GIORNALE LIGUSTICO DI ARCHEOLOGIA, STORIA E LETTERATURA FONDATO E DIRETTO DA L. T. [BELGRANO ed parimente prima di Sigismondo, una confederazione di città tedesche, per mezzo di un ambasciatore chiamato Giovanni Breitfeld (3), annunziò il desiderio di commerciare più attivamente con Genova, era questo un passo dettato dal solo stimolo del proprio interesse, e che significava soltanto un ritorno ai vecchi rapporti. E il governo genovese, alle lagnanze dell’ ambasciatore per le insolite gravose imposte, poteva rispondere che il tedesco a nuli altro era di presente assoggettato in Genova, fuorché a quello cui era abituato nel tempo addietro ■(multis retroactis temporibus). Un’ altra attestazione di data più recente, ci porge la lct- (1) Deuticbe Reiclistagsacten, Bd. VII. 264, 279, 303, 305, f. 320, 324, 347, 359 — 366, 392, f. 407, 409, 41$ 420· (2) Chroniken der deutschen Stàdie. Nümberg, Bd. 1, 100 ff. (3) Zeitschr. fur die Geschichte des Oberrheins, IV, 39 f. GIORNALE LIGUSTICO 5 tera del 1417 di un ambasciatore sconosciuto, il quale venne in Germania munito di pieni poteri dal duca di Milano Filippo Maria Visconti e dal doge di Genova Tommaso da Campofregoso (1). In essa si assicuravano i tedeschi, che d’allora in poi dovrebbero godere nuovamente in Genova dei medesimi privilegi e delle medesime concessioni di cui avevano goduto 45 o 50 anni innanzi (1367-1372); che certi posteriori ordinamenti, i quali avevano recato danno agli interessi tedeschi, erano adesso dal doge revocati. Sarebbe opera importantissima scoprire i primitivi e fondamentali rapporti tra le città tedesche e Genova. Ma pur troppo sembra, esaminando l’archivio genovese, nulla più essere rimasto (eccetto che atti privati, come il documento III) che possa rischiarare queste relazioni commerciali del medioevo (2). Per compensare la mancanza di queste perdute fonti storiche, ci ìivolgiamo noi alla Germania e ci troviamo di nuovo ricondotti al già nominato documento del 1398; ma esso accenna soltanto (e ciò anche in una lingua irrimediabilmente corrotta) alle numerose gabelle che dovevano pagare i tedeschi per il trasporto delle merci dal porto genovese all’estero (exitus ripae). Una gran parte di questa lacuna riempie in ogni caso il libriccino dello Stromer, poiché, come già si è detto, somministra una tariffa bastantemente completa dei dazi cui era assoggettato in Genova il mercante tedesco verso il 1400; e quasi si dovrebbe credere che lo Stiomer abbia riprodotto una tariffa italiana, perchè le paiole reijf e saum da lui adoperate, non sono altro che pai ole italiane fatte tedesche, cioè riva (ripa) — ufer ovvero (1) Deutsche Reichstagsacten VII, 359 e segg. (2) Cosi scrive il cav. Cornelio Desimoni, il quale non è secondo ad alcuno nel conoscere cotest’ archivio. 6 GIORNALE LIGUSTICO hafèn^oll (i), e soma vale a dire tonne (secondo lo Stromer stesso un valore di quattro centinari italiani) —; e adoperando egli più avanti über mer intieramente alla maniera italiana oltre mar (ultra mare) — come speciale denominazione per la Siria (2). Tuttavia non si avrebbe con ciò nessuna prova sicura, poiché lo Stromer potrebbe avere uditi quei nomi dai mercanti che convenivano In Genova, oppure sul luogo stesso. Noi deploriamo tanto più la mancanza di questi fondamentali diritti mercantili, in quanto che saremmo curiosi di sapete chi dalla parte della Germania s’ingeriva allora nelle ttan-sazioni. Più tardi, nell’anno 1398, parla il citato documento di una confederazione svevo-franco-bavarese delle citta del-l’Impero, in loro nome e in nome di altre città con esse collegate, la quale regola i negoziati con 1 empoiio italiano. È la nota confederazione delle città sveve, che ebbe il suo centro a Costanza e nella Svevia superiore (Ulm), ma che col tempo abbracciò non solamente tutte le città sveve del-1’ Impero (compresa Augusta), bensì anche città fuori della Svevia, come Ratisbona e Norimberga. Difatti i confederati, a cominciare dall’anno 1384, non furono più, come prima, designati solamente « Città dell’ Impero nella confederazione di Svevia », oppure « Città le quali formano insieme una lega in Svevia » , ma aggiunsero al titolo di Svevia quelli « di Franconia » o « di Franconia e di Baviera » per significare in tutta la sua estensione la natura della confedera- (1) Pegolotti, Pratica della mercatura, 220: « Chi vende, paga (in Genova) uno diritto che si chiama riva, e paga sol. 2 per lira; e que 0 si tiene al compratore appunto di quello che si vende la mercanzia ». Concorda con le parole di Stromer: « Die es von uns kaufen, die mussen davon Revff geben ». . . (2) Se Ü tedesco medievale chiama semplicemente un pellegrinaggio o una crociata meerfahrt (andare per il mare), il rapporto colla Siria non è in modo cosi assoluto come in italiano; oltre mar. GIORNALE LIGUSTICO 7 zione. Se nel documento del 1398 si comprendono ancora altre città, che con questa lega abbiano una lontana relazione, si devono intendere senza dubbio le città del Reno. Ma in nome di tutte agisce la lega delle città sveve. Se Guglielmo Vischer, quando nel II volume delle Ricerche, scrisse la storia di questa confederazione, avesse avuto notizia del documento del 1398 pubblicato dal Mone, avrebbe conosciuto un altro lato dell'azione della lega medesima; ma a ciò e»li ÎD non accenna. La difesa contro gli assalti dell’ autorità imperiale, la preservazione dell’ immediazione dall’ Impero contro la ciescente potenza dei signori del paese, la conservazione della pace in esso e la sicurezza del vicino e lontano circondano, fot mano bensì lo scopo principale delle personalità diligenti la confederazione, ma anche vi è considerato l’avanzamento del commercio, e non soltanto nel significato che qui e colà è abolita un’ imposta o vendicato un ratto di merci, ciò che già si poteva ricavare dagli atti raccolti dal Vischer, bensì nel senso molto più largo che con le piazze mercantili estere si formino trattati di natura puramente commerciale, i quali naturalmente da una lega di città debbano essere regolati con più vigore che da una città sola. S’intende che solamente poche delle 40 città che chiudeva in sè la lega al tempo del suo massimo splendore, avevano tra i loro abitanti tali mercanti all’ingrosso, che con Genova e col suo porto e di là per mare avessero regolari relazioni. Pur croppo non è detto da quale città discenda Giovanni Bieitfeld. Se si conoscesse, sarebbe almeno nota una delle sedi di questo commercio tedesco-genovese. Però sono probabilmente da intendersi oltre a Norimberga (ved. Stromer) Augusta, Ulma e le città del lago di Costanza. A queste ultime siamo noi condotti da ciò, che nell’anno 1417, quando le città tedesche non poterono opporre più a lungo resistenza alla pressione dell’imperatore Sigismondo, e decisero di strin- 8 GIORNALE LIGUSTICO gere relazioni con Genova in vece che con Λ enezia, λ i fu un abitante di Costanza il quale con lettere credenziali fu colà inviato dalla sua patria e dalle città circonvicine per pregare che i tedeschi avessero lo stesso umano trattamento in Genova come in Venezia. A questo Costante, del quale non ci fu trasmesso il nome, rispose il doge di Genova che i tedeschi dovevano nel suo territorio essere trattati più umanamente che in Venezia. Anche il duca di Milano, il cui territorio essi dovevano attraversare recandosi a Genova, promise moderati dazi di transito. Entrambi i principi ìipe-terono le benevole loro assicurazioni in una lettela all imperatore Sigismondo; e un’ambasciatore di essi, il quale venne in Germania per invitare verbalmente le città tedesche ai rapporti con Milano e Genova, si presentò con sciitture del medesimo tenore, le quali, sotto nove diversi punti di vista cercavano mettere in luce la preminenza di Genova come piazza mercantile per i tedeschi. Di queste scritture una senza indirizzo è pervenuta a noi ; ma secondo una nota di quel tempo, ne fu mandata copia alle città di Berna, Basilea, Fi i-burgo, Costanza, Ulma, Ratisbona, Passavia e Vienna, e furono poi ancora comunicate a Norimberga, Monaco e Augusta (i). Se tutte le nominate città partecipassero all’ambasciata di questo Costan^ese a Genova, se inoltre tutte anche le lontane, come quelle del medio Danubio facesseio uso reale della piazza mercantile ligure, può riescire dubbioso. Quindi l’imperatore sollecitò con grande zelo la deputazione dei plenipotenziari di parte tedesca a Miiano e Genova, e con ciò furono raffermate le condizioni mercè le quali i tedeschi potevano colà commerciare. Con questa situazione storica s’ accorda benissimo un — Ratschlag von der Kauf-mannschaft wegen gein Genaw und Meylandt von teutschen (i) Reichstagsacten VII, 359. GIORNALE LIGUSTICO 9 landen il quale si trovò nell’ archivio di Norimberga, lui ttoppo non ha date, ma la scrittura appartiene al pi incipio del secolo XV. Una fedele copia io ne devo (i) al signor Direttore del Regio Archivio del Circolo. Al tempo in cui questo frammento di atto fu steso, si appianò manifestamente alle città partecipanti a’ rapporti con Γ Italia superiore 1 entrata nel Circolo secondo Γ intenzione di Sigismondo. Trattavasi già intorno allo schizzo di un’ istruzione per 1 eventuale ambasciata: ed intorno ai punti che dovevano essere accettati nella medesima, conferì il suo parere appunto una città che aveva parte nel consiglio. Ma tutto non oltrepassava le prime deliberazioni. L’ inclinazione a commerciare con Genova non fu durevole per la maggior ili*' · parte delle citta, ma agitata sempre dalla predilezione per λ enezia, per la quale inclinava specialmente Norimberga. Se si potesse supporre in qualche modo l’opposto desiderio, di coltivare vie più i rapporti con Genova, bisognerebbe nominare le città della Svevia superiore e del lago di Costanza, ma specialmente Costanza e Ravensburgo. In questa sfera sembra si sia continuato a mantenere i rapporti commerciali con Genova oltre il tempo di Sigismondo, finché quella città, agitata dalle opposte fazioni dei Fregosi e degli Adorni, ripetutamente assediata da eserciti spagnuoli e francesi, cessò (i) Come poteva il Baader, quando analizzò quest’atto (Abhandlunc über Nùrnbergs bandii ìm MìtteìaUcr in, }8 làbresbericbt des bistor. Ve-rems fur Mittelfranken iSji e 72, 106), vedere in esso un accordo tra Norimberga da un lato e Genova e Milano dall’altro? Il nome di Norimberga non si trova nemmeno una volta nel documento; Hi scrittori del medesimo mirano alle garanzie di mercanti tedeschi specialmente · un accordo non è ancora compito e tutto è allo stadio di formazione. Noi non abbiamo davanti che un semplice consiglio: che esso appartenu a Norimberga dubito molto; potrebbe anche essere passato a Norimberga da un’ altra città. 0 IO GIORNALE LIGUSTICO di garantire ai mercanti stranieri la tranquillità e sicurezza nel suo territorio. Furono allora eziandio i vecchi privilegi di cui avevano goduto colà i tedeschi rivocati in dubbio da violenti mandatari e violati da cupidi gabellici i. Questa condizione di cose ebbe termine soltanto nell anno 1464, quando la Repubblica si gettò nelle braccia del duca Francesco Sforza di Milano, il quale con forte e ad un tempo mite governo , ristabili P ordine. Anche dopo che fu morto Francesco nel 1466, sembrò che la pace volesse conservarsi sotto il figlio di lui Galeazzo. Allora svegliossi nelle città sveve il desiderio di mandare nuovamente i loro mercanti a Genova. I delegati senatorii si radunarono in Ulma, e in loro nome il cancelliere della città, Peter Neidhard (11 ag. 1466), stese una lettera ai reggitori di Genova, la quale raccomandava i mercanti tedeschi al loro favore. V ambasciatore che doveva consegnare la lettera (Doc. I) e concertare oralmente intorno ai diritti da accordarsi a’ suoi concittadini, non è nominato nella scrittuia medesima. Ma altrove (Doc. II) compare come Henricus Franchis de Constantia, che, senza esitazione, potremmo chiamare invece Heinrich Fry di Costanza, poiché e noto che i Fry sono una famiglia patrizia di Costanza in quei tempi, e poiché nel Doc. Ili il medesimo Franchus viene designato come membro, fattore e plenipotenziario della società degli Hundbiss (Huntpis, Humpis). E che nel Josumpis del documento si nasconda un Jodocus (Jost, Jos), non vi e alcun dubbio. La ricca e nobile famiglia degli Hundbiss, domiciliata-in Ravensburgo, formava il centro di una società commerciale, e predominando in essa famiglia i nomi di battesimo Jos ed Eitel, ora compare un Jos, (1) ora un Eitcl, (i) V ambasciatore della confederatone Svizzera Dr. Thüring Fnck-hardt portò appunto verso questo tempo con sè a Roma una lettera 1 credito di 1000 fiorini rilasciata dalla società commerciale d. jodocus Huntpiss di Ravensburgo. Kidber, Storia della Svinerà, pag. 257. GIORNALE LIGUSTICO ed ora compariscono entrambi (i) come capi della società. Particolari documenti di archivio parlano degli Huntpissen e della loro società, altri, della grande società di Ravensburgo: ora questa è la sola e medesima società che aveva bensì sede ni Ravensburgo, ma si diramò poi anche in altre città, per es. a Costanza, doVe la grande casa commerciale Muntprat era cogli Hundbiss strettamente congiunta. Io ho parlato altrove (2) di questa casa che precedette i Vòhlin, Fugger e Welser, provando che essa aveva commercio con l’Italia e la Spagna. Una nuova prova può fornire il già citato Doc. Ili quando dice che le merci appartenenti a questa società , in viaggio dalla spagnuola Tortosa a Nizza o Villafranca, caddero nelle mani di corsari genovesi, e che il fattore Heinrich Fry j domiciliato in Genova, dovette faticare molto per ricuperarle. Un rappresentante di questa grande società commerciale, esperto della condizione e dei bisogni dei mercanti tedeschi in Genova, era idoneo ad abboccarsi in nome delle città sveve col luogotenente di Galeazzo Sforza e il consiglio degli anziani. Ma egli aveva una posizione difficilissima, giacche le lichieste soi passavano le concessioni sino allora accordate ai tedeschi. Il reggimento genovese sottopose i 13 punti da lui presentati all’ esame di una commissione, la quale il 23 dicembre 1466, fece finalmente note le sue decisioni. A parecchie delle richieste venne risposto con un rifiuto , parte pei diè il governo genovese aveva garantito più alte entrate agli appaltatori doganali e perciò non poteva, almeno per allora, restringere i dazi commerciali dei tedeschi molto van- ii) Cosi in una pergamena dell’archivio di Ravensburgo delPanno 1419, a me segnalata gentilmente dal signor precettore Hafner in un mandato imperiale alla città di Ulma (tra le carte raccolte dal prelato Schmidt nell’archivio di Stuttgart, Fase. 3 N. 79) delPanno 1457. (2) Ueber die commeriiellen Verbindungen der schwàbiscben Reichstàdte mit Italien und Spanien in den JVùrtt. λ ierteljahrsheften 1880, s. 141 flf 12 GIORNALE LIGUSTICO taggiosi alla città, parte perchè non sapeva come conciliare le loro domande con gli ordinamenti dello Stato. Le altre richieste furono accordate; e il governo dichiarò di aver conceduto quanto gli era possibile. Così si ebbero le nuove Conventiones Allamanorum (Doc. II). Non vi è alcun documento che si estenda sui particolari come questo, in guisa da pie-sentare le condizioni alle quali vivevano e commercia\ano i tedeschi in Genova. Io non ne esporrò qui minutamente il contenuto: dirò soltanto per coloro che per avventura non volessero studiare l’interessante documento, che ivi e piesup-posta 1’ esistenza di un consolato tedesco ed è tenuta parola di matrimoni di mercanti tedeschi con donne genovesi, con che un gran numero di forti coloni tedeschi \eniva ad esseie ammesso nella Genova d’allora. Nel 1501 Pot^ Michele Priuli scrivere da Genova a Venezia che 4 società commerciali erano tedesche stabilite in quella città, e per mezzo di galee genovesi trasportavano rame in Oriente. Ira loio viene enumerata quella dei Fugger (1). Ma mentre nominiamo questa casa, ci sembra che la nostra ricerca minacci di oltrepassare i limiti del medio-evo, del quale soltanto si deve occupare. „ nr„. Guglielmo He\d. I. Lettera a Genova delle città confederate sveve adunate in Ulma, composta e scritta dall’ nhnese Peter Neidhard cancelliere della atta. Magnifici ac generosi viri, promptitudine famulandi cum oblacione sincera promissis, exposuerant nobis cives et mercatores nostri dilecti, quod ipsi nec non alii mercatores alamanni consueverant ab antiquo in inclita civitate Janue ac districtu mercari et negotiari habuerintque non- (1) Marino Sanudo, Diarii I\, 28. GIORNALE LIGUSTICO nullas conventiones, pacta et immunitates, in quarum usu , stantibus turbationibus , in quibus ipsa civitas supi adictis temporibus multipliciter vexata est (i), necnon ipsis mercatoribus conventiones, pacta et immunitates memoratae aliquae luerunt in dubium perductae et propter vexationes collectorum introituum communis Januae non servatae , ipsique mercatores saepius molestati injuste et indebite, adeo quod justo timore moti mercantias suas ad ipsam civitatem Januae conducere et in eadem mercari et mansiones suas firmare ausi non fuerint. Nunc autem, cum gratia Onnipotentis sub dominio et regimine illustrissimi principis et domini domini Galiacii Slortia ducis Mediolani, domini nostri gratiossis-simi, ci\itas ipsa nec non districtus in bonum statum deducta ac itinera m pace constituta et a latronibus tuta sint, intendunt ipsi mercatores ipsam civitatem accedere et Deo dante in eadem et districtu ejus in brevi ita negotiari, quod magnificentiae vestre intelligant ex ipsorum negotiationibus multum commodi et utilitatis conferri intrantibus (2) et civibus civitatis, atque qua re magnificentias vestras affectuose rogamus, quatenus orare placeat, confirmare dictas conventiones, pacta et immunitates ac mandare per quemlibet magistratum Janue inviolabiliter observari et ultra m et circa promissa concedere, prout magnificentias vestras noster pre-sencium lator vivae vocis oraculo de verbo ad verbum ac capitulo ad capitulum luculentius certiores efficiet, nec non prefatos nostros cives et mercatores 111 singulis benevolo favore recommissos habere , adeo quod ipsi benevolentiis vestris allidantur ad civitatem predictam mercandi causa plus accedere et immunitatibus gaudere, utilitatem communitatis predictae et singularem nobis complacentiam toto pro posse promerendi fatentur — Ex Ulma sub sigillo secreto confederatorum nostrorum Magistri, Cives et consilii (3) civitatis Ulme. Die 11 mensis Augusti anno Domini 1466. — Oratores communitatum imperialium lige Suevie nunc Ulme congregati. Copiata dalla minuta appena intelligibile del Neidhard da Cari Fâ^er (vedi di lui : Ulms Verfassuugs =, bürgerlicbes und commercielles Lelen m Mntelaltcr 705) e da leggersi nella Ulmensia et Varia II «. τ2η, 38i da lui lasciate, appartenenti adesso all’archivio di Stuttgart. (.) Lacuna da riempirsi forse colle parole: band raro imfedùbaulur. (2) Log. ìnlroilibus. (3) Leg. magislri civium et consilii. giornale ligustico II. Conventiones Aliam anorum 1466, die 2; Decembris. Magnificus et Illustris Dominus Sagramorus Vicecomes, Ducalis in Janua vicegubernator, et Magnificum Consilium Dominorum Antianorum, in sufficienti numero congregatorum et quorum nomina sunt hec : Benedictus de Nigro, prior Nicolaus Italianus Franciscus Scalia Raphael de Auria Hieronimus de Montesoro Gabriel de Promontorio Obertus Folieta, notarius Jo. Baptista de Grimaldis Christophorus Cattaneus Hieronimus Gentilis, perlecta supplicacene coram eis porrecta pro parte Alamannorum tenons ut infra, et habito in ea re diligenti examine ac consultacene, et pre-sertim super his, que ad Comperas Sancti Georgi] (1) pertinere videbantur, et interposita ad hec omnia intelligenda opera atque medio nobilium et prestantium virorum domini Andree de Bemgassio utriusque juris doctoris et domini Luce de Grimaldis legum doctoris, domini Bap-tiste Spinule quondam G. et Antonij de Caciana, qui diligen.er, q posset atque deceret, et apud Magnificum Officium Sancti Georg,, et apu alios Magistratus perscruptati, demum quid invenissent retulerunt, ad unumquemque articolum petitionum in ipsa supplicatione contentarum ut infra, responderunt ac concesserunt et respondendum et conce tn uni decreverunt. Supplicationis propositionum tenor talis est: Vobis illustri et excelso domino domino ducali in Janua Locumtenenti et magnifico consilio dominorum antianorum Civitatis Janue exponitur per Enricum Franchum de Constantia nomine Alamanorum , quod ,ps, Alamani semper desiderarunt in hac inclita civitate Janue ac districtu mercari ac negociari, verum propter turbationes, que superioribus anms (O L'officio e gli azionisti della banca di S. Giorgio erano in ciò interessati, perche « questa Banca venivano dati in appalto i redditi doganali. GIORNALE LIGUSTIGO *5 ipsa [m J civitate[m] multipliciter vexarunt, ipsi mercatores Alamani justo timore ausi non sunt ad ipsam civitatem, mercantias suas conducere, ac m ipsa civitate mansiones firmare : nunc autem , cum Dei benignitate αν itas in bonum statum deducta sit et omnia in pace ac itinera a latronibus tuta sint, intendunt ad hanc civitatem accedere et ut sperant in ipsa civitate ac districtu brevi ita negociari, ut Dominatio vestra intelligat ex ipsorum negotiationibus multum commodi et utilitatis conferri introy-tibus ac civibus hujus civitatis. Sed quia ipsi Alamani habent nonnullas conventiones, pacta, privilegia et immunitates cum hac inclita civitate, que aliquando fuerunt in dubium reflicate [sic] et propter vexationes collectorum .introytuum comunis Janue non observate, et ipsi mercatores Alemam multipliciter sepius fuerunt molestati injuste ac indebite : idcirco suplicatur, quatenus prefata vestra Dominatio dignetur confirmare dictas conventiones, pacta, privilegia et immunitates, ac mandare, ut per quemlibet magistratum Janue debeant inviolabiliter observari , ac ultra super infrascriptis providere et concedere, ut infra requiritur per ipsos Afcmanos, ut sic ipsi Alamani, qui sua sponte volentes ad hanc civitatem mercandi causa accedere intendunt, etiam gratiis ac immunitatibus vestris ad id al-Iiciantur, prout sperant esse intentionis prefate vestre Dominationis. Primo requiritur : quia ipsi Alamani nunquam fuerunt soliti solvere pro introitu rippe nisi tres denarios pro libra, tam pro rebus per ipsos emptis quam per ipsos venditis aliis personis, tum a paucis annis citra molestantur collectoribus dicte rippe pro pluri ; quod declaretur, Alamanos non tener, solvere pro dicta rippa nisi dumtaxat dictos denarios tres pro libra, prout soliti sunt solvere, tam pro rebus ac mercibus per ipsos emptis quam Fer ipsos venditis aliis, personis, et quod ipsi Alamani nec ^Ulblls vendunt non possint pro pluri molestari. 2. Item quod ipsi Alamani in illis introitibus et maxime commerciis sive caratis pro quibus alii extranei et forenses ac cives minus solverent quam ips, Alamani, quod pari modo ipsi Alamani non tenerentur nec obligati smt solvere nisi tantum quantum solverent vel obligati sunt solvere alii extranei et seu cives Januenses. 3- Item quia ipsis Alamanis solum concessum est, quod Alamani nichil solvant pro cambi,s ab Alamania Januam vel e converso , pro cambiis vero .horum locorum tenentur solvere ut Januenses, declaretur, quod pro aliquibus cambns undecumque et pro quocumque loco factis seu fiendis 3b e‘S exiSatur Pro introitu dictorum cambiorum ac censarie et ut tractentur pro dictis cambiis, prout tractantur de cambiis de Alamania Januam et e converso. 16 GIORNALE LIGUSTICO 4. Item quod pro introitu pedagiorum non teneantur solvere nisi solum soldos quinque et denarios tres pro qualibet soma, prout soliti sunt solvere etiam pro rebus, que non essent conducte ex Alamania, sed ex quoqumque [sicj alio loco. 5. Item quod rauba ipsorum Alamanorum que conduceretur per terram in civitate Janue possit conduci ad domos ipsorum Alamanorum, absque necessitate ipsam conducendi ad duganam civitatis Janue. 6. Item quod alia rauba ac some ipsorum Alamanorum, et seu que conducerentur per ipsos Alamanos, non debeant segari in dugana per collectores introytuum comunis Janue, sed in domibus ipsorum A lama- norutn. jiuui. , 7. Item quod de rebus et mercibus quas dicti Alamani venderent in ripparia Janue extra civitatem Janue, ac tres potestacias (1), non teneantur nec possint molestari ipsi Alamani pro introitu rippe. 8 Item quia sepe ipsi Alamani molestantur a collectoribus introytuum comunis Janue, et ipsorum rauba retinetur in dugana et ad portam pro introytibus, de quibus ipsi Alamani pretendunt se non esse obligati, declaretur, quod prestita idonea satisfacione coram ipsorum consule de judicato solvendo, debeant ipsi Alamani ac ipsorum rauba relaxan et liberari. 9. Item quia ipsi Alamani ex forma dictarum conventionum possunt navigare solvendo sicut cives, et contra formam dictarum conventionum nuper per magnificum Officium Comperarum Sanet. Georgi, videtur ec a ratum fuisse, quod pro aluminibus conductis per ipsum Enr.cum per mare ad civitatem Janue solvi debeant libre sex, soldi 16 et denam octo pro centenario, et sic multu[mj plus quam solvant cives et etiam ah. ut pro-videatur, quod tam circa dicta alumina quam circa al.a de cetero cond -cenda panare per Alamanos serventur dicte conventiones, nec Alamani teneantur solvere plus quam solvant cives, et sic et.am ipse Enncus pro dictis aluminibus non teneatur solvere plus quam solvant aves. 10. Item quod collectores introytuum non possint intrare in domos ipsorum mercatorum Alamanorum, nec perquirere >n domibus, s.ne sensu consulis ipsorum Alamanorum. . , “ Item ,J ipsi Alamani possi», -epuri i» civi,a,e Ja» . p„,„veia Bisaeno, i quali dai tempi antichissimi apparie- il1 —-al amministrativo, p. 81S· GIORNALE LIGUSTICO I? presentanone bulletarum (1) et absque bulleta impune, non obstante quocumque decreto vel proclamatone que in contrarium contingeret fieri. 12. Item quod Alamani qui ceperint vel de cetero capient uxores Januenses sint immunes, ac gaudeant immunitatibus ac franchixiis ipsis Alamanis concessis, ac tractentur et tractari debeant sicut tractantur Lombardi capientes uxores Januenses sive in civitate Janue. 13. Item quia ipsis Alamanis comune Janue tenetur ac est obligatum, vigore dictarum conventionum, salvare ac deffendere bona ipsorum Alamanorum, et curare quod ipsis Alamanis de bonis spoliatis ac damnis illatis fiat restitutio integra, requiritur ut per prefatam Dominationem Janue provideatur, quod, pro predictis attendendis, prestetur cautio competens versus ipsos Alamanos in civitate Mediolani vel alia civitate extra Januam ac districtum. Primum memores amicitie veteris Alamanorum ac consuetudinis eorum apud Januenses, in qua benevolentia semper retenta est, et volentes in his, que honeste fieri possint, illis complacere, conventiones et privilegia ac concessiones quaslibet quandoqumque usque ad hanc diem illis concessas ac concessa approbaverunt atque confirmaverunt et firmas ac firma manere et servari debere voluerunt prout jacent. Et primo ad articulum ubi dicitur : « et primo quia ipsi Alamani nunquam fuerunt soliti solvere pro introytu rippe nisi tres denarios prout infra » — Respondetur et conceditur, quod pro quanto pertinet ad tempori [sicj preteiita usque ad eam diem, qua mota est controversia de ipsa rippa per Anthonium de Cassina nunc collectorem, dicti Alamani molestari seu cogi non possint ad solvendum nisi denarios tres pro libra tam per venditiones quam emptiones prout requiritur. A die vero mote controversie per dictum Anthonium citra usque ad finem temporis pro quo ipsa cabella rippe vendita est, quod est per totum annum proxime fututum, leserventur dicto Anthonio et aliis collectoribus jura sua, talia qualia sunt. Pro futuro vero tempore, post finitum tempus illius vendi-t onis, solvant Alamani prout supra per eos est requisitum et supra concessum. Ad secundum articulum ubi dicitur : « Item quod ipsi Alamani in illis introytibus et maxime comerchiis sive caratis » etc. (1) Atto (carta) di soggiorno. Giorn. Ligustico. Auno XII. ι8 GIORNALE LIGUSTICO Respondetur, quod serventur conventiones, nec posse requisitioni eorum assensum prebere, quia esset magna jactura reipublice si aliquid innovaretur in facto comerchiorum ; sed gaudeant Alamani beneficio suarum conventionum tales quales sunt, quod sufliceie illis potest. Ad tertium articulum ubi dicitur : « Item quia ipsis Alamanis solum concessum est, quod Alamani nichil solvant pro cambiis » etc. Respondetur et conceditur, quod ultra cambia Alamanie, ipsi Alamani etiam sint immunes pro cambiis illis dumtaxat, que alicui ipsorum Alamanorum venerint ad recipiendum in Janua ex Gebennis vel Lugduno (i), dummodo jurent ipsam monetam taliter cambii spectare ipsis Alamanis, quodque pecunie omnes talium cambiorum implicentur in civitate Janue, convertanturque in emptione mercium et non aliter ; et hec concessio locum habeat et initium post finitum tempus, quo cabella cambiorum nunc vendita est. Ad quartum capitulum sive articulum ubi dicitur: « quod pro introytu pedagiorum non teneantur solvere nisi solum solidos quinque et denarios tres » — Respondetur, nichil in hoc concedi posse aut variari propter ordine[m] pedagiorum, qui sine confusione mutari non possent. Ad quintum articulum ubi dicitur : « Item quod cambia ipsorum Alamanorum que conduce[n]tur per terram ad civitatem Janue » Lt pari modo ad sextum ubi dicitur: « Item quod rauba et some ipsorum Alamanorum , et seu que conducentur per ipsos Alamanos » Respondetur ad utrumque et conceditur, quod ipsi Alamani conducere possint ad eorum domos ballas mercium suarum minutarum, obtenta tamen prius licentia a collectoribus comerchiorum , qui tamen obligati non sint dare eis dictam licentiam , nisi prius bullari fecerint dictas ballas et prestiti fuerint ab ipsis Alamanis , ad quos tales merces pertinebunt, idonei fidejussores, quod dicte balle non solventur aut disligabuntur nisi in presentia factorum comerchiorum et de licentia eorum; posteaquam solute fuerint sive disligate, si Alemani non remanserint de acordio cum çomerchiaris de valore mercium, eo casu ipsi fidejussores teneantur........ solvere comerchiis pro ipsis mercibus secundum taxationem valoris deda- (i) 1 celebri mercati di Ginevra e Lione furono dai mercanti tedeschi e dagli svevi specialmente, frequentali assiduamente. Ved. Sammlung ier alleni, tiigeniss Abschieie. Bd. Ili, S. 369, 415, 625, 645, 680. Bd. II, Abtb. I, S. 600, 609. Le cambiali di questi mercati avevano corso come quelle dei mercati di Champagne. GIORNALE LIGUSTICO randarn per ipsos comerchiarios, vel saltem omnes ipsjs merces reponi facere in doana Genue. Ad septimum ubi dicitur : « Item quod de rebus et mercibus, quas dicti Alamani venderent in riparia Janue » — Respondetur ac conceditur, quod ipsi Alamani non teneantur solvere gabellam rippe in . . . Janua pro mercibus vendendis ad minutum in districtu Janue, videlicet extra civitatem et tres potestacias , dummodo aliquis ipsorum in uno viagio vendere non possit merces nisi usque ad valorem librarum centum monete Janue. Ad octavum articulum ubi dicitur : « Item quia sepe ipsi Alamani molestantur a collectoribus introytuum comunis Janue » — Respondetur, non posse huic articulo assensum prebere propter ordines in jurisditione cabellarum factos, qui nequaquam possunt infringi. Ad nonum ubi dicitur : « Item quod ipsi Alamani ex forma conventionum possunt navigare » — Respondetur, non posse aliud concedi nisi sicut dictum est in responsione secundi articuli, videlicet quod serventur conventiones. Ad decimum articulum ubi dicitur: « Item quod collectores introytuum non possint intrare in domos ipsorum mercatorum Alamanorum » — Respondetur, non posse hoc concedi, quia esset omnino contra leges et ordines comerchiorum et aliarum cabellarum, nec quispiam gaudere hujusmodi privilegio quod petitur. Ad decimumprimum ubi dicitur: « Item quod ipsi Alamani possint receptari in civitate Janue per quoscumque cives hospites » — Respondetur et conceditur prout petitur, nisi esset suspitio pestis. Ad duodecimum ubi dicitur : « Item quando Alamani, qui ceperint, vel de cetero capientes uxores Januenses, sint immunes » — Respondetur et conceditur, quod Alamani qui ceperint vel de cetero capiant uxores Januenses, in civitate Janue sint immunes et gaudeant immunitatibus et franchisiis quantum pro oneribus publicis , scilicet avariis, mutuis, impositionibus ac fochagiis (i) comunis Janue, exclusis per expressum cabellis, et hoc usque in annos decem a die qua ipsi uxores ce-pcrint, dummodo habitent in civitate Janue cum dicta familia usque ad dictum tempus decennii. Ad decimum tertium articulum ubi dicitur : « Item quia ipsis Alamanis comune Janue tenetur et est obligatum » _ (i) Tassa sulle abitazioni, cosi detta dal focolare. 20 GIORNALE LIGUSTICO Respondetur, hoc non posse concedi, quia ex hoc daretur loisitan materia multis male agendi. Quas novas concessiones ac declarationes ipse magnificus et illustris Dominus Sagramorus Vicecomes, ducalis in Janua vicegubernator, magm-ficumque consilium Dominorum Antianorum durare voluerunt ac decreverunt usque dumtaxat in decenium et non ultra, nisi aliter et de novo concederentur atque approbarentur; in quorum testimonium présentes novas concessiones fieri jusserunt nostrique sigilli magni consueti munimine roborari. ιφη. die 12 Ianuarii. Spectatum Officium Monete anni proximi superioris, in pleno numero in sua camera congregatum, intellecto articulo, de quo fit mentio dicte immunitatis avariarum, mutuorum et seu fochagiorum comunis J.mue concessa Alamanis, qui ceperint vel de cetero capient uxores Januense , usque in decenium prout in eo articulo continetur, examine inter sese habito, sub calculis omnibus albis affirmativam significantibus;, ille immunitati consentit, prout 111 articulo continetur, exclusis tamen his, qui ante dictam concessionem sive immunitatem uxores cepissent, qui 111 eo statu et gradu remanere intelligantur, in quo erant ante dictam concessionem. Il precedente contratto, sulle traccie del quale mi guidò 1 Olivieri (Cui e cronache manoscritte per la Storia genovese esistenti nella Biblioteca della R. Università di Genova) sembra non esistere più nell’originale. Una copia di mano posteriore forma parte del Cod. miscellaneo C.\. i- della dell’ Università di Genova , intit. Contractus varii, dove occupa le pagine 107-112. Il cav. Cornelio Desimoni fu tanto gentile da procurarmene copia. III. Pro Enrico Francho de Alamania. Illustri et excelse dominationi vestre et venerando consilio dominorum antianorum, consilio.....civitatis Janue, humiliter et devote supplicat Enricus Franchus mercator Alamannus, moram trahens m dicta vestra inclita civitate tamquam socius, factor et negociorum gestor societatis Ala- GIORNALE LIGUSTICO 21 mannorum, que dicitur de Josumpis, exponens, quod hiis proximis diebus preteritis nobilis Benedictus de Auria et Julianus Corsus, patroni duarum navium, acceperunt quamdam navem -patronizatam per quemdam Gua-dagnum Venturam, civem florentinum, que recesserat de Tortoza pro navigando Niciam seu portum Vile Franche, in qua quidem navi reperie-runt certam quantitatem lanarum et certam quantitatem agninorum et da-tilorum, qui erant et sunt dicte societatis et onerate per quemdam Ala-manum factorem dicte societatis in dictis partibus et conducebantur per quemdam conductorem Alamanum etiam repertum in dicta navi. Habita igitur dicta noticia de predictis, dictus Enricus subito fuit loquutus tacito modo in Janua dicto Benedicto, quod vellet sibi restitui facere dictas merces Alamanorum amicorum comunis Janue: qui Benedictus de Auria patronus respondit eidem Enrico supplicanti largo modo, quod pro parte sua erat contentus illas merces et raubas restituere eidem Enrico , et hoc quia in mente sua est clarus et eidem constat dictas lanas, res et merces esse Alamanorum, et illas libenter restitueret eidem Enrico; sed (quod?) dicta restitutio non est in potestate sua illas eidem restituere, quia navis dicti Juliani Corsi illam per vim conduxit Saonam [SavonamJ preter et contra voluntatem illorum , qui erant parte dicti Benedicti in navi dicti Guadagni Venture. Et dubitat ipse Enricus, ne forte dicte merces ipsius lambudentur vel pro aliqua parte consignentur dicto Juliano Corso, contra quem cum magna dincultate posset jus suum obtinere. Dignetur vestra illustris Dominatio et vestrum venerandum consilium per literas vestre Dominacionis mandare et committere potestati, consilio et comuni Saone, quod eidem Enrico latori presentium restituantur, tradantur et libere consignentur dicte lane, res et merces libere et sine aliquo impedimento ; et si pars aliqua esset lambudata , quod dicta lambudatio eidem restituatur, cum, si aliter fieret, dictus Enricus esset spoliatus bonis suis et Alamani expoliati, qui semper fuerunt et sunt amici benevoli et conjuncti magnifici comunis janue. [1 cav. Cornelio Desimoni trovò questo Documento nella sezione Diversorum dell’Archivio di Stato Genovese, e me ne mandò gentilmente una copia scritta di proprio pugno. 22 GIORNALE LIGUSTICO VITA PRIVATA DEI GENOVESI LA DONNA DEL SECOLO XV NELLA STORIA. I. Anche nello studio della donna, circoscritta in un determinato clima storico, parmi che si dovrebbe aver a mente il divario che poneva Francesco da Barberino , con bonarietà antica, tra le dame e le pedine, tra le figliuole dei gran Ridi corona e quelle dei gentiluomini, o tra queste e le figliuole dei lavoratori di terra e d’altri simigliatiti (i). La confusione che parlando della donna del Rinascimento si suol fare, o nella determinazione del tempo, o nel grado sociale onde si tolgono gli esempi, mi è sempre sembrata fonte di giudizi, facili senza dubbio, ma affrettati ed erronei. È osservazione acuta del Guizot (2) che « in qualsivoglia momento noi consideriamo la vita di un’uomo, non ve n’ha alcuno nel quale egli sia tale e quale lo vediamo, quando il termine di essa vita è raggiunto ». Molti fatti oscuri del pensiero e del sentimento individuale rimangono incompresi, 0 ricevono, non di rado, una falsa interpretazione, solo per non essersi tenuto conto « che gli uomini si formano dal lato morale come dal fisico, che essi mutano ogni giorno, che il loi modo d’ essere si modifica incessantemente » (3). Che cosa non si dovrà poi dire di un secolo? E di quanto non sara (1) Da Barberino, Reggimento e Costume delle donne, parte 1.· (2) Guizot, Histoire de la civilisation en Europe, Bruxelles, Hauman et C., 1835, p. 180. (3) Guizct, op. cit. 180. GIORNALE LIGUSTICO accresciuto l’errore se il secolo è come il XV, per cosi dii e, il vestibolo del mondo moderno, un periodo di transizione in cui le due civiltà diametralmente opposte, la pagana e la medioevalc, contendentisi il governo della società, costituiscono una fantasmagoria di permutazioni senza tregua? Gli studiosi del Rinascimento sanno che dai primi anni del quattrocento, tra i fortunosi avvenimenti dei concilii di Costanza e di Basilea, e lo scisma perturbatore delle coscienze, allo scorcio del secolo, quando nella decadenza quasi fatale e misteriosa della vita italiana, preparavasi 1’asservimento della patria, tra cotesti due termini, dico, gli studiosi sanno che il divario è profondo, degnissimo di nota. Lo stesso dicasi delle differenze tra classe e classe, appena appianate dalla civiltà odierna, ma pertinaci e sensibilissime in quei secoli. Sono distinzioni non bene osservate dagli storici di cotesto solenne rivolgimento sociale. Se per un esempio leggiamo attentamente il Burckardt, nelle acute osservazioni che egli vien facendo in molti luoghi del suo libro (i), ed in ispecie nel capitolo. Condizione della donna, non è difficile accorgersi che egli si e feimato nel suo esame alle classi più elevate dell’epoca, che le sue sono le graziose ed eleganti donne che allietavano le Corti italiane d’allora, che siffatte in somma dovevano essere Elisabetta Gonzaga, Veronica Gambara, Vittoria Colonna, e quante altre bellissime dame furono corteggiate da cavalieri ed esaltate da’ poeti, sfolgorando il Rinascimento ; ma dii potrebbe dire che quella vita muliebre sia stata con ciò, còlta e, dirci anche, sorpresa in tutti i molteplici e fugaci suoi atteggiamenti? Che tra Elisabetta Gonzaga arridente al Castiglione nelle sale del ducal palazzo di Urbino, quando egli ragionava di gentilezze e d’ amori tia ciocchi di gentildonne amabilmente assorte in lui tra (i) La civiìià del Rinascimento, traduz. Valbusa v. II. c. VI 24 GIORNALE LIGUSTICO Cassandra Fedele cui il Poliziano scriveva lettere di feivida ammirazione, e la povera madre abruzzese, onde nari a Gio-viano Pontano, che si studiava tener allegro il figliuolo, mentre era avviato al patibolo: che tra questi estiemi, non ci sia posto per molte gradazioni, per infinite differenze e sfumature di sentimento ? Certo lo studio di coteste differenze è difficile, è difficile comporre ad armonia le ragioni di tante varietà, lo sceveiaie, come giustamente osservava il compianto U. A. Cannello, tra i fatti che njn hanno valore alcuno , altri che hanno in sè tutto il secreto di quella vita , tra ciò che in somma è fenomeno quotidiano, tutto Γ altro che è sporadico, assolutamente eccezionale. Senza dire che sul conto va posta una circostanza aggravante, ossia che le notizie, i documenti non difettano per le classi elevate, ma per quel che riguarda il popolo bisogna star contenti di fugaci accenni, di indizi soventi volte piuttosto lasciati indovinare che espressi. Cosa del resto che è perfettamente naturale; la storia 1 hanno sempre scritta o fatta scrivere 1 nobili, i ricchi, gli ottimi per uso e consumo loro: il popolo ha ben altro da pensate. Ma per fortuna in Italia non tutto era patrizi e plebe. La nostra penisola che, a detta di un illustre contemporaneo (i), « dalle ruine di Roma era risorta col senso dell’ Italia sociale, dell’ Italia delle confederazioni sannitiche ed etnische », aveva dato, per tempo, nascimento ad una numerosae loi te borghesia, che non ebbe piccola parte, ne poco gloriosa, nella storia italiana. E nel secolo XV per giunta era sul crescere : le maestranze medioevali in quell assetto monarchico damano il tracollo, per far luogo al ceto medio che riduceva nelle sue mani i traffici e la politica, e talvolta era che inen~antucci cresciuti tra i libri della ragion di commercio salissero al (i) Carducci, Studi Letterari, p. 113. GIORNALE LIGUSTICO 25 principato. Oltre alle illustri donne di corte che non comprendono tutto il mondo muliebre, sebben ne formino la parte più elegante d allora, sonvi dunque anche coteste popolani grasse, coteste gentildonne popolaresche, figliuole di mercanti, o altri popolari, ma ricchi, che vogliono condurre, Come gentili lor modi e lor vite (1), e non importano meno delle vere gentildonne a ritrarre ciò che il Fauriel chiamava ii sentimento reale dell’ epoca. Sgraziatamente per Genova (e vi includo tutto il dominio della Repubblica) la storia intima del popolo, onde tanta parte rimane ancora a conoscere, quella storia intima che il Tommaseo voleva penetrasse dalla famiglia nella vita « delle anime singole, massimamente delle più degne » (2), riesce monca ed imperfetta. Manca per Genova ciò di cui un’ altra provincia privilegiata ha ìicchezza, voglio dire il documento intimo che faccia riscontro a quella storia, 1’ epistolario sincrono, il trattato molale, e in somma quasi ogni monumento letterario che ci conceda di scrutare le pieghe intentate di quei cuori. Rimangono, è ben vero, i fuggitivi accenni degli Annalisti , le Carte dell’Archivio di Stato, e queste in copia, ma è lettela moita che lascia difetto di ciò che appunto tornerebbe più utile e caro, ossia della vena spontanea del pensiero e del sentimento, la quale rampolli di sotto la montagna dei secoli, non ptovocata da quel vizio di impotenti che noi gabelliamo per sapienza critica. Ad ogni modo pur confessando che povertà sia, è povertà decorosa che potrà anche farci condonare qualche congettura, senza che il vizio nominato di sopra abbia 1’ aggravante della leggerezza. E gli opportuni (1) Da Barberino, op. cit., parte 1.* (2) Tommaseo, Dizionario estetico, Firenze successori Le Monnier, 186-1221. ’ 26 GIORNALE LIGUSTICO riferimenti ai fatti analoghi che accadevano in alti e piovince d’Italia, fotti de’ quali il significato intimo ci è rivelato dalle scritture sincrone, può aggiungere a quelle valore di conferma. Proviamoci dunque a rappresentare in quel modo che ci pare conforme alla storica verità la donna del più civile medio-evo, la donna che si compiaceva di vesti sfoggiate nelle feste cittadine, che pregava dinanzi ad un ancona di un pittore lombardo per i figliuoli partiti sulle galee rivolte al lontano Oriente, a Pera, a Galata, a Caffa, aie scapestrava nelle lascivie e correva con ardore devoto a mescolarsi tra le turbe penitenti de’ bianco vestiti, ritratto fedele di tempi che volgevano pieni di contraddizioni come la sua anima. II. Il secolo XV, come tutte le età di transizione, è difficile a ritrarsi con verità nel suo insieme. La raffigurazione di tante opposte tendenze o lascia dubbiosi e quasi diffidenti, o ci fa stare a rischio di dare come verità ciò che ne è un lato solo, e forse il meno rilevante. E converrebbe per contro rappresentare nella sua legge generale il magnifico insorgere di tante forze anarchiche, per dedurne infine quella moralità storica, che è una cosa molto molto diversa da certi giudizi etici campati nell’ assoluto e nel vuoto. Ma pei noi forse è già troppo se ne tentiamo anche uno sbozzo, trattando del femminile nel quattrocento. Si contrastavano 1 impero degli animi grandi peccati e una certa rozza schiettezza che piace ; grandi terrori spiranti su dalla caligine medio evale e le mirabili inconseguenze dell’uomo nuovo; un fervore indomito di audaci pagane instaui azioni pur tra la fede sincera nella religione de’ padri. E tutto ciò trovava modo di coesistere non solo nello stesso momento stoiico, ma GIORNALE LIGUSTICO 2? anche in uno stesso uomo. Volgete poche pagine di Vespasiano Fiorentino , forse uno tra i più candidi scrittori di quei tempi (1). yj apparisce subito un fatto strano: que’ princi-POtti italiani che non rifuggivano mai da una perfidia purché utile, purché ingegnosa, sono in generale religiosissimi. Era ipocrisia? No, era la conseguenza necessaria del concetto pagano che si aveva dello stato, messo in opposizione con lo spirito ascetico che entrava ancora per tanta parte nella vita. Senza dubbio ha ragione Vespasiano se si considerino que principi nell’ intimità delle pareti domestiche, ma la Signoria era tutt’altra cosa; un giuoco d’equilibrio, una sapiente combinazione di forze, e il Signore nella ragion di stato non teneva conto nè di fede nè di morale. Quanto allo spirito ascetico, gli mancava ormai ogni valore per condurre esclusivamente ad un’ inerte contemplazione medio-evale, o almeno ciò non si verificava se non nel minor numero delle nature, portate dalla soverchiante immaginazione ad un misticismo esagerato. Mancava insomma al Rinascimento italiano Γ armonica pieghevolezza del genio °;reco, quella felice attitudine, onde questo ritrovava senza fatica nei nuovi orizzonti, che 1’ ellenismo veniva dischiudendo, la base naturale della moralità, e ciò senza scosse, mercè una continua evoluzione che forma il secreto meraviglioso del mondo gieco, ed è ancora un desiderio dell’odierno. Ciò il Rinascimento non ebbe, e non poteva avere. Perchè difatti il giorno che la verità intravveduta da intelletti abborrenti di freno, e la prima l’effervescenza di una vita nuova, ebbero dimostrato ripugnante alla ragione la fede, vissuta fin allora all’ombra di una sanzione trascendente, in quel giorno, sorse un profondo inguaribile dissidio nella co- ^ (0 Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri, mi valgo del-l’ediz. di Firenze, Barbèra, Bianchi e Comp., 1859. 28 GIORNALE LIGUSTICO scienza umana, dissidio cui non poteva soccorrere il cristianesimo troppo dissimile dalla stupenda versatilità del politeismo greco. Cosi Γ interezza de’ caratteri si spezzava dolorosamente nella faticosa altalena di aspirazioni cozzanti fra loro, e la lieta vita della quale, fanno concorde testimonianza i novellieri del XIV e XV secolo, dava luogo man mano alla mestizia che incombe con gravezza plumbea sulla seconda metà del cinquecento. E fra tanto il dissidio varcando i deboli confini che lo costringevano, degenerava in anarchia: una confusione religiosa, uno scetticismo universale da cui pullularono come in loro terreno la perversa scienza di Stato del Guicciardini , la politica infame di Cesare Borgia. _ . Restiamo nel quattrocento. Voi vi trovate un principe, a petto del quale scarse son le faccie dell’ umano poliedro, che nelle linee del viso duramente risentite fa ritratto delle tempeste dell’animo, Lorenzo de’ Medici; un birbante fortunato che serenamente coglie tutti i fiori del male, e previene la satanica sapienza di mezzo secolo dopo, Sigismondo Malatesta; una minoranza di buoni che vorrebbe, se possibile, punte-lare lo scosso edilìzio della fede, congiungere le forme ^ e passato morto, con quelle dell’avvenire riboccanti di vita, il supplizio di Messenzio ; i soliti conservatori che negano 1’ avvenire, il progresso, 1’ evidenza e minacciano guai a chi attenta alla ròcca del passato, salda per loro come monte di bronzo; la folla che al solito si confonde e devia nell una o nell’altra direzione. Ponete in luogo della région di stato, del culto per il paganesimo, la vanità muliebre, il bisogno di parere, la smania dei passatempi cui facea contrasto un ascetismo esagerato, offuscato dai delirii della passione, dai superbiosi terrori dell’oltre tomba, ecco la donna. Consideriamola più da vicino. A’ dì 2 maggio 1384 (siamo alle porte del X ) Antonio di Vernazza e Santina sua moglie convengono tra GIORNALE LIGUSTICO 29 loro con atto rogato da pubblico notaio, come qualmente al marito sarà lecito tenere quella concubina che vorrà, e alla moglie dal canto suo non sarà disdetto pigliarsi un amicum, col quale, diciamolo in latino via, se iungere ad eius liberam voluntatem sine metu alicuius poenae (1). Un grazioso ménage, non vi pare? Rabelais l’avrebbe coperto con una delle sue grasse risate. Nel 1521 Argentina Gentile vedova di Agostino Lo-mellino, accusa nel proprio testamento di orribili colpe le due figliuole Peretta e Novellina. Avvelenatrici del padre e la seconda anche di un nipote, più volte erano trascorse a minaccie, ed anche a peggio Novellina, colla spada alla mano, contro la testatrice (2). Par di leggere le prodezze della Brin-villiers, o di alcun altra fra le donne francesi rivali di Locu-sta, regnando felicemente il Re Sole. Il secolo XV era finito. Ma è la donna genovese costei? Osseiviamone un altro aspetto. Nel 1399, sulla soglia del Rinascimento, un meraviglioso commovimento di popoli rinnovava anche una volta in Italia i delirii ascetici di cui fu spettatore il secolo XIII colle compagnie de’ Flagellanti. Di Genova così ta ricordanza Giorgio Stella ne’ suoi annali: « In uno dei lunghi ed afosi giorni di Luglio, nell’ora del mezzodì, entrò in città la devota turba, uomini, donne, fanciulli in numero di circa cinquemila. E se ne venivano a due a due in processione, scalzi, con indosso da capo a piè una veste bianca, cantando lo Stabat mater. Dei cittadini chi rideva, chi rompeva per contrizione in lacrime ». E prosegue: « molte donne, vergini, maritate, vedove vestirono il bianco sacco de’ pellegrini e da Genova uscirono, verso Recco, pei convertire gli abitanti del littorale alla nuova devozione. In città poi le processioni crescevano a furore, guidate dal clero (1) Belgrano , Vita privala de’ Genovesi, 419. (2) Belgrano, op. cit., 422. 30 GIORNALE LIGUSTICO aneli’esso bianco-vestito, e l’arcivescovo Giacomo del Fiesco seta alba coopertus veniva sopra un cavallo, quia senex et languens sine equo ire non poterat (i). Oh sì, preghiere che ammorzino l’ire fatali sempre pronte a riardere, e bianco, bianco da per tutto, che nasconda il rosseggiar del molto sangue sparso dalle fazioni. Ma ripetiamolo ancora: è la donna genovese costei? non la donna veramente, ma uno de’ molteplici suoi aspetti. Eccone un altro, per esempio, un po’ diverso. « Nel 14155 governando Tommaso Fregoso, in un solenne festino si numerarono più di settecento donne, così nobili come popolali, vestite di drappi d’oro e cariche di brillanti » (2). Verità senza dubbio c’ è in ciascuno di essi, perchè in ciascuno di cotesti aspetti si era sinceri, ma la verità intera deve ricercarsi non in una sola, bensì in tutte le faccie del poliedro. Nè d’ altra parte la donna avrebbe potuto sottrarsi agli influssi de’ suoi tempi. Noi ci sentiamo rivoltare l’animo allo spettacolo di celti scapestramene, di certe colpe: anche questo è sentimento umano, ma si badi : i documenti dell’ Archivio di Stato parlano molto più forte sulla condotta sregolata del sesso forte: mariti che mantengono concubine, mariti che battono le mogli e ne dilapidano le doti, mariti che danno una suprema prova d’affetto alla loro donna, avvelenandola (3). Ciò nel più reo dei casi. (1) Riassumo dallo Stf.lla, Annales Genuenses, apud Murat., S. R. I, XVII, col. II73 e segg· (2) Serra, Storia di Genova, III, lib. VI, cap. 4· (3) Nei Codici Div. dell’ Arch. di Stato sotto la data 21 Luglio 1484 trovasi il ricorso di una Madonna Peretta al Doge e Consiglio contro il marito Giovanni Battista Calvo, « qui oblitus quid virum bonum matrimo-nioqne alligatum facere deleat, hona sua large effundit et sordide dilapidat, et quod pessimum est in uxore quotidianis conviciis et quandoque verberibus giornale ligustico 3 1 nelle condizioni normali non era difficile vedere il padre allevare in casa alla pari de’ figli legittimi anche i naturali, collocandoli nello stesso grado di onore. Fatti che si risconti ano un po’ da per tutto. Un austera gentildonna fiorentina, F Alessandra Macinghi negli Stiozzi, di provata virtù, amorosa de’ figliuoli , nel 1451 da la figlia giovinetta in moglie ad un Giovanni Bonsi che aveva vent anni più di lei, e che per giunta si teneva in casa un Giiolamo suo figliuolo nato di serva (1). E quel che vai meglio a 1 itrarre i tempi, ecco che cosa ella scriveva di co-testo matrimonio al figliuolo Filippo: « Del mese passato... fusti avvisato come abbiano maritata la Lesandra a Giovanni di Donato Bonsi eh’è giovane dabbene e virtuoso e d’assai, ed ha tante buone parti in sè , che i’ tengo certo eli’ ella istarà bene quanto io » (2). O la famiglia, chiederà il lettole, come stava la famiglia con siffatta promiscuità? Certo 1 esempio non jra bello : eppure è sempre vero che una cattiva istituzione 0 un cattivo costume non produce mai tutto il male che virtualmente contiene. Non a torto il quattrocento be nome di secolo dei bastardi, e cionondimeno i vincoli della famiglia durarono fortissimi, e 1’ educazione impartita a figliuoli fu quanto bastasse sana e virile per produrre da cui risulta che Oriet Una Negrone mferma in casa del padre era stata avvelenata dal Ettore Spinola. Cfr. Belgrano, op. cit. 410 marito seoS’ (1) Lettere di una gentildonna fiorent. del Sec. XV pubbl. da Cesare Guasti, Firenze 1877, p. 122. (2) Op. cit. lett. X, p. 115, 32 GIORNALE LIGUSTICO buon costume i Gesuiti, o del settecento, troneggiarne Γ Arcadie e gli abatini graziosi mecenati di pastori e pastorelle incipriate. Quanto alla strana costumanza accennata, non poca influenza forse esercitarono i viaggi in levante e in ponente cui allora si dava numerosa la gioventù delle città mai inaie e commercianti sulle galee della patria (i). Ne avveniva un pericoloso contatto con schiave d’ogni nozione, e la schiava diventava ben presto concubina, quando non aveva 1 abilità di farsi domina addirittura. E allora i giovani cui' pareva di stai bene così, si capisce che non avessero una gran fletta di tòr moglie, e pigliavano tempo come colui che « voleva indugiar la morte e il pagamento il più che poteva » (2). Siffatte idee sul matrimonio dovevano condurre ad una classe distinta di cortigiane, che prima si venne costituendo in Italia coll’ abolizione della schiavitù, ossia alle grandi etère di Roma, Firenze, Venezia, a quelle che il Burcardo chiamava cortisanae honestae. Non so se potesse dirsi tale quella di cui parla 1 I-vani, celiando molto graziosamente, in una sua lettera, credo del 1464, quando egli si recò a. Firenze, per commissione di Ludovico Campofregoso suo signore (3). È certo per (1) Cfr. Guasti, Prefaz. all’ op. cit. p, XXX ove assegna questa causa per la gioventù fiorentina. (2) Così la Macinghi Strozzi, Op. cit. lett. XXIX, p. 280, non senza una lieve tinta d’ironia. (3) La riporto dall’apografo del Bertoloni del quale, come del manoscritto Ivaniano, debbo cognizione alla gentilezza del Prof. A. Neri: « Antonius Yvanus Alexandro suo Cremonensi s. d. — Non me latet quam Jheronimo nostro de Palma prò tua singulari humanitate afficeris. Proinde equum censui hanc ad te dare, nescius ubi ipse sit, et incertus an litterae nostrae tuto ad eum queant pervenire. Cum igitur saepe in aula mediolanensi et potissimum apud te versetur cum primum illum videris, nuncies ei velim me Florentia his elapsis diebus fuisse: ubi spe- GIORNALE LIGUSTICO 33 altro che sulla fine del XV, se non prima, la cortigiana rispondente ad una idealità propria del tempo (i) si veniva formando in molte parti d’Italia, e per la gentilezza del costume credo con più vantaggio del concubinato medio-evale grossolano e brutale, non capace insomma di alcuna artistica bellezza. Forse era per questo che Francesco da Barberino non voleva parlar di meretrici nel suo libro sulle donne: Le quali non intendo Mettere in iscrittura, Nè far di lor menzione, Che non son degne di esser nominate (2). Lasciamole stare anche noi e veniamo al vero mondo muliebre. La divisione già fatta tra coloro che volevano cor- ciosissimam Elisabettam suam, eius nomine quam potui modestiam salutavi. Haec cum venustissime subrideret, meque sidereis eius oculis intueretur, visa est cupere longiori mecum sermone uti posse. Quo tandem effectum est ut inter civem quemdam pisanum novum hospitem et me, acerba contentio exorta sit. Studuit enim quot potuit artibus arrogare sibi cancellum cubiculi, per quod Jheronimus tela sua iacere consuevit. Accinxerat iam sibi pharetram pisanus. Arcum surripui , sagittas fregi, ne cervam languentem venatione nostra novus ipse venator insectaretur. Verbis diu contendimus. Tandem cum ad verbera esset veniendum , cessit ipse loco. Paucos post dies recessi, negociis nostris expeditis , et ipsa puellarum diva lachrimabundis oculis remansit ; sed ad amicum amandum egregie meis artibus accomodata. Urbe pisanum eiicere non licuit. Redierit ad silvam credo novis armis accintus cum primum me abiisse intellexerit. Iure igitur amicitae hortaberis Jheronimum nostrum, mi Alexander, quod si amor praestantissimae virginis est ei periocundus, arma expediat, quibus iura sua virtute propria tueatur. Vale , XV kal. Aprii. ». (1) Ferrai, Lettere di cortigiane del sec. XVI. Firenze 1884., p. 9. (2) Da Barberino, Op. cit., parte prima. Giorn. Ligustico. Anno XII. 3 34 GIORNALE LIGUSTICO rere, anche a pericolo di fiaccarsi il collo, e quelli che pretendevano star fermi ad ogni costo, apparisce anche qui. Basta per avvedersene leggere il discorso che il Boccaccio mette in bocca a Pampinea nella prima giornata del Decameron. « Io mi vergogno di dirlo, per ciò che contro alle altre (donne) non posso dire, che io contro a me non dica: queste così pregiate , così dipinte, o, come statue di marmo, mutole et insensibili stanno, o sì rispondono, se sono addo-mandate, che molto sarebbe meglio l’aver taciuto; e fannosi a credere che da purità di animo proceda il non sapere tra le donne e co’ valenti uomini favellare ; et alla loro milen-saggine hanno posto nome onestà, quasi niuna donna onesta sia , se non colei che colla fante o colla lavandaia o colla sua fornaia favella... » (i). Chi eran costoro che Pampinea sì sprezzatamele denomina melense, se non le caste spose di quegli ostinati conservatori, dagli acuti ed atroci denti dei quali duolsi più oltre il novelliere stesso di essere sospinto, molestato ed infino nel vivo trafitto ? (2). E si capisce anche che cotesta ruggine zotica e spigolistra dovesse in fine urtare contro tutte le tendenze del rinascimento , contro quelle dottrine d’ amore che i romanzi cavallereschi avevano diffuso in Italia e la filosofia platonica veniva affinando, contro l’individualità che nella parte eletta della nazione si accentuava sempre più, anche nella donna. Romanzi molti difatti leggevano le donne, quelli del Boccacci pare con predilezione. Il B. Pietro Geremia che predicava nella prima metà del secolo, in uno de’ suoi sermoni rimproverava l’uditorio (e non è difficile indovinare che si sarà rivolto specialmente al sesso più gentile) di essere tutto dedito alla lettura dei libri detti Cento novelle e Filostrato e (1) Decameron, Giorn. I, nov. X. (2) Decameron, introduz. alla giorn. IV. GIORNALE LIGUSTICO 35 non a quella delle cose divine che son più dolci del mèle ecc. ecc. (i). E con tutto ciò guardiamoci, per P amor di Dio, dalle esagerazioni. Chi, per un esempio, dicesse che nel quattro-cento ancora, nel secolo di Lorenzo Valla e di Poggio Bracciolini, si respirava il misticismo a pieni polmoni, non pi-glierebbe poi quel grosso errore che a tutta prima si potrebbe credere. Il Guasti a proposito delle lettere di Ser Lapo Mazzei, ha potuto dire che il secolo del Decameron era profondamente ascetico (2), e ha detto la verità, purché sia inteso con discrezione. A ciò cooperavano le frequenti cerimonie religiose, le relazioni numerosissime che tutti in quel tempo avevano con monasteri (e di monasteri per esempio Genova era piena nel sec. XV), i ricordi che i primi anni trascorsi colà lasciavano negli animi femminili (3), e sopra tutto quello stato di violenza, di perpetua contraddizione cui ho accennato da principio. Il Bonghi, in un libro di poche pagine che è un capolavoro, ha osservato giustamente : « Si può star sicuri, che sino a che una fede non ha perso tutto il vigor suo, e la sua radice non s’è del tutto inaridita nelle menti e nei cuori , non s’ecclissa se non per ritornare da capo nella sua luce di prima e talvolta ancora più viva » (4). E nel quattrocento durava, malgrado lo scetticismo invadente, un certo ardore (1) B. Petrus Hieremia, Ord. Praedic., Sermones, ms. Biblioteca della R. Università A. Ili, 17, p. 196. (2) Mazzei, Lettere, per cura di Cesare Guasti, Firenze 1880, p. 93 del proemio. (3) Staglieno , Le donne nell’ antica società genovese, Genova, Sordomuti 1879, a pag. 10 dice che « ai monasteri di femmine nei secoli scorsi era riservato, si può dire, il privilegio, dell’educazione femminile ». (4) Bonghi, Francesco d’Assisi, Città di Castello, Lapi, 1884, p. 16. 56 GIORNALE LIGUSTICO di macerazioni monastiche che non era sempre annegamento dello spirito, ma un’ elevazione virile di anime che dalle brevi tempeste guardavano alla patria del cielo. Cotesto grido di stanchezza erompe ad intervalli lungo tutto il secolo. Vedete un tratto le lettere già citate di Ser Lapo Mazzei, e, tra molti altri, il seguente brano all’amico Datini: « Ben disse uno eh’ io vi dirò, parte di quello eh’ io vi scrissi ieri, cioè biasimandovi che non sapea vedere però, che animo si fosse il vostro, a vivere in tante ricadie e viluppi sanza bisogno (la ragion di commercio cui il Datini attendeva) e che la gente vi toglieva per questo , vostra fama in parte. Ora Iddio vi dirizzi in quella parte, che voi torniate più agevolmente a lui che vi mandò in questo viluppo del mondo : chè, per certo, altrove è il riposo de’ buoni e i peccatori alfine si truovano gabbati » (i). Si era agli ultimi del trecento. Il sentimento religioso pervade potente tutte le lettere dell’ Alessandra Macinghi, vero modello della virtuosa mater familias alla metà del secolo. E sul finire ci si offre in Genova un fatto abbastanza curioso che caratterizza i tempi. Lo narra il Senarega, e con quel candore che acquista fede, sotto l’anno 1490, lo stesso in cui Gerolamo Savonarola saliva il pergamo di San Marco. Era stato preso un feroce corsaro e condannato a morte. Si mandano gli esecutori della sentenza, ma tutti rifuggono spaventati dalla necessità di uccidere quel fortissimo uomo. Egli era nell’audacia e nella fortuna non inferiore a ciò che fu Mario nel cospetto del Cimbro. E que’ nuovi Cimbri, a somiglianza dell’amico, dichiaravano che alla vista del pirata venivano loro meno P animo e le forze ad un punto. Ma la ragione che lo storico adduce per spiegare effetti tanto meravigliosi, certo i Romani non l’im (1) Op. cil. v. I, lett. LI, p. 65. GIORNALE LIGUSTICO maginaronò. Val meglio riferirla colle sue stesse parole: « Dicet fortasse aliquis: ficta haec sunt, non... sed Dei hoc miraculo factum. Ter laqueo necandus fuie, ter liberatus gloriosissimae Virginis praesidiis, cui ab ipsa infantia se voverat et factus homo preces orarias ipsi Virgini ordinatas num-quam intermiserat. Et si quis me nimis credulus dixerit, errat. Profecto non arte humana, sed divino auxilio factum est ». Cosi che se il pretore, nel caso di Mario, s’accontentò di lasciarlo partire, i Genovesi nel sec. XV stimarono di far qualche cosa di più per chi godeva così visibilmente del favore divino. Lo liberarono dal carcere e statuirono per lui un’annua pensione. C è da metter pegno che questa parve un po’ grossa anche al nostro storico, malgrado il miracolo. « Praemio afficitur » , così conclude, « qui prius tanto impetu dignus morte fuerat iudicatus » (i). Come la donna partecipasse a quel fervore ascetico già abbiamo veduto. E non fa neppur difetto un altro genere di prova, le numerose vestizioni di monache; ma ahimè, qui cominciati le dolenti note. Fra le vocazioni monastiche sincere, entravano per non piccola parte anche le forzate. I genitori che si trovavano sulle braccia parecchie · figliuole, ed erano imbarazzati per le grosse doti che si richiedevano a maritarle, s5 appigliavano volentieri a siffatto ripiego (2). Darebbero un calcio alle tentazioni del mondo e libererebbero lu famiglia da un incomodo peso. Religiosità e tornaconto formavano quindi tale un viluppo nelle coscienze, che non è facilmente districabile. Delle abbominevoli arti che ne dovevano nascere tutte intese a spingere la vittima verso il chiostro, pur conservando le apparenze della libera volontà, non vai la pena (1) Senarega, De Rebus Gemi ensibus Commentaria apud Murat SRI XXIV col. 527. (2) Cfr. Staglieno, Op. cit., p. 10. 33 GIORNALE LIGUSTICO di parlarne dopo l’immortale ritratto lasciatone dal Manzoni. Ed è a coteste vocazioni forzate, che si devono torse in massima parte gli scandali assai frequenti ne’ monasteri genovesi. Per giunta non c’ era ancora clausura e bisogna convenire che Γ andare o stare a lor talento, e il ricevere visite quante volevano, non aveva ad essere piccolo incentivo al mal costume. Autorità irrepugnabili ci dicono, che esso era esteso e cancrenoso. Il Padre Silvestro Prierio, priore del convento di S. Maria di Castello e più tardi fra i teologi consultori del Concilio di Trento, in una predica detta in Genova verso il 1506, ci fa sapere, che le fanciulle erano in generale molto facili a colpevoli amori, che Γ abitudine di uccidere il frutto della colpa non è peccato esclusivo de’ nostri giorni, che di esso più di tutte erano inquinate le monache, a tale che se le chiaviche della città si fossero potute scoprire, avrebbero risuonato di gemiti infantili, e chiama i loro monasteri, monasteri del diavolo, turpissimi lupanari, degni mille volte del fuoco. Accuse tanto più terribili quanto più autorevoli. Di monache insigni per pietà, come ad esempio la Murate in Firenze, non trovo fatto cenno in alcun luogo, e certo è grave tanta concordia di testimonianze nel dirne male. Or come si possono conciliare dissonanze così stridenti? La ìe ligiosità che abbiamo creduto di scoprire non sarebbe per avventura una devozione affatto meccanica, 0 peggio, una impostura ? III. Ecco una domanda che ci condurrebbe molto lontano. Ogni secolo, non v’ha dubbio, ha le sue ipocrisie; ma questo giova ripetere, che il quattrocento non aveva ancora trovato l’arte di accarezzare la carie divoratrice dell’osso. Piuttosto scoprirla sfacciatamente, e non sempre per curarla con zolfo GIORNALE LIGUSTICO 59 e fuoco, metterla in mostra con certo riso sguaiato che offende la nostra virtuosità. Oh sì, noi siamo virtuosi e per una irresistibile tendenza nostra complicata d’atavismo, ce la diciamo assai meglio con l’arte che vela pudicamente Γ incontinenza e svergina col precetto. Sarà meglio tornare al quattrocento. £ lasceremo da parte lo stato monastico che per me, come per molti altri, significa una deplorevole violenza fatta alla natura umana. Quando un’istituzione falsa e invecchiata, come il monachiSmo, viene in conflitto con altri elementi riboccanti di vitalità, determinare con esattezza le deviazioni che la prima possa soffrire e più ancora il perchè di queste deviazioni, è molto difficile. Certamente poi esce dai limiti delle nostre ricerche. Quanto al restante del mondo muliebre, il tentare una completa difesa morale sarebbe opera puerile. Ma è anche vero che la responsabilità, che noi a tanta distanza, si vorrebbe sempre unirvi, sanzione ed insieme ammenda del male, va in gran numero di casi molto diminuita. Quella fibra poteva ben vibrare e fortemente agli impulsi della gentilezza e cortesia , ma il torto è nostro se pretendiamo misurare quelle vibrazioni alla stregua delle nostre, noi forse capaci di una più intensa percezione della vita, ma assai volte ammalati di nevrosi. Che certi delicati ideali, profumo soave dell’esistenza, siano desiderabili, chi lo nega ? ma si badi anche che essi sono il portato, non di rado almeno, della raffinatezza , appunto come certi vaghi fiori sono merito esclusivo della stufa. Ancora nel sec. XVI ci soccorre l’esempio di Margherita di Na-varra e della duchessa di Guisa, due gran dame che sembrano aver buttato via il naturale pudore muliebre, ed erano oneste (i). Che cosa sarà stato della donna di un secolo (i) Gabba, Della condicione giuridica delle donne, a p. 542 nota, così narra il doppio aneddoto: « La duchessa di Guisa cavalcando sola e in- 40 GIORNALE LIGUSTICO prima, quando per giunta le mancavano gli agi e la potenza, che comanda il rispetto? La religiosità poi nella Rinascenza deve ben avere il suo peso nel dar ragione di certi atti, che altrimenti sarebbero incomprensibili, ma essa non può escluderne molti altri di indole affatto opposta, coesistenti coi primi, senza che perciò i loro attori fossero meno sinceri. Così per un esempio, la chiesa era pur sempre, come nel medio-evo, il rifugio delle anime sofferenti, il centro nella comunione dei fedeli, ma noi troviamo anche che le donne vi andavano per vedere ed essere vedute. Dicono che gli italiani in chiesa s’innamorano. Certo allora vi si combinavano talvolta anche i convegni d a-more e perfino i matrimonii, testimonio la Macinghi che a Santa Riparata andava per studiare con agio il viso e gli atti della futura nuora, e dolevasi le fosse fuggita dinanzi come un razzo: le fanciulle genovesi poi in chiesa vi incontravano il galante, sebbene, quanto a questo, non mancassero altri compensi. Ce ne informa abbastanza minutamente Antonio Astigiano , scolaro di oratoria e poetica in Pavia, poi maestro di lettere in Asti e segretario di Carlo d’ Orleans, che capitò in Genova, giovine di diciannove anni, nel 1431 (1)· In quel suo latino un po’ bolso, che trascina i frasconi dall’esametro al pentametro per farsi da capo, egli narra (non ho il coraggio di dire canta) molti particolari, nella penuria OD ' cognita verso il proprio castello, viene avvicinata da un capitano che le tocca una gamba; essa non se ne dà per offesa e prosegue il viaggio ridendo. Margherita di Navarra, sorella di Francesco I fu destata dal sonno dal maresciallo Bonnivet, che attentava alla sua pudicizia; ìe-spinse colla forza 1’ aggressore, e raccontò il fatto al Re suo fiatello che ne rise, essa medesima ne’ suoi Racconti lo narrò con tutta freddezza ecc. ». (1) Antonii Astisani, De varietate fortunae, apud Murat., S. R. 1·, XIV, coi. 1015. GIORNALE LIGUSTICO 41 che ne abbiamo, importanti. In una sfilata di distici assai inferiori alla prosa del Petrarca (i) sullo stesso argomento, egli esalta l’incantevole aspetto che offrivano agli sguardi del visitatore la città e le due riviere. Di Genova son tante le case, e i palazzi torreggiami dall’ alto che ti paiono castella; delle ville sparse sui declivi e del golfo placidamente azzurreggiante nel cospetto, scrive poi una tirata così noiosamente prolissa che stimo più utile saltarla a piè pari. Veniamo alle donne. Sfoggiavano sì fattamente in vesti che si sarebbero scambiate per Dee. Da altre testimonianze sappiamo che il lusso nel decimo quinto secolo, anche presso i Liguri, passava ogni misura, se in ciò, come in altre cose, il decimosesto non avesse fatto peggio. Fin dal 1398 i cittadini incaricati di mettere riparo a simili abusi, buona e cappate gente, nel porre un freno alle spese immoderate, osservavano che il lusso eccessivo era la principal causa per cui i giovani non pensavano a tòr moglie, oltre gli illeciti guadagni cui lo sfrenato bisogno di spendere era incitamento (2). E la prammatica del 1449 ripete a un di presso la stessa cosa, e le leggi suntuarie si seguono per oltre un secolo a breve intervallo le une dalle altre, sfolgorando della stessa riprovazione lo stesso vizio, argomento questo di quanto fosse efficace il rimedio. Antonio Astigiano dice che la povera gente impegnava dall’ usuraio anche il necessario, pur di sfoggiare ne’ giorni solenni con ricchi abiti; figuratevi che non avran fatto le donne per avere una vesta di broccato 0 di velluto, ovvero una di quelle trecciere a triplo ordine di perle, che formavano il grand’orgoglio di tutte le eleganti d’allora. Peccato vecchio del resto, se Benvenuto da Imola fin da’ suoi fiorai (1) Petrarca, lib. XIV, famigliari lett. V. (2) Gf.orgii Stellae, Annales Genuenses, apud Murat., S. R. I., XVII col. 1157. 42 GIORNALE LIGUSTICO poteva dire in Genova portar scarpe di seta guarnite di pelle anche le fornaie. Ma ciò che più stupiva il nostio ìetoie eia la libertà, eccessiva, pareva a lui, lasciata alle fanciulle. Ne’ dì festivi segnatamente, egli dice, voi potete vedeile tutte alla finestra, a occhieggiare col loro damo. Ma non so da\-vero se in altri paesi avrebbe trovato meglio. La gentildonna fiorentina, che ci avvenne di citare già più d’ una volta, voleva assicurarsi che la fanciulla da trascegliersi per isposa de’ suoi figliuoli, non stesse alla finestra. \^espasiano Fiorentino (i) lodava l’Alessandra de’ Bardi che non vi era mai stata veduta, prova che l’usanza contraria era comune. lei altro le fanciulle genovesi facevano qualcosa di più, e se non bastasse Γ occhieggiare, gettavano all’ amatore, con la semplicità del costume antico, fiori o pomi o noci Aut aliud quod sit pignus amoris ei, e gareggiavano di motti arguti, di lusinghe accorte si che Priamo stesso e il vecchio Nestore ne sarebbero limasti piesi. I parenti non ci badavano, anche se sorprendessero 1 innamorata coppia stretta a colloquii che passavano per innocenti, perchè, dice il nostro Astigiano, quando la fanciulla siede chiusa nella sua stanzetta, credono essi che lutto il male si restringa a barattare quattro frasi melate, nè possa in nessun cas0 — invertì concedere corpus amato — Quamvis concedat dulcia verba. Ma non è così, egli soggiunge, ed è per ciò da biasimarsi una consuetudine che proviene da non poca semplicità. Gli dobbiamo credere ? L’ argomento è di quelli che mettono in ardenza anche il giovine rètore, e forse lui pure sospirava alla dolcezza di simili avventure. Ve n’ accorgete alla diffusione veramente ovi- (i) Vespasiano da Bisticci, op. cit. p. 539. GIORNALE LIGUSTICO 43 diana ond’ egli si fa a narrare due’ idillii d’ amore , o piuttosto non narra: non meno obiettivo del poeta delle epistole erotiche, egli cede di buon grado la parola al fortunato protagonista. La prima avventura, per quel che mi sembra, è di indole affatto borghese, o meglio popolare. Quell’ abbaino per il quale si introduce nella stanza della fanciulla Γinnamorato, e che i Genovesi dicono e dicevano anche allora lûxernâ, At Lucernatum Genuenses nomine dietim Quod lucetn thalamis praebeat ille suis, quel nido, ahimè per poco ancora, virginale, che è sotto tetto, bastano ad avvertircene. È un’ avventura immaginata e compiuta da un Romeo ed una Giulietta del popolo, un’avventura che riuscirebbe deliziosa ove fosse lumeggiata con un po’ della grand’arte di Shakspeare. L’umanista invece qui si mette in gota e contegna, e ammonisce severamente que’semplici padri: « Anche le vostre figliuole, o cittadini, possono, quando il vogliano deludere del pari l’incauta vigilanza. Non mancano corde che conducano sul tetto (alla portata del provvidenziale luxernà) o la finestra di un vicino che abbrevii la distanza, in grazia delle vie genovesi che sono strettoj, e delle case che si toccano ». La seconda avventura ci conduce in villa, e qui manca il modo di determinare ciò che premeva al buon Francesco da Barberino, e preme anche a noi, voglio dire il ceto de’ personaggi interessati. La passione della villa era grande presso i Genovesi a qualsivoglia ceto appartenessero, allora come oggigiorno ; se non che allora sembra che vi dimorassero più a lungo. L’ Asti giano dice che solevano sempre recarvisi in principio di primavera, e vi passavano 1’ estate e 1’ autunno. Forse alternavano la villa suburbana colla città. E la magnificenza (parlo de’ ricchi) onde si sfoggiava in quelle dimore , era 44 GIORNALE LIGUSTICO tale che gli storici concordi consumano le loro più ricche metafore a significarla. Case dorate e simili alla stanza che la fantasia de’ poeti dette ne’ campi elisi a’ beati, ville dinanzi alle quali il decoro della città soccombe, terrestre paradiso, dimora degna di re (i). Se diamo retta all’Astigiano la libertà che quivi si prendevano le fanciulle era tale da trasmodare in licenza, e metterle davvero in mala voce. La porticina postica, ond’era provveduta ogni villa, per comodo di « cui vuole talvolta a messa andar » (2) diventava mezzana di amorazzi, pari a quello che raccontava Γ Astigiano : Adde quod et si sunt hyemis per tempora castae Dum clausus gyrus continet Urbis eas, Quum tamen in villas hae sunt aestate reductae Libertas illis maior inesse solet. A me però viene il dubbio che il nostro umanista, nella foca deni°ratrice, non abbia badato ad alcune circostanze che Ο O ’ scusano ed attenuano di molto l’errore. E quel suo comparare malignamente la fanciulla, che nel-1’ attesa dell’innamorato gli apparecchia due uova, quae instaurarent defessum corpus amantis, (1) Petrarca, Lett. cit., Itinerarium; Ant. Ast. op. cit. loc. cit.; Giov. d’Auton, Chroniques; Benedictus Portuense , Descriptio adventus Ludovici XII, in Aiti Soc. Lig. S. P., XIII. (2) G. Β. da Udine , Lacrimosa noveiìa di due amanti Genovesi. Il Passano , Novellieri in prosa , la dice pubblicata per la prima volta in Venezia nel 1551. Ma la redazione di essa, e per gli usi dati come vigenti nelle contrattazioni di matrimonio, e, sopratutto, per 1 accenno a p. 18 delle gare fra Adorni e Fregosi, è da riportarsi agli ultimi anni del Quattrocento od al più nei primi del Cinquecento. Riprodotta in parecchie edizioni, oggidì rare, io mi valgo di quella fatta ultimamente dal Papanti in pochi esemplari. Livorno, pei tipi di Frane. Vigo, 1869. giornale ligustico 45 particolare da scuola fiamminga , ai contadini che s’impinzano di fave per sopportare più facilmente la dura fatica dei campi, mi dà ragione di sospettarlo. Antonio Astigiano, giovinetto com’era, forse si sentiva una grand’inclinazione al-1 amor platonico, e si capisce che quel particolare troppo naturalista delle uova gli dovesse far schifo. Raffrontiamo dunque un tratto la sua narrazione con quella di G. B. da Udine nella novella già citata. I novellieri sono in fatto di costumanze storici fedeli. Egli u avverte fin dal principio che in Genova poche eran le fanciulle che non avessero il galante (i), in ciò tutt’e due van d accordo, che la villa si prestava assai meglio della città agli amorosi tu per tu, e la Minetta D' Oria che desiderava premiare il perfetto amore del suo amato, un Polo de Comari, gli dà convegno ad una sua villa in Bisagno, dove il padre intendeva ridursi in que’ giorni. « La qual villa ben so che sai dov’è... onde tu, come alla fenestra un panno di lino posto vedi, verrattene quella istessa notte alle tre ore, e la piccola porta non con mano, anzi con una pietra pian piano percuoti, talché sentendoti » ecc. ecc. (p. 15). Fin qui la cosa non fa neanche una grinza. Ma la situazione psico-logica, i moventi riposti, che fanno agire i personaggi nel poeta umanista e nel novelliere, sono immensamente mutati. Nel primo una sensualità brutale, dei particolari da kermesse, nell altro un sentimento umano, che poniamo pure sia affogato nella realità della passione, ma pure tenta di elevarsi ad un vero ideale. Perchè Minetta non è una fanciulla volgare, (1) Nov. cit. p. 10. Minetta D’Oria « per . non essere dalle compagnone espulsa, uno bello e leggiadro e ricco giovane per suo galante si elesse » e a p. 23 ; « Vero è che figlia, donna e vecchia in questa città tra P altre non potrebbe conversare se di galante priva fosse ». 4 Pellas, 1844; pag. 15 segg. (2) Per l’intelligenza dei due ultimi versi è da sapere che il fregio fu eseguito a spese del marchese Marcello Luigi d’Ippolito Durazzo, segretario onorario perpetuo dell’ Accademia. 6o GIORNALE LIGUSTICO altresì professore e discepolo si sti insero nei vincoli di una salda amicizia, nudrita poscia da un importante carteggio, che ne farà, speriamo, credibile testimonianza anche ai venturi. Nel 1837 poi, il Varni fu chiamato a sostituire nella Ligustica il Gaggini, invitato allora da un magnanimo principe a professare nell’Albertina in Torino; e però datano da quel tempo gli inizi dell’insegnamento, che egli continuò a porgere assiduamente nel nostro Istituto artistico fino al termine della vita (1). Alla partenza del Gaggini da Genova, pochi erano gli scolari che questi vi lasciava, e i più volti all eseicizio della scultura in legno. Ma il Varni, aiutato dalla condizione dei tempi fatti men tristio, però in guisa che gli allievi andarono via via crescendo ; e molti giovani eziandio egli accolse particolarmente nel proprio Studio, di cui ogni giorno, con molteplici sacrifizi pecuniari, aumentava la preziosa suppellettile. Quando i mezzi glielo consentirono, cominciò anche a fare frequenti gite artistiche a Roma, nella Toscana, nella Lombardia, nella Venezia, nell’ Emilia, al fine di studiare sempre meglio i monumenti di quelle contrade, e di procaccarsi in pari tempo la conoscenza dei più illustri artisti viventi. Così si strinse col Tenerani, col Duprè, col Santarelli, col Fedi, col Giusti, col Costoli, coll’Arienti, coll’Angelini, col Ma-sini, col Malatesta, col Podesti, col Mussini, col Salvini, col Pazzi, insomma con tutta una nobile schiera nella quale ha ormai largamente falciato la morte. Ma un povero campo era pur quello in cui d’ ordinario la scultura genovese si trovava costretta, innanzi che la necropoli di Staglieno aprisse una vasta palestra agli ingegni. Perchè difatti le tumulazioni che fino alla meta del (i) Fu eletto direttore supplente della Scuola di scultura il 20 novembre 1837, e nominato direttore titolare il 2 aprile 1842. Ved. Staglieno, Memorie dell’ Accademia Ligustica ecc., pag. 245. GIORNALE LIGUSTICO 6l secolo presente avean luogo, con manifesto oltraggio all’ igiene, unicamente in alcune chiese della città e dei colli suburbani, non potevano consentire alla memoria dei defunti altro onore che quello di piccoli monumenti. — Nel santuario di Nostra Donna del Monte in Bisagno vedesi appunto scolpito dal Varni il deposito di Maria Spinola nei Vivaldi Pasqua, duchessa di S. Giovanni (i); ma ben può affermarsi, che la chiesa della Concezione ai Cappuccini fu specialmente per lui convertita quasi in un tempio dell’ arte ; noverandosi oltre a venti i sepolcri che egli ebbe ivi ad allogare, tra i quali forse pri-meggiano quelli di Claudia Cobley-Paulucci e di Genovino Paulucci, laddove espresse Γanima rapita all’eterno gaudio ed un bambino che a braccia di un angiolo ritorna al suo cielo (2). Sulla tomba di Giuseppina Monteiro-Edlman pose egli la Religione vigilante; e in quella di Giuseppina Collano fìnse un putto di castissime forme levato anch’ esso all’ amplesso dei serafini. Nell’ urna di Francesco Ronco simbolegg ò la pietà dei figli nella Concordia che abbraccia l’urna cineraria; avvivò della Speranza il sepolcro di Francesco Lamba-D’Oria; e sulla pietra di Giovanni Maria Cambiaso, figlio di senatore, nipote e cugino di due dogi, come narra l’epigrafe, ritrasse un Genio piangente. La statua della Rassegnazione sparge fiori sull’ avello di Giuseppe Carignani, affinchè cintres flore tegantur; e sopra la salma di Caterina Piuma si libra l’Angiolo della risurrezione, colle parole di Paolo ai Tessalonicesi : In voce arcangeli et in tuba Dei. A monumenti sì fatti il Varni alternava inoltre le statue onorarie innalzate nello Spedale di Pammatone ai benemeriti della pia opera, Carlo Maria Zignago e Pietro Maria Merano ; un medaglione di Gian Carlo Serra nell’Albergo dei poveri (1) Disegnato da A. Daniele; e pubblicato dalla litografia Doyen, Torino, 1844. ’ (2) Di questo secondo sepolcro esiste una litografia di Nicolò Armanino. 6 2 GIORNALE LIGUSTICO in Carbonara; i grandi bassirilievi a semicerchio della Vergine col Bambino, venerata dagli angeli, posti a decoro di due fra le uscite a mare lungo i porticati, ora in corso di demolizione, che formano barriera tra la via Cario Alberto ed il porto. Mi passo d’altri lavori di minor lena; ma cito volentieri quell’altro intaglio di Nostra Donna in suggesto, fra i santi Carlo, Giovanni Battista e Teresa, il quale mirasi nella cappella dei Serra alla Nunziata del Vastato, e che a buon diritto Federigo Alizeri proclamava « sì diligente e sì ligio agli esempi dell’aureo secolo » (i). Ma già dal Nuovo Giornale Ligustico impariamo, che « il giudizio del pubblico su questo lavoro... fu onorevole sommamente allo ingegno ed alla maestria del Varni », appena venne da lui esposto nelle sale dell’ Accademia (2). E allora appunto Vincenzo Alizeri tolse a lodarne l’autore in un sonetto, che qui ristampo da un foglio volante. Varni, tu l’ali a’generosi voli Alto poggiando spieghi, ed al furore Del tempo edace tu sottraggi e involi L’ opre che fian del secol nostro onore. E perchè gli alti mastri imiti e coli, Ripieno il cuor di valoroso ardore, Già va di te veloce ad ambi i poli Fama che invidia sdegna, e mai non muore. Ma se è ver che forte arco se s’ allenta Arrugginisce, e più non regge a prova; Tieni ognor 1’ alma a’ bei lavori intenta. Chè Italia presa da letizia nova Con dolce amor nelle tue man presenta Lo scalpello immortai del gran Canova. (1) Alizeri, Guida illustrativa per la città di Genova, pag. 395. (2) Nuovo Giornale Ligustico ecc., a. 1837, pag. 299. GIORNALE LIGUSTICO 63 Più onorevoli od almeno più rilevanti commissioni gli venivano intanto dall’estero. La tomba del generale Neyra, per la città di S. Gallo in Isvizzera; un grandioso monumento, a foggia di tempio greco, per la celebre chiesa di S. Jago in Ispagna; il sepolcro della famiglia Moon a Manchester; una Nostra Donna col Putto per una chiesa di Calcutta; la statua dell’Immacolata per Santa Fè di Bogota; diversi ritratti di Colombo ed altri lavori per varie città dell’ America meridionale. Inoltre, allorché a Londra fu costrutto il Palazzo di cristallo, per 1’esposizione mondiale del 1851, il Varni, secondando le istanze degli architetti di quell’ insigne edifìzio, Owen Jones e Digby Yatt, procurava a decoro del medesimo il gitto di talune fra le migliori sculture ornamentali di Genova (1). Le quali, come furono sussidio prezioso a quella splendidissima pubblicazione della Grammar of ornament, fatta nel 1S56 dal Jones, così pur troppo dovettero anche accendere vieppiù negli stranieri la cupidigia de’ nostri tesori artistici. Ma a questo non poteva davvero pensare il Varni: lui, che a quanti nel corso dei tempi gli si fecero innanzi, con proposte d acquisto delle antichità raccolte in sua casa, solea mozzar le parole, rispondendo netro e sempre: lo compro e non vendo. E intanto ricusava 1’ invito fattogli dall’ Accademia di Birmingham, che lo chiamava a sedere tra i suoi professori e a dirigere quella fonderia di bronzi, con lautezze di stipendi fi a noi sconosciute! Nè dopo ciò è da far meraviglia che rifiutasse altresì la nomina di professore nell’Accademia (i) I gitti furono spediti a Londra in ventitré casse. Tra gli altri si noveravano il portale del palazzo da S. Matteo, donato già dalla repubblica ad Andrea D’Oria, e i fregi e i bassi rilievi col trionfo delle armi Spinola e D’ Oria, che decorano l’ingresso di due palazzi nella salita dai Quattro canti di S. Francesco e nella via de’ Garibaldi ora Davide Cbiossone. 64 GIORNALE LIGUSTICO Bolognese, a lui offerta nel 1860 dall’amico suo Terenzio Mamiani ministro dell’ istruzione. Di questi tempi egli fece altresi alcuni lavori per decoro di private gallerie; come a dire il gruppo dell Educazione materna, ordinatogli dal marchese Marcello di Giacomo Filippo Durazzo, e quello de\V Amore che doma la For%_a, nel quale riprodusse un concetto onde si piacquero in guisa speciale gli antichi litoglifi (1). Vennero appresso la statua della Figlia di Jefte, dannata al sacrifizio per l’incauto voto del padre (2), e Laura al bagno, di cui porsero il soggetto all’ artista i primi tre versi della Cannone Chiare, fresche e dolci acque Ove le belle membra Pose colei, che solo a me par donna. Di così fatta statua avea data commissione al Varni il ricco patrizio lombardo Filippo Ala-Ponzoni (3) ; il quale pur volle scolpiti da lui i busti di Beatrice, di Laura medesima, di Ginevra e di Leonora (4), celebrati così degnamente in una magistrale canzone da Lorenzo Costa. Laddove questi indii iz zandosi al valoroso statuario sciamava : Ai posteri n’ andranno i simulacri Dove le quattro Belle Tu fai con arte al secol nostro oblita Ripalpitar di vita, E stupefatti grideran : Son elle Di Fidia o Clëomene , O la patria del Varni era un’ Atene. (1) Fa parte del Museo Principe Odone, nell’ Accademia Ligustica. (2) Riprodotta in litografia nella tav. XXIII del giornale II Michelangelo. (3) Una piccola riproduzione, eseguita più tardi, è fotografata, nel num. 9 del giornale La Platea, a. 1876. (4) I due ultimi si vedono incisi nella tav. XXV del Michelangelo. GIORNALE LIGUSTICO 6 5 Pel monumento a Cristoforo Colombo, in Genova, scolpì la statua della Pietà-, ed alla Spezia pose quella del generale Domenico Chiodo. Per la nuova chiesa dell’Immacolata in via Assaro ti, appresto la statua di Nostra Donna, che ve-desi all’aitar maggiore. Pel nostro Spedale dei cronici scolpì la statua del fondatore, Ettore Vernala (i); per quello di Pam-matone l’altra di Giuseppe Polleri·, ed una terza ne fece per P Albergo di Carbonara, commessagli da un munifico patrizio, giustamente bramoso che in questo monumento della carità genovese non si desiderasse più a lungo, in onore di Pietro Gentile, il degno ricordo che già i contemporanei gli avevano innalzato nel Palazzo di S. Giorgio cogli scalpelli di Giacomo Carlone. In S. Croce di Firenze allogò il monumento ^Luigi Canina-, e di questo insigne architetto ed archeologo donò pure un bel ritratto alla città di Bologna. Liberalità non nuova nel Varni; perocch’egli di già molti anni avanti, per attestare pubblicamente l’amicizia sua verso Giovanni Rosini, avea donato agli scienziati italiani adunati in Padova 1’ erme di Melchior Cesarotti, che or vedesi nella basilica del Santo, e fatto omaggio a Pisa del busto di Diotisalvi, autore nel secolo XII di quella chiesa del Santo Sepolcro. L’amicizia, a sua volta, ispirava al Rosini le belle terzine nelle quali il Nostro è detto .... fra i Liguri Spirti il più gentile (2). E di vero egli si era per tale mostrato verso di quell’ e-gregio, avendolo in servigio della Storia della Pittura Italiana sovvenuto di disegni e di indagini, sì come è fatto palese per que’ dotti volumi e meglio ancora per un carteggio inedito. (1) Fotografata nel volume pubblicato per la sua inaugurazione; Genova, Tip. Sordo-muti, 1867. (2) Il Busto di. Melchior Cesarotti ecc. Nelle Opere, del Rosini; Pisa, 1844: vol. JX, pag. 95 segg. Giorn. Ligustico, Anno XII. ^ \ ' - , 66 GIORNALE LIGUSTICO Grazie alla benevolenza costantemente dimostratagli da 'Vittorio Emanuele II, auspice Γ amicizia di Giovanni Nigra ministro per molt’ anni della Casa Reale, il Varni ebbe a scolpire i ritratti del re, delle principesse Clotilde e Maria Pia; e potè altresì ottenere il raro favore d’alcune sedute dalla regina Maria Adelaide, in servigio di un busto colossale, che proprio di questi ultimi anni fu poi ultimato dall’ artista e da lui presentato al re Umberto, che lo fece collocare nella reggia in Torino (i). Similmente per ordine del re Vittorio Emanuele scolpi la statua di S. Matteo, che decora la facciata della chiesa torinese di S. Massimo in Borgo nuovo·, il sepolcro della regina Maria Teresa per la basilica di Superga; il colosso di Emanuele Filiberto per lo scalone del R. Palazzo del pari in Torino: e forse in questo colosso, più che nelle altre opere il Varni si mostrò felicissimo. Ma felice e ispirato parrà egli sopra tutto nella statua di Saffo, non ricordo bene se modellata o scolpita nel 1879; e della quale l’artista aveva testé eseguita una finissima replica. Dei molti busti d’ invenzione e dei ritratti scolpiti dal Varni per pubbliche e private ordinazioni — ultimo quello di Raffaele Rubattino — fu cosi grande il numero, che i modelli, disposti in bell’ordine, adornano le pareti di tre saloni del suo Studio ; e parmi che i ritratti dimostrino come, sino agli ultimi anni almeno, egli sapesse fedelmente cogliere le rassomiglianze. Vorrà convenirne certamente chiunque riguardi, per esempio, a quei busti così veri e pai lauti del medico Vincenzo Picasso, dell’ imprenditore Livio Ponte, degli ingegneri Stefano Grillo ed Ignazio Gardella. (1) Carlo Alberto avea conferito al Varni il titolo onorifico di regio scultore. Vittorio Emanuele lo nominò scultore di S. M. e della Reni Casa, e nel 1866, dopo la morte del principe Odone di Savoia, di cui il Varni. fu famigliare, gli assegnò una pensione vitalizia di annue lire duemila. GIORNALE LIGUSTICO 67 De’ cippi e de’ grandi monumenti collocati nella metropoli di Stagliene dal 1851 all’84, non si potrebbe davvero stringere in breve il discorso. Citerò il colosso della Fede nel centro del grande campo, il S. Michele nella cappella dei suffràgi; e poi alla rinfusa i sepolcri delle famiglie Grimaldi-Spinola, Gropallo, Spinola-Bracelli, Picardo, Patrone, Tubino; dei fratelli Giambattista e Tomaso Cattaneo-Della Folta; di Giuseppe Cinghinola, Francesco Costa, Carlo de Asarta, Giovanni Donghi, Lorenzo Dufour, Francesco Gallino, Paolo Giacomelli, Federico Hebert, Bianca Lomellini, Costante Lo-mellini, Emanuele Melano, Giuseppe Paradis, Laura Pertusati, Giuseppe Polleri, Raffaele Ronco, Ippolito Spinola, Andrea Talia-carne, Giacomo Traverso. Infine noterò il bel cippo di stile gotico, che si leva sulla tomba di Antonietta Pagano prima moglie del Varni; e quella figura della Preghiera che copre le ceneri di Giuditta Disegni, da lui sposata in seconde nozze, e morta il 27 giugno 1873 nel fiore della bellezza e nel vigore degli anni (1). Veramente chi ha veduto il mausoleo, innalzato a Pio Vili nella basilica vaticana di S. Pietro, non può dissimulare come il monumento del Varni pei nobili Cattaneo-Della Volta, sia piopiio una riduzione di quello scolpito pel papa Castiglioni .da Pietro Tenerani, e come in ispecie di qui si derivi il concetto e persino Γ atteggiamento della statua del Salvatore che sormonta entrambi i sepolcri. Nondimeno per altre ragioni vanno accolte le lodi che il Costa dava all’ opera del NostiOj così parlando a lui nel suo classico verso: E tu che al fiero e al grave Dello scultor ch’ereditò la possa Di Dante, e l’ira e il maschio suo concetto, Non so che di soave Tempri nel marmo, e lo fai polpe ed ossa, (1) Di quasi tutti cotesti monumenti esistono le fotografie. 68 giornali: LIGUSTICO H fremito di vita anco e d affetto, Scolpivi il prediletto Figliuol che fu di Dio, non già del Fabro, E 1’adornavi di lume celeste: Poiché le guance oneste Non son cosa mortale , e il dolce labro E il piglio amante e i dui Bracci rivolti a chi s affida in lui. Così n’accolga il Redentor verace, Come dal Ciel t’apparve: Gli altri sono follie, blasfemi e larve. Di monumenti sepolcrali debbo anche dire che il Varni ne fece vari e grandiosi per altri cimiteri: per esempio quelli dei Garibaldi in San Pier d’Arena, dei Trecate a Vercelli, dei Curro a Trieste, ecc. ecc. Ma dopo ciò , io mi guarderò bene dallo entrare in quelle sottili disquisizioni, che si compenetranò ai più ardui problemi dell’arte e delle sue varie scuole. Noterò solamente, acciò che altri non mi rimproveri d’ averlo a bello studio taciuto , come nel pensiero artistico del Varni rimanessero forse troppo spesso immutati un impianto architettonico ed un tipo, per quanto la sagoma fosse corretta, affrettiamoci a dire anche questo , e il tipo soavemente gentile. Trattato del Varni statuario, dovrei aggiungere del raccoglitore appassionato d’ antichità e dell ei udito. Studiando con trasporto, sino dagli anni giovanili, i monumenti dell’età greca e romana, moltissimi ne disegnò egli in più volumi; e parimente ritrasse con intelletto d amore moltissime opere di pittura e di scultura del medio evo. Raccolse, oltre che libri di sommo pregio, autografi e codici; e allestì un Museo del quale fanno parte non pochi marmi latini e longobardi, urne etnische, statuine di Tanagra, lucerne, anfore , vetri, medaglie, monete, bronzi d’ ogni specie; oggetti d’oro e d’argento; cammei e pietre incise; mobili GIORNALE LIGUSTICO 69 e ceramiche; armature ed armi; merletti ed arazzi; quadri, incisioni, e forse meglio di ventimila disegni d’artisti italiani antichi e moderni. La scuola gnovese vi è rappresentata largamente e completamente, da Giovanni e Luca Cambiaso a Giuseppe Isola e Nicolò Barabino Dell’ erudito mi si consenta di toccare con riserbo ; e molti per fermo ne intenderanno la ragione. Durammo in una consuetudine amichevole e giornaliera di ben ventisei anni; ed egli più volte, celiando mi ripeteva: Se fossi il Canova, direi d’aver trovato in voi il Missirini. Gli scritti d’ archeologia e d arte da lui pubblicati, e che si troveran notati ordinatamente nell’elenco che io faccio seguire a questi cenni necrologici, procacciarono al Varni fra i cultori de’ buoni studi quella estimazione che la fama nelle discipline della statuaria già per l’innanzi gli aveva ottenuta fra i cultori del bello. Cosi, pei citarne alcuni, entrarono in corrispondenza con lui Giambattista De Rossi, il Fiorelli, il Minervini, il Garucci, il Fabretti, Carlo e Domenico Promis, Federigo Sclopis, Luigi Cibrario, 1 Henzen, il Cantò, Eugenio Muntz, Teodoio Mommsen. Il quale, nel Corpus inscriptionum lati-narum faceva pure dello statuario genovese onorata menzione, scrivendo: Alia Libarnensia (monumenta) collegerunt Franciscus Captino sacerdos novensis, ac sculptor Genuae degens Santo Varni, qui vir optimus et ut in arte sua eximius ita bonarum litterarum amantis imus, praeterea in commentariis cum inscriptiones libarnenses lapidi incisas, tum tegulas, patellas, lucernas similiaque ibi inventa diligenter composuit Çif A proposito di Libarna. — Federico Guglielmo, principe ereditario di Germania, desiderando visitare que’ ruderi, or sono vari anni, non volle altra guida che il Varni. Ma i principi furono in molti ad onorarlo; e l’artista tradiva spesso (1) Vol. V, par. II , pag. 838 70 GIORNALE LIGUSTICO nel lampeggiamento degli occhi la compiacenza dell animo, allorché mostrava gli autografi e le fotografie ricevute da parecchie maestà ed altezze per segno di particolare considerazione. Ultimo venne per ragione di tempo, ma certo singo-larmento gradito, questo gentile autografo di una augusta Donna, che anche il mondo dei dotti conosce pel nome riverito di Carmen Sylva, e cui il Varni si era latto sollecito di procacciare un volume desiderato: quello dello Stark, Niobe und die Niobiden. Α1Γ illustrissimo maestro Santo Varni, Genova. Caro Commendatore. Conoscerla e non dimenticarla è la stessa cosa. La bellezza dell’ Italia non sta solamente nel suo cielo e nel suo clima, ma anche nell’ingegno dei suoi uomini. Le sue idee ed i suoi principii, in ciò che si tratta d arte, sono stati per me una ricca sorgente di meditazioni e di forza. La sua gentilezza non posso dimenticarla, nè pure se Lei non avesse avuto la bontà di ricordarsi d un desiderio mio, d’una semplice idea che le ho espresso, e di mandarmi un libro nello studio del quale ho messo una vera passione. Se riesco a far qualche cosa di buono, è a Lei che lo dovrò. La speranza di rivederla mi consola : la cagione di potei ammirare ciò che non ho ancora ammirato saia pei me una grandissima felicità. Sinaia, !.■> agosto .883. Elisabetta. Mori Santo Varni nella palazzina che egli si era costrutta, nella via Ugo Foscolo, il giorno di Domenica n di gennaio 1885, alle ore 5.30 pomeridiane. L’indomani 1 Acca- GIORNALE LIGUSTICO 7 1 demia Ligustica chiuse, in segno di lutto, le proprie scuole; e la Presidenza della medesima intervenne officialmente ai funerali, che gli furono solennemente celebrati il giorno 20 nella parrochiale di S. Maria della Consolazione. Assistevano alla pia cerimonia anche i delegati di vari altri Istituti artistici, ed una numerosa eletta di cittadini. La Commissione conservatrice dei monumenti, alla quale il Varni aveva appartenuto fino dalla sua istituzione, deliberava che sulla casa dov’ egli venne alla luce fosse murata una epigrafe commemorativa (1). Or molti si chiedono ansiosi che cosa mai sarà per avvenire dello Studio ricchissimo e di tante collezioni svariate, delle quali il Defunto protestava sempre di voler disporre in favore della sua città natale, colla creazione di un pubblico Museo Varni. C’ è chi teme una dispersione consigliata forse da ragioni private; e v’è chi si affida nel risveglio di un patriottismo illuminato, in forza del quale le Amministrazioni locali ed il Governo potrebbero scongiurare tanta giattura. Io, fra questi timori e queste speranze, rispondo con Livio : Ea nec affirmare nec refeìlere in animo est. L. T. Belgrano. BIBLIOGRAFIA VARNI. 1. Lettera che tratta di alcune scoperte d’antichità nel territorio di Limi. — Nel giornale artistico genovese II Michelangelo, a. 1855, num. 10, pp. 39-40 ; con 1 tavola litografata. 2. Cose artistiche in Gavi, al Bosco Alessandrino ed altri luoghi adiacenti. - Il Michelangelo, 1855, num. 12, pp. 46-48; 1 tav. litogr. (i) Di questa lapide fece proposta lo scultore comm. Giambattista Ce-vasco, il quale volle altresì provvedere del suo all’esecuzione. Bello esempio d’ artistica fratellanza. 72 GIORNALE LIGUSTICO 3. Di alcuni artefici che operarono in Genova. — Il Michelangelo, a. 1855» fium. 15, pp. 62-63. 4. Monumenti Patrii. — Articolo inserito nella Gaietta di Genova del 2 e 13 marzo 1861, e firmato V[arni]. B[elgrano]. 5. Elenco di documenti artistici; Genova, Pagano, 1861. In 8. di pp. 36. _ Contiene Γ indicazione di 420 documenti dell’Archivio Civico. 6. I restauri del Coro di San Lorenzo; Genova, Pagano, 1864· 1° 8., pp. g. — Estratto di un articolo inserito nella Gaietta di Genova, per dare al pubblico alcuni schiarimenti su quei restauri, i quali « furono e sono soggetto di troppe discussioni pubbliche e private , perchè avessero a passare inosservati nella cronaca cittadina ». 7. Saggio di studi artistici sul Coro di S. Lorenzo in Genova; Genova, Pagano, 1865. In 8., di pp. 24. 8. Delle opere di Matteo Civitali, Commentario. — Negli Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol. IV, pp. 1-31 ; Genova, Sordo-muti, 1866. In 8. 9. Delle opere di Gian Giacomo e Guglielmo Della Porta e Nicolò da Corte, scultori, con documenti. — Negli Atti cit., vol. cit., pp. 33-78· ίο. Appunti di diverse gite fatte nel territorio dell'antica Libarna — Parie Prima — ; Genova, Sordo-muti, 1866. In 8., di pp. 138. ii.. Sulle antichità di Vado, Lettera; Genova, Pagano., 1867. In 8., di pp. 14. 12. Donato Benci e Benedetto fiorentino, scultori; Genova, Tip. del Vittorio Alfieri, 1867. In 8., di pp. 14. 13. Di alcune opere di Andrea Cantucci da Motrte San Savino ; Genova, Pagano, 1867. In 8., di pp. 18. 14. Della Cassa per la Processione del Corpus Domini, e di alcuni altri lavori a cesello per la Cattedrale di Genova, Appunti corredati da documenti; Genova, Pagano, 1867. In 8., di pp. VIII-133. 15. Delle opere eseguile in Genova da Silvio Cosini; Genova, Tip. del Vittorio Alfieri, 1868. In 8., di pp. 28. 16. Maestro Lorenxp e Stagio Stagi da Pietrasanta; Genova, Tip. cit., .1868. In 8., di pp. 16. 17. Di un sepolcreto romano scoperto nel 1863, e di alcune altre antichità; Genova, Pagano. 1869. In 8., di pp. 22; con 2 tavole fotografiche. _ Π sepolcreto trovavasi presso la chiesa della Pace in Genova: le javole rappresentano la pianta, lo spaccato, e l’interno del medesimo, nonché gli oggetti in esso rinvenuti. 18. Della tarsia e dell’intaglio in Italia, e specialmente del Coro di San GIORNALE LIGUSTICO 73 Loren{0 in Genova; Genova, Tip. del Vittorio Alfieri, 1.869. In 8., di pp. 144. — Contiene però la sola prima parte : la seconda fu stampata più tardi. Vedi num. 32. 19. Appunti artistici sopra Levanto, con note e documenti; Genova, Sordo-muti, 1870. In 8., di pp. 152. 20. Appunti di diverse gite fatte nel territorio dell’ antica Libarna — Parte Seconda —; Genova, Sordo-muti, 1873. In 8., di pp. 112. 21. Appunti sul Teatro di Libarna; Genova, Sordo-muti, 1873. In 8., di pp. 18. — Estr. dalla Parte 2.* precitata. 22. Del Cristo di Guglielmo, pittura insigne dell'anno ii]8. esistente nel Duomo di Soriana, — In Giornale Ligustico, a. 1874, pp. pp. 5-27. In 8. 23. Di una pala del secolo XV, scolpita in legno di noce, ed esistente nella chiesa di Santa Margherita di Testana: — Giorn. Lig., a. 1874, pp. 90-93. 24. Di una tavola di Franceschino da Castelnuovo-Scrivia. — Giorn. Lig., a. 1874, pp. 93-95. 25. Della chiesa di Sant' Innocenzo di Castelletto d’ Olba. - Giorn. Lig., a. 1874, pp. 203-16. 26. Lettera su i resti del monumento sepolcrale della imperatrice Margherita, scolpito da Giovanni Pisano nel 1313 (già esistente in Genova nella chiesa di S. Francesco di Castelletto). — Giorn. Lig., a. 1874, pp. 436-37. Vedi anche Atti della Soc. Lig., vol.X, pp. 402-03, dove è riprodotto il disegno dei resti medesimi, fatto dal Varni. 27.' Chi sia l autore della tavola dell’Annunciata nella chiesa di S. Maria di Castello, in Genova. — Giorn. Lig., a. 1875, pp. 82-84. 28. Della Pieve di Gavi. - Giorn. Lig., a. 1875, pp. 355-67, con 2 tav. litogr. 29. Catalogo descrittivo dei dipinti di Teramo Piaggio e d’altri artefici, nel Santuario di N. S. delle Graiie presso Chiavari, altrimenti detto della Pineta. Giorn. Lig., a. 1876, pp. 460-75. 30. Spigolature artistiche nell’ Archivio della Basilica di Carignano; Genova, Sordo-muti, 1877. In 8., di pp. XXVI-94, con 4 fac-simili litogr. 31. Schiarimenti e progetti relativi ad un monumento da erigersi a Giuseppe Macini; Genova, Sordo-muti, 1877. In 8., di pp. 8. 32. Tarsie ed intagli del Coro e Presbiterio di S. Loretta in Genova-Genova, Sordo-muti, 1878. In 8., di pp. 172. 33. Ricordi di alcuni, fonditóri in bronco; Genova, Sordo-muti, 1879 In 8. di pp. VIII-80 34. Lettera circa una sedia romana in marmo (già in Castelnuovo di 74 GIORNALE LIGUSTICO Magra, ed ora nel Museo d’antichità in Torino). — Nel giornale sarza-nese La Lunigiana, del io ottobre 1879, num. 41. 35. Lettera sopra due sepolcreti romani scoperti in Savignone. Nel giornale genovese 11 Movimento, del 9 giugno 1884! num. 152, e quindi nel Giorn. Lig., a. 1884, pp. 314-16. RINALDO FULIN La sera del 24 novembre ultimo scorso nell età di sessanta anni moriva in Venezia , sua patria, 1 abate Rinaldo Fulin, uno dei più forti campioni dell’arte storica in Italia. Sacerdote pio ed esemplare, cittadino integerrimo, critico acuto egli si mostrò sempre nell’ immensa mole di opere titaniche, le quali sono il più saldo monumento che raccomanderà ai posteri la sua memoria. Tra le principali ricordiamo le dotte pubblicazioni dei dispacci di Alvise Contarini, inviato veneto a Münster per la pace di Westfalia; il lavoro sugl’inquisitori; gli studi speciali su Giacomo Casanova e Paolo Paruta; i Codici principali illustrati nel Centenario di Dante; il volume pel Centenario del Petrarca; l’opera su Daniele Manin; 1 trattati sui privilegi concessi ai tipografi della Veneta Repubblica nella prima metà del XVI secolo; la memoria sopra Soranza So-ranzo e le sue compagne ; gli appunti sopra una pubbli cazione del conte Mas Latrie; gli errori vecchi e documenti nuovi a proposito d’altra pubblicazione dello stesso Mas Latrie; l’ applaudito discorso letto nella solenne adunanza dell’istituto Veneto di scienze lettere ed arti : Dell’attitudine di Venezia dinanzi ai viaggi marittimi del secoh decimoquinto; gli studi sugli antichi tentativi dell istmo Suez; e il Petrarca dinanzi la Signoria Veneta.^ Nè passeremo sotto silenzio la più grandiosa pubblicazione storica GIORNALE LIGUSTICO 75 della seconda metà di questo secolo, che il Fulin intraprese unitamente ai chiarissimi Cav. Federico Stefani, Comm. Ba-rozzi e Berchet: I Diari di Marin Sanudo, a compier la quale non basterà forse la vita dei coraggiosi editori ; nè dimenticheremo Γ Archivio Veneto, periodico da lui fondato nel 1871, che diresse fino al giorno della sua morte con fermezza di propositi e con ardore sempre crescente, e che ora viene assunto dalla R. Deputazione Veneta di Storia Patria. Triste! Quasi due anni fa, cominciando la seconda serie dell’ Archivio Veneto, scriveva : « L’ età inoltrata e la salute malferma non mi lusingano di poter chiudere questa nuova serie che oggi comincia » ; ed anche nei discorsi famigliar) tornava sovente a ripetere : Sono vecchio ! Egli lasciò incompleta la pubblicazione dei dispacci da Roma di Paolo Paruta, illustrati splendidamente come sapeva far lui, pubblicazione che sarà compiuta dalla Deputazione di Storia Patria, ed alla quale sarà premesso un proemio del-Γ illustre De Leva, uno degli amici più confidenti del Fulin. Aveva meditato inoltre una storia completa del Consiglio dei X, e ne avea già raccolto il materiale. Pur troppo non uscirono in luce che poche monografie separate, ammirabili per potenza di critica ed arguzia di esposizione. Chi lo conobbe — e chi scrive queste righe lo conobbe molto non piange solamente il poderoso ingegno che tanto lustro arrecava agli studi storici veneziani, all' Italia, ma piange ben anco 1 indole mite e gentile, il cuore schietto e generoso, la modestia senza pari, la bontà a tutta prova, i amoie disinteressato ai giovani, ai quali apriva cortese il tesoro della sua vasta dottrina, così che niuno mai partiva da lui senza dire a se stesso: ho imparato molto. O perchè la natura crea di tali uomini per disfarli? V. Malamanl ?6 GIORNARELIGUSTICO SPIGOLATURE E NOTIZIE La Rivista di filologia classica (XIII, 78) contiene un articolo in elogio degli scritti di archeologia e di etruscologia, del nostro egregio collaboratore, maggiore Vittorio Poggi, per gran parte pubblicati nel nostro Giornale e negli Atti della Società ligure dì storia patria. L’ operosità « veramente ligure » dell’ autore (cosi la Rivista) fa davvero maraviglia, se si considerino le gravi e molteplici cure, di tutt’altra natura, alle quali il Poggi deve attendere per ragione à' ufficio. Del resto il « contributo continuo , intelligente e sicuro » che egli arreca agli studi , mostra « luminosamente i progressi archeologici della scuola italiana » , e serve « a portare luce nella grande questione che ferve tra i campioni degli studi etruscologici. — Lasciando in disparte i tentativi di coloro che, come il Fannelli di Napoli, lo Stik di Jena e il card. Tarquini, cercarono l’interpretazioue delle leggende etnische col confronto degli idiomi semitici, e di quelli che, come il Taylor, credettero trovar la chiave del-Γ etrusco nelle lingue turaniche , perchè tanto gli uni che gli altri die dero risultati infelicissimi, il campo degli studi etruscologici è oggigiorno diviso fra la scuola del Deecke, che considera l’etrusco come lingua ariano-italica e propugna per la sua interpretazione il metodo etimolo gico, e quella del Pauli che non vi riconosce il carattere indo-europeo, e rinunziando per ora a cercare le sue affinità con altri idiomi, si attiene al metodo delle combinazioni logiche. Ora , in tale diveigenza di opi nioni, il Poggi propende per la dottrina del Deecke , che è poi qutlla della scuola italica, ampliata dal Corssen, senza ripudiare il metodo Pauli, che può anch’ esso riuscire utilissimo nelle ricerche che hanno per iscopo l’interpretazione delle epigrafi etrusche ». Per ulteriori notizie su questo argomento, la Rivista rimanda agli Appunti di epigrafia etnisca^ inseriti nella scorsa annata del nostro Giornale, e trova che in si Appunti « la bontà dei criteri metodologici è chiaramente provata dai sicuri risultati a cui giunge Γ autore. In questo scritto sono minutamente esaminate cinquanta epigrafi etrusche inedite. Non c’è parola che sfugga alle indagini del Poggi, alle quali egli aggiunge lume sovente con richiami assennati alle iscrizioni etimologiche: erudite ed acute notizie GIORNALE LIGUSTICO 77 sull onomastico greco e italico , le quali rendono preziosissimo questo lavoro; dappoiché ognun sa quanto scarsi e manchevoli sieno , in Italia e fuori, gli studi onomatologici ». Anche il reputato periodico di Lipsia Leterarisches Centralblatt ne ha parlato favorevolmente (6 september). Nel Giornale Storico della Lett. Ital. (IV, 81) Giuseppe Cerrato pub-blica una importante monografia: Il « bel cavalieru » di RambaUo di Va queir as ; nella quale discorre più specialmente di Beatrice, che egli', contrariamente a quanti ne hanno parlato fino à qui, ritiene con buone ragioni figlia del marchese Bonifacio di Monferrato ; accettando poi Γ ipotesi di Desimoni eh; avesse per marito Enrico del Carretto il giovane figliuolo del Guercio. Conclusioni queste accolte anche dal Carducci nel suo recente scritto : Galanterie cavalleresche del sec. XII e XIII (Nuova Antologia, 2.3 ser., XLIX, 24) nel quale discorre appunto delle poesie di Rambaldo. Si pubblicano a Milano da Cesare Cantù le Corrispondente di Diplomatici della Repubblica e del Regno d'Italia 1796-1814 (Giacomo Agnelli , 1884 fase. i.°, 2.0, 3.0, 4.°), dove sono prodotti documenti molto importanti per la storia del periodo rivoluzionario. Per ciò che tocca la Liguria vi sono ragguagli forniti al Direttorio della Cisalpina da un anonimo (p. 22), dal Bossi, Ministro plenipotenziario a Genova, del 1799 e del 1801 (p. 24^27), un proclama di Bonap'arte console del 22 luglio 1800 (p. 28), già editò nella Gaietta Nazionale (9 Agosto 1800). Parecchi accenni ai fatti d’armi fra i Liguri e i Sardi nel 1798, trovansi nella corrispondenza del Cico-gnara Ministro della Cisalpina a Torino (pp. 139 e segg.), dove è a correggere il Mastucconi in Massuconi, che era questo il nome dell’ Incaricato genovese. Del Bossi si dà qui un cenno biografico (p. 55), e si affermano « belle, chiare, disinvolte le sue relazioni su Genova, al cui assedio fu presente ». Alcune ne sono recate nel capitolo destinato alla Liguria (p. 217 e segg), dove sono anche altri documenti assai importanti. In nota (p. 220) vengono riprodotti dal nostro Giornale, senza però citarlo, alcuni brani delle lettere di G. B. Casti (cfr. Gior., 1884, 282 e segg.). *** Nel Pungolo della Domenica (II, n. 52, 411) Alfredo Melani, sulla scorta di una relazione del D’Andrade, rende conto delle pitture esistenti GIORNALE LIGUSTICO in una vecchia chiesetta contingua alla Parrocchiale di S. Pier d Arena, denominata Cappella di S. Agostino. Quegli affreschi sono giudicati del sec. XIII, e Forse gli unici in Liguria che rappresentino l’arte di quel tempo. Da alcuni Nuovi documenti sul sacco di Roma editi da Cavalletti-Rondinini negli Studi e Documenti di Storia e Diritto (a. V, fase. Ili, 221) si rileva che Clemente VII, a fine di pagare la taglia impostagli per uscir di Castel S. Angelo, dovette prendere a prestanza 195 mila scudi d’oro di sole, due terzi della qual somma gli venne fornita dal banchiere Ansaldo Grimaldi e compagni mercanti genovesi, secondo il contratto 6 luglio 1527. Inoltre si ha una lettera del 17 maggio di Agostino Gentile, con la quale fa istanza al suo agente in Roma Alessandro Bosco, perchè veda modo di ricuperare con cautela le carte da lui depositate presso 1’ Ambasciatore di Portogallo, e cadute in mano ai soldati per il saccheggio dato al suo palazzo. Nella stessa pubblicazione segnaliamo le importanti lettere del card. Gran-velia a Fulvio Orsini in materia di letteratura, e di antichità (p. 245), perchè in certa guisa si rannodano a quelle dell’ Orsini al Farnese edite da Vittorio Poggi in questo nostro Giornale (a. 1878, 501). Sono pubblicate da P. de Nolhac, il quale si riserva (p. 248 n.) esaminare il carteggio dell’ Orsini con G. Vincenzo Pinelli esistente nella Bibliotea Ambrosiana , a fine di giovarsene per la vita che intende scrivere di quel-Γ archeologo. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Luigi d’ Isengard. Poesie con prefazione di Ludovico Selenio. — Livorno, tipografia di Francesco Vigo, 1884. Scorrendo questo libricciuolo, abbiamo provato un senso di maraviglia e direi quasi di sgomento, accorgendoci che in pieno secolo XIX c è ancora qualcuno che ha il coraggio di scrivere versi per vestizioni di monache, neo-sacerdoti e messe nuove. Ciò poteva essere buono ai tempi del Frugoni, il quale del resto scriveva di vena ed ebbe il mento di in- GIORNALE LIGUSTICO 79 trodurre novità importanti nella metrica. Ma qui niente di nuovo, niente di originale, niente che intorno al vecchio argomento , sfruttato dai poeti del secolo scorso, non sia stato già detto cento volte e assai meglio. Sentite il seguente sonetto che l’A. dedica al fratello neo-sacerdote : Stava librata sull’aitar di Dio Un’ eterea colomba apportatrice Di sette doni e de la fiamma altrice Che sul Giordan qual folgore apparìo. Quando per 1’ etra risonar s’ udìo : ' Il mio diletto è questi. : ed oh felice ! In atto di eh’ immola e benedice Te , mio germano , a quell’ aitar vid’ io. E qual chi geme innanzi a Lui prostrato Che sotto arcani veli a te scendea Dal cor mandasti un affettuoso grido : — Miserere di questa , ov’ io son nato, Itala terra. — E voce rispondeva : — A me ritorni, e di pietà l’affido. La solita colomba, il solito Giordano, il solito vecchio arsenale di immagini bibliche di cui un tempo si è tanto abusato, senza contare che il eh' immola della seconda quartina stride peggio di una sega , che il mio germano sempre della medesima seconda quartina fa sorridere e che il significato dell’ultima terzina non è ben chiaro. Sentite adesso questi altri versi che l’A. ha intitolato : Un Angelo. — Aprimi, o sposo : tutto lasciai I er farmi suora di carità. Non basta , o vergine : abbraccerai Con lieta fronte la povertà? — Ancella ai poveri il cor serbai : Qual mano il core mi schianterà? La tua ! su 1’ ara tu Γ offrirai E Dio la vittima consumerà. ,°^ers''.9 ,verg>ne, ma tu non sai Ch io voglio intetra la volontà. — Timo, o mio sposo, tutto donai Per farmi Suora di Carità. Entra, o bell’anima, e tu m’avrai Sposo per tutta l’eternità. Tra la la ra, tra la la ra.... ci verrebbe voglia d’esclamare. Del rimanente , a voler essere sinceri, bisogna confessare che qualche poesia uona c : il Monastero del Corvo, per esempio, dove il verso è ben sostenuto e serbata una certa sobrietà di linee, e il Golfo della Speria Ma, nel suo insieme, il libro riesce poco simpatico. I versi potranno essere perfetti, ma sono freddi come l’anima del poeta. Questi non si 8θ GIORNALI-: LIGUSTICO entusiasma mai, non si esalta mai, non si ricorda mai di essere uomo, e una bella fanciulla , viva e sana non fa nascere nella sua mente altri pensieri che questi : Allor che a te per sempre De P infinito s’ apriran le porte. Che fia di te? qual mai, Sede promessa a lo spirito anelo, Qual astro eleggerai , . , . Fra mille e mille ond’ è gemmato il cielo? A quel che più distante Brilla nel vano immobilmente fisso, Preferirai 1’ errante Che via ti meni a misurar Γ abisso ? D’ una romita sfera , Entro il folgor t’ asconderai, Maria , O con orma leggiera Incederai per la galassia via? Ecc. ecc. Tutto ciò è curioso, ma ancora più curioso è il grido melodrammatico che l’A. pone sulle labbra di una madre disperata : . . Che veggo ? oh Dio È spento, è spento il figliuoletto mio. Neppure il più grande, il più tremendo di tutti i dolori, ha trovato un’ eco nell’ anima sua e conveniente interpretazione. Delle poesie giovanili contenute nel volumetto non parleremo, rispettando il desiderio dell’ autore, tanto più che questi le giudica abbastanza severamente da sè chiamandole senz’ altro centoni pretrarcheschi, arsenali romantici e peccati di gioventù. Ci permetta però di osservargli che avrebbe fatto assai meglio a non pubblicarle, come pure avrebbe fatto assai bene a non guastare gli stupendi versi catulliani Dedicat,o Phase ,. Migliore è , a parer nostro , la versione del Béranger quantunque anche qui il pensiero non sia sempre reso con fedeltà scrupolosa. Ma checché possa pensare Ludovico Selenio, anche i pocln \ersi eie questo volumetto contiene, sono troppi, troppi e troppi. L’A. ha ragione di dire che la più bella delle sue poesie è la sua vita nomade agitata avventurosa; e noi. per apprezzare ed onorare il valente so ato e 1 oneroso sacerdote, che solo fra codardi vescovi e vii pretaglia luggente, seppe affrontare impavido l’ultimo fierissimo morbo della Spezia, non avevamo punto bisogno di questo meschino volumetto di versi. A. vj· a . Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 8ι A PROPOSITO DELL’ ARTICOLO DI G. HEYD. Il dotto articolo dell illustre prof. Guglielmo Heyd, inserito in questo periodico (pag. 3-21), mi ha invogliato di raccogliere sull’ importante argomento del commercio tedesco-genovese alcuni particolari dalle mie vecchie schede e da altre fonti; dei quali stimo opportuno far seguire la pubblicazione. All ambasciata che il doge di Genova e il duca di Milano spedirono nel 1417 , o in quel torno, all’imperatore Sigismondo (pag. 6), ne succedette una seconda mandata da Genova a Milano e in Germania nel 1424 in persona di un Corrado Her di Costanza, più genericamente appellato di Lamagna. Difatti nei conti dell Ufficio di S. Giorgio, sotto il 22 no\embie del detto anno, si legge: Pro Conrado de Ala-mania, et sunt quas ei date fuerunt pro suis expensis fendis quando ivit Mediolanum et Alamaniam pro agendis mercatorum teotonicorum requirendum venire Januam et habere fondicum, libre xxxvi, sol. v (1). Il risultato dell ambasciata, onorevole pei tedeschi e favorevole pel loro commercio, si può dire che consista nei tre documenti che seguono; i quali consentono ai loro mercanti un fondaco nelle vicinanze di S. Siro, e molti vantaci in materia di gabelle (2). (1) Archivio di Stato - Sezione di S. Giorgio Cartularium Officii S. Gcorgii a. 1424, fol. 9. (2) Della indicazione di questi documenti io vado obbligato alla cortesia del mio egregio amico, avv. Cornelio Desimoni, meritissimo sovrintendente degli Archivi Liguri. Giorn. Ligustico. Anno XII. 82 GIORNALE LIGUSTICO I. mccccxxiiii, die v decembris. Reverendissimus in Christo pater et dominus dominus I[acobus], Cardinalis Sancti Eustachii, ducalis ianuensium Gubernator, et venerandum consiluim dominorum antianorum in legitimo numero congregatum, in quo interfuerunt infrascripti, videlicet: D. Franciscus Iustiniar.us miles, D. Andreas de Auria legumdoctor, Iohannes de Zoalio, Baptista de Guisulfis, Marcus de Ponte de Pulcifera, Lodisius de Marinis, Martinus de Nigrono , Iohannes de Albario , Antonius de Monte notarius et Paulus Salvaigus ; Presentibus etiam et deliberantibus quatuor ex officialibus Sancti Geor-gii, videlicet: Dominico de Furnariis, Petro de Francis Iula, Gregorio de Marinis , Andalone Maruffo ; Et totidem etiam ex protectoribus Capituli, quorum nomina sunt hec: Raffus Spinula , Stephanus Lomellinus, Simon Macia et Cosmas Scalia. Considerantes civitatem hanc magnas percipere utilitates et commoda ex frequentatione mercatorum alemannorum huc confluentium, dignum quoque et honestum esse ut illis detur statio , seu locus vel receptaculum in quo sese ac sua quete recipiant et eorum negocia peragant liberi ac separati ab ommi tumultu ; audita relatione eis facta parte ipsorum alemannorum, concludente quod inter cetera cuncta loca fundicus Sancti Siri negociis suis summe esset aptus, et quod domini domorum sitai um in ea illas forte locarent preciis librarum octoginta vel circa in summa; volentes dare celerem expeditionem ordinationi dicti fundici, ut alemanni ipsi honestum hospicium et quale optaverunt obtineant ; omni via iure modo et forma quibus melius fieri potest, statuerunt, deliberaverunt et ordinaverunt quod domus site in dicto fundico Sancti Siri, ille scilicet et tot que negociis dictorum alemannorum sufficiant, conducantur ab earum dominis preciis convenientibus, dummodo ea precia non excedant summam librarum octoginta ; ipseque domus fundici concedantur et assignentur de cetero dictis mercatoribus alemannis qui Ianuam confluent; que quidem libre octoginta persolvantur de cetero dommis dictarum domorum singulis annis per Massarium Dugane, qui deinceps singulis annis eligetur, qui eas pecunias retineat ex omnibus cabellis Dugane, iusta de eis et equa partitione facta inter ipsas cabellas, sicuti et quemdamodum fieri’ solet de stipendio leudi custodie, salario consulum calegarum et aliis GIORNALE LIGUSTICO 83 consimilibus expensis; attento presertim quod, licet commoda que perveniunt civitati ex ipsorum alemannorum frequentatione diffundatur ad multos specialiter, tamen cabelle mercandarum ex ea adaugentur et fiunt meliores. Quam quidem deliberationem valere ac durare voluerunt ad ipsorum domini Gubernatoris et consilii beneplacitum. mccccxxv die xxx decembris Spectabile officium monete in legitimo numero congregatum, visa deliberatione suprascripta eaque diligenter examinata, annuit fieri prout in ipsa continetur, repertis balotolis septem albis consensum designantibus nulla nigra (i). II. mccccxxiv die xxvii decembris. Illustris et magnificus dominus ducalis Gubernator ianuensium etc., et spectabile consilium dominorum antianorum in legitimo numero congregatum, presentibus etiam quatuor ex spectabili Officio Sancti Georgii et quatuor ex protectoribus comperarum Capituli ad hoc specialiter vocatis et accitis. Intellecta requisitione eis porrecta per Conradum Her, civem Constancie, suo et ceterorum mercatorum alemannorum nomine requirentem certas immunitates seu cabellarum diminutiones concedi mercatoribus alemannis qui de cetero mercandi gratia Ianuam accedent, ut possint commodius irequentare Ianuam et multa facere atque tractare que, stantibus ipsis cabellarum oneribus, fieri non possent ; dictaque eorum requisitione discussa et examinata tam per ipsum spectabile Officium Sancti Georgii quam per duos ad hoc deputatos et super ea maturo examine precedente ; omni modo via iure et forma quibus melius et validius potuerunt et possunt statuerunt, ordinaverunt, concesserunt, voluerunt ac mandaverunt quod de cetero pro omnibus rebus et mercibus que extrahentur de Catalonia et Provincia per mercatores alemannos et producentur ad civitatem aut districtum Ianue, mittende ad aliqua loca Alemanie, dominio tamen non mutato , non solvatur quam dimidium pro centenario valoris seu extimationis earum, excepto tamen croco seu safrano, pro cuius valore seu extimatione solvatur unum pro centenario. Et hoc idem intelligi et fieri (i) Archivio di Stato. — Codice Diversorum anui 1424, num. 14-508. 84 GIORNALE LIGUSTICO voluerunt de omnibus rebus et mercibus que per ipsos alemannos producentur Ianuam aut ad aliqua loca districtus eius , et extracte fuerint de Alemania mittende ad partes Provincie et Catalonie que Ianue dominium non mutabunt, pro quibus non solvatur quam dimidium pro centenario valoris seu extimationis earum ut superius declaratum est: que quidem solutiones fiant introitu caratorum maris. Et volentes ne hiuiusmodi concessio gratie parere possit ullam fraudem, voluerunt, ordinaverunt et mandaverunt quod dicti mercatores alemanni teneantur et debeant huiusmodi res et merces mittendas ad partes Provincie et Catalonie, seu ab ipsis locis Provincie et Catalonie advectas trasmittendas ad partes Alemanie ut superius expressum est, expedivisse cum iuramento intra menses sex a die qua res et merces Ianuam pervenerint proxime numerandos : quod si intra terminum ipsum non fecerint, compelli possint ac obligati sint solvere omnino prout et quantum solvunt ianuenses. Si autem accideret aliquem ex ipsis alemannis committere fraudem aliquam contra ordinationem supra-scriptam, cadat ipso iure in amissionem rerum et mercium in quibus fraus commissa esset, et ultra in penam solvendam tantumdem nomine condemnationis et pene, nec possit amplius frui hac concessione gratie aut aliqua parte eius, sed omni tempore pro exploso et infami habeatur. Pro rebus autem et mercibus que ad aliis locis quam superius declaratis advehentur, voluerunt solvi debere, tam pro adventu quam pro exitu, sicuti et quantum solvitur nunc in presenti. Et quum facile posset contingere perduci Ianuam ab ipsis alemannis de partibus ac locis Alemanie telas, canabacios et fustaneos non causa trasmittendi ad alia loca sed potius vendendi frustatim sive ad retalium, voluerunt et concesserunt de gratia dictis alemannis quod pro telis, canabaciis ac fustaneis quos et quas de Alemania Ianuam producent ac vendent frustatim sive ad retalium, non solvantur quam denarii novem pro libra, quorum sex sint introitus canne pannorum denariorum sexdecim et reliqui tres sin introitus denariorum octo canne pannorum, nec ad a-liam aliam solutionem cogi possint. Et volentes ipsi illustris dominus Gubernator et consilium, omnia hec plene servari mandaverunt er iniunxerunt ac presentium auctoritate mandant et iniungunt omnibus et singulis magistratibus et officialibus communis Ianue presentibus et futuris quatenus omnia et singula supradicta firmiter et inviolabiliter observent et faciant effetualiter observari, nec contra ea quicquam audeant attentare (i). (i) Cod. cit. GIORNALE LIGUSTICO 85 III. mccccxxv die xxviii martii. Reverendissimus in Christo pater et dominus, dominus I. Sancti Eustachii Cardinalis, ducalis ianuensium Gubernator, et spectabile consilium dominorum antianorum in sufficienti et legitimo numero congregatum, proponentes animo ut conventiones et immunitates inite et donate mercatoribus alemannis Ianuam frequentaturis inconcusse et plenarie observentur ; scientes hoc anno ab paucis diebus citra factas esse quasdam additiones cabellarum que videntur includere omnem nationem et ipsas quascumque, quibus additionibus nunquam fuit animi ipsorum rev. domini Gubernatoris et consilii mercatores alemmanos subiicere contra eorum immunitates et exemptationes; hoc presenti decreto inviolabiliter servando, omni via, iure, modo et forma quibus melius fieri potest, statuerunt, ordinaverunt et mandaverunt quod omnes et singuli magistratus et officiales communis Ianue qui ad hoc fuerint requisiti teneantur et debeant, sub pena sindica-menti, servare ac plene servari facere omnes et singulas conventiones, immunitates, exemptiones, privilegia et gratias' concessas et factas mercatoribus alemannis usque in diem hodiernum , nec contra eas aliqualiter facere vel venire, aut alicui contrafacere aut contravenire tentanti audientiam prebere ad instantiam alicuius emptoris seu collectoris aliquorum introituum, cabellarum, pedagiorum, dacitorum seu additionum hactenus factarum, quocumque nomine vocentur ; sed intelligatur expresse nihil esse factum aut ordinatum contra eas immunitates et exemptiones alemannorum per novas additiones cabellarum nuper ordinatas nec per ullas cabellarum veterum venditiones, licet aliqui emmptores seu collectores allegarent in clausulis suarum cabellarum nullam fieri mentionem de eiusmodi immunitatibus, conventionibus vel gratiis alemannorum. Mandantes insuper et expresse inlungentes omnibus magistratibus et officialibus communis Ianue, signanter autem consulibus calegarum, quatenus omnes causas dictorum alemmanorum et cuiuslibet eorum summarie et expedite terminentur et decidant, reiectis cavillationibus quibuscumque (1). Del costanzese Corrado, rammentato nel documento II, non mi riuscì saper altro; e se a tutta prima sembra naturale che (i) Arch. cit. — Cod. Diversorum anni 142; , num. 14-500. 86 GIORNALE LIGUSTICO il nome ci richiami a quel Corrado d’Alemagna, di cui è noto per la Cronaca del Calvo com’ ei dipingesse nella chiesa di Nostra Donna della Misericordia in Taggia; non tardiamo però a conoscere che la data del 1477 assegnata ai dipinti ci condurrebbe troppo lontani (1). Piuttosto si dovrà pensare che egli si possa identificare con quel Corrado d’Alemagna, del quale l’Alizeri trovò notizie pertinenti alla prima metà del secolo XV ; donde risulta che era peritissimo nella fabbrica delle tovaglie, e buon pratico in materia di licci e telai (2). A ragione poi il dotto Heyd stima che Ravensbuigo sia da rassegnare fra le città, le quali ebbero con Genova relazioni maggiori (pag. 9). Fu pure di Ravensburgo quell insigne pittore, di cui ci rimane monumento preziosissimo il grande affresco della Nunziata nel chiostro superiore di Castello, segnato del 145^· Ma, fra il marzo ed il settembie di questo medesimo anno,·ci parlano aitesi del valente pittore tre rogiti notarili scoperti dall’Alizeri; e, come questi egregiamente avvertiva, più dell’ artista ci chiariscono il trafficante. L’arte ed il commercio andavano almeno di pari passo in lui, che per queJ tempi aveva in Genova ferma stanza: ed infatti due di que’ rogiti non trattano d’altro che del mestiere del battiloro, rispetto al quale è anche bene il sapere che tra noi vi attendevano « uomini specialmente venuti di Germania, e di Fiandra e d’altri luoghi ». Appunto per certo meicimonio di fogli d’oro e d’argento, il pittore si accordava con un Leone da Bruggia e con un Giovanni di Picardia, promettendo a quest’ultimo (patto curioso, ma non raro) di dargli anche una cameruccia nella propria casa, con letto fornito di coltre e due lenzuola per passarvi la notte. Nel terzo isti 11- (1) Alizeri , Notizie dei professori del disegno dalle origini al secolo XVI, vol. I, pag. 319. (2) Op. cit., I. 411. GIORNALE LIGUSTICO 87 mento infine, Giusto si conveniva con Alamanno Lupo da Francoforte, tovagliaro, abitante in Savona, contraendo con lui società di commercio e provvedendolo di un fardello di mercanzia del valsente di lire 70 genovine (1). Un altro rilievo mi suggerisce il nome dell’ artista , pensando all’affermazione dell’Heyd, che il nome personale di Ics ed Iost occorre frequente nella casa degli Hundbiss, domiciliata in Ravensburgo. Sarebbe mai fuor di luogo la domanda: se Justus possa essere una latinizzazione di quel nome, e se il pittore della Nunziata a Castello sia per avventura da ascrivere alla mentovata famiglia così celebre per dovizie e commerci ? Di un altro tedesco di molta considerazione, dimorante in Genova al tempo di Giusto, ne dà certezza un decreto emanato dalla Signoria il 10 gennaio 1451, ad instantiam Nicolai Egra alamanni, suo et nomine Jratris et nepotum, per rinnovare ai medesimi conventionem pro habitatione in civitate. Certo gli Egra derivavano il nome del casato da quello della città boema sull’Eger; ma diventarono in breve nostri concittadini, ebbero pubblici uffizi, e uno di loro, Nicolò qm. Bernardo, fu ascritto del 1528 nei De Marini (2). Le Conventiones Alamannorum del 1466, riferite dall’ Hevd (pag. 14-20), presuppongono « Γ esistenza di un consolato tedesco » (pag. 12). E di vero, un atto notarile del 17 gennaio 1463 ci insegna che il valente giureconsulto Paolo Ba-sadonne teneva allora in Genova l’ufficio di console dei mercanti tedeschi, ed era in questa carica succeduto al proprio zio Bartolomeo (3). Ma il nipote durava tuttavia in funzione nel 1474, perocché nei rogiti di Oberto Foglietta, sotto il 4 luglio di quest anno, si legge: Spectabilis iuris utriusque doctor (1) Op. cit., I 407 segg. (2) Giscardi , Famiglie nobili di Genova, MS. sec. XVIII. ; § Egra. (3) Staglieno, Il Borgo di S. Stefano ai tempi di Colombo , pag. S. 88 GIORNALE LIGUSTICO Paulus de Baxadonnis, consul alamannorum in civitate lamie, audita requisitione coram eo facta per Margaritinam filiam qm. nobilis Georgii de Columnis et uxorem qm. Georgii Sur alamanni, habitatoris larme, petentem dari tutorem et pro tempore curatorem Francischeto, Hieronymo et Augustino, ac Theodor ine et Loisine Mis ac filiabus dicti qm. Georgii, ac etiam ventri pregnanti dicte Margaritine, eligit ad dictum munus dictam Margaritinam (i). La Teodorina Sur, nominata in quest'atto, contava appena quattro anni di età; perchè è detta virgo tredecim annis nata nel 1483, allorché fu audacemente rapita da Paolo D’Oria, come sappiamo dagli annalisti e più circostanziatamente per una lettera indirizzata il 13 giugno dalla Signoria al Duca di Milano. La lettera dice altresi la fanciulla genere ac fortuna nobilis; e questo si accorda non pure col rogito del Foglietta, ma colla narrazione del Giustiniani, là dove ci informa che a Teodorina.« già erano pervenute o erano per pervenire molte ricchezze » (2). Un altro Basadonne, di nome Onofrio, venne dopo di Paolo nel consolato tedesco, e di lui è cenno nella indicazione di un atto del 1479, in certo codice di Memorie Genovesi “dell’ archivio degli esteri in Parigi. Donde rilevasi parimente, sotto il 14 dicembre 1489, il nome di Giovanni D’Oria consul alamannorum; e al 10 dicembre 1488 la conferma dell’elezione del successore, accaduta di quei giorni nella persona di un Jacopo della stessa famiglia (3). Inoltre gli atti di Angelo Giovanni da Compiano, nella (1) Archivio di Stato. — Pandette Richeriane : Libro fasciato di cartina, pag. 1868. (2) Giustiniani, Annali, II. 541. — La lettera è in Belgrano, Vita privata dei genovesi, ed. 1875, pag. 423. (3) Memorie Genovesi, vol. I, car. 33.61. 151 (Fond. Génois, num. 12). — Debbo anche queste notizie alla gentilezza del cav. Desimoni. GIORNALE LIGUSTICO S9 cancelleria di S. Giorgio, serbano al 25 maggio e al 5 giugno del 1495 i nomi di Giovanni Francesco Spinola e Domenico De Marini, rispettivamente investiti del consolato e del viceconsolato degli alemanni. Ma 1’ atto del maggio è specialmente importante, perchè con esso lo Spinola invoca ed ottiene dal-l’Ufficio delle Compere che siano rimossi gli ostacoli fin qui fi apposti al conseguimento di una loggia particolare, conceduta dal Comune ai mercanti tedeschi sino dal 10 gennaio 1492 (1). Finalmente si conoscono i nomi dei consoli Nicolò D’Oria pel 1496, Agostino Lomellino pel 1499 e 1500, ed Antonio Bagarotto pel 1532 (2). Ma anche 1 monumenti religiosr ci parlano della frequenza e dimora dei tedeschi in Genova. La Compagnia delle quattro nazioni (cioè dei mercanti lombardi, romani, francesi ed alemanni) istituita nella chiesa dei Servi di Maria, ebbe fra noi propri statuti- 1 quali rimontano al 10 agosto 1393, e furono pubblicati dal eh. Rossi nel vol. XI (serie I) della Miscellanea di Stona Italiana. Sappiamo che la Consorzia, come dicevanla pm comunemente, era posta allora sotto Γ invocazione di Nostra Signora di Misericordia. Solamente alquanto più tardi vi si aggiunse il nome di S. Barbara, e fu probabilmente verso i principi del secolo XV, a cagione di un legato fatto alla Compagnia da un tal Gaspare d’Alemagna; a proposito de quale, nelle addizioni ai citati statuti si registra Γ obbligo di celebrarne appunto nel giorno della santa il funebre anniversario. Fra gli ornamenti che la Consorzia procacciò alla propria cappella nello stesso secolo XV, rimane tuttavia un bel basso rilievo in marmo, esprimente Nostra Donna col (I) Archivio di Stato _ Sezione di S. Giorgio. _ Fogliazzo Actorum Cancellarmi A. J. C., ann. 1493-95. . (2) Γ?™™’ RdaiÌOnÌ tra Genovaela Germania ; nel giornale geno-\ese il Cittadino del 20 novembre 1882, 9° GIORNALE LIGUSTICO Putto, cui sottosta la leggenda: Dominus Curadns de Forte Franche (Francofòrte) et Consortia foresteriorum fecerunt fieri hanc figuram. Ma nei primordi del Cinquecento, allorché Γ edicola fu ricostrutta ad ingegno di Leonardo d’ Arcezario, il più esperto che a’ suoi giorni fosse nell’arte del murare, e decorata di pitture, d’invetriate a colori e di scanni leggiadramente intagliati (i), gii buomeni della Compagnia collocarono a perpetua memoria del fatto una lapide, nella quale fecero scrivere che la cappella è stata livera (finita) ijoy a dì η di s““mbre· L. T. Belgrano. ARMI PROIBITE (2) [Arme proibita 0 vietata. Arme difensiva od offensiva portatile, di cui non era permessa la delazione e di alcune offensive più insidiose e micidiali anche la detenzione; diverse di numero e di qualità per ogni Comune: principalmente (parlandosi qui solo delle offensive e antiche) pugnale (arme corta e manesca con lama larga a due tagli), trafiere (pugnale acutissimo), stilo 0 stiletto (specie di pugnale con lama triangolare 0 quadrangolare), passante (da passare in vece di trafiggere, stiletto romano), punteruolo (altro stiletto), fusetto (pugnale ferrarese, con punta quadra e affusolata, dice il Decreto), quadrello (altro pugnale di lama quadrangolare), lesnaxjo 0 lesinalo (arme corta usata in Padova ed in Adria, fors e a forma di lesina), subione (arme padovana, che si direbbe a forma di subbia, scarpello appuntato per lavorare le pietre); coltello acuto (che i Ferraresi, i Bolognesi e i Padovani chiamavano altresì schinipo e scinipo), pugnereccio, da ferire, destrale (quello fatto per portarsi al fianco destro chi poteva, (1) Alizeri, Op. cit., I. 344 segg. II. 364· HI. 40. (2) Nuovo articolo del Dizionario ital. stor. e amm. (Cfr. a. 1884, 321). GIORNALE LIGUSTICO ?! che pare vero pugnale), da gallone (forse spada corta da portarsi al gallone), trivellato (quello fatto a trivella), imolese, alla genovese (dal luogo ove questi coltelli proditorii si fabbricavano 0 si costumavano più comunemente) ; lancione, spuntone a nodello (arme in asta con lungo ferro quadro, ma che cosa era il nodello?), lanciaspiedo (partecipante della lancia e dello spiedo), verruto (piccolo spiedo 0 spuntone acuto, quello che i Sardi usano per la caccia e chiamano berrudu), bordone (sembra specie di lancia conforme al bordone de’ pellegrini, con punta di ferro nella estremità inferiore), falcione (arme in asta col ferro a ino’ di coltellaccio, lungo settanta od ottanta centimetri, curvo nel taglio e quasi diritto nella costola, verso il mezzo della quale sporgeva una punta adunca, così Γ Angelucci : ma diversamente I’ Editore degli antichi Statuti Bolognesi crede, che il falcione fosse simile allo strumento rusticale adoperato a scavezzare i rami piii robusti degli alberi, onde i Ferraresi lo dissero alcuna volta latinamente falconem de cavezio, forse lo stesso che il roncone); chiavarina (arme in asta, colla quale si feriva di punta e di taglio, e che talvolta si lanciava contro il nemico) ; verga sardesca (usata non solo in Sardegna sua patria, ma in Pisa, in Asti e forse ancora in Genova, consistente in un bastone, il quale aveva una punta 0 sti ale di ferro che si poteva scagliare in lontanatila indipendentemente dall’ asta in cui era infisso il dardo); pennato a razzo, becicuto, beccacenere (coltellaccio fermato in manico più 0 meno lungo, con in cima un becco 0 rostro tagliente come di civetta, non il pennato potaiuolo 0 boschereccio, quantunque fra loro somiglianti); ronca, roncola, roncone (anche questi, strumenti rusticali, convertiti in armi mortali); spiedo (arme in asta fatta d’un ferro acuto in cima ad un bastone), stocco (arme bianca manesca da ferire di punta e rarissimamente anche di taglio) , spada corta; giusarme (specie di scure, da obbligare il nemico a porre giù V anni) ; mannarese ed il mantovano manavesio (che paiono mannaie ambedue; alla mannaia qualche volta si appic- 92 GIORNALE LIGUSTICO cava U1l lungo manico ed allora diventava come roncone); mazza ferrata (bastone con testa a coste, o sferica, con o senza punte e tutto di ferro), mazza piombata (la stessa mazza, aggiuntovi del piombo nella testa, per renderne più gravi i colpi), mazza avirata (secondo /’ Editore Bolognese sovraccitato, mazza di legno, colla testa munita di viera o ghiera di ferro) , piombatola (lo stesso che mazza piombata, secondo il parere dello stesso Editore; talvolta pallottola di piombo da lanciarsi colla fromba, coll’arco, e colla balestra, se non ancora colla mano); mazzafrusto (frusta di cinque o sei cordicelle o fili di ottone o di ferro guerniti in cima di palla di piombo; ed asta lunga circa tre metri, a cui si legava in uno de’ capi una fromba o tasca di cuoio, entrovi una pietra che si lanciava per l’impeto dato all asta con ambedue le mani-,· dai Bolognesi detta cazzafuslo, e dagli antichi Romani fustibolo); azza (stando alla Crusca, arme in asta lunga un braccio, circa settantacinque centimetri, con ferro in cima ed un altro a traverso , dall’ una delle parti appuntato e dall' altra a guisa di martello ; contrariamente il predetto Editore asserisce che nel Bolognese azza anche, oggidì vale accetta); e tanto basti per chi si contenta (i)]. Ma in Vercelli, in Bologna ed in (i) Statuta Paduae (ante 1236) cap. 751, 752. Statuta Augustae Preto-riae (1188-1253) coi. 34 (Monum. Hist. Patr. Leg. Munie, toni. I.). Statuta antiqua civ. Astensis, cap. 92. Statuta Vercellarum (1241) cap. 70. Statuta Bononiae (1250) I, 10, 11, 16; X. 44-> 167· Statuta Lucae (1308) III, 25. Breve Pisani Comunis, (1313-1337) M> !5· Statuta Mutinae (1327) IV, 29. Itis Municipale Adriae, pag. 46: Venetiis, I7°7· Muratori, A. M. Æ. diss. XXVI. Atti della Deputazione di Storia Patria per le Provincie Modenesi e Parmensi, V, 224. Cittadella L. N. , Notizie di Ferrara, pag. 427 : Ferrara 1864. Grassi, Di\. Milii. III, 44! IV, 155» 3Î1· Torino, 1833. Tommaseo, Canti Toscani, pag. 151: Venezia, 1845. Ange-LUCCI, Il Tiro al segno in Italia, pag. 17: Torino, 1864. Id. Osservazioni sul vocabolario della Lingua Italiana compilato da Giuseppe Rigutini, pag. 56, 84, 165, 219: Torino, 1882. GIORNALE LIGUSTICO 93 Firenze, nel secolo tredicesimo , per far la cosa piena e più sicura, fu proibita la portazione non tanto delle predetti armi, ma e di tutte le altre offensive, se altre ce n’erano, e parimente delle difensive (i). E ciò pure in Brescia ed in Pisa, se non quanto chi pagava i dazi e le prestanze della città e del distretto, e quindi porgeva di sè maggior sicurezza al pacifico stato, che non colui che non ha nulla e naturalmente vorrebbe avere e talvolta per ogni modo , in Pisa egli poteva di sua ragione coprirsi il capo colla cervelliera (2). A questa eccezione de’ Pisani vuoisi aggiungere quella fatta da’ Bolognesi al loro divieto generale del 1250, dal quale esclusero la spada lunga consueta, essi dissero, cioè usata da molto tempo innanzi (3); permessa ancora nelle città marittime della Sicilia per difesa contro i corsari (4). La quale arme venne poi in maggiore usanza che mai nel secolo diciassettesimo e nel susseguente, cinta a’ fianchi, come costumavano anticamente i soli Cavalieri, e parte necessaria -dell abito corto alla francese, 0 portata, non senza inconvenienti , aa servitori dietro a’ padroni, come gli scudieri portavano dietro a’ Cavalieri antichi la lancia e lo scudo (5). I Cavalieri antichi tenevano pure alla cintola, quasi accessorio della spada dorata, un pugnaletto, che pel costume di portarsi alla destra dentro guaina si chiamò talvolta coltello destrale; e si adoprava colla mano sinistra ne’ duelli, in- (1) Statut. Vercell. cit. pag. 73. Statut. Bonon. loc. cit. Rondoni, Costituto Fiorentino (1284), pag. 52: Firenze 1882. (2) Statuta Brixiae (1313) li, 25. Brev. Pis. Com. loc. cìt. (3) Statut. Bonon. loc. cit. (4) Privilegi confermati alla università della terra di Alcamo del 1/64, pag. 80 (Documenti per servire alla Storia di Sicilia, ser. II, vol. I.). (5) Rinuccini T., Usanze Fiorentine del secolo XVII, cap. 8. (nel tom. I del Giornale II Borghini). 94 GIORNALE LIGUSTICO sieme colla spada nella destra (i). A proposito della quale usanza Franco Sacchetti indispettito del vedere alcuni Notai innalzati alla cavalleria, li motteggia dicendo lor dietro, che convertivano il pennaiuolo notariale in aurea coltellesca (2). Io non so se egli intenda di alcuni Notai che avesse in uggia particolarmente; ma egli è certo che ce ne furono dei letterati, anzi de’ letteratissimi e virtuosi, da onorare la cavalleria più che da riceverne onore ; uno de’ quali, contemporaneo suo, Coluccio Salutati, vale per cento. Per contrario i Notai comuni, in Bologna, e nelle altre città, dovettero, per arme corta da portarsi adosso, contentarsi d’un coltellino appuntato da temperare le penne del loro mestiere, non più lungo di circa sei centimetri, e, più, d’un paio di forbicette. Un simile coltellino era pure la mancia, in certe feste solenni, degli Ufficiali dell’ antico Comune fiorentino e si dava agli stessi Priori, Signori della Repubblica (una delle tante piccole cose che composero le grandi), come altrove pepe, candele e camangiari, e si portava pendente dalla cintola. A rutti gli altri cittadini fu sol conceduto un coltello mozzo, che in Pisa si chiamò affettapanc ed in Parma coltello da pane o da tavola, dall’ uso a cui era appropriato, lungo in Bologna quanto il temperino o coltellino de’ Notai, in Pisa tra ferro e manico, minore di venticinque centimetri, in Parma minore d’una spanna che dovrebbe tornare a qualche cosa di meno ; ed in questa città il Governo vegliava che quei coltelli fossero fabbricati di buono, puro e legale acciaio (3). Ma (1) Angelucci, Glossario delle voci militari che s'incontrano nell’ Inventario degli arredi e dille armi di Sinibaldo Fieschi, del MDXXX1I, pag. 23 : Genova, 1876. (2) Sacchetti F., Nov. CLIIL (3) Statut. Bonon. cit. II, 16. Statuta Viterbii (1257). IH, i}7- Statuta Parmae (1252) pag. 357 (Deput. Stor. Pair. Parm.). Brev. Pis. ComAoc. GIORNALE LIGUSTICO 95 la concessione della spada lunga fatta a’ Bolognesi prima del 1250 ed allora confermata, pochi anni dopo venne lor tolta da Matteo da Correggio lor Podestà, il cui linguaggio dittatorio e veramente disusato ben rivela le condizioni torbide della città che egli reggeva con autorità straordinaria (1). Nondimeno nè egli nè gli altri che lo seguirono nella nobile impresa di pacificare ed assettare quel Comune, con tutto lo studio che vi spesero attorno non ne vennero a capo; onde fu che nel 1265 convenne darne le briglie in mano a’ Frati Gaudenti. I quali nell’ opera del disarmamento, fecero quel più che si possa immaginare, infino a trasformare in delitto il poi tare un bastoncello qual si sia od una pietra qualunque; la quale esagerazione concorda cogli altri ordini loro, benché alcuni assai civili a tenore de tempi (2). Ma gli uni si disarmavano e gli altri si armavano ad oltraggio e in odio de’ disarmati, secondo la polizia de’ nostri antichi Riformatoli, di che per cercare la pace si perpetuava la guerra, o sospendendola si preparava più crudele. E questa faccenda delle armi fu presso a poco la medesima in tutte le Città rette a Comune, chè a queste intende massimamente il mio discorso. Dove egli è da osservare, che, salvo i casi delle Balìe per difendere la libertà pericolante o per annullarla, quanto più la libertà s’allargava ragionevolmente e rassodava, tanto più si restringeva, come meno opportuno, l’uso privato delle armi fuori degli ordini militari; al che vorrei ponesse mente il mio Lettore. Il perchè non prima i Comuni cit. Slatuta antiqua Merzadrorum Civ. Parmae, pag. 29: Parmae 1869 NoveUa di Torello del maestro del Garbo, scritta da un anonimo del secolo XIV: Firenze 1827. Sacchetti F., Nov. LXX. Vedi Amescere , Coltellino, Minuta § 3, Osella. (1) Statut. Bonon. (1261) cap. 49, 50. (2) Statut. Bonon. (1265) cap. 52. GIORNALE LIGUSTICO vennero per tal modo acquistando ferma e buona costituzione, le licenze delle armi profuse in addietro si revocarono, ab-benchè provenienti da Consigli e da Parlamenti sovrani e col suggello della perpetuità, essendo sopravvenuti tempi più civili che toglievano ogni ragione a quelle concessione; nè a’ cittadini privati si dettero da indi innanzi altre licenze, se non per cagioni grandissime, e mediante cauzione (i). La facoltà che nel loro tumulto si pigliarono in Firenze i Ciompi e che compartirono agli uomini della Consorteria della Libertà, ossia della libertà loro avversa a quella di tutti (come sempre s’è fatto a si farà dalle sette arrabbiate), non solamente di portar eglino ogni specie d’ armi, ma altresi di licenziare altrui a portarle, prova la verità della predetta sentenza (2). Onde io non posso acconciarmi a credere, che molti Comuni imitassero il vercellese, dove il Podestà poteva di suo capo permettere a chicchessia, senza die vi potesse esser mai ragione plausibile, armi cosi terribili, come il falcione, il bordone, e più che tutte il coltello acuto o da ferire, quello che in Padova repubblicana era armatura privilegiata degli Anziani ed oggi degli assassini volgari (3); il che sia detto, almeno una volta, a lode de’ tempi nostri. Quanto alle armi difensive, di queste ancora si richiedeva il permesso a portarle. Ed in Firenze volgendo il secolo tredicesimo si dava colla malleveria di non offendere; il quale ordine per altro dovette essere presto allargato o sopraffatto dagli abusi, mercechè ne’ primi del secolo susseguente anco i fanciulli di tredici anni avevano preso il costume di portar cervelliere fondate insino alle ciglia, scrive Fra Giordano da Rivalto; dove prima andavano co’ capelli lisciati ed ac- (i) Statut. Luc. loc. cit. • (2) Vedi Consorteria della Libertà. (3) Statut. Vercell. cit. cap. 70. Statuì. Pad. (1261) cap. 755. GIORNALE LIGUSTICO 97 conci come le pulcelle (i). In Lucca si dava il permesso ili quelle armi a chi per fama o per testimoni si sapesse avere pubbliche inimicizie di grandi offese o a chi giurava di averne delle private ed occulte , eccettuati sempre dalla permissione i guanti di ferro e la rotella; in Modena eccettuata la rotella e la bracciaiuola, che là passavano per armi offensive (2). Le difensive si potevano colla licenza portare in Padova anche coperte (5). All’ opposto in Pisa non si dava licenza senza 1’ obbligo di portarle scoperte e continovó e tutte, cioè non tanto il coretto, la cervelliera e la οόγ- ' u giera, quanto il tavolaccio 0 vogliamo la rotella , non permessa in Lucca ed in Modena; e chi si mostrava fuori, mancante di alcun pezzo di cotali armature, cadeva in multa, eziandio per i pezzi che portava, come a non avere licenza alcuna (4). Pare proprio che la strana gravezza di questa condizione fosse trovata apposta per diminuire il numero de’ richiedenti, molto più in terra di mercanzia e di arti, quaie Pisa, che trattava i commerci di tanta parte del mondo. Avrebbe dovuto bastare a renderla insopportabile la sola gorgiera di fil d’ottone o di ferro, la quale teneva la gola dell uomo ritta ed immobile come dentro ad un doccione , sicché egli non poteva né anche guardarsi a’ piedi, quantunque in Firenze fosse venuta in grande usanza, al pari di qualsivoglia foggia d’abito ; e Dante egli pure la portasse colla bracciaiuola, targhetta con un pezzo di bracciale talora a di tegolo, non meno ridicola, della quale diè sulle spalle all’asinaio che strappazzava i suoi versi (5). Nella stessa (1) Rondoni, Constit. Fior. loc. cit. Fra Giordano, Prediche, I, 411, 412: Milano, 1839. (2) Statut. Lue. loc. cit. Statut. Mutin, cit. IV, 269. (3) Statut. Pad. (1262) cap. 753. (4) Brev. Pis. Coin: loc. cit. (5) Sacchetti F., Nov., CLXXVIII. Angelucci, Appendice agii errori del Vocabolario della Crusca, Lett. B, pag. 72: Torino, 1876. Giork. Ligustico Anno XII. GIORNALE LIGUSTICO maniera si usò in Italia e iuori il colletto, che fu certo imbusto di cartoni, o di cuoio , di pelle di dante , di pesce o d’ altro animale, indossato , come il giaco di maglie d acciaio o di 61 d’ottone o di ferro, sotto l’armatura o sotto gli abiti civili, a sicurezza della persona, per il che si trovano ambedue fra le armi difensive vietate ne’ Bandi fiorentini (r). Tutta vol ta la particolarità de’ casi e delle persone arrecava alla regola del divieto delle armi, non poche eccezioni; per esempio quelle riguardanti i principali Magistrati di signoria ed i loro Notai; ed i principali Magistrati popolari, sebbene senza signoria, come i Difensori e Sapienti del Popolo modenese che godevano il privilegio della armi insieme con un lor famigliare per tutta la vita; e come, durante il seggio, i Gonfalonieri delle Compagnie del Popolo di tutti i Comuni, i Priori delle Società delle armi di Lucca, i Consoli delle Società di Sant Eusebio e di Santo Stefano di Vercelli, e molti altri somiglianti; più oltre quelli del Consiglio Veneziano de’ Dieci, quando erano giudici di fatti gravi e massime contro rei di grande potenza, non che i testimoni e gii altri intervenuti nel processo avevano ia licenza delle arme per sempre (2). Il quale privilegio, contrario alla eguaglianza cittadina, procedeva dalla considerazione di salvare dalle vendette private gli Ufficiali e 1 cittadini per quello che avevano operato, si deve almeno supporlo, nell’adempimento del loro dovere; e ciò per fermo non loda la vita civile di que’ tempi. Molto meno è scusabile nel secolo quindicesimo il diritto del Rettore dello Studio Padovano, del Notaio, ed altresi del Bidello e de famigli di quell’ Istituto di portare notte e dì ogni genera- (1) Cantini, Legislazione Toscana, XI, 655: Firenze, 1800-8. (2) Statut. Vercell. cit. Doc. (1243) num. XVI e XVIII. Statut. Mutin. cit. Ili, 221. Vedi Consiglio de’ Dieci, Gonfaloniere della giustìzia, Gonfaloniere delle Compagnie, Priori delle Arti, Priori delle armi. GIORNALE LIGUSTICO 99 zione d armi, e di permettere il Rettore agli Scolari e Dottori, che avessero inimicizie, di andare sempre armati; facoltà mostruosa tolta al Rettore il secolo appresso (i). Per altro io m immagino che si debba estendere a molti, se non a tutti costoro, quello che apparteneva agli Anziani Lucchesi, i quali avevano sibbene il privilegio di tutte le armi, ma di una soltanto alla volta , non di portarsi addosso un arsenale intero, del resto inutile a chi non ha cuore (2); ed ancora, rispetto agli Anziani di Padova, sembrami che nel fatto il privilegio di tutte le armi si restringesse (nè essi se ne tengano) a coltelli acuti, di cui parlano massimamente per cosa a lor più cara e propria gli Statuti (3); cosicché qualche restrizione in questa sconcia larghezza ci avrebbe ad essere stata senza fallo. Vuoisi pure osservare che negli stessi tempi e sotto la stessa popolarità, non rileva se guelfa ο ghibellina, gli Anziani ed i Priori di Lucca della stirpe de’Ca-sastici 0 Potenti, non ostante il fulgóre del seggio supremo popolare che avrebbe dovuto purgarli d’ ogni ruggine signorile e, quasi direi, ribattezzarli, nondimeno venivano esclusi inesorabilmente dal privilegio di tutte le armi, ed agguagliati alla stregua comune dei loro consorti ; i quali potevano sì portare la gorgiera, la cervelliera, il coretto o guarnacca e gli schinieri e queste armi coperte, ma non la rotella, nè 1 guanti di ferro, nè la bracciaiuola o tavolaccio, senza il beneplacito del Podestà conceduto per idonea cauzione pesata ed approvata dagli Anziani e dai Priori, e non mai anni offensive di nessuna maniera e per nessuna cagione (4). (1) Stallila et Privilegia almae Universitatis Patav. al· Excell. Senatu Veneto concessa, I, 23 ; IV, 8: Patavii i648. (2) Statut. Luc. loc. cit. (3) Statut. Pad. (1263) caP· 755· (4) Statut. Luc. loc. cit. 100 GIORNALE LIGUSTICO Nella qual cosa Pisa e Firenze, quantunque repubbliche della medesima forma della Lucchese, da questo lato erano alquanto diverse; perciocché in Pisa, ed in Firenze la licenza delle armi offensive e difensive si concedeva anche a’ masnadieri o sergenti, e meglio dire a’ satelliti de’ predetti Potenti, colla sola malleveria di questi, in cui non era alcuna ragione di tener fede allo Stato popolare (i). Il privilegio delle armi ai descritti nelle Bande paesane e nella Milizia Civile fiorentina degli ultimi secoli della libertà, nelle Battaglie o Battaglioni toscani, romani, napoletani e veneti, nella milizia paesana o Cerne piemontesi ed altre , o nelle Scuole de Bombardieri ferraresi e veronesi e simili compagnie o consorzi militari, si disforma dalle antiche e severe usanze repubblicane, quando per buon tempo ancora i soldati fuori de’ loro esercizi ed i cittadini delle Compagnie popolari ritornati alle faccende private, non si lasciavano andare armati per la città, ed è se 16. {2) Carta Populi Wctani (1325) cap. 90. (3) MS. n. 145 della Biblioteca Moreniana di Firenze. (4) Manni, Trattalo degli occhiali da naso, pag. 74: Firenze, 1758. -----------_----- - I IO GIORNALE LIGUSTICO terra per la caccia degli uccelli (i); adoperata tuttora allo stesso uso da’ Fiorentini (che la chiamano volgarmente Diavolaccio), c da’ contadini senesi lino a nostri tempi. Ora proviamo quella prima invenzione, al paragone della critica. Nel bando bolognese delle balestre del 1259, di cui ho toccato di sopra , sono eccettuate le balestre de ligno quas aticupatores avittm tenere possint causa aucupandi (2). Io dico: nel 1273 Carlo I di Napoli nell’armamento delle sue navi impiegò balestre di legno, cosi di quelle a due piedi come da tornio (3) ; ed i Lucchesi nel 146S ai più valorosi imberciatori colla balestra davano in premio una balestra di legno, che , io mi penso, non doveva essere se non da guerra, essendo i balestrieri ordinati alla difesa della patria , non ad uccellare (4). Adunque il solo esser di legno non poteva diferenziare la balestra per la caccia degli uccelli da quelle per la guerra ; e i Bolognesi in quel loro riserbo dovettero avere altre distinzioni a noi non pervenute, forse nella forma dell’arme acconcia alla specialità de’ proietti, e direi delle pallottole più convenienti alla caccia degli uccelli, che non a quella de quadrupedi, contro i quali facevano miglior giuoco le frecce. Pietre ritonde e pallottole di ferro o di piombo, a’ tempi romani appellate ghiande perchè oblunghe come ghiande, si lanciavano colla fromba semplice e pietre colla fromba di cuoio legata al mazzafrusto , per dare più forza alla gittata. Anche gli archi lanciavano pallottole, oltre alle frecce. E pallottole di piombo, (1) Targioni Tozzetti , Notile sulla Storia delle Sciente Fisiche in Toscana, pag. 173: Firenze, 1852. (2) Statut. Bonon. loc. cit. (3) Del Giudice , Diplomi inediti di Re Carlo 1 d’Angiò riguardanti cose marittime, pag. 12: Napoli, 1871. (4) Angelucci, Tir. Segn. cit. Doc. XX. GIORNALE LIGUSTICO I I I chiamate piombaiole, si usavano in Ascoli Piceno, dove chi ammazzava alcuno con una di queste o con altra palla, credo o di ferro o di sasso, si condannava ad essere propagginato (i). Onde considerata la terribilità dalla pena, data massimamente a’ traditori, io debbo presupporre che quantunque lo Statuto Ascolano non parli del modo del getto delle palle, ma della qualità loro soltanto, tuttavia non si può consentire che per avventura fossero spinte da mano nuda i cui tratti spesso riescono fallaci, spessissimo non mortali, ma bene da arme capace di accertare efficacemente i colpi, pure di lontano, accrescendo i pericoli e lo spavento; quale la balestra, più potente di tutte, e pel suo fusto di gran lunga meglio appropriata, che non era P arco, al servizio delle pallottole, e tanto superiore in riputazione, che in Brescia chi saettava per la città coll' arco per ferire alcuno doveva pagare dieci lire imperiali, e chi con balestra venti (2). Perciò non fa maraviglia la luce che spunta dalla rubrica XXVII dello Statuto di Osimo del 1338: Intra civitatem Auximi in aliquod'palatium, edifitium vel domum alterius, vel contra alienum animal et aves palluctans, balistans, vel cum arcu trahens, seu mandans , pro quolibet et vice qualibet in vigiliti bononenis puniatur et condemnetur. Alie quali parole Angelo Angelucci, che nella filologia militare può sedere a scranna, fa commento ponendo per fermo che il palluctans accenni ad una foggia di balestra addatta a lanciare all’ oggetto mirato pallottole di ferro, di piombo ed anche di terra cotta al discoccai si dell arco (3). Ed allo Statuto di Osimo fa riscontro perfetto quello di Arezzo del 1337 , 0 meglio pel tempo quello di Osimo fa riscontro a questo, acconci ambedue alla (1) Statuta Asculi (1387) I, 17. (2) Statuii Brix. (1275) pag. 132. (3) Angelucci, Tir. Segn. cit. pag. 60. I 12 GIORNALE LIGUSTICO medesima interpretazione, collo parole seguenti: Nullus proi-ciat lapides in Civitate Ardii, burgis vel suburgis, paloctet, balistet et saicctct..... sub poena XL sol. pro quolibet et qualibet vice (i). Altre e più stringenti considerazioni ci somministra Folgore da San Gemignano nel suo Settembre, là dove annoverando tutto quel che abbisogna per la caccia in quel mese beato, scrive : Bolze, balestre dritte- e ben portanti Archi, strali, ballotte e ballomeri (2). La Crusca riporta questi versi nel Glossario sotto la parola Ballottiere, la quale essa spiega per arnese da tenervi le ballotte 0 pallottole per la caccia. Io piuttosto alla prima fui tentato a stimare quella voce sinonimia di pallottoliera o pallottiera, significante quella borsetta di spago della balestra, entro cui si poneva, e in Toscana si pone tuttora, la pallottola per trarla agli uccelli. Nel che ricordavo questa partita drll’ Inventario della Masseria Bolognese del 1384: Item quindecim borcssetas a balistis , inter fractas et destructas..., quarum una est cum pano inceralo (3); ancorché sovente la voce borsa o borsetta si pigliasse pel turcasso o, come dicevano i Veneziani, tartasso, dove si portavano le frecce, e quindi negli allegati due \ ersi di Folgore io cambierei bol^e in borse o in bolge, come legge la Crusca. Ma capitatomi sotto gli occhi lo Statuto Aretino sopraccitato tosto mi fui accorto che nè io ne 1 Accademia avevamo ragione, per ciò che al divieto di saettare 0 pallottare per le vie di Arezzo e pe’ borghi , segue subito quest’ altro, che nullus.... pallocterium tensum portei per civitatem. (1) Statut. Aretii (1337) M > 8ζ· *1δ· Arch· Fl0r· (2) Le Rime di Folgore da San Gemignano, pag. 22: Bologna, 1880. (3) GozzXDiNi, Nanne Gonadini e Baldassare Cassa, Doc. I: Bologna 1880. GIORNALE LIGUSTICO 1X3 Qui abbiamo latinamente Under e paìocterium; ed una poesia volgare dello stesso secolo ci dà per figura, che non ripugna, scoccare il pallottierc: Fisicamente chi ben viver vuole prenda per mastro il ragliante somieri e oda come scocca il paltonieri (1). Onde il Ballotlicre di Folgore latinizzato dagli Aretini in pal-loc tarili m, non è più un arnese e non una borsetta, bensì un’ arme ad arco da lanciare pallottole. Io poi giurerei, non losse un arme particolare, ma una usuale e comune, soprannominata ballottiere, pallottiere o pallotterio alla latina, quando veniva accomodata al getto delle ballotte; così arcus a sagittis od a friciis se poteva 1’ arco mandar trecce, ed arcus a ballottis se ballotte (2); e tosse quell’arme la balestra conformata all uso delle ballotte. Di che sarebbero più ragioni , ma mi pare possa bastare quest una, ed è che la lunga tensione del pallotterio, quale si richiedeva a portarlo attorno per la città contro alle disposizioni dello Statuto Aretino, era proprietà esclusiva della balestra che durava tesa finché Tuoni volesse per effetto del suo artifìcio, non per alcun sussidio della mano, e così si poteva portare in giro e ad agio, come noi faremmo del fucile armato. Dalla quale interpretazione molto naturale ed ovvia, i predetti due versi del Folgore s’illuminano a maraviglia. Imperocché alle balestre diritte o da guerra ed agli archi restano pei caccia grossa gli strali, di troppo gran danno agli uccelli, scrive Giovanbatista dell’Ottonaio (3), e le ballotte restano (1) Chan\ona fede ter Giano dal Borgbo a San Sepolcro e rullata a similitudine: Ms. Laurenz. n. 122, c. 213. (2) Gozzadini, Doc. cit. Diplomatarium Venelo-lcvantinumt Doc. XXVII (1307). Statut. Pad. (1362) pag. 162. MS. liibl. Civ. Padov. (3) Cauti Carnascialeschi, II, 400 : Cosmopli, 1750. Giork. Ligustico, Anno XII. „ I 14 GIORNALE LIGUSTICO a’ ballottici'! o balestro da uccellare; le quali non dirò fossero üià curve infin d’ allora, quali si veggono nel Museo Nazionale Fiorentino, ina davvero quell’ appellativo di diritte dato ad alcune mi pare che accenni ad un contrapposto. Ancoia Venezia vuole entrare in questa controversia, e ci presenta i suoi antichi cittadini intesi alla caccia per addestrarsi alla guerra, sussidiando per certo modo all opera del Tiro al segno coll’ arco e colla balestra, a cui in quella città nobili e popolani dovevano concorrere , fino da’ primi del secolo quattordicesimo (i)· Do’ quali cittadini mentre alcuni si davano a perseguitare i cinghiali particolarmente ne poderi e nei quercoti della famosa Badia di Sant’ Ilario già spenta nel secolo prodotto , ed altri cacciavano nell ampia pineta Equi-liana i fagiani o ne’ lidi Caprulani gli stambecchi, nella laguna il cacciatore ritto in piè sulla barca, di quindi balestrava pallottole di terra secca massimo contro a colimbi, delle cui spoglie bianchissime e finissime le donne \ene-ziane fanno tuttora i loro vaghi manicotti; e se per avventura gli veniva colto lo smergo, che non appena apparito sull’acqua vi si rituffa e riappare lontano ad un tratto, il prode balestriere lo inchiodava a trofeo sulla porta della sua casa (2). Veramente il tempo di questa maniera di uccellare sulla laguna veneta non è bene determinato, avvegnaché por le sue circostanze non se no possa ridurre il principio alla fine del medioevo. Sopra la qual cosa recherò un fatto a cui il lettore darà quel peso che crederà; e concerne all’ uso larghissimo che delle pallottole di terra facevano i Veneziani in età assai remota; tanto che pochi anni fa, Prefetto il Senatore Torelli, nello scavamento che si apri vici- fi) Angelucci. Tir. Segn. cit. pag. 59. (2) Mutikelli , Del Costume Venerano sino al secolo XVII , pag. 107-110: Venezia. 1831. GIORNALE LIGUSTICO 1 r5 riissimo alle Procuratie vecchie per fabbricare un nobile sbarcatoio, vi si rinvenne un grandissimo ammasso di quelle palle di terra gettate là in antico come ripieno di fondamento (i). Che si vuol da vantaggio? Ogni dubbio, se ne lestasse ancora, è rimosso e definita la quistione inappellabilmente dallo Statuto Lucchese del 1399 jn questi termini: Sta-tuimus quod nulla persona audeat vel présumât aucupare vel retia tendere vel sagiptare cum arac vel balista palloctas vel aliam rem trabere pro capiendo columbos vel pipiones... sub pena librarum decem ρ,ο qualibet vice (2). Per tutto questo, che forse ad alcuno parrà soverchio, io non intendo di tagliare la testa al figliuolo di Monna Piera, mai no, egli viva pure; ma non si dica primo inventore della balestra a pallottole se non pel suo paese ; inventore di un’ arme conosciuta ed adoperata anche per la caccia nelle altre parti della Toscana e in altri luoghi d’Italia quasi due secoli prima della sua nascita; pognamo che egli possa avere arrecato all’ arme antica qualche utile mutamento. Del rimanente questa balestra, dopo pochi anni dalla sua invenzione, quale si sia, per 1’ abuso c io se nc fece nel Dominio Fiorentino ammazzando e tastando grande quantità di colombi ed altri uccelli, fu bandita Co"servaton di Legge il 19 settembre 1538 (st. com.) e non solo di portarla od usarla, ma si ancora di tenerla ’in casa; per la quale ragione il Governo Lucchese vietò dappoi la vendita de’ pallini, delle lagrime e delle palle aramate, eccetto la sola palla di piombo intera (3). E la cosa si rag- dì Questo fatto mi fu riferito dalla somma cortesia del Comm Cec-chetti Soprintendente agli Archivi veneti. 95) IV, ,,8. MS. Arci,. Ucci,. Di q»est0 Docu TZJT" mi 8CMilC " C”· ** J'"' A-...... I,f’U ^ SlMi M GIORNALE LIGUSTICO ,τΓανό dal portarsi scommesso il manico o teniere dal fusto della balestra, forse mastiettato insieme e da ricongiungersi quando si tirava, Per più comodità di averla seco (i), disse P Ottonaio, ed io aggiungo, e di fare soperchierie ; laonde il divieto ebbe forse P occhio anche a questo abuso, o lo meritava. Simile un archibugetto o trombone, chiamato scavezzo, aveva la cassa in due pezzi aggangherati all’impugnatura, e ripiegato si poneva a cavalcione sul braccio sinistro, al solito ricoperto col tabarro. Però, da certuni si portava il tabarro anche nel soleone, e fra questi, sessant’anni ta, da’ contadini romagnoli nell’andare dalle innamorate, per la rugiada, dicevano que’ giovialoni feroci, ma egli era per nascondere l’armi, e certamente non a fine buono (2). E simile in Venezia la nuova balestra a leva, inventata circa all’anno 154°» poteva per la sua piccolezza occultarsi sotto alla veste; onde fu strettamente proibita dal Consiglio de’ Dieci gli anni 1542, 1586, 1602, 1605, 1664 (prova che il divieto non era osservato nè fatto osservare, secondo il nostro antico costume) con grandi minaccie a portarla e a fabbricarla, vedendosi, dice la legge di ragnatelo , avanzarsi V uso fierissimo et empio delle balestrine, arma insidiosa et assai più detestabile della su ssa. pistola (3). Con tutto ciò la fabbricazione e la vendita delle armi, praticata più ampiamente ed anticamente che non altrove, in Milano ed in Brescia, fu libera, chè non si \uolc tener conto di alcune più fraudolenti e meno necessai ie che meglio era non fossero mai state; e forse non e città un (1) Cani. Carnose, loc. cit. (2) Placucci, Usi t pregiudizi de’ contadini della Romagna, tu. II, cap. I\ : Palermo 1885, (3) Lazari, Notifia delle opere d’arti e d'antichità della Raccolta Correr di Venezia, pag. 245 : Venezia, 1859. GIORNALE LIGUSTICO II? poco ragguardevole senza strade o porte intitolate a’ fabbricatori 0 venditori d’armi, e principalmente agli spadai; i quali anche in Perugia erano cosi numerosi da formar Collegio da sè, con un Camorlengo (come sei chiamavano colà) e due Rettori a governarlo (1). Celebri ira le altre le squame metalliche onde si armava il busto Carlo V e le celate di Milano e di Brescia, le rotelle di Modena , le lame di Ser-ravalle, i pugnali di Valerio Belli di Vicenza, le armature all* agemina di Ferrara (2). Voglio aggiungere le balestre del veneziano Giacomo,lo Gajardo, una delle quali lanciava in un solo scatto non meno di quindici verrettoni , e si vendette nel 1411 all Oratore Portoghese per la notabile somma di settantasei ducati d oro (3). Ma non so risolvermi di fare quel medesimo in onore della balestra fiorentina a pallottole del 1518, che si mandava , come afferma Gian Pietro Olina, a li incipi grandissimi (4)· De’ quali era per certo il Re di Spagna, legato oltracciò colla Famiglia Medicea intimamente, e tuttavia in quel Regno la predetta balestra non ci a nota nel secolo diciassettesimo, e sempre vi si teneva in grandissimo pregio, pur sopra lo stesso archibugio e per tutte le caccie, la balestra a lancia od a freccia; dopo di che lo scrittore spagnuolo, dalla cui opera io cavo questi particolari, conchiude che in Ispagna si usarono le (1) Statuta Perusii (1542) I, 38: MS. Munie. Perug. (2) Landò, Commentarii delle più notabili e mostruose cose d' Italia, pag. 40 versa : Vinetia 1553. Cittadella, Not. Ferrar, cit. pag. 489. Angelucci, loc. cit. (3) Lazari, Notii. cit. pag. 244. (4) Olina, L' Uccelli era, ovvero Discorso della natura e proprietà di diversi uccelli e in particolare di que' che cantano, con il modo di prendergli, conoscergli, allevarli e mantenerli. E con figure cavate dal vero e diligentemente intagliate in rame dal Tempesta e dal Villamena : pag. 66 : Roma 1622. Edizione stupenda. GIORNALE LIGUSTICO balestre più che in tutto Γ orbe e che là furono los majores maestros de labrarle que ett los otros Reittos (i). Nò credo che la balestra di cui ragiono incontrasse miglior fortuna in Francia, dove, se non erro, primo a parlarne fu Pier Giuseppe Buchoz nel 1784, ma ne parlò piuttosto per erudizione, come dimostra traducendo nel suo libro spesso letteralmente quanto ne aveva scritto l’Olina nella Uccelliera, che non per esperienza fattane nel suo paese (2). Le quali parole oliniane erano già servite di testo ancora in Italia agli scrittori di cose venatorie, segnatamente al bresciano Eugenio Raimondi che le copiò nella seconda edizione delle sue Caccie del 1630, quando nella prima del 1621, allora non avendo per anche l’Olina mandato fuori la sua opera (del resto assai bella e da vantaggiarsene gli studi della lingua), egli si tacque affatto della predetta balestra, ancorché fosse già vecchia di più d’un secolo; e se ne tacque poi il bolognese Giacomo Pacifresio, che scrisse cinquantun’anno dopo l’Olina (3); cosicché, fatte le ragioni, parmi potersi giudicare che la fama di quell’ arme non battesse le ali molto discosto , e quindi procedo. Altri segnalò a gran lode le corazze di un tal marchigiano dimorante in Napoli su i primi del secolo quattordicesimo , le quali, se si dee credere ad un narratore inesperto della materia, da nessun ferro, per la eccellenza della tempera, potevano piegarsi, non che smagliarsi, quantunque sottilissime come foglie, onde il sovrano maestro (1) Martinez, Arte dilla hallcsteria y monUria: iMadrid, 1644. Debbo la conoscenza di quest’ opera ed altri dotti sussidi alla gentilezza amichevole del Cav. Podestà Bibliotecario della Nazionale Fiorentina. (2) Buchoz, Les a g reviens des campagnards dans la chasse des oiseaux: Paris, 1784. (3) Raimondi, Delle Caccie; Brescia 1621 e Venezia 1630. Olisa, op. cit. Pacifresio, Theatro della caccia e trattenimento geniale della villa: Bologna, 1673. GIORNALE LIGUSTICO II9 ebbe in dono contadi dal Re ed ogni sua corazza valeva un tesoro (1); ma egli, qualunque si fosse, non dovette fare scuola od ebbe ben poco seguito nelle industrie del Regno, poiché nel secolo appresso si veggono costretti i Re di Napoli di ricorrere agli armaiuoli milanesi, non pure per armature intere d’uomini d’ arme, anche per celatine, spingarde, lame di spade e partigiane, e fusti di balestra (2). In quest’ opera delle armi, fiorente in Italia si può dire fino dalle prime Crociate, lo Stato interveniva solo, come in tutti gli altri esercizi, 0 direttamente o per mezzo de’ particolari Collegi d’ Arte, coll’ impedire le falsificazioni e col verificare la bontà delle materie adoperate, sopra tutto nelle spade, il cui acciaio doveva essere approvato e bollato da idoneo maestro (3); ma ciò sempre che non fossero armi assegnate alle sue milizie, nel quale caso egli determinata da sé ogni minutezza di fabbricazione, come fece più volte il Senato Veneto e fra le altre nel 1362, quando decretò che i borioni della noa ed il capo della chiave delle balestre de’ suoi balestrieri si facessero d’acciaio, e che le corde ed ogni legaccio di dette armi fossero di canapa, filata alla rocca ; de’ quali legacci, sia detto di passata, i Genovesi legavano le loro balestre diversamente da tutti gli altri, come ed i verrettoni forse usavano diversi (4). Ancora in Bologna lo Stato assicurava ai fabbri armaioli (in Pisa, a tutti i fabbri) il carbone necessario alle loro lucine, particolarmente in tempo di guerra, che il consumo ne è maggiore, ora prescrivendo che ne facessero (1) Fra Giordano, Pred. cit. Ili, 43, (2) Codice Aragonese, toni. I, par. I, pag. 189: Napoli, 1866 e seg. (3) Brev. Pis. Com cit. II, 11. Statut. Mer^adr. Parm. cit. pag. 27, 29. (4) Villani Μ., XI, 10. Lazari , Nolisa cit. pag. 225. Nell’Inventario Bolognese sopraccitato si legge : Itevi unam Balistam ligatam ad modum Jaiiuensium. 120 GIORNALE LIGUSTICO canove comuni, ed ora concedendone loro il monopolio intero ed esclusivo ()). H finalmente egli interveniva per la sua salvezza, pure come Cristiano, ordinando che non si spacciassero armi a’ nemici suoi, nè a’ Saraceni, secondo le Decretali (2), e provvedendo che le botteghe degli armatoli non venissero manomesse dai tumultuanti. Al quale effetto i mereiai di Parma dovevano porre le lance ferrate, i ferri delle lance, le spade e i coltelli da gallone entro la bottega nella rastrelliera dietro il banco (3); ed in Modena, chi vendeva spade e coltelli era obbligato di tenerseli in casa o, se in bottega, bene addentro, ponendo mente al primo segno di romore di subito serrar la bottega, sotto pene assai torti (4). Venuto poi ed allargatosi il trovato e Γ uso delle armi da iuoco, i Giureconsulti le aggiunsero alle antiche, di cui, seguendo gli Statuti de’ nostri Comuni, ho discorso insino a qui, e le riserbarono tutte al Principe (5), il quale le accolse con tanta gravezza di cautele e discipline, quanto era il terrore che allora mettevano. Talmente che in Venezia cotcsta faccenda fu commessa al Consiglio de’ Dieci e soggetta alle strettezze de’ delitti di O PO Stato; e perfino nel secolo diciassettesimo in \ enezia si puni colla forca chi aveva portato armi da fuoco, quali si fossero senza licenza (6). Le licenze cosi nel \ eneto come negli altri Stati (chè fra loro non è gran disyarieti da questo (1) Breve Arlis Fabrorum Pis. (1305) cap. 5 e 6. Alti e Memorie delle RR. Deputazioni di Storia Patria per le provincie dell' Emilia, N. S. II. 91, 98. (2) Brev. Pis. Com. loc. cit. (3) Statut. Merjadr. Parm. cit. pag. 21. (4) Statut Mutin, cit. IV, 148. ($) Farinacci!, Quaesi. 108, ». 5. (6) Ferro, Dizionario del Diritto Comune e Veneto, I, 15· : Venezia 1845. GIORNALE LIGUSTICO 121 lato), si davano per gli archibugi da portarsi fuori della città, i quali tossero della misura definita dalla legge, e da principio a fuoco, non a fucile e ruota ; non si davano mai pei pistoni, per le pistole minori di circa sedici centimetri, e per pii archibugetti minori di circa sessantasei, proibitissimi (i). Per le quali armi, nel medesimo secolo, il Principe Boncom-pagni impose nel suo Marchesato di Vignola la pena di moite a chi le aveva in casa e a chi le racconciava e teneva in bottega (2). A contrapposto i Viceré Spagnuoli permettemmo senza alcuna norma e ragione civile Γ uso delle armi inastate e da fuoco durante il giorno a’ napoletani, e solo le proibirono nel 1547 dopo il sollevamento contro l’Inquisizione; restituendole due anni ■ appresso; non per altro se non pei questo che il maggiore studio di que’ Signori, famelici c boriosi, era di tosare e mungere; al resto pensava il boia (3). i\Ia nondimeno quelle grandi fierezze inorridivano 1 buoni che non nuocciono, piuttosto che rattenere i cattivi che non temono, e, come accade sempre di tutte le <-ose smodate e violenti, non durarono a lungo ; essendo che via via parte da sè e parte dagli stessi Governi, anda-iono disacerbandosi, infino a che si pervenne a tempi no-stii. quali, non pel solo abuso delle armi, si aspetta tuttora, che l’educazione privata e pubbica, ravvivatrice della patria e cristiana carità negli affetti domestici, consonante col- 1 istruzione; 1 istruzione popolare sana e sufficiente, non avvelenata o monca che ò peggio dell’ignoranza, non mercenaria quantunque gratuita ; e la giustizia veramente aliena e sicura dalle profanazioni, senza di che la libertà è menzogna (1) Rinucciki T., Us. Fior. cit. cap. 8. Ferro, Diloc. cit. (2) Istruzioni e Leggi pel Marchesato di Vis,wla , pag. 24 , Vignola , 1877. (;) Arch. Slor. liai. IX, r8, 143. I 22 giornale ligustico ed oltraggio; piglino Γ incremento che non hanno ancora e confortino la virtù delle leggi, da per se sole inefficaci, quando non sieno nocive. Giulio Rezasco. VARIETA ALCUNI DOCUMENTI INTORNO ALLA CONGIURA DE* PATRIOTTI PIEMONTESI NEL 1794* In qual modo e per quali vie, il governo degli Stati Sardi venisse a conoscere ciò che si tramava dagli aderenti ai francesi, e come parecchi di que’ novatori fossero tratti al supplizio, o dannati alla carcere, oggimai tutti sanno (i). Non sarà inutile tuttavia aggiungere alcunché a dar maggior lume, e intero compimento a que’ fatti luttosi, ne quali ebbe non piccola parte Carlo Botta (2), uscitone senza danno, merci, principalmente la sua fermezza. Le carte fatte sottrarre temporaneamente per mezzo del console inglese a Genova, Giuseppe Brun, al ministro francese Tillv, promovitore ed anima di tutti questi politici maneggi, misero nelle mani al governo piemontese le prime fila della matassa, della quale tuttavia già da alcun tempo (1) Bianchi, Storia della Monarchia piemontese dal /77; al 1861, Torino, Bocca, 1878, II, 238 e se8S· (2) Bianchi, La verità sull'arresto e prigionia di Carlo Botta ecc. in Curiosità di storia subalpina, II, 9S e segg. GIORNALE LIGUSTICO I23 aveva qualche sentore (1). Giovarono in ispecie all’uopo le coi 1 ispondenze tenute col Tilly dal conte Francesco San Mai tino della Morra, ufficiale delle truppe sarde, che aveva preso la via dell’esilio, « pour ne plus · être témoin de la fortune des coquins, e de l’oppression des honnêtes gens » (2). Naturalmente era venuto a Genova, rifugio allora, con il co-pcrtojo della neutralità, di gente d’ogni fatta, dove « on au-roitdit», son sue parole, « que j’étais charghé des commissions de S. Μ., tant on prît soin de ma conduite, de mes liaisons, et des propos dont on évaluoit les mots, comme le jalous calcule les coups d’oeil de sa femme ». Questa sorveglianza la faceva esercitare sopra di lui il conte Nomis di Cossilla, rappresentante del Re di Sardegna presso la Repubblica ; e n’aveva ben ragione, chè il della Morra frequentava più del dovere la casa del Tilly. Ma quando da Torino ebbe istruzioni per impadronirsi di lui e delle sue carte, le quali avrebbero servito a chiarire molte cose lasciate nell’oscurità dall anzidetto carteggio, egli prima di. sollecitarne l’arresto dal governo genovese, lo invitò ad un colloquio, il cui fine era di sapere quali fossero i democratici di sua conoscenza ; al che il della Morra assai arditamente rispose, « q^e si par démocrates on entendoient les mécontens, les trois quarts des citoyens etoient démocrates » (3). Senonchè egli che aveva buon naso fiutò l’aria, e s’accorse subito che Genova non era più dimora per lui, onde deliberò di andarsene. Intanto (i) Bianchi , Stor., cit. II, 546. (1) Discours au Sénat de Turin par le citoyen Comte François S.' Martin de Lamorra ci-devant Aide-Campt, Cap. au Régiment Piémont Royal Cavalerie au service du Roi de Sardaigne — Sunt lacrimae rerum, et mentem mortalia tangunt. Virgile - Au bord de l’Adige. An 5"* Républicain, p. 11. (3) Discours, cit., 54, I24 GIORNALE LIGUSTICO il Nomis, fallitagli la speranza di farlo parlare, scriveva incontanente al segretario di Stato questa lettera (i): 111Sig.re Sig.rt Pr.*‘ Col.me ' Persuasa S. M. Sardi della premura che si farà in ogni incontro il Ser.mo Governo di darle prove di sincera amicizia, ha incaricato il sottoscritto Ministro di far instanza presso il medesimo perché sia arrestato colla maggiore sollecitudine il conte Della Morra, contro di cui si hanno in Torino i più gravi sospetti. Resta pur indispensabile che sieno diligentemente visitate le di lui carte , e quelle del suo cameriere Be-lair. Siccome si hanno altresì i più forti motivi di credere che altri sudditi piemontesi abbino qui delle corrispondenze sospette, il sottoscritto ministro in nome di S. M. Sarda t'a pure instanza al Governo Serenissimo, perchè in quel miglior modo, che giudicherà, voglia procurargliene la comunicazione nel caso che fossero a di Lui cognizione, e perché vi si possa provedere colla maggior celerità e segretezza. Il sottoscritto nell’ adempire al suo incarico presso dell’ Ill.ro0 Signor Segretario di Stato, ha 1’ onore di protestarsi col più distinto ossequio Nomis di Cossila. Di casa n aprile 1794. Il gior.io dopo, non avendo più saputo niente, stava sui carboni ardenti, e temendo che ogni piccolo indugio potesse dar campo all’ uccello di prendere la via, mandò con un biglietto a sollecitare la risposta alla sua istanza. In questo mezzo i Collegi, cui era stata comunicata la domanda, commisero di far prendere il della Morra e rinchiuderlo nelle carceri della Torre, sequestrando in pari tempo tutte le carte di lui, e del suo cameriere. Ed ecco di buon mattino presentarsi « un ministro della Cancelleria, con un sargentc ed otto comuni, in casa di certo prete Bontà, dove alloggia\a » (1) R. Archivio di Genova, Confinium, Fil. 174· GIORNALE LIGUSTICO I25 il conte ; tua s’ intesero dire dal padrone che il loro uomo se n era partito fino dal giorno innanzi, affermando di recarsi a Pisa o a Livorno, e che aveva lasciato in sue mani un baule chiuso; questo, in mancanza di meglio, presero i soldati e lo portarono nella cancelleria degli Inquisitori di Stato. Ma il della Morra non s’era avviato veramente verso la Toscana, sibbene aveva preso la strada di Nizza, « pour n’être dans le cas de subir d’autres intérrogatoires » (1). Il Nomis per ordine del governo ebbe subito partecipazione del fallito arresto, e del sequestrato baule; onde sperando trovar quivi le carte desiderate, domandò fosse aperto ed esaminato il contenuto ; il che eseguito , l’Inquisitore riferiva che « riconosciutesi le poche scritture esistenti » in quello, « niuna se 11’ è ritrovata che possa aver relazione alle attuali emergenze, escluso una », che rimetteva ai Collegi. I quali dopo aver deliberato di rispondere al Nomis non essersi trovata « cosa alcuna, nò carte che interessar » potessero « la Reai Corte di Torino », sospesero la esecuzion del decreto, perchè i Supremi Sindicatori avevano rilevato mancare quel decreto di verità; ma insistendo il ministro per una categorica risposta alla sua istanza, e chiedendo di più gli fosse rimesso il baule « come proprietà di un regio suddito », glielo fecero senz’ altro consegnare. Non così però la carta menzionata, rimasta alla Giunta de’ Confini; il qual foglio consisteva nella bozza di un manifesto da spargersi specialmente fra la truppa piemontese, a fine di eccitarla a disertare ed a non battersi contro i francesi, promettendo perciò larghi premi (2). E lu davvero fortuna che il della Morra non fosse colto, perchè gli era riserbata la trista sorte toccata alla sua (1) Discours, cit, 5,}. (2) R. Arch., Confittiti111, cit. 126 GIORNALE LIGUSTICO effigie, quella d’essere impiccato (i); ond’egli potè scrivere: « Oui, j’ose le dire à la face de l’univers, là où l’on m’a pendu, on erigerà un monument à me gloire, et on gravera ces mots : Ici François S.‘ Martin Lamorra a cessé d’être comte, pour continuer à être honnête homme » (2). Le infami delazioni del traditore Barolo, procurarono in seguito l’arresto di parecchi altri cittadini, e la persecuzione di molti fuggiaschi. Fra i carcerati vi fu, come è noto, Carlo Botta. Lo zelo del Nomis, e la buona volontà della, Repubblica furono messi nuovamente alla prova , ma con infelice risultato. Quando la R. Delegazione nominata all’ uopo dal Re, ebbe messo mano al processo, s’ accorse della necessità di richiedere agli Stati forestieri l’arresto d’alcuni de’cospiratori, o come tali indiziati, e certi schiarimenti, atti a chiarire o a confermare diversi particolari importanti o controversi, o risultanti soltanto in nube dalle carte, dai costituiti, e dalle testimonianze. Perciò il ministro scriveva al Segretario di Stato la lettera seguente (3) : Allorché s’è scoperta la congiura in Torino contro la pubblica quiete, il sottoscritto Ministro ha avuto l’onore di far istanza al Magnifico Signor Segretario di Stato, perchè si compiacesse di comunicargli amichevolmente que’ lumi, e notizie, che verrebbero a di lui cognizione, da cui si potessero scoprire i congiurati, sapendosi di certo che alcuni di quelli aveano avuto delle relazioni sospette in Genova. Trovandosi in oggi la Regia Delegazione a tal oggetto destinata da S. M. in caso di dover dimandare qualche schiarimento, onde poter ultimare il processo che si sta compilando in Torino contro alcuni dei medesimi, al che però non si potrebbe soddisfare senza il concorso del Governo Serenissimo, il quale ordinasse all’ Ill.m0 Signor Deputato degl’ Inquisitori di Stato di dare quei riscontri, (1) Bianchi, Stor., cit., II, 555. (2) Discours, cit., 54. (3) R. Arch., Confinium, Fil. 170. I GIORNALE LIGUSTICO I 27 di cui all occasione verrebbe richiesto per mezzo del Signor Segretario di Stato, al quale il sottoscritto Ministro indirizzerà le occorrenti note, ed istanze. Questa condiscendenza del Serenissimo Governo a cosi giuste domande (oltre eh egli deve essere sicuro d’una perfetta reciprocità in casi consimili, qualora ne fosse richiesto il Regio Ministero) è tanto più da sperarsi, che sarebbe consentanea alla vigente convenzione per la consegna de rei, e specialmente di così gravi delitti. Affidato adunque all’amiche-voli disposizioni del Serenissimo Governo per S. M. ed appoggiandosi specialmente alla citata convenzione, il sottoscritto Ministro fa istanza in Primo luogo perchè sia arrestato l’avvocato Campana regio suddito inquisito di delitto di Lesa Maestà, per esser quindi consegnato secondo le Mansuete formalità. V avv. Campana , di cui si dimanda Γ arresto, alloggiava ne’ passati giorni all’Albergo di Santa Marta della Posta. Secondo, si desidera sapere se il medico Botta ed avvocato Pellisseri regi sudditi siano stati in Genova verso il fine del 1793, od al principio dell’anno corrente, si crede che fossero alloggiati alla Croce di Malta, ed in tal caso se ne vorrebbe una dichiarazione, la quale per risparmiare l’incomodo basterebbe che fosse ricevuta dal Nostro Console. L’ Obergista della Croce di Malta potrebbe dare qualche lume sopra le persone che hanno visitato li predetti medico Botta, ed avvocato Pellisseri , e specialmente se hanno trattato col conte Della Morra e prete Bontà genovese, con cui si sa che il conte Della Morra era amico. L’uno e l’altro erano in relazione coll’avvocato Luigi Cagna piemontese, impiegato in qualità di scritturale in casa di certo Sezza mercante di vino. Terzo. Siccome il medico Botta era in corrispondenza coll’ avvocato Lombardi, sarebbe opportuno d’ avere qualche notizia. Quarto. Si hanno i più fondati sospetti dell’ intelligenza d’ alcuni dei nostri congiurati col mercante librajo Gravier, cui sono state dirette lettere dal nominato Arvel la mattina dei 2 giugno. Quinto. Si desidera sapere se ai primi giorni del passato giugno i regi sudditi Arvel, Barata e Camosso sono arrivati in Genova da Voltri, e si crede abbiano alloggiato alla Posta. Sesto. Se gl’ infranominati sono stati a Genova dalla meta dello scorso maggio a questa parte, e se di loro si ha qualche notizia sospetta: Vercellone Regis Piva I2S GIORNALE LIGUSTICO Conte Trafano Padre Basilio Davico agostiniano scalzo fuggito dalle carceri Avvocato Borletti Fiando Ferrerò Chirurgo Sancio Negoziante Jacques Avvocato Vinay eh’ era giorni sono a Genova. In aspettazione di qualche riscontro da V. S. Ill.ma il sottoscritto Ministro ha Γ onore di protestarsi con distintissimo ossequio Da casa li 13 agosto 1794. Dev.mo ed obbl.m° servitore Nomis di Cossila. Questa lettera è scritta evidentemente allorquando la R. Delegazione stava istruendo il processo ai nuovi carcerati, in seguito alla delazione del Barolo , e ricercava le prove e □ i complici, affine di far piena luce sulla tela della congiura. Assai notevole è al mio proposito quella parte nella quale si domanda al governo genovese d’indagare se il Botta e il Pellisseri furono a Genova al cadere del 1793 > 0 su^ principio dell’ anno seguente; il che, ove fosse risultato vero, avrebbe, dovuto affermarsi per mezzo di una ufficiale dicniara-zione ricevuta dal Console sardo. Or poiché, come e noto, il Botta nei suoi costituti stette incrollabile e reciso sulla negativa intorno a tutte le circostanze della congiura narrate dal Barolo (1), mi sembra chiaro che i giudici, privi d’altre prove, volevano almeno quest’una, la quale basta\a da se sola a rendere credibile la sua connivenza nel complotto, e a farlo condannare siccome colpevole di lesa maestà (2). (1) Bianchi, La verità, cit., in Curiosità, cit. 107 e segg. (2) A dare maggior certezza a questa mia affermazione, avrei avuto bisogno di conoscere alcune date e particolarità, che si potevano rilevare dai verbali de’ costituti e degli interrogatori, non che dalle Materie cru GIORNALE LIGUSTICO 129 Il eo\erno genovese, in omaggio alla convenzione, incaricò gì nquisitori di Stato di procedere subito all’arresto del Campana, qualora si trovasse o giungesse in Genova , e di •ire per gli altri le opportune indagini. Senonche neppure questa volta furono appagati i desideri del Cossilla, poiché 1 Segretario gli faceva sapere, come « si ricavava da alcune combinazioni che detto Campana possa benissimo essere stato alloggiato alla Locanda della Posta sotto finto nome, e con aver mentita anche la patria », ma che non vi era più onde sarebbero stati necessari « li di lui connotati personali’ ad effetto di praticare utilmente ulteriori diligenze in case o o locande, ove forse si fosse trasferito cambiando di nuovo il proprio nome e del suo paese e nazione » (1). Ma dopo queste indagini li per lì, il governo della Repubblica, a quanto sembra, non si scaldò molto per aiutare, secondo voleva il Ministro Sardo, lo svolgimento del processo e la ricerca delle persone indicate nella lettera; poiché non ho trovato alcun documento in proposito. Anzi ho ragione di credere che fosse lasciata cadere la cosa con quegli indugi e quei silenzi tanto eloquenti, che accrescevano il malumore del governo sardo contro 1 genovesi; 1 quali, già tenuti in sospetto per altre cagioni, venivano senz’altro accusati di favorire la Francia. Tuttavia le maggiori premure erano fatte per aver notizie del Botta e del Pelisseri; infatti il Nomis, certo sollecitato nuovamente da Torino, nella conferenza avuta il 15 novembre con il Segretario di Stato, dopo avergli rinnovata a voce 1 istanza, gli lasciò questa memoria di suo pugno: « Pelisseri e Botta Piemontesi. Si desidera sapere se verso minali esistenti nel Archivio di Torino e citate dal comm. Bianchi ; ma essendomi rivolto a lui stesso non fui onorato di risposta alcuna. (1) R. Arch., Confinium, Fil. 170. Giorn. Ligustico, <Âuno XII. 130 GIORNALE LIGUSTICO la metà di Gennaro del 1794 fossero in Genova ». È chiaro; alla R. Delegazione stava molto a cuore di fermare con prova autorevole questa circostanza, la quale doveva essere la chiave di volta di tutta la procedura contro il Botta. Il Segretario incombenzato dai Collegi, « prese informazioni in Cancelleria del Magistrato della Consegna » , ma non risultò « che detti Piemontesi » fossero « stati in Genova nel suddetto mese di Gennaio, e nemmeno nel mese precedente o successivo ». Onde al Nomis scrisse cosi (1): 111.”10 Sig.ri Sig.» Pro."c Col.'"0 Si sono praticate esatte diligenze, per venire in cognizione se siano stati in Genova nel mese di Gennaro del corrente anno li indicati Pelisseri e Botta Piemontesi ; ma non si è trovato il benché menomo indizio, che li medesimi siano qui arrivati in tutto detto mese e nc’ mesi antecedenti e successivi. Mentre ho il piacere di corrispondere alle di lei premure relativamente a questo oggetto, godo anche di ripetermi col maggior rispetto. D. V. S. 111.™. Da Pal.° li 11 nov. 1794. Dopo quanto ho esposto, e considerando il fermo e ripetuto diniego del Botta, viene spontanea la domanda: Fu egli veramente a Genova? Io credo di si, e che o per es servisi trattenuto pochissimo, al più due giorni, e certo con ogni cautela, o per aver cambiato nome, o per segieti accordi con l’albergatore, non venisse la sua permanenza a notizia del Magistrato della Consegna, il quale questa volta fu assai mal servito dalle sue spie, che da circa un anno aveva raddoppiate per sorvegliare i foiastieri. Comunque sia, parmi si debba ritenere, che il risultato negativo delle indagini fatte a Genova, e la dichiarazione del (1) R. Arch. Confinium, Fil. cit. GIORNALE LIGUSTICO 131 Segretario, abbiano potentemente conferito ad allontanare dal futuro storico una condanna gravissima, ed a mandarlo li-bei o, avendo infine sentenziato la R. Delegazione « doversi inibire, come inibisce, al suddetto ditenuto, medico Carlo Botta, molestia del fisco » (1). A. Neri. Tre sonetti di Benedetto Dei SULLA GUERRA DI SARZANA DEL I487 La guerra che i Fiorentini mossero ai Genovesi per ricuperare Sarzana nel 1487, porse occasione ed argomento, oltre che ad un poemetto popolare in ottava rima più volte edito (2), a tre sonetti composti da Benedetto Dei, de’ quali un solo’ fu già da me pubblicato (3), ed ora sarà riprodotto assieme agli altri due e ad alcune curiose notizie sincrone relative alla presa di Sarzana e Sarzanello (4), tratte per la piima volta dal codice Magliabechiano 11, 333 (ant. Segn Classe VII , palch. 1, cod. 165) che contiene varie Memorie autografe di Benedetto Dei appartenenti a’ fatti d’Italia e particolarmente di Firenze. A rendere più agevole il senso , non sempre chiaro , di (1) Bianchi, La verità, cit., in ]. cit., no. (2) Da un’antica e rarissima stampa registrata dal Graesse (VI I7ì) Γΐ £T-1 ’,?4) ,i,0l0: L‘rMa d‘Sm^& di (s. 1. d., ,0-4. ) fi, primamente edito dal Pantani col titolo: La i, Smym (Firenze, stamp. del Monitore, ,862) . poscia dato Lova mente oce da Achille Neri nel ,86, con illazioni e ntolti “ menti inediti. ocu‘ _ (!) Giorn, *. delia Ietterai, luì., anno Π, fase. ,o-t 1, p„ l68 Fu ripubblicato anche in questo stesso Giornale, a. 1884 4é8. ° (4) Vedi Appendice. GIORNALE LIGUSTICO questi bizzarri versi, tornerà opportuno il rinnovare brevemente la memoria de’ fatti ai quali il cronista fiorentino volle accennare. È noto come Sarzana fosse venduta alla signoria di Firenze per 35000 fiorini da Lodovico Fregoso nel 1467 (1), e tre anni appresso da Agostino Fregoso ritolta. I Fiorentini speravano colla pace di Bagnolo (7 agosto 1483) di poter ricuperare il perduto possesso , ma come non fu soddisfatto alla loro aspettazione, tosto deliberarono di ottenere colle armi ciò che non si volea loro per diritto concedere ; tanto più che per alcuni capitoli di detta pace era stabilito si potesse ridomandare le cose perdute, non solo, ma far guerra a chi ne impedisse il possesso. Agostino Fregoso ben conoscendo di non poter sostenere una lunga difesa, avea ceduto la citta al banco di S. Gioì gio, O ' che allora possedeva pure il castello di Pietrasanta, contro il quale i Fiorentini rivolsero primamente le loro armi, per essere posto sulla via eh’ essi doveano tenere pei recarsi a Sarzana. Il banco di S. Giorgio provvide tosto alla difesa, e già la fortuna sembrava mostrarsi favorevole a’ Genovesi , allorché nuovi commissari giunti da Firenze rianimarono 1 esercito, e continuando nell’ assedio ridussero Pietrasanta agli estremi, per modo che dovette arrendersi a Lorenzo de’ Medici 1 8 novembre 1484. Innocenzo Vili intanto tentava di metter la pace, e si adoperava a persuadere i Fiorentini che volessero rinunziare alle loro ragioni sopra Sarzana e Sarzanello, ritenendo 1’ ac- (i) I capitoli e documenti relativi a questa vendita fatta alla Repubblica fiorentina furono ripubblicati da Achille Neri in appendice alla Re-lozione di Satana, della Spezia e dei Marchesi Malaspina del canon. Ippolito Landinelli Sudanese (Sarzana, L. Ravani, 1871, pag. 118-159). GIORNALE LIGUSTICO quisto fatto di Pietrasanta. Ma tale accordo non fu possibile e il 28 marzo 1487 Le genti di San Giorgio armate e strette, A mezo giorno in su 1’ ore diciotto , Con messer Gianluvisi che P ha rette, K messer Bietto molto ardito e dotto, Armati, s’inviorno in un drappello \ erso il bel monte di Serezanello (1). Gli assediati diedero tosto avviso a’ Fiorentini che il borgo era stato saccheggiato dai Genovesi, e che tra breve avrebbe! 0 espugnata la rocca usando l’artifizio , nuovo a que’ tempi, delle mine. Fuiono allora raccolti d’ogni parte i più valenti condottieri e mandati in campo con Niccolò Orsini conte di Piti— gliano, che venuto a battaglia il 15 aprile dello stesso anno, sconfisse i Genovesi, facendo prigione lo stesso lor capitano Gian Luigi del Fiesco. Subito appresso questa vittoria dovettero esser composti i due sonetti di Benedetto Dei, che si rivolgono 1’ uno al capitano de Genovesi caduto nelle mani de’ Fiorentini, P altro a Lorenzo de’ Medici. Che questi due sonetti sieno veramente stati scritti tra 1’aprile e il giugno del 1487, si chiarisce dall’esservi fatto menzione della sola rocca di Sarzanello e non mai di Sarzana ; oltre che 1 un d’ essi, come s’ è notato, è diretto a Gian Luigi del Fiesco, e colla metafora dell’ orso che con veloce corso insegue S. Giorgio per far suo stato sottosopra andare, allude manifestamente all’ Orsini Conte di Pitigliano dal quale i Genovesi appunto furono battuti sotto Sarzanello. (i) La Guerra di Scrre^ana. Poema sincrono (Sarzana, 1867, P- 3)· Γ3 4 GIORNALE LIGUSTICO Lorenço, mio Lorenço acien . . . . (i) e guarda Soreçanello dai .... che è la prima chiave di ... . che non ti sie po’ dato pel chuchiume. Nocienço (2) nuocie , e mena tal barlume per ispeçarti il buho e Ila fagiana i’ son(o) di mala Raja, e dire’: trana (3) insin eh’ i’ 1’ anegassi in Te ver fiume. E Betto Dei ti dà questo chonsiglio : in fin che ’n ’talia non sie spento il folio della forteça (4) non chavar 1’ artiglo E dop’ al fatto poi pensavi 1111 poho se vuoi fiorito fare il tuo bel giglo ; s’ tu ’l perdi, degli scacchi a’ persso il gioho. Sonetto, va in quel loho Dov’è chi intenda, e pruoval per ragione che lia femina è peggio ch’ il garçone. San Giorgio (5) tu chredesti siçichare (6) Soreçanell, Marçoccho 1’à sochorso, e rotto t’ à, e messo in boccila un morso che Soreçana ti convien lasciare. (1) Le ultime parole de’ primi tre versi di questo sonetto sono affatto illeggibili, ma si potrebbe tuttavia tentare qualche congettura giovandosi di quei sussidi che si ritraggono dalla concatenazione delle rime. Così per il primo e il terzo verso parmi si possa supplire al difetto del codice leggendo : Lorenço, mio Lorenço acieni» il lume che è la prima chiave di Toscana. (2) Papa Innocenzo Vili dopo la rotta di Sarzanello avea fatto proposte di pace, pretendendo che gli fosse dato in mano, come pegno tem poraneo, Sarzanello; ma i Fiorentini non ne vollero sapere e continuata la guerra il 22 giugno presero Sarzana. (3) Tranare trovasi anticamente usato per trainare come alare per aitare; Γ imperativo trana è adoperato per incitare a far qualche cosa , come oggi direbbesi : sbrigati, spicciati. (4) Cioè da Sarzanello. (5) Il cronista si rivolge al Banco di S. Giorgio, che, come s’ e detto, possedeva la fortezza di Sarzanello per la cessione fattane da Agostino Fregoso. _ , t (6) Silicare per soggiogare non è registrato dai vocabolari, ed ha senza giornale ligustico *35 E tuo prigion vedrai incharcierare, e proverai quant’ è superbo 1’ orso eh anchor ti seghue chon velocie corso per far tuo stato sottosopra andare. Senpre ti fia nimiho il mondo tutto, se non ti gitti in grenbo al tuo Milano (i) la chrocie e’I dragho e ttu sara’ distrutto. Chredi quel che ti dicie il chastellano (2), la pacie fa per tte se vo’ far frutto chon dar(e) Marçoccho Soreçana in mano (3). Sonetto, al chapitano (4) Dirai che vada e chieghagli la pacie, e ffia salute della via veracie. Ma la pace non fu fatta, siccome consigliava il cronista, e la signoria intanto dava ordine a’ suoi commissari che prendessero campo sotto Sarzana tosto che fosse giunto Bernardino Visconti. Cosi avvenne; il 22 giugno 1487 « quelli di Serzana avendo prima facto intendere di volersi accordare senza volere altrimenti fare pruova della fortuna, si arre-sono » ai Fiorentini « liberamente » (5), ed i Commissari della Repubblica nello stesso giorno scrivevano agli Otto di pratica . « In questo punto , che sono ore X, siamo entrati in Sarzana, e quella presa per le S. V. nel modo e forma e con capitoli che per altre nostre intenderanno. Al presente non si e fitto con loro altri patti, nè convenzioni se non dubbio la stessa etimologia di si^igie , col qual vocabolo gli astronomi intendono i punti dell orbita lunare che trovansi in congiunzione o in opposizione col sole. (1) Lodovico Sforza aveva inviato quattrocento lance, ma giunsero troppo tardi, quando Sarzanello era già nelle mani de’ Fiorentini. (2) Benedetto Dei. Intendasi, roti dote Sor^oiia iti tuono ci \larcocco· (4) Gian Luigi del Fiesco. (5) La Guerra di Serrenana, ed. Neri, pag. 55. ι36 GIORNALE LIGUSTICO che liberamente si sono rimessi a la discrezione nostra e di Lorenzo » (i). » L’ eccessivo disprezzo del nostro cronista pei Genovesi, che appare dal seguente sonetto, può trovare una ragione, se non una scusa, nell’esser egli tale fautore della parte de’ Medici da dichiararsi apertamente schiavo di Lorenzo e Giuliano (2). Q.ucl si dicie esser(e) fuor de! sentimento che vuol far chosa sopra’l suo potere, e spender più che non è’I suo valere, perchè chonoscie alfin suo l'alimento. Chosì vo’ Gienovesi pien di vento volesti dimostrar gran força avere chontro a marçocho, e ciaschun può sapere che rende chôme ’n ciel per ogn’ un cento. Vo’ chredesti ispugnar(e) Soreçanello, fustivi rotti, e presi, e’n fugha volti; chos'i ’nterviene a chi non à ciervello. Soreçana perdesti, c fienvi tolti degli altri luoghi anchora, o popol fello., che per voler torr’un(o), 11’à persi molti. E fanciugli e gli stolti Dichon che perderai tu, o bella Çena (3), E fieti fitto un porro per la schiena (4), (1) Questa lettera fu pubblicata dal Cappelli negli Atti e Mem. delle R. R. Deputazioni di Storia patria per le provvide Modenesi e Parmensi (vol. I, p. 294), e poscia riprodotta tra i documenti dati in luce dal Neri ad illustrazione del poemetto (pag. 61). Noterò di passata come tra e lettere edite dal Cappelli ve ne sia una (pag. 3*5 e 311) scritta 1 ^ maggio 1849 al Duca di Ferrara e firmata: vostro servidore, partigiano espresso B. Des. al banco de’ Medici. Florentie. Vegga il eh. cav. Cappelli se questa non sia per avventura appunto una lettera di Benedetto Dei. (2) Cfr. Giorn. stor. della lelter. ita!. , anno II, fase, ίο-n, pag. 164 nota 8. (3) Zena voce dialettale per Genova. Cfr. La Guerra di Serre^aiia, e . Fanfani, pag. 4 : Tutta la guardia di Zena vi fue. (4) Cacciare un porro altrui e cacciare un porro dietro via sono modi proverbiali e plebei, che equivalgono a quello ivi usato dal Dei nel significato di rovinare uno, far restar colla peggio. GIORNALE LIGUSTICO r37 E nughola, e balena. Spuleça, ischarpettaio, e sta ’n sul nocie (i), Ch’ i’ vegho te, o Siena, o Lucha in crocie. I’ sento una gran bocie Che fa MarçocCho per ogni rivera Per farti ischiavo inançi a primavera. Ella fie cosa vera Ch’ i’ ò visto il gran biscion (2) ch’ à ’n man la lança Per chontraporsi al bastardo di França (3). Lodovico Frati. APPENDICE SOREZANELLO ET LA ’SPUGNIAZIONE DI SOREZANA IN 20 ZORNI DI TEMPO : FATTO PE’ FIORENTINI (4) E vi si disse chôme e fiorentini furono assaliti di magio 1’ anno 1487 da gienovesi a ssorezanello volendolo pigliare di fatto. E vi si disse chôme e fiorentini ieciono gran provisione di giente d’ arme e di capitani e ssignori e fanterie e proviçionati. E \i si disse chôme e fiorentini feciono per la prima provisione 8 cittadini della ghuerra e principali atti all’ esercizio di martte. (1) Spulciare vale fuggire con grandissima fretta. Il Varchi nell’ Erco-lano (Milano, 1804, toni. I, pag. 170), spiega il dettato fiorentino stare in sul noce dicendo che è proprio di coloro, che, temendo di non esser presi per debito, 0 per altra paura, stanno in Bellosguardo; e non ardiscono spasseggiare l’ammattonato, cioè capitare in piazza, che i Latini dicono: abstinere publico. Con tutto ciò il vero senso di questo verso resta tuttavia oscuro. (2) Lodovico il Moro. . . (3) È noto come la legittimità di origine di Carlo VIII sia stata messa in dubbio da alcuni storici (Cfr. Nouv. Biogr. gènèr., Paris, Didot 1855, vol. IX, çol 842, nota 1). (4) Le lettere in carattere corsivo sono state ùa me aggiunte a compimento d’ alcune parole, che più non si leggono per essere il codice assai guasto in più luoghi. GIORNALE LIGUSTICO E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire tutti i loro soldati propi senza richiedere nè rre nè ’l duca di Milano. E vi si disse chôme e fiorentini feciono due chommissari e dittatori a detta ghuerra l’uno degli vicardini e 11 altro de vettori (i). E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire il lor chapitano del bastone nomato lo chonte di pitigHano di chasa Orsina (2). E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire trentaquattro elione-stabili eh’ aveano fanti 7400 sotto di lor propio soldati tutti da mazoccho. E vi si disse chôme e fiorentini feciono sette cholonegli di 500 chon-batenti 1’ uno per affrontare la giente di gienova a sorezanello. E vi si disse chôme e fiorentini feciono assai provisioni da munizione e di vino e di pane e di biade e di strame e artiglierie. E vi si disse chôme e fiorentini feciono 100 muli che andassmo ogni di e 100 muli che tornassino e charca in quantità soldarono. E vi si disse chôme e fiorentini mandarono in chanpo 8co t.ir0 e ’nbraciature per ispugnare la giente di san zorzo. E vi si disse chôme e fiorentini feciono affrontare le lor Oiento saltare sorezanello assediato dal luciertolaio di zn (3)· ^ E vi si disse chôme e fiorentini feciono rompere el chanpo de gieno vesi a 15 di maggio l’anno 1487 e sochorsono sorezanello. ^ E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire el chapitano de gieno vesi (4) che fu prigione in detta volta e schonfitta fatta. E vi si disse chôme e fiorentini feciono anoverare la somma 1 ,00 prigioni dattaglia chon figlio di messer obbietto dal fiescho E vi si disse chôme e fiorentini feciono Sprigionare messer Zuann. luigi dal fiesco chapitano di san zorzo di Zenova. E vi si disse chôme e fiorentini feciono hordmamento per are a m presa dell’ asedio di screzana e 1’ ordine dettono a ser 10 (sic). E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in chanpo el s.gnore di Faenza (5) alla ’spugnazione di Sorezzana Bella. _ E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in chanpo n.j signor, di chasa Orsina (6) a detto assedio di Sorezana Bella. (l, Iacopo di Piero Guicciardini e Piero di Francesco Vettori. (2) Nicolò Orsini conte di Pitigliano. (3) Ztna' (^) Gian Luigi del Fiesco. (5) Galeotto Manfredi. (6) Nicolò, Giulio, P^olo e Organtino degli Orsiji. GIORNALE LIGUSTICO 13 9 E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire messer Ercholesse ben-tivogli all’ assedio e ’spugnazione di sorezana. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire lo signore di piombino (i) per l’assedio e’spugnazione della terra di sorezana. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire lo figlio del chonte Antonio da Marciano (2^ all’ asedio della terra di sorezana. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire lo signore della mirandola (3) soldato e pagato da fiorentini propi 5 M.* d.‘ E \ i si disse chôme e fiorentini feciono venire pietro pagolo della sassetta all asedio di sorezanello a ’spugnarllo. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire lo fratello del conte Antonio da Marciano per la ’spugnazione di detta. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire el signore Zuanni savello per la ’spugnazioue di sorezana Bella. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire gran quantità di legnami e maranghoni (4) e fferri e badili e schure. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire mastri bonbardieri e ordinarono assai artiglierie e polvere. E vi si disse chôme e fiorentini feciono bastie intorno intorno e 4 paia di forche datorno sorezana per ispugnalla. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in chanpo 1’ armata de rre ferando (5) per via di mare per espugnare serezana Bella. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in chanpo una bonbarda grossa chiamata Acchatta .... a sorezana. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in chanpo una bonbarda grossa chiamata ispaza chanpagna per sorezana. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in chanpo una bonbarda grossa chiamata la marzochesca per sorezana. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in chanpo una bonbarda grossa chiamata la disperata per sorezana Bella. E \i si disse cliome e fiorentini feciono venire in chanpo una bonbarda grossa chiamata la cholonbina per sorezana. (1) Iacopo d’ Appiano. (2) Il Conte Rinuccio da Marsciano. (3) Anche nel poemetto La guerra di Serrila é ricordato : Della Mirandola el signor Galeotto. (4) Legnaiuoli. (5) Ferdinando Re di Napoli. 140 GIORNALE LIGUSTICO E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in champo una bonbarda grossa chiamata ispiana torre per Sorezana. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire una bonbarda grossa chiamata 1’ olio santo e Ila vettoriosa. E vi si disse chôme e fiorentini feciono una risposta a Sanesi di 6 chose disoneste chiesteci chredendosi che marzoccho perdessi sarzanello. E vi si disse chôme e fiorentini feciono una bella risposta all’ oferte fatte a lloro dal papa e da viniziani e da luchesi in questa ispugnazione. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in chanpo una bon barda grossa chiamata nè ppatti nè choncordie quella che vinse Vo terra. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in chanpo lo mare gabriello de malispini (1) di lunigiana alla’spugnazione di sorezana. E vi si disse chôme e fiorentini feciono venire in chanpo el mar dal monte (2) tutta due soldati e ppaghatti da’ fiorentini propio. Or vi si dicie chôme a 29 di maggio l’anno 1487 marzoccho cho-minciò a bonbardalla a porre il chanpo e strigmerlla forte. Or vi si dicie chôme la maestà de rre di franza mandò via e genovesi diciendo loro che darebbe aiuto a’ signori fiorentini. Or vi si dicie chôme la giente d’ arme e He fanterie dello tissimo duca di Milano son giunte in chanpo per chontro a sse assediata. Or vi si dicie chôme lo magnifico laurenzio (3ì è ito in chanpo ciò molti principali dello stato per iudare (sic) a ssorezana la chresima. Or vi si dicie chôme li fiorentini presono la bastia di san francesco eh’ era de' gienovesi di san zorzio addi 9 di gugio l’anno 1487. Or vi si dice chôme e fiorentini presono la terra e ccittà di sorezana a 22 di gugno per torza di bronzine e di L. (4)· ^ Or vi si dicie chôme li fiorentini missono a saccho e forestieri ch’erono in sorezana e ferono amazare i bonbardieri e pr<_sono i elio l°r°. . Or vi si dicie chôme e fiorentini ghuadagnarono bocche 1200 ra on barde e bonbardelle e passavolanti e cholubrine e arclnbusi. (1) Gabriello Malaspina. (2) Ugolino dal Monte S. Maria. (3) Lorenzo de’ Medici. (4) Leggi Lorenzo. y GIORNALE LIGUSTICO 141 Or vi si dicie chôme e fiorentini v' anno messo un chapitano e chom-missario de’ tornabuoni per la ghuardia di sorezzana e delle terre tolte. Or vi si dicie chôme li fiorentini anno acquistato 8 chastella del chonte piernofri da montedolgo per lascio che cchonfina cholla chiesa.... Or vi si dicie chôme e fiorentini dettero una sbarbazata (1) e choreria a’ Sanesi e a luchesi per cierti azigni (sic) e modi tenuti dopo la vettoria. Or vi si dicie chôme per ordine de’ merchanti fiorentini di ponente si die’ 1’ aviso all’ armata de pirrati che prendessino la nave Grimalda. Or vi si dicie chôme e fiorentini anno fatto una sollenne festa del-l’aquisto fatto lo ducha di-milano de la presa della città di gienova. Or vi si dicie chôme dieci horatori di sorezana ànno giurato fedeltà alla signoria fiorentina a 12 di luglio l’anno 1487 per tutta lunigiana. Or vi si dicie chôme e fiorentini fanno uno muro doppio da sorezanello e pietrasanta e chastelnuovo terre tolte a’ gienovesi e iti alle stanz.... condottieri fra Uuccha e ppisa e vai di serchio e van di nievole (2) che in un di bisognando sarebbono insieme.... enisse dalle ditte terre od altri paesi a onta e a di spetto de li mimici nostri. FlN'ISS detta ghuerra. Una colonia genovese nella Giorgia Superiore. L’ originale della Relazione che qui si pubblica fu rinvenuto nell’ Archivio di Stato (3). Il suo contenuto , benché (1) 11 Tommaseo ha di questa voce solo 1’ esempio seguente del Cellini : « Beatissimo Padre... datemi 1’ autorità eh’ io gliene possa dare uua sbarbarala a mio modo » ; eli’ egli spiega con fare una buona riprensione. (2) Valdinievolc. (2) Iuridictionalium, Fil. 179. La relazione deve essere stata presentata per il permesso di stampa, perchè è già munita ddV Imprimatur dell’autorità ecclesiastica in data 21 gennaio 1758; ma a tergo vi è questo decreto: « 1758 a 25 Gennaio. — Sentito il rapporto della Ecc.ma Giunta di Giù-' risdizione, letto il presente foglio, è stato deliberato, che il foglio medesimo si conservi nei fogliazzi dell’ Ecc.™ Gionta di Giurisdicione, e che dalla stessa non se ne permetta la copia. Per Ser. Coll, ad calc. — Francesco Cane.-». I42 GIORNALE LIGUSTICO nuovo , non discorda gran fatto da altre memorie delle quali si parla ne’ miei Nuovi studi sull'Aliante Luxoro (i). Ivi avvertii che i Genovesi dalle loro Colonie di Crimea e del Mar Nero s’innoltrarono entro terra alla regione caucasea e fino al Mar Caspio. La preponderanza e talora anche la prepotenza che ivi esercitavano, caratterizza acconciamente il nome di gran Comune che i Tatari davano a Genova e la O estesa e profonda tradizione che se ne serbò e dura ancora. Oltre le notizie che ne raccolse da scritti di Viaggiatori l’illustre Marchese Serra (2), ne troviamo altre in descrittori di quelle terre più recenti, specie in Dubois di Montpéreux (3). In siffatti racconti sono rammentate armi, tombe, altii resti scoperti colà, e rovine di chiese e tradizioni o leggende popolari attibuite a genovesi, con una sovrabbondanza la quale, se come altrove notammo non ha sempre una base ctitica, è già per se stessa la conferma di un fondo di veio. Dubois fra altre indicazioni (4) nota in Crimea, non lungi dalla conosciuta e già genovese Balaclava, la sussistenza dei nomi di Cerkes-tuss e Cerkes-Kermann, vale a diie la pianura e il castello dei Circassi, e il nome di Cabai da che si da tuttora alla parte superiore del fiume Belbek ivi presso situato. Ciò accenna a stabilimento in quelle terre dei Circassi della Cabarda venuti dall’ oltre Caucaso ; difatti 1 autore ne indica 1’ arrivo in Crimea, e il succesivo ritorno alle sedi native sul principio del secolo XVI. E vi allaccia una leggenda un po’ oscura di permute di territorio con Genovesi a piczzo del disonore delle mogli; onde altri si trasportarono a piedi del Monte Elbruz, altri sull’ alto Cuban. (0 Atti Soc. Lig. S. P. , V, 183-90. (2) Storia della Liguria, Capolago, 1835 1 IV, 59, 71· (3) Voyage autour du Caucase etc. Paris, 1839· (4) Op. cit., I, 80, 320-324 ed altrove. GIORNALE LIGUSTICO MB Lo stesso Autore in altro luogo dottamente raccoglie da Procopio, Strabone ecc. le tracce antiche di vescovati, abbazie , chiese, sulle coste del Mar Nero , sui fiumi che vi sboccano; descrive le strade che lungo i fiumi risalgono al Caucaso ed oltre non lungi dal citato monte Elbruz , dimostrandone così la frequenza del commercio in que’ luoghi e tempi. Una di tali vie partiva da Dendra, vescovato a mezzogiorno della bella baja di Sukum-Kalè, che fu la Sebastopoli del medio evo, con consolato genovese. Il passaggio si faceva rimontando il Kodor (Gotto nell’ Atlante Luxoró), il maggior fiume dell’ Abcassia , fino al monte Maruk nella catena del Caucaso; donde scendendo al penJio inverso o settentrionale, nel fiume detto ora il piccolo Zelenciuk, la strada recava al- 1 alto Cuban al villaggio di Cumara. Di là un altro ramo di via pel Podcumok giungeva al Bescetau, centro ed afflusso di molte steppe. Questo i Russi ora dicono Piatigorsli, ma con significato eguale nelle due lingue tatara e russa, vale a dire i cinque monti. Ebbene su questi paesi fra 1’ Elbruz, il Piatigorsk e Cumara, il russo viaggiatore Pallas vi avea riconosciuto tracce e tradizioni ai rifugi di Franchi, che Dubois spiega per genovesi. Ed io lessi nel Nouveau Journal Asiatique (1) la notizia di una sciabola antichissima coll iscrizione Genoa, trovata di questi anni sull’alto ('uban presso al ponte così detto di Pietra. Però la Relazione, che qui soggiungiamo, tratta bensì di uno stanziamento genovese sul Caucaso , ma pretende che i nostri ci venissero da Trebisonda e nella occasione che questa città fu conquistata dai Turchi: dunque verso il 1461. La cosa mi pare dubbia. È vero che Genova aveva anche qui un Consolato ed altre ragioni di dominio: ma non è probabile che durando i nostri ancora in Crimea fino al 1475 , i fuggiti (1) A. 1831. i.° semestre, 66. 144 GIORNALE LIGUSTICO dopo la presa di quella Città , anziché ripararsi attraverso il mare fra i concittadini e come in casa propria , preferissero andare ad inselvaggirsi fra cosi aspri dirupi. Sarebbe molto più naturale, che l’emigrazione al Caucaso fosse avvenuta nel 1475 , quando per la nuova conquista dei Turchi fu spenta ogni traccia di colonie e dominii genovesi in Levante. Si sa dalle storie il terrore universale che produsse la notizia di questo totale annientamento anche nella Cristianità , e si sa che allora parecchie famiglie genovesi si dispersero stabilendosi in diverse contrade. Checchenessia, il sito della colonia genovese scoperta dai Missionarii non è determinato con sufficiente precisione. Lo si dice nella Giorgia superiore e in su al Caucaso. Per Giorgia superiore naturalmente s’ intende quella parte che orr. è chiamata la Cartilinea, di cui la Città principale e Gori sul fiume Cur. Il nome poi di Pletis ivi citato è un evidente errore del copista, in luogo di Teflis o Tiflis «.api- tale di quel Regno. In tali circostanze la via de’ Genovesi dal Mar Neio a que’ monti, avrebbe dovuto essere diversa e più meridionale di quella sovradescritta. E Dubois anche qui ne traccia una che ci pare acconcia all* uopo. Da Poti alla foce del fiume Rion (Γ antico e celebre Fasi) essa risale alla Imerezia e a Kutais, che ne è la capitale, e dove il Serra indica mernone genovesi. Se si lasci il Rion pel suo influente la Quirila (clic secondo l’autore è il vero e continuo Fasi), si giunge salendo a una catena , per cui si discende all’ opposto pendio al fiume Cur, lungo il quale e a ritroso si sale a Mizteka 1’antichissima’ capitale della Giorgia ove confluisce in quel fiume 1’ A-ragvi. Per 1’ Aragvi si sale al Caucaso e propriamente al monte cosi dettcT della Croce nelle lingue latine, e Krestovaja Gora che significa lo stesso presso i Russi. Chi voglia oltrepassare il Caucaso, discende nel fiume GIORNALE LIGUSTICO x45 Ferek al passo di Dariel e fino a Ekaterinograd lungo la strada militare russa, traversando le regioni dei Circassi e della Cabarda sovramenzionata. Di qui si può anche dar la mano a raggiungere l’altra strada descritta a principio, cioè piegando a sinistra fino a Pratigorsk sul Podcumok e di là al-Γ Elbruz, a Cumara e all’ alto Cuban. Per tale guisa si rannoderebbero a larghi tratti le memorie tutte genovesi caucasee; memorie pur troppo ancora oscure pei nostri desiderii , ma nei generali almeno abbastanza ferme pel consenso di tracce e leggende e pel giudizio imparziale di dotti stranieri. Se il nome di Cristi, di cui dice la relazione essere distinti que’ coloni tra i pagani all’intorno, possa avere qualche nesso col citato Monte della Croce o Krestovaja Gora, lo lascerò giudicare da chi meglio di me sia informato dell’ origine e della data del nome moderno. È notevole la consuetudine di essi Cristi di celebrare 1’ u-nica festa loro rimasta, il 25 dicembre, in chiesa con una gran mangiata. Il Santo Natale fu sempre festeggiato in tutta la Cristianità, ma si sa che lo è tuttora con predilezione speciale dai Genovesi, anche per quanto riguarda la parte più materiale della solennità. Ma fu certamente anche di più nel medio evo, testimonii i nostri amici che ci sanno descrivere i costumi patrii per guisa come se li vedessimo cogli occhi propri. C. Desimoni. Colonia di Genovesi esistente sopra una gran Montagna nella Georgia superiore. © Monsignor Giuseppe de Stefani armeno Arcivescovo d’Edessa . esistente al presente in Roma, avuta notizia de’ Missionarii di S. Gio. Battista, al presente tutti Genovesi, ha giudicato dare loro le seguenti notizie. Nel tempo che il Turco s’impadronì dell’impero di Trabisonda , molte famiglie Genovesi che abitavano in que’ paesi fuggirono, e si por-Giorn. Ligustico. Anno XII. ' . 146 GIORNALE LIGUSTICO torono ad abitare sopra una grande montagna situata nel mezzo del mar Nero e del mar Caspio Una parte di questa montagna si chiama Georgia superiore. Nella pianura a mezzo giorno il Dominio è Maomettano, a tramontana è del Moscovita, dall’altra parte confina col mare Nero, e per attraversarla in longhezza 11011 vi vogliono meno di 40 giorni. È abitata d’intorno intorno da popoli di diverse nazioni, le quali pagano tributo al Turco. Le suddette famiglie Genovesi penetrarono più a dentro della montagna, e si può dire sopra la cima, nè mai hanno voluto sottomettersi al Turco , non abbracciare la setta, nè pagare tributo. Nel sito che occupano sopra detta montagna sono divise in molti quasi villaggi, nè vi vogliono meno di 4 o 5 giorni di camino per vederli tutti. Nella fuga da Trabisonda seco condussero alcuni loro sacerdoti, e fabbricarono qualche Chiesa seguitando a vivere cattolicamente. Morti poi que’ pochi sacerdoti rimasero senza guida e senza istruttori, ed a poco a poco senza minima cognitione della cattolica religione, e unicamente hanno mantenuto il nome col quale al presente si chiamano Cristi. Conservano alcuni libri latini manuscritti, e li presentano a’ Forastieri, se a caso 11e passano da quella montagna, per vedere se ci sanno leggere e capire se fossero della loio nazione, perchè molto volontieri 1’ accetterebbero per essere istruiti. Sono ancora in piedi le loro antiche Chiese, ma del tutto vuote e nude; solamente sogliono congregarsi in esse il giorno 25 di dicembre dicendo essere un giorno di gran festa, e fanno in dette Chiese una gran mangiata. Asserisce suddetto Monsignor Arcivescovo d’ aver parlato con un Chierico Armeno statò in quel luogo di passaggio, il quale riferì d aver letto sopra la facciata d’una chiesa queste parole: S. Pietro, e sopra d un altra: SS. Sagramento. Saranno 5 o 6 anni che dalla città di Plitis nella Georgia v’andò un Padre Cappuccino italiano, che vi si trattenne un mese, e nel partire promise di ritornare con altri, m.i non è più ritornato, e diede notizia che il linguaggio di quella gente era tuttavia genovese, ma rozzo , e all uso de’ contadini o villani di Genova. Tra di loro vivono e si mantengono di quello che produce la terra; non hanno danaro ma si provvedono l’un l’altro col cambiamento delle merci, e non sogliono communicare con altre nazioni che con li Gior-giani. Più distinte notizie di questo popolo potrà ricavarle il Vicario Appo-stolico di Costantinopoli da Giorgiani Cattolici , da loro Missionarii, e da mercanti di altre nazioni confinanti. giornale ligustico 147 SPIGOLATURE E NOTIZIE Istituto Storico Italiano. — Nello scorso marzo è uscita la prima dispensa del Bollettino dell' Istituto Storico Italiano, e contiene: il R. Decreto di fondazione, del 25 novembre 1883, colla Relazione che lo precede; 1’ elenco dei membri dell’istituto; il discorso inaugurale pronunciato dal ministro Coppino il 27 gennaio 1885; il programma dell’istituto approvato il di 19 dello stesso mese; e la circolare del presidente, on. Correnti, « ai Signori presidenti delle regie deputazioni e delle società di storia patria ». Il nobilissimo discorso del ministro, lodato a suo tempo dalla stampa, non ha bisogno dei nostri elogi, i quali ad ogni modo sarebbero tardivi ; ma con piacere prendiamo atto di quel passo nel quale 1’ ufficio dell’ Istituto è nettamente tracciato ai suoi componenti : « Procurare, ordinare tutta questa ricerca (del passato), integrare l’opere degl’individui e delle associazioni per la storia italiana, non sostituirvi a questa, fissare certi punti direttivi, operare Voi stessi, indicare argomenti , aiutare altrui, è il compito vostro ». — La circolare Correnti poi conferma che l'Istituto « deve riuscire ad una sincera federazione di tutti i sodalizi, che . .. intendono a pubblicare e raccogliere nelle varie regioni d’Italia gli sparsi documenti della storia nazionale » ; e fa quindi sapeie e a nome della Giunta esecutiva, che 0 per ovviare la necessaria concordia degli studi storici, è desiderabile che ciascuna associazione manifesti in qual lavoro comune, e in quali argomenti le giovi valersi dell’ offertale mediazione dell’ Istituto Storico, o giudichi conveniente impegnarne 1 intromissione per domandare speciali assegnamenti e soccorsi dallo Stato ». Esprime inoltre il desiderio « che si mandi da ciascuna società nota delle materie fin qui trattate e di quelle che si stanno studiando o proponendo allo studio » ; acciocché in una prossima convocazione dell’ Istituto, la Giunta medesima si trovi * in grado di presentare una relazione riassuntiva su ciò che si è fatto e si sta facendo dalla ■ quale potranno pigliar ordine le discussioni, e concordarsi con sicuri riscontri i giudizi sul modo di dare il più efficace indirizzo all’ opera della nostra libera federazione ». * * * Tre lettere di scrittori genovesi, - Da Antonino Bertolotti sono pubblicate (Bibliofilo, marzo e aprile 1885, 43 , 55) queste tre lettere dirette al Duca di Mantova. La prima è di Gaspare Murtola, il quale rin- 148 GIORNALE LIGUSTIGO grazia il duca per gli uffici latti affinchè il Duca di Savoia lo liberasse dal carcere, dove era trattenuto per la nota contesa col Marino. S."'° Sig. Pron mio Coll.’1'0 Ha λ'. A. tanta parte nella mia liberatione seguita poco fa, che posso dir di riconoscerla interamente dalla uiua Protettione che le piacciuto hauer di me con tanti offittii fatti far a fauor mio dal signor conte di Ro seruitor suo. Io ne ringratio V. A. quanto deuo e la supplico poiché me si è mostrata tanto liberale de suoi fauori in si pericolosa disgrada, a restar seruita ancora di continuar hora che son libero e quella vita di che a sua intercessione ho hauuto la gratia dal signor Duca di Sauoia , la medesima riconoscer per sua e disporne con quella autorità che ricer-cono gli obblighi miei; e con far a V. A. humilissima riuerenza la prego dal signor ogni compita felicità e grandezza. Da Turino li 12 de settembre 1609. Di V. A. S. Humilis.'"0 obl·.'"0 S. della vita Gaspare Murtola. Con l’altra Pier Giovanni Capriata ringrazia della beaignità onde il Duca, accolse il primo saggio della sua storia uscita appunto in due libri nel 1625. S.m° Signore. La benignissima lettera di che V. A. S.ma s’e degnata honorarmi in risposta della mia e dell'opra che le mandai, mi obbligaua senza dubio a uenir in persona costà per ringratiarla di tanto fauore. Il che haurei senz’altro fatto se le mie indispositioni non m’hauessero trattenuto: spero in nostro signore d’hauer un giorno commodita di farlo, la quale prontamente abbraccierò per farmele di presenza quel deuotiss.mo seruitore che le sono in absenza, el quale con ogni humiltà la supplico a riputarmi. Nostro Signore dia a V. A. S. salute e prosperità. Genova 20 decembre 1625. Di V. A. S. Humiliss.m° e deuotiss.”10 seruitore Pietro Gio. Capriata. Questa lettera verrebbe in certo modo a provare ciò che si afferma in un libello attribuito al Tesauro, aver cioè il Capriata messo fuori GIORNALE LIGUSTICO 149 que’ due primi libri, ne’ quali si racconta la guerra di Monferrato , sollecitato ed ispirato dal Duca di Mantova (Cfr. Giorn. Lig., a. 1874, 388). La terza lettera è di Luca Assarino. Seren.1"0 Pad.°"c In esecutione di ciò che V. A. si degnò di accennarmi colla benignissima sua de’ 30 decembre, tre settimane sono la riverii humilmente con una mia, ed insieme le inviai un Informatione di quello che facilmente si sarebbe potuto operare in servitio de suoi stati. E perchè contenendosi in si fatta informatione cose di qualche momento non ucrrei in maniera alcuna che si fosse perduta; per ciò resterei sommamente consolato se uno de’ signori segretari di V. A. m’ auuisasse che dette mie lettere non si sono perdute. Rassegno alla sua innata bontà più che mai riverente la mia diuotione, e con profondo inchino le auguro dal cielo ogni più bramata prosperità. Milano 9 febraro 166r. Di V. A. S. humiliss.m« e deuotiss.”10 servitore Luca Assarini. Era già dunque fino da questo tempo in corrispondenza col Duca di Mantova in qualità di novellista o di agente , ed anche questo punto della.sua vita riceve cosi lume e conforto (Cfr. Giorn. Lig., a. 1875, 22), *** Unt predicatore ligure a Mantova. — È nota la predicazione che ebbe luogo sulla fine del secolo XV contro gli ebrei; ed a questo proposito è rimasto assai famoso il nome di Fra Bernardino da Feltre, che fece udire più volte la sua voce in Genova (Cfr. Giorn. Lig., a. 1876, 182). Ecco ora il nome di un ligure men conosciuto, in un singolare documento mantovano (Rivista Stor. Mantovana, I, 184). È una lettera della marchesana Isabella d’Este al marito.. « 111.mo S.re mio - Per non manchare del debito officio mio verso la Ex. V., che è de tenerla avisata de qualunche occurrentia di quà, maxime digna de significatione , gli notifico come sono circa quindece giorni che l’è venuto in questa terra uno frate Dominico da Ponzone Zenovese, del ordine de S.to Francisco, el quale la quaresima proxima passato ha predicato a Venetia cum mirabile concorso, per quanto m’ è dicto, et in specie gratissimo a la Serenità del Principe et a tutta quella 111.ma S.ria, quali più volte 1’ hanno voluto udire et più del consueto cum GIORNALE LIGUSTICO altri predicatori: et cum tanto studio, che per publico decreto la predetta Signoria in satisfactione del suo predicare ha posto regula a diversi de-sordini de quella città, corno è in restringere li monasterij de Monache dissolute, honestare le portature de le donne, et altre provisione laudabile: quale quella Signoria ha ordinato che li Zudei tutti portino le brette zalde, non possino stare in Venetia più de quindece di fra tutto Γ anno. Hora predicando qui cum maravigliosa audientia de tutta la terra et detestando in particularità che la Cità per tutte le contrate sia conspersa de meretrice et che li Zudei non siano notabilmente distincti da li Christiani , inferendo et exprimendo che se li facia portare la bretta zalda, come iia facto la predetta Signoria, et commemorando et minaciando quando non se li faci provisione Dio punirà et flazellerà questa Cità de pegio che non sono le febre acute et possunsi dire pestilentiale già principiate, come la S. V. è stata da me avisata , benché per la gratia de Dio mo vanno cessando, in mo’ che è stato uno terrore a sentire el predicar de costui, adeo che ’l m’ è parso necessario trovarli qualche remedio et per placar Dio quando el fusse coriciato cum nui, et per que-tare esso predicatore, cossi ho ordinato per publica crida che le meretrice sparte per le contrate debano redursi o a la Simia o verso Rede-valle in quelle estremità de la terra , et che alcune venute da Ferrara , onde n’è stato caciato uno gran numero, se reducano ad essa Simia o vero vodano in tutto el paese; et benché dificile serrà a nettar bene le contrate, pur se vederà al meglio se poterà farlo in parte se non in tutto. A li Zudei, al che principalmente el predicatore intendeva , è ordinato che cossi come portaveno lo O denanti al basso, e quodamodo ascoso, hora lo portino suso alto in vista verso la spala, un pocho grandetto, si che il si veda apertamente ; non ho voluto in absentia de la Ex. V. mettere ordine de bretta zalda. non mi parendo di procedere tanto ultra, et de ciò facto fare la scuse col predicatore. Lui è rimasto tacito de la provisione facta, el che mi è parso come in principio ho dicto far noto a la Ex. V. cum subjungerli che son stata anchor io ad udire questo frate, el quale è tanto affectionato a la Ex. V., e tanto predica in laude et gloria sua quanto sia possibile a dire, et de la liberalità et magnanimità et notabilissime altre parte de quella , concludendo cum rasone efficacissime che la salute de Italia è in mane de la S. V. et che ognuno vive in questa speranza, et dimostra come partesano di quella e di questa patria desiderare de haver a predicar qui a la presentia de la Ex. V. - GIORNALE LIGUSTICO Per il che et anche per essere famosissimo predicatore, et grato a questo populo , ho i.icto pensier de scrivere a Roma , per impetratione de uno breve papale a lui , sì che essendo possibile P habiamo la quaresima prossima a venire, che Dio conceda a la S. V. ecc. Mantue, 25 aprilis 14.96. Postscripta. Sono alcuni Giudei in questa terra a li quali è concesso in scriptis per V. S. de non portar lo O ; cussi non mi è parso molestar quelli che da uno anno in qua hanno tale concessione. Se la Ex. V. vorrà che la si observi etiam ali altri che 1’ hanno più vecchiamente, se degni avisarmelo. Sera obdita. Un m litteris » Invano si cercherebbe menzione di questo frate ne’ nostri scrittori ; ma ce ne lasciò memoria il Wadingo (Annales, XIV, 244; XV, 178). Egli era di Ponzò piccolo paesello in quel di Spezia ; ebbe fama di insigne teologo, e di predicator celeberrimo , « a dicendi gratia et efficacia alter Paulus nuncupatus » ; ma « vultu rigidus, in declamando terribilis , auditores perterrefaciens a vitiis potenter retrahebat » , di che la riferita lettera ci dà buona prova. Usava nelle sue predicazioni gran libertà « nullius timens potentiam, nullius minas reformidans » ; onde in ugual modo a Firenze « acriter in Savonarolam invectus » , siccome a Roma « contra abusus Curiae intrepide praedicavit ». Nè va defraudato d’ un merito del quale gli storici, per quel che sappiamo, non gli hanno tenuto conto; d’aver cioè fitto parte della gloriosa spedizione che liberò Otranto nel 1481 dalla invasione dei Turchi. Raccolta per via di elemosine buona quantità di danaro, apprestò di tutto punto una galea, che si unì all’armata; ebbe compagni « multos robustos frates socios »;i quali « variis incursionibus non parvam hosti molestiam intulerunt ». Mori Fra Domenico nel 1499 in Roma nel Convento d’Araceli. * ♦ * 11 dottissimo canonico mons. Isidoro Carini, già professore di paleografia e diplomatica nell’ Archivio di Stato in Palermo, ed ora investito di somigliante ufficio negli Archivi della S. Sede in Vaticano, ha pubblicato sullo scorcio dell’anno passato il primo fascicolo della sua Relazione su gli archivi e le biblioteche di Spagna in rapporto alla storia d’ 1— talia in generale e di Sicilia in particolare (Palermo, Tip. dello Statuto). La Relazione si divide in due parti : I. il testo; II. i documenti ed allegati. 152 GIORNALE LIGUSTICO Nel testo, laddove rende conto dell’archivio di Barcellona, il prof. Carini cita dal registro 1500 una lettera del re Don Pedro il cerimonioso, colla data del 20 febbraio 1385, che proroga le Cortes di Monzon, nelle quali i tre Bracci gli « avean presentato energica istanza, chiedendo che fossero destituiti e processati, come rei di alto tradimento, molti consiglieri della Corona e del Primogenito, per aver fatto parte dei secreti di Stato... al Comune di Genova, come pure per aver favorito l’infante di Maiorca ed affrettata la pace coi genovesi, con gran vantaggio di questi ultimi » (p. 26). Nello stesso archivio « una interessante categoria di scritture reca il titolo di Antiqua Légation en Genova » (pag. 27). — A Madrid, nella preziosissima collezione « Salazar », presso quell’Academia de la Historia, va segnalato « fra i Papeles varios un ms. cartaceo in 8.°, col titolo: A rchiepiscoporum et Episcoporum Genuensium, qui in lnsulis, et Regnis Siciliae et Sardiniae, in Italia atque in caeteris Europae Regnis, nempe in Imperio Austriaco, Catholica et Christianissima Hispaniarum et Galliarum Coronis meritissime infulas tenuerunt plenissima Descriptio sequitur » (p. 108). — Inoltre il Duca di Veraguas ha donato alla Biblioteca Nazionale della stessa città « alcuni preziosi autografi di Cristoforo Colombo » (p. 130), e l’inventario Estado della stessa Biblioteca indica si come esistenti nell’archivio di Simancas « le carte di Stato di Genova, 1495-1616 » (p. 141). Poi nel .codice cartaceo G. 65, intitolato Comen-tarios y guerra de Turni, debboho trovarsi molti particolari sui genovesi che furono con Carlo V all’impresa del 1535 (p. 156 segg.). Infine il codice cartaceo G. 220 contiene la traduzione spagnuola del noto Compendio di Antonio D’Oria, edito in Genova nel 1571, fatta da « Luis de Toro, mèdico ile la Ciudad de Plasencia, ano de 1574 » (p· 158)· Fra i documenti, rileviamo le seguenti lettere del re Pietro II di Aragona: 1. Valenza, 29 dicembre 1277. — Credenziali pei Capitani di Genova e pel Conte di Ventimiglia, consegnate all’arcidiacono di Urge! (p. 188). 2. Valenza, 30 luglio 1279. — Credenziale al Podestà ed ai cittadini di Genova, perchè ricevano benignamente il Commendatore di Alcanicio , spedito a papa Nicolò II pro quibusdam nostris negociis (p. 40)· 3. Barcellona, 10 febbraio. — Al Podestà, al Capitano, agli Anziani ed al Comune di Genova: « Reputandovi speciali amici nostri,... e credendo farvi cosa utile e grata col sopire l’antica discordia fra voi e i pisani, vi mandiamo nostri nunzi Ughetto di Romanino, Alberto di λ olta e Bartolomeo Machoses___ A questi abbiamo poi ordinato, che vi manifestinò a voce tutto il nostro stato, nonché la volontaria ingiuria e il processo GIORNALE LIGUSTICO rS3 che ci fa il Papa. Vi ringraziamo infine di non aver voluto nulla intraprendere contro di noi, benché richiestine da’ nostri nemici, come molti ci han riferito » (p. 54). 4. Barcellona, 10 febbraio 1284. — Agli ambasciatori dell’imperatore dei Greci. « Credete... a quanto vi diranno i nostri inviati Ughetto di Romanino ed Obertino di Volta [genovese] probabilmente 1’ « Alberto di Volta » della lettera precedente (p. 55). 5. Barcellona, 10 febbraio 1284. — « Ad Oberto Spinola, ed a vari fra i D’Oria, Spinola, Volta, Boccanegra, Zaccaria, ecc. ». — Già pubblicata dal Saint-Priest, Hist. de la conquête de Naples par Charles d'Anjou, IV. 208 (p. 55). 6. Daroca, i8 aprile 1284. — Al Vicario di Barcellona. Albertino di Volta, Ughetto di Romanino e Bartolomeo Machoses , approdati a Genova con un legno del re, ebbero a contrastare coll’equipaggio che non volle seguirli fino a Pisa, ed a stento li accompagnò fino a Portovenere. Per la qual cosa il re ordina un’inchiesta (p. 33). 7. Saragozza, 1 maggio 1284. — A R. di Montecatirro di Fraga, in Tortosa, al Commendatore dei Templari, al Vicario, al Bailo ed a’ proli uomini ivi. a II Comune e il popolo di Genova furono e sono speciali amici de’ nostri predecessori e di noi. Perciò abbiano loro concesso licenza di estrarre 500 sporte di pece e 200 quintali di sego, di che abbisognano per le loro navi e galee » (p. 34). b. Saragozza, 1 maggio 1284. — Guidatico ai genovesi Giovanni di Volta, Troppa (?) e Guglielmino suoi figli, G. di Volta ed il figlio di lui (p. 34). 9. Saragozza, 7 maggio 1284. — Alla regina Costanza: Rimova dal- 1 ufficio Gerardo Botxii (Botaciiì), pisano, giustiziere nel Val di Mazara, il quale offese « i genovesi, che trovammo sempre amici carissimi e pronti al nostro onore e servizio..... Vi preghiamo inoltre di tener come raccomandati a voi i detti genovesi, nostri speciali amici ». (p. 33). 10. Saragozza, 7 maggio 1284. — « Alla Regina. Babilano D’oria ci espose, ch’egli deve avere talune eredità in Sicilia per donazione del re Manfredi, vostro padre. Vi preghiamo di fargli giustizia » (p. 33). 11. Tirasona, 21 novèmbre 1284.. — Al Vicario ed al Balio di Barcellona. Facciano imbarcare sulla prima nave che va sino a Genova, maestro Azzone dei Lambertazzi, inviato del re di Castiglia alla Curia romana (pag. 6). tì.Barcellona, 31 luglio 1285. — Ai maestri portolani di Sicilia. Debito del re di 9392 tari (che valgono, alla ragione di 2 soldi a tari, 18784 Γ54 GIORNALE LIGUSTICO soldi Barcellona), verso certi mercanti, per mutuo fattogli in Genova per solvendis debitis et faciendis expensis navis sue maioris (p. ioo). * * * Privilegio ad uno schiavo liberato. — Troviamo nel Bollettino storico della Svinerà italiana (1885, n. 3) il documento seguente: Petrus Franciscus Spinula Patricius Januensis Classis Navigiorum Gemute Serenissimae Reipublicac Praefectus. — Universis et singulis cuiuscumque status, gradus , conditionis , dignitatis et offici j , présentes nostras visuris lecturis et audituris, fidem facimus ac attestamur ex testimonialibus fide dignis nobis exhibitis comperuisse atque nobis constitisse, atque constare Michaelem Gandulfum, una cum duobus suis fratribus , versus Sardiniam navigantibus sex ab hinc mensibus in barbaras Turearum Christiani nominis hostium manus incidisse, eosque omnes Tunesim captivos fuisse deductos, et tandem eundem Michaelem pluribus calamitatibus et corporis cruciatibus in captivitate perpessis, se ipsum eliberasse per solutionem talarorum quatuorcentum ; dictis suis fratribus in eadem captivitate relictis, pro quorum redemptione solvere oportet tallaros septingentos; quapropter ipsum Michaelem nostris navigijs in portum Genuae vehi ius-simus, ad quaerendam a Christifidelibus dictam pecuniarum summam, pro recuperatione dictorum fratrum necessariam. Unde pietate ducti, summa ejusdem Midiaelis paupertate perspecta ejus denique commiserantes, omnes et singulos quibus supra commendamus eosque rogamus in Domino, ut clementi oculo sanguinem Christianum respicientes eundem Michaelem praecipua caritate excipiant, ut eis pijs elemosinis subveniant, ac ab omnibus Christifidelibus per omnes urbes, pagos et oppida , et ubique locorum petere et colligere permittant ; ut dictus Michael suos inopes fratres e tam barbaris manibus redimere valeat ac possit. Cum hujusmodi benefactores certissimi sint de eorum suflfragijs in Coelis et in terris a Deo copiosam et uberrimam retributionem erunt accepturi. Quare ipsum Michaelem in veritatis testimonium has nostras impertivimus, ad hoc ut tutius et liberius pias elemosinas a quavis persona utriusque sexus, tam ecclesiastica quam secula ri, ad hujusmodi redemptionem necessarias congé rere valeat, easque solito nostro munivimus sigillo, et pro majori fide propria manu subscripsimus. Datum Genuae hac die octava Januarij 1697 Petrus Franciscus Spinula ut supra Praefectus. (L. S.). giornale ligustico r55 Il Gandolfo era a Baden in Isvizzera il 9 marzo del 1697 come risulta dal permesso concessogli di limosinare in quella città. Si nota che •colla stessa data venne rilasciato un consimile permesso a Domenico Repetto, anch’egli liberatosi dalla schiavitù dei Turchi. Ben ha fatto 1 editore del riferito documento a porre dubitativamente 1’ appellativo di. « levantinesi » cosi al Gandolfo come al Repetto, perchè debbono ritenersi tutti e due genovesi, e con miglior determinazione, oriundi da Chiavari e luoghi circostanti. * * * Nelle Notizie degli scavi di antichità (Ottobre 1884, 337), si legge il seguente rapporto dell’ Ispettore Rossi di Ventimiglia : « Una costante tradizione paesana ci avea trasmesso, che l’antica città romana degli Intemelii fosse difesa a mezzogiorno da una lunga cinta di mura assai robuste, dalla quale per mezzo di alcune porte la popolazione traeva al prossimo lido del mare. Che anzi additavasi a prova il largo muraglione, sopra cui posa la casa Parodi; al quale dalla parte che guarda il mare, stavano ancora aderenti al principio di questo secolo, grosse anella di lerro, destinate a tenervi attacate le navi. Un consimile bastione si rinveniva pochi anni or sono, nello scavare le fondamenta della villa Aprosio, che sorge a levante, sebbene assai discosta dalla predetta proprietà Parrodi. » Ed ora la vecchia tradizione riceve una novella conferma, dalla scoperta fattasi nella proprietà del sindaco comm. Secondo Biancheri, la quale intercede ira i predi Parodi ed Aprosio. Nei primi giorni di ottobre si attendeva a scavare le fondamenta di un pozzo, quando tosto si vide comparire a fior di terra nella direzione di est ad ovest un robusto muraglione, dello spessore di m. 2, 10, formato di piccoli materiali posti alla rinfusa , rivestito però ancora in parte di durissimo cemento. Non si tardò da quelli agricoltori a divinare , essere quello il vecchio mura della città; ed a completare la tradizione volle il caso, che lo scavo si praticasse, dove appunto il muro offriva il vano di una porta ad arco tondo, dell’altezza di m. 5,30 e della luce di in. 1,70. » Sebbene la porta sia tanta larga da lasciar passare appena un carro, pure è certo che essa era pubblica , e che immetteva dal lido del mare in città, trovandosi subito passata detta porta, la via lastricata di larghi massi quadrilateri di pietra calcarea di Turbia. Nella breve area esplorata, si rimisero pure in luce al lato destro due rocchi di colonna di marmo striato, uno della lunghezza di m. 2,30, 1’ altro di un solo metro, 156 GIORNALE LIGUSTICO ambedue del diametro di m. 0,50, e con segni manifesti di essere stati spezzati con violenza. » Al lato sinistro di chi entra , alle mura di cinta si attacca nella direzione di nord a sud un muro di edifìcio distrutto, al quale si aveva accesso mercè di tre lunghi gradini di pietra calcare di bel lavoro, i quali fanno testimonio di un’ opera architettonica non comune. » * * * Nell’ Archivio storico italiano ^XV, 55 e segg.) col titolo « Varazze residenza dei Vescovi di Betlemme » , Girolamo Rossi intende provare che nel sec. XII s’ innalzò l’umile chiesa di S. Ambrogio di quella terra a cattedra vescovile, per concessione fattane l’anno 1139 dal vescovo di Savona Aldizio ad Ancelino vescovo di Betlemme, ed approvata poi dai pontefici. Su questo argomento crediamo però che ritornerà fra non molto l’illustre conte Riant; e noi aspetteremo, prima di dirne altro, la sua pubblicazione. *** Ne « Le cedole di Tesoreria dell’ archivio di Stato di Napoli dall’anno 1460 al 1504 », spoglio fatto da Nicola Barone (Arch. Stor. Nap. a. IX, 630-31), trovo questi pagamenti: « Mastro Battistino Teglia, genovese, mastro di fare carnei, riceve 4 due. a compimento di 20, che ne doveva avere per la manifattura delle stampe d’ argento che ha fatto per segnare la mano del Re. Riceve poi 11 due. 2 tari e 12 grana, per altrettanti che ne ha speso nella compra di argento posto nelle dette stampe , ed un d. 2 tari e 10 grana pel prezzo di un marmaturo, 3 tari e 5 grana pel prezzo di una piastra di ferro, di una lucerna , di uua paletta , un tari e 14 grana, per un rotolo di olio di lino, d una libbra di \ernice, di un’ oncia di mastice , e 4 due. pel prezzo di un astuccio; le quali cose ha comperato per le dette stampe ». Mastro Battistino sarebbe mai figlio, o altrimenti congiunto di quel Benedetto Mantica da Teglia, orafo peritissimo, del quale parlano certi documenti del 1441-42 pubblicati dal Milanesi, e rammentati dal Varni nei Ricordi di alcuni fonditori in hronio? *** Giovanni Sforza narra Un viaggio da Lucca a Torino nel 1781 fatto da Cesare Lucchesini, del quale egli ha lasciato memoria in un ms. autografo , sebbene anonimo {Gaietta Letteraria di Torino, 1885, n. 8). Vi sita anche Genova , dove prende alloggio nella locanda della Croce di Malta sulla piazza di Banchi, va al Teatro Sant’ Agostino, ed assiste alla rappresentazione della commedia, La Nanci, data dalla compagnia di giornale ligustico x57 Giovanni Roffi. Si conduce poi a vedere « la comunicazione delle due strade Balbi e Nuova , già molto inoltrata , ma di quel tempo interrotta per mancanza d’assegnamenti »; lavoro affidato alla direzione del conte Fieschi, e che si faceva « con le varie contribuzioni dei particolari, non avendoci voluto pigliar parte il governo », il che non è in tucto esatto. Dopo aver ammirato « la magnifica fabbrica della nuova sala del palazzo », parte alla volta di Ί orino; trova Novi « ripiena di patrizi genovesi, i quali vi vanno a villeggiare nell’ autunno «, e ciò rendeva dispendiosa la carica di Governatore in quel luogo , onde difficilmente si trovava chi 1 accettasse, « com’è accaduto » , egli dice, « nell’anno corrente 1781 , che 1’ hanno ricusata tutti i patrizi che sono stati eletti, pagando però una grossa penale ». * * * Nell Aichivio Storico Lombardo (marzo pp.), Michele Caffi ragiona di alcuni architetti e scultori della Svinerà Italiana. Di qui impariamo che i Chiona o Gyona vennero da Lugano ; e subito il nostro pensiero corre a quell’ Andreas de Giona, del quale serbansi tuttora nella villa Chiodo, presso Savona, gli avanzi di una bella pala mormorea, scolpita nel 1484 per quella chiesa dei cavalieri. Similmente dalla valle Luganese derivano i Carona, che taluni dissero bergamaschi ed altri fece oriundi di Caronno nel Milanese; e fra costoro « maestro Giovanni di maestro Aprile... diveniva capo di una progenie di artefici pregievoli, quali riuscirono i suoi figli Pietro (1504) ed Antonio Maria '(1514-1525), l’uno che visse in Como, in Genova, in Carrara, lavorando in quest’ ultima città col celebre scultore Bartolomeo Ordoùes di Burgos: 1.’altro pure stanziato in Genova, donde mandava alla Certosa di Siviglia un monumento per un Azevedo , coll’ epigrafe : Antonius Maria (de) Aprili de Charona hoc opus faciebat in lanua » (p. 67). Ma già sopra un caronese più antico, il quale operava in Genova, ha pubblicato alcuni cenni il Giornale Ligustico del 1883 (p. in). Del resto il Caffi, citando come fonti le Memorie di Levanto del Varni e gli Artisti Carraresi del Camporj, ci lascia supporre di non avere avute presenti le Notizie dei professori del disegno dell’Alizeri ; dove sul conto di Antonio Maria Carona si trovano raccolti maggiori particolari, e non solo si discorre del monumento all’ Azevedo , ma di altri lavori impresi dall’artista medesimo per commissione del marchese di Tarifa, e se ne recano i documenti (vol. V, p. 88-93). Di molti altri scultori e lapicidi caronesi si ha pure intorno a quest’ epoca « memoria in Venezia e in Genova ; fra i quali un Pier An- i5S GIORNALE LIGUSTICO gelo, che nel 1527 in Genova lavorava nel pergamo di S. Lorenzo » (P· 67). Rileviamo per ultimo dal Caffi la notizia di Felice Soave , architetto luganese, morto 111 Genova nel 1803 (p. 83). * * * Nell’ Historische Jahrbucli di Monaco (VI, I, 1885) si pubblica un articolo curioso ed assai importante per la storia genovese delle colonie. Ne è autore il Gottlob, ed è intitolato: Die lateinischen Kirchengemeinden in der Til rìcci und ihre visitation durch Petrus Cedulìni Bischof von Nona , ij8o-ijSi. Ha dato argomento a questo scritto una copia degli atti di quella \isita del vescovo Cedolini, la prima dopo la caduta di Costantinopoli, conservata nella Biblioteca del convento dei SS. Quaranta martiri a Roma. Vi si nota l’esistenza di due piccole città della Crimea i cui abitanti, discendenti dai genovesi, conservavano l’antica fede, e vi erano sempre vivi i casati dei Doria, degli Spinola e dei Grimaldi ; sebbene già a quel tempo, quanto alla nazionalità, fossero completamente tartarizzati. * * * Troviamo nel Momento (Palermo, 15 novembre 1884) un articolo di Annibaie Gabrielli intitolato: Un poeta maccaronico, nel quale a giusta ragione richiama l’attenzione degli studiosi sopra le poesie maccaroniche di Cesare Orsini da Ponzano, noto sotto il nome di maestro Stopino. Sembra però che l’autore non conosca le notizie biografiche di questo poeta, il quale non « rimase chiuso a Ponzano », che anzi vi stette pochissimo, ma fece vita un po’ vagabonda, ed ebbe anche delle curiose avventure amorose, per le quali venne cacciato da Venezia, e fu per via malamente ferito. Nelle sue maccaroniche poi non mancano buone sferzate ai costumi civili e letterari, e persino, con prudente velo, delle toccatine politiche. È autore che meriterebbe uno studio così per le citate maccaroniche, come per le poesie volgari. * * * Nella Nuova Antologia (15 marzo, 282) Giovanni Livi pubblica l’ultimo capitolo del suo libro che ci si afferma ora già uscito, ma a noi non pervenuto: La Corsica e Cosiino 1 dei Medici. Vi è narrato, con alcuni nuovi materiali, Come la Corsica soggiacque alla Francia. La narrazione ci sembra condotta assai bene; ma dobbiamo pur rilevare che l’autore ha tenuto pochissimo, anzi niun conto, dei documenti genovesi. Ci ha poi veramente sorpreso quella lode di « equanime storico genovese » data a Carlo Varese ( cfr. Giorn. Ligustico, a. 1876, 190 in nota). GIORNALE LIGUSTICO x59 Udì'Atene) Veneto (gennaio-febbraio 1885), G. Piermartini loda il \olgarizzamento di quattro poeti latini fatto dal dottore G. B. Gaudio d Oneglia. I poeti sono: C. Pedone Albinovano, Aulo Sabino, Sulpizia e Claudio Rutilio Numaziano. La versione è commendata per la bontà del verso , per la conoscenza profonda dell’ idioma latino , e per 1’ arte con cui sa renderne le bellezze. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Agostino Bruno. Gli Archivi del Comune di Savona. _ Savona Tipo-Litografia Vescovile di Miralta, 1884. L’autore avendo « avuto occasione di qualche studio intorno agli archivi suddetti, ha creduto di rilevare in una breve monografia quanto di più rimarchevole si trova nei medesimi », avvisandosi in tal guisa di « richiamare l’attenzione degli intelligenti fopra quelle importami raccolte, che offrono largo campo d’investigazione alla paleografia ed alla storia ». Egli ha distribuita la sua monografia in due parti: nella prima delle quali tratta dell’ Archivio Municipale, e nella seconda ragiona del- 1 Ai eluvio degli' antichi Notari. L’Archivio Municipale contiene circa ottomila tra volumi e fogliazzi, distribuiti secondo i governi ai quali appartengono, cioè : il governo a popolo che giunge fino al 1528, e, compresa la signoria di Genova, fino al 1799; governo francese (1800-14); il σ0-verno sardo ed italiano (1815 in poi). Naturalmente la prima serie è^la più ricca, ed anche la più preziosa; e nell’ordine cronologico stanno anzitutto 1 due ben noti codici a catena, che vanno dal 998 al sec XVI e che possono paragonarsi ai libri jurium di Genova. Dal 1178 cominci! poi la serie dei cartulari de’ cancellieri; e primo è quello di Arnaldo (Minano e Giovanni di Donato, che va fino al 1183. Ma perchè misti agli atti di indole pubblico sono in questo e ne’ successivi cartolari con notabile preponderanza, gli atti privati, cosi a noi sembra che il Cumano il Donato, il Martino, ecc. ecc., troverebbero più acconcia sede nell’Archivio Notarile il quale verrebbe in tal guisa a rivaleggiare d’antichità con quello di Genova, che principia, come è risaputo, dal 1154. Se alle indicazioni proprie il Bruno avesse inoltre associate quelle de^li scrittori che prima di lui attinsero negli archivi savonesi, la sua monografia, per quanto lodevole e interessante, sarebbe riuscita senza follo di una utilità molto maggiore. In vece, salve le citazioni generiche contenute per questo rispetto nella prefazione, lo studioso non isperi di avere in lui una guida che gli insegni quali fra gli atti citati via via sieno di già editi, 0 quali fra i codici sieno stati in altro tempo esaminati e descritti. ΐ6θ GIORNALE LIGUSTICO Eppure questi cenni sarebbero tornati assai più vantaggiosi di quei quattro fac-simili paleografici, i quali nel volumetto del Bruno costituiscono un puro lusso. Rispetto all 'Archivio Notarile è sommamente utile l’elenco alfabetico di quegli ottantotto notari, che va dal 1400 al 1776 e segg., e de’ quali il Bruno ci afferma che vennero fin qui riconosciuti i volumi e le filze. Il Municipio Savonese, così giustamente zelante delle glorie di una città non meno illustre che generosa, farebbe però un gran bene qualora sollecitasse la ricognizione di quanti altri notari tuttavia rimangono ignoti. 11 che diciamo specialmente, pensando che già fino dal 1868 Angelo Berto-lotto, secondo ci insegna la Gaietta ili Savona del 27 gennaio 1869, aveva da canto suo riconosciuti ottantaquattro notari ; sebbene il nome di lui vanamente si cerchi nella monografia di cui parliamo; e sebbene questa siasi giovata delle notizie dal medesimo raccolte per segnalare ai lettori alcuni fra i documenti notarili « a mo’ di saggio » (pag. 51-52)· Ora, se le carte non fallano, la conseguenza è questa: che in sedici anni si sarebbero riconosciuti altri quattro notari! ^ia: il festina lente non poteva essere applicato alla lettera più di così. * Gaspare Bosio. San tena e suoi dintorni. — Asti, Scuola Tipografica Michelerio, 1884. Di Santena era fin qui noto poco più di quanto ne avea raccolto 1 Casalis nel suo Dizionario geografico ; epperò il teologo prof. Bosio, spinto dall’amore del luogo nativo, ha fatto egregiamente a radunare questo volume di Notizie storiche, da lui attinte per grandissima pai te a alcuni archivi pubblici e privati. La citazione delle fonti, latta sempre con molta larghezza e diligenza, e i diplomi recati per disteso nc ap ^ pendice, sono chiara riprova del fine che 1 autore si è proposto , cioè « la verità ». — Le notizie dell’agro Santenese cominciano dal IV secolo dell’era cristiana; ma quelle del villaggio propriamente detto di Santena non vanno oltre per documenti al 1047, sebbene « si possa ferire che già esistesse verso la fine del secolo ottavo 1. Nel 1026 il viens qui vocatur Sanctena fu donato dal marchese o -rico Manfredi e da’ suoi consanguinei alla Chiesa di Tonno ; ma ne 1191 i canonici di questa lo vendettero ad alcuni nobi 1 1 ^ ua". ' i quali figura Guglielmo Benso, i cui discendenti di\isi nei rami tena e di Cavour', occorrono così spesso nella narrazione del Bosio, per una serie di XIV capitoli si conduce fino ai dì nostri. , ‘ Se il libro dovesse andare solamente fra le mani degl, eruditi, auto avrebbe fatto bene a sopprimere certe nozioni generali, per es. « queue sulla formazione delle marche, sulla costituzione dei feudi ecc. , » si può fargliene colpa, qualora si pensi che egli ha \o> uto 111 m ticolare destinarlo al popolo e renderne agevole a tutti inte iDe Pasquale Fazio Responsabile. giornale ligustico i 6 i GIUSTINA RENIER MICHIEL I. Non v’è persona mediocremente colta e un po’ informata delle cose venete nel secolo scorso, che non abbia presente lo scandalo del segretario Gratarol, cui è dedicata tanta parte delle Memorie inutili. Un vero garbuglio di amori, di ambizioni e di gelosie diede origine e contribuì allo svolgimento di questo episodio, che ebbe principio comico e fine tragica. Carlo Gozzi, innamorato della attrice Teodora Ricci, mette in caricatura nelle Droghe d’amore ( 1777) Pierantonio Gratarol, che della Ricci godeva i favori; il capocomico Sacelli , che amava egli pure la Ricci, ne trae partito per vendicarsi del rivale; Caterina Dolfin Tron, che odiava il Gratarol, soffia nel fuoco ed usa della sua influenza per farlo divampare (1). All’intrigo privato prendono partei magistrati pubblici, che spregiano i ricorsi del Gratarol e comandano che le Droghe, secondo il desiderio del pubblico, siano replicate. Il perseguitato segretario parte da Venezia, ed ecco che il consiglio dei dieci gli intima di presentarsi alle prigioni entro ventiquattro ore e lui latitante condanna nel capo (2). Tutto questo per un pettegolezzo di donne! (1) Cfr. Magrini, I tempi, la vita e gli scritti di Carlo Goni, Bene-vento 1883, pag. 110-129 e Masi> Lc fiabe ài C. Go\%i, I, clxxiii-cdrxx. (2) Cfr. E. Morpurgo, Marco Foscarini e Venezia nel sec. XV111, Firenze 1880, pag. 124-126. Giorn. Ligustico. Anno XII. IT i62 GIORNALE LIGUSTICO Nella parte che il magistrato della repubblica prese in questo scandalo si vede una mano d’uomo superiore , che maneggia i fili dietro le quinte: è la mano del n. h. Andrea Tron, el paron di Venezia. Amante prima, poi marito a Caterina Dolfìn, egli indulse questa volta al capriccio della moglie ed ebbe a pentirsene. Che forse, se quello scandalo del Gratarol non era, noi avremmo veduto, morto nel 1779 Alvise Mocenigo, succedergli nel dogato Andrea Tron, anziché il n. h. Polo Renier (1). Comunque sia di ciò , la elevazione al dogato del n. h. Renier segnò l’apogeo di quella famiglia, già illustre per ambasciatori e procuratori di S. Marco (2). È una caratteristica figura questa di Polo Renier, che meriterebbe ora una storia imparziale e diffusa, come meritò dai contemporanei elogi e commemorazioni (3). Il Tommaseo scrisse che « se fosse » vissuto fino al novantasette, forse Venezia non periva, o di » miglior morte periva » (4). E credo si apponga, chè per certo alla gloriosa repubblica nessuna sciagura potea succedere peggiore , che 1’ avere a capo in quei giorni difficili il debolissimo n. h. Ludovico Manin. Non già che il Renier potesse fare miracoli, rinsanguare un corpo esausto, ritem- ( ) È una idea espressa da E. Castelnuovo, Una dama veneziana del sec. XVIII, in N. Antologia, 15 giugno 1882 e confermata da quel competentissimo che è il Loehner , in Archivio veneto, vol. XXIV, p. 209 n. (2) Gaspare Gozzi, dedicando a Polo Renier II quadro di Cebete Tebano vulgarizjato, rammenta nominatamente alcune fra le glorie principali della famiglia. Vedi Opere di Gaspare Goz_%i, Padova 1818-20, vol. VI. p. 109-110. (3) Pietro Mocenigo, Elogio del doge P. Renier , Venezia 1788. — Em. de Avezedo , Oratio in funere serenissimi Principis P. Rainerii, Venezia 1789. Cfr. anche Moschini , Della letterat. vene\.nel sec. XVIII, Venezia 1806, vol. Ili, p. 31. (4) Storia civile nella letteraria, Torino 1872 , p. 251. GIORNALE LIGUSTICO 163 prare un popolo infiacchito e corrotto; ma egli almeno ebbe e mostrò tempra virile ed era senza alcun dubbio un ingegno superiore. Nel decennio del suo dogato (1779-1789) la Serenissima riebbe ancora qualche momento del suo antico vigore: indizio di ciò stanno, opera romanamente intrapresa e compiuta, i muraci. Il Renier aveva inteso il male dell’ antico governo e avea preso a curarlo. A ciò forse si deve quel suo voltafaccia, che indignò tanto alcuni contemporanei e non trovò indulgenza neppure nei posteri. Il Renier giovane appartenne a quel gruppo di patrizi liberali, che sotto il dogato di Francesco Loredan e di Marco Fo-scarini cercarono opporsi alla straordinaria potenza del consiglio dei dieci e degli inquisitori di stato. Di questa opposizione era l’anima il n. h. Angelo Querini, celebre non meno come mecenate degli studi e delle arti che come spirito largo e amante di libertà. Tra il Querini e il Renier si strinse un amicizia, che purtroppo non doveva durare, giacché il doge Renier del 1779 apostatò le idee propugnate dal senatore Renier nel 1761. Il doge era nemico dei Barna-botti, quanto il senatore ne era stato amico. Ripristinare P antica potenza delle famiglie nobili , richiamare il governo aristocratico alle sue tradizioni, rialzare il prestigio della Dominante fuori delle lagune, furono i concetti a cui si ispirò il governo del Renier. Forte della sua eloquenza che tutti vantano prodigiosa e di quel tatto politico che rese celebri i Veneziani più antichi, egli volle opporsi alle correnti sovversive, presago delk rovina che qualunque allentamento dei vecchi ordini di governo doveva recare alla gloriosa repubblica (1). (1) A questa apostasia del Renier si collegano le curiose e poco note vicende del suo busto. Nel 1776 il Querini pensò di far fare un busto dell’amico e lo commise al giovane Canova. Il busto fu.eseguito e meritò 164 GIORNALE LIGUSTICO Concediamo del resto che in Polo Renier Γ uomo politico fu di molto superiore al privato. Lasciando stare Γ accusa d’essersi arricchito durante il bailato di Costantinopoli (i), egli è certo che Γ ambizione del Renier lo condusse a presentarsi al broglio calando stola, e quel che è peggio ad aprirsi la via al dogato con la corruzione. Lo disse apertamente il Gradenigo contemporaneo: « Ha comperate le balle per 15 lode. In seguito, fatto doge il Renier e mutate le sue tendenze, il Querini , inasprito anche da nuove ragioni di inimicizia personale che s’erano sovrapposte , non volle più nel suo studio il busto canoviano. Ei lo confinò nelle sua villa d’Altichiaro, dietro l’altare delle Furie, esposto ad ogni genere di insulti e di brutture. Venduto quindi dagli eredi, malconcio e guasto nel passare di mano in mano , si perdette la memoria del-1’ uomo che rappresentava e dell’artista che lo àveva fatto. Giambattista Giraldon Bosio, che lo acquistava nel 1834, non sapeva chi rappresentasse quella effigie , e solo per caso venne a conoscerlo di poi, per avere un artista ottantenne riconosciuto in essa il busto del Renier che aveva ammirato in casa Querini. Così almeno pensa Petronio Maria Canali , nel suo opuscolo intitolato Storia aneddota del busto erma del doge Renier opera di Canova, Venezia 184c, e dietro a lui il Reumont , Die Buste Paolo Renier’s , in Beitrâge \ur italieniscben Geschichte , vol. II, Berlin 1853, p. 331 e seg. Se poi con questo busto canoviano sia realmente da identificarsi quello già posseduto dal sig. Niccolò Bottacin, come si sostiene nell’ opuscolo : Intorno alla scoperta d’un busto del doge Renier modellato da Antonio Canova ora proprietà del sig. Nicolò Bottacin di Trieste, cenni di B. T., Trieste 1864, io non oserei decidere. Questo busto comperato dal Bottacin passò con altri oggetti d’arte e di antichità nel Museo Civico di Padova, dove ho potuto vederlo. Il ch. prof. Gloria mi avverte che di esso ha discorso anche 1’ Urbani nel Bollettino d’arti industrie e curiosità veneziane del genn.-febb. 1878, ma io non potei procurarmi la conoscenza diretta di questa pubblicazione. (1) È lanciata senza sottintesi da Luigi Ballarmi, le cui lettere pienè di maldicenza, che vanno dal 1780 al 1789, si conservano in sei grossi volumi nel Museo Correr. Vedi Molmenti, Vecchie Storie, Venezia 1882, p. 198-200 e anche 214-17 e 247-48. GIORNALE LIGUSTICO » e più zecchini l’una; di queste se ne contano circa tre-» cento ». Nè vale la generosa, ma passionata difesa di Girolamo Dandolo, che esponendo il complicatissimo sistema elettorale dei dogi, nega la possibilità della corruzione e chiama una ciarla quella che corse sul conto del Renier (i). Il maggiore storico della repubblica ha messo le-cose al posto loro, ed ha mostrato come nell’ultimo secolo della Serenissima gli accorti fossero giunti ad eludere lo stesso guardingo e complicato sistema di votazione, che usavasi per la elezione del doge, e come, pur non ammettendo le cifre del Gradenigo, lo scolpare il Renier dalla taccia di corruzione sia cosa meglio impossibile che difficile (2). A Venezia era permesso il broglio , e dal broglio alla corruzione non v’ è che un sol passo: Roma ammaestra (3). Le annotazioni degli Inquisitori di Stato, recentemente messe in luce (4), confermano quanto il Romanin ha asserito; e il compianto Emilio Morpurgo ha fatto rilevare come lo stesso severo e dotto Marco Foscarini non repugnasse da queste arti (5). E che, osserva il Morpurgo giustamente, tali corruzioni, più che Γ opera dell’ iniziativa personale, fossero la conseguenza (x) La caduta della repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquantanni, Venezia 1855, p. 183-185. (2) Romanin, Storia documentata di Venezia, vol. Vili, Venezia 1859, p. 241 n. (3) Cfr. I. Gentile, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, Milano 1879, p. 228 e seg. (4) Dal Bazzoni nell’ Arcb. St. It., Serie III, voi 11. Si veda anche Loehner nell Arch. veneto, XXIV, 210-11. La cronaca ms. dell’abate Gen-nari (1739-1800), che si conserva nella biblioteca del Seminario diPadova, e dove si riferiscono fatti importanti e caratteristici intorno al Renier e al suo dogato , mi fu inaccessibile. (5) Marco Foscarini e Venezia nel sec. XVIII, p. 62-65. Cfr. p. 79-89 e p. 384-89. 166 GIORNALE LIGUSTICO del decadimento assoluto dello Stato, lo dimostra il non aver avuto il Foscarini nessun competitore, e l’essere stato il Renier indiscutibilmente il primo uomo di Stato veneto dei tempi suoi. Il Mutinelli, in un suo libro pieno di frasacce gonfie e stupefacenti, molto più simile certo a un romanzo à sensation che a una monografia storica, ha sostenuto, tra le molte accuse da lui lanciate contro il n. h. Renier, eh’ egli appartenesse alla setta dei Liberi Muratori. E anche a questo rispose il Dandolo sdegnosamente; ma non in modo , a me sembra, da soddisfare la critica spassionata. È questa dei massoni in Venezia nel secolo passato una intricata e difficile istoria , alla quale pur troppo mancano i documenti. Ciò è tanto più a deplorarsi, perchè forse da questi documenti trarrebbe luce grande e insperata quel fatto molto discusso, ma non ancora interamente chiarito, che è la caduta della repubblica. Riformatasi nei primi anni del secolo scorso la massoneria, riunitesi nel 1717 in una sola le quattro loggie di Londra, pubblicata nel 1723 The constitution of thè freemasons (1), non tardò la setta a diffondersi in tutta Europa e fuori. In Italia si contrastano il primato cronologico la loggia di Napoli, contro la quale sembra che già nel 1731 si pronunciasse Carlo III di Spagna, e quella fondata il Firenze dal duca di Middlessex nel 1733 (2). Le vicende della loggia fiorentina, cui era affigliato nel 1735 il Crudeli, che vi tenne carica di segretario, e il cui processo determinò la caduta dell’inquisizione in Toscana, hanno trovato il loro storico (3). La massoneria veneta, la (1) Findel, Histoire de la franc-maçonnerie, Paris 1866, vol. I, p. i5!> 161, 450. (2) Findel, Op. cit., vol. I, p. 425-31 ; F. Sbigoli , Tommaso Crudeli et primi framassoni in Firenze, Milano 1884 , p. 62 e seg. (3) Sbigoli, Op. cit., p. 105-296. GIORNALE LIGUSTICO 167 cui ingerenza fu di gran lunga superiore a quella della fiorentina, non Io ebbe peranco. « A Venise toutes les loges » avait été fermées en 1738, mais elles furent rouvertes » peu à peu en secret », dice il Findel (1); ma non si sa su quali documenti si appoggi. Il 1738 è la data della bolla lu eminenti di Clemente XII, che stigmatizza la massoneria (2), la quale doveva essere seguita pochi anni dopo da un’ altra bolla di Benedetto XIV. Le repressioni venete saranno state motivate dalla scomunica papale? Non è agevole il dirlo. Certo peraltro si è che la massoneria continuò poi sempre in Venezia, e che solo nel 1785 fu scoperta e chiusa la loggia di Rio Marin in contrada San Simeon grande (3). Ora, in questa oscurissima storia, non mi si dia dello sfacciato se io timidamente accenno a certi miei sospetti, che ho tentato invano di scacciare dalla mente. Le relazioni che si hanno del modo in che la loggia veneta fu scoperta variano fra di loro radicalmente. 11 Mutinelli dice che il n. h. Girolamo Zulian, affigliato, dimenticò in gondola alcune carte compromettenti, le quali dai gondolieri vennero consegnate all’ Inquisizione (4). Egli si attiene ad una relazione sincrona (1) Op. cit., I, 426. (2) Findel, Op. cit., I, 258. (3) Nel 1785 era doge Polo Renier. Della esistenza della massoneria in Venezia nel 1777 sono prova due lettere del nunzio pontificio Ranuz-zini al Segretario di Stato, che si conservano nell’Archivio Vaticano. Da queste due lettere si ricava come allora fosse capo della massoneria veneziana il Gratarol, ciò che forse in parte spiega le persecuzioni strane, di cui egli fu oggetto. Devesi questa notizia ad uno scrittore pseudonimo del Giornale degli eruditi e curiosi, il quale peraltro erroneamente ne dedusse (forse per essere il Gratarol segretario del Senato) che il governo veneto proteggesse in quel tempo la massoneria. Cfr. Giorn. cit., I, 530, 652-53, 709, 784 ; li, 12-13, 266. (4) Memorie storiche degli ultimi ciuquanl'anni della repubblica veneta, Venezia 1854, p. 20-22. i6S GIORNALE LIGUSTICO ras. che è nella raccolta Correr. Il Dandolo invece, riferendosi a un’ altra relazione contemporanea che è in due codici Cicogna , dice che la loggia di Rio Marin fu scoperta per la denuncia di un marangone, che vi portò certo suo armadio a muro (i). Il Romanin riferisce la relazione pure sincrona di Girolamo Ascanio Molin, nella quale non si parla nè di falegname, nè di gondolieri. Qui la loggia è scoperta direttamente dagli Inquisitori, che ne danno ad esaminare lo Statuto ad un teologo (2). Questa assoluta discordanza dei relatori contemporanei fa meraviglia. Si dà il caso che la scoperta della loggia avvenisse pochi giorni dopo quel memorando 25 aprile 1785 in cui fu appiccato il fuoco all’ Arsenale di Venezia, pericolo gravissimo quasi miracolosamente scongiurato. Tra i due fatti vi è relazione; ma come mai il Governo avrebbe subito posto la mano sulla loggia di Rio Marin? Non sembra che egli dovesse essere prevenuto di tut-tociò che si almanaccava e si complottava laggiù , sicché al primo entrare in azione di quei congiurati, ponesse fine alle loro congreghe? Non sembra che le diverse maniere con cui si narra lo scoprimento della loggia siano novelle sparse ad arte per deludere il pubblico e i massoni ? Non potrebbe darsi che il n. h. Renier, doge, già liberalissimo, già affigliato alla setta , profittasse allora, minacciata gravemente la repubblica, di quello che ei sapeva della loggia, per sopprimerla ? Ardito è certo questo colpo; ma non inverosimile. Abbiamo infatti tre liste di massoni veneti di quel tempo, una che il Mutinelli dice tratta àa\Y Archivio democratico, l’altra esistente nel museo Correr, la terza, credo sinora sfuggita, ri- (ij Nota sui liberi muratori veneziani, in appendice (con paginat, spec.) all’ Op. cit., p. 13-16. '2) St. do cum., Vili, 275-81. GIORNALE LIGUSTICO 169 cavata dagli Atti della polizia austriaca (1). Il Mulinelli corse troppo chiamando « pressoché uguali » le prime due (2); ma il Dandolo, a sua volta, si lasciò accecare dal preconcetto nel dirle « buone ad involger acciughe » (3). Giurare* sulla esattezza di queste liste non si può ; ma crederle inattendibili perciò solo che in parte discordano, non mi sembra buon consiglio. La discordanza può dipendere dall’ essere state compilate in tempi diversi, nè è detto che con esse i massoni intendessero dare 1’ elenco compiuto dei loro affigliati. Non vale poi, come fa il Dandolo, provare Y alibi di alcuni fra i massoni registrati (4), giacché l’assenza non include espulsione dalla loggia. Io so che fra i massoni trovo in due delle liste Angelo Querini, i cui sentimenti liberalissimi sono noti; so che vi trovo Giovanni Pindemonte , sospettato dagli inquisitori, caldo per le idee francesi, autore di uno scritto in cui difende sé stesso e le idee liberali contro gli oligarchi veneti (5); so che vi trovo i fratelli Memmo, Bernardo e Lorenzo, amici del noto massone Giacomo Casanova , da cui la povera madre loro li diceva traviati (6), e denunziati come piami e miscredenti dallo spione (1) Carte segrete e atti ufficiali della polizia austriaca in Italia dal 4 giugno 1S14 al 22 marzo 1848, Capolago-Torino 1851, p. 82. Debbo la conoscenza di questo libro alla buona amicizia del conte Carlo Cipolla. (2) Op. cit., p. 9-10. (3) Nota cit., p. 7-9. (4) Nota cit., p. 10-11. • (5) Giuseppe Biadego , Poesie e lettere di Giov. Pindemonte raccolte ed illustrate, Bologna 1883, p. xxxi-xxxiv, uv, lvi-lvii , 332-54. (6) D’Ancona, Un avventuriere del secolo XVIII, in N. Antologia, voi. LXIV, p. 435-36. Che la principale accusa per cui il Casanova fu arrestato fosse di massoneria, mi sembra, dopo il bello studio del D’Ancona, inoppugnabile. 170 GIORNALE LIGUSTICO Giambattista Manuzzi (1). Se dunque in due di queste liste che serbano i nomi di personaggi più ο meno compromessi nella fama pubblica, mi avviene di trovare Polo Renier, le cui idee sovversive nel primo periodo della sua vita sono già state rammentate, io non credo di ingannarmi giudicando che egli fosse ascritto alla massoneria, si facesse fors’ anco aiutare da essa nella sua elezione a doge, e poi la sconfessasse. Non per nulla il Pisani ed il Contarmi tramarono contro la vita del Renier e n’ ebbero 1’ uno la cattura, l'altro il confino a Cattaro di Dalmazia (2). V accorto vecchio sapeva guardarsi. Io mi guardo bene dal credere di aver espresso qui più che una ipotesi intorno alla oscura questione. Troppo cose avrei da dire su questo soggetto, che qui è toccato solo per incidenza. L’azione massonica negli ultimi anni della repubblica veneta doveva essere grande e continua: lo stesso organismo di quello stato , la stessa sua debolezza, in quei tempi, la eccitavano e la permettevano. È certo che i massoni non si radunavano secretamente per starsene tranquilli in compagnia, come voleva far credere, nella sua commedia, I liberi Muratori, Francesco Grisellini, vivace ingegno, (1) E. Mola, Giacomo Casanova e la repubblica di Venezia, in Rivista Europea, N. S., vol. XXIII, p. 8òi e 863. (2) Dandolo, Op. cit., p. 187-88. E chi ci diceche la massoneria non abbia potuto aver parte in quell’altro curioso fatto del finto Giuseppe Antonio Leoni (in realtà Domenico Somin), che nel 1790 si presentava all’ambasciatore veneto in Roma e gli svelava che trenta patrizi veneti, non essendo riuscito il tentativo di ardere l’arsenale, avevano prezzolati 500 sicari per ammazzare gli inquisitori di stato, i dieci del consiglio ed i senatori? Le lettere, su cui il denunziatore si appoggiava , furono riconosciute false , ed il Somin condannato ai Pozzi ; ma nessuno negherà che in tuttociò vi sia dello strano e del misterioso. Cfr. R. Fulin, Studi nell'archivio degli inquisitori di stato , Venezia 1868 , p. 63 e seg. GIORNALE LIGUSTICO I?! che dalle occupazioni agronomiche non discompagnava quelle di storico e di giornalista, e quasi contemporaneamente, ma forse in buona fede, il Goldoni nelle Donne curiose (1). Dico forse in buona fede, perchè , altri lo ha già osservato prima di me (2), i massoni erano riusciti a far ritenere da molti che le loro riunioni fossero pacifici ritrovi di gente desiderosa di compagnia , che in quel modo se la spassava « in lieti » ragionamenti e in deliziosi conviti », con espresso divieto di parlare di politica e di religione. È noto che il buon Muratori aveva appunto questo concetto della massoneria; ma è più curioso il trovarlo ancora espresso in un rapporto al Governo austriaco, compilato verso il 1820, nel quale si fa una specie di analisi retrospettiva, assai notevole, delle sette italiane e delle loro tendenze. « Chi ha conosciuto le losue » venete, dice il relatore, non ignora che esse erano pure. I » Massoni di quella parte d’Italia, la più parte Nobili, erano » persone colte, che avevano per iscopo il tollerantismo; e » che si univano insieme di quando in quando per gustare » i piaceri liberi, e non licenziosi, dell’amicizia, augurando » ai loro posteri di poter fare altrettanto senza il velo del » segreto........» (3). Ma noi davvero a tuttociò non possiamo prestar fede. Noi riteniamo cosa indubitata che nei fatti politici del secolo passato, e specialmente in quelli veneti, la massoneria avesse parte cospicua. Se non che la assidua cura con cui i Massoni celarono e distrussero tutti i loro documenti, non ci permette di porre in chiaro dei fatti positivi. Il Casanova, mirabile nel ricordare i più (1) Cfr. Memorie del Goldoni II, 16 e Neri , Aneddoti Goldoniani, Ancona 1883 , p. 67-77. (2) D’Ancona, Op. cit., in N. Antologia, LX1V, 433-35. (3) Vedi Zahn , Steierinàrkisclie Geschichtsblàtter, ann. V, 1884, p. 235. Il docum. è tratto dall’ archivio provinciale di Graz. I?2 GIORNALE LIGUSTICO minuti particolari dii fatti, si dimentica del suo processo. E processo veramente vi fu, e regolare; ma è sparito (i). Nel dicembre del 1789 un altro avventuriere, Giuseppe Balsamo, fondatore del rito egiziano e ciurmatore emerito, viene arrestato in Roma (2). Gli si fa il processo, ma anche questo processo sparisce, e noi ora dobbiamo accontentarci degli estratti e del Compendio stampato nel 1791 (3). « Una particolarità, che tengo da canale rispettabile e veri-» dico, si è che nella notte stessa, in cui fu arrestato Ca-» gliostro, il sig. Balio di Loras non fece altro che abbruciar » carte per ore continue », scrive Damiano Priocca, ambasciatore sardo in Roma (4). Il popolo veneziano frattanto, mentre così grandi fatti si maturavano nelle tenebre, continuava nella sua vita spensierata, continuava nelle sue gazzarre carnevalesche, non curante del domani. Con Polo Renier gli moriva l’ultimo, quantunque tutt’ altro che incolpabile, de’ suoi grandi uomini di stato, e di questa morte nessuno si accorgeva. Essendo accaduta di carnevale, i funerali si fecero segretamente, per non funestare le gioie della stagione , e solo il primo lunedi di quaresima fu annunciato ufficialmente che il Serenissimo era morto (5). (1) Fulin, Giacomo Casanova e gli inquisitori di stato, in Atti del R. Istituto veneto-, Serie V, vol. I, p. 552. (2) Ademollo, Cagliostro e i liberi muratori, in N. Antologia, 15 apr. 1881 , p. 623-25. Cfr. anche Civiltà Cattolica, Serie X, vol.III, p. 225-35 e Biadego , Carteggio inedito d’una gentildonna Veronese, Verona 1884, p. 39-42. (3) Ademollo, Di nuovo intorno al Cagliostro, in Rassegna settimanale, VII , 301 e seg. (4) Perrero , Del Cagliostro e dei liberi muratori in Roma secondo i documenti diplomatici sardi , in Curiosità e ricerche di st. subalpina, punt. XVIII, p. 235 {;) Romanin, Op. cit.. Vili, 301. - GIORNALE LIGUSTICO *73 II. Il doge Renier ebbe due mogli, la prima patrizia, Giustina Dona, la seconda ballerina , Margherita Dalmaz , la quale prima del matrimonio gli diede un figlio, che non portò mai il nome di famiglia (i). Di questa vita intima parecchio irregolare la famiglia del doge non dovette certo rallegrarsi; tuttavia non sembra che forti scissure vi fossero mai. Quando Polo Renier fu eletto doge, la nipote sua Giustina aveva 24 anni (era nata il 15 ottobre 1755), e da due anni era reduce a Venezia dal soggiorno di Roma, ove si era recata col marito Marcantonio Michiel e col padre Andrea Renier, ambasciatore veneto presso il Vaticano. Ella quindi potè assistere alle sontuosissime feste di cui il nuovo eletto fu largo al popolo veneziano, ghiottissimo di questi spettacoli, specie nel periodo del decadimento (2). E certo la gentildonna, nell’ a-pogeo di gloria cui era giunta la sua famiglia, ebbe occasione di sfoggiare quella sua bellezza invidiata, per cui a Roma chiamavanla la venerimi veneziana, e molto più le doti eminenti del suo spirito colto ed arguto. Giustina Renier Michiel è una figura di dama molto caratteristica, e disforme in tutto e per tutto da quelle gentildonne del tempo suo, che il Carducci ebbe recentemente a domandarsi se vivessero « oltre la vita imbellettata di pupattole da » sala ed oltre le pose scultorie 0 poetiche o procaci di » modelle » (3). Nessuna posa in Giustina. Isabella Albrizzi, (1) Vedi su questa donna Molmenti, La dogaressa di Venezia, Torino 1884 , p. 367-75. (2) Cfr. Galanti, Carlo Goldoni e Venezia nel sec. XV111, Padova 1882, p. 337-38 e 562-63. (3) Un rilratto femminile. Maria Teresa Serego Alighieri contessa Gona-dini in N. Antologia, 15 marzo 1884, p. 199. *74 GIORNALI· LIGUSTICO che le fu amicissima , senza dubbio per la disparità grande che v’era fra i caratteri di quelle due dame (i), e ne scrisse nel 1833 un affettuoso ritratto, dice che « orgoglio di nes-» suna fatta allignò in lei giammai: non per aver sortito i » natali in mezzo ad ogni repubblicana grandezza ; non per » vedersi da una famiglia, splendida al pari per onori e do-» vizie, accolta sposa desiderata;... non finalmente per aver » ottenuto una gloria d’ ogni altra più bella , giacché tutta » sua propria , quella d’ esser salita in fama come cultrice » delle lettere » (2). La semplicità, la naturalezza ella amava sovra osmi cosa, nel vestire e nel conversare. Vanno famose O ? di lei due frasi caratteristiche : « Γ abito della mia corte é » una veste da camera », e « mi sono sempre trovata meglio » ove più ci si avvicinava alla natura e alla semplicità » (3). Odiava i fronzoli, le gale, le pompe, di cui erano così vaghi i suoi contemporanei : e quando alcuna volta le conveniva abbigliarsi riccamente, non le pareva vero di tornare alla consueta semplicità della sua vesticciuola, di correre a sma-* (1) Il Malamani ( Isabella Teotochi Albrixji, i suoi amici, il suo tempo, Torino 1883 , p. 149) osserva giustamente : « Giustina Renier Michiel » fu l’ultima dama veneziana, Isabella Teotochi Albrizzi fu la prima dama » moderna». E infatti col titolo appunto L’ultima dama veneziana il Malamani ha dettato una monografia su Giustina, ricca di fatti nuovi e di buone osservazioni. La gentilezza dell’autore e dell’editore Morelli mi permise di leggere nel manoscritto questa memoria, che vedrà fra non molto la luce. Io ne rendo qui ad entrambi le più sentite grazie. (2) Il ritratto che la Albrizzi fece di Giustina, apparso nella strenna del Vallardi, come è noto, vide anche la luce nella Antologia, vol. XLVIII, P. III , p. 40-43. (3) L. Carrer in Tipaldo, Biografia, II, 359-60. Il Carrer inseri poi {1838) nell 'Anello di sette gemme un lungo discorso Di Giustina Renier Michiel e dei Veneziani-, ma le notizie positive sulla gentildonna sono rimaste presso a poco le stesse che nel breve cenno pubblicato dal Tipaldo. GIORNALE LIGUSTICO !75 scherarsi, com’ella soleva dire. Ciò che si dice della persona, può ripetersi dello spirito. Le lustre della vanità femminile, i raffinamenti della ipocrisia non erano fatti per lei, che agli amici palesi ed agli avversari celati prodigava ugualmente i tesori della sua sincerità e le gentilezze dell’ animo elevatissimo. Cosa mirabile sempre ed eccezionale in donna letterata; più mirabile e più eccezionale allora , in mezzo a tutto quel falso e quel convenzionale che aveva in sè la società incipriata. Vivacissima, si mostrò sempre nemica spietata della noia, che chiamava pessimo dei mali, preferendo ad essa il dolore (i). Donnescamente gentile, amò passionatamente i fiori e i bambini (2). Questa sua passione pei fiori doveva essere vincolo nuovo tra 1’ animo suo e quello del più tenero fra i suoi amici, Melchior Cesarotti, che come tutti sanno dei fiori e delle piante era entusiasta, fino a crearsi , com’ egli di-ceva (3), un vero poema vegetabile nella sua villa di Selva-giano (4). Se non che non sembra che la Michiel giungesse all’ esagerazione dell’ amico suo , il quale odiava la botanica, perchè facea strazio de’ fiori a fine di notomizzarli (5). La nostra gentildonna, non solo ritraeva i fiori con la penna e con la matita, non sole li coltivava di sua mano con cura amorosa ed esperta, ma amava anche studiarli scientificamente. (1) Tipaldo, Op. cit., II, 360. (2) Rilevanti documenti di ciò si troveranno nella menzionata memoria, tuttora inedita, del Malamani. (3) Epistolario di M. Cesarotti, Pisa 1811-15, vo1· VI , p. 336. (4) È a notarsi che Bernardino Renier, di cui avrò a parlare in seguito, cedeva al Cesarotti una sua bellissima sensitiva arborea, che il professore di Padova, riconoscentissimo, trapiantò nel suo giardino chiamandola Raineria. Clr. Epist. cit., V, 99-100. (5) Clr. il proemio alle Cento lettere inedite di Melchior Cesarotti a Giustina Renier Michiel, pubbl. da V. Malamani, Ancona 18S5, p. LXXI. GIORNALE LIGUSTICO Tra le sue opere inedite v’ è un discorso sul modo di studiare la botanica (i) e ciò che è più notevole ancora, seni ora le balenasse Γ idea di insegnare botanica pubblicamente (2)· Un altro particolare, che distingue la Michiel da molte dame ragguardevoli del tempo suo, è Γ amore grandissimo eh’ essa ebbe per la sua famiglia. Quali precisamente fossero le sue relazioni col n. h. Michiel, suo marito, a me non è dato il precisarlo. Il non vederne peraltro fatto cenno quasi mai nelle sue lettere , nè in quelle de’ suoi corrispondenti (3)5 darebbe a sospettare che fra di loro vi fosse qualche freddezza. Tuttavia la Michiel si guardò bene da quei divorzi, che erano nè più nè meno che adulteri mascherati, di cui abbiamo tanti esempi tra le dame celebri veneziane : basti citare Caterina Corner, che annullato il suo matrimonio col (1) Tipaldo, Op. cit., II, 363. (2) Lo si rileva da due lettere del ricchissimo carteggio inedito di I-Pindemonte col Bettinelli. Cfr. Luzio , Lettere inedite di Giustina Renier Michiel all’ab. Saverio Bettinelli, Ancona 1884, p. 22 11. (3) Fa eccezione il Cesarotti , in una lettera del 30 die. 1804 j della quale peraltro non mi riesce di afferrare pienamente le allusioni. « Intesi » la buona fortuna di vostro marito. Questo è il caso che si verifica il » detto : Habenti dabitur. Io che crederei che dovesse essere tutto Γ op-» posto, amerei di potermi congratulare piuttosto con voi che con lui. Il » modo con cui vi siete contenuta col marito meriterebbe veramente la » mia lode, se fosse certo che le parole del marito meritassero ira, come » voi mostrate di credere. Ma per giudicare così, converrebbe saper con » precisione il senso nel quale fur dette, il che deve rilevarsi, non dalle » sole parole, ma dal modo di dirle, e dal complesso delle cose prece- * denti, e tuttociò fa supporre che chi pronunziò quelle parole intendesse » di eccitar piuttosto compassione che ira. Non potendo giudicar con » sicurezza della cosa, non posso che contenermi con voi come voi » faceste col marito, senza darvi nè lode nè biasimo ». Cento lett. ined. di M. C., p. 90. GIORNALE LIGUSTICO 177 Montecuccoli divenne l’amica del n. h. Pietro Pesaro (i); Caterina Dolfin, che fa sciogliere il suo matrimonio con Marcantonio Tiepolo per essere prima amante e poi sposa ad Andrea Tron (2); Isabella Teotochi, che si svincola dal primo marito n. h. Marin per andar moglie a Giuseppe Albrizzi (3). Nonostante i rilassati costumi del secolo, questi fatti non potevano a meno di gittare una triste luce sulla reputazione di una dama, e Giustina Renier , qualunque possano essere state le sue relazioni col marito, non ne volle mai sapere. Ella d’ altronde avea avuto da quel matrimonio dei frutti soavissimi, che le empivano di tenerezza l’animo materno, le sue due figliuole. Le amava ardentemente, ne discorreva con tutti, si rassegnava a lasciare, talora più volte in un anno, la sua diletta Venezia e le sue care abitudini per recarsi a visitare Cecilia, maritata Martinengo a Brescia. In una di queste escursioni, ella scriveva lietissima al suo vecchio Bettinelli (31 luglio 1808) di trovarsi felice « coll’esercitare » le tenere funzioni e di madre e di nona. Fin qui altro non feci » che baciare e ribaciare dolcissimamente ; mi sono però im-» posta un po’ più di moderazione, e dimani incomincierò un » po’ di sistema di vita » (4). E un mese più tardi: « Io fin » qui non son nonna che di un bambino di due anni : ora » ho lusinga che lo sarò pure di una Giustinetta, ma ci » vuol tempo ancora, e questo è quasi un secreto, cioè è il » secreto della decenza ; così ha pensato la madre, così pensa (1) Cfr. Molmenti , La storia di Venezia nella vita privata, Torino 1880, p. 382-92. Vedi p. 397-98. (2) Castelnuovo , Op. cit., in N. Antologia, giugno 1882, p. 625 e seguenti. (3) Malamani, Isabella T.A., p. 6, 26, 27, 28, 31-32. Cfr. il giornale veronese La Ronda, an. II, n.> 2 e 9. (4) Luzio, Op. cit., p. 20. Giork. Ligustico Anno XII. r9 GIORNALE LIGUSTICO » la figlia » (i). Di espressioni simili, che mostrano tutta la piena affettuosa di quell’anima gentilissima, ve ne sarebbero da spigolare molte, se per disgrazia le lettere finora note della Giustina non fossero troppo inferiori pel numero al desiderio degli studiosi (2). Un’ altra persóna v’ era in casa Martinengo da Barco che attirava tutte le amorose sollecitudini della buona Giustina, il vecchio zio conte Giovanni. « Generosità, umanità, pietà, » indulgenza sono le principali doti che lo distinguono (scri-» veva ella al Bettinelli); ed il di lui cuore impastato di te-» nerezza lo rende tuttavia soggetto, benché nonagenario, a » qualche dolce tentazione ; nè fia delitto, mentre forse que-» ste contribuiscono a renderlo ancor più amabile. Egli è » fratello del padre del marito di mia figlia; ha 87 anni » circa, magro, alto, bella ciera, politissimo di persona, ci- ti) Ibid., p. 30. (2) Dei due più importanti carteggi di Giustina , quello col Bettinelli e quello col Cesarotti, noi abbiamo solo notizie incompiute, perchè mancano le lettere della Michiel. Per uno scrupolo un po’ curioso , ii novantenne Bettinelli restituì alla Michiel le sue lettere , che dovevano passare il centinaio, sicché quattordici solo ne rimasero nel carteggio bet-tinelliano di Mantova. Il Cesarotti, morendo, ordinò che fossero bruciate le lettere della Renier a lui dirette, e l'ordine suo fu eseguito, quantunque di questa eccessiva cautela si ignori il vero motivo. Le lettere note della Renier si riducono quindi a quelle depositate dal Busetto nel Museo Correr e utilizzate dal Malamani, e a quelle sparsamente pubblicate in opuscoli per lo più nuziali. L’on. Lioy nel Fanfulla della domenica (24 giugno 1883) accennò ad una serie di lettere di Giustina al dr. Rubini; ma di ciò io non potei avere notizie più particolari. È certo che i maggiori depositi devono essere ancora l’archivio della famiglia Zannini e quello dei Martinengo da Barco di Brescia : ma per quanto so dal Malamani, che gli ha tentati ambedue, essi sono inaccessibili. Buona parte dei documenti dell’ archivio Martinengo da Barco mi si dice essere passata in quello del sig. Dona delle Rose in Venezia. giornale ligustico 179 » vilissimo di modi.....Io non finirei mai di parlarvi » di lui perchè proprio l’amo tenerissimamente » (1). Siccome il buon vecchio avea conosciuto un tempo il Bettinelli, 1 eccellente Giustina pregava l’amico suo di inserirle nelle sue lettere due righette a suo riguardo, che gli avrebbero fatto molto piacere. E infatti il Bettinelli accondiscese a questo gentile desiderio, perchè in una delle lettere successive di Giustina leggiamo : « Prima di tutto infinitamente vi ringrazio » del commoventissimo paragrafo riguardante l’angelico Conte » Giovanni: egli ebbe le lagrime agli occhi dalla compia-» cenza, e mi commette dirvi le mille e mille cose » (2). Figli maschi la Michiel non ne ebbe, onde concentrò 1 amor suo in Vincenzo Busetto, verso cui usò sempre cure materne, e che si prese in casa nel 1810 (3). Di Vincenzo (1) Luzio, Op. cit., p. 23. (2) Ibicl., p. 25. (3) La coscrizione toccata al Busetto costò molti pensieri alla gentildonna, come si rileva da una lettera del 1821 che pubblicherà il Malamani , la quale è da collegarsi con la seguente del Pindemonte : Verona, 3 aprile :8ig. Non posso dirvi con quanto dispiacere io abbia sentito la situazione triste e inquietante in cui vi trovate. Credo anch’ io che il vostro Vincenzo non partirà da Venezia , ma ciò vi costerà un sacrifizio non piccolo. Si suol dire, che convien scegliere il male minore, e questo appunto si è il caso; caso che pur troppo si verifica spesso, giacché spesse volte altro non ci resta nelle nostre risoluzioni, che la scelta de’ mali. Anche qui la coscrizione toglie il riposo a molti, ed a molte. Fortunatamente per me non si trova tra queste persone alcuna di quelle, che più mi interessano, Par dunque che fosse destinato, che la mia afflizione per tal motivo non dovesse in Verona nascermi, ma venire a me da Venezia. Non vi parlo d’altro, pregiatissima amica, perchè d’altro non mi pare dover parlarvi. E però aggiungo solamente, ch’io sono, e con tutto l’animo il vostro Pindemonte. Di questa, e delle altre lettere inedite di Ippolito a Giustina, che si ΐδο GIORNALE LIGUSTICO è spesso parola nelle lettere che gli amici le dirigono. Come pure in esse e in quelle di Giustina trovasi rammentato frequenti volte Antonio Renier, fratello della Michiel, al quale la legava somiglianza d’indole e di gusti. « Una visita di » altra spezie ed a me altamente cara (le scrive il Cesa-» rotti) fu quella di vostro fratello Antonio. Egli è vostro » degno fratello; ha per voi l’affetto il più tenero; vi so-» miglia nello spirito e nel cuore. Quanti motivi d’ amarlo ! » Prescindendo anche da ciò, trovo in lui, oltre le qualita » amabili, anche le solide e le più degne di stima: aggiu-» statezza d’idee, finezza di criterio, discrezione, moderazione » e prudenza. La cara Giustina fu 1’ unico soggetto del no-» stro colloquio » (i). E altrove: « Giustina e Tonin sono » uno spirito con due sessi che si confondono..... Egli e una » miniera inesausta di filosofia, d’ ingegno, e di grazie » (2). E ancora: « Che dirò del nostro Tonin? Io non posso 110-» minarlo senza entusiasmo; e il mio entusiasmo non ha » vocabolario che basti ad esprimere quel misto d ammira-» zione e d’ affetto, che mi .^destano le sue adorabili qualita. » La mia famiglia è inondata per lui della più grande delle » gratitudini : egli è il Napoleone de’ nostri cuori » (3)· * ^ mio buon Tonin », lo chiama sempre la affettuosa sorella (4), che da lui si fa accompagnare , a lui legge i suoi lavori e le lettere degli amici. Antonio Renier avea sposato la nobil-donna Cecilia Cornaro, da cui nacque nel 1801 Adriana. conservano nella Bibl. Comunale di Verona , mi comunicò copia il siD Pietro Sgulmero , alla cui cortesia io mi professo obbligato. Egli mi partecipò anche quelle del Museo Correr, delle quali a\evo gui notizia per altra via. (1) Cento lettere , p. 70. (2) Cento lettere, p. 125. (3) Cento lettere , p. 134. (4) Luzio, Op. cit., p. 11 e 17. GIORNALE LIGUSTICO 18 r L’ affetto che Giustina sentiva pel babbo, ella lo divise d’allora in poi con la figliuola, che cresceva pronta d’ ingegno , e inclinata in singoiar modo alla poesia. Quando Adriana, guarita da malattia quasi disperata per le cure del dott. Paolo Zannini, volle giurarsegli sposa, la buona zia Giustina mise in opera tutta la sua influenza acciò il voto del suo cuore venisse appagato (i). E Adriana Renier Zannini, l’amica del Carrer, del Mustoxidi, di Benassù Montanari , la collaboratrice del volume Api e vespe (2), le serbò sempre gratitudine e affetto, frequentando i suoi convegni, soccorrendo ai bisogni della sua vecchiaia, rammentandola morta con versi soavissimi (3). La semplicità delle abitudini e la affettuosità del cuore andavano unite in Giustina con un forte carattere ed un sentimento elevato della propria dignità. La sua vita è piena di aneddoti che lo provano, e chi leggerà la buona memoria del Malamani potrà facilmente capacitarsene (4). La nobiltà del sangue ella sentiva nella forma migliore, come stimolo a non commettere mai delle bassezze. Tutte le sue azioni sono improntate a questo sentimento di nobile alterezza, che tanto si distingue dalla boria volgare. E io credo che parte non piccola avesse questo sentimento in quell’ amor patrio sviscerato, che è la più bella caratteristica dell’ animo suo. (1) Lo dice il λ eludo , frequentatore delle conversazioni di casa Zannini, nell'Archivio Veneto, vol. XII, p. 220-21. (2) Le Api e vespe uscirono la prima volta nel 1847. L’Ongania ristampò nel 1882 questo volume, e il valente Biadego ne discorse (Da libri e manoscritti, Verona 1883, p. 167 e seg.). I versi di Adriana sono firmati con la lettera N. Gir. P. Ferrato , Della vita e degli scritti di Adriana Zannini, Mantova 1876. (3) Malamani, Isabella T. A., p. 134-35. (4) Vedi anche Luzio, Op. cit., p. 12 e 13. i82 GIORNALE LIGUSTICO Quando Giustina disse al Bettinelli « prima di tutto io » sono venezianissima » (i), non poteva esprimer meglio quel che realmente ella fu. Ed ella ebbe pur troppo a vivere in tempi tristissimi per la sua Venezia, ed a dar prova parecchie volte della energia del suo carattere. Tutti quelli che hanno letto quel malinconico libro che sono le Confessioni d’ un ottuagenario di Ippolito Nievo, rammentano la vivace pittura che vi si fa degli ultimi giorni della repubblica. Sciolto il maggior consiglio, cadute le antiche tradizioni di governo, la municipalità fiacca, vi fu nel maggio del 1797 una terribile giornata in cui la gloriosa regina dei mari era in mano di poche centinaia di facinorosi. Ordini precisi mancavano, mancava una autorità salda e forte, che valesse a reprimere quella vigliacca sommossa. Fu Bernardino Renier (e in questa deliberazione la nostra Giustina non sembra estranea), che scongiurò quel pericolo , puntando i cannoni sul ponte di Rialto (2). Seguirono le orgie democratiche , Γ albero della libertà piantato in piazza San Marco, la festa allegorica, che finì in un miserando ludibrio (3). Ai primi albori del sole democratico Giustina credette: ella semplice e buona non temeva il reggimento popolare, poiché vedeva dissanguata e inetta al governo la nobiltà. Ma ben presto si accorse qual piega prendevan le cose e dove miravano i disegni oscuri (1) Luzio, Op. cit., p. 11. (2) Franchetti, Storia d’Italia dopo il 1789, p. 256. Cfr. Molmenti, Vecchie Storie, p. 323. Dopo la caduta della democrazia, Bernardino Renier si ritrasse in Toscana e quindi a Parigi, ove visse quindici anni. Era amantissimo delle arti, e si occupò pure di matematica e di filosofia della storia. Morì in Padova il 2 settembre 1831. Vedi Antologia , vol. XLIII, P. III, p. 154-58· (3; Per questi fatti , oltre gli storici, è da vedere la Gaietta urbana veneta del 7 e del 10 giugno 1797. Cfr. Archivio veneto , 11,47». Curiosi documenti pubblicherà il Malamani. GIORNALE LIGUSTICO 183 del Bonaparte*. « Nous 11e voulons pas être à l’Empereur , gridava elle allora, scrivendo a un amico, nous voulons » être libres, mais si les choses ne changent pas il va nous » engloutir » (1). E poco appresso, a chi le rinfacciava d’ esser ridivenuta aristocratica, rispondeva : « Fui partigiana » delle opinioni democratiche fino a che credetti che la lor » base fosse la virtù, la distruzione dei pregiudizi, il miglior » essere dei più, ma poscia ben m’avvidi ch’era ben altra » cosa, anzi affatto contraria, e mi convenne lasciarle..... Fui » però più tenace degli altri nelle mie opinioni, giacché non » bastò a me il soqquadro in cui fu posto il mio paese, non » mi bastò che fosse squarciato il velo della opinion politica » del Governo, scemate le proprietà, spogliati gli altari, com-» piomessa la liberta individuale: chè volli attribuire questi » misfatti ad alcune immorali persone, e giammai alla fai— » sita del principio democratico. Ma quando, dopo dieci anni » che la Francia soffre, dopo i sacrifizi che ha fatti e il » sangue sparso per ottenere la libertà, la veggo ora avvi-» lita ed oppressa da un uomo, che non è neppure francese, » che è privo d ogni virtù morale, che è dominato dall’ am-» bizione, e che per accrescere la gloria propria farebbe ver-» sare torrenti di sangue, che cosa più mi resta a spe-» rare? » (2). L’uomo fatale venne a Venezia nel 1807, d°P° la pace di Presburgo. Gli si fecero molte feste: il podestà Daniele Renier, con seguito cospicuo, andò ad incontrarlo e Napoleone fu trasportato per la laguna in un bizzarro legno fabbricato per quella occasione. Allora Giustina non lo vide : forse non volle vederlo. Ma P anno dopo, quando tornò a Venezia, la prese vaghezza di avvicinarlo, e gli si fece presentare. Ella (1) Museo Correr. Raccolta Busetto. (2) Dalla mera, inedita del Malamani più volte citata. 184 GIORNALE LIGUSTICO si rammentò allora più che in qualunque momento di qual patria e di qual sangue fosse. L’incontro fu bizzarro, ed ella stessa lo narrò al Bettinelli. In che siete voi famosa?, le chiese Napoleone. — Io famosa? — Sì; ma in che siete famosa ? — Nell’ amicizia. — E che cosa avete scritto ? — Varie piccole cose che non meritano di parlarne. — In verso ο in prosa ? — In prosa, Maestà, perchè non sono stata mai capace di scrivere un verso. — Ah ! voi siete improvvisatrice, voi siete improvvisatrice. — Vorrei esserlo in sì bella occasione di farmi onore. — E che cosa avete dunque scritto? — Varie piccolissime cose: alcune traduzioni. — Traduzioni? e di che ? — Di alcune tragedie. — Racine, m’immagino. — Perdono, Maestà, dall’inglese. — Il Bonaparte le voltò le spalle e partì (1). Si imaginino le allegre risate che la venezianissima avrà fatte con gli amici del suo crocchio, per questo dialogo agrodolce col più grande uomo del secolo. III. Tutti gli scritti principali della Michiel hanno per iscopo la glorificazione di Venezia. Nel 1806 il visconte di Chateaubriand passava per Venezia, e poco appresso datava da Trieste una lettera al Mercurio di Francia, in cui esponeva in poche righe impertinenti la impressione che gli avea lasciata la città delle lagune: « C’est une ville contre nature, on n’y peut faire un pas » sans être obligé de s’embarquer, ou bien on est re- (1) Lettere inedite delia n. d. Giustina Rer.ier e dell’ al·. S. Bettinelli, Venezia 1857, lett· *· cfr· Isabella T. A., p. 132-33. giornale ligustico . ,8s » duits à tourner d’étroits passages, plus semblables à des » corridors qu’à des rues. La place de Saint Marc seule, par » son ensemble plutôt que par la beauté de ses bâtiments, » peut être remarquable et digne de sa renommée. L’ archi-» tecture de Venise, presque toute de Palladio, est trop ca-» pricieuse et trop variée; ce sont deux ou trois palais bâtis » les uns sur les autres. Et ses fameuses gondoles , toutes » noires, semblent des bateaux qui portent des cercueils; j’ai » pris la première que j’ai vu pour un mort qu’on allait en-» tener. Son ciel n’est pas notre ciel au déça des Apenins. » Rome et Naples, mon cher ami, et un peu de Florence, » voilà toute 1 Italie. Il y a cependant quelque chose de re-» maïquable à Venise, c’est la multiplicité des isles mari-» times et sur les ecueils près de la ville, de la même ma-» nière que les autres villes maritimes sont entourées des » forteresses qui les defendent ». Di questo giudizio, nel quale non si sa veramente se sia maggiore la leggerezza o la ignoranza, fu giustamente offesa la venezianissima, che rispondeva al visconte in una lettera francese, pubblicata prima nel Giornale dei letterati di Pisa e poi ristampata in opuscolo. Questa lettera e un modello di polemica arguta : io credo non si possa più pulitamente e insieme più efficacemente mostrare ad un uomo che egli ha parlato senza sapere quello clic si dicesse. Le contraddizioni, le inesattezze, le melensaggini contenute nelle poche righe del fantastico visconte sono tutte rilevate e confutate; nè mancano delle frasi vibrate, che rivelano tutta 1 alterezza della onesta gentildonna, come le seguenti : « V enise est notre ouvrage : chacune de nos rues » est un tiophée de notre hardiesse », e « non, ce n’est pas » contre nature, Monsieur, c’est au dessus de la nature que » Venise s’est élevée ». Com’era da aspettarsi, la lettera di Giustina piacque molto, non solo ai Veneziani, ma a tutti gli Italiani colti. Il Cesarotti, nonostante il suo entusiasmo pel 186 « GIORNALE LIGUSTICO Chateaubriand (i), ardeva di vederla stampata (2); Giovanni Piazza e il Bettinelli la tradussero in italiano; la marchesa Orintia Sacrati toglieva ad imitarla, rincarando la dose in una sua lettera a Floriano Caldani, che venne resa di pubblica ragione (3). Questa lettera è ben lungi dall’ uguagliare l’arguzia aristocratica di quella di Giustina: è una risposta più lunga, più ragionata forse, certo molto più viva, ma meno cavalleresca. La marchesa Sacrati aggredisce direttamente il Chateaubriand con la invettiva e col sarcasmo. Essa chiama « eruttazione del suo spirito » le frasi da lui scritte; dice che egli non trovò Venezia ammirabile, perchè Venezia non seppe ammirar lui, e che egli « ha preso una strada tutta » nuova per farsi ammirare », giacché « l’Italia essendo stata » encomiata da tanti uomini illustri e non sapendo cosa » dirsi di nuovo, nè volendo egli confondersi cogli altri nel-» l’impressione che ne ha risentita, ha scelto per novità 1 as-» surdo di disprezzarla, novità a un dipresso come il suo » genio del Cristianesimo ». Scusate se è poco! Anche più tardi, negli ultimi anni della sua vita, la nostra gentildonna ebbe ad affilare la penna contro un detrattore di Venezia: questa volta non uno straniero, ma un italiano illustre. Nel 1827 il Niccolini ripeteva nel suo Antonio Foscarini le antiche accuse contro gli inquisitori di Stato veneziani. Giustina si fece l’interprete dello sdegno ragionevole de’ suoi concittadini scrivendo una lettera apologetica, che per mezzo del Cicognara veniva spedita al Vieusseux. Questa lettera indignò il Capponi e il Niccolini, il quale ultimo ne scriveva con violenza pari all’ ingiustizia della causa. (1) Cento lettere, p. 131. (2) Cento lettere , p. 143. (3) La si troverà riprodotta intera in appendice alla memoria del Malamani sulla Michiel. giornale ligustico 187 « La Michieli, vecchia letterata settuagenaria..... ha mandato » qui un libello manoscritto, nel quale attacca l’opera e Γau- » toi e, mi chiama reo di lesa nazione e ha sollevato i vene- » ziani contro me: prende fra 1’altre cose la difesa degl’In- » quisitori. Il conte Cicognara, che non ho offeso, è stato » il mezzano di questa ribalderia : giacobino nel novantotto, » ambasciatore a I orino per i sbalzare dal trono il re, come » risulta dal Botta, parteggia per Γ Inquisizione. Pazienza ! » Ma il Capponi, al quale ha mandato questa contumelia , » gli ha risposto per le rime » (1). L’egregio Malamani osserva a ragione: « un gentiluomo non avrebbe trattato in » modo così volgare una signora, che si levava in difesa della » sua patria ». Dopo il poeta, 1 artista. In un quadro di Giovanni De Min rappresentante l’eccidio degli Ezzelini, la Michiel credette \ edere un insulto contro Venezia, onde gli scrisse una lettera molto vivace, che girò lungo tempo manoscritta. Questa volta peraltro aveva torto e glielo provò Giambattista Cucchi, con più sano concetto dell’arte (2). Come si vede, è una continua battaglia, che sino ai suoi più tardi anni, questa dama combattè contro i detrattori di Venezia e della sua storia. E non contenta di quest’ opera negativa, ella volle affermare positivamente il suo patriottismo, e lo fece col libro pel quale va specialmente celebre il nome di lei, l’Origine delle feste veneziane. Questo libro mezzo storico e mezzo descrittivo nacque in un modo bizzarro. « Il » Governo di Milano », scriveva la Michiel al Bettinelli il 22 » giugno 1808, « mandò a codesto governo di Venezia alcune » questioni da essolui denominate statistiche, fra le quali ve (1) Riferito dal Malamani nella cit. meni. ms. (2) Le lettere della Renier e quella del Zucchi lurono pubblicate insieme a Venezia nel 1832. 188 GIORNALE LIGUSTICO » ne sono alcune di singolari. Morelli e Filiasi ebbero la » commissione di rispondere. Filiasi in due giorni si sbrigò » di tutta la sua parte, giacché non aveva che a copiare sé » stesso nelle sue opere; Morelli pure se ne sbrigò in poco » più di tempo. Interrogatolo io come avesse risposto a quelle » interrogazioni stranissime..... mi rispose di avere scritto, » che su quelle egli nulla scriveva, perchè non avrebbe sa-» puto che cosa scrivere. Questa maniera di sottrarsi è vera-» mente alquanto secca: dall’altra parte è un po’ difficile di » rispondere: quali sono i pregiudizi dei veneziani? quali le » loro opinioni politiche e religiose? quali i loro gusti domito nanti? ecc. Pure mi è venuto in mente di risponder io, e » d’intitolare il mio scritto Statistica morale. La riuscita sarà » quel che sarà: non mancherò mai di lacerare il tutto come » faccio di molte e molte cose; intanto mi diverto e que-» st’ è subito un grand’ oggetto » (i). Come e perchè quest’ opera perdesse il carattere generale di relazione dei costumi veneziani, e assumesse più particolarmente quello di descrizione storica delle feste veneziane, non è ben chiaro. Probabilmente Giustina, pensando al suo soggetto, trovò che nulla v’ era di più caratteristico, di più schiettamente ed originalmente veneziano che quelle feste civili e religiose, che ella aveva potuto in gran parte vedere negli ultimi anni della repubblica. Quindi lo scopo di dare un’ idea dei costumi e dell’ indole di quel popolo veniva raggiunto, incentrando la trattazione in questi spettacoli giustificati dalle gloriose tradizioni venete. Comunque si fosse, è certo che la nobildonna (i) Luzio , Op. cit., p. ii. Intorno a tutto ciò ha scritto anche il Carrer (nell’ Anello, e più brevemente nel Tipaldo) prendendo a scorta l’elogio che nelPAteneo veneto lesse il nipote della Renier, Paolo Zan nini, elogio che, per una grave scissura sorta fra quegli accademici e il Zannini, non venne mai pubblicato. giornale UGUSTICO 189 si mise intorno a quest’ opera, cominciata per ispasso, con tutto 1 impegno possibile, e che già nel 1810 ne pubblicava un saggi°, riguardante la festa di Santa Marta e quella del Redentore (1). La pubblicazione dell’ opera intera fu cominciata in Venezia, coi tipi dell’Alvisopoli, nel 1817 e terminata solo nel 1827, a motivo degli scarsi mezzi dell’ autrice, che si era assunte tutte le spese di stampa. Certo non inutile riesce anche oggi questo libro, che formò la preoccupazione costante di Giustina nell’ultima parte della sua vita, quantunque non sempre i fatti siano attinti a fonti sicure e vi manchi del tutto quella critica dotta e perspicace, di cui particolarmente si ha d’uopo quando si narrano leggende antiche ed avvenimenti antichissimi. La Michiel non trascurò di servirsi in questo suo lavoro di quelli fra i suoi amici che si erano maggiormente occupati di storia veneta, del Morelli, del Bettio, di don Sante della \^alentina. Per quanto riguarda lo stile e la lingua, ebbe correttori il Vit-torelli, il Dalmistro, il Moschini, il Negri (2). Dalle ricerche (1) Nella descrizione della festa del Redentore è la pittura della peste del 1576, di cui era entusiasta il Pindemonte. Egli infatti scriveva a Giustina il 4 agosto 1810: « Vi ringrazio assai assai del piacere, che pro-» curato mi avete. Chi mai vi ha dato un così abil pennello? Descrivete » la festa del 1576 in un modo , che pare che voi siate stata in Venezia » a quel tempo, e si trema quasi per voi. Nè vi ammiro solamente, ma » anche v invidio: si, v invidio, come studioso della poesia, in alcune » immagini, e in quella tra l'altre delle lames de feu agitées par les rames. » Avete avuto l’abilità di rendere interessante per molti ciò , che deve » esserlo particolarmente per li Veneziani, i quali dovrebbero tutti baciarvi » i piedi ». (Ms. nella Bibl. Comunale di Verona). (2) È curioso il notare come la censura movesse delle difficoltà alla pubblicazione del terzo volume dell’opera. Lo si rileva da una lettera di I. Pindemonte a Giustina in data 19 aprile 1818: t Io non lascierò par-» tire il gentilissimo signor Faustino Persico senza dargli due righe per » voi. Egli potrà dirvi che di voi abbiamo parlato non poco , e che reso 190 GIORNALE LIGUSTICO del Malamani resta inflitti, mi sembra, provato, che l’opera della Michiel fu scritta in italiano e riveduta con cura speciale dal Negri, come apparisce dal cod. 1420 del Museo Correr, che contiene la minuta di una parte del testo. E ben vero che la egregia donna cercò in ogni guisa di far credere che le Feste le sgorgassero dalla penna in francese, e poscia ella le traducesse in italiano; è vero che rispondendo un po’ risentita nella Gazzetta privilegiata di Venezia alle critiche, molto urbane del resto, mossele nel vol. XLIV del Giornale dell’italiana letteratura, rammentava l’origine dell opera, di cui abbiamo discorso, per giustificarsi d’averla scritta in lingua straniera, e oltracciò aggiungeva che il desiderio di darle maggiore pubblicità la incoraggiò a continuarla in francese (1); ma in tutto questo vi è solo (il Malamani lo dimostra egregiamente nella sua monografìa inedita) un po di vanità di scrittrice, un po’ di desiderio di mostrarsi versata nella cognizione d’ una lingua, eh’ ella era ben lungi dal sapere a perfezione. I meriti incontrastabili dell opera, 1 ìntcn- » abbiamo giustizia ai vostri talenti, e all’amabilità vostra. Seppi da lui ® con mio dispiacere, che codesti Censori vi movono delle difficolta i> per la stampa del terzo tomo. Desidero che possiate superarle, e che » a voi riesca, rispetto alle Feste venerane, ciò che non è riuscito a me per riguardo ai Sermoni ». (Ms. nella Comunale di \erona). Senza dubbio le difficoltà della censura erano motivate dalle frequenti, quantunque velate, allusioni a fatti politici contemporanei, che nelle Feste si trovano. (1) Amici e nemici della Francia si trovarono trascinati, nel secolo passato e nei primordi del nostro, ad ammirare la letteratura francese, aveva invaso l’Italia. Non solo si imitavano i romanzi, i drammi, le forme poetiche francesi, non solo si traduceva continuamente da quella lingua ; ma in essa si credeva quasi indispensabile lo scrivere per esser letti con più gusto. Documenti insigni ne sono le Memorie del Casanova e quelle del Goldoni. Vedi su ciò De-Marchi , Lettere e letterati italiani del sec. XVIII, Milano 1882, p. 85-91, e Magrini, Op. cit,, p. 131*133· giornale ligustico 191 dimento patriottico con cui fu scritta, 'e le qualità eminenti dell egregia autrice, ci fanno passare sopra a questo peccatuccio, ricordando il detto sapiente e misericordioso: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Gli altii scritti della Michiel sono di gran lunga meno importanti. Il primo per ordine di tempo, quello che le valse il momentaneo corruccio di Napoleone, è la versione di Shakespeare. Fraduceva da traduzione francese, e il Cesarotti non lu estraneo a questo lavoro (1). Anonime ella pubblicò nel 1798 le traduzioni dell’ Otello e del Macbetlo, nel 1800 quella del Coriolano. Molto più tardi, nel 1828, Alessandro Zanetti e Daniele Manin compilarono un libro di descrizioni delle isole della laguna. Quella di S. Lazzaro è dovuta alla Michiel. Olti acciò vi devono essere parecchie opere della Michiel tuttora inedite, intorno alle quali si possono dare scarse notizie. I pochi cenni che ne dà il Carrer sono insufficienti: egli accenna al discorso sul modo di studiare la botanica, già da me menzionato, e ad un trattatalo teorico di educazione (2). Ma di altre scritture dell’ egregia donna, forse perdute, forse conservate in casa Zannini, abbiamo indizi incontrastabili. E tra le altre sarebbe bello il conoscere quella di cui distesamente le scriveva il Cesarotti il 24 gennaio 1806 (3). Doveva essere una specie di romanzo storico, scritto in francese. (1) Cfr. Cento lettere, p. 4. Nel 1802 l'abate Bianchi mandava a Giu-stma una relazione delle feste fatte in Inghilterra ad onor? del sommo tragico. La Michiel volle rispondere e mandò prima la risposta al Cesarotti , acciò la rivedesse. Il Cesarotti ne fece una nuova. Vedi Cento lettere, p. 26-30. (2) TlPALDO, II, 363. (3) Cento lettere, p. 115-18. 192 GIORNALE LIGUSTICO Come da quanto ho detto si può discernere, la Renier Michiel non ha perduto il suo tempo. Fornita di una istruzione superficiale, come soleva darsi alle dame de’ tempi suoi, ella cercò da sé di supplirvi, arricchendo la mente di cognizioni svariate (1). Non le bastava, come ad altre grandi dame, di servirsi dell’ istruzione per figurare in società ; ella ebbe il merito di considerare il sapere molto più seriamente, di dirigerlo a scopo civile, di trovarvi quelle consolazioni ineffabili , di cui solo le anime elevate sono capaci. L’ amore per lo studio, per la patria e per la famiglia, Γ amicizia sinceramente e vivamente sentita, sono i sentimenti che trionfino nell'animo di Giustina. Ella è felice quando può starsene nel suo studiolo, con d’innanzi i ritratti delle due figlie e ai lati quelli del Bettinelli e del Cesarotti. « Di sopra vi ho Girolamo » Zustinian, Francesco Battagia, nel mezzo vi è un quadro » da me disegnato, che rappresenta Democrito osservando » varii scheletri di corpi e vedesi scritto Democritus omnium » derisor in omnium fine defigitur. Una seconda facciata è tutta (1) Sembra che si occupasse persino di matematica, giacché il Cesarotti le scriveva : « Cosa diavolo è venuto in capo alla nostra Giustina I d’imbarazzarsi di geometria? I quadrati e i triangoli sono torse tratte » nimenti per le Grazie? Oh, questi dotti titolati ch ella \a piaticando » ce la rovineranno. Ricordatele che Minerva avea cominciato a suonare » il flauto , ma poi lo gittò via perchè le contorceva la bocca. Lasci » questi studi a coloro che hanno gli spini nel cervello, la muffa nella » fantasia, e i peli sull’anima. Matematica e Giustina sono un’accozza-» mento contro natura. Sgridatela ben bene per me, e fate che non si » parta da’ suoi fiori, coi quali ha tanta affinità, non meno nello spinto » che nel volto ». Cento lettere, p. 46. Quando nel 1821 fu disegnata in Venezia la fondazione d’un giornale letterario cui dovevano collaborare i migliori ingegni del tempo, Giustina Michiel fu iscritta fra i collaboratori sotto il titolo Crusca e lingua italiana. Vedi Malamani, Isabella l. A., p. 169. GIORNALE LIGUSTICO I93 » de miei disegni ed incisioni; sulla terza vi è una piccola » libreria e la porta , e nella quarta vi sono le finestre, e » nel mezzo v è uno specchio perchè dicesi che vi deve es-» sere, benche niente di più inutile per me che non mi » guardo mai » (i). Ora che abbiamo veduta l’ultima dama veneziana ne’ suoi sentimenti di madre e di cittadina, nella sua attività di scrittrici, dobbiamo considerarla nell’amicizia. Dallo studio passiamo nel salotto. IV. Abbiamo veduto come alle insistenti domande di Napoleone, che le chiedeva in che fosse famosa, Giustina argutamente rispondesse: « nell’amicizia ». Questa risposta è perfettamente conforme al vero. La Michiel intese come poche altre dame il sentimento dell’ amicizia, lo intese per quello che veramente è, fratellanza di cuori, senza secondi fini e senza croticismi perturbatori. Ciò è molto più raro fra le dame veneziane di quello che a prima giunta può credersi. Tra le seduzioni di una vita molle e senza ideali, in mezzo a una società rilassata in cui trionfava il cicisbeismo, « strana » miscela di amore platonico e sensuale, di servilismo e di » galanteria » (2), quelle dame inclinate all’ arte e piene di mondanità corievano serii pericoli. Nè io intendo qui accennare alle libere c gaudenti figlie della laguna, come la Quirini Benzon, che l’essere stata amante del Byron e 1’ aver inspirato al Lamberti la più nota e popolare delle sue poesie non valsero a rendere meno volgare (3), 0 come la più celebre Ce- li) Luzio, Op. cit., p. 17 (2) Neri, Costumatile e soliari, Genova 1883, p. 117-146. (3) Malamani , Isabella T. A., p. 136-137. Cion». I.iscmco, Anno XII. 194 GIORNALE LIGUSTICO / cilia Zeno Tron, che a Milano, nel 1787 facea pericolare la virtù del più che cinquantenne Parini (1), e poscia in patria, rotta ad ogni lascivia, contaminava il nome d’ una famiglia ri-spettabile. Ma anche le dame che più tennero alla dignità propria ed ebbero gusti più eletti , come la Cornelia Barbaro Gritti, la Caterina Dolfin Tron, la Isabella Teotochi Albrizzi, non poterono ovviare completamente a quelle transazioni con la propria coscienza, cui le spingevano la galanteria di moda e Γ ammirazione di che erano circondate. Tra i frequentatori delle loro conversazioni v’era il preferito, l’amante, cui troppo spesso si concedevano colloqui a quattr’ occhi e Dio non voglia anche peggio. Ciò non accadeva a Giustina Michiel , fermissima nella sua virtù di donna onesta : In femminilità nel suo salotto non era civettereria, nè smanceria, nè sentimentalismo; era semplicemente gentilezza delicata, come la donna sola sa averla e inspirarla. Si disse bensì che una relazione più tenera tenesse unita Giustina al più sviscerato de’ suoi amici, il Cesarotti, e questa ciarla acquistò credito dalle frequenti e lunghe dimore che la Michiel taceva in Padova e dall’ ordine che il Cesarotti diede morendo di dare alle fiamme le lettere di lei. Non si considerò che la relazione fra il professore padovano e la dama nacque solo nel 1799 , quando Giustina aveva già 44 anni e il Cesarotti 69 , età certo non troppo propizia agli amori. Della purezza di questa amicizia fanno ora bella testimonianza le lettere del Cesarotti alla Michiel, che il Malamani ha il merito di aver tratte dalla raccolta Busetto. Non giù che manchino in queste lettere delle frasi pregne di una affettuosità calda, che in altro uomo e in altri tempi potrebbero (1) Salveraglio , Le odi dell’ab. G. Parini, Bologna 1882, p.' 103-109 e 251-52. giornale ligustico x9î ri\elare una passione. Eccone alcune, per esempio: « Addio, » amatissima: pensate ch’io mi addormento colla vostra im-» magine, che già mai non si stacca da me. Abbracci e baci » col cuore: quando potrò darveli colla persona? » (i). » Voi mi vorreste rimbambito affine di assistere alla nuova » infanzia della mia età, ma io che bramerei di rispondere » degnamente al vostro affetto, vorrei ringiovanire per im-» padronirmi di tutti i vacui del vostro cuore » (2). « Fate » che il mondo si scordi di me: voi sola bastate a com-» pensarmi per tutti. Amatemi, amatemi; l’affetto vostro e » quello di pochi e veri amici, appaga tutti i miei desi-» du i » (3). « No, io non ho più qualche vigor giovanile » se non nel cuore. L amore non è ancora da me condan-» nato a una pura spiritualità; v’è tuttavia un po’ di me-» scolanza dell’ elemento buiiroso dell’ anima, che ne rende » la spiritualità più saporita. Venite presto a farne il sag-» gio » (4). & Ah, s’io avessi potuto sposar voi a tempo, » che bella discendenza ! » (5). « Vi mando un gruppo di » ringraziamenti, e un impasto di baci innocenti e subimpu-» dici, che hanno l’ordine di non lasciarvi intatta veruna » parte del volto, e di penetrarvi nel cuore « (6). Ma queste fiasi incendiarie hanno un valore relativo in bocca ad un vecchio, che ne usò di simili con altre dame (7) e che era di natura sua molto inclinato alla galanteria (8). La Michiel (1) Cento lettere, p. 32. (2) Cento lettere , p. 39. (3) Cento lettere, p. 77. (4) Cento lettere, p. 96. (5) Cento lettere, p. 127. (6) Cento lettere, p. 134. Cfr. p. 53 e 67. (7) Gir. nell Epistolario del Cesarotti la lettera a Massimiliana Cislago {ΙΠ, 225) e quelle a Fanny Morelli (V, 100-161). (8) \ edi Malamani, proemio alle Cento lettere, p. xci-xcii. 196 GIORNALI* LIGUSTICO ammirava nel Cesarotti Γ ingegno vivo e quella fama di poeta grande, di cui ben presto non dovea rimanere che una misera larva (1); il Cesarotti da parte sua, spirito femminilmente debole e vano (2), ammirava ed amava in Giustina il carattere forte e insieme affettuoso, aperto a tutti gli entusiasmi pel bello, nella natura e nell’arte. Un altro vecchio amico della Michiel fu il Bettinelli, pel quale ella nutrì sempre un affetto profondo, quantunque non 10 conoscesse mai di persona. « E della mia Cecilia (scri-» veva la Renier al Bettinelli un mese circa prima della » morte di lui) come volete mai che ne parli la più tenera » madre? Ma già ella più coraggiosa di me vuole assoluta-» mente vedervi e la vedrete; anch’io vorrei vedervi, ma » non vorrei esser veduta da voi » (3). Questo carteggio fra il Bettinelli e la Michiel, pieno di confidenze e di notizie , per quel pòco che a noi finora è dato conoscerne, divenne famoso per tutta Italia, come scriveva Ippolito Pindemonte (4). Il quale Ippolito Pindemonte, amicissimo aneli’ egli del Bettinelli (5), fu il terzo fra i maggiori amici di Giustina. 11 suo carteggio peraltro, quasi tutto inedito (6) non è molto (1) « Del Cesarotti può dirsi non rimanere che una fama grande, nia « come quella di un grande cantore che ha perduta la voce ». Zanella, Paralleli letterari, Verona 1885 , p. 172. (2) Ne è prova specialmente la sua politica oscillante fra le aspirazioni del suo spirito e le necessità contingenti della vita. Cfr. Mazzoni , Le idee politiche di M. Cesarotti, in Nuova rivista internazionale , II, 283, 290-91, 295-97. (3) Luzio, Op. cit., p. 23 (4) Luzio, Op. cit., p. 6, n. 2. (5) Cfr. B. Montanari, Vita di I. Pindemonte, Venezia 1834, p. 139-143· (6) Tre sole lettere del Pindemonte alla Michiel furono pubblicate da V. Busetto nell’opuscolo Lettere d’ illustri contemporanei a Giustina R-M. (nozze Zannini-Bucchia), Venezia 1847, p. 17, 19, 21. GIORNALE LIGUSTICO 197 rilevante. « Voi mi date, egli dice , e con la solita vostra » grazia, molte nuove letterarie, alle quali io non veggo » come corrispondere, poco dando Verona in si fatto genere » presentemente » (1). Chiuso in una città di provincia, il Pindemonte non era in grado di fornir molta materia all’ a-mica sua, nè la loro intrinsichezza fu mai tale da permettergli di occuparla con quello che gli passava nell’anima. Egli le dava conto de’ suoi lavori, sospirava il momento di rivederla 0 in Venezia, dove spesso si recava, o di passaggio in \ erona, nelle frequenti gite che la Michiel faceva a Brescia. I alora le presentava qualche suo amico od amica ; lo Sgricci (2) e la Clarina Mosconi (3), che la Michiel aveva avuto già occasione di conoscere in Verona. Quasi in tutte le lettere le mandava i saluti della Silvia Curtoni Verza, la cui relazione intima col Pindemonte è ben nota. Dalle lettere del Pindemonte sembra che questa dama, la quale meritò 1 ammirazione del Parini e al Foscolo appariva troppo amatone (4), avesse per la Renier, diversissima da lei in tante cose, una stima sincera a profonda. E il buon Pindemonte dal canto suo non trascurava occasione acciò la benevolenza fra le due dame si rassodasse. Alludendo ai loro convegni serali, egli scrive alla Michiel: « Voi non vedeste » mai, credo, la sua casa di giorno : è in Verona, come una » Procuratia in Venezia » (5). (1) Lett. 6 maggio 1822 : nis· nella Comunale di Verona. (2) Lettera del 1817, carnevale, ms. nel Museo Correr. (}) Lett. 27 genn. 1817, ms. nel Museo Correr. (4) Cfr. Biadego, Da libri e manoscritti, p. 1 io-n 5, e p. 42. (5) Busetto, Op. cit., p. 22. Per la descrizione del salotto della Verza vedi Picciola , L epistolario di dementino l'annetti, Firenze 1881 , p. 45 c seS· 1 PL'r sue relazioni letterarie Biadego, Carteggio inedito d‘ una gentildonna veronese , p. ιχ·χι. 198 GIORNALE LIGUSTICO Se il Brofferio, che quando si recò in Venezia aveva biglietti di presentazione per la Albrizzi e per la Michiel, si fosse presentato nel salotto di quest’ultima, a S. Moisè, in Corte Contarina, c’è da giurare che egli non avrebbe risentito la disgustosa impressione che ebbe e conservò visitando quello della Teotochi (1). Come differivano le due dame, così erano diverse le loro conversazioni. Quella della Albrizzi leggera, brillante, parecchio infranciosata; quella della Renier più grave e più veneziana. Non già che non vi prendessero parte uomini e dame d’indole e di patria diversi, chè anzi gli stranieri si trovavano frequenti nelle serate della Mi* chiel, specialmente gli inglesi. Ma Giustina dava una intonazione, un colorito alle sue relazioni, diversi da quelli che si notavano in casa Albrizzi. In lei 1’ arguzia fine non valicava mai i limiti del più corretto viver sociale, nè la allegria spensierata giungeva a sopraffare i discorsi tranquilli e meditativi degli uomini gravi. Nulla di pedantesco là dentro; ma insieme nulla di fatuo. Io non mi indugierò qui in una disamina del salotto Michiel, che allungherebbe oltre misura questo articolo già troppo lungo. Il Malamani ne darà tra breve una descrizione viva e compiuta. Bastimi il dire che quanto v’ era di più eletto in Venezia, sia fra i Veneziani, sia fra gli stranieri stabili e di passaggio, tutto conveniva a quelle gioconde serate, cui dava vita la gioviale e ingegnosa padrona di casa. Vi andavano diplomatici, scienziati, artisti, uomini di lettere. Tra gli artisti primissimo, assiduo frequentatore (quand’era a Venezia) del salotto di Giustina, troviamo il Canova, che nel 1821 faceva presente alla Michiel di due busti modellati da lui, una Saffo ed una Vestale. E la Renier gli fu riconoscentissima di questo dono e ne andò superba: « Entrambe (i) Brofferio, I miei tempi, vol. XVII, 1860, p. 76-81. GIORNALE LIGUSTICO 199 » senza rivalità, gli scriveva, desteranno meraviglia e diletto » ad ognuno; ed in me, che ne sono posseditrice invidia-» bile, alimenteranno mai sempre un giusto orgoglio , offe-» rendomi agli occhi un si bel contrassegno di predilezione, » che mi viene dall’ uomo che ha diritto più d’ ogni altro » all’ immortalità » (1). Tra i letterati v’ è il Foscolo ancor giovane, che alla traduttrice di Shakespeare avea bruciato un grano d’ incenso, ed aveva avuto in lei una ammiratrice del-1’ Orlis, come attesta una curiosa ed elaborata lettera di Giustina al Foscolo, in data 27 novembre 1802 infarcita di frasi di quel romanzo (2). « I miei passati tempi, e Venezia, e » voi, mi sarete sempre care e pungenti memorie », terminava il Foscolo una sua lettera alla Michiel del 1804 (3). Tra i letterati v’ è anche Jacopo Morelli, il dotto e austero bibliotecario che per la Giustina aveva della tenerezza e che ella, sempre pronta a trovar soprannomi acconci a’ suoi amici, chiamava el vmgna-putci (4); vi sono Francesco Rizzo Pattarol (1) Busetto, Op. cit., p. 12. (2) Verri pubblicata dal Malamani. (5) Busetto, Op cit., p. 14. In altra lettera, del 4 luglio 1807, pubblicala nella medesima raccolta e proveniente da Brescia , il Foscolo le scrive : « La Municipalità mandò il capitano Foscolo ad alloggiare in casa » Martinengo di Barco. È vero eh' io visito assai di rado la dea del loco’, » ma a Brcscia io non visito anima nata ; vedo poca gente, e parlo con » una sola persona — con una sola persona — e soltanto verso sera : poi » di e notte sto qui come un gufo ». Questa persona era forse la Marzia Martinengo Cesarcsco, della cui relazione col Foscolo ha dato notizia A. Beltbami nel Giornali storico della letteratura italiana, V, 221 e seg-? (4) Intorno al Morelli cfr. Ugoni, Della lett. il. nella seconda metà del sec. XVUl, Milano 1856, voi. Ili, p. 213 e seg. Del vezzo della Michiel di affibbiar sopranomi, parla anche la Albrizzi : « La sua particolare saga-» cità dava non di rado alla persona che le si presentava, uomo fosse o » donna , un soprannome, rapidamente derivandolo sì dallo spirito e sì » dal portamento di quella , ed era di tale e tanta aggiustatezza ed evi- 200 GIORNALE LIGUSTICO e il Pagani-Cesa, entrambi grandi amici del Cesarotti, che guastò forse il secondo con le troppe lodi; vi sono Francesco Negri e l’abate Dalmistro, che si prestarono ambedue nel sovvenire di consiglio e di revisione le opere letterarie della Michiel; v è il Yittorelli, poeta morbido, uomo morbidissimo, che dapprincipio fece pessima impressione sulla Renier, ma in seguito riuscì a conquistarsi le sue grazie; v’è Mario Pieri, la sanguisuga dei letterati del tempo suo, che il Cesarotti assomigliava ad una pera brutta, ma buona; v’ò anche la Staël, verso la quale peraltro la Michiel fu sempre ben lungi dal sentire 1’ ammirazione che ebbe per lei il Cesarotti, per riflesso del padre suo Necker, di cui era entusiasta (i), ma alla quale pure, in grazia forse del Cesarotti, fece buona accoglienza, scrivendogli che le era piaciuta (2). Vi sono il Mustoxidi, il Cicognara, Bartolomeo Benincasa, Benassù Montanari, Angelo Zendrini ed altri, tra cui parecchi inglesi, che Giustina chiamava le sue rondinelle. Francesi pochissimi, chè la Renier non li amava. Con lo stesso Meyronnet, forse innamorato di lei, la Renier ebbe un incidente doloroso, che il Malamani metterà in chiara luce. Col Miollis (chi è che non lo conosceva a quel tempo?) (3) » denza che, non altrimenti che per esso, era poscia il più delle volte » denominata e riconosciuta ». (N. Antologia, XLV1II, P. IH, P· 42), Cfr. Cento lettere, p. 21 e 46. (1) « L’opere di vostro padre unite alle vostre saranno la parte più » più cara della mia biblioteca del cuore » scriveva alla Staël il Cesarotti , in una lettera che è un vero inno al padre ed alla figlia. Cfr. Epistolario , IV , 320-24. (2) Cento lettere , p. 102. Vedi l’arguto ritratto che la Michiel la della Staël in una sua lettera al Bettinelli, Malamani, Isabella T.A., p. 84-85. (3) Vedi Ademolt.o , Un generale francese amico delle Muse in Italia , in Domenica del Fracassa, 2 febbraio 1885. GIORNALE LIGUSTICO 201 fu in costante carteggio, e aiutò spesso il Cesarotti a decifrare le sue lettere geroglifiche (i), ma in fondo le seccava (2). V. La notte tra il 6 e il 7 aprile 1832 Giustina Renier Michiel moriva. Fu un lutto generale per tutta Venezia. I giornali ne dissero gli elogi ; i poeti le cantarono le esequie in versi, se non sempre belli, almeno quasi sempre affettuosi. Il popolo, non vedendo più quella bella vecchietta, che tanta gioventù di spirito conservò sino agli ultimi anni suoi, senti che gli mancava qualche cosa, quasi il buon genio tutelare delle antiche gloriose memorie. Quando noi paragoniamo la morte del n. h. Polo Renier, seppellito nell ombra, nonostante la sua autorità principesca, per non turbare le gazzarre carnevalesche, a quella di questa gentildonna rimpianta universalmente, per quanto vivesse quasi povera, ed abborrisse da qualunque pompa pretensiosa, non possiamo a meno di consolarci al pensare come la virtù, la semplicità e la rettitudine, trovino qualche volta nel mondo quelli apprezzatoti, che mancano alle grandi ambizioni ed al fasto. Rodolfo Renier. (1) Cento lettere, p. 50, 140. La Michiel dettò anche un ritratto del Miollis. Cfr. Cento lettere, p. 125 e 129. (2) Luzio, Op. cit., p. 16, 18, 19. 202 GIORNALE LIGUSTICO APPUNTI DI EPIGRAFIA ETRUSCA Parte Seconda. 51. askos T3Hflq+fl·· : atrane t(uce?) Atranius d(uxit?). Bollo a rilievo sul manico di un gutto, 0 askos fittile nel Museo di Firenze. L’ ultima lettera non è ben certa. Un altro esemplare di questo bollo conservasi nella Collezione Ancona, su manico di askos proveniente da Chiusi, colla differenza che in questo non si osservano i due punti iniziali. I bolli di fìguli etruschi finora editi si riducono più 0 meno agli infrascritti : e dico più o meno, in quanto che il Corpus del Fabretti non ha sempre cura di indicare se le iscrizioni dei fittili in esso registrate siano impresse a stampo, oppure condotte colla stecca a creta molle, o semplicemente graffite sul fittile già cotto ; e anche perchè alcuni fra i bolli editi per etruschi o etrusco-latini non sono forse tali, come viceversa altri creduti latini o riferiti ad altri idiomi paleoitalici, sono per avventura da ascriversi alla serie etrusca; di poco o niun peso, invero, essendo per la classificazione di oggetti facilmente trasportabili, quali lucerne, piccoli vasi 'e simili, la considerazione del luogo ove gli oggetti stessi furono rinvenuti. a) alfni X ftuce sul fondo di tazza, intorno ad una stella a cinque raggi, Chiusi (F., 2° Suppl., 85). La voce θ-uce accoppiata al nome proprio alfni = Al-fenins mi ha tutta l’aria di un perfetto indicativo di verbo GIORNALE LIGUSTICO 203 corrispondente al lat. ducere nel senso di « e luto vasa ducere » di cui in noto passo di Quintiliano ; attalchè la leggenda esprimerebbe che il figulo Alfenio condusse in creta il vaso su cui è impressa. Il Corssen (I, p. 738) legge -ftuce alfni, e fa di θ-uce un prenome affine al noto θ-ucer (F., 49) o frulcer (Ga-murr., App. 104), di cui conosciamo anche il genitivo in tucerus (F., Suppl., 296), ftucerii(i) (Gam., 465) e tukerus' (F., 809). b) c · 1. a n i 0 r u m (interpunzione triangolare, ru in nesso), su tegolo graffito del Museo di Firenze (r). Scritto a lettere latine con andamento da sinistra a destra. c) urs : aplus, su tegolo di Bolsena (Fiorelli, Not. degli scavi d’ant., 1882, p. 264). Sembra potersi plausibilmente supplire velours: apius, e interpretare Volturis A pulii (opus). d) latrane:, su lucerna e su manico d’askos, Volterra (F-> 357 bis), Perugia (ib., 1918), Vulci (ib., 2173), Viterbo (F., i.° Suppl., 382 sg.). Se ne conoscono parecchie varietà. Il nome atrane deriva molto probabilmente dall’ignoto oppido nella regione degli Irpini, i' cui abitanti sono ricordati da I linio (III, 16, 6) coll’appellativo di Atrani. Allo stesso figulo spettano i due bolli seguenti : e) atranes, su manico d’askos, Sovana (Gam., 757), Atranii (opus). Una curiosa varietà di questo tipo è da me pubblicata al n. 52 della presente silloge. /) atranes'i. Ne esistono più varietà, tutte su manici (I) Lanzi, Saggio di lingua etnisca etc., I, p. 171, n. XXXII. Conesta-bile, Iscrizioni elr. della Gali, di Fir., p. 249, tv. IX, 10. Non registrato dal I-abretti. 11 Gamurrini, Iscrizioni dei vasi aretini, p. 29, trascrive erroneamente a nn io rum. 204 GIORNALE LIGUSTICO di askoi, Volterra (F. 357), Chiusi (ib., 798), Perugia (ib., 1918 bis), Sovana (ib., 2032 ter a). Non è mio proposito di affrontare per ora la questione molto controversa delle forme in — si, questione che il ch. prof. E. Lattes a buon dritto classificava testé (1) « fra le primarie e fondamentali dell’ etruscologia, e seconda forse soltanto all’ altra, affatto analoga, intorno alle voci etrusche in — al ». Dico soltanto che se in note iscrizioni (F., 1914 , 1922) si può ritenere con molta probabilità che au lesi sia dativo dell’ovvio aule, come titesi c a lesi (ib., 346) di ti t e cale (ib., 2582), altrettanto non può dirsi qui di atranes'i rispetto ad a t r a n e ; e ciò perchè se atrane è , come non può dubitarsene, nome di figulo e contrassegno di fabbrica, la sua posizione al terzo caso sarebbe un controsenso (2). Si capisce come il nome del possessore possa figurare su di (1) Appunti etruscologici, nei Rendiconti del R. Istituto Lombardo, 1884, Ser. II, vol. XVII. fase. XI-XII. (2) Che diremo della congettura del Deecke che la di atrane un aggettivo derivato da atar « domus » col significato di « suppellettile domestica », e il cui dativo atranes'i dovrebbe interpretarsi « spettante alla suppellettile domestica »? Ma qui si tratta di un bollo, cioè di una iscrizione a stampa, e gli oggetti sui quali è impresso atrane in diversi casi di flessione consistono tutti in lucerne e in gutti che mostrano di provenir tutti dalla stessa fabbrica, segno evidente che atrane è il nome del fabbricante, ciò che è inoltre autenticato nel modo più posi tivo dalla figura di un gutto che comparisce a lato della leggenda su diversi esemplari del bollo stesso! È più che mai il caso di ripetere che non si giungerà mai alla retta interpretazione delle leggende etrusche se non si smetterà il vezzo di considerar le iscrizioni come affatto indi pendenti dalla natura e dal carattere dei monumenti ai quali iurono consegnate, e di attingere i criterii per la loro dichiarazione unicamente dalla ragione etimologica dei singoli vocaboli senza tener conto dei loro rap porti logici. GIORNALE LIGUSTICO 205 un oggetto, per quanto insolitamente , anche al dativo : ma è d’ uopo convenire che questo caso non si adatta in modo alcuno alla enunciazione sull’ oggetto del nome del fabbricante in funzione di contrassegno di fabbrica. Maggior fiducia non mi inspira l’ipotesi del genitivo patrocinato dal Pauli (1), giacché il genitivo di atrane è indubbiamente espresso dalla forma atranes' del bollo antecedente, cui nulla mi persuade aversi a confondere, e tanto meno a identificare col controverso atranes'i. E nettampoco, infine, mi seduce la teoria — per altro assai semplice, — del Corssen , propugnata oggidì con calore dal Lattes, che cioè atranes’i stia per *atranes-ia, in qualità di nomin. sing. femm. d’un aggettivo formato dal nome del figulo atrane e riferentesi ad un sottinteso sostantivo temm. etrusco significante lucerna o gutto. Io per me son d’avviso che atranes'i sia bensì caso di atrane, ma che trattisi nella fattispecie piuttosto di un ablativo assoluto, nel senso di Alranio (opifice), Atranio (figulo) e simili. g) p-caisi, su manico di vasellino trovato a Vulci nel famoso ipogeo a pitture del Ponte della Badia (Garrucci, Syll., 509). A lettere latine arcaiche da sin. a d. P(tiblii) Caesii (opus). h) caloni, in coppa decorata di fogliami a rilievo, Cerveteri (ib., 494). Id., id. i) c·caloni, varietà dell’antecedente, su manico d’askos, Roma (2). Id., id. Sembra che questo Cctlonus figulo , il quale , se non fu etrusco, certamente segnò del suo nome figuline di etrusca (1) Die etruskischen Zablwòrter, p. 49. (2) E. D resse!. La suppellettile dell1 citi ti chissisia necropoli es quilinu, n. 7$, negli Annali dell’Instituto di corrispondenza archeologica, 1880. 2o6 GIORNALE LIGUSTICO fattura, nulla abbia di comune coll’ omonimo ricordato sul parallelepipedo fìttile di Castagneti, Garr. Syll., 493. k) cel, sotto una figura di delfino, in vaso di Capena. Id., id. Il Garrucci (ib., 510) spiega Celer, ma la sigla potrebbe con pari probabilità appellare all’etrusco cele, lat. Caelius o Caeles, che nell’antico onomastico figura ugualmente come personale (1) e come gentile (2). /) e:cr, su tegolo sepolcrale, Chiusi (Corssen, I, p. 144, 739)· Può supplirsi e (terï) cr (eis ') = Greii servus ; quando non si voglia più semplicemente ritener la prima lettera quale sigla del nome del figulo al caso retto, e le due del secondo membro come iniziali di quello del padrone dell’officina figulinaria, che è forse lo stesso a cui spetta il bollo registrato più sotto alla lettera v). La gente Greia, etr. c r e i a, oriunda etrusca e secondo (1) caile vipinas (F., 2166). È questo il titolo onde viene indicato nelle famose pitture murali dell’ipogeo volcente del Ponte della Badia l’eroe etrusco Caeles Vihenna (Tacit., Ann., IV, 64 sq), da cui trasse nome il monte Celio di Roma. È superfluo avvertire che il dittongo ai di caile equivale ad e. Cf. cekatina (] tes' sarcofago, Perugia (F., 1574); cehaupni parstial Cop. d’ossuario, Chiusi (1° Suppl., 246); nè so perchè il Fabretti si ostini a ravvisare in questo cel, vero e proprio prenome, nulla più che una storpiatura dell’ovvio vel. (2) numesia celes Cippo Orvietano (F., 2094 ter). Questo cippo trovasi oggi a Firenze nel Collegio dei Barnabiti alla Querce. celia caiia Urna chiusina (1405). ta:ce lia:tutnasa Cop. d’ossuario, Chiusi (631). pacinnei.celias (etr. lat.) Umetta, Montepulciano (i.° Suppl., 156). Al gentilizio cele si connette il cognome ce lus esibito da titolo sepolcrale di Sovana (avie petrusflcelus F., 2027 bis), il qual cognome sotto la forma genitavale celus'a comparisce parimente in sarcofago di Viterbo (ib., 2055). giornale ligustico 207 °£ni probabilità di Chiusi, è conosciuta per iscrizioni latine (C. i. lai, IX, 4573 etc.) e anche etrusche (Gam., App., -4°)· Una famiglia di questo nome esercitava il mestiere del %ulo in Roma ancora nella prima metà del secolo II del- V \r · 1 era cristiana, siccome attestano noti laterizi ex figlinis Caninianis duorum Domiliorum (Descemet, Inscr. doliaires, 20-30). m) e.t, sotto lucerna, Firenze (11. 21, parte i.a di questi Appunti). Semprechè non si voglia ravvisare nella prima lettera la sigla di eteri nel significato di servus, come si è accennato •il n. precedente, nel qual caso l’altra nota «.i riferirebbe al nome del padrone dell’ officina, si potrà con non minor probabilità accettare la sigla c come iniziale del nome del figulo al caso retto, e il l quale nota del verbo tu ce = duxit di cui si è detto pocanzi (1). ") fast, su vaso del genere cosidetto aretino. Lezione incerta, potendosi anche intravedere un fa e (Gamurrini, Inerirmi deivasi arelini, p. I5, 4). Secondo la lezione’dell’editore, l’iscrizione accennerebbe ad un tast(c), lat. Faustus. °) 11 a, nel centro di piatto d’argilla giallastra coperta di vernice rossa, del genere così detto aretino. Su alcuni esemplari le lettere, di buona forma etrusca, procedono a destra a sinistra; su altri, in senso opposto. Corneto Tarquinia (Bull. d. Ist. di con. arch. 1884, P· 122). Il bollo accenna ad un fla(ve), noto gentilizio etrusco che ricorre talvolta anche sotto la forma flae (Gara. App. 395), = iat. Flavius. p) li ii sa, id., id., (ib. n. 5). Leggenda oscura così decifrata dal Gamurrini, mentre il Garrucci (Syll., 2240) trascrive citrsa, e altri, stando al proferto facsimile, sarebbe «) Fu per mero errore di stampa che al n. 2. la nota / di questa legenda si esplicò in turcc = ifo/i7. 2θδ GIORNALE LIGUSTICO tentato di sciogliere in eursa. Ulteriori riscontri potranno fornire elementi per una più sicura lezione. q~) lapi, su coppa d’argilla a ornati in rilievo, di color rosso pallido, Toscanella (Garrucci, Sylì., 494), Viterbo (Gamurr., App. 751). A caratteri latini arcaici da s. ad. L. Appins. r) ile&e, in cartello rettangolare su manico à’ askos, Firenze (ib., 42). Cf. il n. 54 dei presenti Appunti. Laetus. s) lensa, nell’interno d’un vaso, Volterra. Le lettere sono disposte a circolo fra i settori d’un pentalfa, per cui si possono leggere anche capovolte, come fece il Fabretti che trascrisse supen (358 bis a). Il Garrucci (Add. in Syll. 2380 legge sai en e spiega S. Alen(ius). Mi sembra preferibile la lezione da me proposta, perchè suffragata dai titoli perugini ar : 1 e n s u 1 a (ib., 1535) , e a r · 1 en s 01 a || fili (etr. lat. Ib-> 1537) CO· t) manfreate, in cartello rettangolare su fìstola fittile, Perugia (F., 1918 ter). Credo la lezione errata per rrìanftvate, nome già arguito dal genit. man-ftvatesa proferto da due tegoli chiusini (ib., 721 bis a e b') e derivato dalla città di Mantua, come atinate da Atina, frentinate da Ferentinum, nula-fre da Nola, s e n a t e da Sena , sentinate da Sentinum ^rinate da Hyrina etc. 11) m e v a, fra ornati a rilievo su tazza del tipo conosciuto sotto il nome di etrusco-campano. A lettere latine da s. a d., colla e italica, cioè formata di due aste verticali e parallele (Gam., App., 425). (1) Anche l’iscrizione F. 1536: fasti.cvintia leasuc, trovata nel luogo stesso della suddetta pare doversi emendare in fasti.cvintia lensul. Cf. Lattes, Intorno alle unilingui etrusche Fahr. 402-462 ter, etc., nei Rendiconti del R. Istituto Lombardo, V, fase. VII. GIORNALE LIGUSTICO 209 v) vel numnal, in cartello rettangolare su manico d’askos di color cretaceo, Orvieto (F., i.° Suppl. 371), Sovana (Gam-,Λρρ., 756), Roma (ib., 924) etc. Se ne conserva un esemplare di ignota provenienza nel Museo di Berlino (Corssen, P· 739)· Un altro esemplare trovato a Cerveteri fu pubblicato dal Dressel nel Bull. dell’Inst. di corr. arch., 1857, p. 87, e letto vei numnal. Fra le mie schede trovo la trascrizione vel numnial, di cui non sono ora in grado di accertar Γ esattezza mediante confronto coll’ originale. w) pahanuscreis (prima lettera non ben certa), in cartello rettangolare, coll’ emblema del caduceo, su manico d’askos, Orvieto (F. j.° Suppl., 310. Gam., App., 626). Traduco Paganus Greii (servus). Si sa che gli Etruschi non ebbero il segno rappresentativo della gutturale tenue, ma si servirono per esprimerla di quello della forte. Il nome proprio masch. Paganus dovea pertanto scriversi in etrusco pa-canus o pakanus. E siccome gli antichi Toscani non altrimenti dei moderni elidevano favellando la c dinanzi ad alcune vocali surrogandola coll’ aspirata h, così non è raro il caso che anche la scrittura offra come nel presente un esempio di tale surrogazione, per effetto di quel prepotente influsso che sulla ortografìa di una lingua ancor non ben fissata da una letteratura esercita la locale pronunzia (1). (1) Si possono citare diversi esempi di questa sostituzione dell’ aspirata alla gutturale tenue. Il genitivo catusa esibito dall’urna chiusina F., 839 bis r, diventa hatusa in altro ossuario di identica provenienza, id., 604. Analogo rapporto corre fra katuniias' (ib., 2610 bis) e ha-t unial (i.° Suppl., 251 bis 0), kaprilas (Gam., App. 782) e hap irnal (F. 253), casprial (i.° Suppl., 27$) e hasprial (ib., 276), cusna F., 1593) e hustnei (ib., 1228) etc. Cs. V. Poggi, Di un Ir. piacent. con lcgg. etr., p. n. n. . Cf. hameris' (F. 1859 bis hameris Gam., 886) derivato da Camers; hampnhea (lat. etr., Gam., 722) da Campania; hekinas' (ib., 48) da Caccina etc. Giout. Ligustico, tinnii XII. 14 2 IO GIORN A RE LIGUSTICO Per quanto concerne la voce creis, essa non può venir riguardata che quale genitivo del nome gentilizio crei spettante al padrone dell’officina figulinaria; nome di cui già si è detto testé alla lettera /) e che ricorre sul tegolo chiusino lfr-crei H calpuri (Gam. App., 240). x) c-pop ili, a lettere latine arcaiche da sin. ad., in scifo di terra rossiccia decorato a tralci e foglie in rilievo·, Corneto (Garr., Syll., 496. Bull. dell’Inst. di con. arcb., 1881, P· 94)· Lo stesso figulo è nominato nei seguenti bolli spettanti a due suoi servi : o c r i c 1 ο II c · p o p i 1 i, id., in vasetto di finissima argilla rossiccia, Cerveteri (Garr., ib., 497); cilo II c-popili, id., id., Sovana (ib. 2296). Gli corrisponde forse in etrusco il nome puplu testé comparso su tegolo di Gioiella (Gam., App., 431). y) praise, a lett. lat. arcaiche da s. a d., su lucerne, Roma (Dressel, La :suppell. dell’ antichiss. necrop. esquilina, n. 77). Leggasi Praese, assegnando al dittongo ai il valore che ha nell’ ortografia arcaica di Aimilius, Annaius, Caicilius, Caisar, Praisul, Praifectus, Praitor etc. Anziché far di praise un compendio dell’etr. presnte, lat. Praesentius, son tentato di riferirlo al gentilizio presu di cui ci ha dato notizia l’olla chiusina inscritta larikpresuilaftal: (F., 1° Suppl., 194). aa) p r e c u, in cartello rettangolare su manico d’aslws, Orvieto (ib., 370). Il nome esibito da questo bollo non corrisponde altrimenti al lat. Praeco, siccome parve al Fabretti (Gloss. s. v.). Infinti, se è di regola, secondo che venne esposto ai nn. 31 e 37, che i cognomi etruschi con desinenza in -u escano latinamente in -o,-onis, altrettanto non può dirsi dei gentilizi aventi identica desinenza, la costruzione latina dei quali GIORNALE LIGUSTICO 211 importa la solita uscita in -ius. Ora il nome precu è indubbiamente gentilicium, come attestano parecchie iscrizioni (i), dalle quali risulta in pari tempo che una o più famiglie di questo nome erano stabilite a Perugia, mentre un altro ramo dello stesso casato erasi trapiantato in Volterra. Dal sin qui detto si deduce che l’etrusco precu dovrà rendersi latinamente Praequius o Praecius. bb) pultuce s in cartello rettangolare fra l’emblema del Pegaso da una parte e quello di un cinghiale con un askos dall’ altra, su manico di askos, Orvieto. Nel Museo di Firenze (cf. F., i.° Suppl., 452). Un altro esemplare proveniente da Çerveteri fu pubblicato dal Dressel nel Bull. d. Inst. di con. arch., 1877, p. 87. Un bollo dello stesso figulo Polluce ricorre su lucerna perugina (F. 1927). Si traduca Pollucis (ex officina'), cc) riuties, su anfora, Roma, Palazzo dei Cesari (F. 2717 ter). Rbodii (opus). Tenuto conto di quanto fu esposto al n. 15 intorno alla esplicazione non insolita nella lingua etrusca del dittongo tu dalla vocale u, è lecito congetturare che il nome proprio (1) au.precu.la.vipial Coperchio d’ossuario, Perugia (F. 1713); au.prec[u].....id., id., (ib., 1714); la.prexu.......id., id., (ib., 1715); sai____precusMautnJJeter Stele del Museo di Napoli proveniente probabilmente da Perugia (ib., 2578); l:precu:larisal Coperchio di ossuario, Volterra (ib., 334); Cf. l’iscrizione del cippo perugino di S. Manno (ib. 1915), nella quale la voce precufruras'i allude verosimilmente alla progenie dei Precu e dove è anche menzione di un liberto di Precu, lautn precus'. Il Deecke (Elrushische Lautlehre aus griechiscen Lehnwòrtern , 181) considera rutias' come genitivo di nome pr. femm. corrispondente al greco 'Pinta. Per Pauli invece (Etrusck. Stud. Ili Heft, n. in) il nome stesso equivale al greco 'Ροεδία. 212 GIORNALE LIGUSTICO riutie, genit, riuties, sia semplicemente una varietà ortografica di rutie, lat. Rhodius, di cui già si possedeva la forma femminile nel genit, rutias' esibito dalla stela perugina, F. 1934. In un fabbricante di anfore il nome di Rhodius ha un carattere particolare, come quello che accenna ad un rapporto di origine o di provenienza da una città ove Γ industria delle anfore era una specialità i cui prodotti costituivano uno dei principali articoli di esportazione. dd) ruvfiesracil, in cartello rettangolare su lucerna, Vulci (F., Suppl., 352), colla varietà ee) ruvfil-acil, id., su manico d’askos, Corneto (F. i.° Suppl., 440). Il Corssen (I, p. 739 sg.) traduce il i.° di questi bolli in : Rufii lucerna fictilis, e il 2° in ; Rufii fictile coctum. Ciò mi richiama alla mente la storia di quel pittore che avendo dipinto un S. Rocco col solito attributo del cane, scrisse sotto le rispettive figure : questo è S. Rocco, questo è il cane ; colla differenza che nella fattispecie Γ artefice etrusco avrebbe impresso sulle proprie manifatture anche l’indicazione della materia in cui erano lavorate ; nel dubbio, forse, che altri potesse cadere in errore scambiando non solo la lucerna per un boccale , ma la terracotta per bronzo, marmo e magari avorio ! Apage nugas. Io crederei potersi le due leggende rendere più semplice-mente in : Rufii Agilis (servus'). Ove poi si voglia ad ogni costo ravvisare in acil un sostantivo, parmi più plausibile cercarne 1’ etimologia nella radice ariana ag= condurre, fare, d’onde derivano le voci latine agere, aclus e simili. In quest’ ordine di idee la leggenda dei due bolli in esame ha il significato di « fattura di Rufio », Rufii opus; sul tipo della nota Ç POMPOMI QVIR' OPOS (Garr. Syll. 487): interpretazione questa non meno sem- GIORNALE LIGUSTICO plice che logica, la quale si adatta inoltre perfettamente al controverso su fri acil hece della perugina F. 1487 (1). ff) sei·rii, intorno ad una testa di Palladie, sotto il piede di tazza etrusco-campana, Chiusi (Gam., App., 426). SÒ spv-a-p, su pinax del Museo Britannico (F. i.° Suppl., 458). hh) s-v-p, id., id. (ib., 457). ii) IX II tuine-niui II IX, su fittile in forma di piramide quadrilatera tronca, Sermide (Corssen, II, p. 580 sgg. tv. XXV, 3). Il Corssen interpreta Tuinus Niuius (figulus) (pondo) IX; ma per ben giudicare della bontà di tale interpretazione, converrebbe anzitutto conoscere a qual uso erano adibiti i fittili di questa specie che trovansi quasi esclusivamente nella valle del Po. Che se, come sembra ass ii probabile , queste piccole piramidi servivano di pesi, può nascere il sospetto che la voce niui, la quale per quanto venne esposto al n. 15 e ribadito dianzi alla lettera cc del presente intorno all’ ovvio sviluppo del dittongo tu dalla vocale u, è lecito ritenere =nui, possa rispondere a novem numero espresso doppiamente colla cifra IX, nel qual caso Γ altra voce, tine a cui trovasi accoppiata potrebbe significare pondo, oppure il (0 II Pauli (op. cit. n. 100) propende ad attribuire alla voce acil il significato di « proprietà » (Eigentum) : ma egli assorbito nella considerazione che tanto la lucerna quanto il gutto appartenevano alla suppellettile sepolcrale, perde di vista il fatto che le iscrizioni dei due fittili sono impresse a stampo, cioè che trattasi nella fattispecie di bolli di fabbrica, le leggende dei quali possono di lor natura esprimere sotto diverse forinole un rapporto d’origine fra il fittile cosi inscritto e il suo fabbricante, intendasi per quest© il figlilo che Γ ha plasmato o il padrone dell'officina figulinaria donde usci, no» mai un rapporto di proprietà fra il fittile stesso e il padrone del sepolcro in cui questo- venne rinvenuto. 214 GIORNALE LIGUSTICO nome dell’ unità di peso di cui appunto la cifra IX esprime il numero. kk) vei, fra tre angoli di una croce in rozzo cerchio su ansa di anfora, Torre Vergara presso Veio (Gam., App., 827)· Appella alla città di Veio come sede dell’ officina in cui fu lavorato il vaso, analogamente alle leggende ARRETI, CAl^EBVS, LVGVDV, NORB, SACYNTO etc. di note stovi-glie (i). Per mezzo di questo e dei seguenti nn. fino al 56 inclusivo, la serie dei bolli figulinari etruschi viene ora ad arricchirsi di parecchi elementi inediti o corretti, tenue incremento, invero, ma non del tutto insignificante, avuto riguardo alla scarsità delle iscrizioni di questa classe. 52. AYDANEM atranes' Atranii. (1) Corp, inscr. lat. II, 4970. Garrucci, Syll., 501-503. Birch, History of atte, poti., II, p. 409. Bruzza, Scop. difigul. in Po\\uoli, p. 10, V. Poggi, Quisq. epigraf. 62. Son noti i bolli d’anfora col nome di TVBVS“^Mi (Tiklat) nella Mauretania (Bruzza nel Bull, dell’ Inst. di corr. arch.. 1873, p. 103 ; Dressel, Ricerche sul monte Testaccio, p. 134); di FAN,iW FORTunae COLonia H ADR'tf«rt, etc· Più frequenti ricorrono le menzioni topografiche su bolli di tegole e di mattoni, e basti citare quelli coi nomi di Tuscolo (Ann. dell' Inst. di corr. aret. 1855, p. 86; Willmanns, Exempla inscr. lat., 2791 a), di Vindobona (C. ». lat. Ili, 4709 sg.), di Sciscia (ib. 4671). La voce OCRICkO del bollo riportato più sopra alla lettera x, può credersi parimenti significativa della città di Ocriclum, come sede dell’officina vascularia del fabbricante C. Popilio. Tenuto conto però del congenere bollo similmente riferito CI LO II C· POPI LI, sembra doversi più plausibilmente ritenere Ocriclo — Ocriclus nome servile di altro figulo dipendente da C. Popilio. GIORNALE LIGUSTICO 2*5 Bollo a lettere rilevate su manico di askos di terra rossoscura. Provenienza Chiusi. Collezione Ancona. Varietà del tipo registrato al n. 51 lettera e, singolare così per l’andamento della scrittura da sin. a d., come per la curiosa paleografia della lettera t in forma di Y (1), come rilevasi dalla tavola annessa. 53* PDECA Bollo a rilievo su manico d'askos di color cretaceo , nel Museo di Firenze. Il gutto essendo di fabbrica e tecnica etrusca, e simile ad altri con etrusca leggenda, questo bollo dovrà classificarsi fra gli etrusco-latini. 54· 303Ί lefre Laetus. A rilievo sul fondo di piatto rosso del genere cosidetto aretino, al disotto del quale è grafita la lettera φ. Prov., Chiusi; Collez. Ancona. L’iscrizione essendo disposta a circolo, si potrebbe anche leggere frele, 0 meglio elefr, cioè eie fr(uce), ma il bollo riportato al n. 51 lettera r raccomanda a preferenza la lezione lefre (Cf. Gam., App., 109). 55· ONTHI2 sintnfr Sintinius d(uxit) a cavo sotto lucerna il cui tondino rappresenta una figura femminile panneggiata sedente in atto di suonar la lira. (1) Di simile paleografìa, appena è se trovo esempio in un tegolo graffito di Moltepulciano (F. 867 ter s). c 2l6 GIORNALE LIGUSTICO Proven. incerta ; Collez. Ancona. Anche qui ricorre la sigla ϋ-, ovvia sui bolli dei figuli etruschi come si vide al n. 51, e che io ritengo nota del perfetto indicativo fruce, lat. duxit. S6· LTHvIA Bollo a rilievo su tegolo del Museo di Firenze. L iscrizione e riprodotta al rovescio così dal Conestabile (Iscrizioni etr. della Gali, di Fir., tv. LX, 212), come dal Fabretti ÇC. 1. i., 277 bis). Al di sotto del bollo è graffita la lettera etrusca Da quanto son venuto esponendo circa i bolli di figuli etruschi fin qui conosciuti, si evince che la maggior parte di essi trovasi impressa su quei piccoli vasi panciuti, a manico e beccuccio, che alcuni archeologi continuano a chiamare gutti, e i più, seguendo il Gerhard, designano col nome di askoi (1), stante la probabile derivazione della loro forma dall imitazione di un otre, ossia di quel recipiente fatto di una pelle di montone 0 di capra, cucita a sacco e legata, che (1) Veramente il guttus ha verso 1 ’askos quel rispetto che il genere ha verso la specie. I romani davano il nome di guttus ad un vaso dal collo esile e dalla bocca ristretta per la quale il liquido usciva a goccia a goccia « Qui vinum dabant ut minutativi funderent, a guttis guttura appellarunt · (Varro, L. L., v. 124, ed. Müller); ma non pare che la forma del recipiente così denominato fosse peculiare. Il gutto che si usava per versare il vino nei sacrifizi (Plin. H. N., XVI, 38) non era certamente uguale a quello che veniva adoperato nei bagni per sgocciolare Polio sulla striglie (Iuven., Sat. Ili, 263); come dall’uno e dall’altro si differenziava nella forma e nelle dimensioni probabilmente il gutto che serviva da ampolla da olio per gli usi domestici (Aul. Geli., XVII, 8). Infatti, tanto William Smith (Diction. of Greck and Rom. antiquities, London 1848, p. 192, 579) quanto più recentemente Anthony Rich (Diction. id., ad. v.) esibiscono diversi esempi del guttus in orcioli e· ampollini che nulla hanno di comune colla forma speciale dell’aiÆoi. giornale ligustico 217 oggi ancora viene usato a contenere vino ed olio in molte regioni dell’ Europa meridionale e dell’ Oriente. Tutto concorre a far credere che questo vasetto di forma Si caratteristica e i cui esemplari son quasi tutti di ottima tecnica, costituisse una specialità etrusca che fu per qualche tempo un articolo di gran moda in tutta la penisola italica, non solo, ma anche al di fuori per quanto si estendeva il raggio dell’ esportazione commerciale etrusca, siccome è attestato dalla copia e dalla diffusione degli esemplari superstiti. L askos, del resto, riproduce una forma prediletta daU’arte paleoitalica, e figura cosi nella suppellettile della arcaica ne-ciopoli esquilina (1) come in quella del sepolcreto della prima età del ferro scoperto ultimamente a Corneto Tarquinia (2), e spettante ad uno strato archeologico che risponde a quello della necropoli di Villanova. La riproduzione del tipo dell’ otre, che è quanto dire del vaso antichissimo e primitivo che le più vetuste rappresentazioni. figurate ci mostrano sulle spalle dei Fauni e dei Sileni, in un ninnolo elegante la cui tecnica ci riporta al periodo del più avanzato sviluppo della ceramica, è consona a quella tendenza all’ arcaismo che fu una nota caratteristica del genio etrusco, e che si manifesta non pur nell’ arte e nell’ industria ma in molti rami dell’attivicà dì qneL popolo; singolare, non escluse le istituzioni politiche. (1Continua) Vittorio Poggi. (1) E. Dressel, op. cit., negli Ann. dell’Inst. di corr. di corr. arch. 1879, tv. d’agg. P. 3. (2) Gherardo Ghirardini, nelle- Notizie degli scavi dì antichità, 18B2, p· 136-215, tv. XII bis, n. i. Veramente il gutto' di Corneto Tarquinia finisce da un lato con una testa di vacca, e porta due figure umane sul manico, ma, astrazione fatta da questi particolari, è evidente che kr forma generale del gutto coraetano s’ inspira al tipo dell’iwibs. 2l8 GIORNALE LIGUSTICO DUE NUOVI DOCUMENTI INTORNO ALLA FAMIGLIA DI CRISTOFORO COLOMBO (i) Ricercando negli atti de' nostri antichi notari ho trovato due documenti relativi, l’uno alla sorella al cognato ed al nipote, e l’altro al padre di Cristoforo Colombo, i quali sono della più grande importanza, e che perciò mi son data premura di trascrivere e di pubblicare. A riguardo del primo osserverò, che, come è noto dal racconto del Casoni (2) e dall’atto del 21 luglio 1489, inserito nel Ragionamento degli Accademici Serra, Carrega e Piaggio (3), Cristoforo Colombo avevi una sorella maritata in Giacomo Bavarello di professione formaggaio. Ma qualunque altra notizia sulla medesima fu affatto sconosciuta, e perfino il nome restò ignoto, perchè taciuto nel-Γ atto indicato. Che se in un cotal albero della discendenza Colombo, fabbricato di capriccio dai sostenitori delle pretese di quelli di Cogoleto e pubblicato nel 1839 dall’ Isnardi, venne chiamata Nicoletta, nessuno mai accettò come vero questo nome, perchè non corroborato da documenti od in-dizii che valessero a giustificarlo. Ora 1’ atto di cui è caso ci fa conoscere il nome di questa sorella di Cristoforo, non solo, ma anche del figlio di lei e del Giacomo Bavarello. (1) Comunicazione fatta alla Società Ligure di Storia Patria, nella tornata del 27 febbraio 1885. (2) Annali della Repubblica di Genova del sec. XVI. Libro 1, anno 1506. (3) Questo Ragionamento lu letto a 16 dicembre 1812 all’ Accademia delle Scienze, Lettere ed Arti di Genova, e pubblicato negli Atti della medesima. GIORNALE LIGUSTICO 219 L atto, rogato dal Notaro Giovanni Battista Parrisola, ha la data del 26 ottobre 1517, ed è un convegno fra detti Giacomo Bavarello e suo figlio Pantalino appunto per le doti di sua madre che avea nome Bianchinetta. — Blanchinetam filiam q. Dominici Columbi textoris pannorum latte. Come è noto, Domenico Colombo maritando sua figlia al Bavarello gli aveva promesso una dote competente, che però non pagava all’ epoca pattuita. Il Bavarello perciò faceva citare e condannare suo suocero , e continuando questi a non pagare, otteneva estimo sulla sua casa fuori porta S. Andrea. Il Colombo si oppose a nome de’ suoi figli Cristoforo, Bartolomeo e Giacomo, allegando che detta casa era ipotecata per le doti della fu sua moglie Susanna Fontanarossa; infine, dopo aver molto litigato e molto speso, si convennero, ed il Colombo rilasciò al Bavarello la casa, la quale fu a.lui investita dal monastero di S. Stefano di cui era livellaria. Il Bavarello dal suo matrimonio colla Bianchinetta Colombo ebbe un figlio a nome Pantalino, il quale si ammogliò con una Mariola figlia di Domenico Chiegale; ed egli venne a convegno con suo padre, che pure era passato a seconde nozze, per le doti di sua madre Bianchinetta, che perciò è chiaro come fosse già morta. Il Pantalino, nell’ atto di cui è caso, è detto di anni 27 e solo ed unico erede di lei. Dai documenti non risulta chiaramente a quanto la dote ammontasse, ma dal convegno del 21 luglio 1489 pare fosse di L. 250. Questa era ipotecata sulla casa fuori porta S. Andrea caduta poi nel Bavarello, e su di essa per detta somma avea diritto il Pantalino, erede di sua madre. Ma sia che al padre rincrescesse di dimettere a di lui favore la casa, sia per altri motivi a noi ignoti, il Pantalino non ne entrò in possesso, anzi rinunziò ad ogni suo diritto sulla stessa, obbligandosi il padre a fargli inscrivere in suo capo due luoghi e mezzo della Banca di S. Giorgio. 220 GIORNALE LIGUSTICO Nell’anno 1419, in cui avvenne questo aggiustamento, un luogo era valutato del provento annuo di L. 3 e soldi 6 , per cui due luoghi e mezzo avevano di reddito L. 8 e soldi 5 CO· Ma non pare che in materia d’interessi fra padre e figlio siano stati molto sul tirato, e le loro relazioni appariscono eccellenti. Il Giacomo con atto precedente, redatto lo stesso giorno , aveva completamente emancipato suo figlio, forse da poco tempo ammogliato. Ed è a credere che i loro buoni rapporti siano continuati, chè il Pantalino viene in aiuto del padre nella compra di una partita di formaggi come risulta da altro atto dello stesso notaro del 21 dicembre 1520. Oltre a ciò 1’ atto in discorso ci porge qualche sicura notizia della famiglia Bavarelli, imperocché si ha la presenza e il consenso di due parenti ; Domenico Bavarello del q. Gio. e Giovanni Bavarello de Bavaro q. Ambrosii. Il primo, come appare dalla paternità, è un fratello del Giacomo, formaggiaro e possessore di casa e botteghe in Ponticello, e di lui trovansi molti atti nelle filze notarili. L’ altro, che è detto de Bavaro, non lascia alcun dubbio sull’ origine, della famiglia loro da detta località, della Podesteria del Bi-sagno, ove il Giacomo possedeva pure una casa come consta da atto del 21 novembre 1520 nello stesso notaro Parrisola. Ora al documento relativo a Domenico Colombo. Sinora si ritenne che 1’ atto più antico, che attestasse della presenza del padre di Cristoforo nella nostra città, fosse il registro dei livelli del monastero di S. Stefano del 1459. Colla scoperta da me fatta di due atti del 1451, l’uno del 26 e 1’ altro del 27 marzo, già indicati nel mio Borgo ài S. Stefano e communicati al valente critico sig. Enrico Harrisse (1) V. Cuneo Carlo, Memorie etc. sopra Vantico libilo di S. Giorgio, ecc. pag. 308. giornale ligustico 221 il quale se ne valse nel suo primo volume del Cristoforo Colombo , e li pubblicherà nel secondo assieme a molti altri finora ignoti e da me trovati, la presenza del Domenico in Genova fu anticipata di sei anni; e poiché si ritiene il Cristo-foro nato verso il 1447, questi ultimi erano i più prossimi alla nascita di Lui. Ora, il documento ultimamente trovato confessa la presenza in Genova di Domenico anche otto anni prima della nascita di Cristoforo. L atto è nelle filze del nótaro Benedetto Pilosio, colla data del 1 aprile 1439, e si riferisce ad un fanciullo accordato con Domenico de Columbo filio bannis textori pannorum lane, per imparare detta arte textorum pannorum lane. Il ragazzo è certo Antonio figlio di Lcdisio de Leverono de Ponte Plicanie, che già avevo trovato assieme al Domenico Colombo in un atto del notaro Andrea De Cario in data 15 marzo 1462, accennato nel mio Borgo di S. Stefano, e che pure sarà pubblicato dall’ Harrisse. Nessuno avvi a cui possa sfuggire Γ importanza di questo documento per la sua data, giacché l’accettazione per cinque anni fatta in Genova da Domenico di un ragazzo nell’ apprendimento di un’arte, indica che qui egli aveva l’abitazione e l’opificio, e può servir di conferma alle dichiarazioni di Cristoforo che leggonsi nel suo testamento, ove parlando di Genova dice: « essendo io nato in Genova », e quindi: « da essa trassi origine e in essa nacqui ». — Stendo yo nacido en Genova, — della sali y en ella naci. M. Staglieno. I. Composicio XXVI octobr. In nomine Domini amen. Cum verum sit, prout confitentur infrascripte partes, quod Iacobus Bavarellus formagiarius quondam Iohannis alias duxerit in uxorem Blanchinetam filiam quondam Dominici Columbi textoris pan- 222 GIORNALE LIGUSTICO norum lane, et cui Iacobo fuerant promisse dotes per dictum quondam Dominicum tunc viventem, per quem Iacobum successive fuerit postullata et expedita executio instrumenti promissionis dictarum dotium, et de mandato E. D. Vicarii sale superioris M. D. Potestatis Ianue rogato per Ieroni-raum Bazurum notarium, ipse Iacobus fuerit consecutus quodam extimum in quadam domo cum appoteca in ea subposita, cum viridario puteo et uno pauco vacuo contiguo dicte domui posite Ianue in contrata S. Andree, quibus coheret antea via publica, ab uno latere domus que fuit quondam Iacobi de Palavania et ab alio latere domus que fuit quondam Thome Carboni et eam nunc tenet Antonius de Copellis de Castiliono, superius et si qui etc., prout de dicto extimo constat publica scriptura rogata per Dominicum De Villa notarium anno de MCCCCLXXXVIIII0 die VIIII Ianuarii, et que domus cum aliis predictis per agentes pro monasterio S. Stephani Genuensis exinde fuit investita in emphiteusim perpetuam dicto Iacobo pro se heredibus et successoribus suis ex eo natis et nascituris de legip-timo matrimonio, prout de predictis constat publico instrumento emphi-teusis et locacionis perpetue rogato per Iohannem Antonium de Savignono notarium anno de MCCCCLXXXXII die ultima martii, quod extimum etiam per dictum Dominicum fuit comprobatum vigore pubblici instrumenti rogati per Laurentium de Costa notarium anno de MCCCCLXXXVIIII die XX primo Iulii, de quo et de dicto instrumento livelli fit mentio, quibus omnibus brevitatis causa habeatur relacio. Cumque etiam verum sit quod ex dictis Dominico (sic) et Blanchineta eius prima uxor jugalibus et in figura matrimonii habitantibus natus et procreatus fuerit de legiptimo matrimonio Pantalinus filius legiptimus et naturalis dicti Iacobi ex dicta Blanchineta, et cuius quondam Blanchinete dictus Pantalinus fuit et est unicus filius et heres in solidum, et propterea dictus Iacobus Bavarellus éx una parte et dictus Pantalinus Bavarellus eius filius et ab eo emancipatus vigore publici istrumenti manu mei notarii infra-scripti hodie paulo ante, tanquam heres et hereditario nomine dicte quondam Blanchinete eius matris, ac maior etiam annis viginti septem ut palam et publice confitetur ex parte altera. Sponte etc. Et omni meliori modo etc. Pervenerunt etc. Renunciantes etc. Videlicet quia ex causa dictorum pactorum compositionis et aliorum de quibus supra et infra, dictus Iacobus promissit et promittit dicto Pantalino dicto hereditario nomine, presenti acceptanti et stipulanti pro se et suis heredibus, eidem Pantalino dare et solvere ac in eius ratione et columna in cartulariis comperarum S.Georgii scribere et seu scribi facere supra nomine et in ratione ac columpna dicti Pantalini, sive alterius persone cui commi- giornale ligustico 223 serit et mandaverit, loca duo comperarum S. Georgii cum suis pagis et proventibus ad omnem et simplicem requisicionem et liberam voluntatem dicti Pantalini dicto hereditario nomine, sive legiptime persone pro eo, omni exceptione remota; et sunt ad complementum et pro omni eo et toto quod et quantum dictus Pantalinus, dicto hereditario nomine dicte quondam Blanchinete matris ipsius, pro dotibus et occasione dotium dicte quondam Bianchine in bonis dicti Iacobi ac in dicta domo cum aliis predictis et suis pertinentiis petere poterit, et seu posset. Et versa vice dictus Pantalinus dicto hereditario nomine acceptans omnia et singula predicta, promissìt et promittit dicto Iacobo eius patri, presenti et acceptanti et stipulanti pro se et suis heredibus, eidem Iacobo eiusque heredibus et successoribus non inferre nec movere aliquam littem causa et occasione dotium maternarum ipsius Pantalini, nec etiam in dicta domo, attento quia computatis dictis locis duobus cum suis proventibus ut supra ipsi Pantalino dicto hereditario nomine promissis et solvendis per dictum Iacobum, ipse Pantalinus confessus fuit et confitetur habuisse satisfacionem integram dictarum dotium maternarum ; quare salvis dictis locis duobus cum suis proventibus ut supra promissis per dictum Iacobum dicto Pantalino dicto hereditario nomine, dictus Pantalinus dicto hereditario nomine quitavit et quitat dictum Iacobum presentem acceptantem et stipulantem pio se et suis heredibus etc. ab omni eo et toto quod et quantum a dicto Iacobo seu in eius bonis petere potuisset et seu posset, et pres-sertim (?) in dicta domo causa et occasione dotium maternarum ; et hoc per acquiliianam stipulacionem precedentem et acceptacionem subsequentem verbis solemnibus introductis. Faciens Pantalinus dicto hereditario nomine reservationem de ipsis locis duobus cum suis proventibus pro predictis, sine etc. Insuper, salvis predictis, dictus Iacobus ex una parte et dictus Panta-hnus ex alia se quitaverunt et quitant ab omni eo et toto quod et quantum ad invincem et vicissim generaliter et generalissime quavis de causa petere potuissent seu possent usque in diem et horam presentem. Facientes, salvis predictis, finalem etc. Insuper dictus Pantalinus promissit dicto Iacobo facere et curare rea-liter et cum effectu quod Mariola eius uxor et filia Dominici de Iegalus consentiet presenti instrumento, et renuntiabit omnibus et singulis juribus eidem Mariole competentibus in dicta domo causa et occasione contenta in presenti instrumento, tam causa et occasione dotium extradotium et antefatti ipsius Mariole quam alia quacumque de causa que dici vel excogitari possit, et hoc per publicum instrumentum publici notarii conficiendum 224 GIORNALE LIGUSTICO cum clausulis cautelis et solemnitatibus oportunis et in similibus consuetis. Que omnia etc. Sub pena dupli etc. Ratis etc. Et proinde etc. Iurans dictus Pantalinus. Faciens ad cautelam dictus Pantalinus predicta omnia et singula in presentia, consensu, auctoritate et voluntate dicti Iacobi patris, presentis authorizantis volentis et consentientis omnibus et singulis suprascriptis, consilio et consensu Dominici Bavarelli formagiarii quondam Iohannis et Iohannis Bavarelli de Bavaro quondam Ambrosii duorum ex melioribus etc. Quibus omnibus ct singulis suprascriptis interfuit sapiens et egregius utrique iuris doctor dominus Sebastianus Ferretus vicarius prime sale M. D. Potestatis Ianue, existens pro tribunali in sala curie egregii domini Iudicis malleficiorum, quem locum etc. Laudans etc. Actum Ianue in palacio novo comunis, in dicta sala curie egregii domini Iudicis malleficiorum, anno dominice nativitatis MDXVII, indictione quinta secundum Ianue cursum, die lune XXVI octobris in vesperis, pre-sentibus Niccolao de Prato et Baptista de Poliascha notariis civibus Ianue testibus ad premissa vocatis specialiterque rogatis. (Atti dei not. G. B. Parrisola. Filza 31. 1512 N. 529. — Ivi unito è l’atto 29 ottobre, stesso anno e notaro, con cui Mariola figlia di Domenico Yegale e moglie del Pantalino Bavarello rinuncia ad ogni suo diritto sulla casa di cui in atto precedente. Detto atto è in abbreviazione). II. In nomine Domini amen. Petrus de Verzio de Fontanabona quondam Gui-liermi, habitator dicti loci, promisit et solemniter convenit Dominico de Columbo filio Iohannis textori pannorum lane, presenti stipulanti et recipienti, quod Antonius filius quondam Lodisii de Leverono de Ponte Cicanie, etatis annorum XIIcim in circa, stabit et perseverabit cum ipso Dominico pro famulo et discipulo suo ad artem ipsam textorum pannorum lane et ad exercitium ipsius artis annis quinque proxime venturis, nec ab eo recedet toto dicto tempore, res et bona sua custodiet et salvabit, nec furtum aliquod in domo ipsius Dominici magistri sui committet. Versa vice dictus Dominicus acceptans predicta, promisit dicto Petro presenti, tenere toto dicto tempore dictum Antonium in eius domo, ip- GIORNALE LIGUSTICO 225 sumque pascere et vestire sanum vel infirmum secundum morem similium famulorum, et eum docere dictam artem toto posse suo. Que omnia etc. Sub pena librarum decem ianuinorum etc. Ratis etc. Et proinde etc. Acto tamen et expresse convento inter ipsas partes quod si in dictum tempus dictorum annorum quinque pestis in Ianua vigeret, tunc et eo casu liceat dicto Antonio a dicto suo magistro recedere et aufugere a dicta peste ac ire quo voluerit; qua peste cessata, teneatur et debeat redire ad serviendum dicto Dominico magistro suo dictis annis quinque, sive illam partem quo restaret, ita quod tempus quo staret seu stetisset absens computari non debeat in dictis annis quinque. Insuper Berterius frater dicti Antonii et Nicolaus de Fontanabona, consanguineus germanus eiusdem Antonii, volentes facere cautum dictum Petrum pro et occasione dicte promissionis per ipsum Petrum ut supra facte, et omnium et singulorum in presenti instrumento contentorum, promiserunt ipsi Petro presenti stipulanti et recipienti, et uterque ipsorum m solidum, conservare eundem Petrum et bona sua indemnem et indemnia a dicta promissione, et ab omnibus contentis in dicto instrumento, sub etc. Actum Ianue in platea palatii ducalis comunis lanue prope, hostium dicti palatii, ànno dominice nativitatis millesimo quadringentesimo trigesimo nono, indicione prima secundum Ianue, cursum die mercurii prima aprilis, presentibus testibus Iacobo Mazurro notario quondam Stephani et Petro Antonio Narixe qm. Iohannis civibus Ianue, vocatis et rogatis. (Notaro Pilosio Benedetto, Filza 1.* N. 96). DI UNA PATERA DI VETRO TROVATA IN UN SEPOLCRO DELL’ ANTICA AlBIO-InTEMELIO Fertile oltre ogni dire di preziosa suppellettile archeologica si mostra da alcuni lustri il suolo arenile di Nervia, presso la città di Ventimiglia, sotto del quale sta sepolta grande parte dell’ antica Albium Intemelium, capitale dei liguri Intemelii, e sotto cui mi era dato di scoprire, or sono alcuni anni, un monumentale Teatro degno dell’ età romana cui si riferisce. — Ad occidente e a pochi metri discosto da detto teatro, sopra un monticello di sabbia, tisicamente vegetavano Giorn. Ligustico. Anno XII. 226 GIORNALE LIGUSTICO alcuni alberi d’ olivo, proprietà del sacerdote Giorg’10 e mentre nel 1882 si attendeva a sbarazzare quel sito <■ _ duna di finissima arena, accumulatavi dai venti, per servir^ di essa nella costruzione delle eleganti ville di Mentone e Monaco, si videro a tornare in luce due file paraHe^e ^ 6 fìcii, nella direzione di E. O., che lasciando in mezzo ^ _ loro tracciata una capace via che metteva alla sponda sini stra del fiume Roja, offrirono agli sguardi dei Ventimig^51 la via dei Sepolcri dei loro antichissimi antenati. All’ infuori di alcune edicole cilindriche, coronate ^ CU. pola e fregiate di titoli marmorei sepolcrali, tutti g^ a^tn edifici, sebbene di differente grandezza, hanno forma rettan^ golare col muro di facciata terminante in cuspide ; ne^ cU1 mezzo stava ancora la iscrizione, 0 l’incavo che facea chiaro esserne stata in altri tempi asportata. La maniera di costi 11 zione è quella conosciuta dagli antichi col nome di isodomum, e quei filari orizzontali di pietre d’ uguale altezza, collegate tra loro con poco e duro cemento, danno un’ impronta speciale architettonica a quelle stanze sepolcrali. — Impronta che non isfugge dalla mente cosi di leggieri, pel fatto di vedere stanze rettangolari condotte con ogni diligenza possibile, prive di porta d’ingresso 0 di qualsivoglia altra apertura per penetrarvi, ed in cui i cadaveri, 0 gli avanzi del rogo e le urne cinerarie e le mille ragioni d’ oggetti che vi si inchiudevano , era necessario vi fossero introdotti dall’ alto per mezzo di scale, lasciandoli esposti alle intemperie dell’aria, per non trovarsi reliquie di volte 0 di tetto che li proteggesse. Poche furono le stanze funerarie che serbarono lo scheletro incombusto ; la più parte di esse conservava le ceneri dei trapassati in urne di cotto, di varie forme, e qualche rada volta in capaci urne di vetro. Quattro grandi anfore, 0 diote, ricorrevano d’ ordinario ai quattro angoli delle stanze ; ed offrivano una larga apertura, praticata appositamente con GIORNALE LIGUSTICO 227 qualche corpo contundente, affine di potervi immettere dentro tutti quanti gli utensili, i vasi, i calici e le patere che aveano servito alla funebre cena, e altri preziosi oggetti che avevano appartenuto all’ estinto. Vi si rinvennero lucerne, monoclini, e biciini, unguentari, anfore, lagene, guti, ciati e vasi di diversa configurazione; come si ebbero pure situle, strigili, dattilioteche, dadi, orecchini, anelle d’ oro e vasi di vetro di così squisito lavoro, da lasciare non dubbia testimonianza dell’ opulenza delle famiglie che vollero alzare tali monumenti ai loro trapassati: famiglie, che in una ventina incirca di marmi scritti, per buona sorte strappati alle rapacità di stranieri incettatori, sono appellate Giunia, Apionia, Bellenia, Ottavia, Afrania, Licinia, Minicia, Albicia, Emilia, Bizia, Saloia, Statoria e Vezzia. Fra i preziosi oggetti che si poterono estrarre ancora intatti, merita speciale ricordo una patera, di cui è cenno nelle Notizie, degli scavi del 28 luglio 1882, e che si conserva nel-l’incipiente Museo d’ antichità ventimigliese. — Ha dessa la forma di un vaso circolare incavato, del diametro di 0,195 internamente, di 0,198 esternamente e della altezza di 0,045; il quale presenta sulla sua superficie esterna intagli ed impronte che disegnano'figure di mirabile esecuzione. Campeggia nel bel mezzo il figlio di Nettuno e di Anfitrione , il compagno delle Nereidi, voglio dire il semidio Tritone, il quale conserva le più belle forme d’ uomo fino là, dove la schiena perde il nome; nel qual punto da un giro di pinne o natatorie, sbuca fuori una coda di pesce, che si alza e si svolge in due ampie volute, per terminare in punta biforcata, mentre sul davanti, di sotto il ventre spuntano due gambe di toro, sulle cui estremità, invece di zampe , stanno due natatorie , come si riscontra nelle antiche pitture di quadrupedi ittiofagi. Il volto del semidio è disegnato di profilo a sinistra, col capo cinto d’ una specie di diadema, nel modo appunto onde 228 GIORNALE LIGUSTICO si vede rappresentato Tritone in un’erma colossale? descritta da E. Quirino Visconti; il braccio destro prosteso è in ‘ltto d’impugnare una lunga conca marina, da cui si spicca un lambello che svolazza attorno; e con tale istrumento, segnale del suo ufficio (dovendo come trombettiere di Nettuno an nunziarne l’arrivo), va, direbbe Bernardino Baldi, Spargendo il stion della canorea tromba, mentre colla sinistra sostiene una tazza, che ha forma d un cratere di grazioso e peregrino disegno. — Lascio alle dotte indagini di qualche erudito ricercare il significato di due pic-coli segni a foggia di ricci che sovrastanno alla mano. Guizzano attorno al Tritone, in guisa da occupare, non solo tutto il fondo, ma ancora una porzione delle sponde del vaso, quattro pesci dalla larga coda con lunghe pinne dorsali e ventrali; dai quali, uno sopra il capo, e gli altri tre sotto il ventre del semidio, vanno correndo da sinistra a destra, lasciando nelle intercapedini accoppiati a due a due, oggetti di forma elittica, i quali non si tarda a riconoscere per altrettante natatorie, staccatesi dal dorso del Tritone o da quello dei pesci istessi. Questo ha di particolare il disegno della nostra patera, che mentre d’ ordinario il figliuolo di Nettuno viene ritratto in figura d’ uomo nella parte superiore, ed in quella di pesce nella inferiore; qui presenta invece le gambe di toro e la tazza, attribuzioni tutte di Bacco. Al qual uopo fa di bisogno ricordare, come nella antichità venisse dai poeti e dai mitologi attribuita ai Tritoni la stessa passione pel vino, che si attribuiva ai Fauni ed ai Satiri; di modo che si potevano considerare come insieme associati il culto della divinità del mare con quella del dio del vino. — E si è appunto coi piedi di toro che si vedono rappresentati i Tritoni nel Coro delle Nereidi, descrittoci dal Visconti; e si è pure con una GIORNALE LIGUSTICO 229 corona di pampini, che ci si offre altro Tritone, descrittoci dallo stesso insigne archeologo. Gli è impossibile gettare lo sguardo sopra quest’ oggetto d’ arte antico, e non ammirare la perizia somma e la diligenza, onde furono eseguiti gli incavi che contornano le diverse figure, come pure non lodare i tratti disegnati a punta di punzone, i quali completano i particolari dell’ artistica composizione. 11 grazioso girare della clamide o corona, in cui stanno raccolti i capegli, e che dà al semidio un’ aria di maestà, e il tondeggiare delle carni, e il passare senza crudità dall’ uno all’ altro membro, e la naturalezza con cui sono rappresentati i pesci, attestano del merito dell’artista che eseguiva il lavoro. — E si fu senza dubbio in considerazione del non comune suo pregio, che detta pàtera, sia per 1’ antichità sia per qualche sgraziato accidente , avendo sofferto alcune avarie, venne dagli ultimi suoi possessori fatta diligentemente racconciare, come lo chiariscono le quattro saldature, eseguite con mastice bianco, ancora aderente alla pàtera stessa. Credono alcuni archeologi, che per lavorare cammei o altre opere d’intaglio venissero dagli antichi artisti scelti materiali colorati, adatti al soggetto che volevano rappresentare , cioè il vetro nero per ritrarre Proserpina, Γ ametisto per Bacco, il diaspro per Marsia, e il vetro ceruleo per Nettuno ed i Tritoni. Il nostro cimelio starebbe a conferma di tale asserzione; perchè se ora il vetro è in parte iridescente, era in origine leggermente azzurro; nel qual campo dovevano con ottimo effetto spiccare tutti i contorni e i tratti a punta di punzone dell’ intero disegno, messi anticamente in oro, come si ha da alcuni resti sfuggiti alle ingiurie dei secoli. Tale prezioso vaso, da assegnarsi pare ai primi secoli dell’èra volgare, venne forse intagliato da qualche artista della Magna Grecia, dove per la produzione di squisitissimi vini, 230 GIORNALE LIGUSTICO i Tritoni venivano di consueto ritratti non solo coi simboli degli attributi del dio del mare, ma si ancora con quelli del nume che presiedeva alle vendemmie. Girolamo Rossi. VARIETÀ / UNA LETTERA INEDITA DELL’ABATE CASTI Di Giambattista Casti molte lettere politiche die’ alcuni anni or sono in luce, dottamente illustrandole, il sig. Emanuele Greppi (1); e certamente il periodo di tempo, fervido d’avvenimenti, al quale tali lettere appartengono (1792-93), dà loro quell’ importanza storica, cui non può aspirare la lettera dello stesso Abate che viene qui pubblicata. La quale ho tratta dalla corrispondenza del dotto Monsignor Angelo Fabroni (2), che giace autografa nella R. Biblioteca Universitaria di Pisa (3) ; ed è lettera più curiosa che importante senza dubbio, nè invero ha altre e maggiori pretese. Benché in essa si trovino rammentati i principali personaggi intorno ai quali s’aggirò come satellite l’Abate poeta e cortigiano, da Giuseppe II al Principe di Rosemberg, da Leopoldo al Ministro Gherardini, non ci dà però notizie politiche segrete, o peregrini racconti di nascosti e piccanti pettegolezzi: ci dice soltanto quel che pensava il poeta stipendiato (1) Arcb. Stor. Ital. Ser.. 4, IV, 200. — Misceli, di Stor. Hai., Torino, Bocca, Ser. 2, T. VI. (2) N. 1732 — m. 1803. — Cfr. la sua Autobiografia in Vitae Ital., vol. XX. Fondò il celebre Giornale dei lett. Pis., e fu Provveditore allo ■studio di Pisa. — Vedi E. Micheli. Storia dell’ Università di Pisa in Annali delle Univ. Tose. XVI, p. 19. (3) MS: Sa4 — 422-3. — La lettera del C. è alla filza G. 17. GIORNALE LIGUSTICO 231 dalla Corte Viennese (che qualche volta era anche elevato alla dignità di intimo consigliere (1)) su quegli anni burrascosi, nei quali al governo dell’impetuoso Giuseppe, invaso dalla vertigine di riforme, spesse volte imprudenti , quasi mai opportune, succedeva il saggio ma agitato impero del fratello Leopoldo. Di più il Casti ne riferisce in forma briosa ed allegra il suo viaggio a Costantinopoli, quando per la presentazione del Poema Tartaro all’imperatore, si senti graziosamente esortato a cambiar aria. Senonchè, in questo benigno consiglio non si deve per avventura riconoscere un segreto movente politico, una specie di missione diplomatica appena velata dall’ apparenza di sfratto ? L’ Ugoni lo dubita (2): e forse a tal dubbio si potrebbe trovare un appoggio non dispregevole nella lettera presente. Infatti lo scrittore, parlando del suo prossimo ritorno a Vienna , non accenna affatto alla disgrazia imperiale, che da quella città 1’ avrebbe tenuto lontano, ma dice solo : « Vi pregherei d’im-» plorarmi la sua protezione (di Leopoldo), cosa che spero » di fare io stesso a Vienna, quando mi vi renderò di nuovo, » come desidero e come mi propongo di fare » — « Quando vi tornerò » e non « se vi tornerò » ; « come mi propongo di fare » e non « se mi sarà concesso di farlo » : notisi bene la differenza. Ma ecco ormai la lettera. Come epistolografo, specialmente di cose politiche, il Casti ha una certa acutezza d’ osservazione , qualche volta condita da una vivacità di stile piacevolissima; qualità che si rivelano nelle lettere citate messe in luce dal sig. Greppi, e in quelle edite altra volta in (1) C. Ugoni. Vita dell Ab. Casti. Nel 1 voi. della Lctt. it. nella 2.a metà d. sec. XVIII, Milano 1856, p. 117. (2) Op. cit., p. (20. GIORNALE LIGUSTICO questo stesso giornale (r). Tali pregi, non troppo comuni, francano, credo, la spesa anche di questa nuova pubblicazione. Alfredo Saviotti. Monsig. mio Riv.mo Milano li 24 Aprile 1790. Gran cangiamenti di cose, Monsig. mio Riv.mo, dacché ci siam veduti 1’ ultima volta. La Monarchia Austriaca, che tranquilla, contenta e pacifica era stata trovata da Giuseppe II (2), per colpa (parliamo schietto) d’ un troppo precipitato dispotico governo, e d’ una mal concepita, e mal diretta politica (3) , si trova ora dal successore smembrata, tumultuante, e involta in una disastrosa arbitraria guerra, le di cui conseguenze tanto facili a prevedersi, non si è voluto aver neppur la pena di prevedere. 1 tratti di saviezza, di giustizia, i generosi sentimenti di filosofica moderazione che Leopoldo II ha spiegati nel bel principio del suo regno, e gli hanno meritate le universali acclamazioni e ci fanno sperare un felice progresso. Proseguendo di questo passo la gloriosa sua carriera richiamerà fra i suoi sudditi la tranquillità, la fiducia, e l’amore verso il loro benelìco Sovrano , e con prudente avvedutezza saprà slontanare, e dissipare i minacciosi nuvoli che si formano, e s’addensano attorno alla Monarchia, o con vigore romperli, e dileguarli. Questi sono i miei voti , i miei desideri, le mie speranze. (1) A. XI, Fase. 7-8, p. 282. (2) 11 Casti aveva conosciuto per la prima volta 1’ Imperatore a Firenze , quando questi vi si era recato a trovare il fratello Granduca Leopoldo. — Era stato il poeta presentato a quella corte dal musico Guarducci, e un epitalamio da lui scritto nell’ occasione delle nozze del Principe fu, come a dire, il primo passo cortigianesco dell’ abate. (5) Non meno severo è il giudizio che il C. stesso in una sua ottava dà della politica esterna di questo principe (cit. in Franchetti, St. d'Italia dal 1789 al 1799. Collez. Vai-lardi , p. 26 nota) : « La Schelda aprir , dar legge al Prusso altero , Domar 1’ orgoglio del Fiammingo audace , All’ Austria unire il Bavarese impero, Spinger d’ Europa oltre i confini il Trace , Navi inviare all’ indico emisfero, Esser temuto in guerra , amato in pace, L’imprese son che T immortai Giuseppe Ravvolse in mente ed eseguir non seppe ». GIORNALE LIGUSTICO 233 In questa bella prospettiva di cose la sola Toscana par che peggiori di condizione. Perde Ella la presenza del suo Sovrano, e diviene di nuovo provincia. Communicatemi di grazia il vostro sentimento, e la vostra sensazione in queste circostanze. Oltre al Sovrano sento, che perderete in breve tutta la Reai famiglia. Il carattere dolce, pio, umano di cotesta buona Sovrana (1) son persuaso, che faceva la delizia vostra , come di tutta la Toscana. Se non losse un’ indecente arditezza vi pregherei di mettermi a’ suoi piedi, e d’implorarmi la sua protezione, cosa che spero di fare io stesso in Vienna quando mi vi renderò di nuovo , come desi-dei 0 e come mi propongo di fare. Io alla mia età non cerco e non voglio nulla: ma amo naturalmente e passionatamente i buoni Sovrani (2), perchè li riguardo come un vero regalo, che il Cielo non molto frequentemente fa alla misera umanità. Suppongo che al giungervi di questa mia, Ella sarà ancora in Pisa. Siccome poi si vocifera, che il generai Manfredini (3) verrà da Vienna per accompagnar colà tutta cotesta Reai famiglia, in tal caso vi prego vedendolo di ricordargli la mia servitù, e la stima che ho concepita per Lui, e per le qualità sue personali, e per 1' eccellente educazione data a cotesti Principi, dei quali fui incantato in quei momenti, che ebbi l’onor di conoscerli, e trattarli, onore, che spero di rinnovare parimente a Vienna. La fiducia che in quel degnissimo soggetto ripone il Sovrano, e la stima di cui 1 onora fanno prova incontestabile, ed insieme 1’ elogio del suo merito. Non bisogna che neppur mi dimentichiate presso la gentilissima e amabilissima dama, alla conversazione di cui ci trovammo Manfredini , voi, ed io. La Contessa Catanti, se non erro. Scusate se la moltiplicità delle tante conoscenze, che è obbligato a fare un viaggiatore , o sia un vagabondo par mio, mi fa nella memoria una confusione di nomi. (1) Maria Luisa di Borbone , infante di Spagna , che andò sposa a Leopoldo il 5 Agosto dal 1765. (2) Anche altrove esprime lo stesso giudizio su Leopoldo. In una lettera a una dama (cit. in Ugom I, 189) parlando della Dichiarazione di quel Principe ai Fiamminghi , cosi si esprimi: « La magnanima dichiarazione ai Fiamminghi porta il carattere di profonda saviezzza e di filosofica moderazione...... Non convien toglie,e a Leopoldo il merito, sì raro fra i principi , di conoscere e pubblicamente confessare la verità. Egli si protesta di far giustizia e non grazia ». (i) N. 1743 a Rovigo. Tornato a Firenze nel 1776, dopo aver preso parte alla guerra dei sette anni, era stato creato precettore dei figli di Leopoldo. Morto Giuseppe II, e dal suo successore condotto a Vienna, fu fatto magnate d’ Ungheria, consigliere intimo e gran maggior-domo. Morì nel 1829: fu sommamente stimato da Napoleone. 234 GIORNALE LIGUSTICO Dopo F Epoca in cui ci siam veduti costà voi avete trascorso un bel tratto di Terra (i), ed io un molto più lungo tratto di mare. Di Voi ebbi di tempo in tempo delle nuove dal Conte di Rosemberg (2) nostro principal Santo Protettore in Terra (3). In quanto a me ho fatto come sapete il viaggio di Costantinopoli col Bailo Veneto (4): viaggio per tanti titoli interessantissimo. Oltre quell’immensa metropoli, la di cui situazione, ed esterna prospettiva è un incanto che sorprende, ferma e rapisce, ho veduto Smirne, diverse Isole dell’ Arcipelago, parte della Grecia, tutto il Levante Veneto, e parte della Dalmazia, e dell’Istria, e ciò al ritorno in compagnia di un uomo così pulito e così istruito, come Zu-lian (5). Ma ciò, che sopratutto mi rese entusiasta fu Atene. La memoria degli illustri Personaggi, che calcarono quel suolo, e delle memorabili azioni ivi seguite mi riempirono la testa, e il cuore d’entusiasmo. Oh come avrei desiderato d’avervi presente! Vi restano ancora dei rispettabilissimi monumenti dell’ antica magnificenza pubblica , e gusto Attico. Ciò che più d’ ogni altra cosa mi rapì fu il famoso Tempio di Minerva (1) Nel 1785 il Fabroni era andato in Germania , dove stette più mesi « dicesi — scrive Γ Alfieri a Mario Bianchi — per ragioncine di corte: di fare o non fare da antiquario ai Reali di Napoli ». Lei.'/. ined. di V. A. pubbl. da Bernardi e Milanesi. Firenze, Le Mounier 1864, p. /11 — Del rimanente anche Mons. Fabroni aveva viaggiato molto: perchè, avendolo nel 1772 il Granduca nominato istitutore dei propri figli, il mite e tranquillo Prelato pauróso delle brighe cortigiane e dell’ ufficio delicatissimo e invidiato, chiese ed ottenne licenza da Leopoldo di fare un viaggio. Andò prima in Francia, poi in Inghilterra, e per poco non si recò anche in America per invito di Beniamino Franklin, da lui conosciuto a Londra. Tornò in patria nel 1773. Cf. Elogio biografico di lui, Firenze, 1845, p. 16. (2) Volfango Orsini, conte di R. (1725-96) antico e devoto famigliare di Maria Teresa, per ordine della quale s’era recato in Toscana col .seguito del giovane Granduca. A lui fu presentato allora il nostro abate , che seppe entrar subito nelle sue grazie e fu sempre il suo beniamino. — Cfr. Lett. politiche cit. in Miscellanea, p. 137, 154, nota, e passim. (3) Ben dice « nostro » , alludendo anche al Fabroni, che, amico del Gran Ciambellano, per mezzo suo era stato nominalo Priore di S. Lorenzo. Ne lo avvisa Giulio Rucellai con lett. del 21 aprile 1767 (Filza F. 37): «... . Non dubito che Ella non lascerà di fare quello che a crede proprio direttamente con S. A. R. e con S. E. il Sig. Conte di Rosenberg a cui Ella » dee tutto il suo avanzamento ». (4) Il Bailo Fosoarini, che salpò da Venezia alla volta- di Costantinopoli il 30 Giugno 1778. i's) Girolamo Zulian, ambasciatore della Serenissima a Roma, « gran Signore, gran buongustaio delle orti , protettore dei bravi giovani e delle belle donne ». Silvagni , La Corte e la Società Romana ecc. Roma, 1884, I, 404, 457. — Era stato Bailo di Costantinopoli antecedentemente al Foscarini ; e a lui devesi il trasporto in patria di vari antichi ed insigni niDiiumenti, fra i quali il prezioso cammeo di Giove Egioco trovato in Efeso ed illustrato poi da Ennio Quirino Visconti. — Cfr. Moschini G. A. La letteratura Venez, del sec. XVIII. Ven. 1806, II, 97 e Franchetti op. cit., p. 11 sg. GIORNALE LIGUSTICO 235 situato nella fortezza: anticamente: Acropoli. Poco più d’uri secolo fa era ancora intero. Il Bombardamento del Doge Morosini ne atterrò una gran parte: Marte non ha mai rispettato Minerva. E i soli Alessandri, e i soli Cesari risparmiavano quei Luoghi, ove sapevano conservarsi qualche capo d opera dell’ arte. Ma quel che vi resta ancora , è prezioso. Sapete che quel tempio fu fatto innalzare dal magnifico Pericle : e le sue sculture eran tutte de’ suoi due amici Fidia e Scopa. Esiste ancora sopra colonne di straordinaria mole, e nello stesso tempo di somma eleganza, e proporzionatissima simmetria gran parte del fregio in cui sono scolpite a gran rilievo le spedizioni di Teseo per mano dei detti Artisti, e in gran parte si veggono ancora intatte: che maraviglioso e piacevole spettacolo-non sarebbe stato quello per un amatore, e Intelligente delle belle Arti, come Voi siete. Io ho fatto una piccola relazione di questo mio Viaggio, che per altro non ho ancora ben ordinata e ripulita: se mai capiterà allora in mano della gente indiscreta, minacciano fin da ora di pubblicarla. In tal caso ve ne manderei una copia (1). Ma è tempo ornai, che finisca di seccarvi. Aggiungerò solo che ho passato ultimamente più di 2 mesi a Torino presso il mio buon amico Ghe-rardini (2) e che penso per Giugno di trasferirmi a Vienna, ma in ciò dipendeiò in tutto dal suggerimento, e direzione del nostro Conte Ro-semberg. Faterai grazia di darmi una imparziale, sincera, e compendiosissima informazione di un certo Avvocato Baldasseroni , che dicono aver auto qualche sfavorevole anedoto costà, e che presentemente è a Modena (3). ■Addio. Vostro Aff.mo e dev.mo Amico e Servo xAbate Casti. (1) Fu stampata per la prima volta a Milano, quindi ristampata nelle Opere Varie , Parigi (Pisa) presso Teuri (Rosini) 1821. T. V. in fine. È in forma di lettera ad un amico e non oltrepassa le 42 pagine in-12. Cfr. Ugoni, op. cit., p. 181 seg. (2) Il march. Maurizio G'nerardini , Ministro plenipotenziario d’ Austria a Torino. V. Mi-scellait, cit., p. 135, 137 sg. (3) Due Avvocati di tal nome, Pompeo e Ascanio, vissero in questo torno di tempo in Pisa. Il primo (m. 1807), autore di un trattato Del Cambio e d’altri scritti sul Codice di Commercio, aveva studiato Diritto nell’Ateneo Pisano, e, dopo avere occupato qualche posto di minore importanza a Siena e a Genova, era stato nominato membro dell’Alto Tribunale a Modena: il secondo, Ascanio, nipote dell’altro, fu Cav. dell’Ordine di Santo Stefano e Auditore della R. Rota di prima appellazione in Pisa. Si dilettò anche di poesia estemporanea. Mori nel 18*4 nell’ età di 73 anni. V. Necrologia ii lui in N. Giorn. di Leti. XI, 87, e Fr. Pera Ricordi e biografie livornesi. Livorno, Vigo, 1877, p. 28t. - Dello sfavorevole anedoto non m’è riuscito trovar tràccia : a quale di questi due Baldasseroni vuol qui alludere il C. ? 236 GIORNALE LIGUSTICO SPIGOLATURE E NOTIZIE Due lettere al Capriata. — Nell’antecedente fase. (pag. 148) abbiamo riferita una lettera di Pier Giovanni Capriata al Duca di Mantova, ed eccone ora due di questi a lui, pur edite dal Bertolotti (Bibliofilo , giugno, 8S) : 28 novembre 1625. Io non posso se non aggradire l’opera di V. S. portando seco le uiue ragioni mie et di questa Casa sopra il Monferrato ; et quanto più ella andaua ritenuta in mandarmela , tanto più mi ritardaua il gusto che ho sentito per la difesa che ha fatto per la mia giustitia. Viua dunque ella sicura che conseruerò grata memoria di Lei in qualsiuoglia occorrenza sua, et conoscerà sempre gli effetti dell’ ottima mia uolontà uerso di lei alla quale mi raccomando et desidero ogni bene. 2 gennaio 1627. La tardanza dell’ufficio di condoglianza et della congratulatione ch’ella passa meco per gli auuenimenti di questa casa e miei, non ha perduto meco di merito, perchè m’ è noto l’osseruante suo affetto. Ho però aggradito la dimostratione dell’animo suo accompagnata con 1’annuntio delle buone feste. Et perchè il suo ualore m’ è noto et ho buona conoscenza della sua persona, per ciò la rendo sicura d’un ottima uolontà che le mostrerò in effetto all’occorrenze sue, et le desidero ogni bene. Dalla prima lettera apparisce evidente la prova, che i primi due libri della Ssua toria vennero pubblicati dal Capriata per servire alle ragioni e alle pretese del Duca sul Monferrato. * * * Nello spoglio de Le Cedole di Tesoreria dell’Archivio di Sialo di Napoli fatto da N. Barone (Arch. Storico per le prov. napolet. a. X, fascicolo I) troviamo alcuni pagamenti fatti nel 1491 e 1493 a Ippolito Lunensis per trascrizione di un’Opera di Platone « traslatata dal greco in latino ». Probabilmente si tratta dello stesso scrittore accennato dalla Biblioteca Of-fembachiana (Cfr. Sforza, La patria, la fam. e la gioviti, di Niccolò V, 335), e che potrebbe identificarsi con Ippolito Medusei di Sarzana umanista (Cfr. Gerini, Meni. stor. illust. scrii, di Lunigiana, I, 90) e poeta (Cfr. D’Ancona, Studj d. s. lett. ital., 155), che ha rime nel raro libro intitolato : Collettame grece, latine e vulgari nella morie de VArdente Serafino Aquilano, Bologna 1504. * * * La rivista Aus alien ζeiten und Laudai, Iahrg II, hf. 2, contiene un articolo di Osmin intitolato : Fieschi storico, nel quale narrando i fatti della congiura secondo la storia, avverte che le trame attribuite al protagonista da Schiller nella nota tragedia, non hanno fondamento di verità. Al quale proposito conviene ricordare essere ormai provato 1’ odio di Gian Luigi contro Giannettino D’ Oria, per i suoi amoreggiamenti con la moglie di GIORNALE LIGUSTICO 237 lui; argomento messo innanzi forse inconsapevolmente da Schiller (Cfr. Atti Soc. Lig. Slor. Pat., Vili, 355, 357, 358). E quanto alla storicità della tragedia ed al suo svolgimento si può vedere il Bozzelli, Della imitazione tragica (II ,485 e segg.) e un articolo di Belgrano (Caffaro, 1880, n. 85). * * * Nella seconda parte dei Monumenta saeculi XVI historiam illustrantia editi da Pietro Balan e tratti dagli archivi vaticani, vi è una lettera importante di Andrea D’Oria al Sadoleto, segretario di Clemente VII, scritta mentre era all’assedio di Genova, nella quale espone un piano d’occupazione dell’alta Italia. * * * Nel Giornale storico della Lett. ltal. (V, 131) A. Neri pubblica un articolo intorno alla Simonetta cantata dal Poliziano, la quale risulta essere figlia di Gaspare Cattaneo e Canocchia Spinola genovesi, maritata con Marco Vespucci per opera di Jacopo D’Appiano signore di Piombino, suo zio. * * * Col titolo : Il Forte di Sarzanello è comparso ne\YArchivio Storico Italiano (XV, 345) uno scritto di A. Neri, nel quale si prova con documenti che quella rocca preesisteva a Castruccio, il quale non la edificò, secondo si credeva ; e che nella forma odierna fu ridotta al cadere del sec. XV e nei primi del seguente, per opera dei fiorentini e poi dei genovesi, sul disegno di Francesco di Giovanni detto il Francione e di Luca del Caprina. * * * Si annuncia imminente a Nuova York la pubblicazione di un libro del sig. ViNiNG, intitolato An inglorious Colomb. L’autore intende provare che Hewii Shan ed un certo numero di monaci buddisti, nel secolo XV, partendosi dall’ Afganistan scopersero 1’ America. Benissimo : dopo quelli dei sigg. Warren, Anderson e Goodrich (cfr. Gior. Lig. 1875, p. 312; 1876, p. 148), ci voleva anche questo del sig. Vining. Vedremo.., e ne parleremo. * * * A Parigi, editore Leroux, è stata testé pubblicata una monografia del signor I. Tessier, professore di Storia nella Facoltà di lettere a Caen : Diversion sur Zara et Costantinople. L’ autore apporta un nuovo contributo alla storia della quarta crociata; e il Giornale Ligustico si riserva, qualora occorra, di riparlarne, avendo esso presa già tanta parte alla importante controversia mercè i dotti scritti del conte Riant e del cav. Desimoni (a. 1878, p. 256 segg. e 4.41 segg.), BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Vincenzo Podestà, Versi, Tip. del R. Istituto Sordo-Muti Genova. — Seconda Edizione. L’A. è innanzi tutto eccellente dipintore e con pochi e rapidi tratti del 238 GIORNALE LIGUSTICO suo pennello ci mette davanti agli occhi un paesaggio 0 una marina mirabili per verità e vivezza. Le marine specialmente sono calde, colorite, splendide. E dietro al poeta, che le grandi ombre e i grandi silenzi attraggono e fanno fantasticare, e al quale un fiorellino di montagna ispira versi delicatissimi, spunta il pensatore cui il mistero della vita tenta. Certo gli amatori della poesia scollacicata, non sapranno grado al Podestà di aver licenziato alle stampe un libro che può esser posto tra le mani di tutti, e troveranno i suoi versi aridi e noiosi. La sua musa infatti, meglio che a baccante, potrebbe assomigliarsi a vestale che procede pudica e raccolta, e la maggior parte dei componimenti sono informati a certa serietà che, se rivela l’animo onesto dell’autore, non risponde però alle idee che dai più si hanno oggigiorno in fatto di poesia. Noi per altro, visto che in Italia non v’ ha penuria di versi vuoti, fiacchi e sguaiati, non gli muoveremo rimprovero di questo, pur concedendo che la soverchia gravità, la smania soverchia di sentenziare e di moralizzare, anziché riuscire vantaggiosa al libro, nuoce molte volte alla rappresentazione del concetto, sicché ci sentiamo vinti come da un senso di stanchezza e rimpiangiamo la mancanza di un po’ di brio e di disinvoltura. Anche la tecnica del verso lascia spesso a desiderare. Citeremo soltanto i sonetti a pag. 63 e 64 i quali, oltre ad essere sdilinquimenti che fanno sorridere, hanno dei versi bruttissimi. L’egregio autore ci perdoni, ma a chi possiede ingegno e merito come lui, ci crediamo in dovere di dire tutta la verità. Del rimanente il volume ha tanti e tali pregi che fanno dimenticare di leggeri le pochissime mende, e che gli hanno procacciato l’onore di una seconda edizione. L’A. appartiene alla vecchia scuola. Egli cammina sulle orme dei classici, dei quali è conoscitore profondo e sa rendere mirabilmente l’immagine e il valore dell’ espressione. Valga come esempio il brano tradotto dal IV libro delPAfrica del Petrarca (pag. 179-80), dove non ha temuto il paragone del latino posto di riscontro e, ci pare , con ragione. Passiamo adesso alle traduzioni dal Vida a dal Sannazzaro. Tanto l’uno quanto 1’ altro hanno cantato il dogma cristiano. Ma, senza pretendere di menomare in verun modo il merito a cui per più ragioni hanno diritto quei due poeti, bisogna pur confessare che il Vida rimpicciolì la solennità stessa dei misteri cristiani, e il Sannazzaro, intelletto più elevato e natura più delicata d’artista, non riuscì se non a darci un poema (De partu Virginis) in cui la forma elettissima fa rimpiangere la mancanza di vera poesia. Peggio poi dovrà necessariamente accadere ad un traduttore il quale, sostituendo all’ onda armonica degli esametri il GIORNALE LIGUSTICO 239 nostro endecasillabo, non può che dare una pallida immagine della maestà e solennità latina. E così è accaduto al Podestà. Anche è strano che esortando i suoi giovani discepoli a volgere con mano diurna e notturna i classici, in cambio di proporre loro gli epici e i lirici greci e latini, venga ad immiserire i) precetto con la poco felice concezione dei cinquecentisti. Con buona pace del signor Podestà, al quale del resto tributiamo tutta la reverenza che merita, ci conforta la credenza che il Savio di Samo nella prolungata e silenziosa meditazione, dei primi veri, proponesse qualche cosa di meglio ai suoi giovani allievi. A. G. F. Severino Ferrari. — Bordatini, A. G. Morelli Editore, Ancona, 1885. È un tentativo di risurrezione. Sono « Bordati intessuti da vaghe antiche tele, alternati con drappi moderni » dichiara Γ A. stesso nella Dedica parlando de’ suoi versi. E prosegue: « Tessere in stil moderno antiche cose, in stile antico nuovi sensi arguti tentai... ». Egli prende infatti a modello la lirica toscana del dolce stil nuovo, con le derivazioni e filtrazioni pervenutele dalla poesia provenzale, più i rispetti popolari e ci regala una breve raccolta di madrigali, ballate, di rispetti e canzoni con un motivo popolare. Arduo è il tentativo e degno di Severino Ferrari. Ma se era possibile, parlo dei rispetti e delle canzoni con un motivo popolare, che venisse condotto ad effetto dal Magnifico colla Nencia, quantunque egli pure abbia piuttosto parodiata che ritratta la candida vena popolare, non pare fatto per noi, la cui coscienza riflessa non sa circoscriversi che a stento negli affetti e nel modo di favellare de' nostri cam-pagnuoli e montanini. Per altro Γ idillio campestre con tali proporzioni non venne neppure tentato dall’ A. e fu bene. Nel breve saggio egli sta contento al rispetto, come per lo più lo s’intende metricamente ai nostri giorni, e riesce mirabile per semplicità e schiettezza. Leggete il η. I : Testina d’oro cantano già i galli. Dicono i galli — Padrona amorosa alzatevi da letto eh’ è già P ora _ Ma tu segui a sognar d’ essere sposa, nella pulita casa la signora : cantano i galli, ma tu dormi ancora e il sole è già su’ monti e nelle valli. Il libro vi cade di mano e voi siete in piena campagna senese, tra lo stormir delle frondi e il mormorio delle acque correnti. Comincia ad albeggiare e credete realmente di sentire 1’ allegro chiccbiricchì de’ galli e la voce fresca e sonora d’ un innamorato felice, che canta il suo vivace e colorito rispetto sotto una nota finestra. E non sempre l’intonazione è 240 GIORNALE LIGUSTICO allegra. Qualche volta la voce è tremula, velata e si perde in lontananza, lasciandoci nell’anima come un vago senso di soave malinconia: Spesse volte rivedo nella mente quel ciì che sarai mia, pura viola. Scendi alla casa ove cortesemente due vecchi stanno per dirti — figliuola : ti abbracciali sulla soglia lietamente e il pianto a lor fa groppo nella gola ; ei ti vedon sì bella e sì fiorente , ei bisbigiian fra lor qualche parola. Quanta delicatezza, quanto affetto pudico in questi versi e nei seguenti, quantunque alcuni manierati e pretensiosi stonino con la cara semplicità dell’ intonazione generale ! — Talora abbiamo una fioritura popolare come al N. VII, o la fantasia prende il sopravvento e sul motivo popolare ricama le variazioni che il buon Chianti colora (Congedo). Qui il rispetto popolare, passando attraverso la mente dello scrittore ha ricevuto e, diciamo anche, patito un’ elaborazione letteraria, e ciò appare special-mente dalle prime ottave, ma in generale dall’ andamento di tutta la poesia. — Tra i madrigali ne citeremo uno graziosissimo: un madrigale vero e proprio col suo verde e la sua acqua corrente, coi lauri, le ninfe e 1’ auree chiome composto di due terzetti coronati dal relativo distico, sul genere di quelli dei Trecentisti: Pensando un dolce suo canto il Petrarca inseguì a lungo la sua amica bionda, stormendo i lauri e rimbombando 1’ onda. E perchè non la giunse, a rifiorire sotto il tenero pie’ della fuggente seguitò il prato ; dalla sorga algente uscìan le ninfe, ed era acceso il giorno più luminoso all’auree chiome intorno. È un idillio delicatamente lavorato , ricco di movimento e di vita. Le figurine si staccano sullo sfondo e noi proviamo come un’ impressione di frescura : Γ impressione che proveremmo trovandoci tutto ad un tratto trasportati sotto il cielo aperto e luminoso, in mezzo all’aperta campagna, sulla verde sponda di un fiume. Concludendo ; 1’ A. si mostra ancora una volta quel valente che noi conosciamo. Col lieve tocco della sua bacchetta magica, egli riesce persino a risuscitare gli antichi madrigali e ballate. Ma è una vita fittizia, un’ apparenza di vita, che ci fa pensare a certi castelli di cartone destinati a crollare al primo soffio di vento. Noi sentiamo subito quanto vi è di manierato e d’ artificioso in quella semplicità e naturalezza , e nemmeno la finissima arte di Severino Ferrari basta a farci dimenticare che ormai il tempo delle ballate e dei madrigali è passato. A. G. F. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 24I SAGGIO DI ETIMOLOGIE GENOVESI Il mio scopo nel metter fuori questo primo Saggio di Etimologie Genovesi sarebbe di combattere, nella misura delle mie deboli forze, un pregiudizio assai diffuso anche tra persone non mediocremente colte, che cioè nel nostro dialetto abbondino gli elementi stranieri. Anzi, a sentire alcuni, i quali specificano di più l’elemento straniero medesimo, il dialetto sarebbe arabo per metà, ed ogni vocabolo di fìsonomia un po’ pellegrina 0 di suono un po’ fuori dell’ordinario, viene battezzato, 0 piuttosto sbattezzato, per mussulmano. Per citare degli esempi, questo avviene tutti i giorni al povero rüxentâ, che non ne può nulla, mentre già da qualche anno il Flechia lo ha così bene dimostrato latino; questo avviene pure al mandillu, che poi alla fine non è sua colpa se altri non vi riconosce mantile·, e potrei continuare per un pezzo. E dunque questa nostra quasi una questione locale, la quale però viene a connettersi colla poca diffusione che hanno tra noi, non dirò gli studi, ma i primissimi elementi della Glottologia, anche di quella sua parte che riguarda le lingue Romanze. Certo non è possibile volere che ognuno faccia della Glottologia 0 d’una sua parte qualunque uno studio speciale: ma però è strano e dirò pure sconsolante, che dopo i grandi progressi che essa ha ornai fatto anche in Italia, e nonostante che vanti presso di noi nomi come quello del-l’Ascoli, che basterebbe da solo a onorare la Scienza d’una nazione, essa sia rimasta così affatto fuori dal pensiero e dalla coltura generale. Ne nascono una quantità di inconve- Giorn. Ligustico. Anno XII. ,g 242 GIORNALE LIGUSTICO nienti e di danni più o meno gravi: l’aiuto di essa non richiesto e neppur sospettato utile dove sarebbe più stretta-mente necessario, ad esempio nella compilazione delle Grammatiche e dei Diziorìarii: il veder uomini, d’altra parte serii e dotti, uscir fuori a metter in pericolo la loro serietà, mostrandosi in ritardo almeno d’ un secolo e continuando a gingillarsi o coll’ « Etymologicon Magnum » o colle derivazioni Celtiche e delle lingue Italiche. Eppure da settant’ anni circa che la Glottologia venne fondata, dal Bopp cioè all’Ascoli e .al Flechia, che ne sono tra noi i due più valorosi cultori, una quantità di lavoro veramente meravigliosa fu accumulata ; le asserzioni messe prima fuori con reticenze e con dubbii, ora hanno acquistato la forza di dimostrazioni matematiche.; ciò che prima pareva campato in aria o si aggirava ancora in una leggera nebbia di misticismo, ora si posa saldissimo sul terreno dei fatti. Ogni libro che si pubblica, ogni anno che passa restringe la cerchia dell’ indefinito e dell’ anormale.; :il metodo raddoppia di rigore ; i fatti sono stretti così da •vicino .e con tanta insistenza e con tanta copia di riscontri, che se il loro segreto non si svela, la colpa non è più se non dell’occhio che osserva. E che rapido e continuo progresso ! Non son che pochi anni che Francesco Diez è morto, il grande creatore della scienza delle lingue Romanze; la sua ■Grammatica resta sempre diritta e sicura, come centro della dottrina estendentesi; ma. già una gran parte di essa fu rin-.vangata, rielaborata,, ricostrutta; già il rigore delle, sue leggi ■'fonetiche comincia a parer alquanto rilassato, quando pei esempio le si mettano di fronte gli ammirabili « Saggi -Ladini ». - Ora cosa avviene in Italia? Come se il lavoro di questi settant’ anni, che pure ha rinnovato tanta parte degli studii Filologici e tanta parte de" metodi d’insegnamento, non fosse •che' un inutile sforzo del pensiero dell’ uomo; o come se GIORNALE LIGUSTICO 243 questa Scienza nata, fatta adulta e portata alla più florida virilità nella barbara Germania potesse intorbidare la preziosa vena della originalità Italica; senza nessuna conoscenza di tutto ciò, senza trepidazione di sorta, si ritorna a qualche secolo addietro, e se il Celtico non basta, e se le lingue Italiche · non bastano, si ripiglia il Gello del Giambullari e; si ricomincia dall Arameo. Io stesso trasecolai qualche giorno fa leggendo su un fascicolo di due o tre anni addietro di una importante Rivista italiana, che la derivazione della nostra lingua appunto dall’Arameo era cosa accertata. E quanto spreco di studii, quanto inutile sforzo d’ingegno, quando si ricordi il Galvani, che avendo dalla natura eccellenti attitudini a diventare un glottologo di vaglia, riuscì al Glossario Modenese, cumulo di errori così curiosi e così inesplicabili dopo la Grammatica e dopo il Dizionario Etimologico del Diez ! La cosa non parrebbe possibile se non fosse vera: eppure par che in Italia sia un gran solletico all’ amor proprio uscir fuori a far la figura di chi si accingesse a tentare i più ardui problemi dell Astronomia, non col Calcolo Differenziale o col Telescopio, ma cogli oroscopi degli astrologi. Ma la Glottologia 0 meglio i suoi Elementi, che basterete bero ad allontanar chiunque dal pericolo di rendersi ridicolo scrivendo di cose affatto ignote, offrono poi alcunché di più insolito 0 di meno accessibile che un’ altra scienza qualunque ? Non pare. Poiché le lingue Romanze o, per ristringerci ancora di più, 1 Italiano e i dialetti Italiani derivano (è ornai una pazzia il dubitarne) dal solo e schietto latino, ciascuno per un proprio svolgimento, si tratta d’investigare le Ιεσσΐ ' . . O .ÌDo > fisse e persistenti, di ciascuno di questi particolari svolgimenti. .Conviene adunque, posta per punto di partenza la lingua madre, fai passare sotto 1 analisi più minuta e più rigorosa, vocabolo per vocabolo, tutte le vocali accentate del latino, distinguendo sempre accuratamente le lunghe dalle brevi, e 244 GIORNALE LIGUSTICO dopo le vocali accentate le disaccentate, e dopo queste le consonanti, per trovare qual riflesso ossia quale suono ciascuna di esse dia in quel particolare dialetto. Quando io avrò, per esempio, trovato che nel dialetto Genovese e lungo accentato latino dà sempre ei (tela, habere, gen. teia, avei), ed e breve accentato sempre e (dexe, megu da decem, medicus), o ancora che o lungo accentato dà u (sol = su, corona — curun-a), o finalmente che o breve accentato dà ò (cioè eu franc, fògli da focus, l'ogu da locus) e così via discorrendo, come dicemmo, per ogni vocale e per ogni consonante, io avrò a fondamento, specialmente nelle quistioni Etimologiche, non più un mio capriccio o l’instabilissimo suolo d’ una coincidenza di suono o di senso, che il più delle volte quanto è più grande tanto più è ingannevole, ma delle norme fisse, invariabili, cui la mia Etimologia non potrà contravvenire senza allontanarsi dal vero. Certo la cosa non è così facile, come a prima vista può apparire ; certo un problema sciolto conduce ad un problema più vasto e più complicato; le eccezioni apparenti , gli intrecci delle leggi fonetiche colle leggi analogiche , la mancata cognizione d’ alcuni fatti possono condurre a tali difficoltà da far disperare della soluzione. Ma tutto ciò non si può evitare in nessuna scienza, e Γ indagine sempre più acuta e sempre più insistente perfeziona i metodi di ricerca, moltiplica i punti e quasi le pietre infallibili di paragone, trova in ogni più oscuro e più minimo fatto della Ortografia o della Pronunzia una condanna od una conferma. Perocché (chiuderò questo già troppo lungo e forse inutile Proemio con alcune parole dell’Ascoli, ove si sente fremere 1’ orgoglio e la commozione dell’ uomo che sforza la natura a rivelargli il suo segreto) perocché « procedendo nell indagine con le norme già assodate, queste si miglioran di continuo, e di continuo ci portano alla scoverta di nuove norme, diversa-mente attive e nello spazio e nel tempo. E la sete della ragion GIORNALE LIGUSTICO 245 delle cose si fa tanto più intensa quanto è maggiore e più mirabile la quantità delle ragioni scoverte. L’anomalia, o l’eccezione, son fantasmi del raziocinio; o veramente si riducono a problemi storici, che la scienza odierna vien rapidamente risolvendo, per poi affrontare nuove serie di più ardui problemi, che scaturiscono dalle sue risoluzioni stesse. Nessun fenomeno, pertanto, si sottrae alla avidità infinita dell’osservatore; e anche i fatti negativi si traducono, per la sua tenacità, in affermazioni continue ». Arci). Glottolog. I, lui. Nella trascrizione de’ vocaboli genovesi ho seguito per buona parte l’uso comune dei Dizionari! e delle scritture in dialetto, senza valermi di quei più sicuri e più esatti metodi che si potrebbe in un Giornale dedicato esclusivamente alla Glottologia. Scrivo perciò sci, sce e xi, xe, quello per la scrizione italiana corrispondente, questo pel frane, j, o se si vuole gi, ge ; noto le vocali pronunziate lunghe, che nel Genovese hanno, anche all’atona, particolari regole e particolare importanza, col circonflesso, e via discorrendo. Ho però trascritto sempre con ò quello che in francese è eu, riflesso normale nel genovese di o breve lat.; inoltre non raddoppio mai le consonanti in sillaba fuori d’accento, perchè mi pare che la pronunzia non lo voglia. Quanto ai dittonghi, se sono accentati sull’ultima vocale senz’altro, vuol dire che si pronunziano tutti in un fiato, es. angioh, calòiu ; se invece le vocali debbon pronunziarsi divise, coll’accento sull’ultima, metto una lunga sulla penultima, angiàii onegliese; finalmente se l’accento è sulla penultima, vuol dire che l’ultima va pronunziata staccata, es. cóu, pr. come Γ ital. due, bòa ecc. j\ botili intontito, sbigottito, mogio. 246 GIORNALE LIGUSTICO Come l’ital. sbigottire, prov. esbautiir ecc. provengono da un ex-pavitire (Caix, St. d’Etim. It. e Rom. 53), cosi sarà il nostro vocabolo da un partie, ad-pavitito, con lo stesso prefisso che è nel sicil. abbauttirsi. Adunque : ad-paviiito, abavtito abautiu e finalmente abotiu. Il volgere di p a b, quando si trova tra vocali, il cadere dell’ / non accentato, specie se si trovi nella penultima sillaba d’uno sdrucciolo, o, caso molto simile , nella seconda del vocabolo, a cui segua immediatamente 1’ accento ; finalmente il vocalizzarsi di v ad u e il fondersi di an in 0, son tutti fenomeni troppo comuni, perchè su di essi possa sorgere il minimo dubbio. Cfr. ava, cava da apes, caput; càdu netta da calidus, nitidus; òca, ôxellu da avica avicilla, nei quali i tre ultimi fenomeni si ripetono insieme. a caclellu. nella frase mette testa a cadellu, cioè a partito, a segno. Nelle Rime dell’Anonimo Genovese, Arch. Glottol. II, si leggono i versi seguenti : nostro armiraio...... a la per fin se trasse for; candelando soe gente per farli tuti invigorir. XLIX, 120-22. In quel candelando io vorrei riconoscere piuttosto un cadelando, fatto sul frane, ant. cadeler, prov. capdellar (da capitellare') che valgono guidare, capitanare. Infatti nel Mscr. 31, 3, 14 della Biblioteca delle Missioni Urbane di Genova, contenente fra molte altre cose una traduzione di Boezio in genovese antico, la quale verrà presto da me pubblicata, si trova, nel Boezio stesso, f. CCCLXVIII verso « pocha fe e constancia te cadella. » Ora è appunto questo cadelà che ci spiega 1’ odierna frase avverbiale, che ha certamente con esso comune 1’ origine, e che dovè significare da principio , « mettere sotto un capo, sotto una guida ->. GIORNALE LIGUSTICO 247 alügioù Oliv. Dizion. Genov. It. « uggioso, stucco ». Meglio avrebbe potuto citare Γ it. allògliato, che ha senso, ed origine comune col vocabolo genovese, come quello che certo deriva da loglio, genov. lòggiu. K noto che al seme di questa pianta, mangiato, si attribuisce la virtù di sbalordire e d’ addormentare. angioù onegliese angiàù, pergola, pergolato. Dalle leggi fonetiche del nostro dialetto appare che il g palatino di questa parola, trovandosi dopo consonante, non può regolarmente corrispondere che ad un gl (g’I) o bl (b’I) di fase anteriore. Ciò fa subito pensare ad una radice ambi-, ossia ambul-, che è quella del verbo ambulare-, e poiché la forma onegliese, evidentemente più conservata, come è proprio di quel dialetto, mostra che l’accento originalmente era suII’m, si rende certa la ricostruzione ambulatorium. Non fa bisogno notare che la finale -orium ha Γ o lungo, e che quindi non può dar altro che u genov. : si aggiunge che tutto -alorium si riduce legittimamente nel genov. ad oh, nel modo che segue : -ahiro, -alar, -aàr, -Έύ (forma onegliese), -ail -oà (i). Si confronti baloii ballatorium, cuoii colatorium. (1) Non ignoro che l’Ascoli, nel suo mirabile studio sul Dialetto Genovese, Arch. Glott. II, ni e seg. ricostituisce altrimenti questa serie, cioè con -atòru, -aòu. Ma mi si permetta d’ osservare (con tutta la riverenza possibile verso il Maestro) che qui occorse certo una svista, non potendo l’ó lungo lat. dare altro che ύ genov. ed inoltre non essendo r mediano tra vocali soggetto a caduta nel genovese antico, come continua a non essere in tanta parte delle nostre Riviere. Anche su ciò che in quella nota vien dopo vi sarebbe molto da osservare, ma spero poterlo fare altrove con miglior agio e colla compiutezza che si richiede , essendo con tutto ciò connesse varie importanti questioni di fonetica Genovese non menoche la teoria dell’i plurale, prima caduto e poi più tardi di nuovo aggiunto per attrazione analogica. Ό 248 GIORNALE LIGUSTICO Benché sia questa una delle più piccole prove della Glottologia , nondimeno non è meno bello il veder sorgere dal misero angioli 1 ampio e togato ambulatorium, non per alcuna particolare acutezza dell’ investigatore, ma per la sola forza del metodo e quella necessità che fa nascere dalle premesse la conseguenza o dalle poste d’un’addizione il risultato. arcnçcnîse raggrinzarsi, raggricciarsi. Probabilmente qui abbiamo una radice tedesca, nota pure all italiano, la radice stessa cioè che si trova in grinta e aggrinzarsi, cui il Diez bene condusse all’ant. altted. grimizon. Della caduta dell’ i disaccentato abbiamo già detto ; qui è piuttosto notevole la perdita del g nel gruppo gr, perdita che si ha anche nel nostro rugnì, lat. munire, e nel milan, ranfi, accanto al genov. granfiti. Vedi inoltre ravattu. Da grimizon si sarà forse fatto un verbo di quarta rençi, ampliato poi col suff. -en- come p. es. si trova in sciam-en-à accanto all’ ital. sciamare, e spesso altrove. ariguà rotolare. Il dialetto di Sassello, oltre ad altre sue curiose particolarità, si distingue per una grande tendenza a svolgere dinanzi ad un u (V) il noto g gutturale (V. Arch. Glott. I, 61) continuando però a mantenere anche il suono, che fu precipua causa del sorger di esso. Si notino anciugua, acciuga, cagna, coda, tuguo, stiglio, tuo, suo, ugna, uva. In questo numero è da porre anche rogna, ruota, e ruguelàe, ruotare, rotolare, che ci danno la spiegazione del nostro vocabolo. Sarà dunque ariguà da rota, o piuttosto da rollila, come ci persuade l’analogia degli altri esempi comsimili genovesi, come üga, ingòg- GIORNALE LIGUSTICO 249 gie ecc., nei quali si vede sempre caduto Yu che nel sassellino permane. Accanto ad ariguà si ha pure ariguelà, ampliato col suff. -el-. arôsâ Casaccia, Dizion. Genov. Ital. « v. a. ritirare, rimuovere , scostare; trar da parte, mettere da banda; fig. involare, rubar di nascosto — arrôsâse n. p. ritirarsi, arretrarsi, far largo ecc. » Si aggiunga fâ ròs'u, far largo ; runçun urtone. Anche fuori del nostro dialetto si ha questo vocabolo : bresc. ròsa spingere (Biondelli, Dial. Gallo-Italici). Sappiamo che ô rinviene spesso ad au, e a tutto arôsâ corrisponderebbe foneticamente assai bene un ad-raptiare, d’onde a-ravìiare, a-rautiare, arauçar ecc. secondo l'evoluzione solita. (V. abótiu). Anche il tia in ça, che non abbiamo ancor visto, è affatto normale : cfr. reçaggiu da retiaculum , Arch. Gl. IX. Puntata i.a, 102-106. Il senso non mi pare che faccia ostacolo ad ammettere per base del nostro vocabolo quella che abbiam tentato ricostruire. Infatti nel verbo rapere e più nel nuovo raptiare il senso di trarre, trascinare ci fu e ci dovette essere di sicuro: e questo è anche il senso fondamentale del genov. arôçâ, donde discesero gli altri. Si consideri il seg. es. del De Franchi, Ro Chi-tarrin Zeneize (Genova 1772) pag. 16: « Spoincia, arròsa un pò ciù in ça » e si noti il sostantivo runçun (con 11 epente-tico, davanti a cui l’o si oscurò : cfr. duna), urtone. C’è ancor da spiegare fâ rôçu, che sembra forma più primitiva, come runçun. Ma se s’ammette che si avesse prima il nostro verbo senza a ìniz., cioè rôcâ, su di esso poteva ben farsi rôçu col senso odierno: si sarà p. es. detto rôçite, tratti da banda, rôçu il tirarsi da banda d’ onde fâ rôçu : e coll’esclamazione, rôçu ! largo ! Questa pare l’ipotesi più probabile e Ya si sarà aggiunto più tardi, sull’analogia di tant’altri 250 GIORNALE LIGUSTICO verbi con a originario , proveniente da ad- : anche adesciàse. p. es. è dal più primitivo desciàse, che si trova di continuo; nei testi dal trecento al seicento, mentre il primo esempio di' adesciàse ch’io ricordi occorre nella Gerusalemme Liberata tradotta. Se Va però fosse primitivo (che non credo), da un aròsite, fatti in là, arasti ! Largo ! si poteva trarre rôçu scambiando Va iniz. colla preposizione, come se fosse a rôçu. asgaiâ Piem, sgairé, guastare, corrompere, danneggiare, sciupare. Poiché il lat. caries, oltre a tarlo, valse anche corruzione,, putrefazi jne, un verbo ex-cariare ci darà precisamente il senso di sciupare, danneggiare, che è il nostro. Si ebbe poi la metatesi dell’ i, come in messuia, anteriore messtdra da messoria, tesuie da tonsoriae. asubaeâ e anche subacà — Casaccia « v. a. superare, soperchiare, vincere : Rimaner superiore, soprastare, sopravanzare — S11-baccàse, n. sp. seppellirsi, ascondersi, occultarsi. Voce nostra ant. e fig. Re tende eran destei^e e a sttbaccâse se n andava ro so de là da-i monti. Trad. della Gerus. Lib. » Lo spagnuolo ha anch’esso un sobajar, che il Diez trae da subigere con cui ha identico il senso, e il vocabolo genovese potrebb’essere certo un’importazione dalla Spagna, se si considera che il suo significato va d’accordo con subigere abbastanza bene, ma non punto la forma. Però nell’antico genovese si ha subacà in un senso che il Casaccia non registra, e che può darci qualche luce sull origine di esso. È il senso di tuffarsi nell’ acqua, che appare evidente dal seguente passo delle Prose Genovesi pubblicate dall’Ive nel vol. Vili dell’Archivio Glottologico, 66, 40 « despoiasse e filasse dentro e sobachasse lutto in questa aygoa » GIORNALE LIGUSTICO 25I e da quest’altro del Foglietta, Ed. Torin. 1612, pag. 6 9: « E s'intra vostra dose font arietta No me lascie ra testa sobacca Fin che ne sciorbe qnarche goraretta. » L’etimologia del verbo, in questo nuovo senso, potrebb’essere bene sub-acquare (cfr. sub-terrare), e resta il dubbio sulla connessione del più antico significato col moderno. Che dal senso di subacà tuffare, possa venir un più generale, metter sotto, nascondersi, non mi par che si possa negare, e lasciando anche che il passaggio comincia a concepirsi assai chiaramente già nell’esempio del Foglietta, questo è appunto il senso che il verbo ha nei versi addotti dal Casaccia. Dal senso poi di metter sotto a quello di soperchiare la distanza è, come ognun vede, quasi nulla e naturalissimo il trapasso : cosicché si può con qualche sicurezza conchiudere che lo spagnuolo non ci ha nulla a vedere e che si ha un bel caso di vocaboli affatto simili di forma e perfino di significato, che pure sono perfettamente distinti per 1’ etimologia. bâçigix altalena. Si ha anche bancigu, e le due forme insieme paragonate paiono condurre ad un balçigu antesiore, che nel primo caso soffre la perdita di 1 per via della solita inserzione di u e nel secondo lo muta in n, come in minça accanto all’ital. milia, a. a. t. mil^i. Balçigu poi sarebbe da connettere, secondo me, coll’ital. balzare, ampliato col suffisso -ic-, e poiché balzare é tratto da βαλλίζειν (almeno secondo il Diez, Etim. Wort.) si potrebbe notare che a Voltri si dice, invece di bâçigase, il curioso baliçigâse. bæxinà piovigginare. Nella Riviera Occidentale si ha bâxinâ, babaxinâ a Taggia, bavexinà a Bussana ecc. Si ha pure il rom. bavajct pioggerella, nevischio, piac. sbavine, piovigginare. 2 J 2 GIORNALE LIGUSTICO Non sarà altro clie un derivato da bava, bavicinare: e si può confrontare, sebbene non riferito all’ acqua, il modo genovese nu ita Una bava d’aia, non soffia un alito di vento. bufüu Oliv. « paffuto, grassotto, acceso. Russa buffila diciamo di uomo grasso, acceso in viso ». L· precisamente la stessa cosa che l’ital. paffuto, per la cui etimologia è da vedere il Diez, Etim. W. Ma come sorse la forma genovese ? Il p iniz. in b, benché piuttusto raro, non manca d’esempi: it. bolso da pulsus. Inoltre il sicil. bafftl che certo corrisponde a paffuto, ha aneli'esso il b e quindi è di grande rincalzo alla nostra ipotesi. Resta a spiegare Va in u e per questo basta notare che il b è una labiale, e che le labiali hanno precisamente grande affinità colla vocale u. Nello stesso genovese abbondano gli esempi che provano la cosa : puela invece di pailla, padella, paio, paiuolo, vuiòe, vaiuolo, Viuvà Vialata, Rai'ò, Rivarolo. Quest’ultimo ha accanto la forma più conservata Rivaio, donde si fece Rivaiò e poi Riuiò, e finalmente colla perdita del primo i, così incomodo perchè ne seguiva un altro, Rai'ò. Ivii gatta bambola, pupattola. In Lombardia sono diffusi, secondo il Biondelli, op. cit. le torme pila, piiot, pigotta, fantoccio, bamboccio, mentre il piacentino dice biibba. Nel piem. vi è biiàta. Pila è certo il pupa lat., caduto al solito p, dopo esser passato in v; e di pila saranno diminutivi piiòt, quasi pupotto, e pigolta, quasi pupotta, esempio che ci dà un ii disaccentato passato in i (cfr. bisciuéta da büsciua, meniçâ da menüçâ ecc.) e il g svoltosi da v anteriore, come vedemmo sotto arigucld. Ma mentre il p iniz. in queste forme è intatto, già scaduto a b' si vede in biibba, da pupa, e in biiala piemont. quasi GIORNALE LIGUSTICO 253 pupatta. Il genovese, pur presentando Γ alterazione massima, va perfettamente d’accordo col piemontese quanto al substrato etimologico, mentre somiglia al lombardo pigotta pel modo in cui svolse il p mediano tra vocali. calòiu guascotto. Là forma della Liguria Occidentale, Taggia, Oneglia etc. è calarùu. Che le due forme risalgano alla medesima è facile vedere quando si sappia che nel Genovese -aü- sul dare -di-: adunque, con la solita caduta di r mediano, calatiti, caUüu, calôüu, calòiu, Si possono confrontare per l’evoluzione fonetica m'òìu da matùrus, scròia da serratùra ecc. Pertanto calarüu, forma anteriore più conservata di calòiu, è da un calaruto, fondato sul nome calaru, forma tuttora usata nella Riviera Occidentale pel nostro càlou, pi. calai, e proveniente com’ esso dal callus lat. per via d’un diminutivo càllulus. Per la vocale che in penultima di sdrucciola si allarga, trovandosi davanti un r od un n, vedi sòccou per l’anteriore sòccarn da socculus, thmou da tymulus ecc. Si può anche ricordare che il popolino ha fatto del dotto telefonu il suo telefanu. Calòiu è dunque uguale a calloso, che ha ancora il callo, e siccome si dice per lo più della pasta da vermicellai, quando è cotta, ricorderemo la frase analoga, applicata alla pasta medesima, a l’a aucun l’osettu. ^ ciunà piallare, ed accanto vi è il sostantivo dimetto, pialla. Si sa che Γ ital. pialla proviene da un lat. planula per via di pian’la dove s’è avuta 1’ assimilazione, come in culla da cunula, spillare da spinulare. Ma né a plana, né a planula pare che possano riferirsi i vocaboli genovesi, onde l’Ascoli Arch. Gl. II 123 rimanda all’analogia del gallurese piola ecc. 254 GIORNALE LIGUSTICO intorno a cui si può vedere il Diez, Et. W. II. A me veramente pare che l’articolo del Diez abbia bisogno esso stesso pel gallurese e pel veneziano, di qualche maggior schiarimento: ma quanto è del vocabolo genovese non credo che vi si possa in alcun modo far entrare. Piuttosto noterò che a Zoagli ed altrove nelle Riviere si hanno forme corrispondenti alla nostra, alquanto più conservate, poiché vi si pronunzia ciônâ, ciônèttu, e anche a forinola accentata, mi ciónu. Potremo quindi con molta verosimiglianza risalire dall’ o ad ati, cioè ad un platinare immediatamente anteriore , dove si tratterà solo di scoprire l’origine di quell’//. Ma già altrove abbiamo visto che u sorge davanti a / complicato, cioè seguito da altra consonante, e qui aggiungeremo che se ciò ha luogo di regola nelle forinole ALT, ALD, ALS ecc. non ne mancan gli esempi anche per altre formole, e specialmente per ALN: basti citare il genov. dna duetti da alnus alnetus. Sarà dunque platinare da plaulnare, anteriore plalnare, cioè plaVnare da pia-lunare, che sarà una facilissima metatesi di planulare. Si confrontino ad es. chilonna e chinolla che io ho udito sovente per colonna. Così in fondo il vocabolo genovese e l’italiano sono la medesima cosa, nonostante la grande differenza di suono, differenza che mi pare d’aver dimostrato spiegabilissima, partendo dalle leggi fonetiche del nostro dialetto. cuntüççu Olv. « Farsetto a bustino , quello la cui vita, sul davanti in basso, termina in punta libera, cioè non cucita alla sottana ». È certamente comptuceus da comptus, partie, di comere; cfr'. Ì’ital. contigia. dezentegà Oliv. « Estirpare, sterminare, distruggere, cacciare. Da exentero ». GIQRNALE LIGUSTICO 255 Ex'mlçro non avrebbe dato in genovese altro riflesso che sdenterà 0 scianterà il quale quanto sia lontano dal nostro vocabolo tutti vedono. Noi piuttosto, osservando che accanto •alla forma citata vi è pure T altra desventegà, dove secondo ogni probabilità il v è originario, vorremmo pensare alla radice di veliere, ampliata coi suffissi -it- e -ic- (cfr. spelinçigâ che sarà ex-pell-ic-ic-are') cioè ad un dis-vell-it-ic-are , dove sarebbe al solito caduto il primo i, e dove l davanti a t non essendo ammesso dal nostro dialetto, si sarebbe mutato, come già s’è scritto altrove, in 11. fxtai a .conceria di pelli. - Non è difficile congetturar e factaria, che diede prima faitarla, poi feitaria, e finalmente perdette anche Ve del dittongo, atono, ■come avvenne pure in grixella per greixella da craticilla. frusci â seccare, importunare. Sarà da frustiare, che secondo osserva giustamente il Littré contro il Diez, diede .anche il franc, froisser. Per stj che dà :sci si confronti il notissimo angusda dal lat. angustia ecc. giànu giallo. . l --· Qui non è.questione dell’etimologia, la quale è nota ed accettata da .tutti, cioè il lat. galbinus: si tratta piuttosto del modo della derivazione e se la voce sia indigena o no. Un g gutturale che si muti in palatino è inammissibile nel genovese, quindi può parere giusto il derivarlo di seconda mano dal franc, jaune, che si potè introdurre presso di noi in tempo assai antico. Inoltre è provato da altri vocaboli che, come il eh frane, di voci introdotte remotamente dà nel nostro dia.- 256 GIORNALE LIGUSTICO letto c palatino, così j dà g palat. : cianté da chantier, ciminêa da cheminée; arrangiti da arranger. Ma mi pare che non ci sia punto bisogno di questa ipotesi. Supponendo la metatesi di /, si ottiene glabinus, donde regolarmente giavnu, giaunu, giànu. gius celivi Oliv. « brodetto, è tuorlo d’uovo sbattuto e cotto nel brodo ». Viene dal lat. jus, sugo, per via del diminuì, juscellum. grigua lucertola. Il Caix, St. d’Et. Ital. e Rom. 350, cita da Plinio languria, lucertola verde, per trarne 1’ etimologia del tose, liguro, ramarro , che ha per corrispondente il ferrarese e piacentino ligòr ecc. Ne verrà anche il nostro griglia, per via di un lan-guricula o liguricula, dove il la o li iniz. cadde, perchè scambiato coll’articolo : cfr. timbrigli da lumbricus ecc. lanbrucià agitare, diguazzare un liquido dentro a un vaso. Non è altro che una metatesi di barhicià, che ha identico significato, metatesi complicata coll’inserzione di n, come si ha pure in ma^anghin da magasin, cianbrutâ da ciarbutâ, balbettare. Barluciâ poi è composto di bar-, che è il prefisso lat. bis- (barlume da bis-lumen, abarlügâ da ad-bis-lucare) e del verbo lucià per la cui etimologia è da vedere il Diez, Diz. Et. e il Littré, Dictionn. de la Langue Française. lépegu Oliv. « Lubrichezza, qualità di ciò che è lubrico, moccicala, untume ». Agg. lepegusu, viscido, untuoso. Piacent. lebga moccicala, lebghéint moccioso. GIORNALE LIGUSTICO Non parendo possibile di trovar nel latino un vocabolo che couisponda legittimamente a questo, si può tentare se miglior foituna si abbia colle lingue germaniche, e queste infatti ci offrono l’ant. nordico sleppct, effugere, angloss. slipan, cui coi rispondono il mod. ted. schliipfen, passar leggermente, detto dei corpi lubrici e sdrucciolevoli, col suo aggettivo scblüpfrig untuoso, lubrico, Tingi, slip, oland. slippen, isl. sleppa. Una tale radice slip il cui senso concorda perfettamente con quello del nostro vocabolo, fu aumentata col suff. -ic-, ed inoltre perdette ì iniz. per la difficoltà che faceva alla glottide genovese l’ingrato gruppo si-. Non è questo il solo caso di una* simile caduta di s; ma per una prova intrinseca che esso anteriormente esisteva nella radice della nostra voce, si veda l’articolo seguente. liggia Oliv. « frana, lama, lacca, ripa ». Il parm. libia, frana, vb. libi'er franare, ci attestano che il doppio g palat, di questa voce ha la stessa ragione che quello di raggia, rabbia, gaggia, gabbia. Ora noi non vorremmo pensare a radice diversa da quella di lepegu, mentre il senso fondamentale di lubrico, sdrucciolevole, si ha in tutti e due i casi, e la forma conviene anche assai bene. Certo Vi invece di e qui non fa alcuna difficolta, stante l’incertezza in cui siamo necessariamente sul dialetto Germanico da cui le nostre voci provengono, e considerato anche i genov. cunseggiu e fatnig già tutti due da un i precedente. Abbiamo invece una bella riprova dell’ esistenza anteriore di un ì nel nostro vocabolo dalla forma di Pieve di Teco che è lis già, dove non mi pare si possa spiegare quel ì interno altrimenti che con la metatesi che dalla prima sillaba lo trasportò nella seconda. lòiigia rigovernatura di piatti, minestra poco buona, broda. Giorx. Ligustico. Anno XI[. 258 GIORNALE LIGUSTICO L’oh ci porta sicuramente ad âü anteriore, cioè a làiigcria, e questa è forma abbreviata (per la perdita di v, tanto frequente nel genovese) da lavaiiggia, cioè lavatucula, secondo ci è provato dalle forme di Taggia lavàiiggiu e lavaiimme. òvei si usa esclusivamente nelle frasi giurine d’òvei, anco l’é d’òvet, giorno non festivo ecc. Il radicale òv- ricorda subito il disusato òvera, opera, che si ha tuttora ne’ composti d-òvid, de-operare, de^-òviu, sciupio, i quali tutti serbano intatto, sebbene fuori d’accento, Yò che è normale riflesso dell’ 0 breve latino accentato. Quanto ad over più specialmente, esso deve provenire da un aggettivo operilis, che diede prima òverir, poi òveri, òvéì, òvei: e questa congettura è dimostrata esatta dalla forma Sassellina che è proprio averi, conservandosi in quel dialetto r, che nel Genovese cade. Così abbiamo un dies operilis, bello e conveniente, ma che darebbe alla lettera giurnu òvéì. Senonchè il popolo dicendo giurnu de festa e non ricordando più l’origine aggettivale della nostra voce, anche ad essa prepose il de, come se fosse un sostantivo, donde giurnu d’òvei, che in qualche luogo suona anche, coll’aferesi, giurnu de vei. prescinsòa Oliv. « Latte rappreso, acido, colato in un pannolino finché ne esca tutto il siero ». Il Diez spiega prosciutto da per-ex-suctus: analogamente sarà prescinsòa da per-ex-suctiòla, con ü atono passato in i, e n inserto. ranguelu racimolo. Anche qui si tratta d’una radice tedesca. Ranguelu, che sta per l’anteriore ranguréllo, ha certo la stessa base dei moderai GIORNALE LIGUSTICO 259 vocaboli tedeschi Rank, giro, sinuosità, intrigo, Ranke, sved. ranka, ramo lungo e flessibile, viticcio, tralcio, vb. ranken, serpeggiare, avviticchiarsi, ed anche germogliare viticci. ravattu carabattola, ciarpa, per lo più usato al plurale. Sarà probabilmente da grabatum, lettuccio, e poi arnese di poco valore. La caduta di g nel gruppo gr ci occorse di già sotto arençenise. % relbìgu. ghirigoro, svolazzo. Ha la sua 1 adice nel tedesco mod. biegen, got. biugan incurvare, piegare. reigua barbatella, propaggine. Come reixe da radice, così è reigua da radicula. réu È usato in molte frasi, e specialmente in fâ reu, far comparita. Aggiungi vegnì a reu, detto dell’acqua, piovere a dirotto; ise da reu, di un bambino, essere un frugolo, che non sta mai fermo ecc. Il lat. retro composto colla prepos. ad quando il popolo pei dette il sentimento che cosi da solo esprimesse moto, dovè dare nel genovese normalmente a rem e poi a reu, allo stesso modo che da Petrus si ebbe Péru e quindi Péti. Ma se pel laro formale la cosa viene semplice e facile, può ad alcuno sulle prime parere che ideologicamente la distanza fra il nostro vocabolo e l’avverbio latino sia troppa. Nondimeno mi pare possibile provare il contrario. Il primo modo irj cui il nostro a reu si usò dovè essere appunto quello di avverbio 26ο GIORNALE LIGUSTICO e si sarà detto p. es. haec res venit ad-retro, per significare ciò che con un verbo, che par fatto apposta per gettar luce sul caso nostro, tuttora si dice nel dialetto Onesta cosa a reven (=retro-venit), quasi ritorna su sè stessa, cioè usandola rende più che non si sarebbe creduto. Ma il popolo bentosto venne a perdere il sentimento deU’etimologia della frase: questa cosa a ven a reru per esso più non significò altro se non viene in abbondanza, e reni parve appunto il sostantivo equivalente ad abbondanza o simile. Allora il verbo venire, necessario nella frase, finché essa fu organica, non potè sembrare più tale, e dovè rassegnarsi ad accettar altri compagni; e probabilmente primo a violare i suoi diritti venne il verbo essere, genov. ése, in frasi come la moderna èsighene a reu, essercene in copia. Presto s’aggiunsero i verbi fâ, dà, ecc. donde fâ reu, colla preposizione lasciata da parte, come inutile nel caso presente, determinandosi ad ogni singolo verbo o costrutto nuove sfumature di senso, che pero in fondo sono tutte riducibili al primitivo da noi tentato ricostituire. sâçu specie di ricotta. A Favaie, nella Fontanabuona, dicono sara^u (colle ^ dure) , e anche il Piemontese ha sairàss, seiràss. Non è altro che ser-aceus da serum, siero, etimologia già sospettata dal Biondelli. Quanto all’e passato in a nella sillaba iniziale atona, basta vedere quello che il Diez osserva nella sua « Grammatica comparata delle lingue Romanze » intorno alla comune tendenza di tutte le lingue medesime all’λ di sillaba iniziale. sciaroù che ha le gambe troppo larghe. Si usa più di rado il verbo sciaràse, squarciarsi, fendersi nel mezzo per sforzata apertura delle gambe, nel cadere o simile. GIORNALE LIGUSTICO 261 Si può ricordare che un se palatino iniziale è facilmente da ex anteriore come in scerba da ex-herbare, sciarbua da ex-albula, vitalba. Si avrebbe così un ex-arrare che ci mette sulla buona via. Infatti nelle Rime dell’ Anomino Genovese, Arch. Glott. II si legge di frequente arror per errore, VI 101, XCI 102, e questa forma ritorna assai spesso in tutti i testi d’antico genovese. Nelle stesse Rime si ha anche la forma arro, coll’accento sulla prima, cioè il mod. àru, che vale errore anch’esso, con qualche più 0 meno sentita sfumatura di senso: alo me g e daito l’arro, de rema, tosa o cataro CXV, 15-17. Ora questa forma, apparentemente strana, suppone un verbo arà sul quale certo venne fatta , verbo che troviamo anche nel genovese più tardo, dal cinqucento in giù. Così nelle Rime del Fogl. ediz. cit. pag. 132. O goarde come arremo'sempre moe cioè erriamo; così nelle Comedie Irasportae di Steva De Franchi, in composizione con in, se no m’innârro, se non erro, Avvoc. Pat. I, i. Finalmente mi si permetta ricordare un modo tuttora popolare, l’i in t’ii-n arû, o più di sovente, in t’ii-na me, detto quasi scherzando ad uno che sbagli, ma senza sentire quasi più affatto la forza di quell’ ani o di quella rue, che il popolo ornai riduce ad un ruve, rovere. Ci pare che tutto ciò basti, anzi ce ne sia d’avanzo a stabilire il nostro verbo ex-arrare invece di ex-errare; cosicché ganbe sciare non sarà altro che crura ex-errata, quasi uscite fuori dal loro luogo naturale. Il fin qui detto potrà valerci a risolvere un piccolo problema etimologico, posto prima dal Diez senza tentarne la soluzione, tentato poi da esso, ma con non molta fortuna. Si ha l’it. sciarra, rissa, contesa: Fare sciarra di imo, conciarlo male, secondo il F anfani; e il vb. sciarrare, dividere 2Ó2 GIORNALE LIGUSTICO aprire, sbarattare, mettere in rotta, e ancora, dal verbo, sciar-rata equivalente a sciarra, con di più il significato di millanteria, secondo il Fanfani stesso, che aggiunge : « Si dice anche per detti o fatti di minaccia, di rimprovero o simili, da levar rumore in pubblico, e se ne forma la frase Fare una sciarrata, delle sciarrate, forse venuto da Sciarra Colonna, che fu a’ suoi tempi un prepotentone finito. » L’Etimologia proposta dal Fanfani è di quelle cervellotiche, pur troppo non cadute ancora di moda, e non vai la spesa di fermarvicisi su. Ma il Diez che nella prima edizione del « Dizionario Etimologico » domandava a riguardo di sciarra e O O sciarrare « d’onde viene questa parola? » senza aggiungere nulla di suo, e solo per abbondanza osservando che Fr. Pasqualino lo traeva dall’arabo scharr, in posteriori edizioni propose l’ant. altoted. ζerrati, lacerare, d’onde l’it. -ciarrare, e poi, con s prostetico, sciarrare. Ora questa etimologia del Maestro non è affatto ammissibile. Infatti è certo che il genovese sciarà e rital. sciarrare sono la, stessa cosa e provengono da una radice comune : basta per persuadersene osservar le serie dei significati che il Fanfani ci dà: dividere, aprire ecc. che perfettamente fanno riscontro al significato del verbo genovese, quantunque con applicazione un po’ diversa. Nè il senso di contendere, sbarattare, mettere in rotta, che nel verbo italiano c’è e non nel nostro, fa alcuna difficoltà,poiché deriva in modo evidente dal primitivo, nè c’era alcun bisogno che i due verbi staccatisi dal medesimo ceppo seguissero perfettamente la stessa via. Ma c’è di più: pare proprio che il verbo genovese avesse un tempo, almeno in parte, anche questo secondario significato. Nelle già citate Rime Anonime si legge infatti : de tar e tanto amo li abraxe che de lor se cerna alquanti chi apage li xarranli en tranquilitae veraxe. GIORNALE LIGUSTICO 263 CXXII, i3_i65 dove xarranti equivale senza dubbio a contendenti. Piovata 1 identità dei due verbi, il resto viene da sè. Sciarra, contesa ecc. non è che un deverbale posteriore: ferrati ant. alto tedesco, che a stento potrebbe spiegare il verbo italiano, è messo affatto fuor di questione dalla forma genovese, che tutt'al più, derivando da esso, avrebbe potuto essere serà 0 sarà: non resta dunque che il nostro ex-errare, che anche colla forma italiana calza a meraviglia. Possiamo fare, giacché questo articolo è così lungo, una piccola coda. Cè anche un altro verbo dell’antico genovese, che certo deriva da errare nella forma arrare, servendo così se ce ne fosse bisogno, di nuova prova pel caso nostro. Questo verbo è araigar, di cui basta citare il seguente esempio dalle solite Rime, XIV, 90 e seg. : O quanti son per le peccae chi per lor grande iniquitae strapassam questo comando e monto guise araigatido! Il senso è chiaramente errando e la forma si ricostruisce con certezza in un err-at-ic-are, che trova il suo riscontro nell ant. venez, radegar, cui già l’Ascoli aveva ricondotto a questa base stessa, Arch. Gl. III. Annot. alla « Cron. deli Imper. » Less. scià/tu. fiastuono, chiasso. La forma più completa è sciarattu, che tutt 01 a s usa, specialmente al plurale, per scialo, sfoggio smoderato in vesti 0 altro. Si vede subito che la radice è quella stessa delFit. scialare cioè ex-halare, e col suffisso -at-, ex-hal-att-are, sciarattd, dove / passò al solito in r per cadere più tardi. Che dal senso poi di scialo, baldoria che e il primitivo, si possa passare a quello di rumore, frastuono, si capisce senz’ altro. 264 GIORNALE LIGUSTICO SCÔXÎ dir male di uno : jâse scôxî, farsi beffare. È senza dubbio da un ex-cansire, il quale ci conduce al latino classico causari accusare, accagionare, mutato di coniugazione. scjripilìti (oggi) occhi scerpellini. L’ital. scerpellini si spiega senza dubbio da ex-cerpere (cfr. il dantesco : Perchè mi scerpi ?), mentre il genovese corrisponde piuttosto ad un ex-carpere, con la vocale intatta, come è pure nell* it. scarso, ex-carpsus, e sembra un participio di quarta coniug., irregolarmente meglio conservato che gli altri, da un vb. scrapelì, ossia (per la tendenza a volgere in e ogni vocale delle sillabe iniz. stra, sera, prò, ra, ro, ecc.) screpelì. Ma come si spiega P irregolarità di quella miglior conservazione che diciamo ? Da un vb. screpelì si avrebbe screpeliu, come da senti sentili : perchè si mantenne dunque il t? Senza contare che non è nemmeno troppo legittimo il mutarsi in i d’un e anteriore, mentre dovrebbe succedere il contrario, come ognuno sa, e come provano i genov. belava, bisavolo, de^-ònu, disonore, re-ciammu, richiamo ecc. Questa seconda più lieve irregolarità è però presto spiegata. La legge che fa volgere un i atono ad e si trovò qui di fronte ad un’altra tendenza che momentaneamente prevalse, cioè all5 affinità di r genovese con i (riçoa retiola, Grigò Gregorio, riibatun da ribatun per reb. etc.) che produsse un scripelìti, e da questo, per i’ assimilazione dell’ ultimo e agli altri i, scripilìti. Più difficilmente risolvibile è forse l’altra difficoltà, ma anche qui, cercando, la spiegazione si trova. Tutti sanno che il lat. factus passa in genovese normalmente per gli stadii fajtu, faitu, fata, e che attrasse con GIORNALE LIGUSTICO 265 sè per analogia 'anche i participii di andare , dare , stare , i quali diedero andaitu, delitti, staitn, e poi andœtu, datu, stata, quasi fossero da andactus, daclus, stactus. Anche i participii di terza con. che avean -et- dovettero subire un’ evoluzione identica: dictus diede dijtu, ditu, e così frìtu da frictus ecc. Ora allo stesso modo che l’analogia produttrice di andœtu ecc. si fe’ subito sentire su scriptus che diè scrìtti quasi da scrictus, cosi si sarà pure esercitata sul nostro scripilìti quasi da scri-pilicti. Aggiungerò dalla prima ccniug. insprltoà, quasi da in-spirictatus, e ricorderò a questo riguardo le scritture spirictus e audictus delle carte medioveali. scrucugnàse si sente anche incrichignàse: accoccolarsi, accosciarsi. A Sas-sello scttrcinése. L’essere nel dialetto di Sassello palatino il secondo c , dimostra che non è etimologico il corrispondente c gutturale del genovese, poiché c guttur, lat. anche a Sassello si sarebbe dovuto mantenere intatto, o avrebbe dovuto farsi palatino anche nel genovese. D’altra parte l’unico fonte di questa palatina, che ci resti, quando si tenga sempre a riscontro la nostra forma, è t, cosi da aversi un ex -curt-in-are da curtus, quasi accorciarsi : cfr. il franc, se raccourcir. E invero il Sas-sellino ammette questo passaggio di t dopo consonante, seguito da semplice i, in c palat. e dice anche p. es. tarici tanti, denci denti: non lo ammetterebbe però se fosse seguito da altra vocale. Il genovese invece non conosce un tale fenomeno in nessuno dei casi: sicché bisogna ricorrere ad altro, e presto si vede a che cosa. Abbiamo già accennato in qualche luogo alla tendenza assimilativa dei vocaboli : qui un po’ più compiutamente diremo che, a differenza delle leggi fonetiche propriamente dette, sempre ristrette e ben determinate da certi limiti nello spazio e nel tempo, si hanno 266 GIORNALE LIGUSTICO comuni ad ogni tempo e ad ogni lingua, i cosidetti « Acì cidenti Generali » tra i quali specialmente Γ assimilazione e la dissimilazione, che traggono due suoni vicini a farsi più o meno simili, o, in altri casi, a diversificarsi più o meno energicamente. Nel nostro vocabolo genovese si ebbe per l’appunto un processo assimilativo, e non semplice, come stiamo per vedere, ma doppio. La base ex-curt-in-e-are avrebbe potuto e dovuto darci’ un s-curt-ign-à. Ma qui si verificò una prima alterazione assimilativa: ì’u attrasse con sè anche Vi e s’ebbe scurt-ugn-d : cfr. cusuniggia da cusiniggia, coccinilla. Ora ognuno sente come, con la grande somiglianza delle due sillabe successive, venisse quasi naturale il farle simili ancora di più, per sminuire lo sforzo della pronunzia : onde da scur-tugnà si venne assai naturalmente a scurcugnà, e finalmente colla metatesi all’odierno scrucugnà (i). Quanto ad incrichignase ognun vede che in un solo punto l’evoluzione di esso differisce dal precedente in quanto non 1’« attrasse con sè 1’/, ma Vi rese simile a sè stesso Vu. Vanno aggiunte alle forme esaminate, la voce ticinese crüsciass, milan, scrüsciass-gïo, accosciarsi (Biondelli), che rimangono a curliare o cx-cnrliare se. Il criisc (se palatino) ticinese, accosciato, venne formato sul verbo, ed è uno dei soliti participii contratti. senêta (andà in) Oliv. « Seneeta, cenere leggiera. Andà in seneeta, andare in consunzione ». Adunque il benemerito compilatore faceva (i) Si potrebbe esser tentati di riconoscere il processo contrario in tancua anter. tarancura tarantola. Ma se anche non si vuol negare l’influenza della dissimilazione, è certo che qui il t si mutò in c per la grande affinità del n colle gutturali. È riscontro bellissimo il tamaringu tamarindo, del popolo ; e si noti, qui la sonora risponde a sonora, come in tancua la sorda alla sorda. GIORNALE LIGUSTICO 267 una sola cosa de’ due vocaboli, probabilmente considerando che alla fin fine un andare in cenere poteva ben essere adoperato per andare in rovina, e con senso più speciale, perire per lento disfacimento. Io certo non vorrei negare che tutto ciò avesse, tirando un po’, qualche verosimiglianza ; ma osservo che basta leggere un andà in senéta tal quale nel genovese del cinquecento 0 del seicento (io lo trovai, ma non riesco ora a ricordar dove) per far sorgere gravi dubbii : infatti r non potrebbe mancare, e dà motivo di conchiudere che se non c’è, non ci dovette essere mai. Ma la spiegazione, del problema ci è data evidentissima dalla parafrasi Lombarda del « Neminem Laedi nisi a se ipso » pubblicata dal Forster nel VII. voi. dell’Archivio Glottologico, prouar le. gran cateuetae e uiue in senechia, 42, 30 31. Siccome in quell’antico testo il chi corrisponde ad un et anteriore, se ne deduce un senecta, cui benissimo conviene il genov. senéta, come pètu a pectus. Adunque ire in senectam è reso tutto intero dalla frase genovese, nonostante il senso alquanto mutato, mutazione per la quale si può anche considerare il valore del senium latino. sgarbelà scalfire, scarificare, Boi. Ferrar, sgaravlàr. L certamente da ex-carpere (cfr. scripilìti) per via di ex-carp-ell-are, mentre con diverso suffisso si ebbe s-carp-ent-à, cioè ex-carp-ent-are, graffiare, lacerar la pelle. Proprio il primitivo ex-carpere, passato alla prima coniug. si ha nel mil. scarpa, lacerare, piac. scarpa e ferrar, sgarbàr, strappare, sradicare. Ma anche nel nostro dialetto un tale primitivo, sebbene con significato alquanto mutato, si trova, e noi lo riconosceremo nello scravà, sfrondare, pieni, scarvi, tagliar la cima dei rami, scapezzare. 268 GIORNALE LIGUSTICO strexiu Ol. « arsiccio, arso, e dicesi per lo più del grano diseccato a un tratto dal sole troppo caldo ; voce del contado ». Corrisponde al lat. transitus, colla metatesi di s che è frequente nel trans- (etr. stramuà da trans-mntare) e coll' indebolimento di a in e, solito nelle formole iniziali stra- ecc., come vedemmo altrove (V. scripiliti). La perdita di n davanti ad s, non è qui un fenomeno propriamente romanzo, ma come tutti sanno, piuttosto latino, d’ onde le forme mese da mensis, ascoso da absconsus. Il senso va d’ accordo assai bene colla forma ricostruita, poiché transitus significò in primo luogo passato, morto, e da tale significato fondamentale e generale, ne sorsero dei più particolari: il fr. transi si determinò piuttosto nel senso di morire di freddo, di paura, il genov. strexiu in quello di morire, andare in rovina pel caldo. ve stovigliaio. Mi mancano affatto esempi antichi o d’altri dialetti, sicché resta un po’ dubbio. Nondimeno non parrà, spero, inverosimile, il supporre una forma anteriore ver è, di dove sarebbe caduto il solito r, e il trarre questo vere da vitrarius secondo vogliono le leggi fonetiche del nostro dialetto. Per la caduta del t cfr. reu più sopra ; per arius in é (cioè -aire, -ero, -er, -e) gli esempi abbondano: strapunti, straçé, ciculaté, siati, ecc. Che poi il senso di vetraio abbia potuto estendersi benissimo a chi vende ogni specie di stoviglia, credo non ci sia nessuno che voglia negarlo. E. G. Parodi. GIORNALE LIGUSTICO 269 VITA PRIVATA DEI GENOVESI LA DONNA NEL SECOLO XV NELLA STORIA. (Continuez, e fine v. ann. XII, fase. I-II). IV. Chi si fermasse ad alcuni accenni della novella di G. B. da Udine potrebbe credere che già fin dal sec. XV il fiore del serventismo nella sua frollata leziosaggine fosse felicemente sbocciato in Genova. Ai passi citati si aggiunga per un es. questo, che è una proposta non molto onesta dell’innamorato giovine a Minetta : « Or che maritata sei, senza biasimo potrai facilmente di tanta lunga mia servitute e vero amore premiarmi: che se marito essere non t’ho potuto, non negare che almeno amante essere non ti deggia : che ben sai che per donna santa e casta che tenuta sia, tra Γ altre comparire non potrebbe, se di amante fosse priva » (p. 22). Era dunque una moda? E come si potrebbero accordare due termini, al vedere, un po’ ripugnanti tra loro: vivere sante e caste ed avere un amante, essendo maritate? È ben vero che un po’ più oltre lo stesso Polo De’ Fornari dice alla sua donna : « Contentati di vivere solo per dimostrare alle altre il modo ^ la maniera di conservare la onestade da poche oggidì co-hosciuta » (p. 26). Ma già abbiamo sentita la vivace difesa che la gentildonna faceva dell’onore del suo sesso. Ora, volendo lasciar da parte l’argomento troppo abusato da’ novellieri degli amori adulteri e dare al fatto un’ interpretazione GIORNALE LIGUSTICO ragionevole, pare a me che sia da ravvisare nelle nature elevate e gentili un amore idealizzato, o meglio una corrispondenza incolpevole di affetti e di pensieri, fondata sulla cortesia cavalleresca e sulla dottrina dell’ amor platonico, i cui influssi erano allora fortemente sentiti dagli Italiani. Influssi platonici che fecero meglio stimare i pregi femminili e che mescolandosi colla moda, generarono nel cinquecento l’intendio. Quanto agli spiriti frivoli, c’era come c’è ancora (eppure la società non ne è mica sconvolta, anzi è piacevole incubazione ai congressi delle donne americane) c’era dico il desiderio di primeggiare, il piacere di vedersi corteggiate, le innocenti maliziuole muliebri e tutto ciò in ossequio al precetto più tardi formulato dal Giraldi : « che può cortese donna amare virtuoso giovane , senza pregiudicio della sua bon està » (i). Non c’è dubbio, almeno per me, che in siffatta tendenza viveva in germe il serventismo, che deposta la pretensiosa vernice spagnolesca doveva poi venir su con il facile rigoglio de’ rosolacci e spampanare allegramente alle miti aure del secolo XVIII. Difatti cotesta imbellettata corruzione getta le sue lontane propaggini molto addietro nel tempo , come il Neri ha dimostrato in un suo curioso studio, c quanto a Genova, sarebbe, in un caso, ben naturale che in essa se ne scoprisse un primo embrione, poiché è a Genova che l’istituzione de’ cavalier serventi ebbe ad acquistare celebrità, farvi scuola, stabilirvi, per cosi dire, una delle sedi principali. Resterebbe ora a vedere se in un secolo d: forti passioni, come il XV, l’usanza ricordata dal novelliere, potesse fino ad un certo punto difendere e custodire la verecondia femminile. Ma perchè no, se essa moda era la naturale conseguenza di una platonica cavalleria ? Anche il (i) Giraldi, Hecatommiti, III, nov. 2. GIORNALE LIGUSTICO \ goffo e ridicolo cicisbeismo ha pur potuto prosperare per un certo tempo, tenendosi ne’ confini del lecito. E la svenevole incontinenza del Settecento non era da compararsi con la sincerità del Quattrocento per tanti lati ancora congiunto al medio evo. Che una gentile onesta corrispondenza fosse possibile, ne fanno fede gli eletti circoli della corte d’ Urbino rappresentati dal Castiglione, ed allagando il mal costume nel Cinquecento, Giulia Gonzaga, Veronica da Correggio , Vittoria Colonna che vennero in fama non per la dottrina soltanto, ma anche per questo genere di amori (i). So benissimo che io produco qui argomenti fieramente oppugnati da gravi ed autorevoli testimonianze. E lasciamo stare i novellieri i quali se hanno importanza per ciò che s’ attiene al costume, sono poi mal fidi ne’ loro giudizi sulla donna che proseguono di quel medesimo disprezzo onde era stata denigrata dalla novellistica orientale e dall’ascetismo del medio evo. Ma il Prierio ? ed altri ancora, come il Visdomini, il Musso che nelle loro prediche ripetevano a’ Genovesi su per giù quelle tali gentilezze che il lettore ha già sentite per bocca del primo? Tutta gente soda, per bene, incapace di contare una cosa per un’ altra. Ed è verissimo. Ma qui importa fare una distinzione. Il sec. XV per Genova finisce nel 1502 con la prima venuta di re Luigi XII e la conseguente soggezione della Repubblica ad una signoria straniera. La padronanza francese oltre a’ necessari frutti di servitù, ne portava anche abbondantissimi di corruzione e la lascivia rinfocolava il principe che era largamente imitato , come dev’ essere l’esempio che vien dall’ alto. E a vituperio di questa nuova rilassatezza che spendevano la loro eloquenza gli oratori sacri citati. (1) Burckhardt, op. cit., II, 235. 2η2 GIORNALE LIGUSTICO Mettiam dunque da parte il Visdomini, il Musso, il Bosio che appartengono al sec. XVI ed evidentemente si riferiscono ai costumi del loro tempo. Resta il padre Prierio e per verità egli è credibile testimonio all' uscire del Quattrocento. Ma io, non accetterei alla lettera, tutte le terribili accuse ch’egli scaraventa tra capo e collo a' Genovesi. Per prima cosa esse discordano un po’ troppo dalle lodi che fa di Genova nella dedica del Quaresimale a’ suoi nobili amici. Citiamo. — « Me a cui sempre, e non in modo volgare cotesta inclita Città piacque, non indottovi solo da cieco amore alla patria, ma a ciò persuadendomi anche la ragione: però che nessuno metta in dubbio Genova, per Γamenità dei luoghi, per gli ammirabili monumenti, per le immense ricchezze si pubbliche che private, non solo, ma anche per la nobiltà del sangue, honestate item et civilitate morum et fidei catholicae sinceritate, non cedere nello splendore a qualsivoglia altra città d’Italia ecc. ». Ma come ? Quella che nella predica in S. Maria di Castello era totaliter prophana et plena omni vitio, qui scambiate carte in tavola diventa di punto in bianco un modello di onestà e gentilezza di costumi tanto da persuadergli e comandargli quasi l’amore che aveva per lei ? Vi pare che siffatte parole potessero usarsi, anche facendo parte ai complimenti di una dedica, per una città che in sè conteneva quanto di peggio avevano Sodoma e Gomorra e le altre cinque che perirono di fuoco ? In quale dunque delle due versioni era sincero il padre Prierio ? Io credo che lo fosse nell’una e nell’altra, purché si intenda con le necessarie restrizioni. Prima di tutto certe sdegnose rampogne non si debbono pigliare con troppa serietà. Vorreste voi dare tutta 1’ estensione che possono virtualmente contenere alle amare parole di Marco Lombardo o di Forese? « Lo mondo .... tutto diserto D’ ogni virtude......... E di malizia gravido e coperto. » GIORNALE LIGUSTICO 273 «......sarà in pergamo interdetto Alle sfacciate donne fiorentine L’andar mostrando.....il petto » (1). Il pessimismo quando è la conseguenza di un forte amore del bene è nobile passione che però ha bisogno di un discreto e giudizioso interprete. Ora si pensi all’ austerità necessaria dell’ uomo. Egli domenicano non era sfuggito agli influssi del terribile frate di S. Marco, e dico non era, perchè visibilissimi sono in questa stessa predica fatta a’ Genovesi. La terza parte di essa non è se non una ripresa della profezia del Savonarola : « Florentia flagellabitur et post renovabitur. » — Anche Genova avrebbe patito il flagello del Signore. — « O Janua, tu es monita verbis, iam multis annis, tu es monita factis, peste et bello: es autem effecta peior in luxuriis odiis et iniustitiis. Ergo aut disperderis aut flagellaberis amplius. » — Tutto ciò è esemplato sull’ eloquenza del Savonarola. Più tardi doveva essere tra i teologi consultori del Concilio di Trento. A uomo siffatto non è difficile capire che ogni fuscello, o nel suo o nell’occhio altrui dovesse parere una trave, che certe piaghe gli paressero più profonde e incancrenite del vero. Ma io non son qui per fare il panegirico del padre Prierio, buon’ anima sua. Stiamo in carreggiata e teniamogli conto ch’egli si stempera in sbardellate lodi pel tempo passato. Oh i bei tempi consule Planco I Quando i vecchi in memoria della passione di Cristo non permettevano che tra loro bazzicassero Ebrei. — « Ora invece essi sono diventati i vostri medici e già cominciano a dissuadervi dalla confessione, e sono negromantici, nè attendono ad altro ». — È da aggiungere che la paterna dominazione di Luigi XII, entrato glorioso e trionfante per la seconda volta in Genova nel 1506 e con quel garbo che (1) Purg. XVI, v. 58 segg. — Purg. XXIII, v. 100 segg. Giorn. Ligustico. Anno XII. 274 GIORNALE LIGUSTICO tutti sanno, scambio di quetare le discordie le aveva invelenite più che mai. È appunto agli odii crudelissimi di que’ giorni e al furioso parteggiare che, guardate inciviltà, non sapeva piegarsi conquiso dinanzi alla grafia delia regia maestà che vanno riferite le parole già citate : « haec civitas est totaliter prophana et plena omni vitio. » — Tant’è vero che il discorso sulle vendette di parte vi tiene dietro immediatamente. Ora, domando io, in tutto ciò che cosa han da vederci le donne e i loro costumi? Un altro buon terzo delle gravi censure mettetelo a carico della sodomia e già il lettore si sarà accorto che Γ accenno a Sodoma e Gomorra non era sine qttare (i). Soltanto non so se il buon tempo andato, con buona licenza del padre Prierio, potesse vantarsi di star meglio su questo particolare. Ed eccoci finalmente all’ altro terzo che è inutile voler dissimulare. Per scrupolo di verità aggiungerò anche che l’oratore rincalza : « E cotesti orrendi peccati non sono in pochi, ma in molti, anzi nella maggior parte della città. » Per altro si badi bene che nella denominazione di peccati c’è compreso tutto, omni genere musicorum, si badi che pigliati ad un per uno la loro estensione ed importanza diventa molto minore per confessione stessa del Prierio. « Chi una cosa commette e chi 1’ akra. Sicché difficilmente troveresti uomo non volto a libidini, oppure non ingiusto ed imparziale, ed a stento (i) Lucca favoriva di estesi privilegi il meretricio quasi nello stesso tempo che Genova lo colpiva di numerose restrizioni (Cfr. Belgrano, op. cit. p. 432). E que’ sapienti legislatori si saranno fregate le mani e applauditi virtuosissimi , come Catone. Ma fra tanto la sodomia imperversava. Si notino qui certi riscontri di date eloquenti. Nel 1498 severe leggi erano comminate contro la prostituzione; e nel 1506, il Prierio trovava che nella città accadevano disonestà grandissime e tali che forse non ci furono a Sodoma. E più oltre: « Ormai non si ha più nessun rispetto all’inclinazione naturale; la sodomia si tiene per nulla ». GIORNALE LIGUSTICO 275 donna casta 0 che non odii ». — Anzi a farlo apposta le ire riardevano più violente nei dolci petti femminili che nel sesso virile. — « Imo fortiora sunt odia et partialjtates in eis quam in viris ». — Vien voglia di esclamare: Benedette! Se stillarono a’ figli nelle vene insieme col latte anche una goccia d’ odio per la servitù straniera, per Γ abbiezione nazionale, se non sofferirono che la corruttela francese affralisse interamente la forte fibra della donna dei comuni, Dio le benedica. Non indegne nepoti delle gentildonne genovesi del sec. XII e XIII, che si burlavano delle sufficienze e galanterie provenzali, e per cui Rambaldo meravigliato che si resistesse per davvero scriveva la prima delle canzoni bilingui. Ed ora ristabiliti i fatti in quella che ci pareva la verità vera, mettiamo a dormire il padre Prierio che abbiamo disturbato’ anche troppo. Sarebbe come il voler dire e sacramentare che ai giorni nostri tutta Parigi è Mobilie. Difatti certi cortesi stranieri, partendo da criteri identici, non durano una fatica al mondo ad asserire che gli Italiani in mazzo sono tanti briganti della Sila. E tutti sanno come gli stranieri ragionano sempre giusto delle cose nostre. V. Del resto nello studiare la donna italiana di que’ secoli non si può nè si deve tacere di un’ altra' qualità caratteristica di lei, flutto aneli essa della sviluppata individualità, il contegno Il Gregorovius dall’ avere osservato questo fatto fu condotto ad assegnargli un’ estensione che veramente par soverchia._ « Fondamento della educazione di una donna italiana, dice lo storico tedesco, fu in ogni tempo la devozione per la Chiesa. Quella non era già rivolta a formare il cuore e 1’ a-nimo, ma una bella forma di contegno religioso, mercè la quale la fede potesse dare una certa ritenutezza morale. Il 2ηβ GIORNALE LIGUSTICO peccare in sè non rendeva brutta niuna donna, ma dalla peccatrice fosse pure la più dissoluta il costume esigeva che... si mostrasse all’ apparenza una cristiana ben composta. Donne scettiche e di libero spirito si può dire non ve n’erano.. . E più oltre: « E erroneo credere che qui si tratti di una ipocrisia. Questa implicherebbe un pensiero indipendente intorno ai problemi religiosi, o un processo interiore e morale che è estraneo affatto alle donne di quel tempo e che in massima parte è tutt’ ora alle donne italiane. La religione era ed è in Italia forma di educazione ; e per minimo che tosse il suo valore etico , era pur sempre una specie di bella formalità, nella quale la vita quotidiana era rinchiusa e assiemata come in una cornice » (i). — Un giudizio così complesso cessa per necessità di essere esatto, segnatamente quando pigli tanta estensione da abbracciare tutta la Rinascenza e se non basti anche il momento attuale. Per prima cosa, non è veio che lo studio del contegno sia proprio ed esclusivo del Rinascimento. A convincersene basterebbe, fra i molti, prendeie in mano il Barberino (2), che vagheggia talmente un suo cotale ideal modello di perfezione muliebre da consigliare alla novella sposa perfino la ipocrisia dello stomaco (3). Ora a nessuno verrà in mente di asserire che la religione nel sec. XIII avesse in Italia un valore etico minimo e si riducesse ad una specie di bella formalità. Il Rinascimento questa, come in altre parti, si allontanò dall ideale della valleria e si foggiò in quella vece un tipo che voleva essere greco o romano, ma che inconsapevolmente pielude\a (x) Gregorovius, Lucretia Borgia, trad. R. Mariano, Firenze Le Mon· nier 1874, 24. (2) Barberino, op. cit. passim. (3) La frase è del Bartoli, Stor. Lett. It. vol. II, 313· GIORNALE LIGUSTICO P uomo moderno, conseguenza ancor essa della materia antica versata per entro ad un nuovo stampo. Anche ammettendo col Gregorovius che 1’ adulterio fosse diventato il motivo dominante della letteratura del Rinascimento, è lecito per altro osservare che dal non aver trovato in quella società'donne scettiche e di libero spirito, o in altre parole, armate di una incredulità che è molto frivola e tutta moderna, egli si è affrettato troppo a concludere che che la donna italiana di quei secoli fosse il risultato del più volgare artificio. Per un esempio i circoli della Corte d’Urbino rappresentati dal Castiglione, idealmente è vero, ma pur rispondenti al concetto che viveva nella mente di quegli uomini, si sottraggono a quel severo giudizio; e in un altro ceto, le lettere di quella soave anima che dovette essere la Margherita Datini e dell’Alessandra Macinghi stanno a prova del contrario. Studio del contegno donnesco c era, non v’ ha dubbio, e come no, quando negli uomini, esso veniva elevato a perfezione d’ opera d’arte ? Io non ripeterò qui gli avvertimenti che Lorenzo de’ Medici dava al figliuolo, cardinale Giovanni, non li ripeterò, perchè suppongo che molti de’ lettori li abbiano a mente; ma dove trovare teoria più ingegnosamente esposta delle virtù fisiche e morali che compongono l’uomo di Stato, se non forse un trent’anni dopo nel Principe del Machiavelli ? E quell’amore della classica compostezza di forme in unione alla sviluppata individualità forse originava il nuovo modo di rappresentazione della bellezza, che è proprio de’ poeti e scrittori in generale del Rinascimento. L’apoteosi, del sorriso nella donna amata bastava alla purezza virginale dell’amore di Cino e di Dante, ma a’poeti della nuova scuola non basta più. Ora è d’uopo di una bellezza sensibile che fiorisca nel verso illuminata dalle invenzioni di Anacreonte, che sorrida, voluttuosa nelle forme rigogliose tondeggianti di Tibullo Ovidio Properzio. L’ arte ha 27S GIORNALE LIGUSTICO cessàto di essere un’ ufiziatura divina : ora plasma amorosa-mente una dolce creatura terrena in cui si fermi il sospiro delle anime perdentesi dianzi per l’infinito. Nò ce ne dorremo, se Dio vuole. Non mancava neppur allora chi si ostinasse nel tipo estetico convenzionalissimo che era durato per tutto il medio evo (1); versaiuoli che enumerano ad una ad una le qualità della loro donna, come il cozzone di cavalli quelle della mula condotta al mercato (2); ma la rappresentazione pagana è stupendamente vera ne’ migliori ! Splende pur tra le tede funebri, come per la divina Albiera, di così vivi colori! « Aura quatit fusos in candida terga capillos, Irradiant dulci lumina nigra face » (3). Come resistere al desiderio di posare da modelli ? Senza contare, e le donne sei sapevano benissimo, che i bei modelli andavano più presto a marito. Nelle antiche rime genovesi si trovano a questo proposito alcune avvertenze sul prender moglie (4). Quattro cose requer en dever prender moier : zo e saver di chi el e naa, e corno el e acostuma e la persona dexciver e doto conveneiver. Se queste cosse ge comprendi A nome de De la prendi. (1) Cfr. R. Renier, Il tipo estetico della donna nel Medio Evo, Ancona, Morelli 1885. (2) Cfr. Guasti, Lettere della Macinghi, Proemio Vili, canzone di Nicolò Tinucci per la virtuosissima Alessandra de’ Bardi. Il poeta non sta contento agli archeggiati cigli. — Ove splende il bel lume di due stelle, ma descrive le guancie, il dritto naso e bel che quelle [le guance), odora, i denti, la gola, ecc. ecc. (3) Poliziano, Poesie latine e greche, Firenze, Barbera 1867, p. 242 v. 81 , 82. (4) Rime Genovesi dei secoli XIII e XIV, in Arch. Glott., II, 266, n. 88. GIORNALE LIGUSTICO 279 II bravo anonimo aveva ragioni da vendere : ma ahimè a Genova come altrove tutte queste belle cose o parti, così le dicevano i Toscani d’allora, non era mai lo sposo a cercarle direttamente nella sua donna. V’ erano i parenti o i cozzoni di matrimonii che facevano per lui, e a negozio ultimato, gli davano moglie. Anche peggio andava per le fanciulle. Libertà di scelta molto raramente fu lasciata alle donne : ciò nel medio evo come nel Rinascimento, e i fatti che in contrario possono adduisi attestano non la libertà, ma l’astuzia femminile che trascinava ad amori colpevoli od infelici. Mai còme allora fu tanto vero in questa parte il canto epitalamico di Catullo (1). « At tu ne pugna cum tali coniuge virgo Vii g initas non tota tuast, ex parte pcirentumst y Tei tia pars patrist, pars est data tertici matri, Tertia sola tuast : noli pugnare duobus, Qui genero sua tura simil cum dote dederunt ». E poi si parla con tanta facilità di innovazioni : no, no la razza umana e fatalmente congiunta al passato ne’ pensieri, negli affetti, nella fede e non si mette per nuove vie se non sospinta da un uragano che le scoppi alle spalle, ma a malin-cuoi e e volgendosi indietro con rimpianto. Si cercava un compenso alla desiderata, forse, e di rado conseguita eguaglianza de cuoii nel rumore delle feste. Cominciavano coll’andar della sposa alla casa del marito e si sceglieva per lo più un giorno di domenica . gradita occasione di sfoggiare la ricca veste nuziale, di stordirsi colle grida festose de’ fanciulli, degli amici, de clienti, se la casata era ricca. Il rito nuziale conservava ancora in qualche parte la vecchia poesia delle nozze 1 ornane, non senza una pallida reminiscenza degli antichi (1) Catulli Carmina, Lipsia, Teub/ier 1872, LXII^ v. 60 segg 28ο GIORNALE LIGUSTICO fescennini. Se non che le noci, che nel carme di Catullo sono segno dell’antica rozzezza, qui con intenzione più gentile erano distribuite dalla sposa stessa. E presso la casa maritale non mancava neppure il serraglio, graziosa usanza di popoli giovani che non hanno per anco prosificato .tutto nella vita. Ma ahi, il medio evo ne faceva ancora delle sue. Non sempre il drappello de’ giovani asscrragliatori si stava contento dell imbarazzo o vero o simulato della sposa, che impedita trattenuta doveva dar in pegno una delle sue smaniglie o fettuccie per riscattarsi ; gli ardenti giovani andavano anche oltre e allora la Signoria a sancire pene contro coloro che ardissero o per giuoco o per davvero, di nascosto o in palese, rapire la nuova sposa dalla casa del marito (i). Nuove leggi e del pari imperiose inesorabili per i conviti nuziali, per i regali da offrire o le vesti da indossare nei conviti nuziali. Erano tempi omerici quelli per la tavola, e si continuavano per tre di con buona licenza della Signoria, a condizione però che con la sesta ora della notte del martedì si tacesse fine e i signori sposi andassero a dormire. Il Sacchetti racconta che erano protratte per quattro giorni e forse ne’ tempi da lui descritti era vero. acquista infamia e carico. Più piacevolmente l’autore del Governo della famiglia, su quest’ argomento avvertiva : « Donna mia, sopratutto a me sarà a grado che tu faccia tre cose. La prima che qui in questo letto tu non desideri altro uomo che me solo. Ella arrossì ed abbassò gli occhi. La seconda che avesse buona cura della famiglia, tenessela con onestà e in pace. La terza che provedesse che le cose famigliari non si trasferissino male ». Uomini che studiavano amorosamente Tito Livio avrebbero (i) Cfr. Torraca, Fra Roberto da Lecce, in Arch. Stor. Nap. VII, 141. GIORNALE LIGUSTICO riso delle donne politicanti e ricordata l’austera indignazione che ne sentiva l’anima repubblicana di Catone (i). Uomini ohe alternavano i pubblici negozi co’ gli studi classici, che del fantasma di Roma eransi formato un modello sul quale esemplavano la vita, avrebbero fatto più che ridere alla vista di chi per vezzo, per cortigianeria od altro si fosse reso servo della moglie. — « A me mai piacque, dice Γ Alberti, in luogo alcuno, nè con parole, nè con gesti, in ninna minima parte qual si fosse sottomettermi alla donna mia ; nè mi sarebbe paruto potermi fare a lei ubbidire, avendole dimostrato esserle servo ». Ed abbiam ragione di crederglielo. Però osservava anche: — « Le femmine troppo meglio s’ammaestrano e correggono con modo e umanità, che con durezza o severità. Il servo potrà patire le minacce, le busse, e non isdegnerà sgridandolo; ma la moglie piuttosto ubbidirà amandoti che temendoti ». — E con quanta delicatezza non la riprendeva che si fosse lisciata il viso (2) ! Non tutte novità, so benissimo, e già otto secoli prima Ischomaco sedendo nel portico di Giove Liberatore poteva riferire avvisi somigliantissimi, come pronunziati da lui ad ammaestramento delia sua donna (3). Non novità, però è anche vero che volendo trovare altrettanta serenità, altrettanta elevazione d’idee e forse maggiore, altrettanta soavità di dettato e forse più, e alcuno dei vagheggiati ideali della nostra razza, il medio evo non basta ; conviene risalire all’ espressione più schietta ed umana del tipo ario, voglio dire alla civiltà greca. L Ivani, che non parla di lisci dei quali pure le genovesi d’ali ora abusavano e non solo le genovesi, ragiona in cambio (1) Livio XXIV, 2. (2) Alberti op. cit. p. 278, 277. (3) Senofonte, Economico, cap. Ili e segg. Giorn. Ligustico. Anno XII. 290 GIORNALE LIGUSTICO dell’ educazione da darsi a’ figliuoli. Ma io non lo seguirò, perchè que’ consigli mi paiono inspirati piuttosto da rettitudine d’ animo che da peregrinità d’ idee e perchè inoltre mi condurrebbero un po’ fuori d’argomento. Del resto nel presentare una lettera dell’ Ivani non m’era punto caduto in mente di offrir cosa che avesse un grande valore o estetico, o storico, o morale. Con essa io non volli far altro se non cogliere la significazione individuale, ma comune a’ più, di quel concetto che la Rinascenza ebbe della famiglia. Non a torto Γ Ivani diceva sul finire : Questo è il vero buon governo della famiglia civile. Civile come la comprendevano i più acuti intelletti contemporanei. Insomma il Quattrocento mirava a tradurre in atto anche per la donna il tipo di ideale bellezza che formò l’inspirazione de’ suoi poeti, de’ suoi artisti insuperati. Gloriose teste del Perugino, di Masaccio, del Ghirlandaio! quell’arte era degna di quella vita, 1’ una assetata di plastica bellezza, l’altra conducente a concordia il crudo realismo del medio evo e le esagerazioni manierate vaporose della cavalleria e del platonismo. Ahimè, non vi riusciva sempre , e non rade volte la creta mortale sopraffaceva 1’ angelo. Ma è caro ripensare a tante miti soavi creature fiorenti in quello splendido tramonto della grandezza della patria, a Ginevra Lornellini, a Violantina. Giustiniani (1), alle donne semplici e schive, sopratutto umane, che educavano i figliuoli e custodivano la casa, amabili vestali del focolare domestico. Carlo Braggio. (1) L’una lodata dal Boccaccio, Decameron, Giornata II, nov. IX, il primo uomo del Rinascimento, l’altra dal Betussi , Addizioni allibro delle donne illustri dello stesso Boccaccio. Cfr. Belgrano, op. cit., 399. GIORNALE LIGUSTICO 29I VARIETÀ DOCUMENTO INEDITO DELLA PORTA SOPRANA DI S. ANDREA. Alle vandaliche opere onde nei principi del secolo XVI venne guasta la maestosa Porta di S. Andrea in Genova (1), si aggiunse un’altra grave offesa l’anno 1576, come consta dal seguente decreto , di cui abbiamo avuto gentile comunicazione. Oltre a ciò che in questo atto concerne il monumento, si noterà il costume , già allora invalso (chi sa da quanto tempo ?) e tuttora vigente, della vendita delle torte nei pressi della storica Porta. Nè passerà inosservato il nome di scribilita, derivato dalla buona latinità, e già noto per un atto genovese del 1447 (2). Esempi più antichi non mi soccorrono alla memoria; ma forse è da congetturare che ne svecchiassero 1’ uso i nostri cancellieri-umanisti del secolo XV. Scribilita, del resto, dissero Catone (De re rustica, cap. 78) e Marziale (.Epigr. III. 18); ma non manca, giusta il Lessico del Forcellini, chi vorrebbe scrivere striblita o streblita, de rivando il nome dal greco streblein (torquere), « quia in circulum torqueatur in modum restis: unde italorum torta e tortiglione ». 1576, die veneris, 27 aprilis. In vesperis, in Camera, etc. Magnificum Officium Patrum Comunis, in quinto et pleno numero congregatum ; viso et oculata fide visitato per praefatum Magnificum Officium loco subtus Portam seu arcum Portae Sancti Andreae, per contra; quem locum seu situm degunt illae mulieres vendentes scribilitas, seu ut (1) \ed. La Porta Soprana di S. Andrea; Genova, Sordo-Muti, 1882 ; pag. 31. (2) Ved. la mia Vita privala dei genovesi, seconda ediz., pag. 171. 292 GIORNALE LIGUSTICO vulgo dicitur turtas , intra quem locum penetrando et perforando spacio expedito muri quod est ibidem , sine offensione fundamenti muri dictae Portae et apothecarum ibidem circumsitarum, commode fabricari posset apotheca et reperirentur facile conductores , prout plures se obtulerunt , quod enim esset utile et benefitium Camerae. Considerans, attenta maxime relatione magistri Johannis Poncelli, architecti et capitis operum Camerae, hoc non esse in preiuditium nec damnum privatorum nec muri dictae turris et Portae Sancti Andreae, a parte dextra scilicet eundo versus Portam Sancti Stephani de Irchis, sed esse visu potius in decorem quam turpe, et quod iter tam frequentatum a maxima copia transeuntium erit magis expeditum et liberum quam nunc est, attenta occupatione soli et stratae publicae quam faciunt dictae mulieres, quae cum ementibus continue occupant dictam viam et stratam publicam tam frequentatam, et antehac examinato hoc negotio per plures vices; ad calculos, omnibus concurrentibus, decrevit in dicto spatio et crassitudine muri praedictae Portae Sancti Andreae, a parte dextra, fabricandam esse apothecam longitudinis et capacitatis prout iudicaverit dictus magister Johannes Poncellus posse fieri, ita et taliter quod foramen et apertura dicti muri, et sic dictae apothecae, non possit nocere nec obesse fundamentis et substentaculis dictae Portae ; et hoc expensis et de pecuniis Camerae. Et interim per praeconem publicum fiat notitia super dictam Portam, quod quicumque voluerit conducere et habere dictam apothecam compareat et offerat pensionem , et offerenti maiorem illi locabitur ; et ita etc. (1). L. T. B. DEI TESSUTI PORPORINI RINVENUTI NEI PeTACAS (2) DEGLI JUNCAS IN ANCON NEL CIRCONDARIO DI LIMA (PERÒ). L’uso dei molluschi come alimenti, ovvero delle loro conchiglie nell’acconciatura della personae nelle industrie ornamentali fu comune a tutti i popoli antichi ed esiste ancora presso i moderni. Il selvaggio che abita le sponde della Australia mangia (1) Archivio Civico. Cod. intit. Decreti dei Padri del Comune, a. 1575-7. (2) Petaras. Panierine da lavoro per donna. GIORNALE LIGUSTICO abbrustoliti sopra i carboni i molluschi che si procura colla pesca, mentre il Romano ricco delle spoglie di tutto il mondo ingrassava le ostriche con grande spesa e noi popoli moderni e civili le coltiviamo in mari chiusi sulle nostre coste. I primitivi trogloditi abitatori delle grotte di Mentone ornavano di conchiglie le loro vesti grossolane e ne facevano collane, spilli e pendenti, appunto come le popolane dei nostri villaggi usano ornarsi il collo di carnei scolpiti sopra le madreperle , che sospendono pure alle orecchie o confondono colle trecce. I popoli antichi conobbero la porpora , colore che estrae-vasi ordinariamente dai murici, e se non tutti praticarono Γ arte di fabbricare i ricchi tessuti porporini, tutti li avevano in grande pregio e li pagavano a carissimo prezzo. La porpora estratta dai molluschi, detta porpora marina, era rarissima, e siccome il suo colore violetto piaceva assai, i tintori usarono imitarlo con tinte di minor valore, di modo che le porpore adulterate, dette fucate, perchè ordinariamente preparate col fuco, diventarono comunissime. Altra volta trattammo della porpora vera e delle sue falsificazioni presso gli antichi (i); ed allora abbiamo dimostrato come sia difficilissimo, e forse anciie impossibile, distinguere con mezzi fisici la vera porpora marina dalle imitazioni abilmente eseguite mediante sughi vegetali contenenti indigotina. La ragione di questa difficoltà noi Γ abbiamo data facendo vedere che la vera porpora marina contiene indigotina animale, la quale è identica aH’mdigotina vegetale, di guisa che se nella tintura porporigena viene a mancare per un motivo qualunque la materia rossa , il chimico si trova nella impossibilità di distinguere la tinta animale vera dalla tinta vegetale (i) Atti della R. Università di Genova — Studi spettroscopici e chimici sulle materie coloranti di alcuni molluschi del mare ligure, GIORNALE LIGUSTICO ordinariamente usata per imitarla. Del resto il principio rosso che nella vera porpora si accompagna coll’ indigotina non ha pioprietà abbastanza caratteristiche per cui si possa sempre facilmente riconoscete sopra i tessuti, particolarmente se esista in piccola quantità e mescolato con altre materie coloranti. Ma se è diffìcile accertare la presenza della vera porpora, nella pluialità dei casi è facile scoprire le falsificazioni; e noi che potemmo studiare ì colori di molti tessuti antichissimi abbiamo dovuto concludere che non si sono ancora trovati tessuti tinti colla vera porpora. Questa nostra conclusione, già solidamente fondata sopra buon numero di fatti, trova nuovo appoggio in altro studio che per la gentilezza del Signor Hamy, Direttore del Museo Etnografico del Trocadero (Parigi), abbiamo potuto intraprendere intorno ai tessuti colorati trovati nei sepolcri Peruviani. Riservando per un lavoro più esteso, che stiamo ultimando, la relazione dettagliata di questo studio, per ora ci limitiamo a constatare che anche la porpora peruviana non è la porpora marina, ma una imitazione ottenuta con colori vegetali, fra i quali si trova Γ indigotina. Siamo arrivati a questo risultato esaminando le materie coloranti di cui si tratta prima col metodo chimico e poi col mezzo dell analisi spettrale, e se per l’ignoranza nella quale ci troviamo riguardo alle materie iintoriali adoperate dagli antichi peruviani non siamo arrivati a risultati affermativi, abbiamo però potuto constatare che nessuno dei tessuti a noi ìimessi dal Sig, Direttore del Museo del Trocadero è colorato colla vera porpora marina, benché alcuni ne abbiano 1’ apparenza. Crediamo utile far conoscere subito questi risultati perchè vediamo che anche gli uomini di scienza parlano spesso di tessuti porporini antichissimi rinvenuti ordinariamente nei sepolcri come se fossero di vera porpora, e di solito il loro GIORNALE LIGUSTICO giudizio non ha altro fondamento che il colore violetto della tinta e la sua grande stabilità, dimostrata dal fatto d’aver resistito all’ azione distruggitrice del tempo. Per decidere se una porpora sia vera o adulterata il colore non basta; noi sappiamo che gli antichi imitarono benissimo le gradazioni della porpora genuina valendosi d' altre tinte che estraevano dalle piante, e le porpore false erano assai comuni mentre le vere erano rarissime. Non neghiamo la possibilità di ritrovare qualche avanzo di quella vera porpora marina che meritò le lodi di tutti i poeti greci e romani, ed ammettiamo che potessero usare la vera porpora gli antichissimi abitatori dell’America, che certo furono civili e conobbero le industrie della civiltà, ma diciamo che i tessuti peruviani porporini conservati nel Museo etnografico del Trocadero non sono tinti colla vera porpora marina. È vero che le proprietà coloranti deli’ umore porporigeno di certi molluschi sono da tempi remotissimi conosciute da tutte le popolazione che abitano nei paesi marittimi, e che i pescatori di tutte le nazionalità se ne valgono per tingere qualche funicella o per segnare gli oggetti del loro vestiario; ma fra questi primi tentativi di tintoria e la difficilissima arte di produrre sulla lana o sulia se: a le vaghe e variate gradazioni della vera porpora, ci corre troppa distanza perchè si possa credere che 1’ arte di tingere in porpora coll’ umore dei molluschi, avesse ad essere comune a tutti i popoli non esclusi quelli che antichissimamente abitarono 1’ America. Le vere porpore, che furono rarissime neli’industre Atene, che lo furono ugualmente nella ricchissima Roma, non abbondarono certamente fra gli Yuncas benché fossero abilissimi nella tintoria. Antonio De Negri. 296 GIORNALE LIGUSTICO UNA LETTERA INEDITA DI FRANCESCO ALGAROTTI. Allorquando Federico il Grande .volle riformare nel fatto dell arte la capitale del suo regno, e dar vita a quel celebre castello di Potsdam, che divenne la più deliziosa sua residenza, si rivolse in ispecie all5 Italia coll’animo di condurre le nuove fabbriche sopra i più insigni esempi architettonici de’ grandi maestri. A questo effetto ricorse all’ opera di Francesco Algarotti, il quale, mercè le sue molte relazioni, si adoperò a fine di procacciargli disegni di chiese e di palazzi. Infatti scriveva al re nell’agosto del 175 1: « J’ai écrit pour le palais Pitti et pour le nouveau Palladio , qu’on imprime à Venise, et j’espere que V. M. voudra faire aux architectes de Venise le même honneur qu’elle a fait à ceux de Rome et de Versailles, de naturaliser, pour ainsi dire, quelques unes de leur productions, et de les entremêler aux siennes. Potzdam va devenir une école d’architecture, autant qu’il est une école de guerre » (1). Ma in queste ricerche non poteva sfuggire la rinomanza dei palazzi genovesi, onde Federico volle che ΓAlgarotti vedesse modo di procurargli anche da quella città i desiderati disegni. A tal fine il conte si rivolse a Girolamo Curio, col quale aveva stretta amicizia a Torino nel 1741, mentre questi dimorava colà ministro della Repubblica di Genova (2), essendovi pur egli venuto con una commissione confidenziale del suo Re (3). Ed ecco la lettera che gli indirizzò : (1) Algarqtti, Opere, Venezia, Palese 1791-94, XV, 153, e cfr. anche X\r, 254, 160, e XIII, 216. (2) Vi stette ministro dal 1739 al 1745. Cfr. R. Arch. Lett. Minisi, Torino, mazz. 8-1 r. (3) Di questo episodio della vita dell’Algarotti, rimasto poco men che ignoto ai biografi, e non ricordato dal Bazzoni (Relazioni dipìom. tra la Casa di Savoja e la Prussia nel sec. XVIII, in Arch. Stor. Ital. 3.'' Ser., XV), darò in breve notizia con documenti inediti. GIORNALE LIGUSTICO 2'ο,η Padrone ed amico mio riveritiss.m° Il Papa se non erro apre la bocca a i Cardinali , ed il Re muove la penna a nie, perchè io rompa il lungo silenzio che ho tenuto con Lei, Padrone ed amico mio riveritissimo. Egli mi ha data commissione di fargli venire le stampe de i Palazzi che ornano la sua bella Patria, che ha fatto anche ultimamente tanto onore al valore, e al nome Italiano. Io gli risposi che veramente non mi era noto che di codesti Palazzi , così degni d.i andare in Istampa, vi fossero stampe; ma che ne avrei scritto a Lei, che certamente me le avrebbe mandate,, se ce ne fossero. Ella adunque il faccia, e indirizzi l’involto a mio fratello a Venezia, che gli farà rimborsare costì quanto ella potrà avere sborsato per l’acquisto di dette stampe. Se vi sono stampe di Chiese le mandi ancor esse, e così di qualche Palazzo di Campagna ; in somma di tutto ciò che si appartiene all’ architettura. Mi piace aver cagione di scrivere a chi ho mille ragioni di amare , e di stimare. Ella mi tenga nella sua grazia, si ricordi delle ore dolci che mi ha fatto passare a Torino, e mi creda quale pieno d’amicizia, e della più verace stima ho 1’ onore di raffermarmi. Berlino 20 nov. 1751. Il Curio dopo alcun tempo gli rispondeva così : Amico, e Padrone mio stimat.m0 11 riverito suo foglio de i 20 nov. ultimo mi gionge oltre ogni espressione caro, e stimabile ; 1’ onore che ella mi fa della sua memoria, e la lusinga di potermi impiegare in quello de’suoi comandi, sono l’oggetto della più sincera mia riconoscenza. Nel poco tempo che ho avuto prima di questa risposta, mi sono data ógni premura possibile per la ricerca delle indicate stampe di queste nostre fabriche. Ella può credere, Signor Conte Padrone ed amico mio stimatissimo, quanto d’impegno v’ abbia aggiorno il sapere, che dovrebbero porsi sotto gli occhi di un Sovrano, che col solo desiderio di vederle le rende illustri; e per cui i sentimenti nostri si distinguono anche fra quelli della commune venerazione ch’egli s’è aquistata in tutta 1’ Europa. Mi è dunque rivenuto che nel secolo trascorso comparvero qualche stampe d alcuni di questi Palazzi , ma pochissime ne furono le copie, e non si ha verun riscontro de i Rami; nè per quanta diligenza abbia io adoperata mi è potuto riuscire fin’ ora di rintracciare almeno degli in- 298 GIORNALE LIGUSTICO dizii che diano qualche fondata speranza al proposto intento, duello che di certo debbo dirle si è, che le stampe suddette qualùnque esse, fossero nella loro origine, non sono però adesso in commercio. Io non tralascierò le ulteriori perquisizioni possibili; ma Ella ben comprende quanto 1’ esito ne sia difficile ed incerto, allorché conviene estenderle per dir così ad ogni particolare individuo, e senza traccia alcuna di positiva sicurezza. Nulla di più sono in istato di segnarle presentemente su questo proposito ; mi permetta però di profittare di una congiontura troppo a me favorevole, per rinconfermarle i sentimenti inalterabili di amicizia, di attaccamento ed ossequio, con i quali non cesserò giammai d’ esserle. Genova il 1.° Gennaio 1752. Ma il nostro patrizio , da buon cittadino, rispettoso fino allo scrupolo delle leggi, che vietavano qualunque relazione coi Principi esteri, senza il consenso del Governo, e nell’intento eziandio di poter appagare più agevolmente le richieste dell’amico e il desiderio di sì gran Re, rassegnava ai Collegi così la missiva come la responsiva, rendendo conto delle pratiche da lui fatte all’uopo. La Signoria deliberava di esprimere al Curio il gradimento della sua comunicazione, e del « contegno nel rispondere », rimettendo in un tempo la cosa alla Giunta dei Confini « per tutto quello le potesse occorrere, e per le maggiori istruzioni stimasse di dare » al Curio stesso, in ordine alle « ulteriori risposte al Conte Algarotti ». E poiché il Capo della Giunta, Giovanni Scaglia, era altresì Protettore dell’Accademia di Belle Arti, nuovamente insti— tuita (1), lo pregavano « di procurarsi, per mezzo anche del-1' Accademia , quelle stampe o disegni cui fosse possibile di raccogliere, e farne compiacere l’instante » (2). Se a buon fine approdassero le nuove sollecitudini del (1) Staglielo, Memorie sull’Accad. Lig., Genova, Sordo-Muti, 1862, p. 15>50· (2) Per le lettere e documenti citati cfr. R. Arch., Confinium, Fil. 132. GIORNALE LIGUSTICO 299 governo e del Curio non so; e neppure ho indizio di successive corrispondenze d; lui con ΓAlgarotti; nella spiritosa lettera del quale è degno di nota il cenno agli avvenimenti memorabili del 1746, per i quali Genova aveva « fatto tanto onore al valore, e al nome Italiano ». Le parole poi del Curio che toccano delle « stampe d’alcuni palazzi » comparse nel secolo antecedente, si riferiscono cei tamente alla nota e celebrata raccolta del Rubens , uscita due volte (2), e già, come si vede, fatta assai rara a mezzo il secolo passato. Ben importa notare tuttavia che fino dal cadere del Cinquecento esistevano di si fatti disegni archi-tettonici, poiché in una lettera del 9 maggio 1594 Gabriele Chiabrera scriveva al pittore Castello suo amicissimo (1) : « Vi ricordo a vostro comodo, che preghiate il sig. Castelletti a fai mi grazia eh io possa vedere quelle piante de’ palazzi genovesi che egli ha, e farne torre copia, che terrò e rimanderò le sue benissimo conservate ». A. N. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Roselly De Lorgues, Histoire Postume de Christophe Colomb. — Paris, Emile Perrin editeur, 1885. Cesareo Fernàndez Duro , Colon y la Historia Postuma. — Madrid, Impronta de M. Tello, 1885. Nel dare, per 1 obbligo che ce ne corre verso i lettori, l’annunzio di questi due libri, ci metteremo ben poco del nostro. La Histoire Postume tutta intesa a sostenere la causa (1) La prima ha la data di Anversa 1622, e contiene soltanto la prima parte; l’altra è senza data, ma accresciuta della seconda parte. Cfr. Cico-gnara, Cat. di libri d’arte, II, 252. (2) Lettere a B. C., Genova, Ponthenier, 1838, p. 104. 300 della beatificazione di Colombo, e scritta colla impetuosa ed ampollosa foga solita a riscontrarsi nell’autore, anzi maggiore, è stata dignitosamente e severamente giudicata dal capitano Duro nelì’Esame che egli ne presentò alla R. Accademia di Storia in Madrid il io maggio u. s. Nel libro del Roselly, dice il sig. Duro (p. 12), si riassumono tutti i lavori del-Γ infaticabile gran giudice, e nel tempo medesimo si racchiude la quintessenza del suo pensiero: uno dopo l’altro, vi si trovano maltrattati e puniti tutti coloro che egli ebbe avversari nella sua trionfale carriera. Si proprio trionfale; perchè oramai i nemici sono atterrati, senza speranza di risorgere ; e il signor Conte non pure scioglie il canto della vittoria, ma protesta di volerne assaporare tranquillo i frutti. « L’année 1885 (egli scrive, p. 379) voit la fin du débat. Dorénavant tout ce que les impertubables bibliographes pourront imaginer de curieuses hardiesses, ne nous obligera point à rentrer dans l’arène. Notre victorie suffit pour tousjours. Il n’y a plus maintenant à défendre la mémoire du Serviteur de Dieu; il ne reste qu’ à la célébrer ». Per questo , ripiglia il Duro (p. 16), la Histoire Postume, meriterebbe un titolo più adeguato: quello cioè di Confutazione universale di quanti hanno scritto di Colombo, mercè cui fin da principio si riuscirebbe a capire che il testo sostituisce all’ ordinario e stizzoso procedimento dei libri di polemica le più sbrigliate corse della penna nei fertili campi della immaginazione. Chiunque militi sotto la bandiera del signor Conte, quegli è uomo degno, distinto, profondo. Chi si è schierato dalla parte opposta, suo danno : egli è a priori un mentitore, una formica velenosa, asino, blasfema, pedante, volterriano, fogliettista, empio, impresario di demolizioni, devoto turiferario della calunnia, e peggio. Eppure, considera il Duro (p. 11), le più gravi censure non vennero già mosse al Roselly da critici sospetti d’ opinioni esagerate, ovvero intolleranti delle dottrine catto- GIORNALE LIGUSTICO 3OI liche, no : egli invece li ha proprio trovati nel seno del Cat-tolicismo ! Pel signor Conte, l’ab. Angelo Sanguineti è « un petit abbé du district de Savone (chi gliele ha date a bere così marchiane?) venu à Gênes chercher un emploi; » «appunto nel 1846, mentre lo stava sollécitando, ha « résumé, dans un piètre volume, la vie de Chr. Colomb par le protestant Washington Irwing...... Ses compatriotes, ne sachant pas ou il avait puisé, le crurent historien, et il se donna sérieusement pour tel » (pag. 252) , ed ebbe Γ impiego ! Cela va sans dire, nevvero, sig. Conte? O per chi dunque il P. Spo-torno aveva annotata e stampata nel 1828 in Genova, coi tipi del Pagano, la versione italiana della Vita dell’Irwing ? Poi quella benedetta smania àùY impiego non ci vuole proprio andar giù. Senta, signor Conte gentilissimo, il Sanguineti, che del resto poteva farne senza (Lei, che ci fa sapere come a tempi di re Renato e dell’ imperatote Sigismondo vivessero in Italia un conte Cesare e un conte Antonio Roselly , capirà bene queste cose), l'impiego ce lo aveva avuto assai prima del plagio Irwinghiano; leggendosi nell’Archivio Civico, alla data del dicembre 1830, che ad una delle cattedre di latinità nelle Scuole pubbliche di Genova , i Decurioni deputati alla istruzione nominavano « l’abate Sanguineti, giovane che sta fornendo il corso di teologia , e che in tutte le scuole del Seminario portò corona sui suoi condiscepoli ». Queste parole, seguite da altri elogi, si leggono nella proposta fatta il 22 marzo antecedente dal direttore delle scuole ; giusto quel tale « abbé Paul Rebuffo » che , secondo il Roselly fu V eco delle calunnie diffuse sul conto di Colombo dallo Spotorno ! (pag. 263). Ma che ci possiamo far noi, se la memoria di quel calunniatore rimase e vive tuttora in Genova per indicare il modello del sacerdote di chiara dottrina e di integerrima vita? Ancora. — Il Desimoni, che combattendo gli sfarfalloni 302 GIORNALE LIGUSTICO del Satan contre Christophe Colomb « s’est risqué,......... à nous attaquer en française, » è un 4°; nella quale leggesi la seguente epigrafe, di cui egli ebbe la gentilezza di mandarmi un calco : D M KANINIAE G · F · CATVLLAE · ATI METVS NE £MERE>TI, La lapide, rinvenuta nella pianura di Nervia, e quindi appartenente alla necropoli di Albium Intemelium, sembra destinata a far parte della collezione della signora Cora Kennedy in S. Remo. Oitie questa epigrafe, altri oggetti antichi furono raccolti dal predetto sig. Dasiano, i quali probabilmente provengono pure dal territorio inte-meiiese. Meritano tra questi speciale ricordo, un’ urna marmorea di forma cilindrica, adorna ai lati da una serie di baccelli, che lasciano un largo riquadro per 1’ iscrizione che manca, ed un’altra urna vitrea, con anse e coperchio. Si aggiunga un considerevole numero di lucerne fittili, nelle quali si leggono bolli già noti ». * * * Il canonico prof. Isidoro Carini ha testé pubblicali due eruditissimi Discorsi (Roma, Tip. Monaldi) da lui pronunciati per l’inaugurazione della nuova Scuola· Vaticana di paleografia e critica storica, e per tenere ragguagliata 1 Accademia di Religione Cattolica delle lettere e dei regesti de Papi in ordine al loro primato. C’ è , massime nelle note di questo secondo, un tesoro di indicazioni bibliografiche, utili a chiunque faccia studi storici, i quali abbiano qualche attinenza col Papato. A pag. 112 e segg., 1 autore Ci da poi una « rassegna del movimento storico » direttamente GIORNALE LIGUSTICO suscitato dalla oramai celebre lettera Saepenumero; e noi con piacere ne rileviamo, che lo stesso prof. Carini « sta lavorando a’ supplementi dei Papi anteriori al periodo avignonese » , per integrare Regesta del Jaffè e del Potthast, i quali scrissero absque Vaticanorum Tabulariorum auxilio (Hergenrôther , Reg. Leon. X, praef. p. VII); oltrecchè ha già «quasi pronto per le stampe il Regesto di Martino V », e cominciata altresì 1 edizione di un Corso in servigio della Scuola meritamente commessa alla sua dottrina, * * * Nell’ Archivio Storico Siciliano (a. IX, 1884, p. 409-17) Giuseppe Cosentino dà notizie di Un registro dell’ archivio di S. Giorgio dei genovesi; cioè « di quella industre ed operosa colonia.*.· venuta nell’ ultimo medio evo in Palermo a farvi cosi lunga dimora, di sè lasciando numerosi ricordi ». È il detto registro, come il liber jurium della colonia medesima, contenendo per 1’ appunto i Privilegia Consulatus Genuae -, sentenze, diplomi, atti pubblici; una parte de’ quali però già venne pubblicata dal- 1 Orlando nel Codice di leggi e diplomi siciliani del medio evo II più antico diploma inserito nel codice è quello di re Manfredi, del 12 (.9. Il Cosentino non si propone « per ora » di esaminare particolarmente sì fatti documenti , sibbene « di esporre alcune note storiche collocate in fine del volume », e che concernono « la parte presa dai genovesi di Palermo negli avvenimenti più notevoli dal 171; al 1724 ». Rileviamo che in quel tempo il console de’ nostri nella capitale di Sicilia era Giovanni Maria Spinotto. * * * Nel Bollettino della Società Geografica Italiana (luglio 1885, p. 548), Pietro Amat di S. Filippo stampa Due lettere inedite di venturieri italiani in America-, nelle quali si contengono parecchie notizie circa il progetto, di colonizzare « l’india », l’aspetto del paese, il clima, gli abitanti, la fauna. Una, del 24 dicembre 1524, è di Tommaso Fiacchi fiorentino;. 1 altra, del ^ luglio 1535 , è di un anonimo genovese, come giudica 1’Amat, vedendo in essa citato il P. Girolamo Cattaneo, che indusse lo scrittore a smettere il disegno di andare al Perù per correre al Venezuela, ed osservando la preghiera che vi si fa di « mandare qualche nuova di Genova ». * * * È stata messa in vendita l’opera già da noi annunciata (pag. 237) di E. P. Vining: An inglorious Colomb. GIORNALE LIGUSTICO BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Sac. Fedele Savio, Studi storici sul marchese Guglielmo III di Monferrato ed i suoi figli. — TQrino, Stamp. Reale, 1885. Dopo 1 lavori del Desimoni, del Carducci, del Cerrato, ecc., questo del sac. Savio giunge tuttavia ad assicurarsi un posto onorevole e degno. L autore, entrato « nello spinoso campo delle storiche controversie » , si è assunta 1 impresa di ricercare le origini delle erronee, incerte o confuse notizie che si hanno sui personaggi i quali formano il soggetto de’suoi Studi, « confrontare e vagliare il merito e 1’ autorità delle prime fonti » , e dove non gli riuscisse di e pronunziare un certo giudizio,. .. additare almeno ad altri la strada e agevolare in qualche maniera le future ricerche » (p. 8). Modeste parole, che oggi si lasciano raramente intendere; ma alle quali fanno riscontro in tutto il libro la pienezza delle indagini e la giusta severità di una critica sana, associate alla bontà del dettato, che mai non guasta , quantunque molti ostentino quasi di essersene dimenticati. Ottimo inoltre ci sembra il pensiero, che ebbe il Savio, di consegnare via via in parecchi specchietti genealogici le risultanze dei suoi Studi, acciocché si potessero fissar presto e meglio; si come va lodata la diligenza onde fe’ prova nel raccogliere in nota e nei documenti le testimonianze alle quali il suo lavoro s’informa. Che 1’ autore abbia provato proprio intero il suo assunto, e fatta « opera perfetta », egli stesso si confessa « lungi dal crederlo » ; e già il Desimoni, che pur diede un giudizio del libro autorevole e favorevole, ha dichiarato di riservarsi « piena libertà... quanto all’ accettazione delle sue conclusioni λ (Arch. Stor. Ital. 1885, disp. 4.11 , p. 127). Nondimeno gli Studi del Savio valgono molto più di quello che la modestia vietò forse all’autore di pensare; e coloro che in avvenire pigleranno a scrivere dei Monferrato, vedranno bene di quali e quante difficoltà egli abbia saputo ingegnosamente sgomberare la via. — Avv. Raffaele Drago , Svolgimento storico della amministrazione comunale di Genova. — Genova, Tip. Sordo-muti, 1885. Meglio che un Discorso, pronunziato dall’ autore per la sua aggregazione alla Facoltà di Giurisprudenza nel patrio Ateneo, è questo una completa monografia su le vicende delle Magistratura Municipale dalla sua costituzione nel 1797, in seguito alla proclamazione della Repubblica GIORNALE LIGUSTICO 3 I 5 ----—------—- / democratica, fino ai dì presenti. Il lavoro è fondato in gran parte sui documenti dell’Archivio Civico; e l’argomento è trattato con quella larga competenza che deriva all’ avv Drago dall’ ufficio meritamente da lui occupato di Segretario capo del nostro Comune, nonché dall’ assiduo studio per cui egli ha saputo conquistarsi un bel posto fra i più lodati scrittori di diritto amministrativo. — Relazione sulla vertenza intorno ai riparti delle spese di riparazione e manutenzione della chiesa, cattedrale ed Episcopio di Genova dal iSjo.... al 1881. — Genova, Pagano, 1885. È un diligente lavoro del ragioniere civico Emanuele Garzoglio ; e la parte espositiva può considerarsi come un capitolo storico a complemento di quanto sulle tarsie e gli intagli del Coro di S. Lorenzo ebbero a scrivere Federigo Alizeri e Santo Varni. Dorrà forse che il nome di questo compianto artista, il quale, come è noto, fra il 1860 e il 66, diresse i restauri di quel monumento, sia taciuto affatto nella presente Relazione. E più dorrà certamente il pensare che non sia mai stata eseguita la deliberazione presa dalla Giunta Municipale fino dal 1 febbraio 1867 : « di apporre, cioè, nel Coro una iscrizione commemorativa di questi 12-stauri e della parte eminente che vi prese il comm. Varni ». — Giuseppe Bigonzo, Le Sibille e i Libri Sibillini di Roma. — Genova, Sordo-muti, 1885. Di questo erudito opuscolo 1’ autore avea già fatta una prima edizione nel 1877: buon segno dunque che sia arrivato alla seconda, in servigio della quale il Bigonzo pose « mano a nuove ed accurate ricerche ». Il lavoro è puramente di indole narrativa ε bibliografica; ma, come già diceva la Rivista Europea, per la copia e la diligenza delle notizie raccolte « acquista un certo valore e si rende a chi lo legge interessante e gradito »· C. Feroso, Grazioso Benincasa marinaro e cartografo anconitano del secolo XV. — Ancona, Tip. del Buon Pastore, 1884. Estr. dall’ Annuario del R. Istilulo Tecnico * Grazioso Benincasa » di Ancona. Pochissime le notizie biografiche ; e non per manco di diligenza da parte dell’ autore, ma pel silenzio delle fonti. Seguita la descrizione di un Portolano dell’ Adriatico e del Mediterraneo orientale, composta dal Benincasa nel 1435 ; poi la rassegna delle carte e degli atlanti oggidì conosciuti in numero dì ventuno, e compresi nel periodo che corre dal 1461 al 1482. Forse la lacuna di ventisei anni fra il Portolano e le carte rap- 316 GIORNALE LIGUSTICO presenta il tempo in cui Grazioso si occupò specialmente della mercatura: nondimeno ci si lasci la speranza che un di o 1’ altro qualche nuova scoperta venga a mostrarci come anche di quelli anni 1’ operoso anconitano lasciasse monumenti del suo valore cartografico. Frattanto si conferma ehe le due carte più antiche furono delineate dal Benincasa in Genova, dov egli dimorava per le ragioni toccate dal eh. Desimoni (Giorn, Ligust. ^76, p. 51). Che poi le carte siano due veramente, e tutte e due del 14.61, lo provano le leggende e le altre indicazioni riportate appunto dal prof. Feroso. Henry Harrisse , Grandeur et décadence de la Colombine — Seconde édition révue, corrigée et considérablement augmentée. — Macon, Impr. Protat Frères, 1885. L illustre Americano avea già pubblicato questo scritto nel num. 20 della Révue Critique di quest’ anno (18 maggio); ma nella nuova edizione, oltre le modificazioni ■ e le giunte introdotte nel testo (specie la descrizione diligentissima di vari codici e incunaboli,), fan bella mostra alquanti fac-simili autografici e silografici. Fernando Colombo, dice PHarrisse, fu il più grande bibliofilo del suo tempo, forse di tutti i tempi. Dal 151 o al 1337 egli viaggiò la Spagna, l’Italia, la Germania, i Paesi Bassi, l’Inghilterra, la Francia, cercando libri di scienze, di storia, sopra tutto di letteratura; epperò alla sua morte, nel 1539, lasciò una biblioteca che si calcolava dai 15 ai 20,000 volumi, la quale a motivo di certe disposizioni date dal fondatore, venne nel 1551 in possesso del capitolo metropolitano di Siviglia. Ma già prima di questo tempo erano incominciate le depredazioni a’ danni del ricco deposito ; e seguitarono così bene, che nel 1684 si constatò come della Colombina non rimanessero più di 4 0 5000 volumi. Sui principii dello scorso inverno altri libri e manoscritti pervennero da Siviglia a Parigi, destinati alla pubblica vendita; ed oggi si può dire veramente che la Biblioteca di Fernando Colombo fu. — Chiedeià taluno come mai si effettuò questo sperpero ? L’Harrisse in parte lo racconta spiritosamente , ed in parte lo lascia indovinare. « Si nous interrogeons les gens de Séyille, ils répondent invariablement que c’est un des effets du tremblement de terre ». Ma il peggio è questo, che « un consciencieux acquéreur ayant appelée 1’ attention d’un grand personnage officiel espagnol sur ces déprédations et proposé de retroceder les mss., contre remboursement, il lui fut répondu... qu’on n’éprouvait pas un besoin extrême de rentrer en possession de toutes ces paperasses. Cosas de Espaha ! ». GIORNALE LIGUSTICO 317 L' Addio, versi di Domenico Carutti, quarta edizione·. — Roma, Loe-scher e C., 1885. L’autore lamenta che si addestrino le vereconde Muse A ministre del νιχΐο e adornamento, indizio certo di cadimento di valore e d’ ingegno. La sua penna infatti non si contamina mai con le scurrilità e le indecenze, che pur troppo deturpano sovente i versi dei moderni poeti. Egli ama e rispetta I’ arte : non la trascina quindi nel fango, ma la solleva, per servirci delle sue medesime parole, a scuola della vita. L’arte pertanto, la libertà, la patria: ecco i santi ideali a cui s’inspira; medita davanti al grande mistero della vita, e i gaudenti gli strappano dall’anima un grido d’indignazione e di minaccia. Qualche volta, è vero, il moralista prende luogo del poeta : nè sempre si trova nel verso la musicalità, e si vorrebbe, più chiara la rappresentazione del concetto; tuttavia il libro, benché non scevro di mende, é ricco d’invidiabili pregi. Canto notturno ad esempio (p. 44) é un idillio graziosissimo, pieno di vivacità e freschezza. L’ Arte contemporanea, Ad una giovane Romana, i Gaudenti, VEbrea ecc. ecc., rivelano un ingegno cui le Muse furono prodighe dei loro favori. Anche i distici latini non sono privi di nobiltà e d’ eleganza. E noi c inchiniamo reverenti davanti a questo poeta della vecchia scuola che si mantiene fedele ai vecchi ideali, serba incontaminata la penna e guarda con 1111 senso di tristezza al nuovo indirizzo che la giovane generazione ha dato alla moderna poesia. La maggior parte de’ componimenti raccolti nel volume, risale ai tempi della gioventù del poeta (1840-45 ecc.). Questi ormai ha consacrato ad essi, come egli medesimo dice, le ultime cure , e denominando il suo volume l’Addio, parola tanto commovente sulla bocca di chi è innanzi cogli anni, lo raccomanda alla benevolenza dei lettori. E i lettori noi gli auguriamo numerosi e cortesi, desiderandogli in pari tempo di cuore che a conforto dei severi studi storici cui ha dedicato la vita operosa, e che fecero chiaro e riverito il suo nome, lungamente ancora gli arridano benigne le Muse A. G. Z. Annetta Gardella Ferraris. Fantasie e Ricordi. — Ancona, Mo— selli 1885. Io non sono un lettore assiduo di versi, e del difetto quasi mi compiaccio, accingendomi a parlare di questo libricciuolo , poiché certe tendenze che ad una prima lettura mi parve di notarvi distintamente, debbono, io credo, con obbiettività maggiore presentarsi a chi non ha la fantasia stancata dal troppo consumo che ne ha fatto sulle produzioni della fan- 318 GIORNALE LIGUSTICO tasia altrui. Proviamo dunque sul volumetto edito in questi giorni colla solita eleganza dal Morelli d’Ancona, se la critica impersonale sia poi tanto difficile, per non dire impossibile, come sembra credere il Chiarini (i). Il volume va diviso in due parti, di cui l’una si compone di canzoni varie ; la seconda è in morte dell’ unico bambino che formava l’unico ed immenso conforto della povera madre. Io non dirò che la seconda parte, eco di una recente sventura, non abbia gettato un po’ delle sue tinte fosche anche sulla prima. Ma d’ altronde alcuni di questi versi per l’indole loro sono manifestamente di data anteriore, ed inoltre il dolore dominante nell’ epicedio è così schiettamente materno che non può avere di per sè solo molto influito sopra affetti e sentimenti di tutt’altra natura. Questo era necessario premettere, volendo notare l’intonazione pessimista che caratterizza nei suoi tratti principali il libricciuolo, ed è un vero indizio delle condizioni sortite oggidì all’arte tra noi. Perchè davvero in cotesto pessimismo non c’è neppure l’ombra dell’affettazione; e sfido chiunque a trovarcela , tossi io pure il più prevenuto de’ critici cervellotici, tanto in uggia al Chiarini. In queste pagine si vede nero o almeno -grigio, non perché un preconcetto ordina di far così, ma perchè così e non altrimenti volevano le multiformi significazioni in cui è intesa la vita. Si leggano Miseria, Noxj_e, Peinte, Dal vero. Perfino in Idillio vuol far capolino nella chiusa. — Ahimè figli del sole, ΓΑ. dice parlando ai fiori, invan candidi e uniti sorridete: come i figli dell’ uomo le parole bugiarde e velenose conoscete ! Non è qui il caso di ripetere le diverse opinioni che in Francia, non è molto, si sono formulate sul pessimismo; ma stando allibro in esame, parmi che la sua origine si debba ricercare nella lotta quotidiana per la vita, nel dissidio sempre più profondo, malgrado le apparenze contrarie, che si scava ogni giorno tra le diverse classi sociali. È menzogna cotesto vociar alto di carità : la rettorica della filantropia minaccia di diventar a poco a poco per gli Italiani del sec. XIX un altro caprifico d’Arcadia. Se non che nell’A. le discordanze e le deformiti sociali, ripercotendo sull’animo, diventano quasi una fatale necessità, si ravvolgono in un nu- (i) Si allude all’articolo Contro la crìtica nei n. 32 e 53, anno li della Domenica del Fra-tassa. GIORNALE LIGUSTICO volato di immensa tristezza, da cui non erompe più il grido di rivolta che suona in Justitia o nei Châtiments, ma la nota del dolore universale. Quindi (ed è a questo ch’io volevo venire) una forma sobria, pacata, pur fra mezzo alla concitazione degli affetti, che é in esatta corrispondenza con lo stato dell’ animo. È la poesia più sinceramente muliebre ch’io mi conosca, carattere notevole nella produzione letteraria e poetica per dato e fatto delle scrittrici d’oggidi, che non so per quale strano fenomeno patologico si direbbe che temano sul serio di non parer masculae abbastanza. Le due poesie in cui siffatto concetto dell’arte, a mio parere, è stato meglio incarnato sono : Visione e Musica di Schumann. In Visione Γ A. è riuscita a far cosa nuova , malgrado i numerosi esempi che si hanno di questo genere. Vi sentite un’onda heiniana, ma del più puro Heine quando è bonario, affettuoso, leggermente ironico senza esser scettico ; un’onda heiniana che si è confusa con altri elementi, con altri mezzi, i quali sono propri dell’A., sicché l’espressione è originale, pur rendendo il movimento e la maniera dell’ umorista tedesco. Si veda con quanta delicatezza e poetica verità è fatta la rappresentazione del bambino che si duole, e della madre morta che viene nel sonno a visitarlo : Il bimbo ha pianto. La rude e severa matrigna 1’ ha sgridato e a letto senza cena quella sera ancora l’ha mandato. II bimbo ha pianto amaramente e molto, raccontando al Signore che la matrigna perfida gli ha tolto anche del babbo il core. La cameretta squallida la luna illumina tranquilla : pallido è il bimbo e sul suo ciglio una lacrima ancor brilla. Pallido è il bimbo : mesta e taciturna la madre l’accarezza, Tremando come un salcio da notturna scosso autunnale brezza. E con purezza di linee stupende conchiude : Ne la notte il suo bimbo a consolare è venuta tremando, e su’ pe ’l cielo quando 1’ alba appare dilegua lacrimando. 320 GIORNALE LIGUSTICO Un appunto farei all’A. nei versi di questa prima parte; appunto che del resto va riferito all’ indole stessa del suo ingegno. Più d’ una volta svolgendo queste pagine si sente che sull’A. ha avuto assai più forza la melode che il pensiero, e trascinata da quella la poesia si aggira per così dire in un cerchio incantato , o se vogliamo fare un raffronto non invero esattissimo, ma idealmente vero, somiglia un po’ alle sestine provenzali che io non ho mai potuto leggere senza figurarmi l’antico trovatore col viso assorto nell’ eco di una musica melanconica, lontana e da lui solo intesa. Ora tutto ciò può esser bello qualche volta Come esperimento metrico , bello anche come una prevalenza momentanea della musica sul pensiero, ma si starebbe a rischio di sacrificare quest’ ultimo ad una vuota forma, se il tentativo si facesse troppo di frequente. E me-lopèa più che poesia sono per me : Ci farem pescatori, Tugurio, Canto. Ed un’ alra cosa anche vorrei dall’A., una comprensione della vita più vasta, e quel colpo d’ala che trasporta in alto, che allarga le intuizioni, che dal tristo vero che avvelena il pensiero, conduce a più consolanti verità ideali. Ma ahimè, qui già mi veggo appuntare contro il dito da tutti i critici oggettivi, e da tutti i chiacchierini della critica e vociarmi in coro : tu quoque, fili mi. Non ne facciamo dunque nulla, e passiamo piuttosto alla seconda parte che ho riservata in fine ed in cui sarò breve, perché tutto o quasi tutto mi pare di eguale ed alto valore. A notizia mia almeno, è questa la poesia più notevole che si sia stampata da qualche tempo in Italia, si per rappresentazione vera e potente di un sentimento nobilissimo e pietoso, quanto per compenetrazione riuscita del sentimento colla forma. Si leggano: Folle speranza, Sorgi, Grido dell’anima, Fragile stelo, Date Ulta e si vedrà che non esagero. Impossibile citare, s’io non volessi citare quasi tutto : mi si consenta però di osservare e far osservare nella poesia: Sorgi, quel bambino che sen va' trepidando lungo il noto sentiero : « Ahimè..... forse in quest’ora trepidando lungo il noto sentiero ne vai tu, batti alla nota porta lacrimando, nè riconosci, mia dolcezza più i luoghi......... immagine che trova, certo inconsapevole l’A., riscontro con altre somiglianti nei canti popolari della Grecia ; la graduazione degli affetti disperati in Grido dell’ anima, la rapidità e felicità dei trapassi nel bellissimo Date lilia, cui 1’ apostrofe ai fanciulli aggiunge tanta melanconica tenerezza. E qui l’ufficio del critico abbia fine, non però la pietà dell’ uomo che si piega riverente dinanzi ad una irreparabile sventura ; e pensi e faccia un po’ la critica quel che vuole, oggettiva o soggettiva o cervellotica che sia. C. B. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 321 LA PRIGIONIA DELL’ ULTIMO VASA (1) I. Per quasi dodici anni la politica del cardinale Richelieu avea mirato ad accumulare le cagioni dell’ odio tra Francia e Spagna; poi la guerra era scoppiata nel 1635, estendendosi nelle Fiandre, nella Germania e nell’Italia. Sul mare le armate delle due nazioni si erano trovate a fronte; e nel maggio del 1636 l’ammiraglio Sourdis ricuperava le isole di Lerino, cacciandone gli spagnuoli, i quali nell’ ottobre abbandonavano anche S. Giovanni di Luz. Filippo IV cercava gli aiuti dove poteva; ed a sua richiesta Ladislao VII re di Polonia spediva a Madrid il proprio fratello Giovanni Casimiro, commettendogli di stringere alleanza colla monarchia iberica; la quale avrebbe poi dato a questo principe il comando di una flotta destinata a distrug-gere il commercio de’ francesi nel Mediterraneo. Casimiro giunse difatti in Genova nell’aprile del 1638; ed ivi, secondo scrivono i Cerimoniali, « si trattenne molti giorni, del tutto incognito, alloggiato sempre nell’hosteria di S. Marta», che sorgeva sulla piazza del Vastato e che fu sino al cominciamento del nostro secolo il principale albergo della città. « Partì poi per Spagna, con una galera della Repubblica, la quale era in procinto per andare a levare da Barcellona Γ eccellentissimo Luca Giustiniano, ambasciatore (1) Fonti Genova Archivio di Stato: Lettere di principi, mazzo 15 ; Carteggio diplomatico-Francia, mazzi 364; Cerimoniali, vol. II e III; Decreti del Senato, a. 1638-40. Giorn. Ligustico, Genova, Sordo-Muti, pag. 124 e segg. (3) Storia letteraria della Liguria, Genova, Ponthenier, 1824-58, II, 15 e segg. (4) Antonii Ivani vita, Bononiae, Cenerelli , 1866. Non occorre citare i brevi cenni di lui dati nel sec. XVII dal Soprani, dal Giustiniani e dal-l’Oldoini, perchè di poco momento ; essi attinsero dalla Storia di Luni e Sarzana lasciata ms. dal can. Ippolito Landinelli. Così è privo d’importanza il cenno fattone dal Gerini (Memorie stor. d’illustri scritt. della Lu-nigiana, Massa, Frediani, 1829, I, 87), che tenne dinnanzi le Collettanee mss. di Buonaventura De’ Rossi, le quali servirono di guida anche al Targioni, sebbene questi si rifacesse eziandio ad altri fonti. (5) Passatempi letterari, Genova, Sordo-Muti, 1882, pag. 119 e segg. 34§ GIORNALE LIGUSTICO È quello che con competenza tanto minore della sua stu-dierò di far io, nel render conto di questo letterato sarzanese quale possiamo desumerlo dai due volumi manoscritti esistenti nella civica biblioteca di Sarzana (i). II. L’Ivani nacque in Sarzana circa l’anno 1430, poiché egli stesso ci dice che aveva trentasei anni quando andò cancelliere a Volterra nel 1466; ma i suoi non erano originari di questa città; venivano da Brugnate, che egli credeva corrispondesse all’ antico Bariate di cui fa cenno L. A. Floro. Sopra i suoi studi in patria non sappiamo nulla : a diciotto anni, lasciata Sarzana, si recò a Narni dove stava governatore Giov. Pietro Parentucelli parente del famoso maestro Tomaso da Sarzana, che allora sedeva sul soglio pontificio col nome di Nicolò V. Fu a Narni che 1’ Ivani strinse amicizia con quello che egli chiama Meduseo nostro, Ippolito Meduseo, che si scordava per amor dei libri anche di sua moglie e che d’ allora in poi rimase amico affettuosissimo sempre all’ Ivani. Col favore di Pietro Parentucelli e del cardinale Filippo Calandrini, fratello uterino del papa, il nostro Antonio fu eletto alcun tempo dopo cancelliere di quella città, e quell’ ufficio tenne per circa due anni; trascorsi (1) Ne ebbi cognizione dal prof. Neri che, gentile quanto colto, volle procurarmeli in imprestito, oltre ad altri materiali e notizie che a lui devo e di cui mi è caro rendergli pubbliche grazie. I due volumi sono l’uno apografo sincrono, se non deve dirsi autografo, l’altro è la copia fatta dal botanico sarzanese Antonio Bertoloni dal codice, che si conserva nella inaccessibile privata biblioteca Durazzo in Genova (Cfr. Ode-rico, Osservazioni cit., p. 124). Io uniformandomi alla cronologia dell’epistolario, mi riferirò sempre alla copia del Bertoloni coll’ indicazione : Ms. I, e all’apografo sincrono con l’indicazione: Ms. II. i GIORNALE LIGUSTICO 349 i quali fece ritorno a Sarzana dove in quel tempo dominavano i Fregoso. Il possedimento di Sarzana con altre terre all’ intorno era stato ceduto dalla Repubblica di Genova fin dall’anno 1421 a Tomaso Campofregoso, dopo la cui morte era passato ai nipoti di lui, Giano che visse poco e Ludovico del quale occorrerà parlare ancora. Madonna Tommasina allora governante quella provincia, e, che sia detto per incidenza, aveva ben altra fibra che non il figlio Ludovico, stava per mandare a Ferrara in corte del marchese Borso d’Este il nipote Tom-masino Campofregoso, del quale, dopo la morte del padre, essa era rimasta tutrice. Fu prescelto l’Ivani perchè gli venisse compagno, e lo aiutasse insieme ad apprendere quei costumi aulici che secondo 1’ educazione del tempo formavano il perfetto cortigiano. Fu in Ferrara che il nostro Antonio ebbe occasione di frequentare l’accademia fondata dal vecchio Guarino, che allora levava tanta fama di sè, e per un intero anno ne ascoltò le lezioni. Di quei giorni doveva parlare in appresso con rimpianto nelle sue lettere, e ricordare con amore di discepolo la maestà e la soavissima conversazione dell’ottimo uomo. — (( Era usato, scriveva al marchese Gerolamo Malaspina, cominciare sull’alba le sue lezioni e spiegava Lucano, Virgilio, le Tusculane e i Doveri di Cicerone. Ma recava molta varietà ne’ suoi soggetti, tanto che in un’ora soleva comprendere due lezioni più brevi e di diverso argomento: in questo modo evitava negli uditori la stanchezza, sebbene egli era tanto soave in ogni suo discorso, arguto e grave che io soventi volte ebbi a chiamarlo uomo divino » (i). Ritornato a Sarzana, rimase al servizio della casa Fregoso e la sua vita d’allora in poi somiglia molto a quella dell’uomo di Orazio: sudavit et alsit. — « Io sono molti anni andato (i) Ms. I, p. 182. ' 35° GIORNALE LIGUSTICO cavalcando e peregrinando ed affaticandomi per quasi tutta l’Italia, e di tante fatiche in servizio de’ signori non ho ritratto che povertà ». Quando poi nel 1461, Ludovico Campo-fregoso fu per la seconda volta eletto doge dai Genovesi, l’Ivani lo segui coll’ ufficio di segretario. La dottrina e la natura di lui lieta ed arguta gli conciliarono ben presto l’amicizia dei principali nella Repubblica, cosi che oltre le attestazioni di stima che gli vennero da molti, gli fu anche conferito il diritto di cittadinanza. Ma se il Pontano, parecchi anni dopo, ebbe a dire che gli uomini a Genova mutano come le stagioni, l’Ivani prima di lui con ironia più velata osservava : « La fortuna poter molto da per tutto, ma essere a Genova specialmente che si diceva potere moltissimo » (1). Deposto di bel nuovo Ludovico, l’Ivani ebbe a risentire della sorte del suo protettore. Nel tumulto per cui al Fregoso era tolto lo stato e veniva ritenuto, a stento l’Ivani potò sfuggire dalle mani furiose de’ persecutori, e rifugiarsi in palazzo; ma quivi ripreso passò alcuni giorni in casa del vescovo come prigione, quindi liberato per intercessione di ottimi cittadini, accettò Γospitalità di Gian Galeazzo Fregoso, e per mezzo di un tal Giacomo da Lodi fece chiedere a Ludovico che cosa egli in tanto infortunio dovesse fare. Rispose Ludovico: si recasse cautamente in Lunigiana, e quivi con sua madre mantenesse sicure le terre che vi avevano i Fregoso, e particolarmente Sarzana di cui era governatore il suocero del nostro Antonio. Mentre studiava il modo di partirsi da Genova, venne un suo famigliare ad avvisarlo che i signori volevano metter le mani sui vasi d’argento e le gemme di Ludovico, e pensavano che l’Ivani potrebbe aiutarli nella ricerca. Non gli parve da indugiare di più, e sopra una nave monegliese parti notte tempo, e senz’altre avventure venne (1) Ms. I, p. i. GIORNALE LIGUSTICO 35I a Sarzana. Avrebbe voluto visitare ad una ad una le terre del dominio, e confortare quegli uomini nell’ obbedienza del principe, ma ne era impedito da una lussazione ad un piede, per una caduta fatta giorni prima sulla scalea del pubblico palazzo di Genova. Pertanto scrisse ai magistrati delle terre che gli mandassero alcuni dei principali con cui trattare sul da farsi ; e il mattino dopo, come ne aveva costume, sali alla meglio al forte di Sarzanello per aspettarvi i convocati, ed esporre insieme a madonna Tommasina gli ordini del figlio. Ma costei che era di animo bollente, veduto quell’assembramento, entrò in sospetto; chiese ad alcuni che cosa cercassero colassù, ed essendole risposto che l’Ivani li aveva fatti chiamare, senza intender altro, ordinò che a messer Antonio si impedisse l’uscita dal castello e spedì tosto un Antonio da Cor-niglia a dar l’allarme in Sarzana, che l’Ivani era venuto da Genova per tradirli. Si stupì da prima, quindi conoscendo la probità dell’uomo si rise, e madonna Tommasina inteso finalmente ciò che in Genova era accaduto, liberò l’Ivani e con lui e con gli altri prese le disposizioni necessarie ad assicurare il dominio. Sul quale volgevano 1’ occhio di falco i marchesi Malaspina, e dagli alpestri loro castelli guatavano cupidi la preda. Infatti pochi giorni dopo la terra di Ponzano per instigazione di Giacomo Malaspina si ribellava al Fregoso, e veniva dai ribelli stretto d’ assedio anche il forte vicino posto sul monte Brina. Vi accorreva l’Ivani per veder modo di soccorrere agli assediati e lo seguiva una caterva de’ suoi. Ma, ahimè, l’Ivani scriveva bene delle lettere in latino e non mancava di abilità anche per fare un bel discorso, ma ordinare degli uomini armati non era il fatto suo. Ne accadde che comandando tutti, non ascoltò più ordini nessuno, e respinti con gravi perdite, il forte fu espugnato, il castello di Ponzano perduto. 352 GIORNALE LIGUSTICO Però non mancavano negozi più confacenti al suo ingegno. Gli erano già state affidate da’ suoi signori parecchie volte legazioni importanti presso i Medici e il Duca di Milano. Di tre di esse, compiute durante il breve e tempestoso governo di Ludovico, resta memoria nelle carte dell’Archivio di Stato con le istruzioni relative. Le due prime (i) a Cosimo de’ Medici ed al duca di Milano, avevano per iscopo di stringere una lega con lo Sforza e i Fiorentini, oltre 1’ ottenere un soccorso di fanti e di cavalli per ricuperare Savona. Ma con il Duca conveniva tastare il terreno, e quando chiedesse notizie dell'impresa di Savona, soltanto allora osservargli il mal governo che ne facevano i Francesi, l’importanza di chiudere a costoro, prendendo Savona, la via di offendere Genova, e la necessità di venirne ad un fine per sollevare la città dalle spese che 1’ opprimevano. La terza legazione (2), dopo la rivoluzione del 14 maggio 1462 che riportò il Fregoso al Dogato per la terza ed ultima volta, era determinata dai gravi timori che incuteva il nuovo Re di Francia, Luigi XI, le cui intenzioni verso l’Italia erano mal note. La fama al solito ingrandiva le paure: « Correre voce che gli altri Stati italiani già fossero informati dei disegni della Corte di Francia: la Repubblica Genovese soltanto essere ignara del fatto e di ciò che si vo-lesse fare. E frattanto sovrastare la primavera e il pericolo di guerre imprevedute, ed essi soli fra gli Stati italiani trovarsi con un Re potente, il cui animo verso di loro non era sicuro, e senza milizie apparecchiate a combattere ». Pertanto il Doge e il Consiglio degli Anziani mandavano il nostro umanista al Duca, per intendere « quae sint in tanta re (1) Istruzioni del 9 settembre 1461 e 5 febbraio 1462; Cfr. DocaMENTi I, II in fine. (2) Istruzione del 5 settembre 1462. Documemto III. GIORNALE LIGUSTICO 353 eius consilia, quidve de mente illius regis erga nos explicatum habeat, quidve pro sua nostraque salute excogitasse videatur ». Ma già nel gennaio del '63 , Ludovico Campofregoso era cacciato dal Governo senza speranza di ritorno, e nel *67 seguiva la vendita di Sarzana e delle altre dipendenze ai Fiorentini. Per tutti questi negozi, l’Ivani era stato mandato parecchie volte come oratore a Firenze ed a Milano , e da quel tempo in poi sarebbe lungo e noioso se ci dilungassimo sulle diverse legazioni ch’egli ebbe a sostenere: due volte a Milano e Pavia per una terribile contesa sorta tra quei di Amelia e di Sarzana, inacerbita da offese reciproche e morti crudeli: due volte a Firenze perchè la Signoria Fiorentina concorresse nella spesa del palazzo che i Sarzanesi costruivano per la residenza del capitano, e perchè inoltre i Provveditori di Pisa permettessero di cavare grano da quel contado : un’ altra volta ancora a Pavia al duca Gian Galeazzo per commissione di Lorenzo de’ Medici, che aveva a dolersi di un certo salvacondotto rilasciato a suo danno da’ Maonesi di Scio. Questi gli incarichi principali da lui sostenuti, nei quali, come si pare dai documenti, se non riusci sempre fortunato, non però può dirsi che mancasse di sagacità e di prudenza. Que’ letterati erano quasi tutti uomini di Stato, in un tempo che la scienza di Stato aveva raggiunto da noi una perfezione sconosciuta in ogni altro paese d’Europa. Un oscuro grammatico trattava della Signoria da pari a pari col principe, e avrebbe, quanto a competenza, potuto dare più d’ una volta utili consigli a molti odierni politici che non sono letterati. Così Γ Ivani ambasciatore a Milano per il Campofregoso discuteva del modo di conservare agli Sforza il governo di Genova, sempre insidiato dalle due potenti famiglie degli Adorno e dei Fregoso, e discuteva di ciò con quel Francesco Giorn. Ligustico. Anno XII. 354 GIORNALE LIGUSTICO Sforza che per la sapienza politica formava Γ ammirazione di re Luigi XI (i). I rapporti cordiali con Ludovico non durarono a lungo, quantunque il nostro Antonio gli avesse dato una prova di gratitudine, ricusando, in uno de’ suoi viaggi a Firenze, l’ufficio di segretario che gli offriva il Cardinale de’ Santi Quattro, nipote di Callisto III. Dovremo ritornare sulle querele che 1 Ivani rinnova parecchie volte in queste lettere a carico del suo protettore e di un tal Borella, esso pure al servizio dei Campofregoso. Per allora, a levar via ogni pretesto di calunnia, accolse di buon animo la proposta fattagli da Tommasino Fregoso di recarsi in Corsica ad assumere il vicariato di Bigulia. Probabilmente questo viaggio è da riferirsi al 1463. In quel tempo i Campofregoso tentavano di togliere l’isola al magistrato di s. Giorgio, sotto il cui dominio era passata fin dal T453> e Tommasino Fregoso per una congiura ordita dai baroni vi era stato proclamato Conte e Signore. Del breve soggiorno dell’ Ivani a Bigulia (non durò più di quattro mesi) restano due lettere, l’una al famoso Cicco Simonetta, l’altra dopo il suo ritorno in patria ad un Nicolò da Lucca, tutt’ e (1) « Cum superioribus annis apud divum principem tuum Franciscum Sforciam restituendi oppidi Ponciani causam agerem , memini me esse ausum verba in huiusmodi sententiam protulisse. Utilius videlicet fore sibi ad retinendum genuensem imperium conservare Fregosos in oppidis quae possidebant, quam pellere. Nam conservati facile quiescerent : pulsi oppidis minore metu possent factiones exercere, regiones clam ingredi, plebem concitare. Memoravi preterea sibi, quae minime ignorabat, illos habere multas clientellas (sic) expeditosque fore ad res novandas si ociosi suis pellerentur sedibus ad quietem datis: cum praesertim Italia sic soleret esse gravida imperiis et bello fremere, ut cuique factionum principi fauctores et auxilia facile adhiberentur. Dictis benigne annuit clementissime princeps etc » Ms. I, p. 41, lett. a Cicco Simonetta. GIORNALE LIGUSTICO 355 due, parrai, di qualche importanza a iarci conoscere le condizioni dell’isola sullo scorcio del Quattrocento (i). Esaminiamole brevemente. Non gli pare che quelli isolani siano così ignari delle buone arti come è comune opinione: a suo avviso differiscono poco dagli agricoltori della Campania e dello Stato Romano. Vero è che sono di costumi più rozzi, più variabili e più ammaliziati, nè deve fare meraviglia. « Habent enim inter se multas ac varias factiones, suos habent tribunos, capita scilicet plebis qui caporales vulgo appellantur ». Di cotesti caporali alcuni favoreggiano le rapine, altri tentano di opporvisi fin dove possono. E gli uni e gli altri hanno gran turba di partigiani. Ma infine il giudizio che è da farsi di essi è un solo. « Iuvat eos equitare, jaculari, adversa inter se moliri, saepe iurgiis et rapinis intendere, indulgere plurimum ventri ac turpissimae parti corporis, honestatem vitae negligere, crapulationes, turpitudines et arrogantiam sequi ». Di gran lunga migliore è la plebe e sebbene trascurante del corpo, tuttavia liberale nella sua povertà, amante della giustizia, devota ai capi, purché giusti, i quali tiene quasi in conto di dei. — « Non sono molto osservanti della fede, tranne il caso che si radunino nell’oratorio di s. Antonio nella regione di Campoloro, santuario da essi molto venerato. E cosa da ridere il vedere con quanta religione, anche da grandi distanze, concorrano colà per prestare giuramento nei loro litigi privati, e di questo mezzo si valgono in ogni questione che non possa facilmente essere risoluta con testimoni o documenti. Il costume poi dei loro avvocati non è da disprezzarsi: disputano senza codici alla mano, senza invocare diritto o penale o civile, ma appoggiati unicamente alle loro (i) Ms. I, p. 3, 5. GIORNALE LIGUSTICO consuetudini ed a ragionevoli argomenti ». — Peccato che Γ Ivani non dia nessun particolare sulla loro vita militare che gli provocava le risa, ed in cui diceva sembrargli di vedere le prime milizie dei pastori di Romolo, e così pure intorno alle usanze funebri che gli parevano assai curiose. Ed egli aveva tutto l’agio di osservarle, poiché la sua giurisdizione si e-stendeva sopra più di trenta mila abitanti. — « Mi obbediscono anche coloro che vivono nella massima libertà, il che dimostra che i Corsi non sono poi tanto perversi come alcuni predicano. Vorrei un po’ vedere qualcuna delle nostre provincie, quando fosse come la Corsica sguernita de’ soliti luoghi forti, città e castella murate, e godesse per giunta di tanta libertà quanta costoro ne godono, se potrebbe vantare un vivere più lodevole del loro ». — Ma del clero in verità dice assai male. — « In his episcopatibus arcidiaconi sunt, plebani, canonici et alia sacerdotum turba imperita, ex quibus plures quid grammatica sit ignorant. Quos ego quamplurimos vidi missarum verba vix legere scientes, et explicare. Concubinis indulgent plurimum, quarum parentes aut germani satis nobilitari putantur more patrio, si cum sacerdote contrahunt eiusmodi affinitatem ». — In conclusione non c’era di che un uomo colla dottrina, dell’Ivani avesse molto a rallegrarsi. E difatti, malgrado che fosse con lui il parente Giannone Ivani luogotenente in Corsica e uomo di molta autorità, tuttavia fastidito pochi mesi dopo di quei costumi, rinunciò all’ ufficio e fece ritorno a Sarzana. Nel ’66 i Volterrani cercavano un cancelliere, e per la faina che già ne correva scelsero l’Ivani. Della sua dimora a Volterra , e delle accuse che vi ebbe a sopportare sarà discorso più particolarmente altrove. Per restare nella vita privata di lui, 1’ aspettava fin dal secondo anno del suo soggiorno un grave dolore , la cattura del primogenito Giovanni Filippo. Fu impetuosità giovanile, fu il sentimento stesso che ha GIORNALE LIGUSTICO 357 dettato al Sannazzaro due bei versi, spiranti tanto malinconico affetto : Da, Pater, tecto salientem avito Cernere fumum ? Fatto sta, e il giovinetto probabilmente non capiva tante cose, che lasciata Volterra si recò a Pisa e di là verso la Lunigiana in quel tempo mal sicura per i popoli vicini che erano sollevati. Inutilmente il padre mandò a Pisa per richiamarlo; il giovine era già in viaggio, venne preso e tratto prigione presso il capitano di Spezia. L’imputazione, per quanto è dato argomentare dalle lettere dell’Ivani, era di aver preso partito con i tumultuanti contro il governo del Duca di Milano. Comodo pretesto perchè il capitano di Spezia facesse il sordo alle sollecitazioni che gli venivano dal magistrato fiorentino, da Pietro de’ Medici, dai secretari ducali, da tutti coloro infine che il misero padre pregava di aiuto. Anche Nicodemo Trincadini (i; e il figlio Francesco si presero molto a cuore la pratica, tanto che in una lettera l’Ivani ne rendeva loro grafie immortali, ma infine se volle riscattare il primogenito gli tu forza, oltre le preghiere degli amici, pagare una somma non piccola per il riscatto. Gli è perciò che dolendosene con Francesco Trincadini scriveva: « Nihil mihi diuturna conversatio in aula mediolanensi profuit ». L·’ Ode- (i) Nicodemo Trincadini o Tranchcdini, cui sono dirette parecchie lettere dell’Ivani, ebbe l’amicizia di parecchi uomini insigni de’ suoi tempi, siccome raccogliesi per un codice di epistole latine a lui della Biblioteca Riccardiana di Firenze n. 834. Sonvi nello stesso anche alcune lettere dell’Ivani. Ne ho avuto notizia dalla cortesia del prof. Novati, tardi per potermene giovare qui ; ma mi propongo studiarlo riposatamente e farne mio prò’ nel più ampio lavoro sugli umanisti liguri cui attendo , del quale è da considerare il presente come un saggio.'Il Trincadini-fu adoperato da Francesco Sforza duca di Milano e dal figlio Galeazzo Maria in importanti uffici. Cfr. Gekini, Op. cit. Il, 235. 35δ GIORNALE LIGUSTICO rico e il Bertoloni parlano in questa faccenda di un pirata, che avrebbe fatto prigioniero Giovanni Filippo, per consegnarlo a sua volta al capitano di Spezia; ma l’uno e l’altro devono averlo sognato, perchè di pirata in queste lettere non si trova la minima traccia. Del resto dei figli parecchi che nacquero all’Ivani, Giovanni Filippo pare veramente che fosse il più turbolento e manesco: sicché non sempre si aveva cagione di lodarsi di lui. Nella guerra minuscola già ricordata tra Amelia e Sarzana, che scoppiò dopo il ritorno dell’Ivani da Volterra nel ’ηι, egli nel dar avviso al secondogenito Gaspare di una deplorevole mischia accaduta pochi giorni prima, scrive con un certo orgoglio paterno: « tuo fratello si è comportato nel combattimento come si conviene ad un uomo » (i). Ma è pur troppo vero che le umane virtù non fruttano senza l’innesto di un vizio. In una lettera da Pistoia del luglio *78 (2), tre mesi dopo la famosa congiura Pazziana, il povero padre chiede la protezione di Lorenzo de’ Medici in favore del figliuolo, che, provocato, aveva nel tafferuglio ferito un lombardo ed ora era fuggiasco da casa. Un decreto degli Otto puniva con fiorini cento chiunque offendesse altrui, ma infine, come osservava ΓIvani, chi è provocalo c insultato non offende, e la violenza era tanto insita in que’ costumi, che sarebbe stato più che meraviglioso, se Giovanni Filippo, tiratovi pei capelli, avesse fatto altrimenti. Ritornando al '71 è conveniente rappresentarci un tratto innanzi la famiglia del povero umanista. Giunone Lucina non era stata scarsa con lui: aveva cinque maschi, due dei quali adulti, gli altri tre bambini et nubilis filia sine dote, oltre la moglie, la nuora, moglie del primogenito e una fantesca. (1) Ms. II, c. 74 verso. (2) Arch. Medie, av. il Principato, filza XXXVI, a c. 1055. GIORNALE LIGUSTICO 359 A tante bocche doveva bastare il poderetto avito di Monte d’Armulo, e alcuni campi lungo il fiume, in un paese pittoresco sì, ma per sua natura sterile sui monti; e per giunta la Magra entrava assai volte a disertare il piccolo patrimonio. Questo per farci intendere una parte dei crucci che gli tormentavano lo spirito. A ciò fa d’ uopo aggiungere la condotta indegna del Campofregoso verso di lui, e le accuse scaraventategli al capo per la triste vertenza di Volterra di cui parleremo più innanzi. L’Ivani accagionava Ludovico di averlo, con le sue promesse non mantenute, indotto a lasciar colà Γ ufficio di cancelliere, ma in questa parte non so con quanta ragione. Difatti dopo la guerra con i Fiorentini, avendolo i Volterrani richiamato, non aveva però creduto opportuno di tornarci (i). Sta solo il fatto che dopo la sua partenza da questa città, il Campofregoso gli fece magnifiche promesse per deciderlo ad accompagnare il figlio Agostino, che allora disegnava di mandare in corte di re Ferdinando. L’Ivani venne per tanto a Siena, dove da qualche tempo dimorava il Fregoso. Ma si trovò ben tosto deluso. Ludovico, mutato consiglio, risolvette di avviare Agostino alla milizia, e come scuola a ciò opportuna scelse Forlì, dov’ era principe il suo parente Girolamo Riario. Non fa bisogno di dire se dolse all’Ivani. Venne tuttavia con Agostino fino a Torrita, ma quivi si trovò avvolto in una lotta furiosa tra abitanti e soldati, così che stette, come egli dice, inter tela pacem obsecrans: egli dedito agli studi, nemico, e lo confessa candidamente, dello strepito delle armi, che sull’importanza delle guerre d’allora in Italia la pensava molto liberamente (2), non si sentì (1) Ms. II, c. 88 verso, lett. al vescovo di Luni, Antonio Maria Parentucelli. (2) Al discepolo sempre carissimo e che lo ricambiò di eguale affetto, Tommasino Campofregoso, scriveva: « Te hortor ne militiam hoc tempore sequaris, quia non pro decore habetur, sed pro avaritia fit ad sólam perniciem gallinarum » (Ms. I, p. 140). 360 GIORNALE LIGUSTICO di farne altro: negò di seguitare Agostino a Forlì e la ruppe bruscamente per sempre con Ludovico. Il quale non tralasciò di vendicarsi nel modo più acerbo per il poveruomo. Gli rifiutò il promesso poderetto nella Lunigiana, la pensione perpetua che doveva andargli unita , e perfino, vendetta di anima spilorcia, lo stipendio a lui dovuto di sei mesi. Ma quello che gli ebbe più a cuocere fu senza dubbio di vedersi negato un imprestito, che gli permettesse di comprare un posto di segretario apostolico allora vacante nella Curia Romana. Si erano intromessi in questa pratica due nobili amici genovesi e il vescovo di Savona Gian Battista Cibo, che fu poi papa Innocenzo ottavo (1). Nell’ottobre del *72 sembra difatti che si recasse a Roma e si infiammasse nel proposito di trovare occupazione colà. « Cupio eodem reverti quo habunde videntur virtutes et vicia plurium nationum confluere et inter quae fortunam plurimum dominari compertum est » (2). E cita un aneddoto che troverà luogo altrove. In Roma vide un’altra volta Ludovico, ma costui non seppe far altro che rimproverargli l’abbandono del figlio e condurlo per le lunghe quanto ai denari di cui lo pregava Γ Ivani, e che gli pareva, in riguardo de’ suoi molti servigi, di aver meritato. Frattanto mentre egli veniva dibattendosi in inutili tentativi, Γ occasione era fuggita. Bisognò ritornare a Sarzana e assaporarvi per cinque lunghi anni lo isolamento, una crucciosa inerzia, e ciò che era più amaro al cuore del padre, la penuria delle cose domestiche. Cogli amici di Volterra si lasciava qualche volta vincere la mano ad ingrandire il quadro. « Principale occupazione mia è di attendere al podere, sorvegliare i coloni e disporre nei luoghi opportuni gli alberi fruttiferi, così che esso diventi (1) Ms. I, p. 171, lettere al Cibo e a G. B. Bulgaro. (2) Ms. I, p. 134. GIORNALE LIGUSTICO 361 più ornato e più utile » (1). Ma con il vescovo di Luni forse era più sincero. « In quest’ozio io ho consumato assai più che non sarebbe convenuto ad un uomo di esiguo avere, più che non consentano le necessità della famiglia e la figliuola da mandare a marito. In verità io sono così avvolto nelle angustie e nel dolore, che non so dove mi volga » (2). E ad Agostino Campofregoso ricordava le lagrime che in sua presenza aveva versate, ma che non eran valute a commuovere il cuore del padre. Se in siffatte condizioni d’animo egli non serba sempre l’equanimità necessaria, se si lascia andare a dir di Ludovico un po’ troppo male, se nel ricorrere agli amici perchè lo levino da Sarzana qualche rada volta pare dimentico della dignità, glie ne vorremo noi far colpa, quando altri da più di lui e senza scuse di sorta, si infangavano in quella melma? Confessava candidamente al figlio, che se le cure del loro podere a Monte d’Armulo non l’avessero ricreato un poco, sarebbe impazzito. È bensì vero che .la natura di quelli uomini aveva dei numerosi alti e bassi, quasi tanto numerosi quante erano le contraddizioni del secolo. E noi vediamo l’Ivani in un altra lettera trarre dalla disgrazia stessa materia di riso, quantunque sia un riso che non passa la gola. Il torrente Calcandola gonfiato da grosse pioggie trascina nel suo alveo un campicello, che il nostro Antonio teneva coltivato a legumi. Egli va al torrente e gli getta anche la carta di compra, affinchè possieda per diritto ciò che aveva rapito. Un’altra volta gli capita in casa da Volterra l’amico Persio Falconano, e lo trova tutto occupato a escogitare delle leggi può ve per il suo comune. L’amico legge , ride e gli chiede se il furore legislativo di Bonamico da Volterra, comico personaggio a tutt’ e due ben noto, non avesse invasato anche c . . . .. ·-· · . - (1) Ms. I, p. 155- : (2) Ms. II, c. 88 verso. .... . t 362 GIORNALE LIGUSTICO lui. Poi venivano le legazioni, i discorsi al nuovo capitano mandato dai Fiorentini, i negozi del Comune, perchè i suoi concittadini non avevano mancato di eleggerlo tra gli Anziani del Consiglio, e talvolta le visite degli amici tra cui primi Nicodemo Trincadini e Donato Acciaioli. Un’ altra distrazione, se non dobbiamo dirla piuttosto occupazione di non minor conto delle altre, stava nella ricerca e nello studio delle antichità, onde l’Ivani era appassionato cultore. L· ben noto 1’ amore di Lorenzo de’ Medici per tutto ciò che potesse far testimonianza della civiltà e delle arti del Rinascimento. I manoscritti avevano ad essere miniati con somma cura, e intorno al sacro alloro che inghirlandava il fatidico motto semper, brillare le gemme e le medaglie antiche adornanti que’ codici preziosi. Lorenzo aveva dato speciali istruzioni a’ capitani mandati a governare Sarzana di comprare per lui tutte le anticaglie che si potessero rinvenire a Luni. E del concorso dell’ Ivani in coteste ricerche ci è prova una lettera al Medici, in cui gli dà parte di un medagliere radunato per ordine di Mico Capponi allora capitano di Sarzana. — « Più altre erano state trovate, ma così corrose che non si discernevano , se non a fatica, le lettere e le immagini » (1). In un altra a Donato Acciaioli gli partecipa, perchè ne riferisca al Medici, che un tale scultore di marmi per nome Matteo aveva poc’anzi comprato da un rustico scopritore un Ercole di bronzo ed una corniola rappresentante una testa virile, con lineamenti di cui nulla più vivace (2). Era cotesto amore del mondo antico che lo stringeva in amicizia anche con Bernardo Rucellai, i cui Orti levavano allora molta fama, per i monumenti che quell’ illustre (1) Archivio Medie, av. il Princip. filz. XXX a c. 141 , lett. 14 marzo 1473. Cfr. Giornale Ligustico, a. 1882, pag. 455. (2) Ms. II, c. 42 verso. GIORNALE LIGUSTICO 363 cittadino vi radunava da ogni parte, e dovevano anni dopo levarne tanta per ben altre e più gravi cagioni. Ad arricchire di marmi quel geniale ritrovo sappiamo da quest’ epistolario che si adoperava anche il nostro Antonio, sebbene non sempre le ricerche fossero fortunate. Un giorno del '74, pianta in asso gli Ameliani che non la finivano di tirar fuori cavilli, per cavalcare col capitano di Sarzana a vedere delle statue. Ma ahimè non erano intere ; « non abbiamo trovato, scriveva al Rucellai, che quattro teste staccate dal busto: una sopra una torre e priva del naso, le altre tre infisse in una parete della chiesa, le quali paiono essere muliebri. La prima mancante del naso è senza fallo virile. Però i loro lineamenti non hanno grazia alcuna » (1). Possedeva buon gusto insieme a quell’ adorazione del passato che era comune agli eruditi d’allora: se non che l’amore inquieto che i più portavano a’ codici, egli lo estendeva anche agli altri monumenti dell’ antichità. — « Sento, scrive celiando al canonico Terenzio Soccino di Sarzana, che la statua da te comprata, è già tempo, in Genova se ne sta mesta, e dicono anche abbia sudato di fastidio perchè non fu ancora collocata al debito posto. Suvvia, metti tosto mano a prepararglielo. Anche le pietre inanimate, vedi, sembrano dolersi di essere state cosi a lungo neglette e disprezzate » (2). È un luogo comune degli studiosi del Quattrocento l’ascrivere a quelli eruditi uno sdegnoso oblio del presente, per non aver occhio che al superbo fantasma del mondo antico. Osservazione che non è in tutto vera , e tanto meno vera man mano che ci avviciniamo all’ultimo quarto del secolo. L’Ivani, per un esempio, era avidissimo, sono sue parole, di sapere che cosa si facesse tra i vivi, ed a sua volta par- (1) Ms. II, c. 97 verso. (2) Ms. II, c. 97 recto. SOG- GIORNALE LIGUSTICO tecipava volentieri agli amici le notizie apprese. Non senza giudizi talora un po’ acerbi. — « Si dice che il Tuico apparecchi per terra un minaccioso esercito e abbia sospinta una flotta all’Eubea. Ora è tempo che il papa (Paolo II) differisca ancora ad innalzare il vessillo della croce in soccorso de’ pericolanti, e che i potentati italiani si rimangano oziosi spettatori. Oh quanta ipocrisia, quanto sfoggio colpevole, quanta negligenza! Nè è buon consiglio l’aspettare gli aiuti de’ Francesi e de’ Tedeschi. Potrebbero, vengano essi o per danaro o per preghiere, darci molte noie in casa. Come volete difatti che stiano bene insieme, armati e in guerra, quelli che a fatica si possono tollerare tra loro in pace ? E bisogna mettere sul conto i corrotti costumi e le nequizie che provocano l’ira divina. Noi siamo diventati piccole volpi, pieni di blandizie per i presenti, pronti sempre a levare i pezzi degli assenti. Plebei e signori mettono in cielo chi sa meglio ammassare in qualsivoglia modo dell’oro. Ometto i superbi apparati della Romana Curia, quelli aulici costumi, gli esempi pieni di castità e santimonia di molti sacerdoti, perchè se parlassi liberamente costoro mi perseguiterebbero con pubbliche esecrazioni » (i). Nello stesso infausto anno 1470, da cui ha la data questa lettera, agli 11 di luglio veniva espugnata dai Turchi l’eroica Negroponte. L’Ivani, che allora dimorava in Volterra, ne raccoglie i particolari quali erano trasmessi da’ racconti pieni di spavento che ne facevano i cristiani d’Oriente, e ne dà parte all’ amico Meduseo. Differisce un poco ed in meno , quanto alle perdite patite dai Turchi, dal calcolo che ne faceva frate Iacopo della Castellana (2), sebbene non manchi anche qui la solita esagerazione. ; . (1) Ms. I, p. 103, lett. a Cicco Simonetta del 15 luglio 1470. (2) Cfr. Cipolla, Storia delle Signorie italiane, Milano, Vallardi, 1881, P· 553· GIORNALE LIGUSTICO 365 Questa lettera non è senza importanza per il buon numero di notizie che fornisce sull’ assedio, e per l’accenno ad un tentativo di tradimento anteriore all’ espugnazione della città stessa (1). In quelli anni cosi pieni di vicende e di negoziati gran parte dei discorsi di tutti, non occorre il dirlo, erano sul Turco, e di cotesta causa perenne di inquietudini parla molto anche l’Ivani. Ora è la presa di Caffa che la Repubblica di Genova , nella sua meschinissima politica occupata a soccorrere gli Angioini, si dimenticava di difendere, e che il Turco prendeva; ora lo muovono a scrivere i disegni di Maometto II e alcune notizie riguardanti questo terribile principe, apprese dalla bocca stessa di un testimonio oculare (2). Così fatto era il ritornello e doveva durare un pezzo ancora, ma la cronaca giornaliera preparava anche il tema ad altre notizie più ghiotte e che toccavano più da vicino. Non facevano difetto i tumulti di piazza, a Genova diventati ormai condizione normale del suo governo; le preoccupazioni sopra la morte del re Ferdinando che era annunciata prossima dagli astrologi ; alcuna delle tragedie frequenti tra i signorotti italiani, che interrompevano non di rado il lieto rumore delle feste con qualche colpo di scure o di pugnale (3). A proposito di re Ferdinando, è curioso il vedere (1) Ms. I, p. 106. Documento IV. (2) Ms. II, c. 72 recto, lettera a Bartolomeo Scala; c. 75 recto, lettera a tre amici volterrani. Documenti V e VI. (3) La lettera dell’Ivani sulla morte di Nicolò d’Este scritta da Sarzana 1’ 8 settembre 1476 ci permette di rettificare le date evidentemente erronee di alcuno dei cronisti sincroni. L’Ivani dice aver ricevuto quel giorno stesso la notizia dagli amici di Firenze : tenuto conto dei mezzi allora più difficili e lenti di comunicazione è duopo concludere che almeno 1’ assalto va trasportato al 10 agosto, come vogliono le fonti veneziane , e la decapitazione di Nicolò al 3 settembre, come portano gli Annales Placentini (ap. Murat. , XX, c. 950). — Deve poi essere 266 GIORNALE LIGUSTICO come giudicasse della cupa figura di cotesto Tiberio in sedicesimo un contemporaneo al quale, senza essere un gran politico, non manca senso pratico e spirito osservatore: « Si quoque Ferdinandus Rex brevi occidet ex sententia illius astrologi de quo scribis, dolendum erit magis quàm mirandum. Est enim et ipse natus eadem cum ceteris lege moriendi. Sed optandum est ut vivat, modo vivat ad quietem Italie, et ad omnem necessariam in Turchos expeditionem » (i). La spedizione contro il Turco ! quante volte la rettorica senza fallo in errore 1’Allegretti ( ap. Murat. , XXIII, c. 781 ) che pone solo al 5 di settembre l’assalto, e la decapitazione di Niccolò al 7. Ecco la lettera dell’ Ivani : « Antonius Hyvanus Andree Marocello S· Ferrariae, ut hodie accepi ex Florentia litteris amici, tumul- tuatum est. Nicolaus Estensis Leonelli quondam principis ferrariensis filius, quem parvulum defuncto patre Borsius princeps Leonelli frater ac successor delicate quidem educaverat, et qui Borsio defuncto agens Man-tue propter suspictionem apud Ludovicum marchionem avunculum suum, Ferrariensem principatum quem regebat Hercules estensis patruus suus, ad se pertinere asseverabat veluti hereditarium, temptare ac simul experiri fortunam statuit. Hic per Padum clam cimbis onerariis advectus cum peditibus trecentis urbem ingressus populum sperabat sibi opem laturum. Post eum ex agro mantuano ad tria peditum millia clam collecta sequebantur. Verum quiescenti ac spedante ocioso populo, destitutus populari spe se ipsum eodem itinere vertit in fugam. Eum persecutus est Sigis-mondus Herculis frater : a quo demum extra urbem captus, de se Ferra-riensibus triste spectaculum prebuit, et his presertim, qui sibi ardentius affecti benivolentia ferebantur. Erat tunc Hercules in Ferrariensi agro au-cupii gratia. Qui accepto primo nuncio de ingressu Nicolai, ad oppidum Lugum profugerat. Paulo post audita eius captivitate Ferrariam rediit, iussu cuius nepos Nicolaus, ut turpiter fugerat, sic et miserabiliter non sine cede multorum ex his quos secum advexerat, securi est percussus. Hunc delicatus iuvenis in aetatis flore finem invenit, cum et magni motus per Italiam initia dedisset. Vale. Sarzana VI id. Septembris » (Ms. II, c. 105 recto). (1) Ms. II, c. 80 recto, lettera a Gabriele Ricobaldo. GIORNALE LIGUSTICO 367 del Quattrocento non aveva esortato i principi od i papi a mettervi mano ! Perchè già ogni secolo possiede una sua rettorica che lo caratterizza ; il secolo XV aveva questa di indicare in ogni principe che si levasse un po’ fuor del comune il possibile vendicatore degli assassinati cristiani, e di esortarvelo con tutti i luoghi comuni che potevano essere pensati da un retore. Tutti gridavano in un latino più o meno aureo : « Italia, Italia, il tuo soccorso è nato », e i principi porgevano orecchio di buon grado, solleticati dalle lodi e dall’ onda musicale del periodo, che emulava da lungi le glorie di Tullio o di Livio. Poi, a lettura finita, ogni cosa ripigliava il trotterello solito e l’umanista andava in cerca di un altro eroe del momento cui dedicare un altro de’ suoi discorsi, uno de’ soliti pretenziosi centoni di notizie e di frasi latine (r). IIL Sul finire dell’ anno '76 il nostro Antonio poteva finalmente abbandonare Sarzana ed andarsene cancelliere a Pistoia. Questo nuovo ufficio, che non era certo il più desiderato da lui, lo ottenne per la raccomandazione del Medici ; e noi che nella vertenza volterrana avremo molto a ridire sul favore e sulla generosità del Magnifico, per debito d’ imparzialità qui ci affrettiamo a dichiararlo (2). L’Ivani avrebbe (1) Anche l’Ivani, per non esser diverso dagli altri, scrisse una lettera al Conte Federigo da Montefeltro : contra Tureos adhortatio. Non vale più delle altre lettere e orazioni sull’ eguale argomento, sebbene almeno vada esente da gonfiezza. Inoltre per la storia dei costumi può avere importanza 1’ accenno alle rivelazioni di S. Ildegarde e S. Brigida, ma di ciò altrove. (Ms. II, c. 80 recto, lett. a Federico da Urbino, 1 marzo 1475). (2) Che Lorenzo abbia speso in questa pratica la sua potente autorità in favore dell’ Ivani, risulta dalle lettere di questo a Bartolomeo Scala e a Nicolò Michelozzo cittadino fiorentino; Ms. II, c. 108 recto e 108 verso. 368 GIORNALE LIGUSTICO voluto vivere a Firenze, ed esercitare in un campo più vasto quella pratica de’ negozi che credeva di avere acquistato. Ma il Medici, qualunque siano le ragioni che a ciò lo movessero, dopo cinque lunghi anni di aspettazione non seppe o non volle far altro. Era egli troppo rozzo, come l’Ivani stesso confessava con un po’ di malizia, o pativa di scatti troppo impetuosi per poter essere elevato tra 1 famigliari del Medici? In questo il primo cittadino di Firenze era un po’ somigliante ad Augusto, il primo cittadino di Roma, con cui, salvo la potenza e l’efficacia maggiore nel secondo, ebbe altri punti di contatto. In nessun luogo genialità maggiore che in quella casa , ma in nessun luogo una scelta più studiata ed accorta degli uomini capaci di dar risalto al principato. Un’ altra circostanza rendeva anche titubante il nostro Antonio , ed erano le maledette fazioni sempre vive a Pistoia e già da lui esperimentate a Volterra. Ma infine ogni difficoltà fu superata, e negli ultimi giorni del dicembre '76, egli assumeva il suo ufficio. Il quale non dovette affatto spiacergli, perchè nelle sue lettere da Pistoia troviamo bensì frequenti accenni alle discordie cittadine, ma nessuna lamen-tanza che toccasse lui personalmente. Chè anzi 1 affettuosa amicizia di Giuliano da Camaiore, di Giovanni Gianotti, le liete brigate a cui la sua aperta e faceta natura inclinava, gli resero più sopportabile il morbo quasi incurabile delle fazioni (1). (1 j Ms. II, c. 116 verso e 117, lett. a Tomaso Anastasio Sarzanese. « Compatior huic morbo pene incurabili et eo magis compatior, quo superioribus diebus a publico magistrato ductus in domum privati civis miram saltantium agilitatem civilesque ornatus et compositos adolescen-tum puellarumque mores accuratius perspexi ». Il Neri (op. cit., p. 135) riferisce la descrizione che fa l’Ivani di un invito luculliano, dato dal vescovo di Pistoia Nicolò Pandolfini nel carnevale del 147^- I convitati erano de’ più intimi amici suoi, tra cui il nostro Ivani e· « con essi nove donne, nove come le muse e pari alle ninfe per venustà di costume e di GIORNALE LIGUSTICO 369 Egli era sempre quel desso che si dilettava forse un po’ troppo degli aneddoti grassocci narrati a cena dal Leostello e dopo una recita dell’ Anfitrione di Plauto , che a Gaspare da Pesaro, medico del duca Francesco Sforza scriveva da Firenze : « Ieri l’altro con Nicodemo Trincadini (era allora oratore del duca) parlando di te, siamo entrati in un discorso così allegro e condito di tante risa, che potresti metterlo senza tema di sbagliare tra le facezie del Poggio » (1) — che in Firenze nel '64 per negozi del Fregoso visitava assiduo, oltre le Murate famose per dolcezza e santità di vita , anche una madonna Elisabetta, la quale non aveva ad essere uno stinco di santa, sebbene possedesse un paio d’occhi bellissimi. Ed il più curioso è che per amore di quei belli occhi poco mancò non volassero delle legnate tra lui , oratore del Fregoso ai Medici, marito e già padre di parecchi figliuoli, e un rivale pisano di cui non ci dice il nome. Questo per la storia del costume nel Quattrocento. Ma io forse presento sotto una luce troppo sfavorevole il nostro umanista; non mancavano difatti trattenimenti più gentili in un periodo di tempo che in confronto di quello seguito di poi, fu uno dei più riposati e più quieti che abbia avuto allora l’Italia. Ancora non era insorto, con un ultimo tentativo di ascetica reazione, il Savonarola. E il Nostro spesso soleva recarsi nelle prime ore del giorno a Santa Reparata, ben inteso per il servizio divino — egli era ortodosso sincero, non senza una vena di misti- vestito ». Magnifico l’ordine e la qualità dei serviti, e perchè ad una cena del Rinascimento non mancasse il suo carattere di pagana romanità , mimi, ballerini e citaredi alternavano suoni e danze negli intervalli tra un servito e P altro, e il Greco buffone rallegrava colle sue arguzie la nobile brigata. (1) Ms. I, p. 10. Giorn. Ligustico. Anno XII. 2a 370 GIORNALE LIGUSTICO cismo che apparve di più cogli anni — per il servizio divino dunque, ma anche per ammirarvi le matrone e le fanciulle che vi convenivano in gran numero , e di cui non potrei, diceva ad Agostino Fregoso, descriverti la modestia, la venustà, la ricchezza degli ornamenti. Modestia che non impediva però si recassero colà per vedere ed esservi vedute : poi nel pomeriggio c’ erano le rime di Maestro Antonio (i) , le laudi della Vergine a Or san Michele, e dopo cena centinaia di vispe fanciulle che per quasi ogni via di Firenze, le une battevano il timpano, detto volgarmente cembalo, altre ballavano con giovinetti di eguale età e con grane così ingenue che mandavano in visibilio il nostro osservatore (2). Il quale morì quietamente in Pistoia nell’ 82 , senza sospetto di quel funesto '94 in cui tutte le speranze della federazione dovevano sfumar via come nebbia al sole, tante fortune precipitar miseramente, e sottentrare alle accarezzate illusioni, dolori muti, e muti sovente anche di pensiero. CAPITOLO II. La contesa delle allumiere e il Cornmentariolus de bello Volaterrano I. Le diverse legazioni sostenute dall’ Ivani in Toscana lo avevano fatto conoscere ai Medici, e Pietro, cui va aggiunto anche il Cardinale Filippo Calandrini, gli era stato di (1) Si tratta qui di Antonio di Guido, che il Landucci, Diario, Firenze, Sansoni, 1883, ricorda all’anno 1462 (pag. 3), come « cantore improviso, che ha passato ognuno in quell’arte ». Morì nel i486 (pag. 51). (2) Neri, op. cit., p. 128 e segg. GIORNALE LIGUSTICO 371 molto aiuto nell ottenergli la cancelleria di Volterra. Era il gennaio del 1466. Ci si trovò ben presto male e senza reticenze lo dichiarava al Cardinale alcuni mesi dopo-: « Munus autem hoc ad quod accurate administrandum me adhortatur humanitas tua singularis, laboriosum est admodum et variis implicitum curis et cum modicam sane afferat utilitatem, parum animo sedet meo » (1). La maggior molestia consisteva nell enorme farragine di leggi, per cui sarebbero bisognati molti anni e molta fatica a prenderne notizia ; veniva poi in secondo grado l’umore litigioso parecchio degli abitatori. In una lettera scritta a Nicolò Gamberella segretario del Duca di Milano, e che il Muratori pubblicò mutila in testa al Commentario, credendola esordio di esso, si enumerano minutamente le occupazioni del cancelliere (2). La lettera è anche di giovamento a far conoscere in quali condizioni si governasse una delle piccole repubbliche toscane nel Quattrocento , tra la gelosa cura di conservare i suoi liberi ordini, 0 per lo meno le apparenze di essi, e la necessita del pari stringente di ricoverarsi sotto la protezione di uno Stato più potente, che ne assicurasse Γ esistenza. Dopo una descrizione della città , ed un cenno de’ principali magistrati onde era retta, Γ Ivani passa alle incombenze cancelleresche, che non erano poche nè lievi: scrivere le de-liberazioni che a partito di fave bianche e nere erano vinte tra i Magnifici Priori, i Collegi e il generale Consiglio; riassumere i discorsi de’ diversi oratori, intervenire alla estrazione ed elezione de’ magistrati; convalidare colla sua presenza i versamenti di danaro nel pubblico erario. Non c’era male, ma non basta ancora. Le leggi volterrane prescrivevano anche, e ciò Γ Ivani trovava più grave e più difficile , (1) Ms. I, p. 18. (2) Ms. I, p. 16. 372 GIORNALE LIGUSTIGO che il cancelliere condannasse i magistrati se mai contravvenissero alle leggi, e i privati cittadini, che chiamati a pubblica consulta, non ubbidissero o comparissero intempestivi. Come dovessero piacere ad un letterato tante e cavillose precauzioni di una politica piccina e sospettosa, ognuno sei pensi, e riuscivano a spazientire anche Γ Ivani. « I Volterrani, scrive con ironia a Pietro de’ Medici, certo molto devoti alla tua autorità e governanti con quanta moderazione possono e virtù la loro repubblica, vogliono un cancelliere dotto, facondo, pudico, liberale, solerte, fido, giusto, e ciò che è un po’ più difficile a trovarsi, che possieda una memoria eterna, che abbia parecchi volumi di leggi in pronto ad ogni loro cenno, come se li portasse in tasca. Se io vorrò totis viribus soddisfare a tante richieste, forse toccherà anche a me di impazzire » (i). E si direbbe che ne fosse già uscito pazzo qualcun altro. Cito questa lettera, perchè la difficoltà di sgruppare cotesto farraginoso cumulo di disposizioni diverse, sarà più tardi una delle ragioni che il Nostro produrrà a sua discolpa. A.ltre la-mentanze, e assai più forti, doveva fare dopo la sua partenza da Volterra, e sulla verità de’ fatti che egli addebita a Volterrani non c’ è cagione di dubitare, perchè sono ricordati a coloro stessi che, o potevano esserne testimoni, o facilmente verificarli (2). Erano gli offensori non volgo, ma i principali (1) Ms. I, p. 60. (2) Ms. II, c. 53 recto, lettera da Sarzana ai due amici volterrani Gabriele Ricobaldo e Giovanni Segherio : « Costi si sapeva e qui si sa qual sia la qualità dila mia donna; nientedimeno essendo epsa di natuia aereosa et havendo costì stantia solitaria di vicinato e, per suo ri fi igerio standossi in suoi exercitii presso a la finestra, che civilità era quella dal cuni de vostri priori hi quali la bersagliavano cum pallote di ciarbotane. Diche dolendossi epsa meco, mi fu necessario exhortare quelli alhonesto. chi gli altri dovevano incitare al bene, et esser exemplo di virtù. Se 10, GIORNALE LIGUSTICO 373 della città, i magnifici priori, coloro che meglio avrebbero dovuto sentire la dignità della magistratura che sostenevano e valutare i buoni servizi del loro cancelliere. Che maraviglia, se di fervente che era, sono parole dell’ Ivani, egli divenne in progresso di tempo tepido e fors’ anche indifferente? L’ erudito si vedeva confinato in luogo remoto dal consorzio civile, dove a stento giungeva una debole eco degli avvenimenti italiani (i), e costretto , tranne pochissimi, a trattare con uomini, « i quali non sapeva discernere se fossero o maligni o insolenti o semplici o bestiali » (2). Per giunta la peste entrata nel 1468 per la seconda volta in Volterra rese anche più tesi i rapporti dell’ Ivani colla Signoria. I principali cittadini erano fuggiti, la plebe stava spaventata. L’Ivani, secondo le consuetudini di chi andava in altra terra come cancelliere, aveva diritto di partire, ma per motivi che non sono ben chiari, gli fu ostinatamente negata la licenza, sino nelo spacio di circa anni cinque che costi steti, mai usai verso le vostre donne o in parole, o in vista, o in facti acto alcuno impudico , dio sia quello che mi ne rendi mal merito. Essendo poi epsa inferma e , circa hore tre di nocte per alteratione di febre, essendogli supravenuto alcuni accidenti di frenesia et essendo io alaiuto suo molto occupato, hebbi quasi in uno instante tre famigli luno doppo laltro a richiedermi di andare in palagio. Pensando io che qualche importante facenda occorresse, non valendomi scusa fui obediente. E , capitato a la presentia de priori hebbi commissione dessere rogato duna licentia data al cuoquo di andare a colle » ecc. E dopo questo piccolo saggio di leggiadri e gentili costumi, se gli umanisti mostravano d’ ordinario assai poca simpatia per i governi a popolo e si stringevano di preferenza intorno ad un principe, avevano poi tutti i torti ? (1) Ms. I, p. 118, lettera a Donato Acciaioli: « In loco sumus , ubi nobis omnia licet ignorare preter Volaterranas leges inter se contrarias... sepe multa dudum per Italiam vulgantur et prope traduntur oblivioni anteaquam vix ad nostri notitiam deferantur ». (2) Ms. II, c. 53 recto, lettera cit. 374 GIORNALE LIGUSTICO a che, a’ tre di luglio, senza, come sembra, un regolare permesso egli abbandonò la città. Vi lasciava però un suo coadiutore. Appoggiata a siffatto pretesto , al suo ritorno la Signoria si rifiutò di pagargli lo stipendio di sei mesi, mentre lo si pagava regolarmente al Pretore urbano ed agli altri che senza licenza erano partiti. L’Ivani, allora e poi, protestò contro 1’ ingiusto trattamento, ma non venne mai fatta ragione alle sue proteste. Queste premesse possono spiegare fino ad un certo punto gli avvenimenti posteriori, e dimostrano ad un tempo che i Volterrani non erano scevri di torti verso il nostro umanista. Egli tuttavia assevera, e nella lettera stessa in cui produce le accuse accennate, che sempre seppe distinguere i buoni dai cattivi e che in ogni occasione ha cercato il vantaggio del Comune. — « Se nelle spesse contradictioni de vostri statuti mal rassetati, mi adaptavo ut plurimum ale parti più benigne e che dimostravano qualche utilità pubblica, forsi non facevo male, e si male era, noi facevo a mal fine, perchè mai fui inimico del vostro Comune, ma sì compiacente a’ citadini » (i). Passiamo alla deplorevole contesa delle allumiere, causa di tanti danni a Volterra. Mi dilungherò alquanto sulla prima origine di essa, riassumendo con brevità gli avvenimenti posteriori, che furono già da molti storici diffusamente narrati (2). Il territorio di Volterra aveva, oltre gli altri minerali, una cospicua ricchezza di miniere d’ allume, o trascurate 0 non conosciute dai Volterrani. Nell’anno 1471 Benuccio di Cristoforo Capacci sanese ne chiese 1’ appalto, e propose perciò al Comune un contratto che avesse la durata di cinquantanni al prezzo di lire cento di loro moneta, come correspettivo (1) Ms. II, c. 53 recto, lettera cit. (2) Cfr. Reumont , Lorenzo de’ Medici, Leipzig 1874, I, 338 per le fonti sulla guerra di Volterra. GIORNALE LIGUSTICO 375 della graziosa concessione. Il magistrato scelse quattro cittadini cui diede incarico di trattare la cosa con Benuccio e riferire intorno a quanto credevano di approvare o mutare o aggiungere. Costoro speditamente riferirono esser la cosa di onore e di utile al Comune, solo proponendo l’aggiunta di certi altri patti. Ma sorse allora Γ opposizione di Salvatico Guidi, che osservava la petizione non potersi accettare, poiché la legge proibiva che tre giorni prima di fare un nuovo magistrato (e si era appunto in tal caso) si presentasse petizione alcuna includente o favore o misericordia — « quae gratiam aut misericordiam contineret» (i). Tuttavia il partito fu vinto in seguito ad un’ osservazione che pare veramente sofìstica, ossia perchè il nuovo volume di leggi compilato in servizio della Cancelleria portava la frase gratiam et misericordiam, e non con dizione alternata quale era citata dal Guidi. Il Gatteschi (2) dice che la cavillosa distinzione era dell’Ivani; il Nostro si accontenta di ricordarla senza più nel Commentario. Nella concessione era provveduto che Benuccio nominasse coloro i quali diventavano soci in quella speculazione, ed inoltre i luoghi dove intendeva intraprendere gli scavi. Benuccio adempì ad ambedue gli obblighi alcuni mesi dopo, tra gli appaltatori annoverandosi alcuni suoi parenti, tre distinti cittadini fiorentini e i due volterrani Benedetto Ricobaldo e Paolo Inghirami detto il Pecorino. Si mise mano ai lavori con febbrile attività, e le cave rispondevano col prodotto al di sopra dell’ aspettazione. Da ciò le invidie e le ire segnatamente contro P Inghirami, che gli avversari, non senza sospetto, vedevano arricchire. Il vantaggio della patria serviva, al solito, di maschera ai livori privati. Venne (1) Comment, cit. loc. cit. (2) G. M. Bruto, Istorie Fiorentine volgar.'uate da S. Gatteschi, Torino 1852, II, 53 nota 376 GIORNALE LIGUSTICO cavato fuori un vecchio volume di leggi nel quale si leggeva la formula citata dal Guidi e in quei precisi termini, si diceva ancora non esser lecito concedere altrui i beni del Comune itisi ex summo suffragiorum consensu : ma a cotesta ultima disposizione altre leggi e la vecchia consuetudine si opponevano. Difatti nessuno aveva pensato a rompere il contratto stipulato dal Comune per le miniere di rame, eppure esso sarebbe stato infirmato dall'’ antica legge che ora si tirava in mezzo come l’Achille degli argomenti (i). Con tutto ciò il contratto era oneroso, e dovevano sentirlo anche i locatari. Per consiglio, come sembra, del Medici, essi offersero allora un prezzo maggiore , affine di compensare , dicevano, liberaliore praemio, la facoltà ad essi liberalmente concessa. L’Ivani dà notizia della nuova composizione proposta, per 1’ accettazione della quale egli si era molto adoperato. Da lire cento, il prezzo di locazione si sarebbe elevato a mille fiorini annui (2). Il Consiglio generale affidò a otto cittadini il carico di pigliare la proposta in esame ; ma costoro poco curanti dell’ utile della città, avevano P animo rivolto a rompere il contratto. Successero agli otto, altri dodici, e non fecero che peggiorare le cose. Era stato creato, fin dagli 8 gennaio 1471 , arbitro della vertenza Lorenzo de’ Medici, e a’ dì 14 nella chiesa di S. Maria del Fiore dichiarava a’ Volterrani presenti che egli per la fede e benevolenza in lui dimostrata dal Comune, e che la sua famiglia sempre aveva osservata verso Volterra, (1) Arch. Medie, av. il Principato, filz. XXVII a c. 330, lett. dell Ivatli a Lorenzo de’ Medici: « Si denique nova statuta ediderunt, quae cancellarius sequeretur, si servant inviolatam aliam concessionem antea factam de fodendo aere, quae per legem vetustam quam producunt forte fieri non potuit, quid queruntur? » (2) Ms. I, p, 162 , lettera a Giuliano Villani di Pontremoli. GIORNALE LIGUSTICO 377 accettava l’offertogli arbitrato (i). Nessuno dice qual fosse la sua sentenza, ma il Machiavelli sufficientemente informato avverte che « i cittadini (intendi Lorenzo) a’ quali fu rimessa la causa, o per essere corrotti dalla parte o perchè giudicassero così esser bene, riferirono..... a’ privati, non al popolo volterrano, appartenere quelle allumiere... Questa risposta fece non diminuire, ma crescere i tumulti e gli odii in Volterra.... » (2). Particolare ch’io tengo per vero: è ormai risaputo che il Medici, sotto mano, era interessato nel-1’ appalto. Zaccaria Zacchi ne’ suoi ricordi contemporanei (3) ne fa esplicita menzione, e abbiamo tanta maggior ragione di crederlo, in quanto che fin dal 1466 i Medici avevano la depositerà dell’ allume negli Stati della Chiesa (4). Frattanto i dodici cittadini cui era commessa la pratica, con stolido pensiero convocavano dalla campagna uomini armati, e li spedivano a Castelnuovo e Lustignano, dov’ erano le maggiori allumiere, a scacciarvi colla violenza gli appaltatori e gli operai. Con ciò pareva loro di aver ritornato le miniere in potere del popolo. Inaspritasi la contesa, reclamarono l’Inghi-rami e il Ricobaldi presso la Signoria Fiorentina e vi trovarono facile ascolto : i locatari furono rimessi nel loro possesso ; quattro dei principali fra gli autori della sedizione vennero dal prefetto relegati in Firenze. E forse un accomodamento era ancora possibile, se non lo avesse impedito Paolo Inghirami che ritornò in que’ giorni a Volterra, e accompagnato, che era il peggio, da una mano di sgherri. L’ odio divenne furore, e Paolo con parecchi de’ suoi amici che si erano rifu- (1) Cecina, Notizie storiche della città di Volterra con note di F. Dal Borgo, p. 236. (2) Machiavelli, Storie Fiorentine, lib. VII, c. 29. (3) Fabroni, Vita Laurentii Medicis, Pisis 1784, ■ p. 62II, (4) Fabroni, op. cit., II, 30. 37$ GIORNALE LIGUSTICO giati nel palazzo del Podestà, vi si trovò assediato dal popolo tumultuante. L Inghirami e Romeo da Barletta furono barbaramente uccisi, gli altri si salvarono a stento. Il governo della citta era ormai caduto di fatto nelle mani della fazione estrema : i dieci nuovamente eletti cacciarono un’ altra volta gli speculatori dalle malaugurate miniere, relegarono molti cittadini che favoreggiavano Γ Inghirami e spedirono ambasciatori a Firenze per giustificare 1’ operato. Qui eran diversi i pareri. Tommaso Soderini stava a capo de’ pochi che consigliavano doversi evitare un incendio intestino, non dar ragione al Papa ed agli altri Stati italiani di lagnanze o di intervento: doversi infine procedere con grande circospezione in una intricata controversia di diritti (i). Ma Lorenzo voleva la guerra, e la storia imparziale fa ricadere su di lui la responsabilità di essa e dell’ orribile sacco che ne fu la conseguenza. Si decretarono subito cento mila fiorini, e messi insieme cinque mila fanti e cinquecento cavalli li mandarono a disertare il territorio di Volterra (2). Per venticinque giorni Federico da Urbino, che comandava le milizie fiorentine, battè le mura della infelice città, travagliata al di fuori dalle armi nemiche, al di dentro dalle discordie cittadine e dalla violenza di una soldataglia indisciplinata, che essa aveva stipendiata per difenderla. La resa stipulata con i commissari fiorentini, e in cui i beni e 1’ onore e la vita dei cittadini dovevano essere salvi, (1) Reumont, op. cit., I, 332 e segg. (2) Scipione Ammirato, Storia Fior, lib. XXIII, a. 1472 dice, che l’esercito dei Fiorentini, secondo il Machiavelli, fu di 10 mila fanti e 2 mila cavalli, ancorché alcuni non più che di 5 mila fanti e di 500 cavalli facciano menzione. Il Cecina (op..cit.), non so con quale criterio, porta 5 mila fanti e 2 mila cavalli. Il Reumont (op. cit.) segue l’Ammiratò. GIORNALE LIGUSTICO 379 venne violata. Il 17 giugno (1) la misera città soffrì un 01 libile sacco, che getta una grossa macchia sul nome del Conte di Urbino e sui fiorentini. — « Per tutto un giorno, nana il Machiavelli, fu rubata e scorsa, nè a donne,, nè a luoghi pii si perdono, e i soldati, così quelli che l’avevano male difesa, come quelli che l’avevano combattuta, delle sue sostanze la spogliarono » (2). Una malinconica riflessione fa il Reumont sulla pazza e feioce pervicacia degli uomini. — « Se si pensa di quanta miseria fu causa quel conflitto e che la guerra non costò a Firenze meno di cento mila fiorini d’ oro, che si dovettero piendere dal Monte delle Fanciulle, fa meraviglia leggere che le cave di allume giacevano, prima che fosse trascorso un secolo, abbandonate come inutili » (3). Quale parte ebbe 1 Ivani in cotesta lunga controversia? Che valore hanno le accuse mosse contro di lui ? Esse datano fin dal 71, prima ch’egli si partisse da Volterra e furono raffermate con pubblico atto alcuni mesi dopo. Una deliberazione dei Priori, a’ dì 25 novembre, mandava al generale Consiglio il mettere in chiaro le falsità e le frodi che erano state commesse negli atti della Cancelleria. Gli storici posteriori giù giù fino al Tabarrini (4) vi fecero eco, e per citarne un solo, il nobile Flaminio Dal Borgo giudicava che « debba ragionevolmente aversi il Commentario a sospetto, e ciederlo, anziché un’istoria, più tosto una relazione fatta ad un amico per scusare la propria condotta dell’ essere egli stato forse la causa principale delle disavventure che occor- (1) Questa data è portata comunemente dagli storici; il Cecina indica il 18 giugno. (2) Machiavelli, op. cit., lib. cit., c. 30. 13) Reumont, op. cit., loc. cit. (4) Tabarrini , Cronache Volterrane, in Arch. Stor., Ili App., p. 317 e segg. 380 GIORNALE LIGUSTICO sero a quella città » (1). Così gli altri con parole più o meno gravi. Dinanzi a tanta concordia di asseverazioni, pare che si dovrebbe avere senz’ altro un reo confesso. Ma siccome potrebbe essere il caso che P uno copii dal-1’altro senza critica, così sentiamo anche l’accusato. Audiatur et altera pars. Egli comincia dal protestare dinanzi agli amici volterrani, a’ presenti ed a’ posteri la sua affezione verso la Repubblica (2). Non nega che il prontuario di leggi, da lui osservato nella stipulazione del contratto, potesse essere contraddetto da leggi anteriori. Dio mio! ce n’erano tante di queste leggi. « I tuoi concittadini, scriveva a Jacopo Bandini , quello stesso che fra tanta civile iattura dolevasi unicamente d’averci rimesso nel saccheggio le ampolle e le galline (3) , i tuoi concittadini furono sempre più diligenti nel far leggi nuove che nel conservarle. E da ciò ne è venuto tal cumulo, che qualsivoglia coraggioso si trova quasi seppellito in un vasto pelago, solo che voglia, non dico intenderle, ma guardarle » (4). Non era stata scrupolosamente (1) Donde si togliesse il Dal Borgo la notizia che il Commentario è una relazione fatta ad un amico non so. Forse fu tratto in inganno dalla lettera premessavi dal Muratori (R. I. S. loc. cit.). Il Commentario non è punto in forma epistolare. (2) Ms. I, p. 145. (3) Commentarioìus cit., loc. cit. « Pro ioco habuere Jacobum Bandi-nium virum senem et consilio gravem ac in civili contentione factiosis adversarium, qui saepe vehementer in tanta iactura se et gallinas et urceolos amisisse querebatur ». (4) Ms. I, p. 146, 147. « Fuerunt semper tui concives, ut perspexi, occupatiores in condendis legibus quam in servandis diligentiores. Ex quo tanta legum multitudo conflavit, ut quisque ferax animus non modo ad illas concipiendas, verum inspiciendas veluti in altum pelagus obruatur.. Propterea non est mirandum si oriuntur interdum contentiones in civitate, si etiam parum perseverare possunt apud vos cancellarii » etc. GIORNALE LIGUSTICO 38i osservata la vecchia legge, e sta benissimo. Ma frattanto « non rade volte il consenso universale e la diuturna consuetudine non solo fanno legge, ma hanno virtù di rendere legittimo il possessore » (1). Esempio di ciò la stipulazione non mai violata per le miniere di rame. « Ed in sostanza non mostrava il popolo di esservi favorevole quando permetteva che i conduttori mettessero mano ai lavori, non risparmiassero dispendio veruno, che infine producessero in luce, e con non lieve fatica, un tesoro che prima era occulto? » (2). Allorché tutto era a tutto rischio degli speculatori, chi non approvava il negozio? Ma quando poi i risultati divennero palesi, allora bociare, levar la face della discordia, comprare con danaro i pareri dei dotti che favorissero le sfrenate passioni della plebe, trascendere a calunnie e prorompere a tumulto (3). Passiamo air argomento delle frodi. Si diceva che Γ Ivani aveva dolosamente alterato la verità nel libro delle proposte e delle (1) Ms. I, p. 166, lett. a Nicolò Brocardo di Volterra. « Haec scribo... ut recognoscas aliquando et consensum hominum diuturnamque consuetudinem non modo legem, sed legitimum facere possessorem ». (2) Ms. I, p. 146, lett. cit. « Asserunt nonnulli haud fuisse legem servata. Alii aliter sentiunt. Sed concedatur servatam non fuisse. Num ne assentii populus vester auctor legum vestrarum quum diu conductores permittit negocium agere, dispendio non parcere, remque prius occultam summo conatu in apertam producere utilitatem? » (3) Ms. I, p. 151, lett. a Pietro Contugio, uno degli avversari e denigratori dell’Ivani. « Locastis conductori fodinas aluminis favorabili civium consensu. Tempus et precium firmastis. Agebatur de re incerta , superficie dumtaxat inspecta: nam, quis centrum montis gignentis introspexerat? Quis factum non probavit in tenui spe magni fructus hauriendi a conductoribus? ». Ms. I, p. 146 » Vos aperto thesauro, post longa murmura cupiditatis atque livoris faces extulistis, calumniis incubuistis, leges vetustate destitutas perquisivistis, precio emistis consilia doctorum, arma iussistis expediri, aedificia vastari, fodinas conductoribus prohiberi, coepistis denique inter vos tumultuare ». 382 GIORNALE LIGUSTICO riformagioni, messi a riscontro coi capitoli dati ai locatari, delle allumiere. Pietio Contagio per invelenire anche più le invidie, gri-dava che 1 Ivani aveva per ciò ricevuto dal Capacci il donativo di cinquanta fiorini. La livida calunnia riuscì facile smentirla, dimostrando, colla testimonianza di Agostino Rico-baldo, che egli per rogare i capitoli del contratto aveva percepito non cinquanta, ma cinque fiorini a lui devoluti di diritto. E contio la prima gravissima accusa sdegnosamente pi otestava in paiecchie delle sue lettere. « Se vederi qualunque intelligente non passionato el quinterno di le proposte, nel quale io scrivevo substantialmente in consiglio il decto de consultori e col mio libro di le riformagioni farà pruova, tio\aià in effecto quel medeximo. E quanto nel quinterno fu scripto fu veiissimo e così fu lecto in consiglio , come se usitava prima si ponesse il partito. E similmente chi vederà senza passione li originali e il libro mio predecto conoscerà, tutti i capituli del contracto cum le loro additioni esser di uno effecto e secundo la propria verità » (1). Questo aveva già attestato in una lettera diretta ai Magnifici Priori ed al popolo da Siena, quando già le accuse contro di lui si propalavano aperte. Essa è anche un’ eloquente difesa della sua condotta. — « Non si diceva forse da tutti che quelle miniere erano inutili ? perchè ora dunque mi calunniano anche coloro che per avventura furono i primi a consigliare il contratto ? È ben noto che io fui tra quelli, i quali esortarono i conduttori ad essere più liberali verso la repubblica : il che avendo offerto di fare, la proposta fu respinta dagli otto cittadini da voi incaricati di venire ad una (1) Ms. II, c. 53 recto, lettera a Gabriele Ricobaldo e Giovanni Segherio di Volterra, 6 ottobre 1474. GIORNALE LIGUSTICO 383 composizione. In quel medesimo tempo i libri ed ogni altro scritto, che quegli otto da me richiesero, io liberalmente consegnai. Che anzi rimasi ancora quattro mesi in Volterrn, quando già intorno a queste cose si era cominciato a parlare e sparlare variamente dal volgo. Nel partire, i Magnifici Priori ebbero da me il libro delle Riformagioni e gli originali capitoli e non bastando ancora, richiamato da Siena, io sciolto ormai da ogni obbligo , ritornai senza un dubbio in Volterra, e quivi mi trattenni per tre giorni. Le accuse che allora nessuno ardi levare, si avventano adesso, in contraccambio della liberalità e benevolenza da me dimostrata verso la repubblica » (1). Alla vigilia del sacco di Volterra, scrive ancora a Bartolomeo Scala e Lorenzo de’ Medici per riavere gli scritti, alcuni mesi prima, consegnati a Nicolò Bonamico e a Leonardo di Francesco. E ribatte sulle medesime ragioni: « Leges ego Volaterranas quae in manibus extabant, servavi, approbantibus illa consiliariis et post aliquos menses affirmantibus Prioribus et Collegis. Ea (gli scritti consegnati al Bonamico e a Leonardo) si comparentur libro meo et capitulis datis conductoribus, declarabunt veritatem fuisse scriptam et singula singulis respondere » (2). Ora io non so che gusto ci potesse essere a mentire così sfacciatamente, e con chi poi ? con colui che nel caso sarebbe stato 1’ instigatore e il principale colpevole. Pare inoltre che il metodo adottato dai Courrier per il manoscritto di Longo Sofista, non fosse ignoto a’ Volterrani di tre secoli prima. « Dopo la mia partenza da essi, dice l’Ivani, avendo conosciuto il loro errore, hanno tollerato che (1) Ms. I, p. 130: si legge anche in Arch. med. cit. filz. XXVII a c. 407. Documento VII. (2) Ms. I, p. 172, 173; cfr. anche in Arch. medie, cit. filz. XXV a c. 166. 384 GIORNALE LIGUSTICO uno de’ miei libri in cui era scritta la concessione delle allumiere fosse macchiato, e tutto ciò per levare alla concessione stessa ogni valore e poterla rompere » (1). II. Per completare questa disamina ci rimane un breve cenno sulle relazioni del nostro umanista con il Magnifico e un raffronto del Commentario con le lettere, in cui, marciaforza, certi fatti, certi biasimi, certe accuse non potevano essere esagerate. I rapporti dell’ Ivani con il Medici erano cominciati da Volterra, vivendo Pietro, ed erano sempre stati quelli dell’erudito che sa di scrivere ad un principe. Le solite lodi in istile un po’ gonfio, onde va contraddistinto il fiorire dell’ u-manismo, temperate talvolta da un piglio di autorevolezza curiosa, e che vi avverte esser quello il secolo in cui non di rado i principi facevano da cortigiani a poveri grammatici. Erano cominciate con alcuni avvisi a Pietro de’ Medici sul-1’ educazione dei due fratelli giovinetti Giuliano e Lorenzo (2), e con dimostrazioui di ossequio a quest’ ultimo, dopo la morte del padre. In seguito non aveva trascurato di invocare la benevolenza di lui verso Sarzana, portandovi però una gran cura, diciamolo perchè è vero, di mettere innanzi sè stesso e i meriti che gli pareva di aver acquistato verso la (1) Ms. I, p. 140, lett. a Tommasino Campofregoso : «Volaterrani vero cum multis mensibus ante meum ab illis discessum concessissent Benucio Senensi alluminis fodinas modico precio, quia illas vel inanes vel tenues esse putabant, post meum ab eis discessum errore suo cognito passi sunt libram quendam meum , in quo scripta erat ipsa concessio, maculari, ut ipsa vires amittens, infringeretur ». (2) Ms. I, p. 49, 50. GIORNALE LIGUSTICO 385 casa de’ Medici. Però tra riga e riga , il lettore si accorge benissimo, che in confronto del nipote le sue preferenze erano tutte per Cosimo, pari a Lorenzo se non superiore nella scienza dello Stato, e ben altrimenti e universalmente liberale del nipote, sebbene P adulazione de’ posteri non gli abbia conferito il titolo di magnifico. Quanto al Medici, egli diede al nostro umanista testimonianze non dubbie del conto che ne faceva e più volte gli scrisse" gentilissimo, ma non pare che in fine si scalmanasse molto per venirgli in aiuto. Della buona volontà del Medici doveva dubitare anche 1’ Ivani, se nel ’74, forse crescendo le strettezze domestiche, interponeva perfino i buoni uffici del marchese Malaspina di Fosdinovo, e il buon gentiluomo nella commendatizia a Lorenzo lo chiamava uno messere Antonio da Sarzana a me molto amicissimo (1). Eppure non gli mancava il favore del Cresci, del Battoli, del Rucellai, di Donato Acciaioli che molto potevano sull’animo del Medici. Si potrebbe osservare, che in Lorenzo doveva essere effetto di astuto calcolo il tenere pensatamente da parte uno che era in voce di aver mostrata troppa devozione a lui e a’ suoi interessi; e noi per esser larghi a concedere, lo ammetteremo. (Continua) Carlo Braggio. VARIETÀ NOTIZIE DI CRISTOFORO COLOMBO. Cesare Cantù ai genovesi intervenuti nel passato settembre al Congresso di Storia in Torino ha comunicato un documento, trovato nell’ archivio milanese di Stato, donde si ha qualche notizia di Cristoforo Colombo dopo il ritorno dal suo primo (1) Arch. med. cit. filz. XXIII a c. 580, Giorn. Ligustico. Anno XII. 386 GIORNALE LIGUSTICO viaggio di scoperta. Gentile pensiero in verità, quello dello Storico illustre ; al quale sentiamo di dover porgere le grazie più vive e schiette, nell’atto medesimo in cui facciamo di pubblica ragione il documento. È questo una lettera scritta a Galeazzo Sforza duca di Milano, o, a dir più giusto, a Lodovico il Moro che in nome del nipote reggeva a sua posta lo Stato, da Francesco Trin-cadino, agente ducale in Bologna presso Giovanni II dei Bentivoglio (i). Correvano allora tra questo signore e Lodovico ottime relazioni; e appunto il Moro avea poc’anzi spedite a Giovanni le patenti di capitano generale delle milizie lombarde di qua dal Po, facendogli presentare lo stendardo con grande solennità nella cattedrale basilica di S. Petronio. La lettera porta la data del 17 giugno 1493 ; e per bene intenderne la prima parte, bisogna rammentare che appunto allora, mercè le astuzie del Moro, si erano manifestati gravissimi dispareri fra il papa Alessandro VI e Ferdinando I d Aragona re di Napoli, accusato di fomentare gli ambiziosi disegni di Virginio Orsini. Rispetto al quale è pur da sapere, che il pontefice ardeva di sdegno contro di lui; perocché, senza domandarne facoltà alla Chiesa, aveva acquistata a denaro la signoria dell’ Anguillara, di Cerveteri e d’altre castella appartenute a Franceschetto Cibo figlio bastardo di Innocenzo Vili (2). Venendo alla seconda parte, dichiaro subito che non mi riesce di affermare chi fosse il barbero, 0 cerusico, allevo del magnifico messer Joanne. Ma allievo si ha qui da intendere, (1) Figlio di Nicodemo Trincadino da Pontremoli. Quest’ultimo era stato agente e poi ambasciatore del duca Francesco Sforza a Firenze, risiedendovi molt’ anni e trovandovisi ancora nel 1468. Vedi Cerini, Meni, stor. di Lunigiana, II. 235; Osio, Documenti diplomatici milanesi, III, 319. (2) Muratori, Annali a. 1492-93. GIORNALE LIGUSTICO 387 senza alcun dubbio, nella significazione di servo o creato; e certamente la piccola comitiva di nani 0 buffoncelli , condotta dal barbero del Bentivoglio, era destinata a rallegrare la corte del signor di Bologna. La direzione della lettera , nel verso del foglio , è questa : Illustrissimo et excellentissimo domino, domino meo observandis-simo, domino duci Mediolani etc. E il testo , nel redo della carta, è del tenore seguente : Illustrissimo principe et excellentissimo signore mio. Hogi ho parlato con una persona de discretione, che vene de verso la tera de Lanzano (i)> quale ini accerta che verso la Pescara et in quelle circuinstantie erano arrivate circa 36 squadre de gente d’ arme della Maestà de Rè de Napoli , et che intese se firmavano lì perfin che gli saria scripto del camino havessero ad seguire più ultra ; et che haviva inteso come il signor Virgilio era andato ad trovare la prefata Maestà. Dice anchora havere trovato parte della gente d’arme de Vostra Illustrissima Signoria, che andavano zuso verso la Marcha. Essendo retornato il barbero allevo del magnifico messei Joanne de verso Spagna, con sei 0 sette zannetti quali ha conducti, referisce che quello serenissimo et inclyto Re haviva preparata et in ponto una grossissima armata, quale era in ordine al potere fare vela, et che era qualche opinione che veneria verso Linguadocha et Provenza, per dare forse qualche disturbo alle cose del Cristianissimo Rè de Fianza. Et mi affermò anchora essere exorta qualche disceptatione tra epso Rè di Spagna et il Rè de Portugallo , quale gli cercha inhibire il transito per lo strecto de Sibyllia per quelli che solevano andare alla cerca et acquisto de quelle isole meri- (1) Lanciano nell’ Abruzzo. 388 GIORNALE LIGUSTICO dionale al transito del mare Indico; et per questa casone affli ma epso barbero eh’ el prefato Rè de Spagna remandava Columbo suo capitano a quella impresa con parecchie chara-velle et doe nave grosse, et cum molta quantità de tele et altri panni per indurre (i) il modo et forma del vestire in quelle gente et populi simplici et nudi, cum tentare de atti aherli usando verso de loro liberalità et humanitate. Altro non ho digno de Vostra Sublimitate, alla quale Immitemente ine recommendo. Ex Bononia, χη junii 1493. Fidelissimus servus Franciscus Tranchedinus. Che il re Giovanni II di Portogallo accampasse pretese sulla scoperta di Colombo, invocando il trattato concluso nel 1479 fra le corone di Lusitania e di Castiglia, e si studiasse di mettere intoppi alla fortuna dei rè Cattolici, non ha mestieri di essere qui rammentato. Già Γ immortale Navigatore avea potuto acquistarne certezza nella breve dimora fatta, sui primi di marzo del 1493, a Valparaiso. Di qui rifattosi poscia all’ imboccatura del Tago presso Lisbona, egli aveva continuata la propria rotta; e il dì 15 dello stesso mese era surto nel porto di Palos, donde il 3 agosto dell’ anno antecedente avea salpato 1’ àncore, accompagnato più presto che da lieti auguri dallo universale compianto. Invitato dal rè Ferdinando e dalla regina Isabella a Barcellona, Colombo s’ era colà trasferito verso la metà d’ aprile, ricevendovi quelle magnifiche accoglienze onde narra la storia; il 28 maggio poi aveva preso commiato dalla corte, ed oramai stava apprestando la seconda spedizione, con la quale il 25 di settembre sarebbe partito dalla baia di Cadice. (1) Introdurre. GIORNALE LIGUSTICO 389 Ciò che il barbero avea riferito al Trincadino , concerne per Γ appunto i principi di si fatti apprestamenti. Ma poiché abbiamo toccato della dimora di Colombo a Barcellona, pensiamo che al generoso cuore di lui tornò forse specialmente gradito lo incontrarvi due tra i suoi più cospicui concittadini. Genova infatti, oscillato fra il sì e il no circa un anno , aveva infine, sull’esordire del 93, nominati Francesco Marchese e Giovanni Antonio Grimaldi ambasciatori ai Cattolici, col duplice incarico di complimentarli per la conquista di Granata e di negoziare un trattato di pace e di commercio (1). Forse i due diplomatici partirono alla volta di Spagna intorno al cadere del febbraio, giacché rilevo che il 13 di questo mese furono regalati di 225 lire per le vestimenta, e che rivetterò altre duemila genovine per le spese della legazione , con obbligo di darne al ritorno stretto conto nei libri della masseria (2). Le commissioni vennero dagli ambasciatori eseguite precisamente in Barcellona; ma nel fissare le basi del trattato si indugiarono per guisa , che solamente sullo scorcio del settembre poterono restituirsi alla patria. Questo mi insegna appunto una lettera della Signoria a Fernando e Isabella, che è datata del 4 d’ottobre, e comincia: Reversi ad nos legati nostri, serenissimi principes et incliti reges, quos ad Μ. V. miseramus etc., seguitando tutta piena d’espressioni (1) La notizia della conquista era stata portata a Genova fino dal marzo 1492, leggendosi alla data dell’ 11 di questo mese che i Signori, acceptis litteris Serenissimi Regis Hispanie insignem victoriam de regno Granate mncianlibus, commettevano all’ Ufficio delle cose di Spagna la cura di rimunerare il latore del massaggio reale. Nel tempo stesso ordinavano al detto Ufficio di considerare e riferire an utile sit legationem mittere. — Archivio di Stato. Cod. Diversorum Cancelleriae, a. 1492-93, num. 148, fol 21 verso. (2) Cod. cit., foglio 87 verso. 390 GIORNALE LIGUSTICO tendenti a glorificare le gesta di que’ principi. Si noti questo periodo : Deerat rebus tam preclaris ab ipsis (Maiesta-tibus Festris) gestis et studio in subditos, pace domi parta, purgato regno, subiecta ea Betice parte frustra alias a prioribus regibus tentata, quam barbari, post vandalorum incursionem, unde UH regioni nomen indictum est, per tot annis occuparunt, per-Q.UISITS PENITISSIMIS OCEANI REGIONIBUS ANTEHAC OMNIBUS, IPSIS ETIAM ROMANIS RERUM DOMINIS, IGNOTIS, Ut qui AragOUenSÌ imperio subditi sunt ipsi quoque nobiscum quieta pace fruì passent (i). Fermiamoci alle penultime parole; e consideriamo che questa lettera è forse il più antico documento genovese, nel quale s5 incontri accennata la scoperta deU’America. Narrano difatti gli annalisti Gallo e Giustiniani che gli ambasciatori su mentovati, poiché tornarono a Genova (uso le espressioni dell’ ultimo) « fecero certissima fede e relazione della navigazione di Colombo, quale si era nuovamente da lui ritrovata ». — Relazione certissima, badate bene; e però corredata di ragguagli, attinti per avventura dai racconti del medesimo Scopritore : sicura notizia, insomma, come scrisse giustamente il ch. abate Sanguineti ; ma non prima notizia, come ad altri potè sembrare. Imperocché le prime novelle aveano pur dovuto capitare a Genova alcuni mesi innanzi, sia con lettere private di mercanti, come riferisce Allegretto Allegretti che capitarono a Siena, e sia colla nota lettera indirizzata il 14 marzo da Colombo a Raffaele Sanchez. Questa lettera, tradotta spedita-mente in Roma dallo spagnuolo nel latino , era stata diffusa colle stampe appena quaranta giorni dopo della sua data. L. T Belgrano. (i) Arch. cit. Cod. Litterarum a. 141)1-92, senza numerazione di fogli. GIORNALE LIGUSTICO LETTERA DEL GUARINO. Di questa lettera già accennata a pag. 311, diamo qui il testo, avendolo trascritto dal cod. miscellaneo cartaceo della Biblioteca Ambrosiana in Milano segnato : H. 49 inferiore. La lettera si trova al foglio 126 verso (a 1428). L. T. B. Guarinus Veronensis Johanni Lamole s. p. Etsi geminis tuis eodem tamen exemplo responderim, tamen has ad te dare constitui, tuam imitatus diligentiam, licet hoc pacto tabellariorum perfidie occurrero et tecum diutius hac ratione moram videbor contraxisse, qui ea suavitate morum et humanitate polles , ut meile dulciorem tuam reddas consuetudinem. Quanta sit, mi Johannes, probitas et animi tui gratitudo cum alia permulta, tum vero tue testantur littere , quibus ita me tollis in celi vertices et deum pene facis, ut qui aliunde rem nesciat, te grande aliquid ab me suscepisse sibi ipsi persuadeat, cum tamen in recensendis meis in te rebus aram facis ex hara. Id tamen non diffitebor, me totum tibi quantuluscumque sit animum condonasse, et si quid in me fuerit quod non improbares, id in te totum transfusum erripisse, ita utriusque fortuna tulisset ut comunis utrique coniunctus esse potuisset, quo tuis studiis vel ornandis vel accumulandis, aut sotius aut exhortator, ne dicam ductor, extitissem. Probavi mirimmodum consilium tuum quod auctore viro illustri Cambio cepisti, ut illi clarissimo genuensi te adiun-geres, sub cuius umbra nonnihil aliquando tibi frugis parturires. Accepi postremo Macrobium et oratorem Ciceronis, quos illis probe litteris depingebas. Bone Deus, quantum abs te servatum diligende , ut cum sis mirifice antiquitatis amator, illum in transcribendo effingeres et expiimeres ut vel numina omnia ab exemplari excerpseris. Meos igitur emendare horum adiumento cepi, ut eos meliores faciam; quod ubi assecuti fuerint, non parvas tibi sunt gratias et habituri et acturi. Magnam ex greco partem addidi licet non mutum, non tua quidem causa , sed maiorum nostrorum incuria sit; ut loquendo persepe taceat, et ex Davo plerumque me reddat Edipum. Noli defatigari, Lamola mi optime, in perquirendis doctis viris, idest antiquis codicibus, quorum ista referta esse debet Liguria ; cunctas recense bibliotecas, et sepultos in pulvere ac sordibus ad lucem mondi-tiasque revoca et exuscita. Epistolas Plinii vetustas reperiri posse auguror. Hec hactenus. Proximis diebus clarus et optimus vir dominns Bernardus de Lamola tuus hac iter habuit; eum visendum institui ; hominem allo-quutus sum, nihil est amabilius, tantam visus est pre se ferre humani- 392 GIORNALE LIGUSTICO tatem, prudentiam, integritatem : longos de te sermones fecimus. Is Tridentum accessit, ibique domicilium, vel hospitium potius, habiturus est, quoad Bonia in viam redeat. Nam in suspitionem presens statutus , complures viros optimos devocavit, in quibus et ipsum Bernardum. De his satis. Peiquiias, opto, Papiam quendam interpretem minus ineptum vocabulorum , sed vetustum optarem. Aliquas quoque librorum fibulas, quas scuta \ocant, mihi mitteres vellem, formis et magnitudine varias, et que magnis, parvis mediocribusque codicibus convenirent. Aliquas etiam no\as excogitares formulas vellem, ut hic videbis inclusam. Non ab uno et usitatas. Vale, valemus et nos omnes. Saluberrima facta est urbs nostra; nemo perit, nemo languet. Commenda me diligenter generoso viro domino Cambio. Salvus sis a Lavagnolo. LETTERA DI ANDREA d’ ORIA. Anche questa fu già da noi accennata a pag. 237; ma pia-ceià trovarne qui il tenore, come si legge a pag. 374-76 dei Monumenti saeculi XVI etc., Oeniponte, iS8j (vol. I, num. 277)· L. T. B. Andreas Doria Sadoleto. (Diversorum ad Clementem, II, 92) (ιό Sep. 1526) Como per altre mie ho scritto a V. S. Reverendissima, noi siamo di continuo fra qui e Savona a lo assedio de la nostra città; e già fra tutti habiamo prezo da XXX vasselli carrichi de grani; la magiore parte spetanti ali amici de’ Fregozi; di sorte che il dano sopraviene ali nostri li quali non hano mancho dexiderio di noi che vi intriamo. El saria puro una compassione che da tutte bande dovesseno esser danni ficati. Questo dicho perchè questi signori capitanei e proveditore vi fano per questo (quanto ?) e’ vedo designo adosso, e che debie el tutto ser perso. Como sa la S. V. Rev., venimo qui a lo assedio de la nostra città per obviare che non vi intrasse grani nè altro, ma non per pigliarli lo loro per perso; et per questo, quando el paresse a V. S. Rev., la prego si contenti di fare che la Santità de N. S. faci provedere che per la Maestà Christianissima et per la 111. Signoria sii hordinato a questi signori capitanei et proveditore che non voglino metere mano nè disponere altrimente de essi grani et altre cosse e nave che a la giornata potrebero capitare ne le nostre mano, sensa nova comissione loro, et in questo V. S. R. faria un opera GIORNALE LIGUSTICO 393 pia, de la quale li saria sempre hobligatissimo; che altrimenti vedo il tutto andare a male, et il dano restare tutto a le spale de’ nostri amici che volrevano il medesimo che noi. Si puro a V. S. non paresse de dai e remedio a questo tanto dano, che non credo, lasio pensare a quella quello potevano dire li nostri inimici et sperare de essere dannificati quando ali nostri medesimi si fa danno; ne ho ben volutto avizare V. S. R. a ciò che quella, corno prudentissima et che po fare il tutto, possi provedeie a quanto sarà necessario. La città, ho li governatori di essa, perseverano di continuo in la solita obstinatione; per il che e non mancharò anchora de dire per questa a V. S. quello che per più mie li ho scritto, col mio parere insieme, che non è da sperare posser fare cossa alchuna contra di essa sensa gente per terra, e visto le cosse de Cremona andare in longa, saria a mio parere forsi il meglio dexistere da quella impreza et fare venire quel campo (a) la volta de Genova il più presto che fussi possibile, aciò che 1 armata che se spera de Spagna in questo mezo non vi sopragiongesse; per che corno Genova fussi presa, la quale facilmente se obtenirebbe, venendoli quel campo ho una bona parte de epso cauzerebbe che detta armata non saperia dove redursi, ne hanch (sic) le fanterie che sono in epsa potrebeno andare al sochorso de li Spagnoli che sono in Milano et altri loJ de Lombardia, de mo (modo) che resteriano persi (presi?). Et inanellando detti Spagnoli di questo soccorso insieme con la speransa de no haverne altro, anchora manchariano de animo, talmente che poi facilmente se acquisteria Cremona e forsi Milano col resto, sì che lasio considerare a V. S. R. quanto importa la pristixia de questa impreza ; e tanto più an -chora per che de continuo se provedeno de fanti e de quello li è necessaiio che possino, et se fortifichano quanto possono; e v’è arrivato il Martinengo passato per Lucha, deinde per le montagne, quale si adopeia assai in fortificarli. Si in Proensia si fa armata, corno intendo, insieme a queste galere, bastassimo non solamente a defendersi de Tarmata de Spagna, ma a offenderli e farli grandissimo dano, e tanto più che de le nave pieze se ne potremo valere de quatro o cincho de loro modo. Si la capitara con tempo che si possiamo un pocho aiutare, spero che (con) quele nave, ho sensa esse, li daremo tal conto de noi che non se ne loderano. Però di essa non ne habio poi havuto altre nove de lç scritte per alti e a V. S. R. Non so però si il conte Navarro ge haverà havuto noticia alchuna: de quanto ne intendarò avizarone V. S. R. Li scuti 600 ho avuto, e datti li 300 al signor proveditore; e corno siamo congiùnti insieme col conte Navarro se li daranno con quelli modi 394 GIORNALE LIGUSTICO che V. S. mi ha scritto. Si capiterà Thomo de l’imbassator de Portogaio, lo adrisserò cossi corno quella mi ha scritto. Il correro che V. S. mi na fatto adressare di continenti lo habio expeditto, el’è vero che per il tempo tristo ha perso mezo giorno e una notte. Al r. m. di Cortona scrivo quanto vi occorre di novo in queste bande, cossi corno la S. V. mi ha scritto volesse fare. Mons. mio, perchè inansi che il re X.™° e la ili. S. de Venecia habi datto hoidine a questi s. capitani e proveditore per la salvessa de questi §rani...... e 'lave vi potrebe seguire longhessa di tempo, in questo mezo prego V. S. si content idi fare che la SM de Nostro Signore si degni scrivere un breve al conte Navarro, il proveditore e mi di compagnia , benché non sii di bizogno che non si tochi nè si disponga de essi grani et nè cossa alchuna per adesso fino che ne sii hordenato altro, nè per questa mi achade dire altro........ De galera in Portofino a dì XVI de Sept. MDXXVI. De V. S. R. Andrea Doria. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Friederich Kayser , Papst Nicolaus V. (7447-7455) and das vordringen der Türken — Papa Nicolò V. e F avanzarsi dei turchi. — In Historisches Jahrbuch, vol. VI, fase. 2°; Miinchen, 1885. L’autore esamina un’accusa vecchia, la quale si estese a più di un pontefice, prima e dopo la caduta di Costantinopoli. Così Poggio Fiorentino a Federigo III imperatore : Tum a pontificum, tum a romanorum imperatorum desidia incuriaque manavit, cum nascens morbus (cioè la invasione dei turchi in Europa) parvo labore sanari potuisset. Se non che il Mai ha notato a questo punto : Quicquid dicat Poggius, romanorum quidem pontificum assiduos conatus ob reprimendos GIORNALI-: LIGUSTICO 395 tureas historia testatur (i). H appunto alla testimonianza della storia si appella il Kayser, in difesa di Nicolò V, contro del quale si capisce che dovettero in particolar modo prorompere le accuse, dove si pensi che appunto sotto il pontificato di lui giunse all’ ultima rovina l’impero d’Oriente. Sentiva fitto nell’ anima Γ acerbo pungolo di coteste accuse il grande sar-zanese; e giustamente ancora dal suo letto di morte dolevasi ai cardinali, che de Conslantinopolis captivitate quaedam a ple-risque leviusculis hominibus, non satis magnitudinem rerum secundum qualitatem temporum considerantibus et perpendentibus, nobis (fuerunt) obiecta (2). Indi la conclusione . del Kayser: che se Costantinopoli cadde, la colpa va ripartita fra la tiepidezza mostrata dai principi d’Occidente e la inerzia dei greci. Del resto, più che sulla fede degli scrittori, il dotto tedesco si appoggia alle risultanze dei documenti; nel novero dei quali vediamo pure rassegnate parecchie lettere pontificie ai genovesi, e la epigrafe del 1452 esistente in Pera. Non sembra però che il Kayser siasi giovato degli Atti della Società Ligure di Storia, donde alla sua tesi (specie dal tomo XIII) avrebbero potuto venire altri sussidi; nè delle fonti inedite, che Leone XIII ha aperte agli studiosi negli archivi vaticani. Non è questo il luogo da ricordare le insigni benemerenze di Nicolò V verso l’archeologia e le lettere; per rispetto alle quali scrisse il Rosmini che il detto papa « fu forse il più gran mecenate che mai fosse fra i successori di Pietro (3) ». Ma perchè il Rosmini produsse già da un’ opera inedita di Francesco Filelfo un epigramma da questi scritto in morte del (1) Spicilegium Romanum, X. 236. (2) Jannotii Manetti Vita Nicolai V, apuà Muratori , S. R. 1., III, par. Il, col. 954. (3) Vita di Fr. Filelfo, I. 92. 396 GIORNALE LIGUSTICO nostro pontefice, recentemente allegato pure dallo Sforza (i), cosi a noi sia lecito desumere dall'’opera stessa il seguente (2): Ad Nicolaum Quintum pontificem maximum. Quinte pater, cuius clarum et venerabile nomen Omnia saecla canent, inclyte Nicoleo, Quotidie magis atque magis, sanctissime praesul, Te docti lachrymant egregiique viri. Heu qualem amisit Romana Ecclesia regem; Heu quantum amisit praesidium probitas ! Te, sacer antistes, lugubris moenia Romae Deflent, atque omnis te gemit Italia. Pacis eras tutor, studiorum cura bonorum; Portus eras Musis , portus et eloquio. Virtuti nunc nullus honos, nec commoda doctis Ulla, nec ingeniis spes iacel ulla probis. Sic vis ingenii periit tecum omnis ; et artes Dispenere bonae, disperiere novae. Quem vellem, optatis audirent numina nostris, Te morti eriperent, subijcerentque Pium. Se manca la misura, certo non è nelle lodi, ma nell’odio contro di Pio II, suscitato nel poeta dalle basse cagioni delle quali il Rosmini ha ampiamente discorso. L. T. B. SPIGOLATURE E NOTIZIE Fra le Carle Stro^jane (II, pag. 98) troviamo : « Discorsi sopra alcuni Prelati aspiranti al Cardinalato. — Sono due versi rimati per ciascun soggetto ; e i soggetti sono tutti genovesi : abbate Grillo , monsignori Sal-vago , Raggio, Durazzo, Serra, Rovere, Spinola, Lomellino, Marino, Grimal do ». * * * (1) Rosmini, Vita ecc., II. 310; Sforza, La patria ecc. di Nicolò V, p. 290. (2) Cod. cart. sec. XVI della Biblioteca Ambrosiana in Milano, intit. Francisci Philelphi De iocis et seriis poematum libri, lib. VII, fol. 142 recto. GIORNALE LIGUSTICO 397 Nell’ Archivio Glottologico Italiano (Vili, pag. 317 e segg.) è comparsa la prima parte delle « Annotazioni sistematiche alle Antiche Rime Genovesi e alle Prose Genovesi » , già edite nell’ Archivio stesso. È opera di G. Flechia. Ne darà conto nel nostro Giornale E. G. Parodi. * * * In una importante e curiosa monografia di Emilio Motta : Ebrei in Como ed in altre città del ducato milanese, inserita nel Periodico della Società Storica di Como (V, pag. 9 e segg.), troviamo alcune notizie degli ebrei a Savona nel 147-5 e 1476 desunte dai documenti dell’ Archivio di Stato di Milano. * * * Nel Bullettino di Numismatica e Sfragistica (II, 132) V. Capobianchi illustra « Un triplo ducato d’oro inedito del Papa Niccolò V ». E la moneta denominata Giubileo d’oro in memoria dell’anno santo 1450, che venne coniata dal zecchiere Francesco Mariani di Francesco fiorentino. * * * La ricca collezione numismatica del cav. A. Agujari di 1 rieste , che sarà posta in vendita nel prossimo dicembre in Milano per cura del cavaliere Giulio Sambon, non manca di monete genovesi e di Lunigiana assai importanti. Oltre quelle propriamente della Repubblica , vi ha un quattrino di Savona del secolo XIV con 1’ Aquila e la Croce e la leggenda: Comvnis. Saone — Moneta. Saone; altro quattrino di Dorino Gattilusio: Dorinvs . Gattel. — Do . Foglie nel campo D gotico, e nel rovescio Stemma. Un Tornese di Scio : f Civitas . Sii . -j- Cvnradvs . Rex. Castello e Croce. E poi monete de’ feudi di Tassarolo(Spinola) , di Tor-riglia, (Doria-Lomellini), di Masserano (Fieschi), di Fosdinovo e Tresana (Malaspina), di Massa di Luigiana (Cibo). * * * È uscito il secondo volume che compie l’opera insigne di Henry Harisse , Christophe Colomb son origine, sa vie, scs voyages, sa famille , et ses descendants. Lavoro di capitale importanza, che reca 1’ ultima parola della critica, e si vantaggia di moltissimi documenti affatto nuovi. L’editore A. G. Morelli d’Ancona sta per pubblicare: C. Feroso, Saggio della Cronaca di Ancona in terza rima di Mario Filelfo con prefazione e. note in elegante edizione in carta a mano, di soli 200 esemplari numerati — prezzo L. 2. Questo volume è il primo di una collezione di Curiosità letterarie Anconitane, per cura e studio di C. Feroso (avv. prof. Michele Maroni) , 398 GIORNALE LIGUSTICO della quale faranno parte le opere : Versi di Ciriaco Pi^ecolH; Saggio deir Amaicnide di Andrea Stagio; Saggio del Rinaldo Furioso di Marco*Cavallo; Il Solimano tragedia di Prospero Bonarelli; Tullia Feroce tragedia di Pietro Cresci. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Chronique de l île de Chypre, par Florio Bustron, publiée par M. René de Mas Latrie. Extrait des Mélangés Historiques, tome V. — Paris, Impr. Nationale, 1884. Precede una breve avvertenza, nella quale 1’ editore raccoglie quel po’ di notizie che rimangono sul conto del Bustron. Della famiglia di questo cognome vi ebbero più rami, de’ quali alcuni nobili ed altri no: il cronista appartenne verisimilmente ai secondi. Nondimeno sostenne uffici onorevoli nella Secreta reale a Nicosia ; e grandi servigi ripeterono da lui i veneziani, mercè la sua devozione, la sua intelligenza, e la conoscenza che egli aveva della lingua francese. La Cronaca del Bustron, il quale possedette una biblioteca di manoscritti importanti , senza essere originale, è per molta parte un tessuto di storie e di informazioni del più alto valore ; ma a partire dal regno di Caterina Cornaro (1471-89), acquista il pregio della testimonianza di un contemporaneo. Della Cronaca il Mas Latrie addita cinque esemplari ; ma la base della pubblicazione, com’egli dichiara, è formata da quello posseduto in Genova dal marchese Bendinelli Spinola del fu Massimiliano, avendone il conte Riant fatta cavare una copia, che poi mise coll’usata liberalità a disposizione dell’ editore. Il codice Spinola è cartaceo , della fine del secolo XVII ; e contiene pure alcune appendici che mancano agli altri. L edizione va lodata per le molte diligenze che vi si veggono adoperate, specie nel riportare a pie’ di pagina le varianti buone. I margini esterni contengono i richiami agli autori, gli argomenti e le date, come s’incontrano appunto nel codice. Al testo (pag. 7-475) fanno seguito gli indici analitico e cronologico, geografico ed onomastico. Luigi Alberto Gandini. Alberto da Gandino giureconsulto del sec. XIII. Appunti e documenti inediti. Modena, Tip. Soc., 1885. L autore , secondo dice il titolo, non ha voluto fare una vera e propria monografia intorno all’ insigne giureconsulto lombardo, forse cremo- GIORNALE LIGUSTICO 399 nese ; ma si è studiato raccogliere le memorie e i documenti che lo riguardano. Esposto perciò quanto lasciarono scritto di lui alcuni noti autori, le opere de’ quali sono a stampa, riferite le notizie che se ne leggono in manoscritti, le pone a confronto fra loro , e con parecchi documenti ritrovati in diversi archivi , e ne rileva gli errori, restaurando la verità. Dalle opere stesse del Gandino attinge notizie intorno alla sua vita, alla dottrina ed al grido in che era salito al cadere del dugento. Chiude con una Bibliografia particolareggiata dei lavori cosi manoscritti come stampati, e indica gli autori da lui citati nel Tractatu Maleficiorum, per via di abbreviature secondo il costume dei giurisperiti. In questo libretto non cercheremo nè la forma nè P organismo , ma il materiale , amorevolmente raccolto , per chi volesse dettare la vita di quell’ antico giureconsulto. Federico Garlanda. Eletto ed elettori negli Stati Uniti d’ America. Note storiche. Torino, Roux e Favaie, 1885. Chi vuol farsi un’idea abbastanza esatta della vita pubblica di quella grande nazione, specialmente in tempo di elezioni, legga questo libro, nel quale l’autore con sobrietà ed insieme con precisione ci ha messo dinanzi la storia dell’ ultima lotta politica per la nomina del presidente. Dato uno sguardo retrospettivo al costituirsi dei partiti , muovendo dalla rivendicazione in libertà, ci fa conoscere in qual guisa si procede a questa nomina, che, come è noto , determina l’indirizzo del governo. Da siffatto resoconto storico ben si vede in qual modo vennero formandosi i partiti fino a questi ultimi tempi, tanto che si può dire come due soli si trovino oggi di fronte a contendersi il governo ; i repubblicani cioè e i democratici. I quali ultimi nella battaglia elettorale dell’ anno scorso rimasero vincitori Ed ecco che con la guida dell’ autore veniamo a conoscere più addentro quali intenti abbiano e gli uni e gli altri, in qual guisa siano composti ed organizzati, di qual valore gli uomini da essi proposti. Ma la parte più viva e più interessante, è la narrazione della campagna elettorale, del grande agitarsi de’ partiti, dei mezzi adoperati alla riuscita, dello spirito onde si vede animato tutto un popolo nel pieno e libero esercizio dei suoi diritti civili , dell’ alto concetto eh’ egli ha della libertà e della educazione. È pittura piena di colorito, alla quale non manca il tipo, la macchietta, l’aneddoto, e quel humor che è caratteristico del popolo americano. Non mancano infine alcune buone osservazioni, che rivelano nell’ autore conoscenza non superficiale degli ordinamenti politici ed amministrativi di quella grande federazione ; e neppure tocchi e confronti da’ quali possono trarsi utili insegnamenti. Lettere di Pietro Brighenti a Domenico Albertaxji. — Forlì , Croppi . 1885. Sono nove lettere dell’ amico del Giordani, del Leopardi e del Foscolo; ίΓ noto editore della prima edizione (1798) della Vera storia di due amanti infelici con alcun che di suo , la quale diventò poi le Lettere di Jacopo 400 GIORNALE LIGUSTICO Ortis. Sono scritte con molta libertà ; e riescono curiosi certi tocchi assai vivaci intorno a Paolo Costa, a Giovanni Marchetti, al Giordani, Orioli ed altri. Ecco ad esempio ciò che dice del Leopardi (20 luglio 1825): « Andai con Giordani lunedi sera ad accogliere Leopardi che veniva dalle sue Marche. Me lo figuravo diverso, e quando lo vidi scendere dal legno con un certo berrettino di maglia, una palandrana del tempo di Pio VI, un po’ gobbo, magro, e cogli occhi abbarbagliati e cisposi, mi parve impossibile che dovesse essere quel mare di scienza che il Giordani dice. Gli feci molte cortesie, ma mi parve duro, 11011 so se per naturale o per stanchezza del viaggio ». Povero Giacomo! La lettera al padre de’ 19 inserita nell’Epstolario spiega questa sua infelice condizione. Oh gli amici ! lì successo dell' Armata di Solimano Ottomano dell’ Impresa dell' isola di Malta. Poemetto popolare del secolo XVI. Torino, Soc. Bibliofìla, 1884. E il primo volumetto con il quale la società bibliofìla apre la serie delle sue pubblicazioni. E può dirsi invero di lieto auspicio, così per la correttezza della stampa, come per la forma tipografica. Opportuna scelta di caratteri, buona disposizione, fregi graziosi ed eleganti, bella ed appropriata la carta. C’è insomma il buon gusto del vero bibliofilo. Al poemetto sono stati premessi alcuni appunti, da servire come materiale di una bibliografia dell’assedio di Malta del 1565, chè il poemetto, con quella rozzezza ingenua , propria di sì finto genere di componimenti popolari, espone l’assedio di quell’anno memorabile sostenuto con tanto valore dai Cavalieri ben noti. È, si può dire, storia rimata con particolari più minuti che non nella espositiva e togata ; storia tanto cara ai volghi, che conoscevano in questa guisa i fatti delle guerre lontane, e accoglievano nell’ animo sentimenti virili, onde sentivansi disposti a rintuzzare all’ uopo la baldanza turchesca. Il poemetto è esemplato sopra un rarissimo opuscolo del secolo XVI senza alcuna nota di stampa, ed è rimasto ignoto ai bibliografi. Sarebbe tuttavia da vedere se non ne fosse per sorte una ristampa (come io credo) la Eruditissima istoria dclF assedio fatto dalli Turchi alla città di Malta, Napoli, Avallone, 1849· C'1C trovo citata dal D’ Ancona (Poesia popol,, p. 78), sebbene per errore il fatto sia attribuito al 1575. Antonio Medin. Letteratura poetica viscontea, cenni bibliografici e poesie inedite. Milano, Bortolotti, 1885. Parecchie poesie rivolte a Bernabò ed a Gian Galeazzo Visconti già videro la luce sparsamente in pubblicazioni diverse, e il Medin ne raccoglie qui le notizie bibliografiche in servigio degli studiosi, nè lascia di indicare alcuni nuovi codici dove esse si trovano. Quelle edite ora per la prima volta sono due sonetti di Marchionne di Matteo Arrighi ; la risposta di Braccio Bracci alla finta lettera al Soldano di Babilonia, che è pur di sua fattura e venne già pubblicata dal Crescimbeni ; un sonetto dello stesso al figlio di Bernabò, ed uno finalmente anonimo, di forma e di tono alquanto diverso dagli altri. È inutile aggiungere che la pubblicazione è fatta con ogni cura, e non manca degli accenni storici necessari alla intelligenza di questi componimenti. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 4° 1 ANTONIO IVANI UMANISTA DEL SECOLO XV (Continuazione) Ma che cosa si direbbe se il Magnifico desse prova di molta tirchieria d’ animo, anche in ciò che non poteva essere effetto di nessun calcolo? Gli umanisti, ahimè, non avevano sempre una gran dose di morale indipendenza ; per altro chi pensi alla abiettezza dei due Filelio e di parecchi altri dovrà tenere il nostro, in mezzo a tanto guasto morale, come un’ onorevole eccezione. L’Ivani era ricorso due volte, e in due momenti di sommo imbarazzo per lui, alla liberalità di Lorenzo. Una prima, allorché venne a Roma per sollecitare l’impiego di segretario apostolico. L’Ivani ricordava che il vecchio Cosimo avevagli un giorno offerto, non richiesto, quattrocento ducati , debito che il nostro avrebbe estinto rimborsandone ogni anno un centinaio. Ed ora il povero Ivani li chiedeva agli stessi patti al nipote. Se abbia avuto il denaro non so; c’è però da osservare che non ottenne l’impiego. Nell’ Aprile del '74 si rivolgeva poi di nuovo al Magnifico, per pregarlo molto umilmente, ahimè ahimè, a venirgli in aiuto nel far la dote ad una sua figlia (1). Bassezze, griderà qui qualcuno. Altri, giova il ripeterlo, faceva peggio, nè 1’ età comportava dei Catoni. A me quel povero padre mette piuttosto un senso di compassione , e piene di accorata verità mi paiono le parole che egli scriveva al giovine Andrea Tendulo, anch’ egli al servizio dei Fregoso, e consapevole forse della generosità della nobil casa: « Io non dispero, nè ho mai disperato. Bensì mi son doluto (1) Arch. Med. av. il Princip. filz. XXX a c. 274, e Ms. II, c. 43 verso. Giork. Ligustico. Amo XII. 402 GIORNALE LIGUSTICO e mi dolgo di essere stato levato da Volterra con mio incomodo , nè trattato di poi con quella carità che io aveva diritto di sperare. I quali danni sopporterei con pazienza se. \ non m’avvedessi che mi è stato tolto così il modo di collocare convenientemente l’unica e già nubile figliuola » (i). Frattanto il Medici, per procurare un sollievo al povero umanista, ricordando che il vecchio Cosimo aveva donato certi danari al nostro Ivani in premio di servizi prestati, considerava il dono siccome un mutuo, e ne chiedeva la restituzione (2). (1) Ms. I, p. 137. (2) Vi sono quattro lettere su questo argomento (Archivio Mediceo av. il Principato filz. XXXIII a c. 212 — Id. filz. id. a c. 583). La prima da Sarzana il 26 Marzo 1 j.76 a Lorenzo de’ Medici comincia : « Cum essem familiaris avo tuo summo viro et ipse interdum opera mea uteretur et utiliter et lioneste, ut se negocia offerebant, tandem me oppressum adiuvit pecunia ». Si duole di Agostino Cesa, che per procura del Medici, lo incalzava al pagamento. La seconda allo stesso Medici (31 Luglio 1476) attesta che la molestia non era cessata, malgrado le promesse che Lorenzo aveva fatto al nostro umanista quando questi era stato a Careggi. « Io di tal materia ne dixi a la Μ. V. in Pisa non è molto e poi in Firenze e ultimamente a Caregi dimostrando 1' impotentia mia e confidandomi nella vostra summa Immanità. Mi rispose benignamente la Μ. V., ch’io non mi pigliassi affanno e che provederebe non me ne fusse dato noia ». Non fu cosi, e ce n’avverte una letteradi poco posteriore a Donato Acciaioli. È dessa documento della liberalità che usava Cosimo a uomini che avessero qualche virtù (Vespasiano, op. cit. p. 258). Difatti quel denaro non era un mutuo, ma un dono — « Ex animi recta conscentia, tam debeo pecuniam illam quam debet qui non postulavit eam, sed accepit ex voluntaria Cosmi liberalitate ; si quid intellexissem teneri, non accepissem, vel acceptans, multis iam annfs cum longe minori meo incommodo restituissem ». — « Saepissime fui apud senem illum post acceptam pecuniam : qui non modo non repeti iussit, quamvis ab ipsa natura profundam haberet memoriam, sed eodem me semper habuit vultu , solite benivolentie ». Ed ora gli era concessa per favore una proroga di sei mesi al pagamento, era 4 GIORNALE LIGUSTICO 403 Se l’Ivani fosse realmente il notaio e lo storico venale e venduto, che il più fra gli scrittori di cose volterrane ci presentano, non parrebbe per lo meno ben strana la condotta dell’ uno e degli altri, del corrotto e dei corruttori ? E quale abile commediante, Γ Ivani ! Egli riesce si scaltramente a mascherare la sua colpevolezza, che il Comune di Volterra, dopo tante accuse e tanti lutti, gli offre per la seconda volta l’ufficio di cancelliere : egli segue con affetto di figlio lo svolgersi della funesta controversia, e riempie di querele e di procellosi garriti molte e molte pagine dell’ Epistolario, egli infine dopo il saccheggio scrive al Medici nobilissime parole in pro’ deil’ infelice città. Che abile commediante ! Concludendo è avventata ed ingiusta l’accusa di Flaminio Dal Borgo che l’Ivani scrivesse il Commentariolus « per scusare la propria condotta » ecc. ecc. L’Ivani non scusò nulla, perchè non si stimava punto in colpa. La mala fede dell’ Ivani, dicono ancora il Dal Borgo, il Moreni, il Gatteschi e parecchi altri in coro, è dimostrata chiara e lampante dalla nota deliberazione presa dai Priori il 25 novembre, di sopra citata. Benis- costretto a cercare una malleveria (nunc iussorem hic dedi non necessarium , volente Augustino, quod magis mihi fuit ignominiosum quam difficile) ; gli era forza sentir le minacci? di uno scriba che blatterava insolentemente alla porta del povero umanista, sotto gli occhi e alla portata degli orecchi dei vicini (Ms. II, c. 103 verso). L’ Ivani credeva che la persecuzione fosse motivata dalla perfidia di un nemico, piuttosto che da moto proprio dello Cesa 0 da un comando di Lorenzo. Ma era una pietosa menzogna persuasa all’Ivani da un sentimento di dignità. Tant’è vero che in una quarta lettera da Firenze, a’ 15 Agosto 1476 (il Medici si trovava a Pisa) ritorna in ballo il debito. « In re pecuniaria longe minora possum ad presens quam vellem et nonnulli opinantur , et quidem premor gravi sarcina rei familiaris, cni subvenire in exiguo patrimonio difficile est.... Queso summa vestra benignitas presenti molestie quam domi accipio ex nimia Augustini diligentia. Paratus enim sum quam primum facultas adsit pecuniam ultro exhibere » (Arch. cit. fil. XXXIII a c. 650). GIORNALE LIGUSTICO simo, discorriamone anzi di cotesto decreto. Esso è del 25 novembre 1471 e Γ Ivani aveva lasciato Volterra fin dall'aprile: sul finire dell’anno, anche solo da quel poco che io ho detto, che sarebbe in verità troppo poco, si capisce che il governo della città era venuto alle mani della fazione estrema, di coloro che volevano ad ogni costo scacciare il Benuccio e i suoi soci dal benefizio delle miniere. Bisognava pur trovare un pretesto per dichiarare il contratto irrito e nullo, e quale si offriva più facile che l’accusa di falsificazioni da parte dell’Ivani? Ma dunque tutto l’edificio dell’accusa, per dirla con le attiche venustà dello stile curialesco, è un castelluccio innalzato nel vuoto? Non tutto, ma quello soltanto che non costituisce infine un vero delitto del povero Ivani. Egli, si dice, è un fautore de’ Medici! Egli offende la verità in servizio di costoro! — Ma della sua inclinazione verso i Medici, ΓIvani non fece mai un mistero a nessuno. Ed era ben naturale, perchè egli la sentiva così in comune con tutti 1 moderati cittadini volterrani. Inclinazione che tuttavia non lo trasse mai a negare sfacciatamente ciò che andava affermato, a tacere con frode ciò che voleva esser messo in palese, a offendere infine que’sentimenti che formano il più nobile retaggio del genere umano. E che cosi sia, sta a provarlo il fatto, che anche dopo l’infausto esito della controversia, egli continuò a godere dell’amicizia del Falconcino, di Gabriele Ricobaldo, di Giusto Coniugio, di molti altri autorevoli uomini volterrani che nessuno si sognerebbe chiamare traditori della patria alcuni dei quali ebbero anzi nel danno della città a patire la pena della relegazione e del confine. Cosi che il giudizio del buon Muratori, che chiude in poche righe una contraddizione, fa sorridere a prima giunta, ma non sembra più tanto falso ripensandoci sopra. Costui, a spremerne il sugo, dice il Muratori, è un briccone che accarezza sempre i fiorentini e rovescia tutta la broda addosso ai poveri voi- GIORNALE LIGUSTICO 405 terrani; ma tuttavia io son di quelli che gli presto fede, e credo che si debba star a sentire con benevolenza. Noi rimettendo le cose in termini più esatti diremo: escu-satore del torto sì, e di questa pecca non cercheremo di scagionarlo, ma non per ciò storico menzognero, non cortigiano 0 compiacente o corrotto, che scrivesse per comando del Magnifico. III. Ed ora, per finire, poche notizie intorno alla redazione del Commentario, e un breve confronto di esso con le lettere. Il Muratori pubblicò il racconto dell’assedio e saccheggio di Volterra col titolo Comment ariolus de bello Volterrano, quando invece nel ms. apografo, come già osservò il Neri, si legge la seguente intitolazione: Historia de volterrana calamitale (1). Dichiara il Muratori di aver consultato per questa operetta quattro codici; il primo e principale appartenente al conte Guidoni, sebbene in alcuna parte mutilo, l’altro nella patria dell’autore, ed è il ms. II da noi preso in esame, gli altri due furono forniti dalla biblioteca Strozziana. L’ Ode-rico (2) ha già rilevato l’errore in cui è caduto il Muratori nel premettere, come esordio dell’ operetta, un brano di lettera non avente col Commentario alcuna relazione, e che Γ Ivani scriveva, tempo prima, a Nicolò Gamberello Piacentino cancelliere del duca in Milano. La lettera trovasi per intero nel ms. I, p. 16, e in essa, dopo una descrizione minuta di Volterra e del suo governo, si parla de’ doveri del cancelliere. Quest’ ultima parte fu già da noi riferita. Anche il Muratori però si era avveduto che il (1) Neri, op. cit., p. 119. (2) Oderico, op. cit., 128. 4°6 GIORNALE LIGUSTICO supposto esordio era mutilo, ed in una nota (i) osservava che i manoscritti Strozziani potrebbero forse prestare soccorso, sebbene l’esordio in essi contenuto sia diverso. Il Ber-toloni in una breve pubblicazione edita per le nozze di sua figlia (2), faceva giustamente, mi pare, le maraviglie che il Muratori avesse pigliato quell’errore, quando conosceva pure il codice sarzanese, e che inoltre avesse posposto quest’ ultimo ad altri codici che non paiono avere eguale autorità. Il Commentariolus fu scritto dall*Ivani in Sarzana nel 147 3 > come risulta dal titolo di sopra citato (3), e possiamo anche facilmente indovinare in che mese tu pubblicato. Difatti la lettera a Gabriele Ricobaldo, in cui l'avverte dell’invio di essa storia, ha la data del 21 ottobre. Dal un’ altra lettera rileviamo pure che anche Biagio Lisci, uno degli scampati a gran fatica dalla furia popolare, aveva scritto il racconto di quelli avvenimenti, e P Ivani ebbe agio di leggerlo in Firenze; ma sebbene ne approvasse l’ordine, tuttavia non fu ritenuto dallo scrivere il suo, che sperava di stendere con più brevità e con più gravi sentenze. Cosi in una lettera al Ricobaldo in cui gli fa cenno di questo suo proposito: essa ha la data del 4 luglio 1473 (4). È dunque evidente, che la redazione del Commentariolus cade nell’intervallo di tempo dal 4 luglio al 21 ottobre dell’anno indicato. Quanto all’ attendibilità di questa operetta, diremo bre- (1) R. L S., XXIII, col. 7. (2) Bertoloni, Del Governo della famiglili civile, lelt. di Aut. Ivani, Bologna, Marsili 1825. (3) Ms. II, c. 18 verso, con carattere rosso: Astonh HyvANi Sarza-nensis Historia de volaUrrana calamitate alita aito diti MCCCCLXXIII. (4) Ms. 11, c, 4 verso, lett. al Ricobaldo, Sarzana IV Nonas Julii 1173: « Spero rem omnem brevioribus verbis et sententiis gravioribus me complexurum ». GIORNALE LIGUSTICO veniente che nel racconto della prima origine della contesa rivani del Commentario concorda esattamente con 1 Ivani che scriveva le lettere agli amici volterrani. E come per le ragioni già date, esse sono documento credibile, >-i paie quindi non si possa negar ragionevolmente fede neppure a questa prima parte del Commentario. Anche ne’ giudizi pronunciati su gli uomini c’ è coerenza. Per un esempio il Commentario presenta Francesco Contugio con tinte molto scuie. « Successit in Priorum magistratu Franciscus Contugius homo inquieti animi, Paulo (Inghirami) infensus, cuius audacie cum nimium fidei credula plebs adhibuisset, contentio crevit ». Del Contugio parla in due lettere dell’epistolario; la prima di esse è del gennaio '72. Scrive a Nicolo Bonamico, che oià ci avvenne di nominare, infaticabile elucubratore di D J sempre nuove leggi, dum res intacta manebat, ed ora ritenuto nelle carceri fiorentine : « Non conoscevate voi sei Franceschino Contugi huomo di non. molta lieva el quale harebe tirato le stelle in terra per vindicarsi contro il suo consono riputandosi offeso negli uffici) del contado? » (1). Nella seconda di due anni dopo, forse troverebbe contraddizione chi non capisse che il benigno giudizio è tutto un’ironia. I capitoli, egli dice, del contratto da me rogati « furono con altri libri nelle mani del valoroso huomo ser Franceschino Contugi in quel tempo uno de’ signori Priori, pacifico guidatore de la vostra repubblica , come per la experientia si cognobbe » (2). Dove l’intenzione di scusare i fiorentini comincia ad apparire evidente è nella seconda parte, ossia nel racconto della guerra volterrana con il triste epilogo del sacco. (1) Ms. I, p. 202. (2) Ms. II, c. 53. » 4°^ GIORNALE LIGUSTICO Tace della missione al vescovo di Volterra spedito a Firenze per implorare la pace, sebbene, con una frase di colore oscuro, dica altrove che essa era più vicina alla pertinacia che ad un tranquillo proposito (i). Tace del partito acremente sostenuto da Lorenzo, doversi ridurre colle armi al dovere la città ribellata, che anzi gli pone in bocca un conciliante discorso dal Medici tenuto in S. Reparata ai delegati volter-ìani. Senza negare i torti dei reggitori di Volterra, la condotta che attribuisce ai dieci cittadini in quella estremità pare davvero troppo leggiera ed insensata. È manifesta poi l’intenzione di sgravare Lorenzo dal carico del sacco quando afferma: « Convocato frequenti civium numero et patefactis machinationibus depi ehensis, omnium summo consensu bellum contra Volaterranos decernitur ». Il che è vero solo per lo storico che si termi alle apparenze. La prima causa inali tanti sia nel Commentario che nelle lettere è narrata ad un modo, e concorda per giunta con quanto ne lascio scritto Vespasiano Fiorentino. Uno dei cinque capitani preposti dai Volterrani al comando delle milizie in città, detto il Veneto, introdusse primi i 600 ausiliari lombardi per 1 angusta breccia che il Montefeltro aveva aperto nelle mura. Queste genti del Duca erano accampare presso la chiesa di S. Andrea. Soltanto a giorno fatto entrarono Federico e i commissari, quando già il saccheggio era incominciato. Chi conosce le indisciplinate soldatesche di quei tempi, forse propende a credere che, anche volendolo, il conte d’Urbino non Io avrebbe potuto impedire. (1) Ms. I, p. 162, lettera a Giuliano Villani da Pontrcmoli. « Florentinus populus . . . rebellantibus iam Volaterranis obtulit novas conventionum et concordiae formulas. Neglexerunt. Ex quo ad arma ventum est. Post haec miserunt Volterrani praesulem ad pacem implorandam proximiorem pertinacie quam quieto consilio ». GIORNALE LIGUSTICO 409 Per altro l’energia di cui diede prova nell’ordinare si impiccasse il Veneto, poteva anche essere adoperata da lui nel castigare i feroci saccomanni, che ingombravano il cammino verso la Lombardia con le prede rapite alla sciagurata Volterra. L’Ivani gli dà lode di misericordia verso le poverette che stavano per divenire ludibrio di una sfrenata soldataglia e stende un pietoso velo sul resto. « Surama fuit Federico et legatis cura mulierum omnis ordinis omnisque aetatis ». A sera « reductae sunt miserae mulieres ad vacuas domos cum parvis liberis ». — Ma egli dimentica una sua lettera di quei giorni scritta a Giusto Contugio : « Equitavi superioribus diebus usque ad Apennini iuga , sequens principis inediolanensis pedites preda onustos, qui noctu per diverticula mulieres Volaterranas abducere ferebantur. Nihil reperi preter indicia quedam quibus haud facile credidi, nam rumor erat varius negantium et affirmantium abductas fuisse mulieres. Si 11011 abductae sunt, placet, sin aliter, scribe quot et quas. Curabo » etc. (1). Ne dimentica un’altra da Pontremoli a Cicco Simonetta in cui accenna al fatto di nuovo: « Cum me huc con-tulerim recuperandi gratia nonnullas puellas volaterranas quae a vestris militibus miserabiliter abduci nunciabantur » etc. (2). E dopo questi vaghi accenni non ne parla più. Era favola? è un doloroso particolare di cotesto dramma, che si è voluto seppellire nel silenzio? « Qui fuerant seditionis auctores, qui novandis rebus intenderant, qui crudelitatibus faverant, pars relegati per urbes et oppida florentinae dictionis, pars ad carceres publicos damnati suut ». Sarebbe qui troppo facile il dirizzare una ben grave accusa contro Γ Ivani. Come poteva egli dimenticare Giusto Contugio, che si trovava allora con parecchi altri a Pescia (1) Ms. I, p. 175, 176. (2) Cfr. Giornale Ligustico, Anno XI, fase. 9 e 10. 410 GIORNALI- LIGUSTICO bandito dalla città, ed al quale offriva la sua casa per tutto l’anno '72 ? (r). Come poteva dimenticare l’amicissimo Persio Falconano condannato egli pure alla stessa pena, uomini i quali non erano certo nè autori di sedizioni, nè finitori di licenza ? Ma a questo si può osservare che egli non poteva assolutamente accomunare gli amici travolti per un istante nella stessa sorte della faina plebe, con costei che meritamente portava la pena della sua pervicacia. Ed a ciò si aggiunga, che probabilmente la relegazione fu assai breve, ed era del tutto tolta quando egli mise mano al Commentano (2). Tali gli errori di pensiero, di fatto e anche di omissione dell’Ivani, per i quali, senza produrre altre arcane cause, bastano, ci pare, le passioni di partito che conducono a traviamenti anche peggiori e le preferenze dell’ umanismo per il principato, non nascoste mai dal nostro Antonio e spiccatissime in quasi tutti i letterati del secolo. Quanto al dire egli che la notizia del sacco non fu sentita in Firenze « sine mesticia populorum et universae florentinae civitatis, cuius dumtaxat conatus fuerat ut rebellantem urbem salvam in liberam sui potestatem redigerent » — sono queste di quelle asserzioni, le quali effettualmente vere, sono idealmente false. Chi dominava e voleva più in Firenze se non il Medici ? e (1) Ms. II, c. 10. In una lettera del dicembre '72 a Gabriele Ricobaldo dice che era relegazione — «et ipse relegatus praeter opinionem meam » (Ms. I, p. 199). (2) Ms. 2 a c. 10, lettera a Giusto Contugio — « Collegi esse bene sperandum a te et ab aliis relegaris in tanta undique iactura, si iustis verbis et prona voluntate ad parendum ostendetis esse viros accomodatos rationi et temporibus ». Consiglio in cui io per il primo riconosco molta morale bassezza, che infine noi vogliamo ritrarre uomini e costumi quali sono, non come potrebbero piacere alla nostra fantasia; nò gli uomini sono poi altrettanti sillogismi o astrazioni intangibili della mente. GIORNALI- LIGUSTICO il Medici aveva imposta la guerra (i). A lui facevano servilmente eco i numerosi partigiani, che colla loro sufficienza provocavano la severa risposta di Tomaso Soderini (2), a lui era devota la Signoria fiorentina che regalava di una villa col diritto di cittadinanza il Monteieltro (3), e a Luigi XI, che in parole si diceva pronto ad inviare soccorsi, scriveva non esservi per allora più bisogno di vendicar sè ed il suo onore, e potergli soltanto augurare in una simile congiuntura un’eguale fortuna (4). CAPITOLO III IL LAMENTO DI VOLTERRA - l-ROTTOLA, PROSE, POESIE POLITICHE I. In un colle lettere che, secondo il costume de’ dotti suoi contemporanei, l’Ivani raccoglieva con cura per farne dono al figlio od agli amici, si leggono anche altri componimenti o poetici 0 in prosa, cui allora non si sapeva come dare altri- (1) Machiavelli, op. cit. loc. cit. (2) Anche il Guicciardini (St. Fior. c. 3) che era in grado di dare sicure notizie (Jncopo Guicciardini con Bongianni Gianfigliazzi erano stati commissari al campo), quantunque dica che i particolari gli sono ignoti, conclude infine che Lorenzo oppresse i Volterrani perché, se non l’avesse fatto, temeva di veder diminuita la sua riputazione. (3)-Federico signore d’Urbino era almeno sospetto di vergognosa connivenza , se non si voglia credere all’ autore del libretto citato dal Ben-V0GL1ENTI nelle Cronache Sanai (R. I. S., XV, col. 290): c Anno 1472 Volaterrani Florentinis quadam submissione federati, cum ab eis descivissent , obsessi captique, et militibus in praedam pro stipendio dati sunt. > (4) Reumont, op. cit., loc. cit. 412 giornali; ligustico menti pubblicità. Tra i secondi havvi buon numero di opuscoli o morali o filosofici ai quali accenneremo brevemente; nei primi, parecchie epistole che non hanno per verità un gran valore come poesia, e più notevole un lamento nella persona di λ olterra, che può essere un utile contributo a questo genere di letteratura (i). Conforme all’osservazione già fatta dall’e-giegio Medin per altri lamenti (2), anche in quello dell’Ivani la personalità dell’autore è affatto scomparsa, e la forma diventa narrativa come nel più gran numero dei lamenti italiani schiettamente popolari. Ciò mi sembra curioso, perchè l’autore essendo qui non un cantastorie del popolo, ma un erudito, parrebbe più naturale che il motivo fosse piuttosto lirico, siccome il Medin dice essere avvenuto dei lamenti latini, provenzali e francesi. Per contro qui troviamo uno dei caratteri, che secondo il dotto editore citato, avrebbe ad essere indizio della loro popolarità: « Dal momento che ogni partito in favore 0 contrario a quell’ uomo che era caduto, poteva raccontare le avventure di lui, ogni recitatore 0 cantore cosi, perchè si prestasse più fede alla sua parola, faceva sottentrare alla sua la personalità del lamentato; immaginava cioè che tosse lui stesso il lamentato che parlasse alla gente per bocca (1) Ms. II, c. 56 verso. I lamenti che si fecero sul crudele fatto ebbero ad essere parecchi; di un altro la menzione il Mai in una nota alla vita di λ espasiano Fiorentino (Firenze, Rarbera 1S59). ^'ce CS^' averlo letto in un codice milanese della Biblioteca Ambrosiana, oltre una lettera in prosa e cento versi in terza rima di Giovanni Ciai cittadino fiorentino dedicati al conte Federico di Urbino. Anch’essi cantano la presa che i fiorentini da lui capitanati fecero di Volterra. Il dott. Ludovico Frati attende alla pubblicazione di un volume, nel quale raccoglierà un poemetto in ottava rima, e vari lamenti intorno al sacco del 1472. Vi sarà anche quello dell’Ivani, e ciò mi dispensa dal pubblicarlo. (2) Medin, Lamenti de’ secoli XIV e XV, alla libreria Dante in Firenze, 1883. GIORNALE LIGUSTICO sua. Non sono adunque che semplici narrazioni di un fatto tal qual era o si credeva o si voleva che fosse avvenuto, narrazioni che terminano per lo più con una preghiera di perdono o agli uomini o al cielo. Questa è la nota che caratterizza i lamenti popolari italiani; nota che deriva anche dall’ingegno stesso del popolo, il quale per non avere sufficiente istruzione letteraria, non può esprimere poeticamente i sentimenti dell’animo suo in altro modo se non col narrare i fatti per cui egli si commuove » (i). Il lamento dell’ Ivani contradirebbe un poco, se non sbaglio, a cotesta regola, così che la forma narrativa rigorosamente impersonale, non sarebbe sempre un sicuro criterio in siffatti componimenti per concludere che trattasi di un’origine popolare. E si osservi che anche l’Ivani non tralascia di finire con la solita preghiera: Quel summo Re di gloria, che commuta Lo sdegno in gratia, verso chi se pente Dogni mal consiglio e fermamente Venia concede a chi non lo rifiuta. . A me poi sembra che l’umanista fosse portato a dar questa forma al suo lamento, dal desiderio di apparire agli occhi di molti affatto imparziale. La quistione si passava tra Firenze e Volterra. Ma di Volterra, dopo lo strazio patito, sarebbe stata cosa scellerata dirne male, avessero pure i suoi reggitori tutti i torti immaginabili; d’altra parte a Firenze ed al Magnifico segnatamente si rivolgevano le simpatie e le speranze del nostro umanista. Come eludere la difficoltà? In quel modo: scegliendo la forma narrativa che procede più quieta e pacata, e dove inoltre non entra ogni tratto in ballo il nostro io che imbroglia, mettendo tutto in bocca di chi rappresentava il pensiero di tutti, e acquistava autorità dalla (i) Medin, op. cit., p. 5. 414 GIORNALE LIGUSTICO coscienza popolare. Cosi c’era anche il modo di finire senza parere, con un complimento al Magnifico, chè a lui probabilmente devono riferirsi gli ultimi versi* * Concedi a me gratia integramente D’esser accepta a la città del giglio, Crescente Lauro, verde, bianco e vermiglio ». Se non è lupo, almeno è can bigio. L’unica maniera per conseguenza di distinguere la simulata motivazione popolaresca dalla natura del lamento schiettamente popolare è ancor quella di aguzzare ben gli occhi, se per avventura sotto le mentite apparenze, traspaiano interessi che siano in urto con la rude sincerità del popolo: se questo non si può, tutto il resto mi pare affatto congetturale; si starà sempre a rischio di scambiare per sicuro e irrepugnabile ciò che forse è un artificio. E il popolo di regola non sa e non vuole rimanersi chiuso fra tante misure e cautele diplomatiche. Osserva opportunamente il Medin che per il popolo il lamentato è sempre « o un martire o un infime, a seconda che il partito gli eia favorevole od avverso » (i). Qual fremito d’immensa ira repressa non sarebbe vibrato nell’anima e nelle strofe di un popolano di Volterra, ripensando alla simulata condotta del Magnifico, all’avidità sua e de’ partigiani suoi larvata dalle apparenze di giustizia, al fiero sacco patito dalla povera città! Per l’Ivani invece Firenze è uri indila madre, che commossa da giusto furore manda le sue squadre a castigare una mano di insensati rissosi. Come si sente qui l’uomo che aveva in uggia e aborrimento quel governo di zotici e petulanti legislatori. « Havevate comunicato lo stato vostro a huomini troppo plebei et era doventato troppo universale, cosi a grossolani come a uomini civili, ad- ii) Medin, op. cit. loc. cit. GIORNALE LIGUSTICO 4X5 vengha che io intendi consistere la vera civiltà non solamente ne’ capucci e mantegli ornati, ma nello splendore e gravità di convenevoli costumi » (i). Nel manoscritto in cui si legge questo lamento, seguono alcuni versi che direi parenetici, sempre in persona di Volterra dal nostro chiamata nell’ intitolazione sua debitrice. Umorismo fuor di proposito. Non varrebbero la fatica di essere ricordati, se non fosse a cagione dell’ultimo verso che ha un valore per la storia dei costumi. Eccolo : Di Brigida sancta ò prophetia finita: ossia compiuta. Sul tema di S. Brigida, abbiamo una lettera a Cicco Simonetta che non si rinviene nei due codici sarza-nesi (2). Ritorna sulle profezie della Santa che egli aveva udite cinque anni innanzi, e delle quali assisteva ora al sinistro avverarsi. Le predizioni toccavano molte città d’Italia : per ciò che si riferiva a Volterra ecco i versi: 0 Volterrani levati in gran barato, Che havete speranza In povera possanza del paese, Questa paza vorrà ancor far offese Sperando in fumo et in vento, E come un fuoco spento vuole alzarsi. Sono segno ancor essi dei tristi presentimenti che andavano per l’animo di tutti sul finire del secolo XV, della fede che questi uomini avevano nel prodigio. Il Savonarola, sebbene abbia incontrata la sorte de’ profeti disarmati, non fu tuttavia apparizione solitaria e voce senza eco nella coscienza di molti contemporanei. (1) Ms. I, p. 202. (2) Edita nel Bolktt. Stor. della Svinerà italiana e riprodotta dal Giorn. Ligustico, Anno XI, p. 391. 4t6 giornale ligustico L’ Ivani aveva grandissima opinione delle rivelazioni di S. Brigida. Prima di lui, e uscendo il Trecento, ser Lapo Mazzei ne tesseva con fervore ascetico un ditiuso panegirico all’amico Datini: « E certo se vivrete punto, vedrete costei essere stata uno sole, uno vasello di Cristo; vedrete preti e gente disutile rinnovarsi, vedrete le profezie adempiersi che parlano contro a rei cristiani » (i). Ser Lapo aveva molta somiglianza con Jacopone da Todi e Caterina da Siena, salvo un senso più pratico della vita. In sostanza ciò che nelle rivelazioni e nella regola della Santa lo entusiasmava di più, era il tentativo di ritrarre la Chiesa al vivere semplice e povero degli antichi tempi. L’Ivani sinceramente ortodosso, malgrado certa libertà di vita e di linguaggio nella giovinezza, ma anche rotto agli affari, non poteva lasciarsi vincere dalle utopie del bravo notaio fiorentino. E poi il secolo s’imponeva con tutte le sue tendenze e contraddizioni. Quando nel 1476, dopo l’uccisione del duca Galeazzo Sforza, Gerolamo Olgiato sopportava con fierezza romana il supplizio, egli scriveva a Clemente d’Areola: « La morte del tuo principe non mi recò grande meraviglia: bensì ammirai l’ostinata audacia dell’uccisore. Egli fu pari a Muzio » (2). Le menti correvano nelle previsioni del futuro al peggio, e la Rinascenza collo sviluppo della personalità, e col ridurre il fenomeno al suo giusto valore, impediva l’intervento continuo, peculiare al medio evo, della provvidenza nella vita. Per altro la fede nel di là scossa, e quella nei ripari umani posta in dubbio, dovevano condurre ad 1111 ascendente smodato concesso alla fortuna, all’influsso degli astri, ai pronostici. Sulle mirabili predizioni della Santa svedese ribatte Γ Ivani (1) Lettere di Ser Lapo Ma^ei pubb. da C. Guasti, Firenze 1880, I, 120. (2) Ms. II, c. 116 recto. GIORNALE LIGUSTICO 4 I 7 in una lettera scritta nel febbraio del *73 da Sarzana a Pietro Leostello di Volterra. Il carnevale impazziva per le strade e col suo clamore assordava il povero umanista. « Obtundunt me tibiae et saltantium voces larvatorumque catervae quarum strepitu vix calamum sustineo ». Ed egli ragiona gravemente della fede che vuol essere prestata ai vaticini sul futuro. « Forse, dice al Leostello, il padre tuo in fin di vita non rispondeva a chi si studiava di consolarlo, la morte più della vita essergli cara, poiché in breve sarebbero per capitare alla città sventure più gravi della morte? Ed io stesso un giorno che, dopo il lungo infierire della peste, passeggiava con pochi fuor delle mura per ricreare alquanto l’animo , non udii osservare da Paolo Inghirami, mentre noi si parlava di antichità : La nostra città è tanto antica che più oltre non può durare? ». E ricordata una certa epistola detta di S. Guglielmo, opera di un Antonio Tignosello, in cui si predicavano fiere cose sulle sorti di Volterra, finalmente conclude la lettera all’amico: « Qualia insuper carmina Diva Brigida et Beatus Thomasucius de Volaterrano statu cecinerint forte cognovisti. Omnia haec ante fodinarum concessionem evenerant » (1). Il carme di S. Brigida non può esser altro che quello riportato nella lettera a Cicco Simonetta. Come si vede siamo qui condotti alla letteratura delle profezie, che, dice il Renier, è letteratura difficile e non abbastanza studiata. Egli le definisce giustamente: « Produzioni profetiche sorte per lo più dal basso, con la intenzione di salire in alto e di non svelare il nome oscuro di chi le compose » (2). E non trattavasi, come appare dall’esempio dell’Ivani e di molti altri, di un fenomeno (1) Ms. II, c. 42 recto. (2) Rhnier, Rime di Fillio degli Uberti, p. CCC1I. Giork. Ligustico. Anno XII. 27 4χ8 GIORNALE LIGUSTICO isolato. S. Brigida, fra Tomasuccio (i), gli umili profeti tutti esortanti le plebi a penitenza, non erano se non ςΐί interpreti dei foschi presentimenti che sbattevano la loro ombra sulla base, come sul fastigio della piramide sociale, sui volghi contriti dal piede delle soldatesche di ventura, come sui dotti che idoleggiavano l’ideale della Grecia o di Roma pagana. In somma non dalla fantasia di pochi asceti, ma da una tendenza generale del secolo scaturiva cotesto singolare movimento di una letteratura profetica, cui non si sottraevano neppure gli uomini più inclinati a giudicare degli eventi da un punto di vista schiettamente scettico ed umano. Ne siano prova il Guicciardini e il Machiavelli (2). « La natura, sembrava piena di forze occulte, di spiriti misteriosi che parlavano ai mortali: un presentimento di strani casi, di grandi mutamenti, di grandissime sventure era comune a tutti gli uomini, ma più specialmente agli italiani » (3). In questo argomento di superstiziosi terrori, cade a proposito una lettera dell Ivani sopra un favoloso personaggio, che diede molto a fantasticare al medio evo: voglio intendere la leggenda dell’Anticristo. Il nostro Antonio non ne fa per altro una trattazione sua, ma si accontenta di riassumere quella recentemente pubblicata in Padova da un tedesco che egli dice molto verboso (4). Osserva il prof. Novati che « la curiosità (1) Intorno a Tomasuccio da Foligno cfr. Μλζζλτγντι , Un profeto Umbro del sec. XIV, in Propugnatore, XV, Par. 2.*, p. 8. (2) Machiavelli, Discorsi, lib. I. cap. LVI — Guicciardini, Ricordi politici, CCXI. (3) Villari, Storia di Girolamo Savonarola, I, 46. (4) Ioann'es de Lubec, Prognosticon super adventu Antichristi hidaeorumqu· Messiae, Patavii, Barth. de Valdezochio, 1474. In fine: « Paduae caku-latum per me Ioannem de Lubec. Anno gratie millesimo quadringentesimo septuagesimo quarto currente de mense Aprilis ». Cfr. Panzer, Annales Typographici. 419 angosciosa delle generazioni vissute nel secolo decimoquarto per un prossimo avvento dell’ Anticristo, si tramanda a quelle del seguente, tanto che a soddisfarla, dai torchi delle recenti stamperie diffondonsi tosto per tutta Europa dei libretti in cui alla narrazione si accoppia la rappresentazione figurata... Ed è notevole il fatto che in tutti questi paesi la loro apparizione avviene simultaneamente: escono in luce cioè nell’ultimo decennio del secolo » (i). Il libro di Giovanni da Lubecca precederebbe di alcuni anni, perchè esso fu edito nel 1474. Che si tratti di questo non ne lasciano dubbio le indicazioni fornite dall’Ivani. Narra egli che nello spogliare plura codicum volumina, recatigli da un libraio da Venezia, allora il grandissimo dei mercati librari, gli cadde sotto mano un breve opuscolo, ma pieno di numeri, computi, misure, quadrature e triangolazioni di cui era autore lobannem Lubecbium germanum virum astronomum (2). Costui comincia per stabilire, che 1’ Anticristo vaticinato nascerà per influenza degli astri dopo il millennio. E detto che gli uomini stoltamente disprezzano quel presentimento del futuro, che la divinità loro infuse per non farli inferiori agli uccelli, ai pesci ed agli altri animali, i quali tutti presentono le mutazioni contingenti dell’ atmosfera, passa a disputare acutissime della natura delle stelle, del loro corso e gradi e congiunzioni. Introduce quindi al suo proposito sibille, poeti sentenze di profeti ed infine l’apostolo Paolo e conclude che 1’Anticristo nascerebbe da diabolico congiungimento nel 1506 agli idi di Settembre, nell’ora decima del giorno e nella plaga meridionale che è volta a mezzogiorno sotto il cancro. L’Anticristo sarà eloquentissimo per l’influenza di Mercurio, (1) Novati, Anticerberus, estratto della Rivista Storica Mantovana, p. 23. (2) Ms. II, c. 147, lett. al Meduseo, Pistoia 11 ottobre 1478. 420 GIORNALE LIGUSTICO potente oltremodo per quella del sole, ed infine ricchissimo in virtù del favore che gli pioverà dai pianeti sovrastanti allora a mezzo del cielo, e degli occulti tesori, che mediante la congiunzione di Saturno con Giove, gli verrà tatto di scoprire. Nascerà egli da una vergine di grande casato e di nazione giudea, ma di corrotta mente , per Γ infausta congiunzione di Saturno, Marte, Mercurio e da un demonio che sotto forma di incubo si mescolerà con Lei. Gli Ebrei lo piglieranno per il Messia, figliuolo di Dio (i). E molte cose farà laudabili e malvagie, potente dominatore, seduttore di popoli, e l’avaro petto di molti sarà saziato di oro. Allora la navicella di Pietro sarà misero ludibrio dei flutti, ma Dio, cui tutte le cose celesti e infernali obbediscono, dimostrerà infine la sua potenza. Come si vede dal riassunto sono sempre gli stessi elementi della Apocalisse diversamente rimaneggiati, con esclusione di alcuni. Manca l’Imperatore che nel più delle versioni è presentato come campione della Chiesa , quando non è Cristo stesso che discende a disperdere l’avversario col ferro e col fuoco (2). Tutto ciò è involuto nel breve accenno dell’ ineffabile potenza di Dio che deve addimostrarsi. Anche nell’ addotta origine del grande ribelle non c’ è niente di nuovo: il Malvenda nella sua farraginosa opera De Anli-christo (3) cita i passi dei santi e dei padri della Chiesa, che fra i diversi modi di suo nascimento, pronosticavano pure il natale dalla odiata razza che aveva dannato a morte il Redentore. (1) Forse era per siffatta credenza, che Luca Signorelli, nel dipingere sulle pareti della cattedrale di Orvieto la paurosa leggenda, rappresentava il gran ribelle sotto sembianze somigliantissime a quelle del Redentore. Cfr. Novati , op. cit., p. 24. (2) Graf , Roma nella memoria e nella immaginazione del Medio Evo , Torino, Loescher 1883, II, 477. (3) Malvenda, De Anlicbristo, Romae 1604, p. 80, col. a. GIORNALE LIGUSTICO 421 L’ opuscolo non ha dunque grande novità : è tuttavia indizio dell’ affannoso ripiegarsi degli spiriti in un pensiero e spavento comune durante quell’ ultimo malinconico ventennio del secolo XV. E tutti si trovavano d’accordo nel profetare sciagure alla disgraziata Italia. Nello stesso anno '78 , pochi mesi dopo la congiura Pazziana, il Ficino manda a Sisto IV il ben noto vaticinio Deus ubi vult spirat. È singolare la concordanza che esso ha coll’opuscolo di Giovanni da Lubecca, concordanza che s’incontra persino nel frasario. Prendendo occasione da certi miracoli avvenuti a Volterra scrive al papa che — « avendo conferito insieme sopra tale fatto quattro confilosofi, egualmente studiosi di profezie e di astrologia, dalla congiunzione dei pianeti ne avevano dedotto che il prossimo biennio sarebbe stato infelicissimo , talché il volgo crederebbe vicina la fine del mondo. E così predice nel prossimo biennio la estrema calamità del genere umano oppresso dalla guerra, dalla peste, dalla fame ; la morte di molti principi ; una nuova eresia per opera di un falso profeta; la navicella di Pietro pericolante sulle acque del Tevere; i barbari devastanti la Italia » (1). L’una e l’altra data andarono fallite, non così le sinistre previsioni che ebbero alcuni decenni dopo il loro lugubre compimento. Del resto l’astrologo più che dalle congiunzioni degli astri, prendeva consiglio dal proprio raziocinio, quando pronosticava che con pontefici simili a Sisto IV la navicella di Pietro sarebbe pericolata. II. 11 Neri ha già pubblicata una frottola dell’ ivani (2) che per il suo carattere giocoso, ma insieme contenente dei (ij Galeotti, Delia vita e degli scritti di M. Ficino, in Nuov. Ant., X, 45; Nuova serie. (2) Neri, op. cit., p. 137. 422 GIORNALE LIGUSTICO proverbi e delle amare ironie alla maniera antica, il Renier dice notevolissima. Non so se sia stato avvertito che l’Ivani in essa, senza tenersi stretto alla misura dell’endecasillabo, osserva si può dire costantemente la regola che ciascun verso rimi al mezzo colla parola tinaie del verso precedente, ad eccezione della chiusa che consta di un distico a rima baciata. Nei pochi versi in cui vi contravviene, è sempre cercata a studio per lo meno l’assonanza. Forma metrici che precede di qualche anno Y endecasillabo incatenato, il quale non sarebbe quindi, come opina 1’egregio Casini (i), un’innovazione introdotta per la prima volta nella poesia letteraria da Iacopo Sannazzaro, da Pier Antonio Caracciolo, da Giosuè Capasso e da altri poeti meridionali, che sul finire del secolo XV se ne valsero per le loro farse. Difatti quelle che ci rimangono del Caracciolo, e del Capasso sono tutte posteriori al 1471, che è la data della frottola. Non va esclusa neppure la farsa anonima contenuta nel Ms. di Monaco (Baviera), perchè anche menando buone le ragioni addotte dal Torraca, sarebbe sempre stata rappresentata quattro anni dopo (2). Quanto alla contenenza della frottola quello solo che rilevasi, parmi con sufficiente sicurezza, è che essa era diretta contro que’ loquaci Volterrani che laceravano colla instancabile querimonia che è propria dei vinti e non per colpa d altri, la fama di lui. Ce ne porge indizio il personaggio a cui è indirizzata, ossia Jacopo Neri da Volterra. Inoltre la lettura del suo epistolario basta ad avvisarci, che due cause amareggiarono sopra tutto l’animo del nostro umanista: l’ingrata condotta di Ludovico Fregoso, e la ver- (1) Casini, Notizia sulle forme nutr. ital., Firenze, Sansoni 1884, p. 77. L osservazione ci permette anche di correggere il Bertoloni, la cui lezione nella copia lasciataci non è troppo esatta. (2) Cfr. Torraca, Studi di Stona Lett. Naf., Napoli 1884, p. 282. GIORNALE LIGUSTICO lenza volterrana. Siccome non c’ è ragione di sorta per attribuire la frottola al Campofregoso, la nostra congettura viene a confermarsi per esclusione. . Si aggiunge che alcune delle allusioni contenute in questo componimento, a mio parere, si rischiarano se siano opportunamente comparate con le sue lettere. Così il passo : La terra tutta quanta è slividita La carità smarrita fra mortali Ha prolungato l’ali Γ avaricia. Ahi quanta mestizia fra buoni colma ! credo divenga intelligibile ponendolo a riscontro con il seguente brano di una lettera a Leostello di Volterra : « Conie-ctavi ego saepe non sine causa pestem biennio invasisse civitatem tuam et cum evitandi morba remedia invenirentur, prolapsos vidi concives tuos in partem deteriorem... Deteriora semper usque ad extremam calamitatem consilia inierunt male gerentes egrotantem illam rempublicam, cum et remedia omnia salutaria négligèrent et pro medella rebellionis venenum pararent populo laboranti » (i). E altrove: « Degenerastis meo iudicio a moribus a me laudatis post saeviciam illius pestilentiae, quae superioribus annis afflixit vestram civitatem » (2). A un dipresso ciò che osservava Matteo Villani dopo la moria del 1348. La sentenza: Scuola senza norma è mal guidata non risponde benissimo a quel tanto che egli dice sulle civili dissensioni, sulla farragine di leggi che i leggeri cervelli volterrani tutto dì moltiplicavano, procacciando la loro rovina ? E lo stesso tentativo di illustrazione potrebbe recarsi (1) Ms. II, c. 42 recto. (2) Ms. I, p. 147. 424 giornale ligustico sopra alcun altro dei proverbi onde è infarcita questa frottola. Ma la maggior parte è anche vero che resiste a ogni qualsivoglia sforzo di ragionevole interpretazione, e pur arnmi-iando gli scorci di una lingua che diventa per noi ogni dì più accademica, siamo costretti a domandarci se il poeta nello scrivere non avesse alcuna volta intenzione di dire piuttosto parole che cose. Le oscurità volute e cercate nella frottola, l’Ivani pare si diverta ad ammassarle nelle altre sue rime, tirando in mezzo delle stiane allegorie che hanno tutta l’aria di indovinelli. Si leggano, per un esempio, le seguenti strofe scritte nel ’ηη da I istoia che sono delle meno cattive: non manca neppure ciò che il Del Lungo osserva a proposito delle frottole profetiche (i), uno sfoggio curioso di simboliche bestie (2): Vidi una nuvoletta nel sereno, Di forma serpentina era sua vista La coda in bocca teneva per freno. Era di umana faccia benché trista Pallida magra d’ aspetto virile Dicendo: ahi lassa me, chi mi conquista? Dinanzi a sè uno spirito sottile Pien d ira e di vendetta Γ aspettava Fra sè dicendo: io non sarò mai vile. Satanasso malvagio che regnava L’ odiose volontà raccozzando E 1 uno e 1’ altro forte tormentava. A Minos mi voltai e dissi : quando Sarà 1’ ultimo tempo delle pene Avendo di pietà costoro il bando? (i) Del Lungo, Dino Compagni t la sua cronica, Firenze, Le Monnier. II, 230. ( ) Ms. II, c. 122 rato. "Trascrivo fedelmente dal codice, riducendo peri1) a moderna grafia la lezione. GIORNALE LIGUSTICO Ed egli a me : Chi Γ ingiuria sostenne Volendo vendicar sè fece privo Nè l’un nè l’altro in virtù si contenne. Haranno sempre stimulo nocivo Nè di tormento mancharà la sorte Non aspettando di pace Γ ulivo. Apri, Giuliano mio, apri le porte De Γ intelletto poiché tuo casato De Camagiori ti dinota forte. D’iniquità dove senti peccato Suona la tromba della voce tua Rivocando a dolcezza ogni turbato. Dio eterno la volontà sua Fece a mortali nota per dottrine Più inspirando e non uno nè dua. Se vuoi venire a quel beato fine In questa ultima età, o Giulian mio, Adopra di pietà le medicine Che grato ti faranno al sommo Dio. I versi sono intitolati al nobile amico , il vecchio Giuliano da Camaiore, vessillifero del comune di Pistoia, e Γ allegoria non v’ è dubbio, almeno per me , è politica. Probabilmente essa era inspirata dalle discordie secolari e sempre vivaci dei Pistoiesi, ma è quasi impossibile il poterne avere la chiave , tanto nella sua significazione è indeterminata. Resterebbero a ricordare, fra queste rime volgari, un’ apostrofe a Roma ed un’ altra all’ Italia, in cui non fa difetto un torte sentimento di nazionalità, ma credo che al lettore possa bastare il saggio che ne ho dato. E quanto all’ Italia di co -testi eruditi, essa era pur sempre un’inspirazione letteraria, una grande figura sì, che avvolta nella toga degli Scipioni e dei Gracchi adagiavasi maestosa dall’ Alpi al Lilibeo , ma che finiva nelle invocazioni rettoriche in prosa o in verso : la politica era un’ altra cosa, ed allora si pesavano accortamente gli interessi delle maggiori e minori signorie italiane, 42^ GIORNALE L1GUSTIGO e si diceva o si pensava come il Moro : voi mi parlate sempre di cotesta Italia e io non Γ ho mai veduta in viso. È bensì vero che i pericoli sempre più evidenti cui andava incontro 1 ultimo terzo del secolo, hanno virtù anche in queste lettele di accendere da un lato una fede più fervida, dall’altro di condurre i pensieri a maggior serietà ed elevazione. Il sorriso è scomparso; ora nell’acuta analisi che vien fatta delle torze italiane spira un alito di modernità che ci avverte non essere molto lontano il Machiavelli. Dai rottami del mondo antico è già sorto il nuovo. « I Veneti sono travagliati, il re di Napoli in armi, della Curia romana si fa poco conto, Siena non sta in quiete, Firenze è vessata, Genova fluttua tra le fazioni: la Lombardia è avvolta nelle guerre, e il Turco e già nei nostri porti ». E al Gherio, oratore fiorentino alla corte di Milano, scriveva: « io prevedo e temo nell’ avvenire una miseranda servitù. Le calamità dei Veneti nell’ Epiro rallegrano alcuni che si dichiarano italiani. E si rallegrino pure, purché cotesto morbo non ci apporti un’esiziale contagio » (i). « Ormai è da dolersi, ma non da far meraviglia se le soglie d’Italia sono aperte a popoli stranieri e crudelissimi, se è conceduto libero ingresso e per poco non stendiamo loro la destra. Da per tutto in Italia tremono le guerre, da per tutto gli odii riardono, non sappiamo star in pace » (2). Si (1) Ms. II, c. 142 verso, lett. 28 settembre 1478. (2) Ms. II, c. 141 recto, lett. a fra Giovanni da Pistoia. Di costui parla anche il Q.UETIF (Scriptores Ori. Praed. t. I, p. 879, col. a) come di uomo « religione sanctitate morum ac verbi Dei praedicatione seculo XV tota Italia clarissimus ». Era pesciatino, e forse la denominazione di pistoiese gli venne, o dall aver avuto i natali non lungi da questa città, o piuttosto dalla predilezione per essa dimostrata. Ad ogni modo l’Ivani, nell’intitolazione di due sue lettere al frate, lo dice sempre Joannes pistoriensis e nella seconda parlandosi di Pistoia soggiunge: « Afficior equidem pistoriensibus tuis quibus et teneor... Audiunt te libenter , quamvis tardi sint GIORNALE LIGUSTICO 427 rivolge a Sisto IV ed esclama: « Che pensi, che fai, romano pontefice cui è commessa la cristiana salvezza ? non vedi il comune pericolo, 1’ eccidio di tutta Γ Italia, la rovina di tanti popoli? » (1). E disperato d’ ogni soccorso umano, si rivolgeva a Dio — « Poiché i Signori in cambio di apprendere gli insegnamenti a noi legati dall’ antichità sono unicamente rivolti a frivoli piaceri, al lusso, alla pesca, alla caccia, ci aiuti lui a respingere le forze straniere e a farci vivere in pace ». III. Coteste querimonie, cotesti sconforti come di chi assisteva nolente alle esequie della patria, ci conducono per naturale transizione a studiare un tratto il pensiero di quest* uomo, che si trova collocato fra 1’ Aristotelismo quale era giunto a noi attraverso le fantastiche concezioni di Averroé, e il massimo fiorire del Platonismo, per opera segnatamente del Ficino. È quasi inutile il dire eh’ egli s’imbevve tutto delle dottrine platoniche cui dava veste latina il filosofo fiorentino, fuse e diciamo anche confuse insieme alle tradizioni orientali della scuola d’Alessandria. Per altro l’Ivani ne’ suoi scritti si sta contento a brevi trattazioni di fisosofia morale, ed alleggerisce quindi di molto il compito a me, che tocco qui per le necessità del tema un argomento dove sento tutta la et molles. Teneris (sic) patriae, iuva illos bonis consiliis ut facis » (Ms. II. ivi). E nella lettera a F. Gherio sui corrotti costumi d’Italia : » Habemus in praedicatorio munere viros prestantes et inter ceteros facundum fratrem Johannem tuum pistoriensem » (Ms. II, c. 142 verso). Continuò ■i predicare dal 1460 al '93 con tanto successo « ut in plgrisque locis , cum templa auditores non caperent, per plateas ipsas concionari oporteret ». — Morì ai 21 di marzo dello stesso anno in Lucca, con grande dolore de’ suoi frati e di tutta la città. (1) Ms. 11, c. 142 verso. 428 GIORNALE LIGUSTICO mia incompetenza. Sono sei opuscoli per lo più in forma epistolare dei quali riassumerò, con la maggior brevità, le argomentazioni. Nel primo tratta della fortuna (1). Un amico sarzanese gli a\eva mandato dei versi che trattavano della volubile dea. L Ivani ne discute astrattamente, ma non senza dimostrazioni del tutto ad hominem, perchè nell’ opuscolo si parla del loro compaesano papa Nicolò V e del fratello uterino di lui, Filippo Calandrimi cardinale di Bologna, sul conto del quale i giudizi dell’Ivani erano molto acerbi. — « Coloro, dice il nostro Antonio, che della fortuna han facto una dea 0 alcunché di simile, a giudizio mio, hanno errato. Difatti che cosa può essere ciò che è privo di forma e di materia, clic non ha nè mente nè corpo? Gli enti dotati dell’una senza 1 altro si chiamano divini, umani quelli composti di tutt’e due. Ma poiché la fortuna non è nè dea, nè uomo, nè demone, nè animale irrazionale, nè sostanza vegetale, quale natura o figura dunque le attribuiremo? Negata la sua esistenza, diventa inutile anche il vocabolo. Sono pochi avverbi dubitativi: forsan, forte, fortasse che hanno dato origine alla parola fortuna, ma essa nelli avvenimenti umani non ci ha nulla a vedere : è il fato la causa prima di essi e autore del tato è Dio, dovunque presente. È fuor di dubbio che gli astri esercitano il loro influsso, che i corpi inferiori sono governati da’ superiori. Intorno a tutte queste cose si versa la mente divina che operando assiduamente possiamo, se ci piace, identificare col fato. Certo investigabili sono le vie di Dio, sicché alle inferme menti umane si celano i giudizi di lui ; ed ecco perchè la stolta moltitudine ascrive i fatti che non intende alla fortuna. Ma poiché questa è nulla, non si vuole nè accusare, nè supplicare. Vediamo Nicolò V: qui (1) Ms. II, c. 61 recto. GIORNALE LIGUSTICO 429 non entra fortuna: sono le erudite fatiche da lui sostenute e il favor di Dio che lo esaltarono a sì alto grado. La ragione è piana ed aperta. E da questa ne scaturisce una seconda. Nicolò V ha potuto amplificare con ricchezze, onori, dignità un altro (Filippo Calandrini), o sapiente o insipiente che costui si sia. Però mutarne la natura e i costumi non ha potuto. Direte che in questo abbia parte la fortuna ? È chiaro che no; è soltanto l’amore indiscreto di chi usa un’ingiusta preferenza che deve chiamarsi in colpa. Fra tanto cotesto favorito gli adulatori predicano beato, e la ignara plebe che rade volte capisce ragione, instabile sempre , oggi danna ciò che ieri aveva levato a cielo. Infine ogni fatto ed azione dev’ essere sottoposta al giudizio del sapiente : infelice è l’avaro insaziabile, ma più infelice chi non è approvato dal saggio ». Dopo questa tentata conciliazione della fortuna colla provvidenza, l’Ivani passa ad argomento più alto: De j usticia Dei (1). Egli dice « che la soluzione del quesito proposto è di per sè facile, imperocché egli ardirebbe dire non esservi Dio, se non vi fosse giustizia. L’ ordine universale importa che esista un sapiente autore e giusto distributore di ogni cosa. E questa fede nella giustizia divina è corroborata dall’autorità delle sibille, dei profeti, degli apostoli, dei dottori della Chiesa. Non basta: anche Cicerone si colloca dappresso a Lattanzio per testificare che nel cospetto di Dio ha suo valore la giustizia. — Ma, osserva il contradditore, noi vediamo pure gli indotti non di rado sollevati alle più alte dignità, mentre la virtù se ne va povera e nuda. In ciò Dio non pare giusto. A questo risponde l’Ivani: Dio curarsi poco delle virtù che sono rivolte alle umane splendidezze, bensì aver riguardo a quelle che fanno pia e retta la mente. Inol- (1) Ms. II, 62 recto. 430 GIORNALE LIGUSTICO tre colui che oggi ci pare felice, in picciol tratto poter divenire infelicissimo per molte cagioni che o sono palesi o ci rimangono sconosciute. La massima parte infine dell’umana felicita consistere nella sapienza, nell’ attesa dell’ altra vita e del giusto retributore dei meriti e delle colpe. Lo stolto posto quaggiù in sommo grado, sembrargli simile a chi indossi una pieziosa veste presa da altri in imprestito ». Eravamo come si vede molto lontani dal medio evo che glorificava l’ignoranza. Un altra volta, Domenico de Bartoli mandato dai Fiorentini commissario a Sarzana, stando a chiacchierare col nostro umanista gli aveva chiesto perchè la natura umana sia più propensa al vizio che alla virtù (i). L’Ivani ammette il fatto -rr non perchè la natura della quale Dio fu autore abbia nel- 1 ordine suo a fine di male alcuna cosa, ma perchè essendo la mente libera, che noi diciamo anima razionale, comunemente più consente alla gravezza de’ sensi corporali che per debita elevazione non si contiene nella sedia della ragione ». Questa sarebbe una spiegazione, ma è insufficiente perchè se la ragione predominasse agli appetiti « non solamente a noi sarebbe facile guardarci da vizi, ma continuando nelle virtù, saressimo in terra come Dii mortali e sarebbe possibile che mediante la fede cattolica in tal perseveranza doventassimo Dii celesti, cioè eterni contemplatori della divinità ». — Che cosa si oppone a cotesta perfezione? Tre cose al palei e dell Ivani ». Primo la natura de’ pianeti, secondo gli acci-fìtnti, terzo la provvidenza divina. Gli influssi de’ pianeti nei corpi animati sono un fatto certissimo. Predominante Giove, fa naturalmente benigno e liberale qualunque nasce in quel punto, predominante Marte lo fa feroce e bellicoso. E cosi seguitando ». Siamo in piena allucinazione astrologica. Il Fi- li) Ms. II, c. 85 recto. GIORNALE LIGUSTICO 43 1 cino voleva conciliare la provvidenza divina e la libertà del-Γ arbitrio umano con le fole astrologichc, e al Bembo nel 1477 annunciava un libro in cui confuterebbe appunto le opinioni degli astrologi in quanto detraggono all’ una ed all’ altra. La lettera dell’ Ivani è anteriore a cotesta data, e in quel tempo non aveva per anco alcun rapporto d’ amicizia con il Ficino. Egli pure si fa la stessa obbiezione. — « Adunque, dirà chi vuol più oltre sapere: l’uomo razionale è aiutato da Giove e incitato da Marte. Si risponde che 1’ influenza de’ pianeti non genera necessità, nè violenza, ma incitamento ne’ corpi vitali e nei sensi corporali. E quantunque sia grande congiunzione e amicizia fra il corpo e la mente, nientedimeno sono in tal modo differenti, che la mente è eterna e il corpo è caduco. E può essa con facilità conservar sè e il corpo in virtù , intervenendo 1’ aiuto del benigno pianeta ». Lo stesso può fare, sebbene con più difficoltà, se il pianeta non abbia influsso propizio. « Il perchè è da tenere per ferma conclusione, che ognuno volendo possa far bene » — ossia che ogni uomo è dotato di libero arbitrio — « e qualunque adopra il bene in maggior difficoltà, certamente è di maggior virtù, perchè la virtù nelle cose ardue, più che ne le facili consiste ». — Seguono gli accidenti che recano impedimento all’ osservanza della virtù, e poi si dilunga in molte distinzioni, che mi par bene omettere. In complesso 1’ argomentazione verte sui sette peccati capitali , uno dei luoghi comuni del medio evo. Ma sì per questi, come per le inclinazioni naturali, egli giunge sempre alla stessa conclusione : « che la mente non è sottoposta ad alcuno di questi naturali incitamenti, essendo infusa dal superno autore e discesa di più alto grado che non sono gli elementi nè i pianeti ». — Il dissidio tra lo spirito e la materia non è scomparso nell’ Ivani, e questo è per lo meno degno di nota sullo scorcio del secolo. Il corpo è sempre la parte reietta, di perenne ostacolo all’anima im- 4 32 GIORNALE LIGUSTICO mortale infusa da Dio, che « non fa l’officio suo per il contrapposto di questa humana contagione ». La terra, se non è più un luogo d’esilio e di macerazione, è però la sede di una felicità brevissima e pericolosa, sicché sollevandoci dai fragili desideri caduchi dobbiamo attendere alle speranze immortali. E noi potremo avere del sempiterno autore di tutti i beni, la conoscenza che è possibile nell’ umana vita, se rimoveremo da noi la superfluità de’ sensi e dei disordinati appetiti. « O grande temerità di coloro che dicono essere il mondo senza autore, fatto a caso ! o stolta opinione d’ alcuni altri che dicono Iddio stare in ozio e non curare... Iddio è anima dell’ eternità, F eternità anima del mondo, il cielo anima della terra » (i). Così che ricadeva senza avvedersene nel panteismo che era nell’ aria del sec. XV. Malgrado siffatto concetto della vita, è possibile tra gli uomini la felicità ? Sì, se essa si' cerchi nel sapere e nella tranquillità dell’ animo consapevole del dovere compiuto, non già nelle « esquisite delizie sensuali per cagion delle quali l’avara e quasi sommersa Italia poco si avvede del futuro suo male » (2). Sì se Γ i-deale della felicità non lo si cerchi nel ricco porporato, che serve solo al ventre e corre dietro alle libidini. E cori amara ironia aggiungeva: « λ uoi tu escludere dalla numerosa turba desìi avari, e dei solleciti di beni temporali cotesti pileati D ' ed infulati ed altri cotali, siccome gente beata per le dignità, gli onori, 1’ opulenza ed ogni genere di piacere ? Certo sì, se tu giudichi cogli occhi della plebe. Ma se tu miri più addentro « intelliges voluptuosam plebem iudicia sua in concilio pecudum didicisse ». « Quante ferite secrete ! quanti corrucci e odiosi competitori, quanta ambizione e frodi e in- (1) Ms. II, c. 34 e segg: Della possibili cognizione dell’ onnipotente Iddio e della contemplatione salutifera dell’ anima procedente da esso. (2) Opusc. cit. loc. cit. \ i GIORNALE LIGUSTICO 433 vidia e ansietà! Quanti infine strali avvelenati, quante spade crudeli! Ma giova meglio star zitti. Che diro dunque ί Non peccano no, cotesti uomini, non si crucciano . . . ma avvolti nella lunga stola sono difesi da ogni dolore » (i). Già abbiamo veduto che Γ Ivani non sempre pigliava quest accento di austera indignazione : egli anzi, figlio del secolo , aveva desiderato di trovarsi confuso tra questa turba di letterati paganeggianti. Roma era il sogno di tutti i dotti del secolo XV, un grande centro letterario, la conservatrice delle gloriose memorie dei padri nostri. E l’Ivani lo confessa candidamente a Donato Acciaioli, nel punto stesso che gli narra uno dei mille aneddoti che caratterizzavano la Curia romana. « Un cittadino faentino recandosi a Roma s’ imbatte in Viterbo nello stesso albergo con un vescovo, che honorifice s’affrettava alla sua sede in Francia. Lo guarda ammirato e riconosce.... che era quello stesso servo francese il quale egli aveva tenuto presso di sè per un triennio , uomo di ingegno ottuso e quasi scemo. Gli corre incontro il faentino: Qual Dio ha potuto eleggerti vescovo, o pazzo ? Non ricordi le tue mentecattaggini per tutto il tempo che fosti con me? Io che ti credevo indegno anche d’ esser servo, ora mi tocca con stupore vederti vescovo ! — Allora il servo mitrato gli stringe Γ occhio, ed ammiccando gli accenna a gesti di star zitto. Trattolo quindi da parte gli raccomanda di nuovo il silenzio, e famigliarmente narra per quale fortuna egli era riuscito a passare, presso gli ignoranti suoi connazionali, per illustre e sapiente. Io, conclude Γ Ivani, non vorrei essere altro se non scrittore apostolico (2). Altrove abbiamo accennato ad un aneddoto narrato dal Leostello degno di figurare tra le facezie del Poggio. Si trattava di un prelato eh’ era riuscito ad (1) Ms. II, c. 126 verso. (2) Ms. 1, p. 134. Giorn. Ligustico. Anno XII. 28 _ \ 43+ GIORNALE LIGUSTICO ingannare sul conto suo anche Eugenio IV, quello stesso papa che diceva in tutto il suo pontificato aver eletto tre soli pielati di cui la coscienza non lo rimordesse (i). Ritorniamo αΐ tema. Anche dallo scarno riassunto che ne ho fatto, il lettore può facilmente aver capito che in tutte queste trattazioni di filosofia morale, Γ Ivani aveva l’occhio rivolto, come da discepolo a maestro, verso il Ficino. E la sua dipendenza dal filosofo fiorentino era confessata da lui, quando nell inviargli 1 opuscolo sulla fortumi gli scriveva « il dono essei motivato non solo dal desiderio del suo sapiente giudizio, ma perchè da esso, come dalla fonte di Platone, aveva desunte le ragioni dell’ opuscolo » (2). Tuttavia egli non entrò in commercio epistolare col Ficino se non dopo il /6, durante il suo soggiorno a Pistoia. Rimangono di lui parecchie lettere in risposta a quelle del Ficino all’ I-vani, che si leggono nel copioso epistolario del primo. Versavano, come è facile immaginare, sopra gli argomenti filosofici graditi a Marsilio. Dopo una prima adhortatio ad scribendum del nostro umanista, il Ficino, facendo buon viso alla preghiera del suo ammiratore ed amico, gli risponde ragionando del sommo bene, che era allora argomento di moda, come anni dopo, quello sull’ immortalità dell’ anima per merito del Pomponazzi, e gli dà notizie della grand’ opera in diciotto libri cui aveva messo mano : Theologia platonica de immortalitate animarum. L’Ivani sollecita l’illustre amico a fargliela conoscere: « Afflictamur hoc tempore ferventissimo aestu, quem, ut spero, poterit ipsa lectio lenire. Rogo illam mittas, brevi restituetur » (3 ). Bisogna però osservare che (1) Vespasiano Fiorentino, op. cit., pag. 172. L’aneddoto fu testualmente riprodotto dal Neri, op. cit., p. 132. (2) Ms. II, c. 129, verso. (3) Ms. II, c. 130 verso, lett. di Pistoia 10 luglio Π77 GIORNALE aiGUSTICO 435 il Ficino scrivendo di queste sue opere agli amici non mandava che 1’ argomento ; sicché la lettera dell Ivani, che è del luglio *77, conferma anche la congettura del Galeotti (i), il quale credeva poter assegnare alla 7 biologia platonica senza andar lungi dal vero, l’intervallo di tempo dal '75 all’80, come data probabile della sua redazione. Nella corrispondenza epistolare col Ficino, Γ inclinazione mistica dell’Ivani, appena rintuzzata dai negozi, ritorna a far capolino. Il libro fattogli recapitare sull’ amore, gli mette nel-1’ animo delle aspirazioni da asceta. « La vera libertà consiste nella vita contemplativa. Io fieramente accuso questo nostro stato secolare, che è poi null’altro se non un’estrema servitù. La vita claustrale, che è per il sapiente libertà grandissima, non solo mi piace, ma se fosse lecito, mi sceglierei ». — E ritornava anche la selvatichezza dell’ umanista, che ascrive a peso i legami famigliari. Meno male che il buon Marsilio, canonico com’ era e carico di nipoti, maschi e femmine, molesti parecchio, aveva scritto le lodi del matrimonio. « Io, per esempio, continua l’Ivani, sembro padrone e signore in casa mia. Follie : io sono servo di tutti coloro che ci vivono. È d’uopo ubbidire alla moglie, ai figli, alle fantesche, che desiderano e vogliono molte cose pertinenti o al vestimento 0 al vitto. Provati a dir di 110 : la casa è piena di querele. Nè tutto questo si può procacciare senza faticosa industria del disgraziato che presiede al governo della famiglia. Siamo dunque costretti a invigilare , darci a raggiri, ingolfarci in mille contese, correre le terre e i mari, visitare genti ignote per amor del guadagno, succhiarci in pace gli zotici 0 dappoco, e paventare i potenti. Cotesta è odiosa serVitù, vita misera, piena di ansietà e di pericoli » (2). Pare (1) Galeotti, op. cit., loc. cit. (2) Ms. II, c. 131 verso. 43 6 GIORNALE LIGUSTICO strano che alla vigilia delle invasioni straniere, di tanti furiosi eserciti correnti e ricorrenti cotesto giardino d’Europa, le Dispute camaldolesi trovassero un’ eco così vivo nel cuore del povero umanista. Ma era appunto lo stato sociale in balìa di una perpetua violenza, che faceva sentire il suo doloroso contraccolpo sopra uomini non nati alla lotta. Fra tanti sia-diatori della spada e della penna, come non abbandonarsi in qualche ora all illusione di una legge divina e incontestata, una legge di amore che governasse tutti i viventi? « Ad ogni modo, egli conclude, sian rese grazie a te, ottimo Marsilio, da cui ho imparato ad amar meglio. Amerò in questa servitù del secolo , come e quanto meglio potrò ». Il male è che sull esempio del suo illustre modello faceva anche troppa parte alla superstizione dei sogni. Il sogno che racconta a Clemente Bonifacio d’Arcola ha un certo apparato fantasioso che piace e colpisce (i). Certo è curioso intendere i motivi che lo inducono a prestarvi fede, perchè si dimostra una volta di più il consertarsi di elementi disparati, onde si venne componendo quel maraviglioso edifìcio d’ ordine composito che è il Rinascimento. Eppure l’impressione che lascia nell’animo se non armonica, è però audace e nuova, simile a quella che ci è data dalla torre di Arnolfo. A tale arte, tale vita. I sogni, segue 1’ Ivani, sono credibili e sapete perchè ? perchè tutta l’antichità vi ha creduto, perchè molti esempi lo attestano, e qui ce ne regala una sfilata tolti tanto dalle storie profane che dalle sacre scritture. Per altro, a preferenza di tutti gli altri, è il sogno di Scipione col commento di Macrobio, che sta presente alla mente dell’erudito mentre scrive il suo. Ma quanti nuovi elementi non sono entrati nella visione del Quattrocentista ! Il cittadino mentre tratta con (i) Ms. II, c. no recto. Documento Vili. GIORNALE LIGUSTICO 437 prudenza romana i negozi della repubblica , vede avanzarsi dallo sfondo della piazza una processione di salmodiami che chiamano a penitenza , vede le turbe prostrarsi atterrite dinanzi al miracolo : erano pure gli stessi sentimenti che stavano per cosi dire raggomitolati dentro di lui, nò discussi, nè contraddetti; un misterioso terrore lo invade, il ghigno muore sulle labbra e s’accoda anch egli alle compagnie dei disciplinati e mortifica la carne ribelle, per sorridere forse di nuovo domani, qnando il fulgido sole avrà messo in fuga le ombre del mistero. La lieta vita di cui ci hanno lasciato memoria i novellieri viene respinta come peccato, e nel mistico accoramento s invoca la soave madre dei tribolati con 1’ affettuosa pietà onde l’invocavano i lau-desi. Sentiamo l’Ivani. — « Dovresti, scrive Gaspare al figlio, dire ogni giorno qualche preghiera alla Vergine. E dessa soccorso grandissimo a quelli che in lei sperano, e io, per tacer d’altri, l’ho provato » (i). E qui narra come miracolosamente si salvasse da morte nel guadare la Magra. Il cavallo si era adombrato e rottasi la cinghia del calessetto, la sella su cui egli sedeva veniva trascinata senza riparo dalla impetuosa corrente. Ma la Vergine da lui invocata gli venne in soccorso, e la sella fu condotta a riva, ed anche il cavallo nuotando vigorosamente se ne ritornò poco stante presso di lui scuotendosi, come un cagnolino, l’acqua di dosso. Un’altra volta è un ponte che, in un viaggio da Piacenza a Lodi, sprofonda sotto i piedi del nostro umanista, sicché cavallo e cavaliere precipitano a rifascio nel fiume ; ma il cavallo lottando contro la corrente, trasse in salvo sè e il maiavventurato cavalcatore. Da siffatti pensieri di pietà e da stanchezza per il mondo era dettato l’opuscolo De (i) Ms. II, c. 95 verso GIORNALE LIGUSTICO temperamento victoriae et moderatione animorum (i). È superfluo riferirne il contenuto: versa sulla bellezza del perdono, sulla misura da imporsi ai propri affetti dopo la vittoria. H lo scriveva, illusioni di un’anima buona, nel gennaio del '79, poco dopo la tragica chiusa della congiura Pazziana, inorridito forse dal feroce incrudelire che i vincitori facevano sui vinti. CAPITOLO IV. Leggenda sulla distruzione di Luni In un codice membranaceo della Cattedrale di Novara esiste, siccome attesta l’Andres, una lettera dell’Ivani ad un tal Pietro Purità, che manca nei due codici Ivaniani. Ad essa va unita la versione recata in latino per suo studio di una storia in rime volgari sull'eccidio di Luni. La lettera al Purità manca, come al solito, di data, ma deve ragionevolmente insieme all* opuscolo riferirsi a quel periodo di tempo, che egli visse in Sarzana dopo il suo ritorno da Volterra, ossia dagli ultimi mesi del *71 a quasi tutto l’anno '76. Il Berto-loni se ne procurò una copia, pubblicata in appendice alla sua compendiosa Vita dell’Ivani (1), e da esso opuscolo, non facilmente reperibile, io la estraggo per comodità del lettore. Mi si consenta l’innocente illusione di credere, che alcuno dei lettori m’abbia voluto accompagnare fin qui. La narrazione, continua a dire l’Ivani all’ amico Purità, fu da me rinvenuta in un libro di storie volgari, delle quali dicono essere stato autore un tale Leonardo Padovano : — « auctorem . . . aiunt Leonardum fuisse Patavinum ». Se è (1) Ms. II, c. 150 recto. (i) Pag. 22 e segg. Documento IX. GIORNALE LIGUSTICO 439 lecita una congettura, il perfetto usato dall’ Ivani potrebbe forse essere indizio che Leonardo era morto quand egli prese a tradurre il racconto, e che altri aveva raccolte in un volume le storie citate per amore del leggendario e del maraviglioso. E probabilmente cotesto Padovano era uno dei molti ignoti cantori popolari, che succeduti ai cantores francigenarum andavano nel sec. XV sostituendo alla leggenda miracolosa il racconto cavalleresco o la novella fantastica, avente però una maggiore attinenza co’ fatti della vita contemporanea. Non mancavano al fondo epico cristiano di consertarsi anche gli avvenimenti del mondo latino, in un paese dove la tradizione classica non venne mai meno, e molti ricorderanno l’accenno che ne fa il Pontano nel suo Antonius. Un cantastorie, preceduto da un trombetto, sale sopra un poggio e recita la descrizione di una battaglia tra Pompeo e Sartorio, e il popolino strabilia, come un altro giorno avrà riso, nell’ udire i fatti del dabben re Carlotto o Carlone , secondochè piaceva a’ poeti di nominarlo. Un altro consimile esempio ci è fornito dallo stesso Ivani, laddove accennando alle lussuriose dcHcie- di Cleopatra, aggiunge che se ne suole in rima pubblicamente cannare (i). Altre volte era la leggenda sacra, che le tendenze più scettiche del secolo spogliavano del miracoloso, per restringerla entro i confini della rigorosa realtà. Così alcuni anni prima Bartolomeo Fazio voltava in latino una vecchia historia quae ab indocto homine, nescio quo, inepte atque incondite litteris tradita fuerat. Era la Pulzella d’Inghilterra, rimaneggiamento di una diffusa leggenda che si immette nel grande ciclo europeo della fanciulla perseguitata. Nessuna meraviglia dunque che da quella leggenda sulla distruzione di un’illustre e antica città quale fu Luni, il poeta popolare traesse un canto epico, essendo questo un fatto costante. L’Ivani poi invaghito da una (i) Ms. II, c. 40 recto. 440 GIORNALE LIGUSTICO cei ta gravita di dettato, e sospinto da carità della patria, mette in vii prosa quelle rozze rime, ma in quella lingua che sola era accetta ai dotti, che sola poteva salvarle da un rapido oblio. Ora che dobbiamo noi pensare di questo racconto? Ha esso un valore storico, ovvero è interamente romanzesco ? Il sig. ab. Delarc è, tre anni sono, ritornato sulla quistione in un suo scritto : Les Scandinaves en Italie (i). In esso 1 autore riprende in esame gli storici Dudone da S. Quintino e Guglielmo di Jumièges, la cronaca dei quali risale all’XI e XII secolo , e due scrittori di versi di romanzi, che ripro-produssero o amplificarono Dudone o Guglielmo, Roberto Wace poeta normanno del XII secolo, e Benoit poeta anglonormanno del secolo XIII (2). Dopo aver cercato di stabilire, tra le varie opinioni controverse, 1’ età, le imprese, il carattere del famoso tari dei danesi Ragner Lodbrog, per cui si vale di due saghe impresse nella collezione di E. J. Bjaerner e dei risultati a cui pervenne Steenstrup (3) , egli passa al minore fra i numerosi figli del famoso iarl, ossia a Bjaern Jemside, che in lingua danese significava /’ orso della costa di ferro. Bjaern Jemside giovanissimo abbandonava nell’ 850 la Scandinavia , avendo per protettore e consigliere, datogli dal padre, il famoso Hasting. Dall’ 850 al 859 coteste bande di normanni desolano le valli della Somma, della Senna, della Schelda. Nel 859 e 860, secondo gli Annali di Saint-Bertin, avendo superato le colonne d’Èrcole, esse occuparono per (1) Revue des questions historiques, 1.° gennaio 1882. (2) Dudon de Saint-Quintin , De moribus ei aclis primorum Normanniae ducum apud Duschesne, Historiae Normannorum scriptores antiqui, Paris 1619. — Guillaume de Jumiéges, Historia Normannorum, ap. Duchesse loc. cit. — Robert Wace, Roman de Rou et des ducs de Normandie, Pluquet, Rouen 1827. — Benoît, Chroniques des ducs de Normandie, Francisque Michel, 1837. (3) Per queste fonti cfr. Delarc, art. cit. loc. cit. GIORNALE LIGUSTICO 441 lungo tempo Γ isola della Camargue alla foce del Rodano. — « Selon toute probabilité ce fu aussi pendant le séjour dans le delta de la Camargue que Hasting organisa l’expedition qui, dans sa pensée, devait lui livrer Rome et lui permettre d’y faire couronner empereur son royal poupille Bjaern Côte de fer ». 11 Delarc riporta tradotto il racconto di Dudone, che nella prima parte, non ha notevoli diversità da quello datoci in latino dall’ Ivani, se non che forse il racconto di Dudone è più drammatico. Non è omessa la finta morte di Hasting, la simulata pompa funebre, il seppellimento, che per l’Ivani è nel tempio, in Dudone è nel monastero di Luni. E finalmente dopo aver riempito ogni cosa di sangue e di lutto, specie quando Hasting seppe che la città da lui presa non era Roma, i pirati ricchi di prigioni e di prede, rivolsero, dice il decano di S. Quintino, la prora verso la Francia. La chiusa nell’Ivani è molto differente, ma sulle conseguenze, a mio parere, ragionevoli che da cotesti divarii si possono dedurre, ritorneremo altrove. Guillaume de Jumièges, Roberto Wace, il Benoît, e parecchi cronisti dei duchi di Normandia hanno ripetuto il racconto di Dudone amplificandolo, ma senza Γ aggiunta di nuove circostanze. Tuttavia un episodio degno di osservazione, che si legge nel Benoît e nel Wace , è taciuto da Dudone. Ecco che cosa scrive a tal proposito il Delarc — « L’un des manuscrits de l’ouvrage de Dudon, celui qui est à la bibliothèque de Rouen, port à la marge en face de ce passage une note importante et fort ancienne; elle est ainsi conçue: « In vigilia Nat(ivitatis) contigit ead... puer accepta... primam lectionem (legere) non potuit, sed proph(etizando) dixit: ad portum V(eneris) calandre ; unde a..., et populus miserunt exploratores s... legerat inven(erunt) ». L' episodio che qui trovasi mutilo, si legge invece per disteso nel Wace e nel Benoît. Quest’ultimo nell’ottonario allora popolarissimo 442 GIORNALE LIGUSTICO in Francia scrive: « Mais or oiez une merveille — As matines del evesquié — Fut ajusté tut le dergié — lit li poples de la cité — Cum si grant sollempnité — Et si cum j ai la chose oïe — A la première profecie — Qt'e de-veit lire le clerzon — Qui pris avait beneiçon — Del eve-sque demeinement — Dist par treis feiz tant solement — « Cent nefs ariva , ces m’est vis — Er seir al port de Veneris » — Ceo lut treis feiz od tant se tut, — Ceo qu’il meismes lut ne sut — Mult li tindrent à grant merveille; — L’un d’els à l’autre le conseille: — Qu’est ceo qu’espeant, que segnefie ? — L’evesque a la merveille oïe — Tuz en fu enfin esbaiz — E pur estre en certain e fiz — Enveie al porte e à la mer — Pur si faite chose esprover — Cil virent la flote al rivage — E tante nef e tante barge, — Dunt mut furent espoentez » ecc. Come si spiega la nota marginale nel manoscritto di Rouen? È dessa di data anteriore alle opere del Wace e del Benoit, ovvero ne è il riassunto in latino. Il Delarc non scioglie la difficoltà : « Une seule chose, egli osserva, « parait certaine, c est qu elle n est pas le fait de nôtre auteur, soi qu’il ait rejeté, soit plutôt qu’il ait oublié ce détail. Evidemment il a du exister en dehors du récit de Dudon une version de cet événement, qui intéressait à un haut degré la curiosité populaire ». Per il Delarc diventa quindi verità dimostrata, e il racconto di Dudone sulla distruzione di Luni e Γ episodio del chierico di sopra riportato, tanto dimostrata che non dubita di concludere: in cambio di aver seguito nel suo studio gli avvolgimenti capricciosi di una leggenda, credere egli di aver narrato uno dei fatti più curiosi della storia medioevale. Ma per il Delarc, se io ho ben compreso l’ordine della sua dimostrazione , il racconto tipico fondamentale da cui scaturiscono i posteriori rimaneggiamenti, è quello di Dudone, e io temo molto che posta in questi termini la quistione, i suoi GIORNALE LIGUSTICO 443 argomenti svelino a prima giunta il loro punto vulnerabile. Dudone non merita più fede di quella che è dovuta ad uno scrittore di romanzi ; egli, parlino per me i padri Mau-rini, « a fait réellement dans le civil ce que les légendaires avait déjà fait dans l’ecclesiastique.... et il n’y a pas plus de fonds à faire sur son histoire, que sur la Théohonie d'He-siode et l’Iliade d’Homère » (i). Eppure uno scrittore siffatto diventa' testimonio del tutto credibile per il Delarc, malgrado avverta egli stesso essersi nel medio evo attribuita almeno a sette altri Normanni la stessa frode, per arrivare ad un uguale risultato. Era questa tale circostanza da impensierire anche i più intrepidi, e difatti una giusta diffidenza critica si affaccia alla mente dell’autore. Egli si chiede: « Si plusieurs de ces exploits ne sont pas immaginaires, et s’ils n’ont pas été racontés uniquement pour prouver que tel héros réalisait le type de l’homme de guerre normand, la ruse unie à la bravoure, et certainement pour quelqu’un de ces faits la réponse doit être affirmative ». Ma il Delarc appartiene alla specie degli uomini, che non sanno togliersi tanto facilmente ad un forte amore concepito. Egli è innamorato di Dudone, o piuttosto è invaghito della sua tesi, e si sente per conseguenza disposto a negare la storicità degli altri sette racconti, purché non si tocchi quello del decano di S. Quintino. Le ragioni poi per le quali gli si avrebbe a prestare cieca fede eccole brevemente : Dudone per la sua antichità ha la precedenza sopra tutti gli altri cronisti o in prosa o in rima che han fatta menzione della stessa trode. Poiché egli scriveva intorno al ί ο 15, è anteriore anche a Saxo Gramatico scrittore del-Γ XII secolo, anteriore alla redazione della Heimskringa di Snorri Sturleson, il quale nacque non prima del 117S. Snorri Sturleson grammatico islandese raccoglieva sul principio del (1) Hist. litter. de la France, Paris 1746, VII, 236 e segg. 444 GIORNALE LIGUSTICO secolo XIII nell’ Heimskritim una serie di soglie storiche, ο O estratte da quattordici scrittori antecedenti, e che formano un corpo di storia fino al 1178. Fra esse trovasi anche la saga di Haral Haardraade, un principe normanno che nel secolo XI, ossia, ci badi il lettore, intorno al tempo che visse Dudone, si vale dello stesso inganno per impadronirsi in Sicilia di un castello musulmano. Il principe Harae Haardraald, scrive lo stesso autore, « è un personaggio vero, ma le sue imprese sono così fantastiche, che lo storico dura molta fatica a ritrovarsi in quel dedalo ». Ciò è quanto dire, che la frode attribuitagli in Sicilia, non ha maggior fondamento di quel che ne abbiano i voli della fantasia. Ma questo poco importa, continua il Delarc, perchè tutti costoro, e gli altri che vengono dopo in ordine di tempo, non han fitto se non copiare da Dudone. V eramente egli non dice proprio così, ma cosi e non altrimenti deve inferirsi dal suo studio per legittima illazione. Viene come secondo argomento, la variante del chierico di Luni, alla quale il Delarc annette molta importanza. Il trovarsi ivi annunciato P arrivo della flotta di Hasting a Porto Venere, prova egli dice, che questa tradizione « fondava sopra dati storici del tutto soddisfacenti ». Per verità a me questo pare niente più che un dato geografico, ed inoltre il fatto del chierico proverà, se si vuole, che ci furono ncll’860, come dice il Delarc, o prima 0 dopo, come dicono altri, delle scorrerie di Normanni in Italia e nella Lunigiana segnatamente, ma non prova punto che la frode di Hasting abbia fondamento storico. Che poi cotesta esattezza geografica si trovi in due poeti, l’uno del sec. XII, l’altro del XIII, non può fare nessuna maraviglia, perchè a quel tempo le marine d’Italia, per le imprese dei Normanni in Sicilia e su quel di Napoli, dovevano essere assai bene conosciute. Ma non c’ è neppur bisogno di risalire al Benoit ed al Wace. Gli Ammìes GIORNALE LIGUSTICO 445 Bertiniaui, che sono più di un secolo anteriori a Dudone e non parlano di leggenda , pure nella loro sommaria indicazione sono abbastanza esatti (i). E la notizia inserita nel codice Pallavicino posseduto dal Capitolo di Sarzana, importante documento ignoto al Delarc, lo è anche più. Eccola riprodotta nella sua integrità i « Aiemorict de civitcìte Luncie et ems destructione. In diebus illis venerunt Daci sive Dani de Scitia duce Rollan. Et subiugaverunt sibi totam Neustriam quam Enor-maniam appellaverunt vocabulo composito ab his duobus nominibus : Nort quod sonat septentrio et man quod sonat homo. Sed et Britaniam minorem et multas alias regiones in regno francorum depopulati sunt. Universas ecclesias destru- (i) Sotto l’anno !i6o dicono: « Dnnì qui in Rhodano fuerant, Italiam petunt et Pisas civitatem aliasque depraedantur atqje devastant ». La Cronaca Turonense così fa cenno delle scorrerie normanne e del saccheggio di Luni : · Et eodem anno, regnantibus in Lotharingia Ludovico filio Louirii et Lothario minore, Dani Flandriam venientes S. Quin-tinum et urbem Suessioms et Parisius cum adiacenti terra destruxerunt et combusserunt et S. Genovefae Parisiensis ecclesiam cremaverunt. Quo facto, Turaniani redeunt, regionem concremant, Andegavim urbem obsident et oppugnant. Quos Carolus Calvus adunato exercitu viriliter insecutus, auxilio Salamonis regis minoris Britanniae, Andegavium obsidet et impugnat. Cumque Dani diversis assaltibus lacessiti venire ad deditionem compulsi fuissent, Carolus rex , invito exercitu, a Danis recepta pecunia eos abire permisit, sicque Hastingus per pelagus Italiam rediens , Lunam civitatem cepit et ibi remansit et factus est Carolo ex inimico amicus ». Chron. Turonen. ap. Martene et Durand, Vet. script, et Mo-iiurn. Hisi. Colteci. V, 967. 1£ finalmente il monaco Ugo Flaviacense : « Dani piraticam exercentes, duce Astingo Franciam invaserunt et unde Rex Carolus cum prefato tiranno foedus pepigit ; quo foedere securus Astingus a Francorum terra per oceanum pelagus Italiam tendens, Lunae portum attigit et ipsam urbem continuo coepit ; qua potitus per numerosa armorum curricula ibidem deguit et regi familiaris factus est ex inimico amicus ». Ugo Flaviacense scriveva intorno al 1000; l’autore della Cronaca Turonense dopo l’anno 1052. 446 GIORNALE LIGUSTICO xerunt, sed et Lunam Tusciae civitatem in diebus ilhs tissimam penitus everterunt, putantes ut dicitur quod illa esset Roma. Et inde reversi in Francia, tandem cum Karulo Simplici confederati sunt. Anno ab incarnatione Domini y 12. Haec histoiia seu Crunica exemplata fuit ex archivis historiarum et antiquitatum ecclesie Sancti Dyonisii parisiensi de Francia » (1). Non credo che si vada di molto errati attribuendo questa notizia ad un monaco della famosa abbazia di S. Dionigi vissuto nel secolo XI, se pure non è d’ alquanto anteriore. L amalgama di fitti disparati, che sono tutti apposti a Rollone, dimostra che si era già lontani dagli avvenimenti, e 1 etimologia del vocabolo Normanni non pare prcoc- (i) Trascrivo da una copia ms. esistente nella Biblioteca Comunale di Sarzana, estratta nel 1832 per cura del Prof. Antonio Bertoloni, come egli dice, esattamente dal citato codice. Il Landinelli, il De Rossi, il Muratori (Antichità Estensi, toni. I, parte I, cap. XXVI) dichiararono il Pallavicino, ras. autorevole e credibile. Di esso, cosi il'Semema (■Secoli Cristiani della Liguria, lib. III) : — ® Cominciato nel secolo XII, è ripieno di autentici e preziosi documenti e conosciuto sotto il nome di Codice Pelavicino o anche Pallavicino. Vien detto così da Oberto Pelavicino, vicario generale della Lunigiana che cessò di vivere nel 1147- Fu accresciuto ed ampliato per opera dei vescovi Lunensi ed in modo specialissimo dal vescovo Enrico da Fucecchio promosso alla chiesa di Luni-Sar-zana l’anno 1273. Venne poi autenticato da Innocenzo VIII1’anno 1485, come appare per suo Breve». Quando nel 1866 il Bertoloni pubblicava in Bologna (op. cit. edi{. cit.) la vita dell’Ivani, non doveva più aver in mente la notizia del Codice Pallavicino, perchè accennando alla lettera dell’I-\ani al Purità e alla distrutta Luni esce in queste parole: « In tabulano Capituli Lunensis Sarzanensis extat codex membranaceus qui fert Chro-nicon Imperatorum Romanorum ab Augusto ad annum 1251, et Pontificum a Beato Petro ad annum 1248. In hoc habetur tantum quod anno DCCCXIIII Saraceni devastarunt Italiam et anno DCCCLXXIX, Dani Galliam invaserunt. Nulla mentio in eo fit de Danis vel Normannis qui Lunam occupaverint et devastaverint, aut deleverint, neque credibile est, sci iptorem chronici lunensis de re tam insigni silere voluisse ». GIORNALE LIGUSTICO 447 cupazione di un contemporaneo al loro primo entrare nella Francia. Il ricordo che durava più vivo nella mente del monaco cronista, si capisce che era il trattato concluso nel 912 tra Carlo il Semplice e Rollone, per cui è permesso congetturare ch’egli non dovesse vivere di molti anni più tardi. Questa è difatti la data eh’ egli assume come decisiva per contraddistinguere tali avvenimenti, e ad essa intorno raggruppa incendii e stragi commesse assai prima, ma delle quali tra i suoi monaci doveva durar viva la memoria. Anche il codice Pallavicino adunque, come la Cronaca Turonense e gli Annali Bertiniani, mettono fuor di dubbio le devastazioni normanne in Italia. Anzi il primo ha un’esattezza di indicazione che pare perfino sospetta, a tanta distanza dai luoghi da cui scriveva il monaco autore della notizia. Quanto poi al penitus everterunt, io vorrei che si tenesse conto della fantasia che ingrandisce sempre gli avvenimenti lontani. Ma insomma della frode di Hasting neppure qui c’ è il menomo indizio : e ci tocca pur sempre ritornare come a fonte prima a Dudone. Parrebbe quindi che l’Ab. Delarc non fosse fuor del vero, accettando per irrepugnabile storica storicissima la narrazione di Dudone. Se non che, e qui comincia il guaio, l’unico suo merito si riduce a quello di esser nato un po’ prima degli altri, merito come si vede di un’ importanza molto mediocre. Difatti da quali monumenti storici investiga le notizie del passato il vecchio cronista? Nessuno lo sa, se non che sottentra qui, autorità molto discutibile, il conte d’Ivry. Per confessione dello stesso Dudone, confermata da Guglielmo di Jumièges che riassumeva da lui, lo storico dei Normanni non ebbe altra guida nel suo racconto, se non ciò che sentì dalla bocca del conte di Raul fratello del duca Riccardo I. C’ è egli bisogno di molta penetrazione, per indovinare donde avrà appreso la fantastica impresa di Hasting il vecchio e credulo cavaliere? 44s GIORNALE LIGUSTICO * II. Eccoci quindi lanciati nell’aperto e vasto campo delle tradizioni leggendarie. Conviene tener a mente che ricorrono nell’età di mezzo idee, sentimenti, amori, odii, passioni comuni a un gran numero di uomini, intorno a cui si raggruppa talvolta tutto un ciclo di favole, che diventa così la espressione dello spirito medioevale, della realtà psicologica di quei tempi. Quindi anche la continua riproduzione di tipi simbolici, onde si diletta la fantasia di quei secoli, per esempio il demonio cacciatore, la fanciulla perseguitata, la suocera maligna e calunniatrice ecc. Si aggiunga a questo un incessante lavorìo di assimilazione, per cui il medio evo rinnova e traveste diversamente, secondo lo spirito de’ tempi, le reminiscenze pagane. Anche il Wesselofscky crede « al finto de’ vecchi miti, i quali rimasti da un lato stazionari e sconosciuti ne’ racconti popolari, passavano dall’ altro lato nelle leggende e nelle credenze del Cristianesimo, e successivamente nelle novelle e nei romanzi di cavalleria e via di seguito, trasformandosi conformemente alla nuova civiltà che l’antico simbolo e il linguaggio mitologico più non intendeva che come allegoria » (i). Ora nella frode che vediamo ripetersi con tanta insistenza nella storia del popolo normanno, l’idea dominante è infine la forza che si accompagna, per farsi meglio valere, all’ astuzia ; Aiace che diventa Ulisse, insomma la greca leggenda del cavallo di legno che Virgilio riprodusse da Aretino di Mileto. L’ antico mito conosciuto dai Normanni intorno al tempo (i) Wesselofscky, La figlia del re di Dacia, p. XI. GIORNALE LIGUSTICO 449 che essi si stabilirono nella Heustria e nella Bretagna , ossia nel secolo X, per successive assimilazioni e rimaneggiamenti è da credersi che si riproducesse così trasformato , come il conte d’Ivry lo raccoglieva dalla tradizione orale. E certo se la memoria di Edipo ha potuto durare viva e popolare tra le plebi medioevali, come ce lo attesta un rozzo canto edito dal Du Meril, nessuno troverà impossibile che giungesse molto lontano l’eco di una leggenda, la quale era stata cantata da Virgilio. Nè tra la simulazione di Sinone e quella de’ messaggeri inviati al conte di Luni , o tra un cavallo che si riempie ne’ vuoti fianchi di armati e una bara in cui si chiude un finto morto per gli estremi uffizi del culto divino, il divario è in fine tanto profondo, che la fantasia del medio evo non lo potesse superare. Non si dica per carità che Dudone avrebbe dovuto comparare le due leggende, e riconoscere l’insussistenza della seconda. Non sarebbe davvero un obiezione seria, se si tenga conto dell’ ingenuità critica in quel secolo grandissima, e della credulità tanto più grande di Dudone. Non vediamo noi forse venire parallele o quasi parallele al racconto del decano la saga di Harald Haardraade ? Questo rivela una tradizione largamente diffusa, in armonia colle tendenze fantastiche del popolo, che era venuto elaborandola. Non lusingava essa tutti i suoi istinti ; una pazza audacia nell’ affrontare il pericolo, 1’ avidità della preda , Γ astuzia che è preparazione al sangue ed alla strage ? Ma ciò appunto deve renderci guardinghi nell’ accettare più l’una che l’altra versione di una leggenda, in cui all’ idealizzazione di un tipo, quale era dato dalle tendenze popolari, non si congiungeva di storico che il ricordo di crudeli devastazioni compiute in una terra lontana. Resta ora a ricercarsi per quale via il leggendario racconto sia pervenuto in Italia. Bonaventura De Rossi che non ha ombra di critica, ma una certa importanza per i numerosi Giorh. Ligustico. Anno XII. *9 450 GIORNALE LIGUSTICO documenti da lui riportati nelle Collettame (i) di cui ci venne già fatta menzione, ha un racconto molto confuso dal quale per altro si ricava che un tale Luigino da Bibola, figli0 del notaio Guidone Lunense, trovandosi nel 1034 in Inghilterra s’imbattè in un Normanno che narrava molte cose sulle gesta de’ suoi connazionali, e da costui comprò un libro di negromanzia in cui fra 1’ altro leggevasi anche la leggenda al lettore già nota della rovina di Luni (2). Io non direi che il racconto un po’ romanzesco del De Rossi debba proprio tenersi come articolo di fede, ma d’altra parte egli era incapace di inventare la cronachetta manoscritta, che non solo ricorda, ma registra per intero nel suo zibaldone, ed inoltre abbiamo prima di lui un testimonio assai più autorevole e credibile, il quale ci attesta essere esistiti nella basilica sarzanese numerosi documenti, ora smarriti, sulla distruzione di Luni. È questi Giorgio Stella, il noto scrittore degli Annales Genuenses continuati dopo la sua morte, avvenuta nel 1420, dal fratello Giovanni. Luni vi è nominata per incidenza e la leggenda vi si ricorda, ma in modo cosi stronco, che non ci permette se non una congettura. La quale tuttavia non mi sembra infondata, perchè, dopo il ricordo della venuta dei feroci predoni a Porto Venere con un numeroso naviglio, la frase: dum proditionem patrassent, io non saprei che altro si volesse sottintendere, se qui non si parla della frode adoperata da Hasting. E sull’eccidio e sulla data di esso concorda del pari con le cronachette manoscritte : « ibi destructa ac spoliata (1) Ms. cit. c. 147 verso. Riassumo dal De Rossi colla maggior brevità. (2) «Inscripta memoria ... detulit quidam vir sapiens Dominus Luisi— nus quondam notarii Guidonis de Bibula, qui dum esset in Anglia anno Nativitate Domini nostri Jesu Christi 1034, invenit qucndam Normanum qui multum loquebatur de factis Normandiae et vendidit sibi librum in quo scripta erant plura et inter alia invenit scripta ea quae inferius denotantur ». GIORNALE LIGUSTICO extitit sub annis a Verbi nativitate DCCCLVII ». Frattanto ciò che non può esser dubbio, è l’avvertenza posta in fine, che lo scrittore apprese queste notizie da lettere esistenti nella basilica episcopale di Sarzana (i). La cronaca del da Bibola non è dunque un parto della accesa fantasia del De Rossi. Da essa si ricava un particolare per noi importante, ossia che il venditore del libro era un normanno molto bene informato intorno ai fatti della sua nazione. Non ci sarebbe il caso che il preteso libro di negromanzia non foss’altro se non la storia di Dudone? Si osservi difatti che la cronaca è del 1034, e il decano, secondo un ragionevole calcolo de’ Padri Maurini, già prima del 1026 aveva presentata la sua storia a Riccardo II e all’ amico Adalberone vescovo di Laon. La variante del chierico di Luni che si legge nella cronaca, e manca nello storico dei Normanni, non farebbe difficoltà. Non ci dice esplicitamente il da Bibola che il libraio normanno era copioso narratore di fatti, i quali avevano ad essere anche più romanzeschi del romanzesco racconto di Dudone ? La variante del chierico fu senza dubbio desunta dalla tradizione orale, per quella stessa via onde l’appresero il Wace ed il Benoît. Ed è notevole che la barbara latinità della cronaca , non (1) « Est enim oppidum Sarzanae nobile, quod quondam Lunae civitatis Pontificis et Diocesis sedem retinet. Ipsa quidem Lunae Civitas loco propinqua valde, ubi modo Sarzana videtur, portum habens quem Portum Veneris dicimus, advenientibus viris ferocibus, qui deversus Nor-mandiam et Galliam venerunt in exercitu navigiis copioso, dum proditionem patrassent, ibi destructa ac spoliata extitit sub annis a Verbi Nativitate DCCCLVII, quae aliqualiter reparata, iterum fuit per Lucanos destructa. prout extractae me docuerunt literae a Sarzanae Episcopali Basilica » (Annales, apud Murat., R. I. S., XVII coi. 1214). La confusione tra Luni, Lucca e i Lucani trovasi pure nella cronaca del da Bibola. 452 GIORNALE LIGUSTICO differisce nella sostanza dai rozzi versi del poeta normanno. Ecco il racconto del da Bibola : « Die nativitatis Domini nostri Jesus Christi et quando dicebatur officium in majori Ecclesia civitatis, media nocte quidam clericus legebat unam lectionem dicens tribus vicibus maximum navigium applicavit in portu Lunae et in Portu Veneris. Praelati vero et clerici qui erant ad dictum officium, clericum illum increpabant dicentes: Quid est quod dicis? Et clericus respondit dicens: Legi prout inveni scriptum in libro; et legendo postea librum nihil de verbis illis inveniebant, unde fuerunt fortiter stupefacti et cogitando super istis verbis dixerunt: Hoc non sine maxima causa esse potest ». Quand’ anche si potessero avere dei sospetti sopra la data che è attribuita alla cronaca, ciò non farebbe nulla alla nostra dimostrazione. Il documento originario (non teniam conto delle successive redazioni possibili) non poteva essere di molto posteriore al Wace, e per conseguenza rimane fermo il fatto che verso il sec. XI co-testa leggendaria tradizione nata nella Normandia, dove aveva maggior facilità di svolgersi, venne, importata in Italia, e accolta nella Lunigiana, che serbava il ricordo pauroso delle passate scorrerie normanne, e sentiva non cessato affatto il pericolo di scorribande future. Il grido delle loro devastazioni si diffondeva lungo le marine italiane insieme ai leggendari racconti, che usciti dalle nebbie fantastiche del nord, venivano a intrattenere i volghi della penisola. E la paura inspirata dalle prime, si mescolava alla ingenua meraviglia che suscitavano i secondi. Ne abbiamo un esempio nella curiosa confusione fatta dal povero notar Giacomo. Il buon re Artus diventava nella sua memoria capo e duce dei feroci pirati, « che volte più vennero in ytalia ad destrugere et guastare lo reame » (i). (i) Torraca, Stud. di Stor. Lett. Napolet., Livorno, Vigo 1884, p. 164 — « Et li Bertuni (Bretoni) foro ultimi distructuri de Roma et deitalia GIORNALE LIGUSTICO 453 La fantasia del nostro popolo non era creatrice in fatto di leggende. Viveva tenace nella coscienza italiana 1 amore della classica bellezza, sicché anche accettando il racconto epico, per quella curiosità infantile che contraddistingue il medio evo, non vi recava d’ordinario un’elaborazione propria ovvero studiavasi di trovare un addentellato, che lo ricongiungesse alla tradizione di Roma, la sola gloriosa, la sola possibile. Talvolta però, per quella comunione intellettuale che esisteva fra tutti i popoli europei, il fantasma della eterna città era evocato dagli stessi rozzi uomini del nord. Gli antichi Dei erano tramontati dal cielo latino, ma anche nelle nuove sorti il poeta e il credente potevano pregare che 1 almo sole non vedesse mai niente di più grande della città di Roma. E di essa, osserva Dudone, volevano impadronisi anche Hasting e il suo reale pupillo, perchè Roma era caput mundi, dimodoché la loro colleta scoppiò più violenta contro 1’ infelice Luni , quando s’ avvidero di aver scambiata questa con quella. I poeti vaganti e gli scritti italiani dovettero in breve propagare il leggendario racconto, non appena venne in cognizione de nostri. Il Landinelli dice espressamente di aver letto parecchie di simili cronache, tutte composte con latinità oltremodo bai bai a, e nelle quali soltanto si trovava la frode di Hasting taciuta dagli storici che vanno per la maggiore. Il De Rossi poi non è avaro di documenti nel suo zibaldone, e in una delle cronache registrate, il narratore sbriglia la sua fantasia sino a descrivere le bandiere inalberate sulle navi nemiche con i motti che recavano in fronte ; sconcia alterazione che venne ripudiata perfino dal poeta popolare o semi popolare, da cui et loro Re se chiamo Artus benché volte più vennero in ytalia ad destru-gere et guastare lo reame et conio lo havevano ben roborato et guasto senne andavano ricchi et questo fu ha molto tempo ». 454 GIORNALE LIGUSTICO traduceva in latino P Ivani. Che qui si tratti veramente di un cantare di piazza, mi pare sia dato riconoscerlo da certe varianti della leggenda le quali sono proprie del popolo. Ogni nozione geografica e storica intorno ai Normanni è sparita. È noto solamente che venivano dall’occidente, che ribellatisi ai Romani vivevano sotto il comando di un re o duce supremo ; cacciati dalle discordie fuor della patria, poiché già da molti anni avevano perduta l’abitudine del commercio, in mala voce presso i popoli vicini, si diedero alla pirateria. Percio si erano eletti due capi audaci ed astuti, con il cui soccorso i fatti loro procedessero meglio. Avevano nome Her e Divismarch. Non so indovinare donde il cantastorie si tolga il secondo nome ; per il primo la congettura è più focile, ove si osservi che Bjoern Jemside, il reale pupillo di Hasting, nella cronaca del da Bibola è trasformato in Lier, da cui per una probabile corruzione forse è originato Her. Astench (Hasting) non è che uno de’ maggiorenti — « vir maximae ambitionis et litteris admodum eruditus, qui apud Siculos aetatem ab ineunte adolescentia usque ad exactam ferme juventutem consumpserat ». Si potrebbe giurare che questa trasformazione e diciamo imbellimento del pirata, era tutta opera del rapsodo italiano, un riflesso della civiltà latina in confronto colla barbarie nordica. Hasting ai compagni che vogliono ritornarsene in patria tiene un discorso, che su per giù aveva ad essere quello di Dudone. L’Ivani poi traducendolo, e fors’anco guastandolo, si sforza di aggiungervi del colorito sallustiano, quando non ricalca addirittura i suoi periodi sopra quelli di Crispo Sallustio. Lo scambio tra Luni e Roma è conservato, ma poiché l’errore doveva parere un po’ grossolano all’ arguto buon senso de’ nostri volghi, il cantastorie si studia di chiarirlo con ragionevoli spiegazioni. Essi credevano « eam non ultra quatuor stadia a mari distare, ut ex inepta quadam navigandi doctrina perceperant ». GIORNALE LIGUSTICO Gli atti di più sanguinaria ferocia, commessi secondo Dudone contro la povera Luni, allorché i pirati si avvidero dell’equivoco, sono qui interamente omessi. Senza dubbio saltava agli occhi del rapsodo la stranezza di un fatto troppo inverosimile, ossia che i barbari per molti giorni avessero avuto così frequenti relazioni con i cittadini di Luni, senza avvedersi mai che quella non poteva esser Roma , distante dalla marina per diciotto e più miglia, assai differente dalla prima per la grandezza e per la maesta dei monumenti. Segue l’aneddoto del chierico. Ma il conte di Luni è sparito : il poeta ha davanti il comune sorto dalla tradizione romana del Municipio, e non sa trovar luogo nel suo racconto che al vescovo ed ai priori : episcopus et populi praefecti. Secondo 1’ usanza del buon tempo antico « erat urbs armis atque divitiis opulenta, neque factionibus ullis, neque seditionibus animi civium vexabantur », e tra sì fida cittadinanza piombava il terribile Hasting a riempire ogni cosa di lutto e di strage. Ma Γ eccidio di Luni non doveva rimanere invendicato : partivano i feroci ladroni onusti di preda , lasciando l’infelice città rovinata arsa e fumante; ma per poco ancora avevano a rallegrarsi della scellerata impresa, perchè innanzi di raggiungere il luogo donde si erano mossi « capti a Normandis, qui propter acceptam iniuriam ipsos famosa classe prosequebantur, condignas tantae sevitiae poenas luere ». Pur di cercare un vendicatore, il popolo non dubita di rappresentare i Danesi e i Normanni quali due popoli diversi. Come dovettero sollevarsi gioiose le rozze rime del rapsodo, quando cantava di Attila che smessa V insolenza dello sguardo cagnino dinanzi al re Giano se ne stava : .....con china faccia Perdon chiedendo con aperte braccia ! 4 56 GIORNALE LIGUSTICO E re Giano gli spiccava trionfante la testa dal busto (i). Ma nella traduzione dell umanista la tarda vendetta è appena accennata, foise smussando la vivacità drammatica introdottavi dal rapsodo, siccome sconveniente alla gravità dello storico. III. La leggenda di Hasting non è la sola che si connetta colla rovina di Luni. Havvene un’ altra che in cambio dello strepito dell’ armi corrusche cantate dalla saga normanna, narra di gentilezze e di amori non indegni di trovar luogo tra i cortesi cavalieri della tavola rotonda, se non che la chiusa è pur sempre ugualmente luttuosa, 1’ eccidio della città. Ricordata da altri che verremo man mano citando, cosi a mezzo il Cinquecento essa era brevemente riassunta dal geografo italiano Leandro Alberti : « Dicono alcuni che ella (Luni) fu per tal cagione rovinata; essendo signore di essa un gentil giovane e ritrovandosi quivi un imperatore con la moglie, e vedendolo tanto bello, s’innamorò di lui. Et havendo havuto assai ragionamenti insieme, trattarono il modo da dovere compire li suoi sfrenati appetiti; la onde finse la mala donna di esser morta et pertanto fu sepolta. Dopo essendo istratta dalla sepoltura dal giovane fu condotta a casa sua, et tanto fenno quanto ha-veano trattato, la qual cosa scoperta all’ imperatore, ne pigliò tanto isdegno, che incontenente fece crudelmente uccidere li due amanti et poi rovinare la città, come simigliantemente conferma Faccio degli Uberti nel VI canto del terzo libro (i) Attila flagellum Dei, poemetto in ottava rima con prefazione del prof. D’Ancona, Pisa, Nistri 1864. GIORNALE LIGUSTICO 457 Dittamondo » (i). Non è però vero che Fazio degli Uberti confermi tanto esplicitamente il leggendario racconto, opportunissimo, come il lettore può giudicare, ad essere trasformato in una novella borghese. L’Uberti, secondo la sua usanza, si sta contento a far intendere che una leggenda di questo genere ci doveva essere : Così parlando come il tempo piglia Vedemo quel paese a oncia a oncia, Verde Lavagna Vernatia e Corniglia. Lussuria senza leggi matta e sconcia , Vergogna e danno di colui che l’usa Degna di vituperio e di rimbroncia ; Noi fummo a Luni, ove ciascun t'accusa Che per la tua cagion propriamente, Fu nella fine disfatta e confusa. Il poeta fioriva verso il 1360: è ben chiaro adunque che intorno a questo tempo, una favolosa tradizione raffigurante in tal modo i casi della misera città era assai bene conosciuta nella Lunigiana. Il Depping rileva giustamente la curiosa somiglianza che passa tra questo racconto e la novella de’ Montecchi e Ca-pelletti, resa più tardi immortale dal genio di Shakespeare. E come quest’ultima, così anche la leggenda con tutta probabilità è di origine italiana. Lo ammette in modo implicito anche il Depping allorché osserva, che « le cronache nostre non parlano punto della presa di Luni per opera dei Normanni. Le tradizioni italiane sulla distruzione di questa città ricordano piuttosto il romanzo di Romeo e Giulietta, che non (i) Descrittione di tutta Italia di F. Leandro Alberti bolognese ecc., in Bologna per Anseimo Giaccarelli MDL p. 14. Il Declarc nel citare l’edizione, scrive per errore MDCL. GIORNALE LIGUSTICO la storia di Hasting » (i). Il divario profondo che passa tra Γ una e Γ altra, può essere da solo indizio dello stato psicologico del popolo che le ha dato nascimento. Conviene però notare subito che un rapporto importantissimo tra le due leggende c’ è, rapporto che forse può rischiararci il cammino fatto dalla seconda leggenda nella sua elaborazione. Di fotti sì Γ una che 1’ altra il lettore ha già capito che si fondano sopra una morte simulata, in grazia della quale la città finisce per rimanere distrutta. Ma dal feroce capo dei Normanni ad una regina innamorata c’è sempre un bel passo: vediamo tuttavia se non ci riuscisse scoprire il primo embrione di co-testa regina. Leggo nel Baronio che nell’ anno 1016 i Saraceni con forte naviglio presa Luni, pongono quivi la loro dimora e lanno violenza alle donne. Allora papa Benedetto arma buon numero di navi, e le spedisce contro i nemici di Cristo. Dapprima le cose riescono molto contrarie ai Cristiani, ma infine il re saraceno se ne fugge sopra una navicella seguito da pochi, e la regina fatta prigioniera, in pena della sua audacia è punita nel capo. Il tesoro di lei ricco di gemme se lo prende il papa, che manda all’ imperatore la sua parte, stimata del valore di mille libbre ecc. (2), Basterebbe consertare insieme la tradi- (1) Depping, Histoire des expéditions maritimes des Normands, Paris Pontbieu 1826, p. 167 e segg. (2) Annales Ecclesiastici, t. XVI, a. 1016 : « Annus Redemptoris millesimus decimus sextus , indictione decimoquarta sequitur , quo Benedictus Papa adversus Sarracenos , Ecclesiae litora invadentes, paravit exercitum, milites movit, quibus expugnati sunt ac feliciter debellati. Quomodo autem ista acciderint, ex Ditmaro sic accipias , dum res gestas sub anno decimosexto post millesimum narrat: « In Lon-gobardiam Sarraceni navigio venientes, Lunam civitatem, fugato pastore invadunt, et cum potentia ac securitate fines illius regionis inhabitant et GIORNALE LIGUSTICO 459 zione di una finta morte, che doveva essersi per opera dei Normanni largamente propagata in Italia, con il confuso ricordo di una regina fatta uccidere in Luni, per avere, mi pare, le prime e principali linee della leggenda. Il Villani poi le dà un’ intonazione, che è più da popolano grasso : « La città di Luni la quale oggi è disfatta fu molto antica.... fu poi disfatta per gente oltramontana per cagione di una donna, moglie d’ uno signore, che andando a Roma, in quella città fu corrotta d’ avoltero, onde tornando il detto signore con forza la distrusse, e oggi è diserta la contrada e mal sana » (i). Ma anche nel cronista fiorentino , o io m inganno o l’amalgama delle due tradizioni mi pare evidente; si osservi inoltre come i diversi elementi della leggenda si trovino piuttosto sovrapposti che compenetrati insieme, in un periodo che spero bene i linguai non proporranno per modello di stile. Se al Villani, all’ Uberti, al Petrarca fosse poi noto il particolare della morte simulata è impossibile argomentare. Anche quest’ ultimo nel suo Itinerario uxoribus incolarum abutuntur. Quod cum domino Apostolico , nomine Benedicto, fama deferret, omnes sanctae matris Ecclesiae tam rectores , quam defensores congregans, rogat ac praecipit, ut in inimicos Christi talia praesumentes, viriliter secum irrumperent et adiuvante Domino occidant. Insuper ineffabile navium multitudinem tacite praemisit, quae eis redeundi possibilitatem interciperet. Hoc Rex Sarracenus animadvertens , primo indignatur, et tandem paucis comitatus navicula periculum imminens evasit: sui vero omnes conveniunt et in adventantes prius irrumpunt hostes eosque mox fugientes (miserabile dictu) tres dies et noctes prosternunt. Respexit tandem Deus, gemitu piorum placatus, et odientes se fugavit et in tantum devicit, ut nec uno de his relicto, interfectorum et eorundem spoliorum multitudinem numerare nequirent. Tunc regina eorum capta, ob audaciam jure capite plectitur. Aureum capitale ejusdem ornamentum invicem gemmatum Papa sibi prae coeteris vendicavit, postque Imperatori suam transmisit partem, quae mille libris computabatur » etc. (i) G. Villani, Cronica di Firenze, Magheri 1823 , 1, p. 70, c. L. 460 GIORNALE LIGUSTICO sembra abbia a sdegno di raccogliere dal popolo i particolari della leggenda: « È grande esempio del dovere di fuggire la libidine si famae iìdes est ». Ambagi da letterato guardingo (1). 10 credo per altro, che già fin dal tempo di Fazio la leggenda fosse quale ce Γ ha tramandata Γ Alberti. Anche senza la tradizione normanna, i romanzi cavallereschi del ciclo bretone, che nel secolo XII e XIII avevano in Italia grande favore, specie presso le classi privilegiate, bastavano a fornire nume-ìosi esempi di simili frodi. I filtri amorosi, i liquori magici entrano per larga parte nella macchina dei romanzi. « Lanci-lotto che si e posto a dormire tranquillissimo in una bella camera insieme a suoi compagni, è incantato da Morgana tra 11 sonno in tal maniera, che non ha più potere di svegliarsi, sicché la maga lo fa mettere in una lettiga e trasportare in una carcere profonda » ecc. (2). Le supposte morti poi sono uno dei mezzi non trascurati neppure dai romanzieri greci, del terzo e quarto secolo, e valga come esempio la vecchia storia di Apollonio di Tiro. Pare egli difficile che i nostri volghi riprendessero quelle fantasie, e alterando, aggiungendo, mescolando reminiscenze disparate, dessero aspetto nuovo (1) L Alighieri anteriore a tutti costoro non fa neppure segno di averla conosciuta. A lui, spirito austero, la mal aria che dai castelli dei Mala-spina suoi ospiti vedeva addensarsi perniciosa sul piano di Luni, induceva nell anima malinconiche riflessioni sulle arcane sorti dei popoli : Se tu riguardi Luni ed Urbisaglia Come son ite, e come se ne vanno Diretro ad esse Chiusi e Sinigaglia, Udir come le schiatte si disfanno, Non ti parrà nuova cosa, né forte, Poscia che le cittadi termine hanno. (Farad., c. XVI, v. 73-78). (2) Ferrario, Romanci di Cavalleria, Milano 1828, III, 372. GIORNALE LIGUSTICO 461 alla creazione leggendaria? Perchè anche tra noi, pur mancando una produzione originale, non si vorrà, credo, negare la compenetrazione di elementi diversi, frutto dello spirito ascetico 0 cavalleresco dell’ età. Per non uscire dai romanzeschi racconti intorno a Luni, il lettore può riconoscere nel passo che trascrivo qui appresso un tentativo di leggenda religiosa, tentativo, diciamo così, rientrato, che s’incastra al ricordo delle devastazioni normanne. Si legge in una storia della Lunigiana, opera del Lamorati, un seicentista cascante di fiori e con-cettini rettorici. Per fortuna che il breve racconto va esente in parte dalle grazie del suo stile. « Lungi da Luni dieci miglia è 1’ isola di Tiro, nobilitata in quei tempi dal di voto tempio di S. Venerio, e dal monastero dove facevano ufficio di angeli sempre intenti a cantar le divine lodi li monaci guardiani del di lui sepolcro. Quivi sbarcarono i Normanni, per stendere alla povertà di quei servi di Dio le mani rapaci. Non vi ritrovarono altro che un vecchierello, acceso di tanta fede ed ardore di consagrar le sue membra cadenti, per vittima di glorioso martirio al suo Signore, che hebbe ardire dir a Barbari, che se S. Venerio, di cui era custode, non avesse voluto, essi non gli haverebbero potuto nuocere. Hor’ il vedrai, dissero essi, e accesogli intorno grand’incendio, mentre egli fra lo strepito delle fiamme faceva rimbombare il nome di Venerio, viddero, spettacolo del re di Babilonia maggiore. Poscia che, se quello li tre fanciulli, questi un vecchiarello viddero ricever, invece di tormenti, dalle fiamme splendore » (1). Ciò che qui era fatto da pochi oscuri monaci desiderosi di accrescere nome alla loro chiesa ed al santo, come può dubitarsi che non riuscisse assai meglio all’ opera comune di tutto un popolo, presso cui si diffondeva 1’ amore (1) Lamoratì, Historié di Lunigiana, Massa, Girolamo Marini 1685, p. 34 e segg. 462 GIORNALE LIGUSTICO di cavalleresche avventure ? Tradizioni cavalleresche da’ cui mille rivi originava sull’uscire del Quattrocento la novella borghese di Masuccio Salernitano, intorno ai pietosi casi di Mariotto Mignanelli e Giannozza Saraceni di Siena, e nei primi anni del secolo successivo, quella più geniale, più pietosa, e infine più celebre di Luigi da Porto (1). Quale lungo’cammino per giungere agli immortali amanti di Shakspeare ! Ma 10 spirito umano non ne suole tenere uno diverso nelle sue più maravigliose creazioni. Ritornando alla leggenda di Luni, parmi quindi che ci possiamo fidatamente attenere al Muratori (2), al Promis (3), al Repetti (4), che stimarono siffatte tradizioni null’altro che « favolose bizzarie ripetute a sazietà da scrittori di troppa buona fede e di epoca posteriore alla supposta avventura » (5). 11 Depping, credo per il primo tra i moderni, parve propendere a tenere la romanzesca avventura di Hasting come vera, e, più curioso, ciò che per il Promis era indizio di favola, ossia il vedere come la stessa frode si venga ripetendo parecchie volte nelle storie normanne, al Depping sembrava per contro una prova di veridicità. Il Delarc ha ripreso il (1) La novella del Dal Porto, secondo il Todeschini, era già scritta nel 1524, assai prima che il Bandello trattasse lo stesso argomento. Il Todeschini in due lettere a Jacopo Milan si volge a provare che la novella del Dal Porto non ha alcun fondamento storico. La stessa cosa asserisce il Torri per quella di Masuccio, poiché « informazioni procacciatesi da Siena lo posero in grado di assicurare . . . che giammai in Siena udì parlarsi nè v’è memoria del caso narrato dai Salernitano. ». Cfr. Lettere storiche di Luigi da Porto, Firenze, Le Monnier, 1857. (2) R. I. S., t. X, col. 201 e segg. (3) Memorie della città di Luni, t. I, Serie II, degli Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino. (4) 'Dizionario Geografico Storico della Toscana. (5) Repetti , op. cit, art. Luni. GIORNALE LIGUSTICO dubbio del Depping (i), e ha voluto che diventasse certezza; ma con argomenti che, almeno per il g'.isto mio, sono lontani dal persuadere. In sostanza la città che a’ suoi bei giorni, belli in confronto dei luttuosi venuti di poi, inspirava a llutilio Numaziano tre graziosi distici ridenti nella vaga gamma de colori che gli splendeva agli occhi in un mattino del 416 (2), ed ancora splende dopo tante vicende sulla marmorea rupe Apuana, è perita non per l’ira degli uomini che pure si sfogò feroce su di lei, ma per una causa più occulta e inesorabile, la mal aria cantata dall’Alighieri. (Continua). Carlo Braggio. (1) Per altro senza citarlo. Ecco il passo in questione del Depping , (op. cit. loc. cit.) « Cette aventure que les anciens historiens de Normandie ont racontée dans le plus grand détail, paraît si extraordinaire qu elle a été mise en doute par les historiens modernes. Cependant la vie des Normands n’était elle pas une suite continuelle d’aventures ? elle offre d ailleurs plusieurs exemples de la même ruse que celle de Hasting. On dirait qu’il répétaient ce stratagème lorsque le souvenir s’en était un peu effacé chez les peuples ». (2) 0 del 420 d. Cristo : non dispiacerà, credo al lettore, leggerli qui : Advehimur celeri candentia moenia lapsu Nominis est auctor sole corrusca soror. Indigenis superat ridentia lilia saxis, Et levi radiat picta nitore silex. Dives marmoribus tellus, quae luce coloris Provocat intactas luxuriosa nives. 464 GIORNALI· LIGUSTICO VARIETÀ S. Caterina da Siena a Varazze. È noto come del 1376, nel ritorno dalla sua celebre intervista col papa Gregorio XI, s. Caterina da Siena se ne andò da Avignone a Tolone, e come imbarcatasi ivi per Γ Italia , fu costretta dalla tempesta a rifugiarsi nel piccolo porto di Ararazze , dove si trattenne alcuni giorni avanti di proseguire per Genova (1). Di questo fatto lasciò memoria un varazzino contemporaneo, Simone Maffeo, registrandola alla fine di un codice membranaceo il quale contiene gli Annali del convento dei Domenicani di Varazze; e il suo racconto venne già segnalato nel 1867 dal P. Marcolino Pelazza dello stesso ordine e dello stesso convento (2), e nel 1880 dalla contessa di Flavigny nella sua Vie de s.“ Catherine de Sienne (3). Il testo però del Maffeo rimase fin qui inedito, almeno in parte; laonde, avendo noi potuto procurarcene, se non l’intera lezione (4), almeno un esteso riassunto, grazie ad una (1) Intorno a questo viaggio, ved. Legenda minor s. Catharina, lib. 11, c. 8; Raymundus de Vinea, Vita s. Calhar., I. I, c. 6, 1. II, c. 12 (Ada SS. Bolland. Apr. Ili, pp. 877-8, 919); Processus contestât, de sanctitate s. Catbar., n. 67 (Martêne, Ampliss. coll., VI, 225); C.esse de Flavigny, Vie de s. Cath. de Sienne, pp. 238-53. (2) Vita del b. Giacomo da Varale (Genova, tip. Gioventù), pp. 100-101. (3) Paris, Sauton, 1880, in-12.0, pp. 245-48. È una monografia scritta con molto ingegno e con vasta erudizione. (4) E difficile affermare se il manoscritto di Varazze serbi o no altri ragguagli. Il piccolo brano allegato dal P. Pelazza contiene una frase estranea al nostro testo e due che vi si leggono integralmente. Bisogna dunque inchinare piuttosto per la prima ipotesi. In ogni caso da che il Maffeo scriveva nel 1381, è chiaro che tutto ciò che nel nostro testo è posteriore a questa data venne attinto ad altre fonti. GIORNALE LIGUSTICO 465 indicazione della completissima bibliografia della santa , con che si chiude il libro della contessa di Flavigny (1), crediamo utile di pubblicarlo come documento non privo di storico interesse. P· Relazione del passaggio di Sanla Cattarina da Siena nel luogo di Voragine. Riferisce un tal Simone Mafeo di Varagine, huomo di credito, in una sua scrittura in carta pecorina data dell’anno 1381, e si riconosce anche da altre, che si conservano nel Convento di S. Maria Annonciata del-1’Ordine de Predicatori, che nell’anno 1373 (2), ritornando detta Santa d’Avignone da contrattare negozij importanti per la Santa Chiesa con la Santità di Papa Gregorio XI passò nel detto luogo di Varagine per vedere la patria del Beato Giacomo Arcivescovo di Genova col Beato Raimondo da Capua suo Confessore , et ambedue dell’ ordine de Predicatori , trovò il detto luogo per la strage , che de suoi habitatori fece la peste , quasi affatto dishabitato talmente che non vi essendo rimasti che ben pochi , onde (sic) meno però, che tutte le case erano dishabitate , e 1’ erba cre-asciut in sin sù le porte, stentò a ritrovare chi L’ albergasse, et alla fine passando per una strada, dove si ritrova 1’ ospitale, chiamata hora dietro la casetta, s’incontrò con una Donna chiamata Orivetta Costa (3) , quale l’albergò in sua casa , e gli ragguagliò la caosa della distruzione del detto luogo ; onde sì per tal racconto inhorridita , che per quello havea veduto nelle contrade , si mosse a pietà con far orazione particolare per il Popolo rimasto , e per tutti gli habitatori del luogo, raccomandandolo alla Santissima Trinità et alla Santissima Vergine Maria. Nel partire che che fece da detto Borgo, disse a quelli, che vi si trovorono, che procurassero di fabricare una Capella in honore della SS. Trinità, che mai più il luogo sarebbe molestato dalla Peste , e chi la portarebbe [soffrenjdone lui solo la molestia , se la riportarebbe. Alla mattina [ripreso (?)] il camino verso Genova [in compagnia (?) del detto Raimondo] Confessore, passò per altra strada, che conduceva verso la Chiesa di Nostra Signora della SS. Annonciata, chiamata all’ hora Nostra Signora delle Grazie, fon- (0 Pag- 434· (2) Correggasi 1376. (3) Orietta Scotti. Intorno all’ aiuto che essa diede in Genova alla Santa, si vedano : S. Cathar. Epist. 355; Semeria, Secoli crisi, della Lig, I, pp. 163-4; Cittadino, 1 die. 1877. Giorn. Ligustico. Anno XII. qo 466 GIORNALE LIGUSTICO data dell’ anno 1189, che da un Romito veniva custodita, et hora da Reverendi Padri Predicatori, accompagnata da alcuni Paesani, e poco distante ivi gionta, ebbe a dirle, come pure il detto Beato Raimondo, che avendo il luogo un’ huomo tanto insigne come il Beato Giacomo Pa-triotto, ivi fabncassero un Convento per li frati del suo Ordine (quale poi dopo molti anni del detto passaggio, per mezzo d’ alcuni divoti della Religione et insieme dal suddetto Simone Maleo chiamati, fu edificato), e detti Santa e Padre Confessore entrorono in detta Chiesa e fecero orazione, qual terminata, si licentiorono col ringraziarli della carità usatale e col darli la santa Benedizione, instradandosi alla volta della Città di Genova. λ enuta in appresso in cognizione la Communità sì della Santità della medesima , come per 1’ evidenza de Miracoli infrascritti per la sua intercessione conseguiti, restò deliberato dal Parlamento di detto luogo di fa-bricaie la suddetta Capella in honore della Santissima Trinità, della Santissima Vergine Maria, di detta Santa, e Beato Giacomo Patriotto, con tare celebrare una messa quotidiana (come giornalmente si celebra da un Capellano accordato da detta Communità) in venerazione di detta Santa, col celebrare la sua Festa, che viene a 30 Aprile di precetto, con voto di andare ad adorarla processionalmente, come infatti si pratica ogn’anno con intervento di persone forestiere e luoghi circonvicini. Nell anno 1579 correndo nella Città di Genova il morbo della Peste, si inviorono verso il luogo suddetto di Varagine alcuni delia famiglia di Boggia per sfugire tale morbo , e non essendo li medesimi infetti [soffersero pur per cao-a dello stesso; et avegnachè avessero . . . con quelli del Borgo, niuno . . . . s'infettò nè morse. Nell anno 1630 altro caso seguì, che essendo il luogo, o sia villa dell Alpicella, poco distante da suddetto luogo, infetta, partì di là un tal Gio. Batta Maggiolino con la sua famiglia, e molti altri di detta villa, e gionsero in Varagme per evitare detto morbo; ma essendo essi infetti, dopo pochi giorni morirono, et abenchè molti del detto luogo avessero anche seco famigliarmente conversato, niuno pigliò la peste; nè meno di detto morbo, come suddetta Santa predisse, mori. Il simile si è verificato nell’ ultimo contaggio seguito , chè alla memoria de habitanti ancor viventi, asseriscono essere venute in detto luogo persone infette, quali per tal caosa passarono da questa vita; e niuno, conciosiacosachè seco contratasse, restò infetto. Il che si può benissimo comprendere, essendo detta Santa di sì gran meriti appresso il Signore Iddio, e della SS. Vergine, come in fatti vien GIORNALE LIGUSTICO 467 così stimata dal detto Popolo di Varagin.e, quale altro non tenta, per ragion di gratitudine, e per sì grandi grazie ottenute, e per ìenderci meritevoli di riceverne altre simili nell’ occorrenze di lodarla et esserne più di qualsivoglia altro luogo divoti, col honoraria, adorarla per sua Madre spirituale, e Protetrice del medesimo, col narrare le grazie, per intercessione della stessa conseguite, dalla divina Clemenza. Estratto da consimile copia, che si conserva appresso del Priore del Convento della SS. Annonciata dell’ Ordine de Predicatori del detto luogo di Varagine. — [Bibl. Comunale di Siena, F. Ili, 7 «· 325-326. Copia del 28 gennaio 1706] (1). PASSAGGIO DA GENOVA DEL NUNZIO mons. Carlo Rossetti. Il viaggio del nunzio pontifìcio mandato da Papa Urbano Vili in Inghilterra nel 1639, è pervenuto a noi mercè la descrizione che ne ha lasciata il suo segretario Domenico Fantozzi Parma; la quale ha veduto testé la luce per cura del prof. Giuseppe Ferrare (2). Il Rossetti, sceso dall’Appennino, venne a Genova il 13 luglio, e vi si trattenne fino al 19, nel qual giorno prese imbarco sopra una feluca e navigò alla volta di Nizza. Quantunque la sua dimora in Genova non avesse alcun carattere ufficiale, pure, ospitato dall’ Arcivescovo, ebbe, senza alcuna forma pubblica, quegli onori proprii del grado. La descrizione del Fantozzi di questo passaggio nel dominio ligure, non è priva d’importanza, specie per alcune particolarità e per certi giudizi curiosi. Ho creduto opportuno riferirla per intero, lasciando da parte (1) Le lettere scritte fra parentesi quadre [ ] e i puntolini ..... significano che ivi il documento è mutilo. (2) Diario del viaggio fatto in Inghilterra nel 16}9 dal Nunzio Pontificio Rossetti scritto da Domenico Fautori Parma, Bologna, Romagnoli 1S85. 468 GIORNALE LIGUSTICO le note, non sempre felici (i), onde l’ha corredata l’editore, reputandole un fuor d’ opera per i lettori del Giornale. A. N. Trovò (Mons. Rossetti) sull’alto di un monte il forte di Gavi, che è principio da quella parte del dominio di Genova. Giace il fortino sopra un monte isolato, ed è incamiciato di pietra. In altro monte di maggiore grandezza, e pur in isola, è un altro forte, e dentro vi sono molti alloggiamenti. L’uno e l’altro rendono molto beneficio, battendo ottimamente le vie principali. Appiè del monte è Gavi, terra a quanto vedemmo assai grossa. Mons. arrivò la sera a Voltaggio, terra maltrattata dalle invasioni colle quali Francesco Bona, signore di Lesdiguieres, uomo famoso, infestò alcuni anni or sono il Genovesato da quella parte di Ponente. E di dove non si parti che non avesse caricati i cariaggi di denaro e di altre prede, tolte a quelli infelici ed innocenti popoli, che ora amaramente ne piangono. Fermossi Mons. alla osteria della Posta e vi stette molto comodamente e ne parti il 13 alla volta di Genova. Dove qualche miglio innanzi che vi arrivasse si arrestò con meraviglia in vedere le delizie «Ielle ville e le vaghissime prospettive, che si affacciano agli occhi sul corso degli scogli e delle rupi, con tanto scorno della natura. In ogni valle si stendeva un giardino, non si vedeva un colle che non avesse un bosco. Contemplavasi dappertutto una continuata serie di casini e palazzi fra quelle montagne. Si entrò nel borgo di S. Piero di Arena dove nella strada nuova, si annoveravano non senza stupore grande molti palazzi di non poca bellezza e magnificenza. Quindi si giunse in Genova la quale si dilata e si stende appo il mare, alle radici del monte, i cui scogli e dirupi, le servono in più di un luogo di propugnacolo per assicurarla e renderla inaccessibile. Gira quasi 5 miglia, è larga poco meno di 2, e si crede possa essere larga due terzi di miglio. È coperta da tramontana ed è volta a mezzogiorno, comunemente è sana e di buon aria. Il porto non è naturale in tutto , ma da un lato dove sporge in fuori, ha molti sassi grandi posti a guisa di muro. Giace la città immezzo a due Riviere. Quella di levante è lunga 70 miglia incirca, quella di ponente 100. L’ una e 1’ altra riviera, da Ligure figlio di fetonte e suo antico signore fu detta Liguria. Di esse è- (1) Per es. : « San Pier d’ Arena ora fa parte di Genova » (p. 69). — e L’ autore non ricorda punto che Cogoleto c la patria di Colombo. La questione doveva essere agitata molti anni dopo, et adhuc sub judice lis est 0 (p. 77). GIORNALE LIGUSTICO 469 capo Genova, cosi chiamata da Giano secondo alcuni. Andò Mons. a S. Francesco dei Conventuali, dove pochi giorni prima era giunto il signor Agostino Mascardi, cameriere d’ onore del papa, e famoso letterato del secolo nostro. Quivi fu soppraggiunto da un gentiluomo del Cardinale Durazzo, arcivescovo della città, che a nome di S. E. lo condusse in Palazzo. Dove sino all’anticamera si mosse il Cardinale a riceverlo, con onore e benignità singolare. Fu poi condotto da molti cavalieri a spasso per la città, le cui strade sono in molte parti tutte selciate di dure pietre e ciottoli minuti, lo che è causa che sieno sempre nette. Sono però strette per la scarsezza del sito. Perciò le case sono alte con 405 solari, rendendosi cosi la città in molti luoghi oscura e malinconica. Fu condotto Mons. al palazzo del Reggimento, nell’ occasione che il signor Agostino Pallavicino, allora Doge dalla Repubblica, usciva di palazzo, lasciando quella carica dopo due anni che Γ aveva tenuta , conforme il solito (1). Era concorsa frequenza grande di popolo a vedere tale funzione. Era egli vestito con un grande robone di Damasco cremisino, con una berretta dello stesso colore, preceduto da 8 paggi, nobilmente guerniti di raso cremisino, e da molti capitani ed altri ufficiali della città. Era egli vecchio e di venerabile presenza. Continuò poi Mons. a camminare per Genova, col medesimo accompagnamento di quei Signori. Ebbe non poco compiacimento in rimirare le sontuose fabbriche dei palazzi. Dei quali tuttavolta più belli e più comodi si vedono nei luoghi della città, che si chiamano ville. Nelle quali costumano i Genovesi passare più volentieri i tempi della state, essendo amene e piene di delizie di giardini e di altre vaghezze. Il signor Raffaele Lomellino, che insieme col fratello avea tenuto compagnia a Mons., volle condurlo a casa dove lo trattò coi termini di tutte le cortesie e gentilezze possibili. Giovedì 14 fu visitato da molti cavalieri, dai quali fu tolto di casa e accompagnato all’arcivescovado, dove lo aspettava la lettiga del cardinale che lo condusse alla sua villa. Il giorno dopo fu condotto a vedere la creazione del nuovo Doge (2). Voleva partire. Anzi gli fu forza fermarsi fino ad altri 4 giorni, onde avere trattenimento che avesse sicurezza di viaggio. Venerdì 15 Luglio essendogli detto che non poteva partire, atteso il vento che soffiava molto contrario, fatta riverenza all’ Arcivescovo, fu accompagnato da molti ca- (1) Ciò fu il 13 luglio Cfr. Archivio di Stato di Genova, Cerimoniali, 1639-1S58, c. t8. (ì) S’intenda gli scrutinii prel’imnari, poiché 1’ elezione avvenne il 28 « alle 22 hore dopo quindcci di di sede vacante con centonovanta voti favorevoli » per Gio. Batta Durazzo (Cerem. cit. c. 19). 470 giornale ligustico valieri ad udire la messa. Fu poi a vedere la sala degli armamenti, dove si conservano i moschetti e le altre armature in gran numero tutte disposte in ordine. Desinò col signor Giovanbattista Raggi che gli diede varii trattenimenti con onori straordinarii. Sabati) 16 ebbe le solite visite e desinò coll’ Arcivescovo. Andò poi a vedere la famosa costruzione delle nuove mura che fa fare la Repub.· a difesa e salute della citta, sui gioghi dei monti più scoscesi che intorno la fiancheggiano. E veramente la vastezza ed eccellenza di questa fabbrica è cosa degna di essere saputa. E non solo la città viene resa forte da queste nuove mura, ma anche dalle vecchie e dalle frontiere. Alle porte sono buone guardie, con baluardi ed artiglierie, λ ide similmente la fabbrica del nuovo porto. Ebbe ancora occasione di ammirare una volta di più gli splendidissimi arredi coi quali 1 nobili genovesi tengono addobbati i loro palazzi. Domenica 17 quei cavalieri lo condussero a vedere le chiese principali che erano tutte piene di popolo e di dame. Desinò coi Signori Lomellino. Fu poi condotto a spasso a San Pier d’Arena, luogo molto bello e dilettoso, pieno di darne, parte in carrozze, parte alle finestre e nelle strade a godere il fresco. Andò poi a vedere le galee della Repubblica. Entrando nella capitana fu salutato da 4 colpi di artiglieria. Dopo avere costeggiato un poco quei contorni, gli lu fatta una salva all’uscire; avendo sempre ricevuti infiniti onori. Il Lunedi 18, udita messa, accompagnato dall arcivescovo e dai soliti cavalieri, andò a visitare le ceneri di S. Giovanni Battista, che si conservano in una sontuosa cappella. Reliquie certamente preziosissime delle quali possono gloriarsi senza fine i Genovesi. Siccome del catino in cui mangiò coi suoi discepoli 1’ agnello Pasquale N. S. G. C. E di smeraldo finissimo orientale. I Genovesi lo ebbero in dono da Baldovino per gratitudine del soccorso che cosi opportunamente gli diedero contro i Turchi col riacquisto di Tripoli e di Cesarea. Riverito il Cardinale Mons. si imbarcò sopra una feluca alla volta di Nizza di Provenza, accompagnato da molti cavalieri con incredibile onore. Nello staccarsi della feluca dal porto, fu salutato da quelle galere con lo sparamento di alcune artiglierie. Avvegnaché il vento poco favorisse il viaggio, si godè però una calma tranquillissima. Si lasciò a destra S. Pier d’ Arena, poi Sestri Ponente, terra grossa e buona, Pegli, nobilitata dalle ville dei gentiluomini e cavalieri genovesi. Cinque miglia più in là è Voltri, terra grossa, Arenzano, Cogoleto, poi Varazze in dialetto, cioè Varagine, patria Iacopo da λ aragine, dell’ ordine di S. Domenico, arcivescovo di Genova, soggetto eminente di Letteratura e di bontà di vita. Poi si lasciarono le terre di Celle, di Albisola, poi Savona città nobile, memorabile patria di GIORNALE LIGUSTICO Giulio JI papa. Poscia Vado, terra piccola , dove si suole dare il passo alla soldatesca spagnuola per Milano, poscia la terra di Spotomo, giungendosi finalmente a Noli, città libera ma piccola e povera, ancorché anticamente fosse stata molto potente, lungi 40 miglia da Genova. Passò vicino al Finale (dopoché si fermò presso i frati di S. 1-rancesco, e prebe di nuovo imbarco) marchesato già posseduto dai Signori del Carretto. La discendenza dei quali vogliono che favolosamente derivi da Alderamo e Alasia, figlia di Ottone II imperatore. I quali innamoratisi 1 uno dell’altro se ne fuggirono dalla corte, ed essendo stati spogliati per la strada dai masnadieri, di tutto ciò che portavano, capitarono in Italia. E messisi, a fare il carbone ed a venderlo, vennero in progresso di tempo dopo molti anni a conseguire il perdono dell’imperatore, che creò Marchesi i 7 figli che avevano avuto. Questo Marchesato è oggi sotto la giurisdizione del Re di Spagna. Quivi si trovò Γ armata di S. M. Cattolica con 6 navi di Toscana, 7 di Napoli, io di Sicilia ed altri vascelli. Avendo domandato uno di quei vascelli che feluca era la nostra , e sentito essere di Genova s disse che si andasse in buon viaggio e senza trattenerci Si lasciò a man dritta, Pietra terra della Repubblica, Loano terra del Dor.a, feudo imperiale, Borghetto e Ceriate terre della Repubblica, le quali due-anni or sono furono saccheggiate orribilmente dai Turchi con la schiavitù di più di çoo persone. Lasciammo poi Albenga, città nobile ed antica capitale degli Ingauni detta patria di Procolo imperatore. Intanto cresciuto il vento era entrato il mare nel suo furore in cosi fatta guisa . che soprastette il pericolo di naufragare mille volte. Arrivammo alla vista di Alassio, detto da Alasia già nominata, e alle sue spiagge drizzarono i marinai le vele per approdare. Ma fu così malagevole e travaglioso lo sforzo per prender terra , che fu cosa veramente incredibile. Perché quelle onde spumose ricevendo moto e forza più vigorosa dal vento , si opponevano alla feluca rigettandola indietro. Rumoreggiavano le acque con formidabili strepiti, sicché con le voci dei marinai e con lo sbigottimento che nella fronte e negli occhi e nella lingua chiaramente scopri-vansi, facea si che in noi fossero più frequenti e più vive le invocazioni di Dio. La vista dei cittadini che si erano condotti al lido spettatori del nostro pericolo, accresceva in noi la apprensione ed il timore. E coi segni manifesti che mostrava la feluca di affondarsi , si credeva indubitatamente di morire. Ma piacque a Dio che finalmente poco dopo si toccasse terra nella congiuntura di un poco di pausa, sulle spalle dei marinai. I.a feluca era rimasta ludibrio delle onde , che fintesi più orgogliose, faceano credere che ella si dovesse intieramente sommergere. Corse per 472 giornale ligustico aiutarla un numero grande di uomini di Alassio, e come che ogni opera paresse inutile, alla fine fu posta in sicuro. Fu Mons. alloggiato dai Zoccolanti di S. Spirito che gli fecero cortesie grandissime. Mercoledì 20 Luglio, ascoltata inessa, si condusse in feluca che il mare era placato, e prometteva , come segui, buon viaggio. Fu avvertito Mons. di alcuni brigantini che andavano costeggiando per quel mare, onde convenne an-d.ire sempre con grande cautela. Quando si fu vicini alla terra di Diano, n.-irin.ii scoprirono da lontano due galere , e per non sapere chi elle si fossero , risolvemmo di cautelarsi col dare a terra. Nella quale riso-stabilimmo più fortemente , quando vedemmo dare indietro rapidamente una Icluca che precedeva la nostra di gran pezza, insieme uni ealcra di Genova. La quale indirizzata a quella volta alla caccia dei brigantini predetti, avendo ella pure vedute le due accennate galere, per timore che fossero nemiche ritiravasi. Ed essendo arrivata alla spiaggia di Diano, fece segno a quei terrazzani che dessero alle armi come tecero e fu oltre a ciò spedito con celerità un battello a terra. Ma mentre sta.amo per scendere di feluca, approssimarono le dette galere e si potè conoscere che erano di Genova, che tornavano di Spagna, da accompagnare Mons. Facchinetti, Nunzio straordinario di N. S. al Re di Spagna. I marinai ripresero rallegrati il cammino, siccome fece la nostra feluca e le galee. E quando la nostra giunse presso di esse, passarono ira ehsi e noi molte parole. Si vede qui un forte della Repubqlica quadrato ed incamiciato di pietra. Si vede Oneglia terra del Duca di Savoja, la cui valle si stende continuata fino al Piemonte. Trovossi poscia Porto Maurizio terra grossa della Repub.3 fortificata con buon recinto, per essere : ei confini ed a fronte di Monaco, di cui parleremo più avanti. Vedemmo San Lorenzo e San Stefano, terre piccole similmente della Repubblica. Da certe barche che incontrammo fummo avvertiti di guardarsi dai ricordati brigantini. Onde i marinai deliberarono di prendere terra e di fermarsi a San Remo. Questa terra è della Repub.3, e quantunque sia sito belassimo , non è per se stessa molto bella. Il paese però è tanto delizioso, che pare che qui la natura abbia fatto ogni sforzo per renderlo ferace e dilettevole. Contiene 9 vallate , che hanno boschi spessissimi di aranci, cedri, limoni, palme, olivi, che perpetuamente verdeggiano con fiori e (rutti, sicché {anno all’ occhio una vista sì gioconda e vaga che non si potrebbe credere essere di più. É il paese così dovizioso di frutti che ne distribuisce in grande quantità ai paesi forestieri (oltre a di\erse parti d'Italia; cioè alla Francia, alla Spagna, alla Germania, alla Soria, di dove sogliono capitare ogni anno persone apposta per provvedersene. GIORNALE LIGUSTICO 473 Fu Mons. ospite del Preposto del luogo , con trattamento ordinario , e fu presentato di gentilezze dalle persone della terra. Uscito di casa affine di refocillarsi del tedio del mare , andò alla chiesa degli Zoccolanti dove gli fu mostrato il corpo del Beato Giorgio di Avignone , del medesimo ordine, che si conserva integramente, ed è tenuto in grande venerazione. Ripreso il viaggio il 21 Luglio, alla volta di Nizza, trovò Bordigliera , piccola terra della Repub.2, poi la città di Ventimiglia, lodata pei suoi moscati, ultima terra della Repub.» Quivi appresso è Mentone, terra del principe di Monaco di Casa Grimaldi, poi lo stesso Monaco, fortificazione di fama grande e considerabile per la qualità del sito. È assai grande di recinto, ha il mare da una banda che l’assicura, e dentro terra è difeso da un monte isolato , disastroso ed assai più eminente degli altri monti circonvicini e spazza benissimo tutte le strade. Il monte è assai ripido, e tagliato di sassai vivi, sicché può giudicarsi che sia molto malagevole quella fortificazione ad essere presa. Vogliono che si appellasse Monaco, che in lingua aramea, vale amo, dall’ istrumento con cui Ercole egizio , tornato di Spagna, dopo la vittoria di Gerione insegnò a quei popoli a pescare. Poco entro terra è Turbia, patria dell’imperatore Pertinace. Si trova quindi il forte di S. Spirito, che è del Duca di Savoja, situato sopra una collina sul mare. Di nuovo gli si è aggiunta una fortificazione molto grande ed una via coperta, tu:ta incamiciata di pietra. È di molta gelosia, per essere vicino a Monaco, ed è posto in sito di frontiera, dello Stato di quell’ A. R. Vi si lavora tuttavia intorno per fare uno spalto. Più innanzi é Villafranca, porto bellissimo dello stesso Duca di Savoja. Prima che ivi si giungesse si incontrò una galea che staccata dalle altre della armata francese, la quale si tratteneva in porto, andava facendo scoperte. Appressata che fu la galea alla feluca nostra , quel capitano domandò che feluca la nostra fosse. E saputolo venne a fare riverenza a Mons. Il capitano soggiunse che il Conte di Harcourt generale delle armate avrebbe avuto gran gusto di vederlo. Replicò Mons. che 1’ avrebbe egli pure avuto a piacere. Allora il capitano si licenziò , montando sopra un battello per avvertire il generale. Giunto Mons. alla galea del Generale immezzo a tutta l’armata di 14 galee e 24 vascelli , fu accolto con termini di molta stima ed onore verso la Sede apostolica , salutato con 3 tiri di cannone. Dopo i complimenti , il Generale lo menò a vedere tutta la sua galera, pienamente fornita di tutte le cose, e fra le altre di 45 pezzi di smisurata artiglieria. Lasciò Mons. il Generale che gli aveva offerto con particolare cortesia una galera per il rimanente viaggio, o volesse proseguire per Nizza o per Marsiglia, e se ne tornò 474 GIORNALE LIGUSTICO alla sua feluca, salutato con 4 tiri di artiglieria. Andò poi Mons. a passare la visita col Generale di Bressè, figlio di una sorella del Cardinale di Richelieu, fu ricevuto nella capitana con 4 tiri nell’andata e nel ritorno. Seguitando il Viaggio in breve trovossi a Nizza. Quivi ebbe non poco fastidio per avere lo sbarco, attesa la gelosia con la quale vivevano vigilantissimamente quegli abitanti, per le mire degli Spagnuoli, ma più dei francesi, avendo risolutamente negato di ricever dentro presidio francese, conforme avea procurato di fare con la forza e con le esortazioni c con \ ie ancora più soavi, la vedova Duchessa di Savoja sorella del Re Cristianissimo. E ciò per una loro ostinata massima ed apprensione tenacissima, che con la introduzione dei francesi, avrebbero perduto irreparabilmente la robba , 1’ onore e la vita. E con 1’ esempio d’ altri davansi a credere per certo di cacciare tutti dal forte e dalla città. E andavano giustificando questa loro disubbidienza, o con qualche altro più ero vocabolo \oglia appellarsi. E col non volere in casa nè francesi nè spa0nuoli, dicevano che essi erano buoni e fedeli ed affezionati sudditi del loro Duca. Pel quale erano disposti a spandere profusamente le loro (acuita cd il sangue. E dicevano che si sarebbero assicurati contro qualunque inimico di Sua Altezza avesse tentati di opprimerli. E fissi in questa risoluzione avevano per ogni evento sinistro , allontanate le fanciulle e le donne di più vaga appariscenza, con avere altresì mandate \ia le loro ricchezze. E si persuadevano che l’armata francese che si trovava a \ illafranca si fosse mossa con principale insistenza contro di loro, ma che il mare statole poco propizio ne la avesse divertita. E veramente non si può dire quanto sarebbe opportuno ed utile ai francesi, 1 occupare una piazza di tanta importanza per la qualità del sito e per le circostanze che possano rendere la stessa desiderabile. Non è lungo tempo che ne iu tentata l’occupazione da Barbarossa e dai francesi ma con poco profitto. Giace questa fortezza sopra un monte di pietra viva al lite del mare. Da un lato ha il monte che la rende inaccessibile : ai piedi d esso è collocata la città, fortificata con le mura attorno all’antica. Ha il mare dall altra parte. Erano le cose di Nizza nello stato che ho detto, quando Mons. arrivò a quelle spiagge. Dopo qualche difficoltà, saputosi chi egli era, gli fu lasciato libero lo sbarco ed il transito, dare e ricevere cortesie. E non essendosi trovata osteria a proposito, decise di alloggiare dai frati conventuali non dando loro altro impaccio che delle stanze. Poco prima era partito da Nizza il Sign. Duca Cesarini, Cav. Romano, giovane di vivacissimi spiriti e di nobilissime qualità, che tornava di Francia, e andava per suo trattenimento vedendo il mondo. In GIORNALE LIGUSTICO 475 questa città Paolo III. Sommo Pontefice, compose con la pace gli animi di Carlo V imperatore, di Francesco I.° Re di Francia, ira di loro prima con la competenza dell’Imperio, e poscia con rovinose guerre lungo tempo commossi. Di qua i Duchi di Savoja cavano buona parte delle loro entrate. Fu Mons. visitato in nome di Jacomo Marengo , vescovo della città, non essendo venuto in persona per trovarsi indisposto. Parve a Mons. di andarlo a visitare come egli fece. Intanto divulgatosi il suo arrivo , per quello che era succeduto alla spiaggia la mattina dello sbarco , gli furono fatte altre visite e regali in molta quantità e qualità dalle persone del luogo. Venerdì 22 Luglio, ascoltata messa partì Mons. da Nizza, accompagnato dal Superiore del convento sino al Varo, distante intorno a 3 miglia da Nizza. Onde dato un affettuoso addio all’ Italia , che quivi ella perde con la favella il nome, mise il piede nella Provenza. SPIGOLATURE E NOTIZIE Negli Atti della Accademia Olimpica di Vicenda (vol. XVIII, a 1883). testé pubblicati, il dott. Antonio Ciscato discorre di Antonio Pigafetta viaggiatore Vicentino del secolo XVI. Naturalmente nello scritto occorre menzione dei liguri, i quali parteciparono col Pigafetta alla spedizione di Magellano, specie con Pancaldo da Savona e Battista di Polcevera ; del quale ultimo il Ciscato cita anche la Relazione edita a Lisbona nel 1831. Gli è rimasta però ignota la ristampa fattane con dotte illustrazioni da Luigi Hugues nel vol. XV degli Atti della Società Ligure di Storia Patria. * * * Nelle Notizie degli scavi di antichità per il mese di agosto troviamo quanto se^ue : « Ventimiglia. — L’ispettore prof. cav. Girolamo Rossi, fatti nuovi studi sopra le lucerne provenienti, secondo che si afferma , dal territorio intemeliese e possedute dal sig. Francesco Dasiano in Bordighera , delle quali fu detto nelle Notizie dello scorso giugno , riconobbe in alcune di esse i seguenti bolli , che compariscono ora la prima volta in quella regione dell’Italia superiore (cfr. C. I. L. V, 811 (.) : a) VESTA b) CATILIVES c) CATILIVESTA 47 6 GIORNALE LIGUSTICO » Il predetto sig. ispettore comunicò poi anche la notizia del ritrovamento di un sepoLro, in un orliccio d’ arena, interposto fra il teatro romano e la proprietà Porro. Gli oggetti raccolti furono tutti trafugati; e solo si poti.· sapere che tra questi erano una lunga falce di ferro, in due pezzi, cd un accetta. Di cinque statuette fittili l’ispettore potè vederne una soltanto, di soggetto pornografico. Per buona sorte fu ricuperato il seguente {rammento epigrafico sepolcrale: ..VS. TERIIVS.. . 3 . MERTIO φ EI.. .. fanti^étsi.. BI CVM SVIS be ult'me ^ue parole pare siano state aggiunte in età posteriore. » * * * Non è una novità; ma da che vi ci siamo casualmente abbattuti, vo-gliam notare che il Mehus nella prefazione alle Epistolae di Ambrogio Camaldolose (Firenze, 1769; pag. XXIX) ricorda un Rapporto di Bernardo di Bartolomeo Niccoli, il quale a’ io aprile 14.21 era stato spedito dalla repubblica di Firenze oratore al doge di Genova. Ecco un’ altra giunta alle ambascerie di illustri fiorentini citate a pag. 304. * * * Giacomo Rombaldi, consigliere di prefettura nel dipartimento della Lète d Or, prepara un lavoro sulle origini della conquista dell’ isola di Corsica impresa dalla Francia. L’ opera avrà largo corredo di documenti. * * * Il prot. Edoardo Petit, del Liceo di Nimes, sta compiendo uno studio su Andrea D’Oria. L’autore oltre alle fonti edite, ha largamente attinto alle inedite delle biblioteche e degli archivi di Genova, Firenze, ecc. * * * I roviamo nel Bollettino della Società Geografica Italiana (A. XIX, fase. 9’ P· 679) un breve riassunto delle Navigazioni di Alessandro Malaspina ' 1789-94) rilevato da pubblicazioni fatte a Madrid fino dal 1868 e già note per i lavori del Campori e del Greppi. * * In una diligente monografia di N. Faraglia Notizie di alcuni artisti che lavorarono nella chiesa di S. Martino e nel Tesoro di S. Gennaro (Arch. Stor. Napol., a. X, tase. III, p. 448) si leggono alcuni accenni ai lavori di Giuliano Finelli, che confortano quanto ebbe già a dire il Campori a questo proposito (Mem. Biogr. d. Scult. Arch. Pitt. ecc. di Carrara, GIORNALE LIGUSTICO p. 93). Viene altresì ricordato un Domenico Finelli pittore, torse della stessa famiglia, che è detto « celebre in tal professione, anche per il segreto che tiene di vernice forestiera » ; autore di « molte opere in S. Chiara ed in altri luoghi ». Non se ne hanno, che si sappia, notizie altrove. * * * Nella Revue Historique (XXXIX, 3^6; Novemb. - Dicembre 1885) è comparso uno scritto di Shjus , L'origine de Christophe Colomb, al quale ha dato occasione l’ultimo libro di Prospero Peragallo. H \olto a coni battere le ragioni messe innanzi da questo autore contro 1 Harrisse. * * * È uscito un nuovo opuscolo di Luigi Ambiveri , Se Cristoforo sia genovese 0 piacentino, Milano, Annoni 1885. * * * Agostino Bruno ha incominciato la pubblicazione dei Documenti di Storia ligure estratti dagli antichi archivi del Comune di Savona (Savona, Mirai ta, 1885). Dà il testo a facsimile del Privilegio di Ottone Imperatore dell’ anno 998, e vi fa seguire una breve illustrazione. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Luigi Falconi. Le lingue neoromane.— Torino, Roma, Loescher, Vienna, Frick 1885. L’A. fa una rapida corsa nel campo filologico, mantenendo quella misura che gli era imposta da una Conferenza. Per altro con ottimo consilio ha supplito alla lacune, per necessità lasciate nella lettura , con un buon numero di note onde va corredato 1’ opuscolo. L’ argomento ci è dato dal titolo stesso. Si tratta della derivazione e degli elementi onde si compungono le lingue neolatine, o come il Falconi, seguendo il barone Czoerning, vorrebbe si dicesse, le lingue neoromane in Francia ed in Italia. Restringendo le sue osservazioni a coteste due regioni, 1 A. non lascia però di far notare a suo luogo molto opportunamente le analogie strettissime che passano tra le lingue parlate nella Rumenia , Italia , Francia , una parte della Svizzera e nella penisola iberica. Merito non piccolo di questa pubblicazione è 1’ aver abbracciato in uno sguardo sintetico e con piena competenza la materia, dando gli ultimi risultati della scienza. Le pagine in cui si dimostra la derivazione delle lingue romanze dai dialetti preesistenti al latino sono importanti. Le relazioni tra lingua letteraria e dia- 478 GIORNALE LIGUSTICO letto, la priorità di questo su quella sono stabilite con esattézza. Un’ opportuna distinzione è fatta tra latino popolare, e medio e basso latino, risentendosi quest’ ultimo, come è noto, delle invasioni germaniche, e delle nuove significazioni che la Chiesa dava a parecchie parole greche o ebraiche , entrate allora ad arricchire le lingue romanze. Non bisognerebbe per altro che si esagerasse tanto la distinzione da farne due cose diverse, perchè è ormai dimostrato che di nuovi elementi i barbari e la (-hiesa introdussero assai poco; ciò che nel medio evo acquistava prevalenza sopra il latino letterario era infine pur sempre il plebeo, e sa-an^le giusto che 1 A. avesse rilevata l’influenza grandissima che ebbe il chiericato in cotesta lenta elaborazione dei nuovi idiomi. Un-cuique suum. L A. continua a pag. 21 facendo osservare l’importanza che hanno nella questione le lingue una volta parlate dai popoli alborigeni, dalla quale varietà di lingue parlate derivano, e suo avviso, le varietà Calettali die perdurano tuttogiorno. Sotto la uniformità cementata dalla Romança di fronte ai popoli barbari, si agitavano cento razze diverse che attestavano anche nel serino plebeius la tenacia della loro vitalità. Al cessare della mano potente che aveva stretto in un fascio tanti elementi disformi, era naturale che risorgessero anche le varietà fonetiche e morfologiche fin allora compresse dal latino letterario. E sorsero in Italia i diversi dialetti che tutti conosciamo, tra cui uno doveva sollevarsi più tardi a dignità di lingua nazionale ; in Francia la lingua d’ hoc e quella d 0/7, e dell ultima le cinque varietà dialettati osservate dai filologi. Ma poiché in gran parte il fondo era pur sempre latino, così, malgrado i caratteri speciali che differenziano i dialetti e le lingue romanze, è pur sempre evidente, o almeno dimostrabile la parentela che esiste tra esse e ii latino. L A. fa valentemente una tale dimostrazione per i vocaboli italiani alto, spada, ape, in francese: haut, épée, abeille. La seconda parte : primordii dello sviluppo linguistico e letterario in Francia e in Italia, è molto breve in confronto della prima e per necessita anche incompleta. Ma la materia è già stata trattata ampiamente da altri, e forse 1’ A. non voleva spigolare in un campo mietuto. Per altro mi sia lecito osservare un omissione che mi pare faccia veramente diletto. Perchè, se non nel testo del discorsoalmeno in una nota, P A. non si è soffermato a dire una parola sulle forme metriche della lingua d’ hoc e di quella d’oïl? Pasquale Fazio Responsabile. INDICE DEL VOLUME DOCUMENTI ILLUSTRATI. Due nuovi documenti intorno alla famiglia di Cristoforo Colombo (M. Stagliene).......PaS- MEMORIE ORIGINALI. Xll commercio delle città tedesche del Sud con Genova nel medio evo (G. Heyd)....... XVita privata dei genovesi. La donna del sec. XV nella storia (C. Braggio)....... A proposito 'dell’ articolo di G. Heyd (L. T. Belgrano) Armi proibite (G. Refosco) ..... Giustina Renier Michiel (R. Renier) .... Appunti di Epigrafìa Etrusca (V. Poggi) Di .una patera di vetro trovata in un sepolcro dell’ antic Albia-Inttemelio (G. Rossi)..... Saggio di etimologie genovesi (E. G. Parodi) La prigionia dell’ ultimo Vasa (L. T. Belgrano) . Λ II Doge di Genova a Versailles nel 1685 {G. Claretto) Antonio Ivani, umanista dal sec. XV (C. Braggio) Pag. 3 22, 269 81 90 161 202 22 5 241 321 5 ->(λ 3)° 346, 401 VARIETÀ. V L’ urna di S. Limbania in Genova (V. Poggi) "Spoglio di un registro di Papa Giovanni XXII (L. T. B.) . Alcuni documenti intorno alla congiura dei patrioti piemontesi nel 1794 (A. Neri)....... Tre sonetti di Benedetto Dei sulla guerra di Sarzana del 1487 (L. Frati)......... Una colonia genovese nella Giorgia Superiore (C. Desimoni) Una lettera inedita dell’abate Casti (A. Saviotti) Un documento inedito della porta di S. Andrea (L. T. B.) Dei tessuti porporini nei « Petacas » e degli Juncas in Ancon (A. De Negri)......... Una lettera inedita di Francesco Algarotti (A. N.) Notizie di C. Colombo (L. T. Belgrano) . Lettera del Guarino (L. T. B.)...... Pas. 48 53 122 131 141 230 291 292 296 38S 391 4§ο GIORNALE LIGUSTICO Lettera d’Andrea D’Oria (L. 'Γ. B.) .... pag_ S. Catterina da Siena a Varazze (P).....» ^ Passaggio da Genova del nunzio Rossetti (N.) ...» ^ RASSEGNA BIBLIOGRAFICA. Rcsselly de Lorgnes, Histoire postume de C. Colomb. Cesàreo Fernandez Duro, Colon y la Historia postuma (L. T. B.) » 2^ E. Cais de Pierlas. Documents inédits sur les Grimaldi de Monaco (L. T. B.) .... ...» j02 R. Renier. Il tipo estetico della donna nel medio evo (A. G. F.)..........» 305 Friederich Kayser, Papst Nicolaus V. (1447-1455) und das vordringen der Tiirken (L. T. B.)...... ^ SPIGOLATURE E NOTIZIE. Pag. 76. 147, 236, 309, 396, 475. — Cose notabili. Tre lettere di scrittori genovesi, 147. — Un predicatore ligure a Mantova, 149. — Documenti genovesi negli archivi e biblioteche della Spagna, 161. — Privilegio ad uno schiavo liberato, 154. — Due lettere al Capriata, 236. NECROLOGIE. Santo Varai (L. T. Bclgrano)......Pag. 56 Rinaldo Fulin (V. Malamani)......» 74 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Luigi d’Isengard. Poesie, 78. — Agostino Bruno. Gli archivi del comune di Savona, 159. — Gaspare Bosio. Santena e suoi dintorni, 160. — Vincenzo Podestà. Versi, 237. — Severino Ferrari. Bordatini, 239. — Fedele Savio. Studi storici sul march. Guglielmo III di Monferrato ed i suoi figli, 314. — Raffaele Drago. Svolgimento storico della amministrazione comunale di Genova, ivi. — Relazione sulla vertenza intorno ai riparti della spesa di riparazione e manutenzione di S. Lorenzo, 315. — Giuseppe Bigonzo. Le Sibille e i Libri sibillini di Roma, ivi. — C. Feroso. Grazioso Benincasa marinaro e cartografo, ivi. — Henry Harrisse. Grandeur et décadence de la Colombine, 316. — L’Addio, versi di D. Carutti, 317. — A. Gardella Ferraris. Fantasie e ricordi, ivi.— Cronique de l’île de Chypre par Floro Bustroni, 398. — L. A. Gandini. Alberto da Gan-dino, ivi. — I. Garlanda. Eletto ed elettori negli Stati Uniti, 399. — Lettere di Pietro Brighenti, ivi. — Il successo dell’armata di Solimano, 400. — A. Medin. Letteratura poetica viscontea, ivi. — Falconi. Le lingue neoromane, 477.