». In tutto questo dove è che lo Schiaffino accenni anche solo a traslocazione? Ci sarebbe il Banchero, che con dire a proposito di questa imagine : venne incastrata in questo stipite una Madonna col Bambino in braccio di tutto rilievo ecc., sembrerebbe porgere un appiglio per così pensare (2). Ma egli in verità non dice che prima sia stata la entro chiesa. (1) Pia società, confraternita. (2) Ved. Rancherò, Il Duomo di Genova illustrato e descritto , Genova, Ferrando, 1855, pag. 148. GIORNALE LIGUSTICO 469 A me pare che i fratelli Bozolo nel 1342 la debbano aver fatta collocare nello stipite ove ancora adesso si trova, e che essa non sia stata mai altrove che lì nello stipite. L aversi 1 imagine cattivata la devozione del popolo, non fa che dovesse avere altro posto da quello occupato anche attualmente. I nostri antichi non badavano al luogo. Ovunque si trovasse una sacra effigie la quale eccitasse la loro pietà, la veneravano, Padornavano, vi innalzavano anche dinanzi degli altari, fosse dentro o fuori di chiesa, in un atrio o all aperto, addossata ad una colonna o ad un pilastro, ad uno stipite. anche di porta. Basta leggere gli atti della visita fatta in diocesi da monsignor Francesco Bossio nel 1582, e se ne hanno prove a iosa. Anzi la sua qualità di appendice ad un sepolcro mi conferma anche meglio nell’ idea eh’ essa sia sempre stata dove ora è. I nostri maggiori metteano le loro memorie sepolcrali non sempre sul luogo precisamente ove aveano od erano per avere sepolte le spoglie mortali (1), ma si contentavano di qualunque posto, solo che appartenesse in qualche modo al luogo di loro sepoltura. Per questo nelle facciate delle chiese, nelle colonne, nelle sacristie, nei chiostri, negli atri, negli anditi di ogni sorta si veggono ancora oggidì lapidi sepolcrali; e non parlo delle trasportatevi dappoi. Quindi, qual meraviglia che i Bozclo scegliessero lo stipite di quella porta della cattedrale, per collocare la memoria del loro sepolcro, con la bella imagine della Madonna a decorarla viemaggiormente? Tanto più se si considera che la piazzetta di S. Giovanni il vecchio, lì accosto a detta porta, era in antico occupata da sepolture, come ne fanno fede i pubblici documenti (2), e tuttavia attesta una lapide del 1499 infìssa nel muro esterno di S. Lorenzo, a pochi metri dal suolo medesimo della piazzetta in discorso : il che vuol dire luogo ove probabilmente i Bozolo saranno stati sepolti. (1) Guglielmo Bozolo, che avea tavernu nella via della Maddalena, era ancor vivo del 1348, nel quale anno dettò il proprio testamento negli atti del notaro Tommaso Casanova. Ved. Alizeri, Notizie dei professori del disegno in Liguria dalle origini ecc., Genova, Sambolino, 1876, vol. IV, pag. 53. (2) Ved. Ravaschio, Memorie sul Caviposanto della città di Genova, Genova, Sordo-muti, 1864, pag. 18. 470 GIORNALE LIGUSTICO Conchiudo questo punto, non dissimulando Γobbiezione che mi potrebbe venir fatta, cioè che gl’intelligenti danno questa porta e la sua compagna, detta di S. Gottardo, per costruzioni anteriori al mille; ed il prof. Alizeri le sospetta perfino avanzi di chiese fatte costrurre in Genova da re Luitprando, vale a dire niente meno che dell’ottavo secolo (i) ; quindi quella statuina, fattura del 1342, non poter essere stata inserita in quello stipite se non cavandone un pezzo. Ma risponderò che qui non batte la nostra quistione. Certo la statuina, coll’iscrizione del 1342 in capo e il doppio stemma dei Bozolo appiedi, più a un modo che ad un altro deve essere stata posta a iar parte di quella porta, sostituendo qualche pezzo di essa o abolito 0 trasformato: e non sarebbe difficile trovare di ciò qualche indizio in quello stesso pezzo di marmo. Ma altro è dire che i Bozolo, scelto lo stipite a sede della loro memoria sepolcrale, abbiano fatto scolpire la Madonnina in uno di quei pezzi, ovvero , prese esattamente le dimensioni, la facessero lavorare in un masso a parte e ve lo incorporassero poi; ed altro è dire che quel masso, con la statua sia stato un tempo in luogo diverso, e, riscossi là gli ossequi dei divoti, sia stato in tempo posteriore al 1342 trasportato ove al presente si trova. Ed è questo secondo caso, non il primo, che a me pare improbabile. Perciò, senza negare assolutamente la possibilità del traslo-camento, finisco con dire che la cosa mi riesce molto dubbiosa. La Lapide di S. Tommaso. Finalmente parliamo della lapide del 1283, già in S. Tommaso (2). — La recente demolizione della chiesa e del già mo- li) Alizeri, Guida artistica di Genova, Genova, Ferrando, 1846, vol. I, pag. 16. Il eh. professore però nella nuova Guida impressa l’anno 1875 coi tipi del Sambolino, a pag. 4, e nelle Notizie citate, vol. IV, pag. 13, fatto più cauto, non ripetè il nome di Liutprando, ma limitossi a designare le due porte come «monumenti dell’età longobardica ». Nè su ciò cade dubbio [A . R .]. (2) Questa antichissima chiesa iu spianata nel maggio 1884, per cedere il luogo alla stazione ferroviaria marittima. Ved. Settimana Religiosa, a. 1884. GIORNALE LIGUSTICO 47 1 nastero di S. Tommaso ha fatto rivenire alla luce una lapide del 1283, che stava nascosta sotto lo scialbo nel muro in fondo del tempio, ma non certo nel suo primitivo luogo, perchè fu trovata colla scrittura arrovesciata: segno che li fu collocata non come un marmo litterato, ma come un materiale qualunque : e questo non potè essere certamente che in forza di un’ assoluta noncuranza di quanto conteneva scritto. Oggi il marmo originale passò all’Accademia Ligustica, e credo che sia in via di far parte di un museo che si pensa già da molto tempo di formare e non si forma mai. Intanto il nostro socio prof. Agostino Allegro (1) trattone un gitto in gesso, me lo lece rimettere dai bravi giovani suoi collaboratori, Giovanni Campora e Marco Aurelio Crotta, li 4 luglio del passato 1884; ed eccolo qui sotto i vostri occhi. Come potete vedere, l’iscrizione, oltre di essere in caratteri semigotici, propri della data che porta in fronte, ridonda di abbreviazioni. Ma questo è un nulla. Essa accenna a cose che non potrebbe bene spiegare se non chi sia versato nelle leggi e costumanze della nostra antica Repubblica. Io non sono certo costui. Di qui necessariamente una preghiera da parte mia, che sorga di mezzo a voi ad illustrarla chi è (e non manca) nelle dovute condizioni. Ciò non ostante, non lascerò questa sera di esporvi quel che me ne sembra, affine di leggerla ed intenderla in qualche modo. L’ epigrafe è affatto nuova per noi. Non si trova in nessuna delle raccolte che possediamo, e ben la possiamo dire un nuovo acquisto. Essa è come segue: M : CCLXXXIII · v · die · madii · dni ckvyîetnei concesserwwì : ottolino· ni grò De fontì : petro : cordario : et : IOHanni metifoco : consulì^hì saneti T HOME : AP0DIXWW IHFRASCRIP/i : TENORW : D2 mandato : et · voumtaie OommoKVm \ cwitaneorum (1) Morto egli pure, il 19 marzo 1889 [A . R .]. 472 GIORNALE LIGUSTIGO E si · Qtiod - HOWI//ES · coksulathì - s aneti · THOME - per ALiQUEm : magistrat/ìot : ianve ; neqmc ver ALIQ7lem · civew : ian/ìì · occasione · presEn TIS · ARMAMÉNTI ; Vel ; ALICUÌUS ALTERI US ; AVAR/e P^'SONALzV : NOra : ACOTUM«7ZTWr ; CU in ; IPiI : HO/MIKES : coequek TUR : ET COEQUARI : DEBEÛ7ZT occasionE : Dzc/i : armamotti · et auarupi : AVAKiarum · et · qzz/qh/d · collectok Est · ab aliquo · h omviE : d/'cìi : consulatmì · per aliQuem j constitut/^w · supeR : vremetis \ occasione ptoentw armamîkti · s eu : cotumz Facti · supeR · illos · Qui · non fecerunt · suawz avariam · restituatw : consulibus · d/cti · consuLatus : Nel 1283 erano capitani di Genova Oberto D’Oria e Oberto Spinola; ed il governo dei consoli nella nostra città era già cessato da sessantasei anni, secondo le informazioni che ce ne danno gli annalisti. Si sa che il sobborgo, in allora, di S. Tommaso aveva consoli propri come li aveano San Pier d’arena, Rivarolo ed altre terre finitime; ma non si sapeva che i consoli di S. Tommaso la durassero più che quelli di Genova. Or questa lapide ci attesta che nel 1283 ess' esistevano ancora , e che non erano meno di tre. Abbiamo anche il loro nome: Ottoìino Nigro de Fonte (1), Petro Cordario et Iohanni Metifoco. Bollivano allora le ire tra Pisani e Genovesi, per guasti dati in Sardegna dai primi a danno dei secondi; ond’ è che questi attendevano ad una levata di armi, per ire contro di quelli e ricattarsi. Una delle tante guerriglie che precedettero la distruzione del Porto pisano avvenuta sette anni dopo, nel 1290. Bisogna dire che per questi armamenti ci fossero delle leggi (1) Forse Ottoìino Negro della Fontana — avendosi ancora oggi a Fas-solo la piazza Di Negro, e tra S. Tommaso e S. Giovanni la fontana. — Così opinerebbe il prof. Belgrano. NelVAbecedario delle famiglie del Federici é notato: Q[uondam\. Ottone Negro de fontana S. Thomae, in Comperis 1334. Ed il Roccatagliata, Me- GIORNALE LIGUSTICO 473 igatorie portanti pene ai trasgressori; dalle quali pene, pare o 1 uomini del sobborgo di S. Tommaso andassero esenti per pmiegio o convegno. Di questa esenzione parla appunto e principalmente la lapide, la quale non è che la esposizione un andò, notificazione o dichiarazione (apodixia) fatta dai capitani di Genova a tale proposito. Se 10 bene mi apponga, giudicatelo Voi, quando io vi abbia esposto 1 significato a veder mio di cinque parole, che sono in essa iscrizione, e data la versione di tutta 1’epigrafe quale io la farei. n Le parole sono : avaria, armammtum, acotumari, cotumum e coequari. Avaria. — Noi oggidì diciamo avaria un danno, e merce avariata chiamiamo quella che si guastò e per il guasto patito perdette del suo valore. Nel tempo antico, stando al Du Cange, valea contribuzione, tassa, tributo. Avaria, tributum, contributio apud Genuenses, dice egli appunto nel Glossarium mediae et infimae latinitatis (i). Ma nella nostra lapide sembra che avaria valga specialmente a significare l’obbligo di prestar la propria opera al bene comune; o, in altri termini, un servigio personale, come sarebbe stato quello imposto dal decreto di guardia della città del 1128 o 1142 che sia (2). Difatti in essa lapide S1 legge : qui non fecerunt suam avariam. Ora quel fecerunt quanto si addice all’avaria in senso di servigio, poco le si confà nel senso di tributo, e nulla affatto in senso di danno. Armamentum. — Chi è che non sappia il significato della parola armamento? Tuttavia in questa nostra lapide pare che abbia un significato speciale. In essa si legge: occasione presentii morie di Genova, all’anno 1169 segna che « i fratelli Guglielmo e Bal- li dissone Negri pagano denari 13 per la terra nel monte di S. Michele » sino in la via nuova di S. Tommaso ». Questo ci comunicò il sig. L. A. Cervetto nel 1885. fi) In riviera e nei contado anche oggi si chiama avaria la tassa 0 imposizione governativa 0 municipale; ed il soddisfare al suo pagamento, in ispecie dai contadini, dicesi: baçâ Γavàia, pagare l’imposta. (2) Ved. Liber iurium Reipuhlicae Genuensis, tom. I, col. 33. 474 GIORNALE LIGUSTICO armamenti seti alicuius alterius avarie personalis; e la soggiuntiva o qualche altra avaria personale, espressa così immediatamente dopo la parola armamento , ci fa vedere che tra armamento ed avaria è la relazione che corre tra la specie ed il genere, di maniera che qui armamento apparterrebbe come specie al genere delle avarie personali, sarebbe quindi anc'n esso una tassa personale di servizio, di leva militare. Acotumari o acotumare. — Il Du Cange spiega questo verbo, all’attivo, per correggere i costumi, richiamare all’adempimento del proprio dovere e ad un vivere migliore, mediante ammonizioni ed altri mezzi; e cita in appoggio il seguente passo di un documento genovese del 1292, che si legge nel Codex Italiae diplomati eus del Lunig (IV, 1925): «Rector comunis Ianue, » qui prò tempore fuerit, potestatem et balliam habeat acco-» tumandi contrafacientes vel non observantes ». E siamo d’accordo. Se non che anche qui parmi come dalla nostra lapide si possa ritrarre un senso più;speciale, e quindi più proprio, da potersi anche attribuire al Y acotumandi del citato testo. Aco-tumari sembrami cioè che derivi dalla parola cotumum, che s’incontra più sotto. Ma cotumum che significa? — Il Du Cange non 1’ ha. Ha bensì cotum, che spiega per tributo, per esazione; e forse cotumum è lo stesso che cotum; tuttavia la voce cotumum sarebbe da aggiungersi a quel lessico. Stando adunque alla nostra lapide, io direi che cotumum valga quello che noi diciamo multa; e quindi acotumari valga essere multato (1). Infatti la nostra lapide con quel nome accenna a cosa stabilita a carico di chi non avesse prestato il suo servizio : sarebbe una pena, un castigo. Coturni, dice essa, coturni facti super illos qui non fecerunt suam avariam; e fa capire altresì che questo coturno è cosa che si può raccogliere e si può (1) Cotumum, quota di tributo, trovasi infatti nel libro Regularum comperarmi Capituli comunis lanue, ras. pergam, sec. XIV dell’Archivio di S. Giorgio, al capitolo 266:... ad proventus locorum tantum annuatim qua-rumeumque personarum dare delentium comuni pro eorum co tu mis dacitis et avariis, etc. Ed al capitolo 267 :... immunes pro illa quantitate quam----habent vel haberent in ipsis comparis ab omni coturno, dacita, avaria, etc. GIORNALE LIGUSTICO 475 restituire, et quiquid collectum est.... restituatur. Ora un’ammonizione o una pena afflittiva, propriamente parlando, non son cose da potersi raccogliere nè restituire; tale invece è emssimo una pena pecuniaria, preventivamente stabilita e comminata. Nè diverso è tuttora il senso della voce italiana cottimo, in quanto significa predio convenuto, quasi constitutum praeimm, che usa riferirsi a lavoro affidato in blocco e non a giornata. Finalmente coequari. — Questo verbo tutti sappiamo che vale agguagliare, parificare, equiparare, tener per eguale: vale per altro anche unire; e credo io che questo sia proprio il significato nel quale si debba prendere in questa iscrizione. Il testo dice: gli uomini del consolato di S. Tommaso non acotumentur, e ne soggiunge la ragione che sta in queste parole: cum ipsi homines coequentur et coequari debeant occasione dicti armamenti et aliarum avariarum. Anzi si potrebbe dire che sta tutta in queste pochissime: cum ipsi homines coequentur et coequari debeant. Ora, se noi prescindiamo dall’idea di unione, qual senso potremmo ricavare da queste cosi stringate parole? Nessuno. Dove invece se noi diciamo: « imperocché questi uomini sono » uniti e si debbono avere per tali », il senso riesce limpido. Il coequari di questi uomini vale , secondo me , far massa , far corpo, far società: forse allude alla così detta compagna di quei giorni: Compagna burgi Sancti Thome, come leggo in una nota ai Documenti riguardanti le due Crociate di S. Luigi IX re di Francia, pubblicati dal nostro segretario generale prof. Bei-grano (pag. 32). Inteso a questo modo il coequari, la lapide direbbe: non acotumentur gli uomini del consolato individualmente, perchè l’individuo che fa parte di una società alla quale, forse, ha lasciato i carichi come gli onori, non è, nelle circostanze indicate, da cercarsi isolatamente, ma per esso dee rispondere il corpo di cui fa parte. Dato dunque a queste parole il detto valore, ecco da ultimo come intenderei e tradurrei in volgare nostro tutta l’iscrizione: 1283, a’ 5 di maggio. I signori capitani concessero ad Ottolino Negro della Fonte, a Pietro Cordario ed a Giovanni Mettifoco, consoli di S. Tommaso, la dichiarazione del GIORNALE LIGUSTICO seguente tenore. È comando e volontà dei signori capitani, che, in occasione della presente leva od alcun altro servizio personale, gli uomini del consolato di S. Tommaso non vengano multati da alcun magistrato di Genova, nè da alcun cittadino cenovese; essendo che questi uomini, in occasione di detta leva ed altri servizi, formino e debbano formare una massa sola. E tutto quello che in occasione di detta leva, ovvero della multa stabilita sopra coloro che non prestarono il proprio servizio, fu esatto da qualche uomo del detto consolato per opera di qualche incaricato a curar e le sopra dette cose (cioè armamento ossia leva o multa), venga restituito ai consoli del detto consolato. E qui termina la mia domanda, aspettando quando che sia una risposta gentile. VARIETÀ La Cava di pietra nera di Promontorio. Sullo scorcio del mese di maggio ultimo, nella cava di pietre a nord-ovest di via Venezia rovinarono improvvisamente parecchi macigni, lasciando sull’ alto e nel vivo della roccia visibilissime tracce di un’antica galleria, la quale s’internava nelle viscere del monte. Fra i macigni caduti al piano si rinvenne un lastrone lungo circa due metri, di vario spessore, sopra del quale era scolpita in caratteri maiuscoli del cinquecento la seguente epigrafe: ADI XXII JVLIO 1519 EL REM0 CARDINALE DE FIESCO FVT QV| Caddero inoltre nello stesso tempo: uno scandaglio, 14 scalpelli di varia grandezza e 4 mazzuoli di ferro, logori e irrugginiti. Tanto il lastrone, ridotto dagli scalpellini a poco più della misura dell’ epigrafe , cioè m. 0,90 in lunghezza per m. 0,50 di altezza, quanto gli strumenti di ferro irrugginiti, furono a cura del Municipio (che li ebbe in dono dal proprietario della cava) raccolti e depositati in uno dei magazzini del Palazzo civico. Lo scoscendersi di un’ antica galleria scavata per mano del-1’uomo nel punto suindicato; 1’epigrafe scolpita sul lastrone, GIORNALE LIGUSTICO 477 che , evidentemente, formò parete della galleria stessa ; gli strumenti di ferro logori e irrugginiti, rovinati coi macigni, sono indizi certi dell’ esistenza di una cava, sicuramente per 1 addietro stata coltivata, e non si sa quando nè perché poi abbandonata. Tuttavia, sulla scorta di questi indizi e di altre notizie raccolte sul luogo, molto probabilmente è da credere che la cava della quale si tratta , sia quella antichissima di pietra nera di Promontorio, di cui si era perduta la memoria. Difatti la coltivazione delT attuale, mise a nudo un’ enorme roccia viva quasi nera e compatta, che sfaldata e lavorata a martellina fina, fu da poco tempo, come quella antica di Promontorio, adoperata con utile nella decorazione di alcuni edi-fizi in Carjgnano. Il poggio che sta ora tagliandosi, è detto Prele e volgarmente Pria do cùcco; trovasi a nord-ovest del bosco Rosazza, da cui è separato dalla valle e dal fossato ; e s’ innesta alla catena del monte, sull’ erta del quale stanno le mura degli Angeli. È di proprietà Ottone , Graffigna e Bonifacini, già Celle; ed è compreso (notisi bene) nel distretto della parrocchia di Promontorio, la quale per la costruzione dell' ultima cinta (anno 1626) restò divisa in parte dentro e in parte fuori le mura della città. La parte del colle di Promontorio extra moenia è completamente coltivata a vigne e giardini, nè porta traccia alcuna di tagli o scoscendimenti che accennino, anche da lontano , che ivi fossero delle cave. Lo stesso Federico Alizeri, diligentissimo ricercatore di memorie patrie, nella sua Guida illustrativa per la città di Genova e. sue adiacenze, edita nel 1875 coi tipi del Sambolino , a pag. 764, toccando del poggio di Promontorio sulle cui balze s’ indossano superbi palazzi e ridenti casini, e con vece alterna boschetti e oliveti e colte ville e giardini, soggiunge: ma oggimai non discerni n'e il come , ne il dove Γ amena collina si sviscerasse a provvedere i macigni nerastri onde si abbellirono cotanti edifici e presero forma cotanti portali. Le decorazioni in pietra di Promontorio nella nostra città sono assai comuni nelle costruzioni antiche; ma si può dire che dopo il 1600 si sieno fatte rare , e quindi scomparse. Ora la lapide scolpita della cava abbandonata , porta la data del 1519, in cui la pietra nera di Promontorio era ancora in uso per decorazioni; dunque potrebbe dedursene, essere quella la cava 0 una delle cave che fornivano la detta pietra. 478 GIORNALE LIGUSTICO Ed è ventura che pei giganteschi lavori del P°rt°, eseguiti in questi ultimi anni per generoso impulso dato dalla liberalità del compianto Duca di Galliera, si sia intrapreso lo squarcio dei colli a monte di via Venezia , inoltrandosi cosi da ritrovare sotto il monte Prele (giurisdizione della parrocchia di Promontorio) il punto in cui i nostri maggiori sviscerarono la montagna per estrarne la pietra nera di i ro-montorio : quella pietra per la quale , ad opera di insigni scalpelli, la nostra città si rese ammirata per dovizia e ranta di decorazioni artistiche; basti fra tante il citarne una sola: il pregevolissimo bassorilievo del Presepio posto in via Uretici, quasi dirimpetto al quadro della Madonna di Pellegro Piola. . ... Nicolò di Giacomo Fieschi, canonico arciprete della nostra metropolitana di san Lorenzo, protonotaro apostolico, fu vescovo di Adge (1490-94), di Frejus (1494-1512), Embrum (1511-16), Tolone (1518-24), Albano (1518-24), Sabina (1521-23) , Porto (1523-24), Ostia e Velletn (1524) ed arcivescovo di Ravenna (1516-24). Nell’anno 1503 papa Alessandro VI lo creò cardinale prete del titolo di santa 1 nsca, che poi mutò in quelli di san Nicolò in carcere e dei ss. Apostoli. Fu legato pontificio al re di Francia ed alla ìepub-blica di Genova (1); ed in questa qualità lo ricorda lo Schiaffino negli Annali ecclesiastici mss. della Liguria , citando un suo diploma dato in Paverano li 6 settembre, col quale diede esecuzione al breve di papa Leone X dell’anno 1516 , concernente la istituzione e 1’ acquisto della chiesa dei ss. Nazario e Celso del luogo di Multedo. Mori il 14 giugno 1524, e fu sepolto in Roma nella chiesa di s. Maria del Popolo. È da credere l’iscrizione della cava di Prele sia stata scolpita per ricordare una visita fatta colà dal cardinale. Me lo fosse pure per altre ragioni a me ignote, nulla toglierebbe all’ assunto propostomi con questo scritto, quello cioè di presumere fino a prova contraria, che la cava abbandonata di monte Prele, sia la stessa o una di quelle che fornivano la pietra detta di Promontorio dal nome del colle che si distende entro e fuori le mura della città. Genova, luglio 1891. Angelo Boscassi. (1) Cfr. Ciacconus , Viiae Pontificum, III, 204; Gams , Series episcoporum Eccl. univ., I, pp. vi, x, xiv, xxiii, 478, 449, 352, 637. Pasquale Fazio Responsabile. INDICE DEL VOLUME DOCUMENTI ILLUSTRATI. Contributi alia storia genovese del sec. XV. (V. Poggi). Pag. 206, 245 MEMORIE ORIGINALI. Vita di Guarino Veronese (B. Sabbadini). Pag. 3,109,185,261,321,401 Federigo Gonzaga e la famiglia Paleologa del Monferrato (5. Dovari)........pag. 40, 81 Tommaso Stigliani (M. Menghini) .... I liguri ellenisti. Ansaldo Cebà (G. Bertolotto) La suppelletile sacra nelle Chiese minori (V. Poggi) Due date a N. S. Delle Vigne (M. Remondini) VARIETÀ. Vincenzo Colombo pirata del sec. XV (Ai. Stagliene) . Genua e non Janua secondo il Vernazza (G. Claretto) . Sepolcro ligure scoperto in Ameglia (P. Podestà) . Un episodio dell’elezione di papa Adriano IV (G. Sforma). Una lettera di Luigi Corvetto (A. N.) .... 'Una iscrizione genovese recentemente scoperta in Sol-daia (L. T. B.)........ » 161 » 283 Pag. 348, 441 Pag. 459 » » 68 136 x39 227 230 297 480 GIORNALE LIGUSTICO Note umanistiche (R. Sabbadini) . . . . Gênes sauvée (G. Roberti)...... Di un sirventese discordo di Bonifazio Calvo (M. Pelaez). La cava di pietra nera di Promontorio (A. Boscassi) RASSEGNA BIBLIOGRAFICA. Pag. 299 307 382 476 Parrocchie dell’ Archidiocesi di Genova per Angelo e Marcello Remondini (L. T. B.) R. Sabbadini. Biografia documentata di Giovanni Aurispa (C. Braggio)....... 23$ 312 . SPIGOLATURE E NOTIZIE. Pag. 79, 146, 238, 317. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Gli antichi Archivi del Comune di Savona di A. Bruno, pag. 80. — G. Bertolotio. Gabriele Chiabrera ellenista?, 160. —- Pietro Orsi Come fu fatta l’Italia, 239. — Vincenzo Crescini. Il contrasto bilingue di Rambaldo di Vaqueiras, 240. — A. D’Ancona. Origini del teatro italiano, 318. — Gaetano Imbert. Il Bacco in Toscana di Francesco Redi e la poesia ditirambica, 320. — G. B. Gregorio. Capitolo della compagnia di S. Nicolò in Palermo, 400. — Laura Gropallo. Sorrisi e lagrime, 400.