GIORNALE LIGUSTICO DI ARCHEOLOGIA, STORIA E LETTERATURA FONDATO E DIRETTO DA L. T. ‘BELGRANO ed -A. ‘H,ERI ANNO UNDECIMO GENOVA TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI MDCCCLXXXIV ANSALDO CEBÀ (Continuazione v. ann. X, fase. XI-XII, pag. 401). Quella restituzione però trasse il classico Poeta molto per le lunghe. Il 7 novembre 1614 scriveva ancora al Castello: « al sig. Imperiale voglio dare soddisfazione quanto prima, accorgendomi che il tanto amore dimostratomi altre volte, e le tante lodi datemi in stampa sono andate in oblivione. E certo non avendo lui bisogno di simile partita, il farmi tanta fretta del pagamento è desiderio d’ incomodarmi. Della qual cosa io me ne do poca pena, perciocché non volendo il mio bene mi disobbliga di doverne pensare a’ suoi servizi » (1). Fece perciò vendere disegni da lui posseduti al suo compare Borzone, che più del Castello trattava « con signori giovani di cotesta nobiltà », impegnò anche il Paggi, col quale non aveva il Castello famigliarità, per altra vendita d’ un « quadro di Tiziano » presso lo stesso depositato ; il qual quadro essendo dall’ Imperiali accettato in pagamento, ne respirò il travagliato, riscrivendo « di Firenze li 5 aprile 1615 al Castello: io pregai V. S. a farglielo consegnare (il quadro all" Imperiali), e di più la pregai a pigliare uno schizzo della testa dell’uomo inginocchiato in quel quadro, perchè è de’ nostri antichi di casa, e la vorrei conservare: se V. S. non potrà far ciò, preghi a mio nome il signor Compare mio Borzone. Ho caro di essere uscito da questo fosso, specialmente perchè voi, al quale io credo, non mi (1) Pag. 231. 4 GIORNALE LIGUSTICO avete fatto mai troppo buona bocca di quella pittura; ma di ciò spero che parleremo di presenza cianciando, e ridendoci degli amori mascherati, i quali noi sogliamo vivendo incontrare (i) » ; e il 18 : « consegni il quadro. Del rimanente io mi contento di qualunque termine si usa meco, avendo Γ a-nimo ad altro che a queste bassezze; e se tutti gli amici, i quali mi si sono fatti incontro, fossero stati veri amici, io sarei quasi ricco; con tuttociò non mi reputo misero ». Chi sa che più largo non ttovasse il Chiabrera quel Paolo Vincenzo Ratto, al quale, « tutt’ amore, e tutta cortesia,... tanto suo amico », furono dedicati « di Vinegia li 2 d’aprile 1605 0 ^a Piergirolamo Gentile, concittadino e molto intrinseco del Poeta, i « pochi componimenti di amore e di cortesia..., che ha già gran tempo » si desideravano ? Vi hanno sicuramente in questi « L scherzi », che seguono « la tessitura de’ scherzi del signor Gabriello Chiabrera », le nove canzonette già da questo mandate, come vedemmo, al Castello, poiché a tacere di questi accenni abbastanza chiari dell’ editore sulla vera paternità di detti scherzi, e verseggiatura e stile e forma, sempre correttissima, dimostrano fino all’ evidenza questo fatto, ignoto, per quel eh’ io ne so, a’ bibliografi. Fanno essi parte « della Corona di Apollo », pubblicata dal Gentile « in Venezia, appresso Sebastiano Combi 1605 » (2). Non volle il Chiabrera pubblicarli col proprio nome anche perchè avea da poco tempo impalmata una giovine sedicenne perchè gli tenesse luogo di quella sua sorella, della quale avea scritto al Castello « a’ 6 di gen- (1) Pag. 242. (2) In 12. In due Parti. Detti scherzi si leggono nella P. 2.1 pag. 83-289. Fu forse allora che il Chiabrera scrisse allo stesso Ratto il Sonetto che si legge a pag. 39 del vol. IV delle sue op. Yen. 1731, che comincia.· Vincenzo, se giammai per me si vede D’ amorose faville arder due ciglia. GIORNALE LIGUSTICO 5 naio 1597: è piaciuto a Dio di pigliare a se una sorella, che io aveva sola; si che sono rimaso deserto, e quasi smarrito, e paio trasecolato; aggiungendosi che mi conviene pigliar cura di casa, da che ella mi liberava (1) ». Furono gli scherzi pubblicati sotto nomi diversi di « Accademico trasformato », e con a capo, quasi bandiera di salvocondotto pel Santo Uffizio, men severo del resto in Venezia che a Genova, « Loda della Verginità ». Alludeva egli forse anche a questi nella Dedicatoria a Iacopo Doria (2), dicendo: « poca stima faceva io de' versi, che di mano in mano io componeva; anzi nelle mani d’ amici per loro trastullo io gli abbandonava... alcuni... scambiando i nomi... li hanno stampati ». Il Cebà però, del quale pubblicò il Gentile nella stessa Corona d’ Appollo otto sonetti intitolati « Corona di pietà (3) », non ignorava certamente la vera e troppo libera mano che li avea dettati, onde potè con ragione terminare il sonetto già citato in lode del Chiabrera, invitandolo anch’ esso a pentimento Cantando homai come Dio s’ ami, e lodi „(4). È del resto, anche questa, una prova del quanto fosse il Chiabrera sollecito di serbarsi quel nome di pudico, di cui specialmente 1’ onorò Anton Giulio Brignole Sale in una canzone in lode di lui (5), della quale basti ripetere questi versi : Non più s’ udirò a 1’ hora Su cetre imbelli effeminarsi i canti, Onde infettano il cielo aure lascive. (1) Lett. pag. 143. (2) Delle Poesie, Genova, 1605, pag. 4. (3) P. 2.ft pag. 49-56; riprod. in Roma i6u fra le Rime del Cebà, pag. 163 — (4) Rime, 1611, pag. 290. (5) Le lnslabil. dell’ing. pag. 20-24. 6 GIORNALE LIGUSTICO A queste notizie sul Chiabrera n’ aggiungerò, secondo il consueto, alcune sui costumi del tempo, dedotte da’ suoi componimenti. Tre sonetti fece egli « per la Signora Giovanna Spinola mascherata^con manti negri alla Spagnuola (i)», un altro « per la sig. Aurelia Pavese, che danzava il ballo della spada », un altro « per la sig. Giulia Gavotta, che danzava il ballo della Barriera », due altri « per la sig. Lelia Grassa, che danzava il ballo della corrente », un altro « per la signora Flaminia Cicala mascherata alla Villanesca (2) », e altro appresso, « per le sig. Giulia, ed Aurelia Gavotte, mascherate alla Zingaresca », ed uno « per la contessa Angela Ardizia che ballava il Brando di Casale » (3). I balli di Genova ricordò il Cebà in questo madrigale: Quando intenta a la legge , Lidia, che t’ imponean corde soavi in mille dolci modi il piè giravi, Laberinto crudel de’ nostri cori eran sovente i tuoi leggiadri errori, ond’ hor, che gli altrui danni lagrimosa rimiri, il piè, che quanti giri iacea, prendeva i cor con tanti inganni vaga di trar d’ angoscia i tuoi prigioni al toccar d’ altre corde in ciel tu sproni (4). A tenere il Chiabrera in certo riserbo valse certamente Γ amicizia eh’ egli ebbe con Don Angelo Grillo, il quale già vedemmo quanto fosse zelante del buon costume. L’occasione di questa amicizia ci è così narrata dal Guastavino nel-1’ argomento al sonetto del Grillo (5), che comincia Questi eh’ al suon di lagrimosa lira : (1) Op. cit., T. 2, pag. 211 — (2) Pag. 225. (3) Pag. 230. (4) Rime, 1611, pag. 369. (5) Hdiz. Bergam. 1389. GIORNALE LIGUSTICO 7 « haveva il Sig. Gabriele Chiabrera gentil huomo savonese, et nobilissimo Poeta dell’ età nostra, mandate all’ autore nostro alcune sue canzoni in morte d’ alcuni valorosi Capitani del-Γ età passata; da lui composte in stile Pindarico, maniera non ancora vista fin qui, ma da lui con grande ardire, ma con maggior felicità tentate; invitandolo con tale occasione, et con una gentilissima lettera all’ amicizia; non si essendo prima conosciuti se non per fama: et esso risposto alla lettera » ecc. Erano quelle Canzoni forse già stampate dal Bar-toli in Genova il 1587, di che è parola negli Atti della Società Ligure di Storia Patria (1). Gli rispose il Chiabrera con altro sonetto dalle stesse rime (2), lodandosi di non aver imitate quelle che .....sovra Arno melodie cosparte Cigno di Citerea gorgheggia, e spira, e terminando : Ma che feci io? se non mi scusa Amore? Al Chiabrera scrisse il Grillo varie lettere tutte amichevoli, che si leggono a stampa, in nessuna però delle quali si parla, tanta fu la delicatezza di quel buon Benedettino, degl’ importantissimi servigi da lui resigli. Ben ne scrisse più volte il Chiabrera al Castello, cominciando dal 9 d’aprile 1595, cosi: « Siccome scrissi a V. S. io era in obbligo di pagare scudi novecento; come e perchè mi trovassi sì fatto obbligo, non accade dire ; basta eh" è stato tenerezza d’ amore e troppo fidarsi; di questa somma io ho messo insieme trecento de’ miei, e di quattrocento mi ha fatto forte il sig. Ferrerò amico vero e santo; de’ duecento io ho faticato V. S. e il sig. Cesare (Morando?) in parte per mezzo col sig. Andrea Spinola), del quale l’animo mi dice bene. Ora per l’avanzo (1) T. IX, pag. 190. (2) Rime del Grillo cit., c. no, r. 8 GIORNALE LIGUSTICO ho richiesto e richiedo il S. D. Angelo; ma sotto questa forma: mando a S. Signoria la presente Angelica (i), acciocché la doni ad alcuno costi, il quale avendo spirito di gentilezza potesse in qualche parte farmi godere della sua liberalità. Questi secondo me sarebbe il Marchese Spinola.... Dunque V. S.... vada a S. Giuliano, e conferisca al S. D. Angelo il mio travaglio.... voi siete testimonio, se da Poesia ho mai voluto altro, che puro e nudo amore, e benevolenza; ma niuno è padrone della sua ventura ; io non ho altre let-lettere di cambio, e sarò scusato se mi vaglio di ciò, che posso (2) ». E gli 11 di giugno: « Al sig. D. Angelo, se mai il vedete, ditegli quanto voi sapete eh’ io 1’ amo, e ho cagione di amarlo (3) ». E « agli 11 di luglio 1596: D. Angelo sig. nostro carissimo mi scrive eh’ egli ha alcun bisogno di denari. Io subito mando Rafie mio servitore con quanti denari mi trovava, ciò sono in tante doble di Genova L. 180... Il rimanente io provvederò fatto il raccolto.... al rendere chiesi termine diciotto mesi, e però non mi sono dato fretta (4) ».... Ma il 6 di gennaio 1597 : « non ho potuto, nè posso soddisfare al sig. D. Angelo nostro... Io non poteva indovinare tanti miei sinistri, e universali, e però dissi che a Natale io compirei. V. S. mi faccia di grazia rimaner seco in buona opinione; io scrivo a Sua Signoria due righe; la vostra viva voce aiuti la mia scrittura (5) »... E « agli 8 di agosto: per il sig. D. Angelo serbava alcuni scudi, che mi si deono dal sig. Gio. Batta Baldano nostro gentiluomo, il quale..., mi giurò non averne, ma che al tempo promesso (1) Tragedia dedic. a Francesco De Marini, poeta genov. e stamp. 1789, Livorno (Spotorno, note alle lett. sudd., pag. 317). (2) Lett., pag. 121 — (3) Pag. 124. (4) Pag. 135 — (5) Pag. 143 — GIORNALE LIGUSTICO 9 mi pagherà.... Ho guardato il Monte della Pietà per impegnare robe per quanta somma più potessi; ma trovo che è tanto il concorso de’ poveri della città e delle ville d’attorno, che non hanno denari de’ pegni, e perciò hanno fatto ordine che non si possa far pegno se non di pochissimo prezzo. Escluso da tutto ciò io non ho saputo dove voltarmi più ; ma pregare Domeneddio che ci lasci Γ amico.... V. S. mi perdoni e diami di grazia novella di mano in mano del sig. D. Angelo (ammalato), e mi tenga per uomo che non farò per voi quello, che non potrò fare per me (i) »... E « a 26 di ottobre: dal sig. Domenico Chiabrera mio cugino saranno sborsate a V. S. cento lire: pregovi a contarle al sig. D. Angelo e dirli che con ogni studio metterò 1’ avanzo insieme. 10 non scrivo a sua Signoria per vergogna veggendo dove mi ha condotta la fortuna... i presenti danari... con modo estremo gli ho messi insieme, e tutto ho tentato fuorché richiedere alcuno, e in questo ho mancato: ma D. Angelo... mi perdonerà, e vorrà che il servizio da lui ricevuto mi abbia giovato alla reputazione, la quale qui perderei se chiedessi nulla ad alcuno (2) ».... Di D. Angelo non si ha nel seguito di dette lettere più che questo cenno, del 20 decembre 1605: « Questo agosto passato io andai a Roma....; fui per visitare 11 sig. D. Angelo; ma egli era partito per Napoli (3) ». « Li 6 giugno 1615 » scrisse allo stesso Castello, circa 1’ Ester del Cebà; « ma perchè le poesie hanno riguardo al popolo io sono costretto aspettare il giudizio universale, e come mi disse D. Angelo, il tuono d’ Italia (4) ». Io non so se il Chiabrera alludesse al P. Grillo quando, essendo questi già morto da più d’un lustro, egli scrisse, (1) Pag. 144 — (2) Pag. 146 — (3) Pag· I76· (4) Pag. 245 — IO GIORNALE LIGUSTICO pare nel 1637, a Pier Giuseppe Giustiniani del Conte Fulvio Testi, allora in Genova: « Piacemi.... cotesto Giovane Mo-danese, e più mi piace, se egli ndn condanna la mia fantasia intorno all’ imtazione degli, antichi, de’ quali chi non conosce il valore, o è Angelo, o Bestia; io così fermamente credo (1) ». Imperocché giova sapere che il buon Benedettino si dilettava di secentismo, confessandolo egli stesso candidamente in questo sonetto : Se fuor talhor de 1’ orme degne io vago, Ch’impresse il maggior Tosco; e forse ardito Più che felice, altro Poeta imito Di novo stile, e nove forme vago: Ove travio m’ avveggio, e me n’ appago, E giovami a me stesso haver servito : Nè mar, eh’è senza sponda, e senza lito, In van rinchiuder tento in picciol lago. Nè dal far versi attendo eterno alloro ; Ma da lo sciorre a Dio la lingua e i voti, Perpetua gloria (sua mercede) in Cielo. E se lodo talvolta Avi, 0 Nipoti, O donne illustri, con pudico zelo ; È ch’ il Fattor ne le fatture honoro (2). E da Subiaco scrisse « al sig. Maurizio Cataneo, Roma... Benché ad arte l’uscir talvolta dall’ arte, et da quella stampaccia ordinaria mi paia una bellissima arte, massime con la scorta di qualche valoroso moderno. Ogni età ha le sue novità, et i suoi gusti particolari, onde anco questa nostra ha nel poetico cielo le sue stelle ecc. (3) ». E tra quei valorosi moderni era certamente per lui il Marino, del quale scriveva da Roma al P. D. Felice Passero a Monte Casino: « il vedo rare volte, (1) Ediz. Gen. 1839, p. 87. (2) Ediz. Bergam. 1589, c. 5, r. (3) Lett., ediz. ven. 1616, I, p. 487. Λ GIORNALE LIGUSTICO perchè la sua poesia è viva, la mia è morta ecc. (i) ». E da quel vivissimo, quanto sregolato ingegno, aneli’ esso ad arte, ebbe il Grillo i più belli fra i molti elogi poetici a lui fatti; dei quali non è a tacer questo: 1’Angelo ti crederei Ch’ a morir confortò Christo ne Γ horto, Se non fusse vitale il tuo conforto (2) ; e parlava probabilissimamente di conforto pecuniario, del quale ebbe per molto tempo bisogno grande. Avea forse parlato di questo suo cattivo gusto, mostrandone disapprovazione, il Chiabrera? Certo è che nel sonetto a lui diretto « dal Grillo (3), dopo aver detto lui Nuovo Atlante, e sè Misero Alcide, termina: Sotto scudo Palladio il fianco io celo, Quanto più posso; e ’ncontro i colpi fieri Vincer con Tarmi d’oro il cor procura. Parmi pregio dell’ opera il far qui conoscere come il nostro Don Angelo, desideroso anch’ egli alcun poco della glorietta apollinea, se la passasse col bel mondo, pure osservando il suo sopradetto pudico ^elo. Ce lo dice il Guastavino nell’ argomento alla Canzone Dalle fiamme di Marte: « Aspettandosi di giorno in giorno in Genova la Serenissima Gran Duchessa di Toscana, Christina di Loreno, che andava (1) Pag. 671. (2) Marino , Galleria. (3) Op. del Chiabr. cit. T. IV, p. 367. Noterò qui ancora, per isto-rica sincerità , che il Chiabrera lodò il Grillo in istampa, senza ombra d’eccezione, com’è a vedere nell’ole di 4 strofe, posta innanzi alle Rime dello stesso Grillo pubbl. in Bergamo il 1589, ristamp. a cura del Gentile in Venezia pel Combi il 1610 (pag. 55), non tlal Pavoni in Genova, sotto -la direzione dello stesso Chiabrera, il 1606. 12 GIORNALE LIGUSTICO a marito, condotta dall’Eccellentiss. sig. Don Pietro suo cognato; et havendo preparate molte pompe la nostra città, per riceverla, come a tanto personaggio si conveneva: il Poeta nostro anch’egli, per far che non fosse muta la pompa, 1 honoro con la presente Canzone, veramente piena di gravità, e di spiriti... d’eloquenza e di poesia; e con molti altri sonetti: nè già le dà lodi ordinarie d’occhi, di nasi, di bocche, d orecchie, e di capelli, de’ quali hormai son piene tutte le caite de Poeti Toscani; ma quali appunto si dovevano a si gran Donna·, et alla modestia di chi gliele dava ».... Queste ed altre poesie per la Corte di Toscana dovettero acquistargliene il favore, del quale è molto probabile si giovassero e il Chiabrera e il Pinelli e il Guastavino stesso, da quella grandemente graziati. Aggiungerò che furono nel 1590 ripubblicate in Genova, in un libretto, divenuto molto raro (1), le sullodate Rime del Grillo « con 1’ aggiorna degli archi fatti nel regai apparato della... venuta » del Sereniss. Granduca. (1) Atti della Società di Storia Patria, IX, pag. 540. Di queste dimostrazioni tacciono i nostri Annalisti, che solo ricordano la venuta in Genova di Don Pietro sudd. per accompagnare la Cognata. Premette il Roccatagliata (ri.nn. stamp. pag. 131), che il 1589 « essendo la stagione di carnovale, si fece in Genova un bellissimo torneo, nel quale da’ particolari fu speso di contanti, tanto fu la superba mole di esso, con magnifici apparati e sontuosi abiti, più di trenta mila scudi », e aggiunge poi la venuta di d. D. Pietro il 23 marzo, al quale « furotfò agevolmente concesse..... in prestito quattro galere della Repubblica...,, essendo egli allora inviato per condurre la Duchessa Sposa » di suo fratello. Parmi potersi da ciò inferire che quelle feste furono tutta opera di particolari, tollerata più che altro dalla Repubblica, alla quale non mancavano ragioni di stare in sospetto dell’ ambizioso ed astuto Principe toscano. Aggiungerò che il Roccatagliata descrisse poi le feste per 1’ arrivo di Margherita e di Alberto d’Austria (a. 1598, p. 219—) avvertendo di aver « tolto questa descrizione da Giacomo Manzini, che ne ha scritto ampiamente in una sua opera ». Sarebbe mai questi quello Jacopo Mancini, che altrove ci venne veduto ? GIORNALE LIGUSTICO *3 Io non so se a questo alludesse il nostro Ansaldo, inimicissimo di rime d’occasione, specie per Pincipi, scrivendo, in tuono di burlesco lamento, all’amicissimo Stefano di Negro: « hieri vi scrissi d’ un mio viaggio; ma ci lasciai il più bello: et è, che nel chiostro de’ monaci (benedettini) del Boschetto fui assalito con la richiesta d’ un Hymeneo (i) ». Alla sig. Isabella, moglie del sig. Giorgio Spinola Luciani, scrisse il Grillo, forse quando ella si maritò, il Sonetto, che comincia : Del vostro casto sen vaga Isabella, Pudicitia ritrosa, honor severo, Tengon le chiavi, e v’ ha cortese impero Sol chi vi scelse tra le belle bella, e seguita lodandola Che nell’ Egeo di questa humana vita,-Ove già per bellezze empie impudiche, Fu quasi il mondo horribilmente absorto: Il Faro sete, che ne mostra il porto (2). La «sig. Argentina Mari, moglie del sig. Ansaldo, giovinetta di gentilissime maniere, et di nobilissimi costumi, et di vivacissimo ingegno », somigliò, in altro Sonetto (3), «ad un Tempio ». In altro (4) dice « la sig. Laura Spinola, gentildonna bellissima, et molto virtuosa, e di honestissimi costumi degna veramente..... d’haver un altro Petrarca, che la commendi: ma ella stessa potrebbe essersi Petrarca, componendo versi leggiadramente; tutto che attenda a meneggi domestici ». E di lei pubblicò due sonetti a lui diretti (5), e (1) Lett., pag. 186. (2) Rime cit., carte 20, r. (3) C. 19, v. (4) C. 36, r. (5) C. 115. GIORNALE LIGUSTICO un altro « della sig. Livia Spinola sua cugina (i); signora ripiena di tutte quelle virtù , e gratie, che possono render una gentildonna amabile, et commendabile», in lode della quale scrisse egli due sonetti (2), del primo dei quali (cui rispose colle stesse rime la gentildonna) giova qui riportare il principio: Apollo, e Palla a voi la penna, e 1’ ago Dier, Livia ; e 1’ una e Γ altra in tele, e ’n carte Mostran di voi sì ben 1’ ingegno, e l’arte, Che n’ è l’un sesso, e l’altro, invido e vago. Due madrigali fece a « Medorino bellissimo cagnetto » della « sig. Cornelia Spinola Contessa di Tassarolo, degna moglie del sig. Conte Marco Antonio Spinola », le cui opere erano « Γ honore di questa presente età », benché abitasse « già molti anni », con dolore di Genova, « al suo contado »“, perocché « ritrovandosi Γ Autore un giorno in Tassarolo raccolto con molta cortesia..., aneli’ egli (il Medorino) il raccolse cortesemente reprimendo i soliti latrati, et esprimendo al meglio che poteva, l’amoroso suo affetto (3)». E a tacer d’altri somiglianti argomenti, « non havendo egli trattato materie amorose, le quali son quelle che sogliono fare il più delle volte il Poeta ricco, et abbondante (4) », porrò fine a questa enumerazione, citando il madrigale Canti Laura di Laura, eh’ egli fece « per la sig. Laura Peperara, Dama del Sereniss. sig. Duca di Ferrara, cantatrice, e sonatrice eccellentissima, ad instanza d’ alcuni suoi amici, mentre era in Ferrara ». (1) C. 116. (2) C. 84, r. (3) Guastav. argom. al madrig. L’aurata spoglia ecc. (4) Id. al son. In sensi gravi. GIORNALE LIGUSTICO r5 Fu il P. Grillo encomiato in versi latini anche dal già nominato G. B. Pinelli prima del 1594, nel qual anno fu stampato in Firenze, con altre poesie latine, Γ epigramma di cinque distici, che termina: Nam lyrico vali nullus numeratur Hetrusco Proximus, a te, quin, Grylle, secundus eat (1). Di questo pellegrino ingegno però io non ho trovato negli scritti del Grillo menzione alcuna, di che lasciando da parte la cagione, qualunque potesse essere, passo a dar le notizie, che mi venne fatto di raccogliere su di esso. Negli estratti del succitato Remondini (2) si legge il seguente; « 1581. Il q. Agostino Pinello nel suo testamento ordinò che fosse governato sino all* età d’anni 20 G. B. Pinello suo nipote figlio naturale del q. Filippo Pinello, in essecutione del quale Luca e Stefano Pinelli, figli et heredi di d. q. Agostino, ed essendo .morto d. Luca in Siviglia, supplica il nobile Stefano Pinello a depotare due cittadini per tassare li alimenti ». E di questo suo zio così cantò poi Giambattista ad Hieronymum Centurionem : Mi jam tum male, et oppido esse capit Ægre, cum patrui severioris, Sed cari, sed amabilis repente Absenti mihi triste nuntiatum est Funus. Tunc me ab humo elevare fortis, Intervulsa humero ingeni ala princeps (3). L’ oppidum ivi ricordato è certamente Levanto, e perchè ivi furono da antico nobili ed illustri di questo casato, corn’ ho dalla gentilezza del sig. Cav. Antonio Gavazzo, nome chiaro e noto ai lettori del Giornale ligustico, inteso a (1) Lilh li Carmin., p. 36, rist. Gen. 1605, p. 102. (2) T. 3.0 lett. Pinello. (3) Carni. Genuæ, 1605, p. 265. GIORNALE LIGUSTICO darci gli Annali del Borgo e Valle di Levanto dal 1114 in poi; e perchè 1’ Ab. Michele Giustiniani, costretto a’ suoi dì, posteriori di poco, a certi riguardi, non credè tacere l’eccezione alla qualità di Genovese aggiungendo : « benché taluno lo reputi per terrazzano di Levanto » (1); e perchè, a tacer d’ altri indizi, nel libro terzo Carminum (2) ricorda ad Alexandrum de Monte rnbeo . . . . suave vinum Quod misit mihi muneri probatus Alexander amicus .... e la . . . . villula millies beata Divi quam Ligures vocant Terenti, Qua: tuo paris hos hero liquores. I quali nomi soppresse poi nella ristampa genovese del 1605, quando gl’ importava passare per genovese. Anche il luogo della sua assenza da Levanto si rileva dalla dedicatoria Ad Capponum Capponium, De Innocentibus Carmen (3). . . . Novus adversa Pindi Hos ego cum cecini Tyberinam stratus ad undam Quartus ab undecimo nondum me viderat annus. E dal Carme In Augustinum Aunam Serenissimum Genuae Ducem si deduce pure a un bel presso il tempo di quel suo soggiorno, che dovette essere nel 1581, poiché ivi canta: Tuque, 0 Tybri pater, memini si rite (fluenta Nam tua forte sedens propter, puerilibus annis Tunc primum didici gracile inflare cicutas) Plurimo natorum deflesti inopina tuorum Funera.....(4) a cagione della pestilenza. (1) Gli scritt. lig., pag. 340. (2) Flor. 1593, p. 34. (3) Flor. lib. i, 1594, p. 22. (4) Ed. gen. 160;, p. 32. GIORNALE LIGUSTICO r7 L’avea dunque il suo buon zio mantenuto in Roma a’ primi studi letterari: e i mirabili progressi da lui fattivi, e i precoci saggi poetici gli valsero probabilmente altre potenti protezioni, per cui potè passare allo studio di Pisa; dove concorse certamente a sostenerlo il cugino naturale Stefano, di cui sopra. Tra i più potenti protettori ebbe ivi senza dubbio Lelio Medici, al quale cantò: Me tibi jampridem devoto carmine, Læli, Damnatum fateor...... qui..... .......generoso sanguine cretus Dilecti c^elo, et Divi vestigia sacra Numinis Aesi sii sequeris; qui munia sanctœ Tutaris fidei; qui relligionis habenas Christigenœ Alphea (ut par est) moderaris in urbe (i). Gli ottenne costui d’ esser uno di quei quaranta scolari del-l’università mantenuti gratuitamente nel Collegio Ducale della Sapienza, nel quale non potè il Galilei essere ammesso per istanze del padre suo, che del proprio lo teneva ancora nel 1585 a terminare il corso della filosofia e della medicina? (2) Certo è che il Pinelli al Galilei, professore in Padova, scrisse poco dopo eh’ ei vi sì fu insediato: Tene adeo adsidue gravibus, Galilæe, docendi Distinet implicitum Patavina Academia curis, Ut nos, qui veteri tecum conjungimur usu Dulcis amicitia, penitus de corde fugaris? An mecum indignatus abis, quod sexta recurrat Orbita jam Luna, cum a me tibi nulla papyrus Illita vel raptim? (3). (1) Carm. lib. I, Flor. 1594, pag. 3. Anche a Giulio Medici, forse il fratello spurio di Cosimo, diresse una bella ode consolatoria « in obitum uxoris », chiamandolo « Lux Medieceæ generosa prolis » (lib. Ili, p. 12), forse per essersi acconciato, rinunciata ogni pretesa, ad avere i favori di questo, di che vedasi il Litta, Fam. ital. Altri versi dettò per favoriti dalla Corte medicea, fra i quali niuno certo più meritamente di Filippo Pigafetta, fatto poi da Innocenzo XI suo cameriere, le cui lodi si leggono nella bell’ode del libro 3.0, pag. 23-27. (2) Favaro, op. cit., I, 14. (3) Carm. lib. I, 1494, pag. 34; 1605, pag. 55. Giorn. Ligustico, xAnno XI. 2 ι8 GIORNALE LIGUSTICO E fu forse per consiglio o emulazione dello stesso Galilei, eh’ egli dettò que’ bei versi coi quali chiuse il succitato libro terz discendente del celeberrimo Piero, prof, di diritto, e molto dopo, nel 1587, rettore dell’uni- (1) Carm. lib. II, p. 34. (2) Lib. I, p. 17 — , II, p. 28 — (3) Lib. I, p. 7—. A Domenico Ponsevi, scrittore fiorentino ricordato dal Negri, amico anch’ esso dell’ Angelio indirizzò il Pinelli gli endecasillabi, che si leggono nel lib. 3.°, pag. 68-71 , nei quali ei ridice le lodi dello stesso Poeta, ringraziando il Ponsevi d’ avergli annunziato Tanti nomiuis illuni ( Atigclium) ineptiores Nostros versiculos, et impolito Legisse haud, minima adprobatione. (4) Lib. I, p. 6 —; di questi Prof. ved. il Fabroni. Hist. Acad. Pis. T. II. (5) Lib. I, p. 12 — (6) Ib. p. 16 — (7) Ib., 19 —, ove notevole questo tratto : Pauperis ipse autem tetiuisque excultor Agelli Lappasque tribulosque lego. (8) Ib. p. 21 —, dove: «Me doctis vatum juvat impallescere chartis ». (9) Ib., p. 22, e li, p. 27. 20 GIORNALE LIGUSTICO versità; Giuseppe' Capanolo (i), prof, di logica poi di medicina; Giulio Libri (2), di dialettica, passato poi a Padova; Gio. Talentoni (3), lunigianese di Fivizzano, prof. di dialettica e di medicina, passato poi ad illustrare gli Studi di Parma e di Pavia, e autore anche di commenti su Dante; Pietro Lupi (4); Ippolito Accolti (5), spurio anch’esso, prof, di di-, ritto; e, a tacer d’ altri, Girolamo Papponi (6), prof, di diritto dal 1588 al 1592, il quale approvò, incoraggiandolo a pubblicarli , i suoi De legum laudibus Iambici trimetri (7), corredati di molte e dotte citazioni. Non poterono certamente essere se non questi, che fecero dire allo Spotorno (8): « in Pisa ebbe la laurea in legge»; asserzione, più che confortata, fatta dubbia dall’ intestazione posta poi dall’ autore agli stessi nella ristampa di Genova (9), — luris utriusq. insignibus a ViNCENTio Mazolio mox decorandus, Pisis haec de legum laudibus dixi. Era il Maggiolo che doveva laurearlo? (10). Io crederei piuttosto che li dettasse e intitolasse poi per qualche ricompensa. (1) II, p. 32. (2) Ib., p. 33. (3) Ib. (4) lb., p. 34, detto usque artis medica, carmiuis usque potens. (5) Lib. Ili, p. 64. (6) Lib. II, p. 41. (7) Lib. I, p. 43-59. (8) Stor. lett. IV, 152. (9) Pag. 204-219, senza citazioni. (10) Era questo già scritto e stampato quando, a maggior cautela, pensai sarebbe convenuto rintracciare su di ciò il vero nell’Archivio dello stesso Pisano Ateneo, nel che mi offerse la cortese opera sua il Neri, che interrogatone l’illustre prof. A. d’Ancona, n’ebbe questa graziosa risposta: « In un registro di matricole si trova inserito una sola volta sotto la data di 11 Novembre 1589 il nome di G. B. Pinelli genovese, legista. Ciò verrebbe pure a dire che se vi fu scolare, non si laureò a Pisa ». GIORNALE LIGUSTICO 21 E non dovè di questa essergli avaro il magnifico Tommaso Pallavicini, che disceso, nel suo ritorno da Roma a Genova, all’ albergo in Pisa, 1’ accolse perhumaniter, essendo egli accorso ad esso honorandi causa (ut par erat), e gli promise omnem, operam: meaeque dignitatis, et commodorum.... non im-memorem futurum, coni’ ei dice nella dedicatoria· del terzo libro Carminum, Pisis. No. Kal. Novembr. 1593, che termina: Quod si... nostra in Patria qui aeque ac tu erga bonarum artium studia affecti essent, non adeo pauci monstrarentur, sperarem fore, ut brevi sicut ista opulentissima Urbs efflorescit ingeniis, ita in ea liberaliores disciplinae divitum, ac potentiorum auxilio sublevatae, quae nunc magna ex parte in tenebris, ac situ opprimuntûr, exurgerent. Vale. E più lo esaltò nella bella ode oraziana, posta a capo dello stesso libro terzo: Tu fortis aurum spernere, tu lucrimi, Insigne egenis præsidium advolas: Nec divitum ritu scientes Despicis, et Sophia ministros, Non indecorus tu quoque munere Doctrina, et auri divite copia : Tellure depressos sed ima Munifice relevare gestis. Ma questa ristampando in Genova nel 1605 senza la dedicatoria , quale che ne fosse la cagione, non v’ appose che il titolo — In Incertum, come pure agli esametri Ad Bartho-lomaeum Mainerium, al quale cantava . . . quae nuper laurea (juris) cinxit Digna comas, titulos meritosque adiecit honores. e parlando di se stesso: Quis scit an, absentes qui nunc praedivite fastu Despicimur, vestro clari sul· Sole moremur Tempore labenti, meliori et sorte fruamur? (1) (1) Lib. I, p. 35-36; Gen. p. 56-57. 22 GIORNALE LIGUSTICO Il che non fece egli nè con Gio. Vincenzo Pinelli (i), benché già morto, nè coi suddetti Vincenzo Maggiolo e Ansaldo Giustiniani (2), nè con Bartolomeo della Torre (3), da lui consolato della sua piccola statura, nè con Aurelio Ta-leacarne I. U. D. Creato (4), nè con Giulio Guastavino (5), invano stimolato a coltivare insieme colla medicina, che lo fece poi prof, nella stessa Pisa, la poesia, alla quale non era troppo adatto per natura; nè con Leonardo Spinola (6), nè con altri, anzi coi più. E non devo fra questi omettere gli Addoi mentati Sopitorum Lyceum (7), nè Lorenzo Conti (8), lodato della sua traduzione del Bodino, stampata il 1588 (9). Più di tutti i lodati da esso in Pisa, dovette giovare al nostro il fiorentino G. B. Deti, uno dei fondatori dell’ Accademia della Crusca nel 1582, Consolo dapprima della Colonia di essa nello studio di Pisa, e nel 1587 Arciconsolo dell Accademia stessa in Firenze (10). Fu egli forse, che conosciuto il valore poetico del giovine Alitis in more.ni implumis, quem sœvior aura Deiecit patrio nido! (11) (1) Lib. Ili, p. 14-16; Gen. p. 174-176. (2) Gen. p. 178-180. (3) Lib. II, p. 38, Gen. 104-5. (4) Ib. (5) Ib., p. 39; Gen., p. 105. Del suo poco valor poetico possono esser prova i due sonetti al Padre Grillo (ed. cit, c 97) (6) Ib. (7) Lib. II, p. 37; Gen. p. 103. (8) Ib. (9) Atti cit. T. IX, p. 207. (10) Salv. Salvini, Fasti consolp. 277—, dove sono riportati alcuni versi del Pinelli. (11) Lib. I, p. 39 — GIORNALE LIGUSTICO 23 lo fece ascrivere socio col nome di Feccioso (1), e gli procacciò l’accettazione della Dedicatoria, che è quanto dire le spese della stampa, del suo Carminum liber primus, per Filippo Giunta (2). Giova qui riportare alcuni dei versi — Ad florentis simam atque excellentissimam Academiam Cruscae: O qua furfureis titulis Academia fulges Inclyta laus Flora, ac magnum Italia incrementum (3), Quid tibi casa modo prarupti e vertice montis Nostra vehat Pinus curva conjuncta catina? . qua prima fero majora daturus Tempore labenti cum me firmaverit atas Accipe dona libens . . Teque excellentem meritis, ac dotibus auctam, Exitniisque viris fatam, ingeniisque vigentem Extollam, Europaeque inter florescere primas Te referam ac doctas summa cum laude palastras. Hinc minus emeritum quamvis me fada procellis Fors circum fluitet, nomen sperare sepulcro Nonnullum impellor .... (4). Altri pure ei cantò della stessa Accademia, come negli endecasillabi Ad Sebastianum Rossinm il Consolo Lionardo Sal-viati, degnissimo successore del Varchi, morto nel 1589, i quali furono riprodotti dal Salvini (5), e prima che in Genova, stampati in Firenze (6), e terminano Iter perge tuum (ut facis) tuique Vecciosi mentor, Inferigne, vivas. (1) Si conserva dalla Crusca in Firenze l’impresa relativa, la data dell’iscrizione del Nostro a quell’Istit. del 16 gennaio 1590 veduti da Neri. Non v’ è detto chi ne facesse la proposta. (2) In 4.0 colla data del 1594, la data della Dedic. è Pisis. No. Kal. Novemb. 1593. (3) Sostituì nell’ediz. genov. ornamentum, pag. 35. (4) Lib. I, p. 1-4. (5) Op. cit., p. 193-4 ove cita l’ediz. genov. (6) Lib III, p. 65-66. 24 GIORNALE LIGUSTICO Ad Petrum, et Bernardum Signos, il primo dei quali vi fu Consolo nel 1594, scrisse gli altri endecasillabi, che giova qui riportare per le notizie che racchiudono : Pisce me revocant: iter paratur'. Sat Flora dedimus: valete signi. Illic, ni male quid cadat, morabor Latus hac hieme imminente tota, Grato et fessus in otio, acquiescam, Fessus sciìicet improbo labore, Hactenus mihi quem attulere Musa: Aeque enim haud premor, atque cum necesse est Duram versibus admovere mentem. Tum caput scabo, pallidusque fio , Et curas agito astuosiores (1). Ch egli ammaestrasse nelle lettere qualche ricco adolescente il farebbe credere la dedicatoria del secondo suo libro Carminum, colla stessa data delle altre, Illustrissimo D. D. Io. Francisco Gnidio Marchionis Montisbelli, et Balnei Comitis filio, del quale Marchese dice che la sua virtù plurimum in gloriosa Ferdinandi Magni, atque invictissimi Hetruriae Ducis aula collucet, e del figlio: biennij spatio in humanioribus litteris, m quas adhuc Pisis diligenter incumbis,... licet plurimum inter haec aurea, ac te vere digna Historia, et Mathematicis delecteris, Musarum tamen concentibus non adversaris·, e gli raccomanda negli esametri che seguono (2), che quando • · · · doctus eris, quâ ducere turmas, Qua deceat conferre manus, qua figere castra Ut tibi ridenti faveat victoria vultu, .... cave ne fastu plenus contemnere Vates Incipias : hi namque ferunt ad sidera cali. Hos alere instituas ditissimus ubere gleba etc. (1) Lib. III, p. 67; Gen. p. 255-6. (2) Lib. II, p. 1-4; Gen , p. 62-65. Dettò in lode dello stesso i due epigrammi che si leggono a p. 30-31, lib. II, Gen. 125-126. GIORNALE LIGUSTICO 25 Fu egli pure, forse in somigliante uffizio, a Bologna, come si rileva dagli altri suoi esametri ad Annibalem Ranutium Comitem etc. (1), al quale, scusatosi del lungo silenzio ricordandogli . . . quanto . . . fortuna tumuìtu Hactenus, et quantis jactaverit aura procellis Invidia, canta poi : .... jam tu ex illo, cum Felsina mater Me tua detinuit, nostra sub mente resedit Ingens cura tuas modulando dicere la.udes. Sed meminisse potes, qui tunc mihi languor in artus Venerit, anteacta cum effrana licentia vita Me subito afflixit morbo, qui pene refregit Claustra animi, pepulitque fere me ad limina mortis. Invitum sic me nisu graviore coegit Deserere incaeptum nostris contraria votis, Et non aqua tuis meritis Rhamnusia virgo. E quanto'all’invidia, dalla quale si lamentò sempre bersagliato, e gli furono dettati più tardi impropefl poeticamente felicissimi, van notati questi altri esametri: Sin est pura mihi mens huius criminis ; in te (Quisquis es, in tantum qui me scelus improbe raptas) Me quibus addixi, convertat vota merentem (2). Versi d’ amore scrisse anche il Pinelli gareggiando bellamente con Catullo, e diversi componimenti di vario metro pubblicò nel 1593 e ristampò in Genova nel 1605 Ad Deliam e ad Lillam, con tanto favore accolti dagl’intelligenti del-1’ arte, che il nostro Cebà non dubitò di pubblicare nel 1611, (1) Lib. I, p. 36-38; Gen., p. 57-59. (2) Lib. I, p. 47, Gen., p. 62-63. 2 6 GIORNALE LIGUSTICO fra le altre sue Rime più volte citate, questo sonetto a lui diretto : Benché la mia dalla tua penna industre parta tra noi Pinel spatio infinito, e ’l sole, ond’ è che ’l nome tuo s'illustre non veggia ’l mio da l’orizonte uscito; Ma sempre cigno oltr’ ogni cigno illustre tu scioglia in alto il nobil volo ardito, e sempre augel sovr’ ogni augel palustre io batta l’ali in su l’arena, e ’l lito: Pur ne 1’horror, che la mia musa preme, e ne le gratie, onde ’l tuo dir sfavilla comune anche un peccato habbiamo insieme; Ch’ ove destarne il primo suon di squilla dovea mai sempre a lodi alte, e supreme, io vaneggiai di Lidia, e tu di Lilla (i). Se a tanto si decidesse il nostro Ansaldo anche per non aver brighe con questo audacissimo agitatore del licambeo flagello, da lui spietatamente menato in strumam (2); io non saprei. Certo è che fra i tanti genovesi lodati dal Pinelli non si può propriamente annoverare il Cebà, del quale egli non (1) Pag. 45. (2) Voce adoperata poi ne’ versi diminutivamente, che vale in dialetto genovese gomita (scrofoloso, e non so se sinonimo pure di faccia giana, viso pallido), voce non registrata dal Casaccia nel suo Dizionario genovese 2.‘ ediz. Genova 1876. Gli endecassillibi, ad esempio, che cominciano — At te, strumula abominate (ediz. gen., pag. 229, terminano (pag. 301): Ergo, tu cave, ne meos libellos Leedas ; et caput immerens lacessas Nostrum; nam subito tibi trecenti Famosi Hendecasyllabi advolabunt ; Quos si lividus asperisve verbis, Indignave coerceas litura; Tunc te confodiam ense delibuto Succo vipereo, allioque agresti; Teque in frusta secabo mille, et ossa Lupis, alitibusque dissipabo. GIORNALE LIGUSTICO 2? ricordò che P epigramma latino scritto pel giureconsulto Gio. Girolamo Rosso, già cancelliere della Repubblica, decapitato il 1600, per aver procacciato di salvare, col nasconderlo, il cugino Genesio Gropallo, uccisore, per vendetta, di Lorenzo Sauli, testé doge. Fu quella condanna pronunziata « dopo molte dispute, ed appena col numero delle palle che vi volevano... , attesoché molti senatori avevano delle ragioni in contrario (1) ». Scrisse per quel fatto il Pinelli un bell’ epigramma latino di cinque distici, terminandolo col dire al Rosso Equum erat ut stares, aquius ut caderes (2) ; e un altro il Cebà di tre distici, da lui mandato al fratello Gio. Lanfranco a Malta con lettera, stampati poi nel 1623 (3), nel quale fa da ultimo dire al condannato: Tandem conveniunt (Patres) : aquum quod vincere vincit : Vincit amor patriae ; Patribus ipse cado. I due epigrammi dovettero andare per le mani del pubblico; e il Pinelli allora ne dettò altri due Ad Ansaìdum Cebà (4), dai quali si rileva che questi ne dovette scrivere un altro ancora in lode del pinelliano, giacché si legge nel secondo di essi: . . . Tu, Ansalde, probas . . . nostrum carmine carmen Argute . . . .; e il primo termina: O sim quod tu esi tum quivis mihi, itoti modo Rossus, Stet rite, et moriens evolet a tumulo. (1) Roccatagliata, Ann., pag. 247-9. (2) Carm., ed. gen., pag. 109. (3) Lett., pag. 56-57. (4) Carm. cit., p. 110, 28 GIORNALE LIGUSTICO È ora da vedere chi fossero Delia e Lilla cantate e vagheggiate dal Pinelli. Che la prima fosse la « celebre Comica Confidents Camilla Rocca Nobili », già lo rilevò il eh. Bei-grano (i); e Lilla? Ridotto alla necessità d’indovinarlo, sottopongo al giudìzio del lettore i fatti seguenti: Isabella Andreini, di cui già toccai parlando del Chiabrera, indirizzo « all Illustre signor Gio. Battista Pinelli » la « Canzonetta morale », che si legge fra le sue Rime stampate in Milano il 1601 (2), nella quale essa « loda la vita Pastorale »; e da questa apparisce, ch’ella dovette da lui sapere eh’ egli possedeva qualche camperello, da esso pure accennato (3), forse in Levanto, non so come pervenutogli; poiché vi si legge : Huom prudente così l’invida Corte Fuggir può, sciolto da litigi, e sdegni * Chè folle è bep chi ’l Pino errante crede A l’irato Nettuno, perch’ ei rieda Salvo talhor..... * Fende a la propria terra il duro volto Co’ propri buoi..... .....) e nel suo viver breve Del poco ei gode e non agogna il molto. (ij Caffaro succit., da Francesco Bartoli succit., voi. 2°, pag. 292. (2) Pag. 92 — (3) E magro camperello, probabilissimamente, che nel suo 0 nel non meno bizzarro ingegno d’altro Cruscante avea fatto nascere il suo appellativo di veccioso, e a lui dettò la lepidissima — ad Iuliurn Masium Pinus, ode, che termina: • . . · Procul i viator, Ne tibi infringant caput immerenti Dona Cybelles (Lib. Ili, p. 29-30, Gen., p. 180-1). V GIORNALE LIGUSTICO 29 Si gode gli anni che non tornan mai, E sua fortuna humil nel basso albergo : Lascia ’l timor di Giove irato a tergo. Che sol gran moli folgorar vedrai ecc. (1). Alla canzonetta tien dietro immediatamente: Madrigale. Diceva ad Egle Elpin m’odi, perch’io Privo sia di tesoro? Non t’ avvedi ben mio, Ch’amor premio è d’amor non premio d’oro? M’ odi pere’ i’ sia brutto ? ama il mio core Bello non men del tuo leggiadro volto; Poscia che ’n quello è scolto L’istesso viso tuo per man d’ amore. E se non ami il bel, che di te vedi, Ove trovar maggior bellezza credi? E a questo ne succedono altri tre, il primo dei quali termina : Sol a me stessa a Dio, che ’n voi mi vivo, E da me parto se di voi mi privo ; e nell’ ultimo si legge: Ma poiché rio Pianeta Mi costrinse a partire, • · · · · Questa vita m’ è schiva ; E sol morir desio, La dolent’ alma a te di novo invio. (1) Chi non direbbe questo pensiero quasi la traduz. dei due distici pinelliani sulla rustica domusi (ediz. fior. 1594, lib. II, pag. 65. Parva ego sum fateor : sed ve me speme, Vìatcr : Parvas cura domos vescit, et ira Iovis. Aliter. Aude humiles intrare lares: secura, Viator, Hic requiesj vento, et fulmine celsa ruunt. 30 GIORNALE LIGUSTIGO E tre sono pure gli epigrammi del Pinelli — De discessu Lilìae (i), il primo dei quali termina, parlando alla Sorte: Tene mei miseret? pietas proh rara, animam mi Nolle, anima sad quod carius est rapere! E i protettori del Pinelli, Girolamo Centurione, e Giacomo Doria furono lodati in versi anche dall’ Audreini (2). Debbo però aggiungere colla medesima istorica sincerità, che negli scritti del Pinelli non mi è occorso di vedere nominata 1 Andreini, nè accennata la professione di essa, che dovette certo esercitarla anche in Toscana, dove dal suo amatissimo e amantissimo Francesco pistoiese ebbe nel 1578 a Firenze quel Gio. Battista, che, unico dei tre (fra i quali un Camaldolese) datosi al teatro, compose anche V Adamo, rappresentato in Milano e udito dal Milton, che n’ebbe, dicesi, 1 ispirazione pel suo Paradiso perduto (3). Veda chi può se nulla si rilevi dall’opera del sullodato Gio. Battista, della quale qui trascrivo dal Mazzucchelli l’indicazione : « Pianto d’Apollo, Rime funebri in morte d’Isabella Andreini Comica Gelosa, ed Accademica Intenta, detta V Accesa, di Gio. Batista suo figliuolo, con alcune Rime piacevoli sopra uno sfortunato Poeta, dello stesso Autore. In Milano.... 1606, in 8 (4). L’Andreini ha (1) Lib. II, p. 58-59. (2) Rime succit., pag. 47, 65. A questi genovesi aggiungansi: « D. Carlo Dona capitano generale, per sua Maestà Cattolica della squadra deìle galere di Genova » (p. 21), « Alderan Cibo, March, di Massa ecc. » (p. 53)> Placidia Grimaldi (p. 64), Paolo Agostino Spinola (p. 69), lodato anche dal Cebà e dal Pinelli ; nel quaie si confermarono gli stanziamenti dell’altro urea alla elezione de’ quaranta Senatori, l’autorità predetta del Senato e della Credenza venne assai diminuita coll’ aggiungersi a loro, pel fatto di equivalere al Consiglio Generale, il Consiglio Maggiore e Minore degli Anziani, i Consoli del Mare, de’ Mercanti e dell’ Arte della Lana e i Capitani e Prioii delle Sette Arti (4). Il signor Raumer nelle sua Refi) Breve Pisani Populi et Compagniarum (1286) cap. XCIV, Breve Pisani Comunis (1313-13 37) I, 7. (2) Brev. Pis. Com. (1286) I, 11, e 55. (3) H. I, 55, Brev. Pis. Com. (1313-1337) I; (4) Brev. Pis. Com. (1313-13 3 7) loc. cit. GIORNALE LIGUSTICO 4r lazione fatta il 5 novembre 1827 all’Accademia delle Scienze di Berlino sopra un Codice inedito di Leggi Municipali Pisane , arreca un brano di quelle e ne deduce che il Podestà di Pisa fosse eletto dal Senato (1). Il passo citato dal Rau-mer io non 1’ ho potuto trovare, e potrebbe anche essere mi fosse sfuggito, ne’ testi stampati. Comunque sia, è certissimo che dopo il 1313 il Podestà Pisano era eletto da un numero variabile di savi scelti ogni volta dagli Anziani (2). Nel Breve del Popolo condotto allo stesso termine di quello del Comune non si fa parola del Senato; e non è da maravigliarsene dacché questo Breve provvide sopra tutto a formare i novelli ordini popolari, coi quali per certo il Senato Pisano, al pari de’ suoi fratelli, non potè fare lunga vita; e però io lo lascio a questo punto. E parlerò del Senato Genovese ; ma pur troppo non così franco e sicuro, come pel Pisano, mancandomi la fedele guida degli Statuti. In Genova similmente, non essendo da principio che due sole Assemblee, 1’ una straordinaria, che era il Parlamento o la Concione, e l’altra ordinaria, non vi era ragione di distinguer questa di nome speciale oltre al suo proprio e generale di Consiglio, che gli durò lunga pezza. La prima menzione del Senato Genovese, che io mi sappia, è quella dell’ atto di cessione temporanea di una parte della gabella del lino ad una società di cittadini, del 7 aprile 1144, nel quale si dice che la detta cessione era fatta da’ Consoli cum Senatus consilio (3). Nondimeno per gli atti più solenni il titolo generale continuò ancora a mantenersi in onore, del che rende testimonianza il Breve della (1) Questa Relazione è riferita dal Bonaini tra le note al Costituto della Val d'Ambra del 120S da lui pubblicato in Pisa nel 1851. (2) Brev. Com. Pis. loc. cit. (3) Liber Iurium Reip. Gen. I, 92. 42 GIORNALE LIGUSTICO Compagna di Genova del 1157, dove sempre si trovano adoperate le voci Consilium e Consiliatores, non mai quelle di Senato e Senatori (1). Talvolta in altri atti Consiliatores campanai (i Senesi avevano il Consiglio della campana), da ciò che a chiamare i Senatori, come ordinari, bastava il suono della campana, quando agli straordinari, vocali ad brevia, abbisognava un messaggio particolare (2). E talvolta, come io credo, Silentiarii e, se non è errata la lezione, Silentiani; titolo veramente non di carte pubbliche, ma di Annalisti, sovente rettoria, da loro messo fuori (forse per la sola ragione di avvertire quando i Senatori avevano l’obbligo del segreto) 1 anno 1158 e meglio 1157, non 1181 come scrive Michele Canale (3); e· tolto con poco garbo dalle sentinelle, che nel basso Impero facevano le guardie su i limitari del Concistoro o Palazzo del Principe (4). E questo io credo perchè ai Silentiarii si assegnarono da quelli scrittori le faccende medesime de Senatori; e perchè i Genovesi di quella età ebbero sempre un Consiglio solo e non due, che sarebbero stati se i Silentiarii avessero formato un Consiglio per sè; onde questo nuovo nome, quasi capriccio di scrittori privati, cadde presto in dimenticanza. Quanto alla condizione civile de’ Senatori Genovesi essa è a bastanza spiegata dalla stessa loro dignità, e di fatti in carta del τ 166 sono nominati viri prudentes senator h Ordinis (5); e Ottobono Scriba sotto l’anno 1163 li dice a diiittura nobiles de Senatu (6); pertanto non si dovrebbe sba- (1) Atli della Società Ligure di Storia Patria, vol. I, pag. 176 e seg· (2) Liber Iur. cit. I, 761, 826. (3) Cafari, Ann. Gen. pag. 26. ed, Pertz. Oberti, Ann. Gen. pag. 95> ed. Pertz. Canale, Ist. Gen. I, 261. (4) Cuiacii, Commentarii ad tres postremos Libros Codicis Iustiniani, lib. XII, tit. 15. (5) Lib. lur. Gen., cit. I, 221. (6) Ottob. Scribæ, Ann. Gen. A. 1163. GIORNALE LIGUSTICO 43 gliare a ritenere che il Senato Genovese fosse levato dalla parte più illustre della cittadinanza. Ma come si rinnovasse e da chi, e quanto durasse, questo è fra le tenebre. Probabilmente si elesse da’ Consoli ; e dovette durare tutto il tempo di ciascuna Compagna o Consolato ; e cessati i Consoli , forse si mutò ogni anno insieme col Podestà e cogli otto Nobili (i). Come il Parlamento a suon di campana o di corno si ratinava nella piazza di Sarzano o nella chiesa di San Lorenzo, cosi il Senato nel Capitolo e a’ tempi del Podestà spesso nel palazzo Fornari ove quell’ufficiale risedeva (2). Per le cose di gran momento s’accresceva, non altrimenti che il Senato Pisano, più sovente di quattro o sei sopracchia-mati per Compagna, vocati ad brevia o tratti a sorte , non so fra quale gente scelta da prima, poiché mi è duro a credere che in deliberazioni da cui poteva dipendere la salvezza e l’onore della patria, si volesse correre il rischio di cadere in braccio a Consiglieri dissennati, e non piuttosto discreti o sapienti, quali si richiedevano da’ Pisani i Consiglieri straordinari (3). Se i sopracchiamati erano in maggior numero , il Senato prendeva il nome di Magnum Consilium, quello per avventura che in Pisa il Consiglio Generale (4). Egli approvava le guerre, le leghe, le paci, prima che ne fosse proposta 1’ ultima risoluzione alla autorità suprema del Parlamento (5). Concedeva la cittadinanza (6). Aveva parte nel- (1) Lanfranci Pignolo et soc. Ann. Gen. A. 1264. (2) Breve della Compagna di Genova del 1157, pag. 178 (Atti Soc. Lig. Stor. Patr. vol. I) Lib. Iur. Gen. cit. I, 728, 761, 762, 826, 862, 1082, 1114 et passim. (3) Lib. Iur. Gen., cit. I, 728, 760, 826, 862. (4) Id. I, 852. Bartholomei Scribæ, Ann. Gen. A. 1243. (5) Id. I, 250, 748, 762, 1042, 1114. Oberti Cancellarii, Ann. Gen. A. 1171. (6) Lib. Iur. Gen., cit. I, 276. 44 GIORNALE LIGUSTICO l’assegnare canoni e prestazioni straordinarie (i), nell’accettare per la Repubblica dazioni e vendite di terre (2), nell’e-sentare dalle imposte (3), nel vendere alcun provento, quantunque a tempo limitato (4); ma i Consoli potevano senza di lui dare a livello perpetuo i terrreni del Comune (5). Concorreva , quale rappresentante del Popolo , insieme col Clero alla elezione dell’Arcivescovo, come i Consigli delle altre città alla elezione de’ loro A^escovi, come il Senato Romano alla elezione del Papa (6). I contratti più notevoli, e quelli in ispecie con potenze forestiere, erano sottoscritti da tutti i Senatori presenti 0 da alcuni, ed ancora dai sopracchia-mati; ed alcuni altresi o tutti i presenti li giuravano; lo stesso che in Pisa (7). Se l’atto si stipulava in paese straniero, 1 Ambasciatore Genovese, vir nobilis, lo giurava egli predicte civitatis (lamine) eiusque totius Senatus ac Consolimi venerabilis Legatus, come si legge nel Privilegio confermativo dato ai Genovesi da Boemondo di Antiochia l’anno 1169 (8). Dalla lista de Senatori sottoscritti in cotali atti si volle per alcuno con-ghietturare il loro pieno numero. Conghietturare è lecito, ma non a credenza : e a credenza mi pare che sia, solo pensando che i seduti nelle panche de’ Consigli in un di, non sono mai tutti quelli che vi dovrebbero essere e non vi sono o per dappocaggine, 0 per malizia, peccati antichi e moderni, o per buone ragioni che sono sempre le meno. Ed oltracciò (1) Lib.· Iur. Gen., cit. I, 826. (2) Id. I, 728. (3) Id. I, 225. (4) Id. 1, 92. (5) Id. I, 362, 363, 364. (6) Tarlazzi, Appendice ai Monumenti Ravennati del Fantui^i, tom. prefaz. pag. XL Vili. (7) Lib. Iur. Gen., cit. I, 223, 748, 762, 763, 1264. (8) Id. I, 252. GIORNALE LIGUSTICO 45 moltissimi erano i sopracchiamati ad alcune deliberazioni senatorie, e spesso non se ne dice nè pure il numero non che le qualità ; quindi sottoscrivendosi tutti ad un modo , senza alcun cenno, di distinzione, riesce impossibile fra tanti nomi di raffigurare i Senatori veri ed ordinari. L’atto di esenzione dei Conti di Lavagna dai pubblici oneri fu sottoscritto nel 1166 da ventidue Senatori (i). Intervennero con giuramento quarantaquattro Senatori alla conclusione della lega col marchese di Massa l’anno 1173 (2). La pace coi Narbo-nesi del 1224 ebbe la sottoscrizione di ventidue Consigliatori (3). Questi sono atti dove si veggono Senatori soli; ciascuno comprende se in tanta diversità di numeri si può fare alcun fondamento. Di quelli dove posero i nomi loro anche i Consigliatori straordinari eccone uno "che può fermare un poco la considerazione del lettore. Ed è quello della lega tra Fiorentini e Genovesi del 1251, sottoscritto dai Consigliatori e dai sei per Compagna, in tutto centotredici (4) ; onde, le Compagne essendo allora otto, i Consiglieri straordinari sottoscritti dovettero essere per conseguenza quarantotto, e i rimanenti sessantacinque si dovrebbero estimare Senatori. Il lettore giudichi se vuole 0 non giudichi, che sarà meglio. Io vado avanti. Nel 1191 fu da’ Genovesi instituito il Podestàj ma per l’alternazione del suo reggimento con quello de’ Consoli, secondo che avvenne nelle altre Comunità,' egli non ebbe fermezza se non dopo ed in Genova non prima del 1217. Durante la sua Signoria il Senato non patì innovazione, se non che la forma politica da lui espressa, si trovò vieppiù rafforzata dalla maggiore ingerenza data nel 1196 agli Ottimati, mediante la (1) Lib. Iur. Gen., cit. I, 221. (2) Id. i, 278. (3) Id. i, 748. (4) Id. I, 1114. 46 GIORNALE LIGUSTICO creazione degli Otto Nobili ; Collegio stabile addetto al Podestà e deputato all’amministrazione ed agli armamenti della Repubblica ; il quale, come grande magistrato, sottoscriveva anch’esso i trattati politici, pigliandosi dopo il Podestà il pi imo luogo e lasciando il secondo a’ Senatori (i). Donde accie-sciuta ne’ nobili, coll’ insorgere delle parti, 1’ ambizione e la gelosia più che l’amore dello Stato, nel 1264 si pietese da taluni di loro, che la progenie de Grimaldi avesse de amicis suis in Decurionum (gli otto Nobili), sive Consiliatorum (i Senatori) ordine ultra satis quam ipsos habere debere ceteris lamie Nobilibus videretur. E si minacciarono tumulti. Di che oidi-nate buone guardie, il Consiglio, che era il Senato, diede autorità a trentadue uomini delle Compagne di eleggeie 1 Consiliatores (Senatori) e gli Octo Nobiles dell anno appresso, e ciò venne ratificato, come si praticava di tutte le deliberazioni più importanti, per universum Consilium (il Parlamento o la Concione). E i Trentadue elessero gli Otto Nobili di cui l’Annalista riferisce i nomi, ma per mala avventura, secondo il costume vizioso di tutti i suoi predecessori, non fa motto de’ Senatori, con grave danno, perchè allora sarebbe stata Γ occasione di sapersene il numero (2). Il primo Fiat populus gridato per le vie di Genova l’anno 1257 non gotti il Senato Genovese; ma sotto i Capitani, di Popolo assolutissimi male potè reggersi, ed alla fine gli oidini democratici soverchiami lo rovesciarono. Ma ne restò il nome, ereditato dalla Signoria degli Anziani popolari e poi da quella de’ Governatori, e questo non in Genova solamente. Dopo studiati i corpi pervenutici dall’antichità più 0 meno tronchi de’ Senati di alcuni Comuni, bisogna dare uno sguardo anche alle poche reliquie ed ai vestigi, non meno (1) Lib. Iur. Gen., cit. I, 1094. (2) Barth. Scrib., Ann. Gin. A. 1257. GIORNALE LIGUSTICO 47 venerandi di altri. Ecco il Senato di cento buoni uomini, pei quali e pe’ Consoli si reggeva la città di Firenze, prima che vi fosse introdotta la Signoria forestiera nel 1207, secondo afferma Ricordano Malispini (1). È ben vero, che cercato e fatto cercare da chi nelle cose fiorentine sente molto avanti, nessun documento o altra notizia antica si rinvenne da confortare quella asserzione. Laonde, se non si volesse tener conto della testimonianza, che a me sembra non ispregevole, di tale scrittore in fatto vicino all’età sua, non resterebbe se non l’indizio del Senatore, di cui almeno non si può dubitare; il quale come in Roma argomentava e rappresentava il Senato già esistente, cosi potrebbe aver fatto in Firenze e negli alti Comuni dove esso vegliava (2). Fra questi vegliava in Fiesole, e Giovanni Villani lo dice Signore, al pari del Senatore di Roma e di altri Ufficiali supremi della bassa età : nominato per le spogliazioni da lui praticate sulla Chiesa fiesolana e per 1’ assassinio del Santo Vescovo Alessandro ; il quale essendo andato a Pavia a querelarsi di lui, chi dice ad Autari, chi a Rotari e chi a Lottario , ed avendone riportata piena giustizia , il Senatore, venutolo a sapere, gli mandò incontro, al ritorno, suoi masnadieri, dai quali fu barbaramente affogato nel passare il Po od il Reno presso Bologna, chè anche in questo gli scrittori non sono concordi. Non voglio però tacere che nè l’Ughelli, nè Francesco Cattaneo, che fece con molto amore la vita del Santo, nè tampoco i Bollandisti parlano punto del Senatore malvagio e rapace, ma sì di uomini potenti e tiranni che avrebbero operato quello di cui Giovanni Viviani accusa , a mio avviso con più verisimiglianza, il Senatore Signore del luogo, come quello da cui il Santo Vescovo non poteva richiamarsi (1) Malispini R. Cron. Cap. XCIV. (2) Vedi Senatore, § 3. GIORNALE LIGUSTICO se non al Re o all’Imperatore Signore supremo (i). Molto più sicuri mi paiono i Senatori di Lucca i cui titoli, fanno capoverso a cinque capitoli dello Statuto Lucchese del 1308 colle formule Nos senatores, firmamus, decernimus, statuimus, oi-dinamus (2), simili a quelle adoperate dal Senato Romano ne’ suoi decreti (3); ma in tutto lo Statuto non è una parola di più da poter chiarire un poco la condizione di cotesti Ufficiali. Sappiamo che c’erano e nulla altro. Il perchè non potendosi eglino collocare fra i Consigli tuttora vivi, di cui lo Statuto fa la descrizione senza mai menzionarli, come sembla avi ebbe fatto se vi fossero stati compresi, si ricorse quasi pei necessita anche alla ipotesi che per Senatores quivi sJ intendesse Statutarii. Ma io a tale necessità non posso accomodarmi, stante il significato novissimo e stranissimo che si presteiebbe a quella voce, che non è poi di quelle capaci di allargai si a sensi troppo disformi dall’originale; e stante la regola sempie tenuta da esso Statuto, il quale quando gli accade d intitolale a’ suoi compilatori 0 riformatori qualche disposizione, scrive sempre chiaro e proprio Nos Emendatores, Nos Statutam, e non mostra aver bisogno di pescare un titolo insolito (4)· D]ro anch’io la mia, e vada a cercar sua ventura. Quei Senatori néi capitoli 60 e 6j del libro III, ripetono e spiegano il bando, dato il 18 agosto 1254 dal Consiglio Maggioie, contro i ribelli Signori di Versilia e d’ altri luoghi vicini e ne riferiscono i nomi, ma con qualche variazione da quelli del predetto Consiglio, variazione che secondo due noteielle del secolo XVI apposte al testo dello Statuto, appare esseie state fatte nel 1267 (5). Pertanto è indubitato che questi ca- (1) Villani G. II, 7. Acta Sanctorum die sexta junii. (2) Statut. Luc. (1308) I, 25; II, 30; III, 60, 139; IV, 30. (3) Bibliografia Romana, tom. I, Doc. XII, XIII, XIV ai Prolegomeni. (4) Stat. Luc., cit. IV, 39; V, 59. (5) Statut. Luc., cit. Ili, 61. GIORNALE LIGUSTICO 49 pitoli ed altri simili non furono compilati a posta per quello Statuto , benché si potesse prevedere che in uno Statuto dovessero entrare quando che sia, ma bensì appartengono alle Costituzioni più antiche che gli Statutari furono avvertiti dalla Signoria di dover tramettere nel loro lavoro (i). Tra le quali Costituzioni annoverandosi nominatamente dalla Signoria quelle de’ XXXIIII uomini, non potrebbe egli essere, e senza troppa noia de’ criticanti, che le disposizioni senatorie prementovate fossero quelle medesime de’ XXXIIII ? Donde questi diventerebbero 1’ antico Senato Lucchese , poco diverso pel numero dal Pisano, composto prima di ventiquattro e poi di quaranta Consiglieri. Più qua ne’ tempi, la Signoria viscontea Milanese ebbe un suo Senatore particolare, per quel che ne dice una iscrizione del 1329 posta ad una cappella della chiesa di Santa Maria di Bertrade, dove si legge che la fece fare quella cappella Maestro Antonio di Solaro Senatore del Magnifico Galeazzo Visconti, Vicario imperiale e Signore Generale di Milano. Il Giulini commentando detta iscrizione afferma che altri Consiglieri, oltre a quell’uomo devoto, aveva Galeazzo, e sia. Ma non se ne può dedurre, come egli fa, che tutti questi Consiglieri dovessero chiamarsi Senatori e Senato il loro Collegio, potendo pure essere che uno solo, come principale, avesse quel titolo e si appareggiasse per ciò al Referendario, il quale nella Corte Estense, appunto incominciando dal medesimo secolo quattordicesimo, era supremo Segretario e Consigliere intimo del Principe (2). E comunque s’intenda, non sarebbe argomento da trovar luogo acconcio in questa nota, nella quale se n’ è toccato solamente per la storia della parola, ma più presto in quella del Consiglio segreto a cui può rivolgersi il lettore, se gli piace. Pel rima- (1) Statut. Luc., cit. proem. (2) Giulini, Mem. Mil. lib. LXXII. Vedi Referendario § 5. Giorn. Ligustico, Anno XI. 4 50 GIORNALE LIGUSTICO nente, in Vercelli il Consiglio di Credenza ne primi tempi di quel Comune, anche là fu unico, e pare ancora che il sedervi, come avvenne de’ Senati de’ Municipi Romani antichi, fosse onore ereditario di famiglie cospicue ; non s intitolasse Senato , ma fosse (i). Ed i Consigli di Pavia e di Cremona nell’ esser chiamati de’ Decurioni portavano di più anche il nome che si scambiava col senatorio. Il che si adduce in.prova di quello che si notò al principio. Il titolo senatorio e decurionale finalmente venne assunto dove dal Magistrato e dove dal Consiglio Comunitativo, mantenendosi . . ί ; per siffatta guisa la ricordanza della polizia romana, ai cui esempio si formarono nel loro nascere, con fortunato augurio, i nostri antichi Comuni (2). Oggi pure nel Monai-cato civile il Senato rappresenta l’aristocrazia, ma bensì quella di tutte le classi più elevate della cittadinanza]. Giulio Rezasco. UNA TRAGEDIA INEDITA DEL RISORGIMENTO I. Non ho saputo acquetarmi alla sentenza del Napoli-Signoielli che giudicava la tragedia di Laudivio da Vezzano: De Captivitate ducis Jacobi, non essere tale nè per la condotta, nè per lo stile da farne desiderare P impressione. Certo sarebbe stato puerile il pensiero di esumare codesto lavoro drammatico del Laudivio dal Codice Estense dove dormiva il sonno di quattro secoli, — sonno riposato a malgrado dei frequenti sunti onde fu fatto segno —, esumarlo, dico, sotto il pretesto di un valore letterario che probabilmente i lettori non vi riconosceranno. Ma se non come valore, nessuno vor- (1) Adriani, nota 2 agli Slattiti di Vercelli. (2) Othon. Frìsing. De Gestis Frideric., lib. II, cap. 4. GIORNALE LIGUSTICO SI rebbe negargli la dovuta importanza come documento, massime quando si rifletta che Γ Eccerinis del Mussato e il De Captivitate..... del Laudivio stanno unici alle origini del teatro italiano a dimostrarci per quali vie l’angusta tradizione classica abbia potuto sovrapporsi alla vivace fioritura che il dramma spirituale ebbe raggiunta nel Medio Evo. A che non sarebbe riuscito un grande ingegno che l’azione umana e i caratteri storici avesse sviluppato armonicamente, rifacendosi sulla vasta tela che gli era apparecchiata dal teatro cristiano ? E forse il Mussato e il Laudivio per i primi compresero quale partito si poteva trarre dalla scelta di un argomento nazionale che aveva diversamente, ma in modo del pari efficace colpito le menti dei contemporanei; se non che l’esecuzione rimase troppo inferiore al concetto, ed è giustizia 1’ aggiungere subito che codesto disaccordo appare più evidente nell’umanista del Risorgimento che non nel poeta del sec. XIV. Esamineremo più diffusamente fra poco la tragedia del Laudivio : osserviamo qui che essa rappresenta fedelmente le condizioni tutte speciali di quella civiltà e, se non sulle plebi che certo non sapevano nulla di una tragedia destinata alla lettura, essa dovette essere di un sicuro effetto su quella folla di grammatici ed eruditi e statisti che stringendosi intorno al Signore udivano interpretati dal poeta i sentimenti personali a ciascuno. Perchè, la trista Italia , in attesa di un invasore fortunato che la conquistasse col gesso e cogli sproni di legno , erasi ridotta a riporre le proprie sorti sulla spada di un duce o più astuto, o più valoroso degli altri e, nella seconda metà del sec. XV, gli occhi degli italiani erano rivolti sul conte Jacopo Piccinino , il figlio della fortuna, come si compiaceva chiamarsi da se stesso (1). È necessario com- (1) Burckhard, Civiltà nel sec. del Rinascimento, traduz. Vaibusa, I, 34- 52 GIORNALE LIGUSTICO prendere la singolare costituzione delle Signorie italiane nel quattrocento, fondata sopra le armi mercenarie e sulle oscillazioni di una politica che del Macchiavellismo faceva da un pezzo suo pro’ quantunque non l’avesse per anco ridotto a sistema, per capire anche la viva preoccupazione che era in tutti di ciò che farebbe il Piccinino. Figlio di Nicolò e uscito da una famiglia di forti condottieri umbri, egli trovavasi allora il capo naturale delle armi e delle gloriose tradizioni braccesche. Importava a tutti il sapere se egli riuscirebbe a fondare come Francesco Sforza un principato, quando nel 1463 abbandonate ad un tratto le parti di Giovanni d’Angio e postosi al servizio della lega strettasi fra i principali stati italiani, l’ambizioso sogno parve vicino a realizzarsi. Francesco Sforza gli concedeva in'moglie Drusiana sua figliuola naturale con 25 mila ducati di dote e tanti feudi in Lombardia pel valore di 65 mila ducati ; di altri feudi lo investiva Ferdinando d A-ragona. Il re poi, il duca di Milano e Papa Pio II lo conducevano ai loro stipendii con un assegnamento di 90 mila ducati d’ oro. Fu il punto culminante della sua ascensione, ma fu ad un tempo il segnale della sua rovina. L’ uomo era innocente, ma il capitano era colpevole di aver raccolto sopra il suo capo troppe ambizioni, troppi odii che aspettavano soltanto un’ occasione opportuna per prorompere. Lui vivo, lo Sforza e l’Aragonese non si sarebbero mai creduti sicuri nei loro Stati e bastava anche meno di questo, perchè la morte di lui divenisse necessaria. È del più alto interesse seguire lo svolgimento dell’atroce ed abilissima trama : tolti di mezzo col veleno 0 col tradimento i baroni napoletani ribelli che avrebbero fatto, ad un bisogno, causa comune col conte Jacopo; questi poi lusingato,' accarezzato fino a che non giungesse il momento di coglierlo nella rete che gli era tesa. Se non che l’arresto improvviso del principe di Rossano avvenuto nel campo di Ferdinando GIORNALE LIGUSTICO 53 1' 8 giugno del 1464 e i replicati avvisi che gli giungevano da molte parti, gli crebbero nell’ animo P orribile sospetto contro il re, e lo indussero, incauto, a gettarsi nelle braccia di Francesco Sforza (1). Difatti, con una lettera scritta da Sulmona addì 11 giugno, pregava quest’ultimo ad ottenergli dal re licenza di recarsi a Milano. Faceva lo Sforza un inutile tentativo di spingerlo , paternamente, nel laccio tesogli dal re, (2) ma poi avvedendosi che sè scoprirebbe senza alcun profitto , dissimulò il dispetto e rispose che lo avrebbe veduto volentieri ne’ suoi Stati. Addì 12 agosto 1464 verso le 22 ore, il Piccinino entrava solennemente in Milano; sposava il giorno appresso Drusiana e colla sposa, colla duchessa Bianca e il conte Galeazzo si ritraeva per qualche tempo nel castello di Pavia. Dolcezze nuziali che doveva pagare a ben caro prezzo poco dopo. Neppure Ferdinando, ed è tutto dire, sapeva concepire come si potesse dare in moglie la propria figliuola ad uno che già si era risoluto di spegnere. Però, dubitando che il nuovo fatto potesse rompere gli accordi presi in antecedenza col duca, gli faceva scrivere da Antonio da Trezzo, commissario dello Sforza presso il re Ferdinando ed anima di quei primi maneggi: — « provvedesse al danno che poteva nascere lasciando vivo il Piccinino e se lo levasse dinanzi, togliendogli anche i figli e la compagnia ad un tratto, in tale modo che non ne rimanesse radice in Italia e non si nominassero più Bracceschi. » — Ma prenderlo in Milano, era appunto ciò che non accomodava allo Sforza. Egli cono- fi) Mi valgo nel riassumere questi fatti di un bellissimo articolo di Daniele Giampietro : La morte di Giacomo Piccinino, inserito nell Ardi. Stor. per le Prov. Napoletane, Anno VII, 365 e segg., a cui rimando per maggiori particolari. (2) Con lettera del 17 giugno il duca scriveva che fosse piaciuto al Piccinino recarsi dal Re, perchè la M. S. lo desiderava, senza dubbio per qualche buon rispetto. 54 GIORNALE LIGUSTICO sceva la profonda diffidenza che per la morte del Carmagnola sentivano i condottieri verso la repubblica di Venezia e per conto suo non voleva correre quel pericolo, senza contare l’infamia che gliene sarebbe venuta, a lui segnatamente, salito al principato coll’aiuto di milizie mercenarie. Dargli dunque la spirita, fingendosi poi ignaro di ogni cosa , e se non bastasse anche offeso per 1’ oltraggio che riceveva nel genero, ecco a che era rivolta la spaventosa dissimulazione del Duca. Ed il disegno in parte riuscì. Coll’aiuto di Antonio Ciciniello mandato da Ferdinando a Milano per stipulare le condizioni della riferma col Conte, lo Sforza tanto seppe fare che lo persuase al ritorno. 11 27 aprile del 1465 il Piccinino moveva alla volta di Napoli. Pioveva dirotto quel giorno, ma più nere delle nubi che cavalcavano il cielo erano quelle che gl; passavano sul volto. Forse fu un pensiero presago di sventura che lo fece cavalcare taciturno fino a Lodi. Le onorevoli accoglienze ricevute nel viaggio dai Signori italiani e le regie feste colle quali Borso d’Este, amicissimo suo, lo trattenne per tre giorni in Ferrara, avranno giovato a rasserenarlo e ad infondergli quella fiducia di se stesso che doveva perderlo. L’anonimo scrittore di una vita del Piccinino asserisce che della gita a Ferdinando tutti i suoi amici cercarono di ritrarlo e sopra tutti l’Estense gli disse: — « ch’egli non era per mancare di sovvenirlo, dissuadendolo dal fidarsi 0 di Francesco Sforza 0 del Re Ferdinando, il quale mentre che il padre visse si era lasciato talmente intendere nel biasimare la bontà di Alfonso per essere troppo facile nel perdonare, che agevolmente si poteva congetturare qual dovesse essere la natura sua » (1). Testimonianze forse vere, perchè in tutti era allora la persuasione eh’ egli finirebbe come il principe di Rossano, nè l’aver questi in moglie la sorella stessa del (1) Fabretti, Capitani deli' Umbria, II, Documenti. GIORNALE LIGUSTICO 55 Re valse a salvarlo; ma vi era in quel ritorno, dopo una partenza precipitosa dal regno di Napoli che parve una fuga, qualche cosa di fatale. Lo aspettava a cinque miglia da λ e-nafro, don Federigo figliuolo del Re con numeroso seguito di baroni napoletani ed il mattino dopo, sulla strada di Giuliano ad un mezzo miglio da Napoli, lo stesso Ferdinando accompagnato dal fior fiore della nobiltà napoletana. Il Re vedendo il Conte si scoprì il capo e gli si fece incontro, abbracciandolo con grande effusione. Il giorno dopo gli con feriva il diploma di viceré degli Abruzzi. Il patrizio milanese Pietro Pusterla che accompagnava il Piccinino , ne scriveva un’ ingenua lettera al Duca piena d’ ammirazione per la cordiale e solenne accoglienza. Ma il Conte che anche conservando cieca ed immeritata fede nello Sforza, non ignorava la truce e dissimulata natura del Re , è probabile non partecipasse egualmente a tanto entusiasmo. Difatti lo Spiriti, (i) testimonio oculare di quei fatti, osservava che fra tanti onori il Piccinino non sapeva nascondere la mestizia ed il sospetto che lo travagliavano. Volle affrettare la partenza alla sue genti negli Abruzzi ed affrettò la rovina. Il 24 giugno , invitato a pranzo da Ferdinando , entrava il Conte in Castelnuovo, quando ad un tratto si vide atcei-chiato ed arrestato. Un orribile pensiero dovette attraversargli la mente in quel punto se son vere le parole che si dkono pronunciate dal Piccinino ai satelliti che lo arrestavano in nome del Re. — « Io son prigione, rispondeva indignato, del duca di Milano che è sola cagione della mia venuta qui ; egli sì mi conduce nelle mani del Re.... » Con lui erano presi il figliuolo Francesco, il conte Brocardo Persico suo secretario , Luigi figliuolo di costui e Luigi Terzago altro se- (1) Spiriti, Altro Marte, poema in terza rima, cit. dal Giampietro, art. cit. 56 GIORNALE LIGUSTICO gretario del conte Giacomo. Gettato nella terribile prigione di Castelnuovo detta fossa del Niglio, si fece un ridicolo processo che larvasse di giustizia l’assassinio, nè bastando ancora alla sanguinosa commedia si cercò una menzogna che narrasse altra la morte del conte da quella che era stata in effetto. Alcuni giorni dopo 1’ arresto del Piccinino, la flotta napoletana aveva sconfitta l’armata navale che di Provenza veniva in soccorso dell’ Isola d’Ischia, tenuta fin allora dagli Angioini ed assediata strettamente da Ferdinando. Si finse adunque che caduto, mentre faceva prova di arrampicarsi alle sbarre del carcere affine di veder meglio le feste celebrate in Castello per quella vittoria , il conte si rompesse una coscia e della dolorosa frattura morisse. Antonio da Trezzo udi i medici che coadiuvavano alla sfacciata menzogna del reale pa-dtone, e dopo molte istanze gli fu mostrato, ma soltanto da lontano e non veduto dal conte che gemeva e lamentavasi con molto strazio. Parlargli non gli fu concesso e questo può essere suggel che ogni uomo sganni. La ragione dei gemiti la troverà facilmente chiunque pensi che i tempi non concepivano processo senza torture e l’odio atroce di Ferdinando verso il Piccinino avrà ordinato che si infliggessero orribili. Ma più sconcia fu la commedia recitata dallo Sforza. Scriveva alla figliuola Drusiana ricoveratasi a Teramo presso lo zio, sopportasse sì acerbo caso pazientemente e con quanto minor affanno potesse per la salvezza sua e della creatura che portava in seno « avisandote per tuo conforto che nuy non mancamo nè mancheremo in cosa alcuna per la salvatione desso conte Jacomo più che faressimo per la persona nostra propria » (i) (Milano, 6 luglio 1465) — e l’altra figliuola Ippolita, la quale andava sposa ad Alfonso figlio di Ferdi- (i) Canetta, La morte del Conte Jacomo Piccinino, nell’ Arch. Stor. Lornhordo, Anno IX? 261 e segg. GIORNALE LIGUSTICO 57 nando, faceva fermare con un numeroso seguito per due mesi in Siena : accettava i garruli conforti di Pietro Pusterla e le condogliauze che gli venivano da molte parti d’Italia ; ordinava in fine per la morte del conte un lutto di corte. Il che ebbe virtù di stizzire anche Ferdinando di Napoli. L’anonimo citato narra « che Tristano figliuolo dello Sforza volle vedere il corpo di Jacopo per certificarsi che quello il re diceva per sua sensazione (ossia la ferita del Piccinino) era vero » — (i). Ma se avrà voluto essere sincero quel figliuolo di duca avrà certificato il padre che il povero conte portava tutti i segni di essere morto strozzato. Sconcia commedia che per altro non ingannò nessuno. Storici e rimatori sincroni concordemente accusarono di complicità nell’assassinio il duca Francesco Sforza. Fra questi ultimi, Cambino d’Arezzo (2) in un suo lamento, rivolgendosi al Piccinino, diceva : .... tu n’andasti a Milano A fornire il coniugio e ’l matrimonio Non iusto e santo, ma del mal dimonio; Quiv’ era il gran Satàn co’ suoi aderenti ecc. E in un capitolo in terza rima in cui eccitava Carlo Forte-bracci a fiaccare la superbia sforzesca : La venenosa vipra e sua sementa C’ han fatto Italia adulterata putta , trovava un affettuoso movimento nel ricordare la morte del Piccinino : Signor mio caro, vedrotti mai in sella Metterti in sulle braccia a la fortuna E seguire il favor de la tua stella? Vedi il gran Giove che teco s’ inuna ; Le donne e fantolin gridano omei Di quel per cui portiam la, veste bruna. (1) Fabretti, op. cit. Vol. 2.° Documenti cit. (2) Fabretti, op. cit. Vol. cit. 58 GIORNALE LIGUSTICO Ferdinando d’Aragona amava conservare presso di sè i suoi nemici, ο vivi in prigioni ben custodite, o morti e imbalsamati in una collezione di mummie che teneva fra le rare curiosità della sua Corte. Trattandosi di un capitano illustre preferì il secondo modo che certo era il più sicuro. Profondi politici parvero egli e lo Sforza e non solo ai contemporanei: un merito non saprebbe loro negarsi, quello di conoscere a dentro uomini e tempi, e gli uni e gli altri erano inclinati ad abbietta servitù. Ne sia prova che nel fitto del Piccinino i politici più autorevoli non ebbero voce sufficiente per esoitaie il duca a non s’ impacciare della sua liberazione. E il volgo.... del volgo cinicamente e stupendamente giudiaiva Nicodemo da Pontremolo, ambasciatore dello Sforza in Firenze: « L u-niversal del populazo favella variamente secondo intende favellare da questi altri (dai signori) , pur fimo come è loio usanza che plebs sequitur fortunam seinper et odit dampnatos, chi dice che era infido (il Piccinino), chi dice era da poco, chi dice non era possibile ce fusse mai stato amico peichè el padre ce offese troppo etc. Quid sit, da qui a XV dì non se favellerà più » (i). II. Il Laudivio che fra l’altre sue qualità era anche cavaliere Gerosolimitano ed era stato, vivendo il generoso protettole de’ letterati, Papa Nicolò V, in grande dimestichezza con quest5 ultimo, — intimus fuit et familiaritate et cubiculo, scrive rOldoini (2) — si trovava probabilmente a Ferrara quando (1) Lett. a Fr. Sforza, 7 Luglio 1465; Arch. Stor. Lombardo, Anno IX, art. cit. (2) Nel vol. II, Anno II, p. 147 e segg. di questo giornale , 1’egregio A. Neri ha dimostrato con un suo articolo che il Laudivio apparteneva alla famiglia de’ Nobili. GIORNALE LIGUSTICO 59 con incredibile celerità si diffuse da prima la nuova della prigionia ed alcun tempo dopo, della morte del Piccinino. L’annuncio dovette produrre colà assai più che altrove una triste impressione, stante l’amicizia strettissima che il duca Borso aveva con 1’ ucciso e fors’anche per altre considerazioni d’ordine politico che dovevano muovere il duca a deplorare quella morte, siccome altri era stato indotto ad affrettarla. Il Laudivio che degli umanisti possedeva l’ingegno versatile e tutte le pretensioni alla fama, si costituì interprete di quei sentimenti, ben inteso colle restrizioni che doveva imporsi un dotto del sec. XV, e scrisse una tragedia da leggersi nelle sale del duca Borso, nel modo stesso che Seneca scriveva le sue per essere lette nelle sale di Nerone. Non ho citato a caso il nome di Seneca. Il tragico latino che, qualunque ei siasi, formò il grande amore e lo studio dell’età media, provvide i modelli anche per cotesta tragedia, come già li aveva forniti per 1’ Esilino del Mussato. Se non che nel nostro, il ritorno agli esempi dell’ antichità conserva assai poco della robusta impronta individuale che anche attraverso l’imitazione classica perdurò potentissima nell’autore dell’i^-çelino. E se in quest’ ultimo si può e deve riconoscere l’influenza che il dramma sacro esercitò sullo svolgimento dell’azione, per modo che vi manca del tutto la potente unità della tragedia antica e non rimane se non il fitto storico, cronologicamente sceneggiato, più aderente alla tradizione classica stette per contro il Laudivio sino a parere a tutta prima un servile ricalco di Seneca. Fatto degno di nota co-testo che un’arte drammatica nascente accetti con un ossequio così poco razionale ciò che è proprio di un’arte di decadenza. ■ Si potrà certo rimpiangere l’abbandono delle forme drammatiche paesane, e di quell’accorta mistura del tragico e del comico, per cui nelle Sacre Rappresentazioni noi vediamo il 6o GIORNALE LIGUSTICO popolo salire dalla piazza alla reggia e parlare il suo linguaggio di miserie, di credulità, talora di egoistica e crudele indifferenza. Abbandono improvvido che senza dubbio fu un male. Mancò all’arte del Risorgimento la sapienza di innovare rinnovando : al contrario non parve bello se non ciò che era una copia fedele dell’antico e se quest’ amore portò ad un maggiore disciplinamento dell’arte, fu anche causa che il dramma si chiudesse in una sterile imitazione, che non sorgesse insomma, come oggidì ancora non è sorto, un vero teatro nazionale. Considerazioni per altro fatte da un punto solo -di veduta e che per conseguenza ammettono un lato contrario. Giova meglio badare alla ragione dei fatti e del fenomeno valersi per rifare una pagina di storia intellettuale. La restaurazione pagana avvenuta nel sec. XV doveva per necessita condurre a questo risultato. Era un paganesimo più formale che intrinseco. L’arte antica, che in Dante e nel Boccaccio si era riflessivamente contemperata colla moderna, (i) qui trasmoda e sembra governare unica la vita, non perchè lo spirito moderno siasi spento, ma esso è assorbito nella intensa curiosità di esplorare quell’ antico mondo di cui fino allora conosceva poco più della soglia. In un secolo di ingegni faticanti e ricostruttori l’arte fu pagana, e dovette necessariamente produrre i suoi effetti nella vita, dove l’antica lotta fra le due religioni e le due civiltà era tutt’ altro che finita. Esse si consertarono più o meno intrinsecamente, secondo il valore e l’indole dei diversi ingegni, senza confondersi. Come avviene di tutte le rivoluzioni e restaurazioni, certo si esagerò e P importanza stessa acquistata da quella folla di grammatici ed eruditi e filologi che riempì il secolo delle sue dispute e delle sue fatiche, acca- (i) Bartoli, I precursori del Rinascimento, 90 e segg. GIORNALE LIGUSTICO 61 rezzata, protetta dai principi, conferì mirabilmente a spingere su le nuove vie lo spirito umano. In tutt’altre condizioni era concepito e scritto l’Ezjdino del Mussato. Il Padovano che apparteneva alla famiglia di Escbilo, toglieva a sua guida Seneca, come il coetaneo Dante si era tolto Virgilio, ossia senza che lo studio di modellarsi sugli antichi tornasse punto a scapito del libero svolgimento ulteriore. Anche tenendo lo sguardo rivolto al tragico latino, il Mussato intese far opera nuova. È corso troppo il Tira-boschi (i) nel dichiarare Y Esilino una cattiva copia di Seneca. Basterebbe la religiosità di cotesta rapida azione drammatica, religiosità che era specchio della coscienza popolare nel Trecento, per mettere un abisso tra il Mussato e il tragico latino. È anche ciò che segna la capitale differenza tra lui ed il Laudivio , il secondo degli italiani che tentasse di sviluppare in una tragedia un argomento nazionale. Perchè, quanto allo schema del dramma, esso era pur sempre nel- 1 uno e nell’altro lo schema, come giustamente osserva A. D Ancona, delle Sacre Rappresentazioni. — « Nei soggetti contemporanei non soccorrevano al bisogno gli esempi di Grecia e di Roma, e altra cosa era trarre in sulla scena le favole pagane tragiche e comiche, altra quei fatti che più colpivano l’animo delle generazioni viventi. L’immagine dell’arte antica stava in tal caso innanzi alla mente degli scrittori drammatici più per mostrar loro come dovesse farsi altrimenti che per persuadere .all’ imitazione. Invece lo schema delle Rappresentazioni Sacre pareva meglio convenire alla verità dei fatti, alla moralità delle azioni, alla necessità di porre sulla scena av\?enimenti e personaggi secondo 1’ ordine cronologico e nelle loro relazioni storiche » — (2). (1) Tiraboschi, St. della Lett. Italiana, V, 637. (2) D’Ancona, Origine del teatro in Italia, II, 154. 6 2 GIORNALE LIGUSTICO ~ Ma il Mussato è, come lo voleva il secolo, profondamente religioso. Riconduce tutto ad un ordine superiore che non può da volontà umana alcuna essere durevolmente conculcato. E nelle ultime scene noi sentiamo il grido di Ezzelino che ardì tentarlo, presago e solenne siccome quello del destino. Egli chiede ai commilitoni il nome del luogo in cui si trova rinchiuso dai nemici. Rispondono essi : Hic Adua fluvius, hincque Cassant vadum Ecc. — Heu Cassam Assam Bassam! hic lethum mihi Fatale dixti mater, hic finem fore. (Att. IV, Se. II). E il coro finisce il dramma con un religioso raccoglimento, non indegno, salva Γ eccellenza dell’arte, dei cori di Eschilo. La mente degli uditori è richiamata all’ eterna regola di giustizia che il rabbioso tiranno aveva per un istante violata: Haec perpetuo durât in aevo Regula Juris. Fidite Justi. Nec si quando forsitan ullum Quemquam nocuum Fors extollit Regula fallit . . . Stat judicii conscius aequi ludex rigidus, Iudex placidus, Donat justos, damnat iniquos. Haud hic stabilis desinit ordo . . . Dum licet ergo, moniti stabilem Discite legem. Il Laudivio venuto durante il Rinascimento si fa invece un obbligo di essere scrupolosamente pagano : i suoi personaggi non differiscono in nulla dagli eroi di Seneca : presentano la stessa mistura di fatalismo e di fede nella macchina vieta e convenzionale dei vecchi dei e gli avvenimenti tutti e gli dei sono infine sottoposti al capriccio della Fortuna che tiene luogo del fato nella tragedia greca. Anche qui non GIORNALE LIGUSTICO é3 si esce dalla forma già sanzionata da Lucano e da Seneca; è sempre la stessa dea banale che dispensa dal rendere ragione dei fatti, ma non esclude a quando a quando una tirata per Giove e gli altri abitatori dell’ Olimpo. Anzi è una gara di invocazioni da parte di tutti i personaggi del dramma e il magne deum rex Iupi/er vien chiamato in testimonio tanto da Ferdinando che disputa col carnefice se si debba far morire il Piccinino, come dal Piccinino che in fondo al carcere buio aspetta il supplizio e dichiara di incontrarlo volontieri, purché sia lecito morire innocente e sfidare gli avversi fati : Gravis deum ira, tuque nunc rex aetheris Aspice, si qua est pietas casus meos . . . Optata mors mihi est, ut liceat mori Insontem ubi ad poenas dira fata vocant. La divinità è sempre rappresentata in aspetto cruccioso e nell’atto di scagliare il fulmine, la Fortuna gira la volubile perpetua ruota, travolgendo non curante gli umani : Mergit lmmanum fortuna genus; Rotat populos simul omne trahens Percita nostris parce ruinis. Sciupato repertorio di particolari e di frasi pel quale i poeti latini della decadenza divennero gli ammirati maestri. Ma consentiva egli, il clima storico in cui nacque una tragedia diversa? o un diverso concetto religioso? Quello strano amalgama di dei e di fati e. di fortuna, quell’interno dissidio che traspare nell’ opera letteraria esisteva anche nella vita. Il Laudivio, che pure doveva alcuni anni dopo intervenire alla gloriosa difesa di Rodi contro il Turco, ed empire di severi rimproveri le lettere al cardinale Ammannati sulla colpevole ignavia delle armi cristiane, (i) aveva veduto sorgere rigo- (i) Neri, art. cit. 6 4 GIORNALE LIGUSTICO gliose e dilatarsi per tutta la penisola, siccome pianta in terreno propizio, le Signorie italiane. I tiranelli d Italia, eredi della fortuna repubblicana, condottieri, letterati, abilissimi politici , avrebbero riso per compassione di colui che si fosse fatto consigliere di lealtà e di rettitudine nel governo degli Stati. Coteste belle parole si usavano a tempo e a luogo per vestire, se così piaceva, di oneste apparenze un inganno ben tessuto, ma non si attribuiva ad esse un valore più grande di quel che possa avere la solita retorica delle scuole. Il fondatore di tante chiese e conventi, Cosimo il Vecchio, soleva dire che gli Stati non si governano co’ paternostri, e che due canne di panno rosato fanno un uomo dabbene. Tale è appunto il carattere del Rinascimento, l’astrazione da qualunque principio o movente che si elevi al di sopra delle forze umane e la completa secolarizzazione del principato che per la terribile opera di Cesare Borgia noi vediamo più tardi venirsi effettuando per sino nel goyerno della Chiesa. Sprovveduti di ogni legittimo diritto al potere che essi tenevano, circondati di un fasto che doveva addormentare il popolo e dare un’alta opinione della loro autorità, in continuo sospetto del cupo fermento che perpetuavasi nell’ interno e degli attentati esteriori, crudeli e splendidi, generosi protettori dei dotti che com’ essi non avevano altra legittimità se non quella dell’ ingegno, conoscitori profondi dell’arte di regnare, eppure ad ogni tratto gettati in balìa di avvenimenti che un sottile ingegno non giungeva a prevedere, tutti costoro principi, condottieri , letterati in chi dovevano aver fede più, se non nella fortuna? (i). La quale non impediva il culto superstizioso (i) Una stupenda lettera scritta dal Machiavelli a Pier Soderini, dopo la caduta di costui dal governo di Firenze, dà un’esatta idea del fatalismo entrato nelle coscienze italiane durante il Rinascimento. Vi traspare, se non erro, una sottile ed amara ironia per la bussola della navigazione usata dall’ex gonfaloniere dove non si vede sì non prudentia. Il Machia- GIORNALE LIGUSTICO 65 per le sacre reliquie, per i sogni astrologici, per tutti i prodigi che l’inferma fantasia deH’uomo, abbandonata a sè medesima, credeva di ravvisare nei fenomeni naturali. Il Laudivio che durante i cinque atti della sua tragedia fa un corso completo di astrologia e di mantica, spruzzandovi come per giunta alla derrata qualche notizia di aruspicio , il Laudivio aveva il merito di non essere da meno del suo modello, il tragico latino, e di trovarsi per di più in perfetta armonia colle opinioni del secolo. Di tutto ciò non vi è segno nt\YE^elino del Mussato. III. Adunque lo schema è fornito dalle Sacre Rappresentazioni, il carattere dei personaggi, lo stile, le intenzioni e le pretenziosità dello scrittore sono classiche, sono esemplate sopra Seneca. La tragedia non ha divisione di scene : solamente in margine sono indicati i personaggi che parlano ed alcuna volta è detto con qualche generalità l’argomento della scena. velli osserva che con varii governi si consegue spesso una medesima cosa, come per varii cammini si perviene ad un medesimo luogo, et molti diversa-mente operando conseguono un medesimo fine. Adduce di ciò parecchi esempi, antichi e recenti, e quindi si chiede : che giudizio devesi dunque fare di queste diverse operazioni che qualche volta egualmente giovano ed egualmente nuocono ? Il Machiavelli pende incerto, ma per opinione sua tutto ciò nasce dal non conformarsi le azioni degli uomini alla natura dei tempi e all’ordine delle cose. E veramente chi fosse tanto savio che conoscesse i tempi e l’ordine delle cose, et accomodassi si a quelle, harebbe sempre buona fortuna, o egli si guarderebbe sempre dalla trista, et verrebbe a essere vero che il savio comanda alle stelle et a’ fati. Ma perchè di questi savi non si truova, havendo gli uomini prima la vista corta, et non potendo poi comandare alla natura loro, ne segue che la fortuna varia et cOiManda agli uomini e tiengli sotto il giogo suo ». Lett. Fam. di N. Machiavelli per cura di Alvisi, p. 220 e segg. Gioen. Ligustico Anno XI. c 66 GIORNALE LIGUSTICO Precedono sedici distici che probabilmente furono aggiunti quando il codicetto della tragedia era già stato scritto e in cui l’autore dichiara al duca Borso ch’egli intende produrre la musa tragica in tutto il suo antico squallore : O Sic venii celeri tibi moesla tragedia gressu Squallentes laceris crinibus hiria comas. E le velleità classiche appariscono immediatamente . « Oi salirà, egli dice, lagrimando ai tuoi talami la dea dal \enera bile volto che prima fu introdotta per opera del sofocleo coturno e tu triste mirerai i gravi lutti che pei misero gli dei ». — Cortigiano accorto, sa usare a tempo come molti altii, la lusinga che pare franchezza : Non ut saepe solent alii le Borse canemus Nec clarae gentis splendida facta tuae. Eppure pone il duca Borso fra i principali personaggi della sua tragedia e i distici finiscono con un complimento e una promessa di nuovi canti: « Se queste cose ti piacciono , o giustissimo principe, cercherò il soggetto di un altro carme tra i tuoi maggiori ». Nell’atto I il duca Borso si rallegra che gli orrori della guerra siano finalmente cessati ed esalta il valore del Piccinino cui è dovuta la desiderata pace. Adesso è lecito godere del riposo: laetus rediit Ad rura pastor, gaudensque satiabili Versat, humum arator desiderio excitus Campis vagos ducitque virentibus boves. Ma le digressioni e le descrizioni che si concede Γ autore sono tali e tante che vai meglio rimandare chi legge al testo della tragedia. Sopraggiunge fra tanto un sacerdote il quale GIORNALE LIGUSTICO 6 7 è esortato dal duca ad interrogare l’oracolo di Apollo ed a scrutare i fati che si maturano per il capitano : Vos quoque numina et manes testor deum, Pandite fata. 10 tralascerò di qui innanzi le numerose ripetizioni che oc-coriono della parola fatum e fortuna. È una giudiziosa osservazione già fatta dal Nisard per i poeti della decadenza, segnatamente Lucano e Seneca e che trova benissimo luogo anche per il nostro autore (i). Vi sono dei vocaboli che smarrita la significazione chiara e precisa ricevuta nei secoli d’oro della letteratura, acquistano nelle epoche di decadenza o di transizione un valore talmente vago e indeterminato che permette di sostituirli comodamente nel verso al vocabolo proprio, quando col vocabolo proprio la misura del verso incoccia di non voler tornare. Tali sono le parole fatum e fortuna. Avvertenza che nulla toglie a quanto dicevo di sopra circa il fatalismo entrato nelle coscienze del secolo. Questo spiega 1 intonazione universalmente ed ostentatamente pagana, quello dà ragione di certe declamazioni o invocazioni tirate in mezzo per la poltroneria di trovare qualche cosa di più serio , dà ragione di certi costrutti dove gli dei e il fato e la fortuna cozzano maledettamente fra loro. Ma non c’è sotto nessuna intenzione arcana: era la lunga o la breve del vocabolo che consigliava a far uso di una comoda zeppa. 11 saceidote ragiona a lungo dei funesti prodigi apparsi in cielo, o riscontrati nelle viscere della vittima sparata secondo le regole degli aruspici sull'altare degli dei. Tutto annuncia la prossima morte del Piccinino. Ma il curioso si è che dopo tanto sfoggio di sinistri augurii, il sacerdote interrompa il (i) Nisard, Les Poètes latins de la,décadence, Paris Hachette 1867, II, 357 e passim. 68 GIORNALE LIGUSTICO duca Borso, il quale si lagnava dell’ ingiustizia di Giove, per dirgli : Parce deos rex Borsi nunc mitis prece Sollicitus numina iam magna invocans Poscere! non deum hoc est ipsorum nefas. E perchè spazientito, il duca gli chiede : Cur igitur diram tu mortem nuntias Nunc comiti.....? egli replica grave : « Parcite reges ulli demum fidere: Nulla tenet potentes pax, neque salus, Nulla fides quondam firmos hostes ligat ». Cotesta era verità effettuale quale poteva insegnai la il Machiavelli al suo principe, o queU’ambasciatore veneto che osservava: del nemico riconciliato dubitandum est in aeternum. Il duca dopo ciò fa una lunga diceria sopra la influenza dei pianeti e la natura degli dei e l’atto termina con un coio. Atto II. — Entra in scena un augure che ripete su per giù le cose stesse già dette dal sacerdote, se non che qui e dalle costellazioni che si traggono i presagi. Ma il coro che sottentra non sembra tener conto delle lugubri profezie e in cinquanta quattro versi che corrono abbastanza rapidi canta le lodi del Piccinino. L’eroe è comparato prima ad Ercole e subito dopo a Scipione : Qualis lìbycis Scipio in oris Carthago postquam excidit alta. Infine entra un Nunzio a dar parte delle nozze del condottiero con Drusiana e allora Nuncio e Coro si alternano per bene auguriare il nuovo imeneo : Nunc aula gaudet, cava hixo resonat Tibia numeris et laeta coniux ducem Expectat ante aras deum, iamque hos tenet Nunc una mens ac una prae cunclis fide. t GIORNALE LIGUSTICO 69 Cotesta sposa che tra pallida e lieta aspetta dinanzi all’ ara degli dei lo sposo promesso, doveva mettere più d’un fremito nella vene dell’ Estense e dei cortigiani presenti alla lettura. Per noi è lettera e bellezza morta. Atto III. — La scena passa da Ferrara a Napoli ed un messo annuncia al re Ferdinando, che esce dalla reggia, la prossima venuta del Piccinino. Ferrante dichiara che lo-accoglierà onorevolmente e chiama in testimonio delle sue parole gli augusti mani del padre e tutti gli dei, o se altra cosa havvi che meriti fede. Giuramento solenne ! Poi ringrazia Giove ed ordina al nunzio di riferire al duce i festosi apparecchi che si fanno per riceverlo. Il coro chiude 1’ atto cantando le lodi di Drusiana. Fra le solite declamazioni senza gusto incontrasi un passo affettuoso: è la figliuola che forse piesaga del calcolato sacrificio non sa togliersi dalle braccia della madre : Aspice quantos Drusiana nubens Matrem ad amplexus retinetque luctum Matronas fletu ac lacrymis moratur Colla splendenti redimita luxu. Ma gli inutili particolari sovrapposti e lo stile difettoso lo guastano. Atto IV. — È il più bizzarro. Il re Ferrante e un satellite contendono in un lungo dialogo se si debba dar morte al Condottiero. Il Scitòllex insiste sulla necessità di farlo morire: cosi vogliono la tranquillità del regno e gli dei che hanno statuito di perdere il Conte : Accipe nostras quas tibi damus preces .... Iniquus hic postquam fugatus est, redit Foedera magni ostentasque Sfortiadae Quidve moraris impiam illius necem. Ma il re rimane dubbioso : Parce novum satellex moliri scelus Ei regis semel manu data est fides. 70 GIORNALE LIGUSTICO Cotesto re Ferrante è assai diverso da quello che noi già conosciamo dalla storia ; egli ha in mente un suo ideale di re, pietoso ai miseri, demente, osservatore dei santi diritti; egli teme non si neghi forse per l’avvenire ai reggitori ogni fede, se se sia veduto uccidere il nemico cui poco prima aveva porta la destra in segno di pace. Del resto anche per questa scena, malgrado la singolarità di uno degli interlocutori, il canovaccio era pur sempre dato dalla tragedia latina : una volta stabilita la parte che il re ed il Manigoldo debbono recitare l’uno di fronte all’altro, il dialogo procede costellato di sentenze filosofiche e di aforismi contenuti in uno o in due versi, di risposte epigrammatiche le quali sono distanti ugualmente dalla verità che direi umana e dal linguaggio naturale della passione. Ciò non toghe per altro che non vi si oda a quando a quando come un’ eco delle opinioni politiche del Rinascimento. Per un es. il conto nel quale erano tenuti i condottieri dai signori vi è opportunamente accennato. Cavendum illi est, osserva il manigoldo, qui bellum semel intulit: Nulla stat iis qui secuntur castra ficìes. Il re si accontenterebbe di tenerlo chiuso in carcere perchè non possa più nuocergli, ma l’altro replica : Captus potest nocere, mortuus nihil. E poiché Ferrante seguita pur a dire che è di magnanimo re il dimenticare le ingiurie e che lo muove 1’ esempio del padre Alfonso a perdonare, il Manigoldo quasi sdegnato esclama : Recedat aula quisquis esse vult pius. w Finalmente il re è persuaso ed il Satellex si reca nel carcere a partecipare la ferale notizia al Piccinino; ma prima la GIORNALE LIGUSTICO 71 scena ci presenta il duce che privato della cara luce di Febo (è un’immagine di Ferrante) invoca inutilmente gli dei: Haec regis est pax, haec ducis sunt foedera. Il condottiero fa quindi una descrizione a forti tinte del Tartaro che già vede spalancatisi ai piedi ed infine, come tutti gli eroi da tragedia, dichiara di desiderare la morte : Suprema testor fata, teque Jupiter Hanc animam eripite, quae cupit Jubens. Il carnefice eseguisce allora la sentenza e con molta coerenza dice a se stesso : Quam graviter diram constans tulit necem! Indolui huic tam duram sortem accidere: Sed redeo ad regem, iam peractum est scelus. L’atto si chiude al solito con il coro che insieme a Drusiana piange la prigionia di Piccinino. Donde ha tolto il Laudivio la prima idea di questo suo Manigoldo ? L’illustre A. d’Ancona ha già osservato acutamente: « Il Saiellex che consulta col re Ferdinando... ricorda assai da presso il Manigoldo delle Sacre Rappresentazioni. Che se egli qui è più consigliere o savio della Corona che carnefice, benché sembri voler fare anche quest’altra parte, certo è che al mettere in scena siffatto personaggio il Laudivio aveva conforto non già dalle antiche Tragedie, ma dalle Rappresentazioni, in che vedemmo esser quello un attore obbligato e costante » (i). Sarebbe però assai difficile il determinare quale delle Sacre Rappresentazioni abbia più specialmente avuto in mira l’autore nel ritrarre questo curioso personaggio. Probabilmente tutte e nessuna: l’attore nelle sue linee generali gli era dato dal dramma cristiano; egli lo accettò modificandolo in alcune parti per adattarlo al nuovo ambiente entro il quale doveva muoversi ed operare. E nel (i) D’Ancona, op. cit. II, 156. η2 GIORNALE LIGUSTICO modificarlo consertò, forse senz’avvedersene, il nuovo peiso-naggio con alcuna delle personae secondarie e parecchio oziose che ritornano nelPantica tragedia, il cui ufficio ò PL>r P'ù quello di consigliere. Per giudizio mio adunque due personaggi e di fonte assai diversa conferirono alla invenzione del Satellex nella nostra composizione drammatica, il Manigoldo del teatro spirituale e la Nutrix per es. che ricorre più d una volta nelle tragedie del supposto Seneca. In questo lavoro di fusione prevalsero gli clementi forniti dal teatro classico, ma tuttavi.1 non cosi che il Manigoldo del dramma cristiano non vi apparisca più forse che non era opportuno. Siffatta influenza parmi di scorgere quando egli compiange la sorte del Piccinino, senza ricordare che poco prima aveva persuasa al re, e con quanta ostinazione, la morte di lui. Lasciamo stare che cotesto Satellex aveva l’obbligo di essere egli pure un fervente seguace delle dottrine stoiche, e lo stoicismo del-Γ infelice condottiero avrà avuto senza dubbio virtù di strappargli un tardo lamento. Ma se io non m’inganno, nella pietà che egli mal a proposito confessa al momento del ferale annunzio e nel monologo che segue subito dopo, entra per molta parte anche il Manigoldo medio evale, com’ era concepito, se non in tutte, in molte Rappresentazioni. Difatti questo personaggio obbligato del dramma sacro, non sempre è lieto di inferocire contro le vittime clic gli sono designate; in molti casi egli è ancora capace di un sentimento di compassione e talora si scusa colla vittima dei tormenti che è costretto ad infliggerle, talora la carità gli vince addirittura la mano e contravviene al comando ricevuto, per porre in salvo Γ innocente : alcune volte egli ostenta bensì una crudele gioia nel far soffrire, ma a sua giustificazione trattasi di ribaldi che hanno ben meritato il supplizio (i). Il senso co- (0 Per questa varietà di manigoldi e birri e giustizieri pietosi, esempi GIORNALE LIGUSTICO 73 mune popolare, che qui era buon senso, sfuggiva all’ incoerenza del personaggio, badando che costoro, manigoldi, birri cavalieri o giustizieri, fossero semplici e materiali strumenti possono vedersi nei tre volumi di Sacre Rappresentazioni pubblicati da A. D’Ancona (Firenze, Le Monnier 18721. Io ne addurrò qualcuno. Nella Rappresentazione della Regina Ester, il Manigoldo cui è ordinato di impiccare Bagatàm e Tarés, rei di ribellione, dice: Mal volentieri il io, pur pazTenzia, Perchè ubidir convien a tal sentenzia. (S. R. vol. I, p. 145). E lo stesso Manigoldo che tira su pel patibolo Amano quando è per dargli la spinta dice : Frate!, perdona a me che veramente Mal volentier ti conduco alla morte Ma conviene ubidire al re potente. Abbi il tuo cuore a Dio e sta’ ben forte. (S. R. ibid. p. 162). Nella Santa Guglielma, la protagonista è condotta al rogo per comando del marito. Il cavaliere la interroga: Dimmi, se i giusta la domanda mia Madonna, la cagion di tal supplicio. Guglielma risponde: Sallo colui che incarnò di Maria Il qual può dar di me retto giudicio. Il cavaliere allora fa pensiero di liberarla e dice a’ compagni : Io credo certo die innocente sia E però non facciam tal sacrificio; I' ho disposto di lasciarla andare E la sua veste nel fuoco abruciarc. (S. R. vol. Ili, p. aao). I manigoldi partono c la Santa si ritira in un deserto. Quasi identiche parole usano i servi che nella Rappresentazione di 74 GIORNALE LIGUSTICO delle feroci voglie altrui, non mai persuasori di castigo. Nella sola Rappresentazione della Regina Ester, la condotta dello Santa Uliva hanno avuta dall’ Imperatore commissione di uccidere la protagonista. Il Manigoldo prosegue : Perch’ io conosco e veggio chiaramente Che tu sei per invidia condennata Pe:ò disposti siam tutti al presente Che tu sia di tal pena liberata; Ma qui bisogna che tu sia prudente Che in questo regno mai più sia trovata Perchè avendoti noi da morte sciolta Non ci fussi per te la vita tolta. Uliva. Di ciò non dubitar Rinaldo mio Ristoriti per me Cristo verace. Rinaldo. Resti in tua compagnia l’angiol di Dio Vuoi tu nulla da noi? rimani in pace . . · Gruffagna. Di lasciarti cosi ci crepa il core Pur bisogna ubbidir l’imperatore. Uliva. Sempre debbesi far l’ubbïdienzia De’ sua maggiori, Gruffagna mio caro Io mi sopporterò con pazienza Questo misero esilio tanto amaro . . . Abbiate sempre in Dio la speme vostra Gruffagna. Rimani in pace, a dio, signora nostra. (S. R. vol. Ili, p. 259)· Nel Santo Grisante e Daria il Cavaliere si sdegna perchè i carnefici im pietositi vanno lenti nell’apparecchiare il supplizio: Oltre su presto, e’ gli stanno cortesi Canaglia maledetta e gente atroce ! S’ io truovo col baston qualche costura Forse voi sforzerete la natura. (S. R. vol. II, P- 120). Nella Rappr. di Stella il Siniscalco che fa l’ufficio di giustiziere si beffa ferocemente della regina condannata ad essere arsa viva; ma in questo caso l’odio eh’ egli doveva sentire per le ribalderie ordinate da costei, gli può servire di scusa. La scena è caratteristica. Il Siniscalco chiama i birri e dice: Presto su qua, che Dio vi dia il malanno, Guido, Crocetta, Bertoldo e Zampino, 1’ v’ ho a spianar le costure del panno ? E dov* è Mazafirro e Bolognino ? Oh ! quanti arreticati ci saranno Che non aranno alle paghe un quattrino ! Presto, su innanzi, eh’ io v’ ho male avezi, Che aidosso vi farò del baston pezi. GIORNALE LIGUSTICO 75 Scalco che propone la morte di Amano e poi dice a quest’ultimo : Aman, armati il cuor di pazienza E piglia buon partito in questo punto Morir convienti ecc. » (i) può parere a prima giunta molto simile a quella del Satellex nella nostra tragedia, ma altre circostanze ne impediscono il confronto. Ed invero nella Rappresentazione citata, il re non ha d’uopo di molte esortazioni per ordinare il castigo di Amano non si tosto è informato dei fatti, e lo Scalco aveva già dimostrato tanto odio per la vittima da togliere ogni valore ai versi di sopra riportati e ridurli ad una formula convenzionale, una di quelle frasi onde si può far consumo, senza compromettersi, anche coi birbanti. Atto V. — Un Nunzio reca a Borso la nuova della prigionia del condottiero, come avverte la rubrica : Nuntius rediens etc. Il duca invoca sul ie spergiuro tutti i fulmini di Giove e se non basti vuol involgere nella stessa ira i Superni, le terre e il mare : iam cuncta discute Ubi Ausoniae decus perditum iacet. Il Nunzio osserva che si potrebbe per avventura ancora salvare , perchè il Piccinino fu soltanto preso , non ucciso , ed Poi va alla regina e cavandole di testa la corona le dice: Levati su, e vien con esso noi, Che la morte farai della castagna, Andate innanzi parecchi di voi; Chi sarà il primo, uno scudo guadagna. Ordinate la stipa, onde di poi Metterem questo tordo nella ragna Che sempre mai portava e’ paternostri: Nel fuoco, esempio vo’ a ciascun mostri. (S. R. Ili, p. 55S). Il D’Ancona nello stupendo libro: Le origini del teatro in Italia, II, e segg. ha tenuto conto soltanto del Manigoldo in carattere, ossia del Manigoldo che attanaglia, impicca, decapita con piacere, voglioso di ubbidire al padrone. (1) S. R. I, 161. ?6 GIORNALE LIGUSTICO allora il duca Borso in un impeto di generosa ira , si appresta a vendicarlo, quand’anche ne dovesse soccombere : Licetque ulcisci, licet? moriendum est; furor Sic mentem exagitat ? Sottentra un Chorus Italorum che lamenta la volubilità della sorte e conclude con una sentenza morale : « Nulla dura perpetuo sulla terra : tutto ciò che è nato perisce : soltanto la virtù vive eterna ». Così finisce la tragedia. Nell’esame della quale, giova il ripeterlo, si è voluto tener conto in ispecie del documento letterario. Le classiche forme della romana tradizione e le nuove del cristiano incivilimento vi si trovano involute, ma già le prime hanno acquistato decisivamente la preminenza. Onnipotenza delle idee : i Padri della Chiesa avevano ad una voce maledetto gli spettacoli teatrali, scuola d’impurità, officina di lascivia, cattedra di pestilenza e fu proprio la Chiesa che col dramma liturgico e coi Misteri preparò inconsapevole, all’ombra delle brune navate, il pieno risorgimento dell’arte antica e pagana (i). E pagano risorse il Teatro in Ferrara, ed in Roma, quantunque il popolo proseguisse di un affetto tenace, che giunse fino a dì nostri, il dramma sacro nella cui ampia e varia tela i suoi gusti volgari e i suoi sentimenti cristiani si appagavano. Gusti del resto nei quali non era solo. Anche gli azzimati cortigiani della Corte Estense e con essi la graziosa Isabella Gonzaga, ai rifacimenti Plautini ci si divertivano poco, e la noia del dramma profano alleggerivano col lusso decoramentale degli intermezzi, imprestato ai Misteri (2). Carlo Braggio. (1) Cf. D’Ancona, op. cit. V. I, p. 56. (2) Il testo della tragedia si darà nel fase, prossimo. GIORNALE LIGUSTICO 77 SPIGOLATURE E NOTIZIE Due monografie di argomento genovese sono comparse nell’ Archivio Storico Italiano (XIII, 42, e 54); nella prima L. T. Belgrano discorre di « Un ammiraglio di Castiglia », cioè di Egidio o Egidiolo Boccanegra ; nell altra Girolamo Rossi s’intrattiene con alcuni « appunti storicocritici » intorno a « Bordighera ». ^ Nella ricca collezione di manoscritti appartenente al marchese Giuseppe Campori di Modena, fra quelli del secolo XVIII, indicati nell’ ultima parte del catalogo pubblicato testé, troviamo le « Memorie di Nicolò Grimaldo Cebà » ms. di car. 37, nelle quali è narrato quanto gli avvenne nel 1561 in una spedizione militare in servizio della Repubblica genovese. La copia fu esemplata sull’autografo da Girolamo Balbi nel 1724. Vi é altresì una « relazione di Genova ». Negli Atti e. Memorie della R. Deput. di St. Rat. per le provincie di Romagna (Ser. 3.a, vol. I, 396) troviamo in un’ accurata monografia di Carlo Malagola : Di Sperindio sotto Carlo e Galeotto Manfredi il seguente documento, che si riferisce ad un artefice Genovese : « Cum hoc sit et » fuerit quod M.r Viscontes quondam Petri de Janua promiserit et con-» venerit Magn.° et potenti domino nostro domino Carolo de Manfredis » faventie etc. facere certas curacinas et expedire tota alia laboreria eidem » Magnifico Domino nostro, et velit et Intendat de presenti Ire forlivium » pro faciendo se curare de quadam infirmitate quam dixit se pati in » ejus pei sona, prout ipse Jn presentia mej notarij et testium infrascripto-» rum dixit et confessus fuit ea omnia et singula vera fuisse et esse, Id-» circho constitutus personaliter coram me notario et testibus infra-» scriptis sponte et ex certa ejus scientia promisit Excel.m° legum Doctorì » Domino Johannj de spavaldis dignissimo vicario prefati Magnifici Do-» mini Nostri, ed michi Alberto notario infrascripto ut publice persone, 7δ GIORNALE LIGUSTICO » stipulanti vice et nomine prelibati M.ci Domini Nostri, venire et se » personaliter presentare coram dicto Magnifico Domino Nostro ad om-» nem petitionem et requisitionem sue Magnifice dominationis prefate » Faventie, et dictas curacinas etiam perficere et laboreria predicta, sub » pena et refectione omnium damnorum, et interessium ejusdem M. D. N. » et sub obligatione predicta et omnium bonorum ipsius magistri \ i-» scontis ». Reca la data del 17 dicembre 1474 e fu rogato dal notaro Albeito Piccinini. Nello stesso volume (p. 366) il sig. Francesco Molon pubblica un articolo sulla Stagione militari romana di Costahalene sulla Riviera Ligure di Ponente. Dal vol. II degli Archives de VOrient latin già innanzi nella stampa vennero già estratte le seguenti pubblicazioni d’argomento genovese. « Documents Génois concernant l’histoire de Chypre » editi per cura del conte di Mas Latrie; i> Une charte de nolis de S. Louis » messa in luce da Belgrano; « Les consulats établis en Terre Sainte au moyen-age pour la protection des pelerins », importante monografia dell’Heyd nella quale si discorre a lungo del consolato genovese; « Documents relatifs aux Plaisançais d’Orient » editi da Tononi, uno de’ quali è tratto dagli archivi genovesi e dà luogo all’ editore d’illustrare brevemente le relazioni commerciali fra genovesi e piacentini. Il Belgrano ha poi ripubblicato il documento sopraccitato, insieme ad un altro inedito della stessa natura , con più ampie illustrazioni (Genova, Stab. Armanino). Nella Rivista Militare Italiana (1883) il capitano Filippo Zevi ha pubblicato un suo lavoro intitolato : « La Rivoluzione e l’assedio di Genova (1746-1747) ». Nella Rivista Marittima (Nov. 1883 p. 257I Francesco Corazzini stampa un articolo intitolato: « Della situazione del Porto etrusco di Luna ». GIORNALE LIGUSTICO 79 Nel n. 146 della Nuova Rivista il .Bertolotti cita fra i professori del- 1 Università di Roma « Gio. Pietro Grimaldo genovese condonator et regens Theologiae , 1609 ». Fra i documenti che mette in luce Antonino Bertolotti nella sua monografia « Spedizioni militari in Piemonte » (Arch. Storico Lombardo a. X, Fase. IV, 613) ne troviamo una serie che si riferiscono alla occupazione di Masserano, feudo della famiglia Fieschi allora tenuto da Innocente, da parte del duca di Milano, prendendo a pretesto le turbolenze di Genova, delle quali voleva fosse il Fiesco uno degli istigatori. Questo fatto avvenne nella seconda metà del 1476. Libri nuovi. — Il solerte editore A. G. Morelli d’Ancona da pubbli-blicato i « Saggi di critica di G. A. Cesareo » un bel volume elzeviro (p. 210 L. 3) diviso in tre parti: σ Letteratura antica — La vita di Catullo; La Lesbia di Catullo; La poesia di Catullo — Letteratura moderna — Il romanticismo in Germania, in Inghilterra, in Francia, in Italia; Classicismo e Romanticismo — Letteratura medievale — Dell’ elemento musicale nella Divina Commedia ». Sono per uscire dallo stesso editore gli « Studi sulla storia letteraria dei primi secoli di Alessandro d’ Ancona » (un vol. L. 5). A Lucca dalla tipografia Giusti verrà in luce fra poco un importante volume di Giovanni Sforza dal titolo: < La patria e la famiglia di Papa Nicolò V ». Opera composta sulla scorta di moltissimi nuovi e singolari documenti, e corredata di erudite illustrazioni. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Actes passés à Famagouste de 1299 a 1301 par devant le notaire génois Lamberto de Sambuceto publiées par C. Desimoni. Gênes, Sourds-muets 1883 (in 4.0 p. 116) Est. Quatre titres des propriétés des Génois a Acre et a Tyr. Ivi (in 4.“ p. 18) Est. So GIORNALE LIGUSTICO Ecco due nuove pubblicazioni di documenti genovesi dovute alle cure di Cornelio Desimoni, le quali fanno parte del secondo volume degli Archives de VOricnt latin. La prima è una serie di atti rogati a Fama-gosta negli anni 1299 al 1301 dal notaro genovese Lamberto da Sambu-cero, dei quali intanto editore mette fuori quella parte che giunge al 27 agosto 1300, riserbando il rimanente al volume successivo, dove comparirà altresì l’illustrazione che va apprestando. I documenti sono di una singolare importanza per la storia del commercio, e il Desimoni metterà in rilievo, da par suo, tutto quanto merita l’attenzione degli studiosi, così per ciò che riguarda la sostanza degli atti stessi, come le molte persone che vi si veggono nominate, fra le quali si distingue Nicolò Polo. Nè per sole ragioni commerciali vogliono essere segnalati, sì ancora, per le notizie che vi si possono ricavare in servigio della storia de’ costumi, come ad esempio dagli atti XLII, XC, CLXXXIX> ne qua'‘ vengono indicati ornamenti, vestiarii, utensili, armi ecc. Ferma poi la nostra attenzione un Silveto Pezagno o Pessagno, uomo ricco e reputato, morto prima del 28 gennaio 1300. Con atto del 2 febbraio Ugolino di Riverrar confessa ai rettori dei genovesi in Cipro e in Famagosta, di aver ricevuto in consegna la galera di Silveto col denaro, le merci e la roba appartenente al defunto; e si obbliga.di portar tutto a Genova per faine la consegna ai figli ed eredi del Pessagno. L’inventario è assai importante; vi si notano alcuni oggetti d’argento con lo stemma (ad arma) di Silveto, ed un anello d’ oro prò sigillando de leono. Non sarebbe egli il padre di Emanuele e Leonardo Pessagno? Si noti che la più antica memoria di questi due fratelli è del 1303, e si trova in un atto nel quale vien fatta menzione di una nave di loro proprietà (Belgrano, Doc. e Ge-nealog. dei Pessagno ecc. in Atti Soc. Lig. St. Pat. XV, 250); non poti ebbe essere la stessa ereditata dal padre? Un altro Salveto Pessagno forse nipote del sopra indicato, fu spedito dai genovesi nel 1306, secondo afferma l’Amadi, ambasciatore al re di Cipro (Mas Latrie, His t. de Chypre III, 681). Ma 1’ erudito editore chiarirà meglio le cose. L’ altra pubblicazione per due ragioni può dirsi di non poco momento ; prima perchè ci fa conoscere, specialmente con l’atto del 14 luglio 1249» le proprietà possedute dai genovesi ad Acri e a Tiro, poi perchè dai contratti editi qui per la prima volta, potranno i geografi aver buon sussidio per meglio determinare la incerta topografìa di quei vetusti luoghi. Pasquale Fazio Responsabile. TAV. 1. J/T1)1Μ Ί^ο/ΐβοη^υ 3 ν\ΙΊ ΙΟ^Φΐί ΐν-λΟίΟ/^ •^Λΐ/νί · DVAJ •I- « ,S' 9 A hfì ■■ anejìitàvofl 11 IO 12 AlW33 ·■ Pitì + MFl /'Wiì 0*3^31 ■ h \Υ\ϊ\λ Μ 13 vî wy\ )<\f\ m-^vir^of] 17 CJ ^ 1 frtHWJei ' 16 J 3^ slfliflftl 3e);;* ,f1 / |S N t uni -W /i. 20 21 (j m 99 X o a 26 Afìl+flhlffVRxtìi·^ 28 in+Miy/q oa 30 I I I 52 “ÎVttl 27 f=w lua^ir+ai 29 4 IH 3ÇI :3)ΙΊΑΊΐ nJaM 31 m y J 14 ^Pildvia) iiaw 36 37 VMV1 i 39 41 iWI-r-fltfflMW 42 43 -4ISW sjfldvog^iaiiiflW flnfl 35 3S ^oVFiq iKDvflqio 4° I2^U:/W0* 44 f slfìo GIORNALE LIGUSTICO 8l APPUNTI DI EPIGRAFIA ETRUSCA PARTE I/ (Continuazione e fine). *9- Oflvl 0 la r -d- = Lars a graffito sotto il fondo di vasettino in bronzo proveniente da Arezzo. Collezione Ancona. Potrà sembrar strano che a designare il possessore o il destinatario di un oggetto si usasse l’enunciazione del solo prenome, il che sarebbe come se da noi venissero o^idì adoperati allo stesso effetto i nomi personali di Giuseppe, Giovanni o Maria, senza Γ aggiunta del rispettivo casato. Arrogi che il numero dei prenomi etruschi, come dei romani e in generale degli italici, era limitatissimo in confronto a quello dei nostri cosidetti nomi di battesimo. Nella Grecia , infatti, Γ antico uso di accoppiare al nome dell’ individuo quello della schiatta in forma d’aggettivo presto decadde, in coerenza al libero svolgimento della personalità: ma presso i popoli italici, il genio dei quali tendeva all’uguaglianza civile, il nome del clan , o gentilizio che dir si voglia, diventò per contro il principale, e il nome personale cioè il praenomen, a fronte del nome di famiglia o genti- Giorn. Ligustico, .Anno XI. g 82 GIORNALE LIGUSTICO licium, perdette di mano in mano ogni importanza, e sempre più se ne restrinse il numero. Nulla è più atto a porgere un’idea adeguata della diversità del genio nazionale fra i greci e gli italici, quanto il 1 affronto del loro onomastico. La poetica ricchezza dei nomi propri greci, i quali, oltre ad essere svariatissimi, esprimono quasi sempre concetti di patriotismo, di pietà e di affezione domestica, rivela la libertà di cui godeva il greco di scegliete a suo piacimento il nome dei propri figli ; mentre il sistema onomastico degli italici si appalesa regolato dalle rigide dispo sizioni dello stato civile, in base al principio che considera Γ individuo non già come unità indipendente, ma bensì come parte integrante della famiglia, e per mezzo di questa, della gens, o clan, a cui spetta per nascita. Tutto ragguagliato, si può affermare con piena sicurezza che il prenome lar-9·, all’epoca a cui risale il monumento in esame, fosse assai più comune in Etruria di quanto sia mai stato il nome di Gennaro a Napoli o quello di 1 atrick in Irlanda. Persio il quale chiama genericamente coll appel lativo di Tifi, i nobili romani del suo tempo (i), avreb e potuto con pari ragione indicare con quello di Lattes i suoi concittadini etruschi. Ciò stante, per rendersi ragione del come un semplice prenome apposto ad un oggetto abbia potuto, come nella fattispecie, determinare Γ individuo al quale 1 oggetto stesso apparteneva, è d’ uopo partire dal concetto che 1 oggetto spetti alla suppellettile funeraria del possessore o destinatario, e che come tale sia stato rinchiuso con essolui nella tomba, (i) Hic neque more probo videas, neque voce serena Ingentes trepidare Titos, quum carmina lumbum Intrant, et tremulo scalpuntur ubi intima versu. (Sat., I, 19-21). GIORNALE LIGUSTICO 85 il cui titolo esteriore ben avrà indicato, colla precisione propria di questa classe di epigrafi, oltre il prenome, anche il casato del defunto. Il sepolcro essendo depositato nell’ ipogeo della famiglia, ed esibendo nel suo titolo la serie dei nomi e i particolari della figliazione atti a determinare Γ individualità e il casato del titolare, certo a denotare che il tale 0 tal altro oggetto della suppellettile funeraria del sepolto apparteneva o era dedicato a questo , potea bastare Γ enunciazione del puro prenome. Era di rito che gli oggetti più cari in vita al defunto fossero deposti nella sua tomba; e tutto concorre a far credere che anche in Etruria vigesse il costume a cui accenna Tucidide nella descrizione dei funerali ai soldati morti nella guerra del Peloponeso « ognuno apporta ciò che vuole al morto di cui è parente od amico » (1). È naturale che in tale circostanza si scrivesse sull’ oggetto dedicato l’appellativo più famigliare col quale si era soliti chiamare il caro defunto durante la sua vita, dico il prenome ond’erano nei tempi antichi gradevolmente solleticate le orecchie etruscbe non meno che le romane .....gaudent praenomine molles Auriculae (2). Per la stessa ragione si trovano anche delle urne cinerarie senz’ altra indicazione che quella del nudo prenome del defunto (3). Queste urne essendo state depositate nel sepolcreto della rispettiva famiglia , non potea cader dubbio sul casato del defunto, e tutt’al più era il caso di citare la maternità, come nel titolo N. 34 di questa silloge, quando più individui della stessa famiglia avessero portato lo stesso prenome. (1) Καί επιφέρει τω αύτοδ εχασθος ήν τι βούλητχι (cap. XXXIV). (2) Horat., Sut., II, 5· (3) Per es. un’ urna oblunga vista dall’ Helbig in un sepolcreto di Corneto porta la semplice inscrizione arn& (Bull. dell'Ist., 1881, p. 94). 84 GIORNALE LIGUSTICO 20. ΙΜΤνΑΊ MAHfll3fl a e 1 e = Aelius graffita sul ventre di anfora diota a punta, in argilla grezza. Alt. 0,540; circonf. 0,920. Museo di Firenze. In questo, come nel num. antecedente, trovandosi espresso non già come al n. 19 un prenome, ma bensì un gentilizio, è chiaro non essere ad essi applicabile la teoria esposta riguardo a detto n., ma doversi tanto Paele quanto il ve te considerare come iscrizioni apposte ad oggetti, anziché funerarii, di uso domestico; nel qual caso non hanno altro ufficio che di esprimere la proprietà, in quella guisa appunto che anche oggidì costumiamo apporre il nome di famiglia sugli utensili di proprietà particolare. L’ epigrafia etrusca esibisce molti altri esempi di nudi gentilizi così apposti ad o'ggetti di uso famigliare, come a ti a, su vaso fittile di Montepulciano, C. i. i., 937 ter. afnas', id., id., di Volterra, ib. 358.. GIORNALE LIGUSTICO 89 velusna, id., id., id., ib. 358 bis. tute, id., id., di S. Maria di Capua, i.° Suppi., 511. karke, id., id., di Petrignano, Gara. App., 439. anχarie, id., id., d’ignota provenienza, n. 41 di questa silloge, ecc., ecc. 24· 32ΑΙΚ13Ί · filmi UH v i n i m ia · lenias e = Vittimici Lenii snerva) graffita sull’ orlo interno di piatto in bucchero proveniente da Chiusi. Collezione Ancona. Il nome proprio femminile vinimia è nuovo, ma non senza parentele nell’ onomastico etrusco , connettendosi per la radice a vina (1), vini (2), vinacna (3), vinu-cenas (4) etc., nonché a viniciiu, e a vinu^s campani (5). Da uno stipite etrusco derivava molto probabilmente la gente romana Vinm, alla quale apparteneva la Vinia Aurun-culeia i cui sponsali con Manlio Torquato furono celebrati in \ersi immortali da Catullo (Carm. LXI); né diversa origine è da attribuirsi alle genti Vineia, Vinicia, Vinuleia e consimili. La famiglia dei leni a era di Chiusi, ritrovandosi di essa appunto memoria nelle forme femminili le nei (6) e le nui (7) di titoli chiusini. (1) ve-teti-vina, ossuario di Montalcino, C. i. i., 1007. la turini vinai, coperchio di urna perugina, Gamurr., App. 735. θ-ana peti re..insiu vinai s'e/, coperchio id., i.» Suppl., 290. (2) a vini eia, titolo perugino, C. i. 1865. au vini apnalx, olla fittile perugina, ib. 1878, 1.” Suppl. p. 10S. (3) arafl- vinacna, id. tarquiniese, ibid. 2305. (4) mi venerus vinucenas, colonnetta orvietana, ib., 2049. (5) vinuxs veneliis aeraci sestara tetet venilei viniciiu, vaso di bronzo capuano, ib., 2753. (6) θ-a le nei catsa, tegolo, }.° Suppl., 171. (7) 1 e n y u i, id., ib., 120. 90 GIORNALE LIGUSTICO Ritengo la lettera finale e come nota di etera, dando a questa voce un significato analogo a quello attribuitole dal Deecke {serva, allunila), e dal Gamurrini (ancilla, puella'). Altre abbreviazioni di tale voce ci esibiscono 1 iscrizione C. i. i.} 2578 (1), la Gamurriniana 676 (2), e molto probabilmente il n. 21 della presente silloge. 25. 2AHI+3+ : I3H0-NV) cult a nei : tetinas = Cultania Tetinae (uxor) graffita su tegolo chiusino. Collezione Ancona. I casati chiusini cultana e tetina sono noti per altri monumenti. Anche la parentela fra queste due famiglie è attestata da altri testi epigrafici ; e come abbiamo qui una Cultania, moglie di un Tetina, troviamo menzione su altri titoli di due Tetina figli di una Cultania: vi : tetina : cultanal (C. i. i., 917). 1 θ-: tetina : vi : cul (3.0 Sappi., 278). 26. : Ι2Ί31! · Ί33 vel · velsi : atinatial = Velia Vulcia Atinatiae (nata) incisa su coperchio fastigiato di urna di travertino, sulla cui fronte a bassorilievo un rosone fra due schemi ornamentali peltiformi. Collezione Ancona. Un’iscrizione consimile fu pubblicata dal Conestabile (3) e (1) sal...precus' lautn ||eter, stela del museo di Napoli (.i.° Supp., p. 114). (2) θ· u r y a II e t e, cippo perugino. (3) Iscrizioni etnische delle RR. Gallerie di Firenze, p. 273, n. 79. GIORNALE LIGUSTICO 91 riprodotta dal Fabretti (1), come già esistente a Cortona nel museo Venuti. Non sembra però la stessa a giudicarne dalla descrizione del monumento. La famiglia velsi fiorì per lungo tempo nel territorio chiusino, dove è ricordata da numerosi monumenti sepolcrali (2), sebbene il nome ne indichi P originaria provenienza dalla città a cui spetta l’insigne aureo inscritto velsu, cioè da Volcium (3), oppure da Volsinii (Bolsena, oggi Orvieto). Per questa considerazione, e tenuto conto dell’ analogia con v e 1 a θ r i = Volaterrae, v e 1 i m n a = Volumnius, v e 1 θ· u r n a = Volturnius, velusila = Volusenna, velscu = Volscus, velxanu = Volcanus, velznax — Volsinianus etc. (4), ritengo doversi tradurre velsi in Voi eia, o Volsia, anziché in Velsia col Fabretti e con altri. (1) C. i. i., 927 bis. (2) L’ urna C. i. i., 1039 bis attesta per altro che un ramo di questa famiglia era stabilito a Cortona. (3) Questa moneta cui già il Sestini e lo Schlichtegroll aggiudicarono a Velia, il Caronni e 1’ Avellino a Felsina, fu riferita più tardi a Volsinii, secondo 1’ attribuzione di Müller accettata dal Vermiglioli, dal Cavedoni, dal Grote, dal Friedlànder, dal Mommsen etc., nonché dal Fabretti, dal Gamurrini e dal Garrucci. La sua rivendicazione a Volcium data da pochi anni, ed è opera del Corssen, i cui argomenti in merito sono, invero, d’ un valore incontestabile dal punto di vista filologico (I, tv. XXI, 3, p, 867 sgg.). Il Fabretti riprendendo testò in esame la leggenda di un altro aureo etrusco e restituendone la vera lezione in velznani == Volsiniani, Volsinienses (Di una mon. d’oro attrib. ai Volsiniesi, negli Alti 'della Reale Accad; delle Sciente di Torino, vol. XV), riconobbe il nome etrusco della città di Volsinii in velzna, forma contratta per velzina; d’onde il noto aggettivo velznax con cui è indicato un personaggio volsiniese in un dipinto sepolcrale di Vulci. 11 Garucci (Civiltà cattolica, Sr. XII, voi. V, p. 209) riconosce lo stesso nome in ‘velzuna, di cui il velsu del citato aureo sarebbe un’ abbreviazione. (4) V. Poggi, Contr. allo studio dell'epigr. etr., nn. 13, 21. 92 GIORNALE LIGUSTICO La famiglia a ti nati a a cui appartiene la madre della titolare trae il nome dalla città di Atina, d’onde sarà stata originaria. Se ne conoscono tre rami; uno dei quali stabilito a Chiusi, ed è quello rappresentato dal maggior numero di monumenti, il secondo a Perugia e l’altro a Viterbo. 27· A2l2>æ · ΙΥ+Ξί vetui · velsisa = Fetuvia Folcii (ttxor) incisa su coperchio fastigliato di urna di travertino proveniente da Chiusi, sulla cui fronte a bassorilievo una patera fra due schemi ornamentali peltiformi. Collezione Ancona. Si osserverà l’assenza del prenome nella titolare; il che accenna a quel periòdo di transizione fra il costume nazionale e l’importazione forestiera che caratterizza i primi tempi della dominazione romana nell’Etruria: quando fra le donne etrusche, di cui una delle prerogative più caratteristiche era stata sino allora la persistenza nel conservare gelosamente l’antico uso dell’appellativo personale 0 prenome, a differenza delle romane che da lungo tempo 1’aveano smesso (r), invalse bel bello il vezzo di scimmiottare anche nella nomenclatura lo stile della nazione conquistatrice : laonde si cominciò dal posporre i prenomi femminili ai gentilizi in modo che tenessero luogo di cognome all’ uso romano, finché a poco a poco i prenomi femminili scomparvero affatto dalla nomenclatura etrusca, e i titoli muliebri si limitarono alla enunciazione del gentilizio e del cognome propriamente detto, (1) Che anticamente le donne romane usassero il prenome è attestato nel modo più esplicito, oltreché dalle iscrizioni, dall’autore del libro De nominum ratione attribuito a Valerio Alassimo: antiquarum mulierum in usu frequenti praenomina fuerunt. GIORNALE LIGUSTICO 93 e talvolta a quella del semplice gentilizio seguito dalle note della paternità o dal nome al genitivo del marito, come appunto è il caso in esame (i). Il nome vetui della titolare sta per vetuia, come in altri titoli petrui (C. i. i., 1237) sta per petruia (ib., 1238), titui (ib., 1528) per tituia ib., 1524), ed ecco per sommi capi la sua genealogia. Dall’appellativo aggettivale vetu-(s), genit. vetus'a talvolta sincopato vêtus', lat. Velus « l’anziano », adoperato dapprima come qualificativo di persona e rimasto poi nel-F onomastico etrusco in ufficio di cognome (2) , derivò una ricca serie di gentilizi, come: β) veti e talvolta sincop. veti, genit. ve ti es' sincop. vetis', femminile vetia sincop. veti, gen. vetial = lat. Vettius ; . ve te, gen. vetesa sincop. ve tes'; cf. lat. Vette-ius (3); c) *vetis_, gen. vetis(a)l = lat. Vedius (4); d) * v e t u s, gen. vetusal; cf. lat. Veturius (5); (1) Ho svolto con qualche ampiezza questo argomento nelle citati. Contribuzioni etc., al n. 13. (2) Tale è, per esempio, nell’iscrizione mi : vetus : murinas di cippo orvietano, 5.» Suppl., 291, e cosi sull’urna di Pienza C. ». :., 985. (3) Cf. VETTE I Al · T · F su stele prenestina (Garrucci, Syll, 784). (4) La forma vetis è arguita dal genit. ve ti si da me pel primo segnalato come nome del Dio malo Vedio sul bronzo di Piacenza (Di un bronco piacentino con leggende etrusche, p. 13), ma non apparve finora come gentilizio su alcun monumento etrusco. Noto è però il gentilizio latino Vedius in lapide di Civita Tomassà (Garrucci, Syll. 1852), a cui fa riscontro il Veidi(us) pompeiano (id., ib., 1699), da confrontarsi ambedue col titolo etrusco-romano di Cetona VIIIDI · TOSNOS (i.° Suppl., 251 ter y). (5) Deecke, Der Dativ lardiate, p. 22. 94 GIORNALE LIGUSTIGO e) ve tu, gen. vetual (i), donde per secondaria dilatazione di stipite *vetuni(e), gen. *vetunial, femm. vetunia, gen. vetuniasa = lat. Vettonius (2) ; /) v e t a n a, gen. v e t a n a 1, femm. vetanei = lat. Ve- tennius; σ) vet(i)na, gen. vet(i)nalisa sincop. vetnal, femm. vet(i)nei = lat. Felinius (3); A questa serie che abbraccia diversi altri stipiti gentilizi appartiene quello da cui dipende il nome in esame, cioè. vetui(e), gen. vetuis' (4) femm. vetui(a), gen. ve-tuial (5) = lat. Fetuvius. La maggior parte dei casati ora menzionati apparisce stanziata nel territorio di Chiusi: di alcuno, come di quello dei v e t u i (e), trovasi memoria d' un ramo anche in 1 erugia (i.° Suppl., 321). Una volta si riteneva generalmente che i nomi con desinenza in -sa (-s'a) come velsisa, tutnasa, cumeresa, vetus'a etc., fossero altrettanti cognomi femminili di matri-• monio, cioè dedotti dal nome del marito. Dopo gli studi del Deecke si ammette ora con maggior probabilità che il suffisso -sa (-s'a), talvolta sincopato in -s (-s'), costituisca una (1) Per quanto riguarda il genit. ve tal proferto da vaso etrusco cani pano (Gamurr. Append., 911), si può collocare sulla stessa linea con sveital (C. i. i., 272) rispetto a sveitus (ib., 2614 ter) e petral (i.° Suppl., 135) rispetto a petiu (C. i. i., 1702 etc.), da ritenersi piut tosto come irregolarità locali. Cf. Deecke, op. cit., p. 30, nota ni. (2) Cf. a/u, pumpu, tlapu, donde axuni(e), pumpuni(e), tla-puni(e) == lat. Acbonius, Pomponius, Tlabonius. (3) Circa il singolare *vetas che il Deecke arguisce dal gen. ve t as al profferto dalla chiusina 3.° Suppl., 264, parmi troppo dubbio, incerta essendo la lezione di quell’ epigrafe da me vista, per quanto ricordo, in condizioui sfavorevolissime ad un’ esatta trascrizione. (4) Cf. tituis' (C. i. i., 1526 sg.). (5) Cf. felmuial (ib., 273, 314). GIORNALE LIGUSTICO 95 semplice desinenza di flessione, e rappresenti la forma genitivale del nome a cui è innestato. Il qual nome è di regola maschile; sebbene non manchino esempi in contrario, ciò che basterebbe ad escludere che le forme di cui si tratta sieno cognomi femminili dedotti dal nome del marito (i). velsi sa è dunque semplicemente il genitivo di velsi, forma sincopata del maschile velsi(e), e risponde al latino Folcii, come nei titoli etr.-lat. THANNIA · CAESINIA · VOLVMNI (C. i. i., 2017), THANIA · ACHONIA · CASCELI (ib., 2006) etc. (2). Tale genitivo poi è retto da un sottinteso nominativo etrusco corrispondente alla voce latina uxor che ricorre per disteso sul tegolo etr.-lat. di Chiusi COCCEI Λ || V SCATVNI II VXOR (3): nè si scosterebbe per avventura dai termini di una plausibilissima induzione chi riconoscesse un tal significato all’ovvia voce etrusca puia, la quale, vuoi per trovarsi sempre accoppiata ad un genitivo maschile (4), vuoi per alti e considerazioni, si addatta, invero, mirabilmente a simile attribuzione. Si riscontri la presente coll’iscrizione n. 1039 bis del C. i. i. (1) Femminili sono i due seguenti: θ·· scansila || vetuniasa, Tegolo chiusino (Gamurr., App., 298). aO· · trepi θ-anasa, id. (ib., 401). (2) Cf. i titoli latini arcaici CVRTIA ROSCI (Garr., Syll., 651), [N]VMTORIAl II M · OPI · AI'BI (ib., 702) etc. (3) C. ». »., 857 bis a, combinato colla lezione del Garrucci Syll., 1958. Cf. su stele prenestine < · <ΟΜΕΝ1ΛΙ * < * VS || OR (Garr., ib.’, 636), GEMlNlA · C · F II GN · VATRONI · VXOR (ib., 675), SERVIA · M ’ F II 32. qvw · M3MAW flNY+q3M · 00 •fra · s'erturia(l) manes' mur = Thanniae Sertoriae, Manii (filiae), sepulcrum inc. sull’orlo di coperchio d’urna di travertino, su cui figura recombente, in toga e pallio, con frutto nella destra. (1) « audiit amnis Sulfurea Nar albus aqua, fontesque Velini ». Virgil. Aen. VII, 516 sg. Commenta Servio: « In LX Flaminiae est civitas Narnia in montibus posita, quihus subest Nar fluvius, qui Tyberino coniun^itur. Sulfurea vero, sulfurei saporis, aut sulfurea, id est subviridi. Ideo autem dicit, sulfurea Nar albus aqua, quia dum currit est sulfurei coloris; dum hauritur, albi: et Sabini lingua sua Nar dicunt sulfur. Ergo hunc fluvium ideo dicunt esse Nar appellatum, quod odore sulfureo uares contingat: sive quod in modum narium geminos habeat exitus ». (2) }.° Suppl., nS. Cf. i cognomi etruschi caspu, masu, faltu, fulu, maru, = lat. Caspo, Maso, Fallo, Fullo, Maro. GIORNALE LIGUSTICO ΙΟΙ Trovata alla Ci del Pesce fuori Porta Venezia in Cremona. Collezione Ancona. Il prenome mane = lat. Manius espresso altrove colla sigla in an (i), comparisce qui per la prima volta nella sua più piena forma al genitivo. Non vuoisi tuttavia pretermettere che tale appellativo appartiene alla classe di quelli che , usati dapprima come gentili insieme e personali, a tenore di quanto ho esposto al n. 2 , ritennero più tardi Γ originaria duplice attribuzione, attalchè ricorre in qualità di nome di famiglia su parecchi monumenti (2). La voce mur, presentasi sotto diverse forme e derivati in alcune iscrizioni di assai difficile interpretazione (3). Plausibile apparisce la congettura che fa la radice verbale etrusca mur- = lat. mori (4), e anche nella presente epigrafe si affà assai bene al sostantivo m u r (s) il proposto significato di mortuarium (5), o sepulcrum (6), come non gli disdice quello più ristretto di urna (7). 33· ^flavo^ · 13nm+fl · flnflo •frana · atainei · zefrural = Thannia Alainia Setoriae ('filia) (1) man - s'exis · capzna || hermial capznasl, cippo perugino, C. i. i.j 1899. (2) C. ». »'., 658 ter Z», 1141, 1681 h, 1377, 2127, 2449. A questi aggiungerò il tegolo etr.-lat. di Cetona (x.° Suppl, 251 ter r). C · P1SEN— TIVS II MANIAE NATV , dove le lettere MAN essendo in nesso, questo fu sciolto dal Fabretti men rettamente in nav, leggendo NAVIAE· (3) C. ». 429 bis a, 2335, 1915. Cf. ib., n. 1060, i.° Suppl, 336. (4) Deecke, Der Dat. I aratale, p. 63. Corssen , I, p. 478 sg., $10, 559, 561, 562, 577 etc. (5) Corssen, I, p. 787 sg. (6) Pauli, Etrusk. Sludien, 3.°, p. 62. Die etrusk. Zahlwórter, p. 73. (7) Deecke, Etrusk. Forsch., Ili, 215, n. 4. 102 GIORNALE LIGUSTICO graffita sul ventre di olla sepolcrale di argilla grezza, alta o, 225 e della circonf. mass, di 0, 725. Nel Museo di Firenze. La famiglia Atainia è ricordata esclusivamente da monumenti sepolcrali dell’ agro chiusino e adiacenze. Ciò fa supporre che anche quest’ olla del museo fiorentino abbia identica provenienza : e infatti una iscrizione consimile è riportata dal Fabretti (i.° Suppl, 133) come da lui letta, però in modo alquanto diverso, sopra un urna di Pienza. li nome di Setoria non è senza riscontri. È nota la forma maschile OIAOT32 espressa in graffito di vaso fittile che il Garrucci suppone di provenienza sabina e forse capenate [Syll., 817), ne è fuor di luogo ricordare la Praecilia Seloriana di cui lo stesso Garrucci nelle Dissertazioni arch. di vano argom., I, p. 51. 34- >ΙΑΡΐανΊ3) *ΙΟΑΊ laris ceturnal = Laris Cetiirniae (filius) incisa su coperchio fastigiato di urna in pietra calcarea, lunga 0,470. Nel museo etrusco di Firenze. È probabile che questo coperchio d’ urna provenga da Orvieto, dove il gentilizio cefrurnas è cognito per diversi monumenti (1): però anche a Chiusi troviamo memoria di esso sotto la forma femminile cefrurnei (2). Non consta a che casato appartenesse questo Laris figlio di una Ceturnia; ma se si considera che l’urna sarà stata depositata nel sepolcreto della famiglia, apparirà che tale indicazione non era assolutamente necessaria. Cosi dall’ iscrizione velfrur · larisal · clan ■ cuclnial || fran/vilus lupu aviis XXV (3.0 Suppl., 370) non si potrebbe cono- (1) C. i. i„ 2045 ter, ].° Suppl, 309, a, h, c, d. (2) ).° Suppl. 215. Gamurr., App., 231. GIORNALE LIGUSTICO ΙΟ3 scere di che famiglia fosse il titolare Velture figlio di Laris e di Tanaquilla Cuculnia, se il titolo non fosse stato trovato nel sepolcro dei Partunii (partiunus). Lo stesso dicasi del sarcofago di Tuscania inscritto laris : s'etì-res : cracial : aviis : XXVIII (C. i. i., 2109), del cui titolare rimarrebbe ignoto il casato ove al silenzio del titolo non supplisse il fatto che il sarcofago fu estratto dal sepolcreto dei vipinana (i)-. Del prenome laris, genit. la risai, ho parlato al n. 1 di questa silloge. 35. Ι3ΊΊΙΚ1Α arntlei = Aruntilia incisa sul listello anteriore di coperchio fastigiato di urna in travertino proveniente da Chiusi. Nel museo di Firenze. La famiglia degli arntle è nominata esclusivamente su titoli sepolcrali dell’agro chiusino, e più precisamente, di Montalcino (2). 36. -JAI + I+ 3+AHNV : OKNA arnd· : urinate ti ti al = Aruns Urinalius Titiae (natus) incisa e colorita in rosso sul listello anteriore di coperchio fastigiato di urna in travertino lunga 0,600. Provenienza Chiusi. Dono della Società Colombaria al Museo etrusco di Firenze. Gli urinate, oriundi, per quanto si può arguire dal nome, dalla città di Hyrina ( RK1NY )> erano sparsi su tutta la -su- (1) Cf. L’iscrizione di sarcofago cometario : vel&ur· lardai - clan |( pumpual clan · lartì-ial || avils ■ cealxls · lupu (2.° Supp. 112) etc. (2) C. ». »., 995, 997, 1000. 104 GIORNALE LIGUSTICO perfide dell’ Etruria media, e ne riscontriamo le tracce a Volterra, a Siena, a Perugia, a Bomarzo, a Viterbo, ma sopratutto a Chiusi e nel territorio chiusino (Camulliano). Il titolo in esame appartiene, secondo ogni probabilità, al sepolcro esumato nell’ottobre del 1859 sul colle detto Pian dei Ponti (predio del can. Doni. Ragnini), e oggetto d’ una relazione del compianto Conestabile edita nell’ Archivio storico italiano di Firenze (1). 57· VMV1 p u s'u = Pusio incisa sul listello anteriore di coperchio fastigiato di urna in pietra calcare. Museo di Firenze. Noi sappiamo da Varrone (2) che gli antichi usavano la voce pusus in significato di puellus, ed a questa etimologia fanno capo i nomi femminili di Postila (3) e Pusilla (4) , e i loro correspettivi maschili (5). Fra i quali appunto è Pusio corrispondente latino dell’etrusco pusu secondo la regola a cui ho accennato al n. 31, cioè che i cognomi etruschi con desinenza in - u escono latinamente in - 0 - oms. 38· qovaq iiDVfm 00 afr fraucni raufrv = Aruns Fruginius Ramtae (natus) incisa su base di cippo in arenaria (alt. 0,30; largii. 0,17) proveniente da Chiusi. Collezione Ancona. (1) Nuova serie, XIII, 1, 7. C. i. t., 5 34 bis a->«. (2) De lingua latina, VII, 28. (3) Garrucci, Syll., 1519, 1874. (4) Wilmanns, Exempla inscr. lat., 2668. (5) Id., ib., 1542, 2162. GIORNALE LIGUSTICO Il Fabretti considera il nome fraucni come femminile, e interpreta in questo senso le diverse epigrafi chiusine in cui tal voce ricorre (Gloss., col. 520). Ma basta dare uno sguardo al testo di quelle e di altre iscrizioni dello stesso territorio (1) per convincersi che i titolari delle medesime sono indubbiamente maschili, mentre il genere opposto è rappresentato dalla forma fraucnei (2). Ho più sopra enunciato (n. 27) come le forme genitivali in - sa sieno, di regola, maschili: il genitivo fraucnisa (3) è pertanto sufficiente a stabilire il genere maschile di fraucni. La sigla raufrv sta per ravnfrus, genitivo di ravnfru. Questo prenome femminile etrusco corrisponde molto probabilmente al latino rava, d’onde il nome proprio Ravilla « dagli occhi grigi ». Però la traduzione latina del prenome stesso in Ramta è sanzionata dall’ autorità d’ un testo etruscoromano RAMTA VIBIIIS * |] LAVTNI profferte dal tegolo di Chiusi edito al n. 422 della silloge del Gamurrini (4). 39· fì2AH23>IT Ι2Ί33 ■ fllUflO frania: velsi tlesnasa = Thannia Volcia Tdesimi (uxor) cippo di travertino in forma di parallelepipedo sormontato da una sfera intorno alla quale è incisa l’iscrizione. Altezza del cippo 0,550; lato 0,400. Provenienza Chiusi. Museo di Firenze. (1) C. ». »., 51-;, 516, 599, 600, 601 bis a, d,f, g, li-, i.° Suppl. 233 bis; Gamurr., App., 551. L’iscrizione laris : fraucni : velusa : latinialisa (C. ». »., 515) non potea, del resto, lasciar luogo a dubbio sul genere, essendo il prenome laris esclusivamente maschile. (2) larS-i : fraucnei : cumeresa, ossuario chiusino, C. i. i., 601 bisfr. (3) S-ania : larci|| fraucnisa || ca, id., ib., 601 bisc. se&ria || fraucnis', tegolo, id., ib., 601 bis h. (4) Inammissibile apparisce P opinione del Fabretti che identifica ravnftu ad Aruntia. ιο6 GIORNALE LIGUSTICO Della famiglia velsi è detto al n. 26 e sg. di questa sil- loge· . .. Anche il nome dei tlesna figura esclusivamente su titoli sepolcrali del territorio chiusino, sebbene accenni ad una originaria provenienza dalla città di Telesia nel Sannio. Un’altra Thannia velsi moglie, come questa, di un tlesna, è ricordata in coperchio d’ossuario proveniente dagli sc.ui di Palazzolo in quel di Chiusi ed edito dal Conestabile (1). Il cippo in esame spetta molto probabilmente allo stesso sepolcreto gentilizio. 40. 13 M ! 2 : API034 pefrna(s) : sinei = Sinnia Paetinii (uxor) graffita nell’ interno di coppa di bucchero trovata a Chiusi. Collezione Ancona. sinei(a) è il femminile di s'inu (2), genit. s inusa (3), gentilizio chiusino che figura associato per parentela a quello dei tlesna. Ho esposto al n. 27 come i gentilizi etiusJii in - u corrispondano ai latini in -011-, dove la -n è secondaria dilatazione di stipite, per cui da pumpu, ve tu et<_. derivano le forme accessorie pumpuni(e), vetunia = lar. Pomponius, Veltonia etc. Conforme all’ enunciata regola , da (1) Arch. stor. il., nv. sr., XIII, 1, p. 25. C. i. i-, 736, c. (2) aule : seiante : s'inu || lardai : tiscusnflal : clan, sarcofago di Montepulciano, C. i. i., 908. s'inu, vaso di Marzabotto, i.° Suppl., 42. cuinte · s'inu ■ arntnal, sarcofago di Chianciano con iscrizione bilingue in cui all’etrusco s'inu corrisponde il latino Sentius (C. r i., 980). (3) θ-ania : tlesnei : cicunia : arnO-alisa s'inusa, ossuario di Chiusi, ib., 494 bis g. titi : svenia : viscusnal : s'..... s'inusa, id. di Montepulciano, ib., 912. GIORNALE LIGUSTICO IO7 s'inu deriva la forma sinunia (1), da confrontarsi a sua volta con s’ininei di urna chiusina (2), e sin ine i del titoletto in nenfro di Montarozzi (Tarquinia) oggi al Museo di Firenze fio lanimz txxxi ->iiq · m che qui riporto perchè la mia lezione differisce alquanto da quella profertane dal Gamurrini (App., 778). Si osserverà la posposizione del nome della titolare a quello del marito, dal che non mancano tuttavia altri esempi, come alefrnas larfri = Lartbia Alethnae (uxor), 3.° Suppl., 337; tusnus||larfri — Lartbia Tosnii (uxor), ib., 362, etc. 41· NfD 1+ : ARflWN lima via : ti cali(s) = Limavia Titi Gallii (uxor) graffita su piccola olla rossastra con zone nere, proveniente da Chiusi. Collezione Ancona. La stranezza del nome femminile induce qualche sospetto circa alla genuinità del titolo, il quale del resto fu accettato per buono anche dal eh. Helbig che lo vide a Chiusi (Bull, deirist. 1882, p. 137). Per quanto riguarda il valore grammaticale , il nome stesso potrebbe anche considerarsi come all’ablativo e gli altri due al genitivo; nel qual caso lima-via ti cali equivarrebbe a Titus Gallius Limavià (natus). (1) sinunia : 1θ· : ci cu s : papan ias's., tegolo del museo di Firenze. Il Corpus omette Γ s finale che pure esiste nell’ originale. (2) θ-a : cainei : s'ininei, urna del museo Campana, C. 2624. •frana : cainei : s'ininei, id. nel museo del Louvre a Parigi (forse tutt’una coll’antecedente), 2.0 Suppl. 125. ιο8 GIORNALE LIGUSTICO 42. 3iqfHl/!fl a η χ a r i e = Ancarius graffita sotto il piede di piccola tazza fittile a vernice nera lucida acquistata a Firenze dal sig. Amilcare Ancona. L’ortografia anxarie esibisce la forma originaria e pienissima di questo nome, di cui l’ovvio anxari rappresenta il successivo indebolimento. Sarà applicabile a questo quanto venne esposto ai nn. 22 e 23 riguardo alle iscrizioni di utensili domestici limitate al-Γ espressione di un mero gentilizio. Le memorie che sopravvivono della gente Ancaria, nome dedotto dalla dea Ancharia venerata a Fiesole (1) ce la additano divisa in due grandi rami, uno chiusino e 1 altro di I erugia. 43. +0B0>l'RvUKim23flq : 30 he : raesni nixvplahat = lìelia Raesinia........... dipinta in giro su vaso fittile a campana proveniente da Chiusi. Collezione Ancona. La voce raesni richiama le affini rasnal (/. Suppl., 399), ras'nal (C. i. i., 1044), rasnas (ib„ 2335 a), r asneas (ib., 2033 bis E), ras'ne (ib., 1914A), ras'nes' (ib.), nelle quali il Deecke propende a riconoscere un titolo di carica (2). Nella fattispecie però tutto concorre a far credere che trattisi piuttosto d’un gentilizio, la voce stessa essendo preceduta dalla sigla del prenome he(li); nel qual caso potrà confrontarsi utilmente colle forme resna (C. i. i., 603), genit. resnasa (ib., 635, 672), resni (ib., 1014), reisnei (Gam., (1) Tertulliano, Apoìog., 24. (2) Der Dat. lardale, p. 44. GIORNALE LIGUSTICO App., 525) etc. Ad ogni modo, è evidente la parentela col- 1 appellativo etnico Τασένα, ο 'Ρασέννα che gli Etruschi ripetevano da un omonimo duce (1). Il resto dell’ iscrizione sembra rifiutarsi per ora ad una plausibile interpretazione. 44· >MOqfl>| · )32 ΚΙΑΦ cpan sec · larfral = Fannia Lartis filia graffita sotto piede di tazzina fittile della stessa tecnica e provenienza del n. 42. La voce sec determina con sicurezza che il titolo spetta ad una donna. Trattasi pertanto di una cpan(a), nome già comparso, sebbene con diversa ortografia, su urna perugina (2), ed al quale si rannodano le forme fan ale ni di ossuario congenere (3), e fanacnal di bronzo cortonese (4). I seguenti 6 titoli mi inspirano poca fiducia. Li pubblico quindi sotto riserva, e al solo scopo che, sebbene condannati in prima instanza, non manchi ad essi 1’ appello ad un giu-dicio più del mio competente nella soggetta materia. (1) Dionisio d’ Alicam., I, 30. (2) fana · ve · atnal, i.° Suppl., 312. (3) arnt : ianak[|ni : velrnal, ib , 277. (4) velias’ · fanacnal · θ-uflO-as’ || alpan · lenaxe · clen · cexa : tuftines’ · tlenaxeis’, C. i. i., 1055. Uscendo dal campo onomastico, si potrebbe pensare al misterioso fanu ricorrente su monumenti tarquinicsi (C. 1. i., 2279, 2292) e nell’iscrizione della torre di S. Manno (ib., 1915), voce a cui 1’ Orioli (Ann. dell' Istit. di corr. ardi., 1834, p. 180) assai prima del Corssen, attribuiva il significato di sepulcrum, e nella quale il Pauli (Die etrusk. Zalilw., p. 68) riconosce oggi la qualità di locativo: ma la natura del monumento non consente all’ epigrafe in questione altra attribuzione che quella d’ un titolo personale in cui ad un nome proprio femminile è accoppiata la citazione della paternità. GIORNALE LIGUSTICO 45. 32IVAH · AV3>IH vileua · n a u i s e oraffita su olla sepolcrale proveniente da Chiusi. Collezione Ancona. 46. 32111« I32IHVA 3HDI8 canise ausinei ficine graffita sotto il piede di vaso di bucchero. Provenienza, Chiusi. Collezióne Ancona. 47. mm · MI3ÎI+ tisein · naime graffita sull’ orlo interno di piatto di bucchero, nel cui fondo la sigla X. Provenienza Chiusi. Collez. Ancona. 48. 3H3 · 21+flttlN 3«Hfl) l+flffl33 fl23qv+ limatis- e n e c a v i r e vernati turesa graffita, la 1/ linea sull’orlo e le altre 3 sotto il piede di vaso di bucchero. Id., id. 49· HU3+ : larikia : tesiti GIORNALE LIGUSTICO III graffila sulla parte esteriore del piede di una coppa di bucchero. Id., id. 5°· 3no-i+mm+-3 O decus italiae, rerum pulcherrime princeps Et patriae felix gloria, honorque tuae Da precor accessus operi Mitissime nostro \ atibus ipse sacris namque fauere soles. Quanvis magna tamen cures molimina rerum Fac pateant scriptis atria clausa meis Non ut saepe solent alii, te Borse, canemus Nec clarae gentis splendida facta tuae Aut liber imparibus numeris tibi venerit iste Dura fugant molles carmina daelitias. Nec fratris titulos dicam, magnumque parentem Quaeque olim dedimus aspera bella, canam. Adde quod ante omnis, cultos qui scribat amores Mille helegos cantet, nunc tibi Titus adest. (i) La copi» di questa tragedia del Laudivio fu tratta dal Codice della R. Biblioteca Estense dì Modena, segnato in Catalogo VI. A. 37. Ms.1* in pergamena, di carte. 24 in forma di 8°. Il titolo della tragedia occupa cinque righe in carattere rosso, e sono pure in carattere rosso tutte le parole c segni marginali, c cosi le intestazioni degli atti e cori. La lettera capitale in principio della tragedia ò dorata e rabescata bellamente a varii colori. Le altre iniziali per <;li atti e cori sono alternate a colori rosso e turchino. Anche le parole : Finii Tragoedia. — Finit. Lavdiuïüs Vezanesis sono in carattere rovo. 112 GIORNALE LIGUSTICO Hic proauos, atauosque ferens, et gesta tuorum Diuinum haeroo carmine ducit opus. Nos, quoniam magni renovantur tempora Luctus Captivi flemus tristia fata ducis. Sic ueniet celeri tibi, moesta tragoedia gressu Squallentes Laceris crinibus hirta comas. Tunc uultus, oculosque truces, faciemque uerendam Et toruae aspicies signa tremenda deae. Utque erit a Lacrymis, sparsos disiecta capillos, Nox sibi pallentes tinxerit atra genas. Cumque sophocleis princeps inuecta cothurnis Ad thalamos lacrymans uenerit ipsa tuos. Forsitan ante graues tristis mirabere luctus Hei mihi, quos luctus, sic uoluere dei. Neue precor gemitus, quae sint aut uerba requiras Horrida captiuum flebit at ipsa duccm. Quae si grata tibi fuerint Iustissime princcps Iamque tuos carmen crdiar inter auos. Finis. Laudimi Veiane,vis, ad illustrissimum principem Diuum Hortium Estense», Ferrariae Marchionem et Mutinae Regiique ducem, de captiuitate ducis Iacobi Tragoedia incipit. Rex Borsius loquitur. Tandem luror subscdit^ac uarius fori Nunc martis euentus finem melior tulit. Iam pace cuncti ferunt habita deis Iustas preces : passimue iam populi errutas Urbes colunt; antiqua laetus rediit Ad rura pastor, gaudensque satiabili Versat, humum arator desydcrio excitus Campis uagas ducitque uirentibus boues. Ingentem atrox, qui uicit Ausoniam, italis Rebus potens, mitem dedit animum comes. Belli imperator, et uagus tandem ucnit Foedere certo ad clarum sfortiadam ducem. Sic orbe fesso uictor ingens nunc adest Ille superba hostium referens spolia GIORNALE LIGUSTICO I Sancta fruemur requie, sicque tuas Liberet Ausonia Mars urbes ferus Milesue durus damnet ; gladios truces Nec uasta ponti mole sollicitet freta Tristis per aequor, atque nunc casus terat Fortuna quales saepe iam dubios dedit. Humana perdant neue sollicitum genus Tot cladibus fessum, sic secundent dei Incepta, magne rerum parens Iupiter. Iam tuta tellus stabit, haud miseras trahet Fortuna terras, nonque magnificis duces Lapsos triumphis, casibus Ausonia ingemat Par ille regno superest potens deum Qui uidit arces ad suprema iam suas Fata manere ! Rarum est felix perdurans in senium diu Nam nimium uolucres deuehit rotas Fortuna rem inuido omnem rapiens gradu. Nostras tamen pax, et salus urbes regant Nunc hoste pacato, caedat et domitus Mars ferox, reuisens aspera H.iemii iuga Adque Getarum loca, abeat feruidus Ingens ubi Hebrus lauit strimonias grues Ί racesque duri tellurem Martis arant. Regnet at sub iugis ursae rigentibus Perpetuas ubi aspergens niues, uidet Tardum Bootem plaustro artos glacialis: Seu qua truces ingens Hyster nunc diuidit Multifido Dachas ad praedam flumine Scytaruni iugis, uagos cogens Sarmathas. Ausoniam linquat atrox, atque ferus Deserat arua, campis fugiens appulis Quaque celer uerberat undis Aufidus. Litora cursu uasta Adriaci maris Ac ubi miles per campos castra ferox Marte undati relictusque locauerat. Et zephiris uirentia sors gramina Triuerat, ac iacere frondentis putes Arboris hic ramos refusso sanguine Ctom. Lmosnco Anno XI. ιι4 GIORNALE LIGUSTICO Intumuit tantis cum bellorum cladibus. Brutia iamque non nautas timent uagos Littora, turpes imitantia insidias. Profundum haud aret graue praedator cylix Undasque flexu giret improbus latens ; Pondere nec rerum graui uersata gemat Italia; inmites deos luctus rogans, En qui fero potens urbes iam territas In Calabris bello nec uertit collibus Marte subactas: Tandem triumphis adest, Et Palladis ramos manu acthcae gerens Fert oleam fortia circum tempora, Laurigeras sertis iam reuinctus comas; Porrigit ipsam magno dextram Sfortiadae Foedera firmans, et super Biuges sedet Alipedesque aurato curru frenans equos Passus nec ullas pignoris dati moras Dux Iacobus. Sic libycis seuiens montibus leo Domitus blandas magistri patitur manus, Ut posuit iram uerberibus trucem ! En quanta retulit hic laudis spolia Nunc orbe uicto sublimis gloriam ! insuper Mifes rogamus (ligent haec foedera) deos Addiciantque sanctam inter duces fidem Sibique faustos reditus, et terris paret Magnanimus noster dux ad pacem comes lura cunctis equidem optata sanciant ! Rex Borsius. Fatidici uatis, qui seruas limina Sacerdos cape sacra nunc deum canens Exprime Phoebi oraculum custos sacer Liminis antistes , et coecuni daelphice Abdita pandens fata conserues genus; Clausasque per tempus nunc resera fores Intonse crines humeris Phoebe gerens Sic rutilante (pulsans citharam) coma Furoris ille ad tripoden sacer spiritus Condita longeuis responsa annis ferat, Vos quoque numina, et manes testor ! deum GIORNALE LIGUSTICO Pandite fata ! Sacerdos. Vidimus aerem leuum sacra alite Clangore magno dedisse excessu tubas Et graue terris ferentes omen deos Increpuit tristi armorum sonitu fragor Cunctaque passim musant (i) prodigia duces, Sumum (2) reuoluit fortuna pondus celer ; Ausonia infelix quale amites (3) decus, Sic pollicetur Phoebus, sic sacra canunt Limina uatis ; tuque penna praepete Aere moestum omen nunc secundes auis. Rex Bor. Quid manet alto fibris sudore eruor Prode sacerdos , cur itaque ora tremens Iniqua torques, aedere (4) iussus deum. Sacerdos. Rex, utinam prodere possim, quem iubes Concipere ; ad faustam ante aras nunc facem Tu seu Phoebe Parnasi relinquis iuga, Seu gemini colles nunc montis arduos Nec ferre regum responsa clade cupis, Abde, rogamus, uisa, quae prodis mihi Secundet incepta magnusque deum pater. Rex Bor. Tolle recentes antistes fati moras Noscam ut quis sit futurae nunc cladi modus Diis ita postquam uisum est, quantis fleuerit Luctibus Ausonia, quam superi reprimunt. Sacerdos. Concidit ad magnos iam leta, Rex, deos Hostia non munus gratum aut omen leue Hanc ubi pallens fibra nigram prodidit Cor saliens, heu, necem magni nuntiat Nunc ducis Piciuini ; sed tu cessa deum Iam pater iram aedere (5): Mars toto ferus Saeuit in orbe ; pone nunc cladi ni due lettere di Agostino Mascardi secondo un ras. Chigiano. La prima, che è la più importante, già era comparsa in questo nostro Giornale (Anno VI, 1879, P- I0I).> esemplata sopra un codice della Biblioteca Nazionale di Parigi. *** Troviamo nell’ Archivio storico di Lodi (Anno III, Disp. IX, p. in), due documenti intorno a Gaspare Dell’Acqua da Lodi pittore e scudaio. Il primo, del 1453 ^ tratto dall’Archivio di S. Giorgio e produce alcuni pagamenti fatti a quell’ artefice per dipingere il vessillo di S. Giorgio ; 1 altro del 1461 , copiato dai notulari di Antonio Fazio seniore notaio genovese, ci manifesta gli accordi stipulati da Gaspare per lavorare un Iregio dorato in casa di Ambrogio de Marini. Fa maraviglia che il signor Antonio Gavazzo editore di questi documenti non abbia almeno accennato alla notissima opera di Federico Alizeri (Notizie dei professori del disegno in Liguria), dove si discorre di quell’ artista, tanto più trovandovi già edito il secondo documento (Pitt. II, 340). Ma il più recente editore vi ha aggiunto una sua curiosa traduzione, della cui utilità non sappiamo proprio capacitarci. *** Abbiamo avuto modo di esaminare 1 ’Annuarie de la Principauté de Monaco per gli anni 1881, 1882 e 1883, e vi abbiamo trovato alcune importanti monografie, delle quali è utile tener nota. Nel primo il sig. Antonio Heron de Villefosse rende conto di parecchi oggetti d’ oro, ornamenti e monete, trovati a Monaco nel 1879, e da attribuirsi all’ epoca imperiale romana. Reca il secondo uno scritto assai notevole di C. Jolivot intitolato: La renaissance à la Cour de Monaco nel quale si dànno buone notizie delle opere eseguite colà da Ludovico Brea e da Luca Cambiaso. Nè di minor momento è l’anonima scrittura: Honori II et le palais de Monaco, dove sono narrate tutte le cure spese da quel principe, rimasto nella storia il più celebre della sua casata, per trasformare ed abbellire quella sua stanza pressoché regale. *** Un lavoro di molta importanza ha messo in luce O. Schultz , prima come dissertazione pel dottorato, poi rifuso e in forma più larga nel i58 GIORNALE LIGUSTICO Zeitschrift fùr romanische. Philologie (vol. VII, 1883, fase. 2-3). È intitolato Die LehensvfirhàItnisse der italienichen Troia dors e non può testare igno rato dai genovesi, perchè vi si discorre ampiamente di tutti > trovatori li-uri. A questo proposito è utile riscontrare una erudita recensione e Casini (Giornale storico di Lett. liai., II, 395) ^0Γη0 al cl£at° IaV°r°· ÿ Nella Rassegna Nazionale. (Aprile 1884), è comparso un articolo intorno a Lorenzo Costa, nel quale si narrano parecchi aneddoti de a sua vi a giovandosi del suo carteggio ; si producono le sue lettere dirette a Luig. Fornaciari, ed alcune poesie inedite. + * * Il primo fascicolo del Museo Italiano di antichità classica reca due lavori del sig. L. A. Milani, e sono: 1 frontoni di un tempio tuscanico scoperti m Luni ; e : : Dattiloteca lunese. Vi si parla delle terre cotte frammentane, e della collezione di gemme e oggetti preziosi raccolta dal march, e acquistata di recente dal R. Museo archeologico di Fiienze. R scendo la molta dottrina dell’autore, non sappiamo se tutti eli genti vorranno convenire nelle sue conclusioni, e specialmente se 'e in quei frammenti quello che egli asserisce. * 1! prof. Celoria ha pubblicato nei Rendiconti del R. Istituto Lombari (XVII, 239), una sua nota importante sopra una deviazione sensibile de filo a piombo esistente fra Milano e Genova. *** · h È uscito in Torino il primo fascicolo della Rivista storica italiana, pu blicazione trimestrale, diretta dal prot. C. Rinando colla collaboiazione di A. Fabretti, P. Villari, G. De Leva e di molti altri cultori di storia patria. Ecco l’indice delle materie : Prefazione degli editori In troduzione, A. Fabretti —Memorie. P. Villari, Una nuova questione sul Savonarola; G. De Leva, L’elezione di Papa Giulio III; Viro La Mantia , I comuni dallo stato romano nel Medio Evo ; G. Rosa , I francescani nel secolo XIII — Recensioni: Si esaminano opere di V. Duruy, Ihne, Rajna, Balzani, Handloike, Hejd, Mitrovic, Prutz, Thomas, Rey, Μ. Amari, C. Schiapparelli, Paolucci, Brambilla, Vayra, Magenta, Villari, Thomson, G. Duruy, Μ.' de Rémusat, Poggi, Torelli, D’Ancona, Seletti — Spoglio di Riviste ed elenco di libri in lingua italiana , francese, tedesca e inglese sopra argomenti di storia italiana — Notizie varie d’interesse storico. 1 GIORNALE LIGUSTICO 159 L editore A. G. Morelli d’Ancona, ha pubblicato un volume del professore Alessandro D’Ancona , intitolato : Studi sulla letteratura, italiana de’ primi secoli (in 8.° di pp. 460, L. 5). Contiene : Iacopone da Todi. Il giullare di Dio del secolo XIII — Convenevole da Prato. Il maestro del I etrarca Del secentismo nella poesia cortigiana del secolo XV — Il contrasto di Cielo dal Canio. Richiamiamo l’attenzione degli studiosi sopra questa raccolta di scritti importantissimi per la storia letteraria, e vogliamo rilevare il grande valore in ispecial modo dell’ultimo, che forma una buona metà del volume; poiché oltre la trattazione ampia ed acuta dell’argomento, vi è una diligente appendice nella quale il lettore troverà l’indice bibliografico e critico di tutte le pubblicazioni che si sono fatte intorno al soggetto dal 1874 a oggi ; e in fine il Contrasto largamente commentato. Riserbandoci a dire più riposatamente , secondo il merito, delle cose trattate nel volume, vogliamo ora volgere una parola di giusto encomio al bravo e intelligente editore sig. Morelli, perchè a differenza di certi altri editori, i quali sotto l’apparenza della splendidezza fanno pagare a carissimo prezzo le pagine bianche, ci sa dare con que’ suoi ben disposti caratteri nitidi e compatti molta materia ad un prezzo assai onesto. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Ragguagli storici di Montignoso di Lunigiana dal ιηοι al 1784 dell’a-hate Bartolomeo Bertocci-ii, Lucca 1884. L’editore di queste curiose memorie è Giovanni Sforza, il quale già da pezza ci ha dato una compiuta istoria di questo suo paese, che per la sua posizione, e l’antichità del suo castello ebbe assai importanza. Il nostro abate racconta alla buona gli avvenimenti contemporanei, con molti particolari assai notabili intorno alle famiglie della terra ed agii uomini che si levarono in qualche grido, non che intorno a certe speciali costumanze di quei paesani. Il manoscritto era assai disordinato, ma l’editore con una opportuna scelta e divisione di parti lo ha reso di grata lettura, aggiungendovi parecchie notizie e illustrazioni tratte dai documenti e dai manoscritti dell’Archivio lucchese. Alessandro Lattes. Il diritto commerciale nella legislazione statutaria delle città italiane. Milano, Hoepli, 1884. GIORNALE LIGUSTICO Pochi scritti fra quelli pubblicatisi di questi giorni in Italia sopra argomenti storico-giuridici, possono gareggiare con questo lavoro in cui uno dei lati più importanti e più trascurati della vita economica del medio evo è messo in chiara luce, con diligenza grandissima d inda0ini e retto lume di critica. Le fonti storiche genovesi cd i loro illustratori sono citate ad ogni passo , anche se trattisi di pubblicazioni isolate o di articoli di riviste. E ciò che rende maggiormenie interessante questo sciitto, onorevole pel suo giovane autore, si è la cura speciale con cm \enne tenuto conto della men nota legislazione statuaria del medio e\o i fronto della posteriore e meglio conosciuta. È insomma un libro che si raccomanda non solo al giurista ma a qualunque serio cultore degli studi storici. Elementi scientifici di etica civile e diritto. Schema di Carlo Augias, compilato secondo il Programma Ministeriale per l insegnamento dei R. Isti futi Tecnici. — Ancona, Morelli, 1884. Questo libro, buono nel suo complesso, mostra che 1 autore è pratico della materia ed erudito, assennato, buon ragionatore, schivo di teoriche belle in astratto, inapplicabili in pratica. Esattamente ragiona delle grandi forze che reggono e perfezionano la società : la ragione pratica delle masse, la ragione speculativa degli individui eminenti per ingegno. E ben accenna come oggidì, meglio che per l’addietro, si riuniscono speculazioni degli ingegni, colla pratica delle masse. Discorre assai bene della natura e dell’ importanza dell Etica, relazioni dell’uomo con Dio, con se stesso, cogli altri e con le cose este riori, dimostrando tutto con la scorta di sicuri ragionamenti, e dell auto torità dei savi. L’antropologia morale, il bene, il dovere, il diritto, la co scienza morale, la legge, sono con chiarezza e secondo la sana dottrina trattati. Buono lo svolgimento ampio della teoria del diritto, in se e nelle sue applicazioni alla società civile, considerato cioè l’uomo come individuo,, e come membro della famiglia, della nazione, della società universale ed umana. Tuttavia sarebbe a desidei'arsi qua e colà una maggiore precisione di linguaggio scientifico, e il sussidio di qualche più vigoroso ragionamento e di qualche prova più concludente. Il libro essendo destinato per le scuole è forse un po’ troppo ampio, e richiede una nuova revisione dall’ autore, il quale ha senno e dottrina per renderlo migliore. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO l6l ANSALDO CEBÀ (Continuaz. v. fase. I-II, pag. 35). Al povero Pino (mi sia lecito usare del suo bisticcio) era dunque riuscito di riparare in porto ; nel quale se non gli fu dato di ritrovare tranquillità, non lasciò di trarre il maggior profitto che per lui si potesse della merce ond’ era carico. Non nobile, dacché non ebbe da veruno e neppure da se stesso quel titolo, come neppure quello di giureconsulto, spurio per giunta e senza speranza di legittimazione , e diffamato, ch’era peggio, d’un crimine, come già vedemmo, eh’ ei nominò, contentandosi di negarlo (i), fu tutto intento a procacciarsi potenti protezioni ; il che come altrove, potè pure conseguire in Genova ; e non riuscirà, penso , discaro al lettore, il seguirlo per la via da esso tenuta , poiché la troverà seminata di nuovi fiori di quel preclaro ingegno oculatissimo nello scoprire il merito non meno che felice nel (1) Che si trattasse di turpe e nefando il farebbe sospettare 1’ Ode da lui pubblicata in Genova il 1605 ne’ suoi Carmi preliminari : In translationem corporis Sancti Dominici e veteri in novum sacellum — in Bologna, .....nobile, qua dccus Doctrinarum, et apex celsior, incubat Campis Felsiiieis..., alla qual festa si recò iti ispirito diffondendosi nelle lodi del Santo, notandone dapprima ut nive mores. Nè meno il farebbe credere PEpigramma surriferito ad Antonio Spinola dilettante di osceni versi, il quale non so se sia lo stesso del quale parla lo Stigliani (Lett. cit. pag. 303) a proposito delle Rime di un tal Capitano, noto al « Sig. Gio. Francesco Spinola (il quale è suo paesano), e « stato sulla galea non al soldo , ma... al biscotto, » essendosi « tollerato, che Nettuno usurpasse la giuridiEzione a Vulcano ». Giorn. Ligustico Anno XI. ix GIORNALE LIGUSTICO caratterizzarlo e scolpirlo, onde s’avrà qui una Galleria di Liguri non inferiore alla mondiale del Marini. Fra i primi da lui coltivati dovette essere quel Costantino Pinelli, al quale scrisse pregevolissimi endecasillabi (i), i-cendogli : . . . florida cui vigescit atas , Cui res suppetit, indolesque gliscit, Doctis pasce animum, ut facis libellis: Hinc tibi fluet invidenda merces. Desultoria sors : opes caduca : Stat virtus: Sophia unice perennat. Gli ricorda che . . . initu vel avi ab usque Tui primulo, ut adprobe ipse nosti, Te semper colui, atque amavi amore Integro, ingenuoque parte ah omni. Sum quandoque itidem abs te amari et ipse Visus. Iam tibi firmius sed avum Cum succurrerit, auxilique maior Cum sit copia te penes, quid erga Me sensim ille animi ardor intepescit ? E accennate varie cagioni di quella tiepidezza : ah meis caveto Ne irascare minutulis avenis. Tecum o sed liceat precor jocari, Usque dum graviore senticeto Ab hoc me expediam, potentiorum Nollem, da veniam, uspiam implicares Te quodam in rude vulgus, arbitrantur Oui nos et stolidos, et elevari Indignos ope, litterarum eo quod In mare alveolum impulisse juvit. Hos missos facito, ut lubet, sinasque Divitent sua sacla homunculorum etc. (i) Pag. 248-250. GIORNALE LIGUSTICO 163 E non solamente lodollo perchè . . . Aonum . . . bibisti Postquam tu quoque fontis e liquore, Pangis carmina unii e mirus Hetrusca ; ma tradusse in un bell’ epigramma di tre distici un madrigale di lui sopra Jella (1). A Girolamo Centurione scrisse, in ringraziamento della ottenutane protezione, una bella ode oraziana (2), e i sopracitati endecasillabili, nei quali fa di lui F elogio seguente . . . seu lyriSis modis novenam Turiam, sive elegis cies in arma , Umbria hinc tibi dat suos furores, Illinc Daunia dat suos, in ipsa Castra Thespiadum impetu unde tendis. Quod in mens epigrammaton, acumen Interdum subit experiri, et artem, Tum vero superare Martialis Acumen perhiberis usque, et artem. Atque id non calami unici labore Verum tergemini facis : Latinas Nam junctas Italis, Ibericisque Te scimus coluisse rite Musas. Adde huc, quod numeris soluta floret Tibi oratio, et elocutionem, Et artem bene docta Tullianam. Quare hinc cum tibi gloria sit ingens Extructus cumulus, cave moleste Feras te tibi juris, atque legum Sumpsisse a studio vacationem, Artibusque aliis, virum unde passim Monstraris digito. (1) Pag. 122. (2) Pag. 173-174. 164 GIORNALE LIGUSTICO Più che ad ogni altra famiglia patrizia arse i suoi poetici incensi alla Spinola, potentissima, come ognun sa, e chiara anche per molti cultori delle lettere. Fin dal 1593 avea Pu^ blicato in Firenze (1) un’ode oraziana ad Octavium Spinulam, perchè, dice egli Mi retulere Nuntii Cura teneri te gravi Exire septem ex collibus Quamvis pater tuus neget ; e paragonatolo ad una nave, conchiude: Sic aut patrem implora diu, Aut perfer : obsistas cave Patris voluntati : nefas, Et mergereris naufraga. > Celeberrimo a’ suoi di fu Nicolò Spinola, zio di Don An gelo Grillo, che lo encomiò col sonetto che comincia. Taccia Arpin, taccia Athene ecc. (2), al quale premette il Guastavino, che fu scritto « per hi sua maravigliosa forza nell’ orare : della quale fe’ prova fin gio vinetto di quattordici anni, in Roma innanzi Carlo Quinto , con molta ammirazione di tanto ingegno ». Più diffusamente lodollo il n. Pinelli con un’ ode, eh’ io non esito a dire stupenda. Esaltatolo dapprima (3) Nigris Herc.ynia saltihis edita, Ilex u t rigidis icta securibus Obdurat magis, (1) Lib. 3, p. 33-4. (2) Rime cit. c. 55 t. (3) Ed· gen· pag. 169-173. GIORNALE LIGUSTICO gli dice che: Hac vel canitie, qua caput albicas Quid virtus valeat, quid studium indicas Doctrina assiduis acre laboribus, Nactum quicquid agat trans tumulum, et sacres Seris nomina saculis. Nam tu nobilium conscius artium, Quas aut Graiugenum, aut Romulidum extudit Olim gymmasium, Delius unice Æque Plicebus ut micas. Quo tu cumque velis turbida blandius Auriti populi ducere pectora Dicendo, liceat, nullus enim aut apex Arits te latet, aut color. E segue ricordando con lode la detta sua orazione a Carlo V, e gli studi nei quali Et Graia, et Latia fontibus accubans Lingua, nec Solyma nectaris abstinens, Trivisti egregios Socratis et libros, Multam Scevola et aream, e le imprese militari contro la Corsica ribelle sotto il vecchio Doria, e le ambascerie : Post hac te aereis usque superbiens Septem Roma jugis, teque Neapolis Florens delitiis, juris, et arbitrum Legum sensit idoneum. Te Germania, te vidit lberia, Te terra Allobrogum munia pubblici Oratoris agentem ; et stupuit caput Prasens flectere quodlibet. 166 GIORNALE LIGUSTICO E termina incoraggiandolo a sopportare coll usata sua for tezza quello che Una hora gemino termite masculo Nimbus te viduam reddidit arborem! (i) conchiudendo : Ne desis tibi : iam tempus , age, o tui Urbanique sales, et redeant joci; Mutes atque hilari carmine lugubris Vates tristia nænia. Altro illustre della stessa famiglia ci fanno conoscere gli endecasillabi ad Jo. Baptistam Spinulam (2), dal quale aveva avuto il nostro poeta Ultro scripta Sepulveda . . ■ De Repubblica in aureos libellos Odo Aristotelis . . . I meriti di questo Spinola vi sono così espressi : Docte Spinula, jamdiu merentem Cuius frontem obiit decora circum Et Phabi, et Sophia, Themisque laurus ; e 1’ affetto del favorito : Tete amo interea usque, et usque eodem Quo semper tuum amabilem parentem Ob dulce ingenii, piumque mentis, Sum Georgium amore prosecuutus , . . A gratificarsi Ambrogio Spinola di Francesco dei Signori di Campo ed i Gesuiti dovè scrivere gli esametri pubblicati (1) Sul tragico avvenimento della morte violenta di due suoi figli esi-gliati si legge una lettera del Nipote Don Angelo Grillo fra le stamp. in Venezia il 1612, pag. 50-52. (2) Pag. 261-262. GIORNALE LIGUSTICO il 1598 in Genova — In Pétri Ribadencyrœ e Societ. Jesu opus adversus politicos, de Hispano in Italicum Sermonem a Scipione Metello conversum (1), i quali cominciano : Macchiavelle, abeas : tua iam vesane patescunt Dogmata, vel valide subnixum perdere regnum Fortia . . . Fra le lodi alla Compagnia Stemmata praportas radiantia nomine Jesu , si legge questa : Quandoque tibi cura ingens florescere ubique Ingeniis, per qua pietas, doctrinaque surgant Acrius ; et vulgo pateant discrimina rerum. A Leonardo Spinola, a noi già noto, indirizzò un epigramma di cinque distici, dei quali giova qui riferire i tre primi : Sic tibi prò voto ingenium viget, ardua quaque Ut subeas onerum, et qua vocat usus eas. Adsidue rerum caussis, et legibus instas : Historiam evolvis, Spinula, et eloquium : Vestigas solers quicquid sapientia Graijs, Et veterum Latijs fontibus occuluit (2). Di Andrea. Spinola, che già conosciamo in parte, ci accenna un atto molto onorevole, quale dovette esser quello di averlo condotto e tenuto seco in Padova, forse a sollecitare qualche cattedra in quella università per mezzo del già da lui magnificamente lodato Gio. Vincenzo Pinelli, fortunato (1) Su di che ved. Atti della Soc. Ligure di Stor. Patr. vol. IX, pag. 253 e segg. Gli esametri si leggono pure a pag. 66-69 dell’ed. gen. Carmin. 1605. (2) Pag. 105. 168 GIORNALE LIGUSTICO protettore (i) del Galilei, che già vedemmo condiscepolo e amico del nostro, il quale tornatone senza pio non celta mente per colpa dell’ omonimo Mecenate, cantava poi all a-mico Filosofo : ..... omissi Debiti pudet offici, in vetusta Antenor sibi quam locavit urbe, Ouo fruì merui, ante postulavit lus sodalitii, mea ut Camana Te contingeret .... di che sdebitandosi finalmente, in parte, aggiunge : Tuis civibus usque carus : abdis Lecta, auditaque corde sic tenaci Divelli ut nequeant: rei est abunde, Librorum et tibi calibi supellex. Cura deditus ergo amaniori Ingeni ; et memoris, potensque acuta Mentis oppido ; et affluens benigne Rebus Palladi idoneis ; nec ulla Vinctus compede, non pudet fateri, Unus millibus ex meis amicis Tu demum es, mihi qui sit invidendus (2). Amicisssimo gli fu Vivaldo Cattaneo, come attesta 1 epigramma di cinque distici, che comincia : Ten’ Parmense adeo olbectat, Vivalde, lyceum, Nulla tibi ut nostri cura animum subeat ? O sine te Ligurum quid me ardua distinet ora? Te sine quid patrios pergam habitare lares? (3). (1) Come si rileva dalla sua lettera dei 3 sett. 1592, pubbl. dal eh. Giuseppe Campori, il 1881 nel Cart. Galtl. ined., pag. 1-2, dove altre notizie, e la data della morte del Pinelli riferita, per isvista, allo « stes.so anno », laddove accadde, come s’ha dal Gualdo, il 3 agosto 1601. (2) Pag. 291. (3) Pag. 129-30. / GIORNALE LIGUSTICO 169 Al già noto Gio. Vincenzo Imperiale, ricco più di dovizie che di lettere , s’ affrettò a raccomandarsi con due belli epigrammi, Γ uno di otto, l’altro di tre distici, dal secondo dei quali apprendiamo ch’egli pure gli mandò versi, prima latini poscia italiani, per averne i tanto sospirati elogi, preceduti probabilmente da qualche mancia ; Qua tua Musa prius Latta ab testudine munus Obtuht, Hetruscum nunc mihi carmen hiat ? Macte age, Vincenti ; periabere caruia vatum : Ne flabra, aut scopulos , aut fera monstra time. Ten’ mergiingeminant cui clavus, et anchora ? nonne Fortis hac teneat, tutius ille regat ? (1) Non avendo il Pinelli da tante lodi ai migliori e più ricchi dei nobili vecchi (da esso pei primi onorati anche per deferenza al proprio cognome) raccolto che un utile molto infe- . riore alla sua aspettativa, dovette rivolgersi ai nuovi, meno ricchi è veio, ma non tutti tanto taccagni, e se non più potenti, più numerosi almeno e alcuni attivissimi nell’ amministrazione della cosa pubblica. Nè dovè certo sfuggire alla sua oculatezza il venerando Matteo Senarega, il quale benché odiatissimo dai vecchi e non accetto a tutti i nuovi special-mente perche entrato nelle grazie del Principe Doria, avea potuto probabilissimamente per la protezione di questo, influentissimo e per sè e per 1’ appoggio di Spagna nelle cose della Repubblica, ìisorgere dalla miseria, in che l’avean gettato le ire dei vecchi, fino alla suprema carica del dogato (2). Era egli già uscito da questa (1597) quando il (1) 123-4. (2) Questo risulta chiaramente e dalle lettere e da altri scritti del Senarega, che si conservano nella Civico-Beriana, e dagli Annali del Rocca-catagliata, che, per essersi appunto occupato di molte particolarità di \ηο GIORNALE LIGUSTICO Pinelli si fe’ a celebrarlo coi felici suoi endecasillabi (r), pregandolo prima di perdono pel ritardato suo tributo d ossequio. Ah vera licet hactenus querela Me me carpere, jure et acriore Jurgio fueris potis necare, Concedas veniam, id resarciatur Culpa carmine supplici, nec ultra Quod ira superest sinu foveto. Ed ecco il ritratto che ne fa in seguito: . . . dia tibi indoles . in omnes Usus ingenii evolas . negotî Ouodvis ducis ad exitum .fides, et Multa in te taciturnitas . pudori Summo summa modestia illigatur. Fas rectum , pietas gravi peraque Nexu te decorant . benignitati Candor par animi. scientia quis Tua nesciat, eloquentiaque Uber ? praterea voraciore Huc addas quod hirudine impudentis Non putet tibi fanoris parata Res, qua plurimus affluis, nec ullo Confiata auxilio inquinatioris' Mercis. Hinc titulis tot invidendis , Totque auctum cumulo elegantiarum , Intimum merito, ipsius vel atris Tabida invidia arbitris colubris, Patrum consiliis, magis reposta Urna antistitem et unice fuisse Din te bene novimus, nec usquam quelli che direi umori governativi, restarono tanto tempo inediti. E gli uni e gli altri attendono ancora chi ne voglia trarre la vera e compiuta biografia del Senarega , tuttora invano desiderata. (i) Pag. 241-245. GIORNALE LIGUSTICO Tantum muneris inquinasse . nostra Cum Respublica turbulentiore Intestini agitata mole belli, Extremo propius foret periclo , Apud purpurei sacrum Senatus fure hinc munia Prasulem severi Oratoris obisti . in omne tempus Civium lnnc habuisse te tuorum Pro salute tuenda acerbitates Scimus sollicitudinum trecentas. Denique hinc prius assequutus omnes Honorum in patria inclytas curules , Ostrino in solio insidens, supremum Tandem culmen es oblinere visus. Nunc tanta tibi dignitate functo , Vemt perpetuum vacationis Otium imperitantis: hoc, vel usque Dum vives , lepide frui licebit. Passa quindi a celebrarlo qual mecenate degli studiosi, ag giungendo : . . . quod ipse mire Sensi plus vice simplici. Ergo ad oram Vasti cum pelagi eruditionem Diu retia jecerim ; et labore Inquieto etiamnùm, et obstinato Nostrae enitar in indolis phasellum Prada ut particula advehatur ; est quod Ingens consiliique, opisque robur Te penes, fluat o, voletque nostris Æque -insignibus, arduis ut ausis! Inter sepiolas ut ater anguis Furtim irrepserit aspice in sagenam ! Aspice ut sinuosus huc, et illuc Versetur, fluidoque moliatur Prada perdere, si quid est, veneno ! Hic nosti, puto, quis sit anguis, unde Et cur venerit . hic quod est libelli 172 GIORNALE LIGUSTICO Uspiam aureoli, venustulique Tentât rodere dente viperino. Hic bonos solet insilire in omnes Immortalis hic ipse semet odit, Necatque... Il qual serpe, descritto per altri quattro versi, . . . Est Livor. petit hic me amarulentus.... elaboro, Siedo, et algeo, ne opprimi oscitanter Possim ab illius artibus, dolisque. .....Eia age , efficacem Dextram porrige : namque fraudulentum Anguem udus Duce te extraham sagena. In queste misere condizioni trovavasi dunque ancora il Pinelli nel 1598, almeno, dalle quali faceva ogni sua possa per uscire, celebrando anche Γ Antagonista dei nobili vecchi, beneviso però ai Doria, non confusi con quelli, ma quasi dominatori fra essi ed i nuovi; e a meglio venirne a capo adoperava, forse per la prima volta, l’anagramma, allora di moda fra i letterati, specialmente in Genova ; e ben quattro ne trovò ad onore del suo Mecenate, posti in fronte a’suoi endecasillabi, 1’ ultimo dei quali ripetuto, quasi corona del-1’opera, in fine, e da me riferito. Lo Spotorno, cambiando l’anagramma coll’acrostico, dice che il Pinelli fino a questo « si abbassò », nel che non avrà forse consenziente ogni lettore di queste righe , non vedendosi da tutti come sia un abbassarsi 1’ acuire fino a quel punto l’ingegno. Cecchè ne sia però, credo che si agevolasse il nostro poeta la via a conseguire presso i Doria quel posto, del quale, come vedremo, si dichiarò infine contento. Ad Antonio Roccatagliata, già più volte da me ricordato, rese i meritati onori con un’ Ode, da esso posta a capo delle GIORNALE LIGUSTICO I73 stampate (i), intitolata: Ad Beatissimam Virginem Mariam pro Antonio Roccatagliata agrotante, dalla quale è pregio del-1 opera trarre il saggio seguente : Prater se pilichr ì lugubre 11 aulii Nigra remistum nil superest. age, Lenire vim morii furentis, O Dea, depropera: culantem Dextra efficaci tangere vel semel Dignare; totamque expedias domum Curis ; amicorumque catus Attonitos, valideque flentes Compesce, mutans tristia gaudiis. Tot luctuosis hic meret eximi, Ni fallor . 0 virtutis arvum Cui magis excolitur ! lentis 0 arcis uti dotibus ignea Narratur usquam quis sapientius ? Ο Veritas, quando huic , Fidesque , Et Pudor, et Pietas, et Æquum Non sortientur longius imparem ? Multos in uno restitues viro; Hic pauperis nam fertur ingens Prasidium, cçlumenque vulgi: Hunc et reornm turba timentium Contaminati spicula iudicis, Suspirat, incorrupta amantem Cordis, et ingenuum patronum. 0 hic obiret civibus ut suis, Cognato et aque flebilis agmini; Huic auxili multam are, at illis Plus solidi decoris superstes Laturus! avi quippe fideliter Obscuro anhelans 'eruere emori Indigna, avorum facta chartis Concelebrat, patriamque clarat. (i) Pag. 139-143· !74 GIORNALE LIGUSTICO Nec jure tantum et tam grave muneris Obtingat ulli, qui penetralia Non ante sudarit vetusta Rite sagax aperire patrum; Inde et libellos, ordine posteris Qui cuncta tradunt, volverit anxie ; Admissus arcanis diuque Non fuerit potioris urna, Ut hic, honoram qui licet ardua Perambularit publica, non tamen Ulla reclinatus quiete Desiit historici laboris. Non lasciava intanto di procacciarsi anche il favore degli scienziati, degli uomini di lettere e degli artisti, alcuni dei quali già dissi fatti segno a’ suoi carmi laudativi in Pisa, ed altri aggiungerò di presente, da lui celebrati in Genova, perchè si veda com’egli avesse da essi contezza degli studi, che dovevano più tardi acquistare ad alcuni celebrità ed alta lasciare in una oblivione forse non meritata. Di Fortunio Liceti, gran dotto a’ suoi dì ed emulo del Galilei, da questo pure molto stimato (i), lodò con giambi trimetri Libros de ortu anima humana (2), dei quali giambi volle il medesimo Liceti adorna la stampa che fece fare di que’ suoi libri al Pavoni in Genova nel 1602. È questo il componimento in cui, forse per compiacere il Filosofo, amantissimo anch’ esso delle bizzarrie secentistiche, più vi si abbandonò il Pinelli, seguace generalmente della classica gravità. Del molto ingegno, abilissimo anche nell’ispirarsi a filosofici principi, ivi si valse a ricamare sul cognome del lodato i nomi tolti dall’Iliceto, dal Licæo, dal Lince e da’ suoi derivati. (1) Ne fan fede le lettere pubblicate, come già dissi, dal eh. Campori. (2) Pag. 188-190. GIORNALE LIGUSTICO Ad Augustinum Franqonum indirizzò endecasillabi (i) dai quali apprendiamo che già prima del 1605 avea scritto la notissima sua opera genealogica, alla cui pubblicazione, fatta solo in pai te, molti anni dopo, ei così lo incoraggiava: In lucem dare quid moraris ultra, Qua stimma, ac lepida eruditionis, Franzone , eximio stylo exarasti ? Vulgus non reputat quid hoc laboris Sit, cum tu e carie, situque putri Solers nobilium eruis domorum Ve, •a insignia . Ergo tantum age vindica e latebris Opus, neo pretiosiora fama Quaras pramia, sis licet peritus Legum, juris et arduas paratus Tractare, et soluisse quastiones ; Quin Antonius ut tuus, mensque, Qui gentile vocabulum a recisa Traxit rupe, suce virum per ora Fac tandem historia volumina edat. Dal che pure si vede che il Fransoni era anche giureconsulto di vaglia e amico del Roccataghata, ivi nuovamente lodato, corne istoriografo , .....oh fidele Auctoris studium, iute gros que mores. (t) Pag. 268-270. Di costui rai occorrerà di parlare più ampiamente fra gli storici. Non è qui da tacere cosa poco notevole in vero, tanto eh’ ei non ne fece forse neppur parola al Pinelli; ch’ei coltivò cioè in sua giovinezza anche le muse erotiche in versi italiani, sul fare del Chiabrera dei quali ci ha dato testé un saggio non ispregevoìe il cav. Odoardo Corazzini nelle importantissime sue Memorie storiche della Famiglia Fran-soni, dedicate al « Sig. Cav. Marchese Domingo », chiaro luminare della stessa. Firenze, 1873, in 4.0 pag. 291-293. I η6 GIORNALE LIGUSTICO Di Federico Federici non sapeva egli ancora come dovesse diventare, fui per dire, il Varrone della Liguria, ma conosciutone F ingegno ed il carattere, gli si fece amico, e della preziosa amicizia volle restassero monumento quattoidici endecasillabi (i), dicendogli: Ut cui deleo plurimum, oh tuum erga Me amorem , vel ahnuente tetro Livore...... Di Giacomo Peri fu stampata, insieme con un madrigale, una Canzone al principio della Gerusalemme liberata, nuovamente impressa coi disegni del Castello in Genova del 1617, della quale Canzone scriveva il 23 ottobre dello stesso anno al Castello medesimo il Chiabrera : « La Canzone del sig. Peri ho tocca in un luogo solo , e forse poteva fai di meno ; ma ho voluto soddisfare a’ grammatici toscani : il parer mio non è da cercarsi perciocché 10 scrivo in modo, che non piaccio ad alcuno, siccome mi son accorto ; e chi seguitasse il mio parere nè anco piacerebbe, ma io non mi pento; la canzone credo che parrà bella, e certo io non vi scorgo errore da doversi biasimare, ma si bene chiarezza, e purità da doversi lodare » (2). Dagli endecasillabi che allo stesso Peri indirizzò il Pinelli (3) sappiamo ch’egli avea, prima del 1605 > scritta e mandata al Pinelli medesimo una Selva poetica: . . . quam studio, et laborioso Nobis excoluisti. (1) Pag. 292. (2) Lett. cit. pag. 286. (3) Pag. 298-299. \ GIORNALE LIGUSTICO Hic qua ambage brevi tot ad beute, Et bene avum agitandum , amaniora Pracepta, integritatis atque piena, Vernant insita, thymbra sunt, acanthus, Crocus, calthula, lilium, marinus Ros, lotus, rosa, amaracus, segesque Omnis narium: et unde tnyrrha, costum, Και dus, balsama, turaqite eruuntur, Sunt arbuscula odora, et usque cara. Altri endecasillabi (i) indirizzò ad Ioannem Augustinum Conium, nomo Cati consilii et fidelioris : Nam, qui frugifera artis addidisti Fulcro Pieriam eruditionem, Unde, cum lubet, advocanti Hetrusca Confiestim tibi prosilit Camana, al quale, professandogli gratitudine, dice della sua difficoltà, contro 1’ opinione del volgo, di far buoni versi, e domanda consiglio su qual altra via più gli converrebbe di mettersi perocché : Incertum quid agam: hinc inane terret Laborisque ferum ; nec est mea e re., ut ld atatis in illud implicari Exoptem amplius . . . Di altro verseggiatore, che non dovè certo essere spregevole, ci dan contezza gli altri endecasillabi (2) ad R. P. Nicolaum de Oddis, al quale ricordando il Pinelli con gratitudine le lodi da esso tributate a’ suoi versi, dice che questi non fuere tanti, Tantum ut debuerint merere vatem. (1) Pag. 297-298. (2) Pag. 191-193. Giorn. Ligustico, Anno XI. 12 178 GIORNALE LIGUSTICO Ad Petrum Cornicium diresse nuovamente tre distici in difesa di una sillaba da lui adoperata breve, terminando: Sic tu produces : sic ego corripiam (1). È questi sicuramente quel Pietro Cornice, del quale ricorda il Soprani (2) versi italiani e latini pel doge Alessandro Giustiniano del 1611 e che altri versi latini avea già pubblicati in Genova del 1590 (3). Ch’egli fosse di Levanto lo rende credibile il suo conterraneo senator Giacomo dello stesso cognome, mortovi d’86 anni il 1835. A questione e a personaggio di ben altra importanza, dei quali avrò da intrattenermi altrove, accennò cogli endecasillabi ad Ieronymuui Iustinianum (4), che già nel 1585 avea pubblicati quattro suoi distici in laudem Folictœ al principio delle costui Historice genuens. Si rileva da questo componimento pinelliano come quel bell’ ingegno si lasciasse per sua mala ventura trascinare dalle novità letterarie fino a preferire Azio a Catullo , perchè gli grida il Pinelli : Eho, quis tihi fascinavit atro Mentem carmine ? age in viam redito. Catullus pater elegantiarum Quare jam mihi non quidem monendus, Verum, moris ut inter est amicos De nota meliore, tu es benigne, Humaneque rogandus, hos, et illos Auctores uti pensites peraque . . . (1) Pag. 126. Li avea già pubblicati nell’edizione fiorentina, lib. II, Pag- 54-5- (2) S crût. pag. 236. (3) Atti della Soc. Lig. di Stor. Patr. IX, pag. 221. (4) Pag. 252-254. CIORNALE LIGUSTICO I79 Hac prater rogito, ut tuus cothurnus, Quo vatum veterum optimos labores Deduxti catus Italas ad aures (2) Est opus grave, et undique expolitum, ln quo altum specimen hic enitescit Mire judicii, peritiaque Legum, et juris ut usquequaque polles, Sic adprime Phaleucia in palestra Ut procul studii arbiter veneno, Et judex sine labe ames haberi. Nessun^ genovese avea certamente dimostrato al nostro Pinelli più cortese e proficua benignità dell’ottimo Giovati Nicolo Sauli Carrega, del quale ho già ricordato la lettera scrittagli il 1598 e stampata il 1603 ; nella quale comincia col dirgli : Nulla res me magis delectat, quam tua consuetudo: ... ea enim vel unius hora spatio multo mihi plus prodest, quam multorum dierum in libris evolvendis exercitatio . . . Praesens libentissime te audio, absens maxima cum voluptate tua Poemata lego. E di questi gli va poi tessendo un magnifico elogio, notando quella sua omnium disciplinarum cognitio, qua maxime prœstas . . . Quis Clarorum Viront m res gestas maiori cum dignitate scribit? illas autem perturbationes, quibus amore saucius agitatur animus, quis melius exprimit? iambis vero tuis felle Archilochio tinctis ad mortem quem improbum non adigeres? De Deo, ac de rebus divinis quam pie, quam religiose tractas ! . . . Felices eos appello, quorum nomina luculentissimo carmine cele— brasti. . . Familiam vero tuam (qual piu generoso complimento gli si potea fare?) doctrina, atque ingenio, plurimum illustras, multos enim video, qui in aliqua arte, aut facultate excellunt; (2) Alceste, tragedia di Euripide, da lui tradotta, era stata da esso pubblicata in Genova pel Pavoni il 1599 « nella morte della moglie », come ha il Paltoni, vol. II, pag. 56. E il 1603 fu pubblicata per la prima volta in Venezia 1’ altra sua traduzione delle tragedie di Sofocle Aiace flagelli-fero, Edipo il re, Edipo il coloneo (Mich. Giustin. Scritt. pag. 438). ι8ο GIORNALE LIGUSTICO sed qui, dum Musis vctcat, mullas calleat linguas, et omnium pane scientiarum, cognitionem sit, ceque ac tu, consecuius, perrarus occurrit, qtiis tam excellentem in omni genere virtutem non ad-miretur? .... Bel monumento della sua gratitudine a si largo lodatore lasciò il lodato negli endecasillabi (i), dei quali s’abbia il lettore questo saggio : . . . qua ratione et imperitus, Et rudis valeam aurea papyri Tam grande officium remunerari ? Verum, prisca ut originis tuorum Splendor patritius tibi enitescit, Sic mire ingenuum tua renidet Mentis . . . Altro favore di quell’ ingenuo dovette essere quello, non meno degli altri pregevole, di procacciare al nostro Poeta la relazione del suo dotto, ricco ed amicissimo Paolo Moneglia, innamorato del Lipsio, celebre latinista ed erudito fiamingo di quell’ età , poiché 1’ uno e 1’ altro fece egli segno a’ suoi accettissimi endecasillabi (2), dicendo, fra le altre cose al Moneglia : Eia age, 0 calamum resume ; et aquam ad Scribendum iuvet appulisse mentem ! An non ut prius ingeni est abunde Viriumque? .... Exemplo tibi Lipsius sit unus , Lipsius decus eruditionum ... 0 tibi ut est in ore, cordis, Crede, sic mihi in intimo cubabit, Dum vivam ; licet ille , utrum albus , an sim Ater nesciat..... (1) Pag. 279-80. (2) Pag. 262-3. GIORNALE LIGUSTICO l8l Non dovettero certo cotante lodi e conoscenze riuscire infruttifere al nostro Poeta; ma egli aspirava e giustamente, a qualchecosa di stabile; nè l’occasione gli mancò. Fu questa il matrimonio di Giacomo Doria, di quel Mecenate già ricordato, con Brigida Spinola, il quale dovette celebrarsi poco dopo 1 esaltazione di Agostino padre di lui al trono ducale nel 1601, poiché non fece il Pinelli in questa occorrenza che un sonetto da trovatore, innestandovi un po’ di provenzale, sciitto foise a istigazione del Cebà, colla cui Orazione fu stampato. Sciolse per quelle nozze il Marini 1111 Epitalamio (1) intitolato L Anello ; e il Pinelli, fatto sicuro d’essere onorevolmente ammesso a far parte di quell’ illustre famiglia , che per potenza e ricchezza si riguardava superiore a tutte le altie in Genova e ritraeva alquanto delle piccole corti italiane d’allora, fece l’estremo di sua possa poetica esaltando gli sposi in duecento quarantadue esametri intitolati: Musarum Prosopopoeia, nei quali gareggiò col Napoletano anche nella poca modestia delle immagini; e v’aggiunse epigrammi, odi, endecasillabi anagrammatici per sei pagine (2), fra i quali notevole questa strofa : Surgere at, Iacobe, animo stai olim In tuas laudes, modo tu tenebras Aureum nobis adimas Amico Sidus ab axi. Fu allora che alla mandòla del trovatore sostituì la lira del Venosino e la tromba del Mantovano In Augustinum Auriam Genua Sereniss. Ducem creatum; ed è pregio dell’opera il riprodurre qui qualche tratto del Poemetto pinelliano, che ci (1) Ristamp. Ven. 1664, pag. 84-8 in 12. (2) Non numerate, al principio dei Carm. Gen. 1605. i82 GIORNALE LIGUSTICO presenta qualche aspetto di quell’ età (i). Delle lodi bastino queste per saggio. Canta egli al suo Augusto : Delitia Ligurum, Patria clarissima lampas, Flos delibatus populi, nova gloria sacli Diceris; et volitant de te bona verba per aures. Sed neque iam census, neque cura domestica mordet Ulla tibi mentem. Privata negotia prudens Commisisti ultro natis (2) florentibus alto Ingenio, et tanto genitore, et sanguine dignis. Gli fa poi dare dalla Patria, eh’ ei prega . . . vel dum placidas nox explicat alas , Advolet ante oculos (3), molti onorevoli e ottimi consigli, fra i quali : . . . vigeat Virtus : regnet Pudor: omnibus adsit Inviolata, alboque Fides circumdata velo : Cuique suum tribuatur : amans sit hiris, et Æqui Arbiter : haud ullum surgat discrimen ; ab Iro Non distet Crasus: librentur crimina; veris Suppliciis resecentur : atrox sit pana latronum, Furumque, hinc illinc rapta qui veste per urbis Compita nocturni violenter pramia poscunt (4), i quali furti cittadineschi strappano infine al poeta questa esclamazione : ... Ah immane nefas! crudelius ergo Legibus, et muris clara degetur in Urbe; Atque in agris securius otia ducet arator? (5). (1) Ivi da Pag. 5 a pag. 34, di 28 esametri ciascuna, tranne la prima e l’ultima, quella di 7, questa di 14 solamente. (2) I figli Marcantonio, Giacomo e Carlo, pag. ri. (3) Pag. 12. 14) Pag- 14· (5) Pag. 15. GIORNALE LIGUSTICO 183 E circa lo sfarzo: . . . qui lautus obit convivia luxus, Magnificas vel opes Regum absumpturus, agatur Persidos in mensas, nimio quas putida sumptu Mollities struit; et teritur qua serica vulgo Vestis, acu argutum quam doctior interpunxit Dextra, relegetur turpes Babylonis in oras, Expositas tectura nurus, tectura puellas Verius (1). E quanto all’ educazione : ......Jugitare Inventus Otia, qua sceptra evertunt, urbesque beatas, Fac properet, Martisque colat fera munera, et artus Formidato iterum obduret generosa labori: Aut amet aratis calcare triremibus undas Æquoris; et spumantem abiegnis navita contis Verberet impavidus pontum, quo prisca resurgat Gloria, et antiquum repetant hac sacla nitorem (2). E apertasi per tal modo la via a perorare per la marina, esce in questi lamenti, fatti più vivi dal ricordo di Colombo : At non primorum tectis cum dia pependit Palmula-· conspicienda viis, sic prisca luventus Torpuit, insanis potuit quaa Bosphoron undis Temnere, et imperium ad Tanaim proferre Suorum Puppibus invictis. At quid flenda usque revolvo Plura ? vel inditium hoc pateat discriminis : olim Unus homo e nostris obscuro sanguine cretus, Axe sub adverso ignotum percurrere mundum, Ausus, et extrema fragili trabe littora Cuba, Perlegere, et cum Sole suum protendere nomen : Nunc glomerati omnes vix absterrere latronum Sufficitis lembos, qui vestram turpiter oram Depopulant: studia usque adeo gnerosa quiescunt (3). (1) Pag· 16. (2) Pag. 17- (3) Pag. 18- 184 GIORNALE LIGUSTICO E passando senz’altro all’istruzione: Praterea cur non florens Virtute Lyceurn , Gymnasiumqiie nitens studiis fundatur in Urbe, Campus ubi ingeniis pateat? Tritonidos arcem Pauper ubi subeat facile, impensaque vel arcta Aeria possit decerpere ab arbore suaves Omnigena genus Sophia ? nurn forte magistris Qua foret accitis statuenda pecunia desit Annua? (1). E sèguita così per ben altri cinquantanove esametri a caldeggiare la nobilissima impresa d’una patria Università, alla quale il Governo della Serenissima non istese mai neppure un dito, crescendo cosi a mille doppi, giova il dirlo, il merito del ligure ingegno, che a quella meta sempre mirò, mostrandosi colle uniche sue forze degnissimo di raggiungerla. Termina la Patria le sue esortazioni al Doge, raccomandandogli : . . . Si quando iur già gliscant, Ne patiare animis desaviat ullus acerbis; Longius aut ira pergant procedere, prudens Ergo alte vestigia animo, studioque sagaci Semina rixarum eruere interiecta potentes Prasertim accelera (2). Dopo le quali ed altre savie parole . . . expandit purum super athera pennas (3). Riconfermate poi le lodi del Doria, si fa a parlargli di sè, chiedendogli scusa • . . si indigne tot Cycnos inter ad aram, Laus tua inextinctis ubi fulgurat ignibus ardens, Accessi . . . , (1) Pag. 19. (2) Pag. 21-22. (}) Pag. 22. GIORNALE LIGUSTICO rgj rammentandogli Adversa immerito quanta vertigine Sortis Torquear, et quanti circum mea pectora fluctus Curarum assultent, nusquam consistere ut ausim (i), e come alle altre molte sue avversità, fra le quali: Turpe hominum genus, et faviosi carminis uber (2), si aggiunse la peste : .......... forte per auras Paullo ante hic morbus, qui nostris se adpulit oris Lethifer, Autumni gravior comes, impete magno Me quoque corripuit (3) . _ ^ t0S^e quindi occasione di condur la sua musa nel campo già sì ben coltivato da Lucrezio e da Fracastoro, stampandovi le orme sue proprie, perchè fedele, come sempre, alla storia. Se n’ abbia il lettore qualche saggio. Dopo aver detto che quel morbo • . . ferox adeo mihi contudit artus, Tam prope ut extremam nigri me funeris horam Non alias sensisse rear, e descrittane la ferale propagazione, così lo dipinge, suggè-rendo ad un tempo la preservazione e la cura: . . . humor superans cerebri de gurgite pleno Defluit in nares : sed enim quia sapius obstat Interclusa via, in fauces rupturus ab ore Labitur, aut nimium tenuis graviore rotatu Sensim (immane malum) arcana in pracordia fertur. Hinc per tempus utrunique agris configit auctum (1) Pag. 24. (2) Pag. 25. (3) Pag. 27. GIORNALE LIGUSTICO Verticihus clavum dolor: hinc sonor auribus ingens: Hinc oculi somno expertes, siccique rubescunt, Versanturque grave adspectum, lucemque perosi : Hinc vox raucisona : hinc arens, et frigida tussis Pectora diffindit, faucesque exasperat urgens : Spiritus agre imo trliaitur de pectore: lingua. Scabra : supercilium triste : anxia cura, animique Deiecta vires. At larga ubi noxius imber Altius insedit, lasitque os cordis; et imis Lutea visceribus iam se se egurgitat unda: Tum vero damnata sitis : tum nulla voluptas Mandendi: tum vires languent: tum labat omne Corpus ; totisque exardens furit impia venis Febris, et insultans misere depascitur artus, Exagitatque agros trepida formidine mortis. Tristitia, languore, metu, et concreta dolore Omnia. Quid plura? obscanum crudescere monstrum Hoc Deus ad summum volvit, graviore flagello Ut nobis sic terga secet, quo clade sepulchri Plus caret, in plano modo ne Podalirius anceps Succidat, obscuretque malum. Quibus integra mens est, O fugite involvi hac caca contage ! facultas Si datur, in sylvas, in agros, et in ardua montis Ferte pedem, humano qua non via candeat ullo Trita solo. Al si vel secreta in parte repostos Vos quoque corripiat tabo spirabilis aer: Hoc sit opis, non quarere opem : tenuissima victus Sit ratio: speranda salus hinc una: medentum Scilicet ars vacet: agrorem ieiunia flectant (i). Ricorda poi la stessa morbosa influenza di venti anni addietro, quand’egli era in Roma, e ritornando ai rimedii, termina : . . . obscana lues, totum bacchata per orbem Vertice sublimi, non arte Machaonis ulla Egregia, aut acri ingenio, sed futilis herba (i) Pag. 30- GIORNALE LIGUSTICO Viribus (ut Deus illudili) devicta recessit. Barbara cui radix, alia aut medicamina Eoi Uberis excitura alvum data; 'sanguine vena Cui saliens media inter brachia seda, supremis Ocubuit fatis. Tua tandem inventa salubres, O Malache, exhibuisse usus obstantia lene Deijciens virtus. Verum nil profuit aquc Ac tenuis victus. Tabem hic haud segniter unus Vincere compertus, paullatim munere dio Restituens, Auguste , agros a limine mortis. Che il Pinelli trovasse alfine un po’ di riposo presso Giacomo Dona , lo attesta egli stesso in più luoghi e special-mente negli endecasillabi ad Petrum Hieronymum Gentilem (i) allora in Venezia, nei quali, ricordatigli i suoi passati affanni, gli canta : . . . at loci hoc priusquam Demigrem, ultima mi occidat dierum. Tabes namque animi tot inter, atras Totque inter tenebras, fatebor, una Lux tantum modo fulget, unde vita Nobis attenuatur agritudo Plurimum. Auriadum hic, licet videre, est Iacobus nitor, aureumque sidus : Hoc nostri studij unicum levamen: Una hac compede gratiore vinctus, Ætatisque modo adlubescat illi, Illi obnoxius omne, quod supersit, Hic vivensque, latensque morabor. E ad accattar favore al suo Mecenate, seguitò a celebrar i migliori ingegni d’allora, con essi lodandosi dello stesso onde ci è dato aggiungere qui altri illustri alla già ricordata galleria. (i) Pag. 295-6. 188 GIORNALE LIGUSTICO Ad Agostino Pallavicino, del quale dovrò altrove riparlare, indirizzava, fra gli altri, questi endecasillabi : .....metnorque Nostri vive , tuum perennitati Dum dignum studeo sacrare nomen: Et qiue commoda sal beata sortis, Et qua nobilioris alma gentis Habes stemmata, quicquid et diserti, Quicquid et solida eruditionis, Cum sint omnibus usquequaque nota, Volens transiliam, et lubens omittam. Nam quorsum penitissumos recessus Te dicam Sopliia subisse, et aqui Iurisque evolvisse rite fusos ? Nam dudum gemina quod implicari Doctum nolueris caput corona, Idcirco id meruisse te negandum ? O iam, cum titulis valere tantis Non inique lmbeare, solve lingua Facundum, calami perenne solve, In laudem egregij tui sodalis Iacobi, Auriadum usque noscitatur Qui clarum decus, unicumque robur Virtutum, et pater elegantiarum ; Et qui plus oculis amicum amicus Te suis amat (i) Non lo abbandonava intanto il suo umore atrabiliario, del quale, si vede anche da ciò, che doveva essere in casa Doria la sua parte, scrivendo a Giovanni Pammoleo, prima che questi pubblicasse nel 1603 (2) la sua Praxis iudicialis: Istorum ut fugias gradu incitato Incursum moneo potentiorum (1) Pag. 263-$. (2) Soprani, Scritt. lig. pag. 133. GIORNALE LIGUSTICO 189 Quos, Pammolee, conspicaris alta Cervice, el tumido perambulare Faslu compita, quid feris leanis Sese immisceat agnus? impotenti Iliorum si animo impudens cupido Quispiam insiliat, feratque casus, Ut nostrum obsequium adlubescat illis, Nostra arti, fateor, micante cauda Paullum peniculo ante blandiuntur ; At nobis ubi, quicquid est laboris Emunctum vel ah intimis medullis, Tum vero, heu miseri! pili astituemur ; Humi et destituamur ; atque agatur Nobiscum bene, hiante rictu eorum, et Obscano nisi protinus voremur. E via di questo passo per altri ventidue endecasillabi, fino all’ eccezione seguente : Pauculi tamen excipi merentur Turpi isto e grege ; primus inter omnes Quorum elucet, ut inter astra Phabus, Nimirum Auriadum decus renidens Iacobus, nive cuius est in omnibus Longe candidior fides; manusque Cuius e tenebris, situque multos Larga ope elevat in fimo iacentes. E perciò : lam, Pammolee, iuris, atque legum Late cum tua laurea enitescat, Hinc opes tibi carpe; in ultimasque Oras orbis age haud bene auspicatum Musarum studium ocyus relega; Aut saltem, facio quod ipse, velis Remisque aufugias beatiores (1). (1) Pag. 280-2. 190 GIORNALE LIGUSTICO Non gli era però neppur venuto meno quell’ umor gaio e delicato per cui già s’era fatto ammirare nei versi de Baghino catello, da lui già celebrato in Toscana (1). Gliene forni in Genova occasione altro cagnuolo di Iella . . . quem tua mecum domus Per amimi antem, conspicaris atria, Hirsululmn, villosulum, Barbinulo Cui. nomen apte herili ab ore est inditum, il quale Venit remotiore ab Orbis angulo, Hiella, nempe ab ultima Britannia (2). E molto più a lungo si sbizzarrì, forse anche per meglio ingraziarsi la padrona signora Brigida, nelle Tumulares nenia in Marchesinœ catella necem, la quale ........illigata , . . . sopore perfido, Voltila praceps decidit fenestra, chiedendo, fra le molte altre graziosissime querimonie, alle tartaree divinità ......· quid Auriis Puellulis vorastis alitem suum, Cupidinem, columbulum, lapillulum Ocellulumque ?... e cantandone in vario metro per ben venti pagine (3). A chi desiderasse di sapere s’ ei s’ispirasse a qualche gran fatto contemporaneo, risponderò che ben ve 1’ eccitò Ambrogio Saliniero, ma egli se ne scusò con un epigramma, che termina : At tu, Pindaricos qui haustus bibis, incine. Magna Magno nempe merent stemmata vate cani (4). (1) Ediz. Fior. lib. III, pag. 38-50; genov. p. 193-98. (2) Pag. 198-203. (3) Pag. 219-40. (4) Pag. 130. GIORNALE LIGUSTICO Solo un altro epigramma di tre distici gli suggerì Henrici III, Galharum Regis tumulus (i); altri cinque distici dettò m obttum Caroli Borromai Card. (2); ed altri due epigrammi m obitum. Victoria Accorambotia, ristampati in Genova (3); e un altro m Carolimi a Liechtenstein etc. nobilissimum Germanum, qm nuper ad orthodoxam fidem venit (4). Nè tacerò qui di quattro altri epigrammi in obitum Virginia Fliscœ, bella e benefica signora morta ancor giovine, alla quale fa dire nel secondo (5) ; Me Inni urbs genuit: gremio me Alphea paterno Abduxit : sedes mi hac fuit adsidua. Qua excepit, perimit, qua pepulit, recipit, notando così ch’ ella fu da Pisa trasportata in Genova per esservi seppellita. Credo qui non inutile un cenno sul modo con che fu eseguita l’edizione genovese. Porta essa in fronte una bella antiporta in rame, disegnata forse dal Borzone, attissimo ad incarnare il suggerimento del bizzarro Autore intesosi certamente col Doria, poiché vi sta in alto 1’ arma di lui, e sotto un Aquila volante in atto iracondo con una pigna fra gli (1) Pag. 131. (2) Pag. 129. (3) Pag. 115. (4) Pag. 113. (5) Secondo l’edizione di Genova, pag. 116-17, dove riprodotti i soli tre ultimi dell’ edizione fiorentina (lib. II, pag. 47-9), forse perchè il primo riconosciuto pagano, terminando col dire alla defunta : At tu, facla Dea, 0 volis assuesce vocari : Accipe, jam ferimus, supplice vota genu. Era essa la figlia di quel Giulio fratello di Gian Luigi, che da Pisa scrisse al Varchi sulla famosa Congiura la lettera pubblicata in Genova nel 1870? 192 GIORNALE LIGUSTICO artigli, pronta a scagliarla giusta il motto obvia discutiat plagis. Nè meno significante è la dedicatoria, nella quale con uno stile più rotto e incisivo di quel di Seneca, allora più generalmente in onore del ciceroniano, specie fra gli avversarli del Pinelli, questi così licenziasi dal suo Mecenate : tu unus, tu paucis expediam, amicorum amicis■ amicissimus, fors cestuet. tu unus, quod minime hoc atatis prasertim fit, merum merum exhibes: ceteri ne quidem florem, ne quidem floces. Te non ament homines? at quem ament? vale. Aggiungerò che uscì lo stesso anno 1605 dai torchi del Pavoni P altra bella edizioncina Delle Poesie di Gabriello Chiabrera, dedicata anch’ essa dall’ Autore a Jacopo Doria, ma, senza vignette e sparate , delle quali si professa nemicissimo nelle sue lettere al Castello il Savonese, amicissimo del resto e grato dell’agevolatogli favore al Levantino o Genevose, a giudicarne dal frontispizio (1). S’ era il Pinelli obbligato al Doria di guisa, che gli diceva nell’accennata dedicatoria: De me sic-habeto, manibus ipse, pedibusque quotidie magis obnitor, ut tibi tua ex sententia m omnibus morem geram. E lo pose il Doria, 0 la sua dolce metà, a dura prova e forse da lui non aspettata. Stimolati forse quei due signori dal naturalissimo e lungo desiderio di prole maschile (poiché non mi fu dato vederne negli alberi genealogici) dovettero a questo effetto darsi un po’ più di proposito alla divozione, onde il Murtola, che nel 1608 dedicò al signor Giacomo le sue Canzonette (2), gli ricordò nella Dedicatoria d’ averlo veduto « alla Corte del sig. Duca di Savoia », e quando passò di là « con la signora D. Brigida sua moglie, mentre andava per divotione alla Madonna di Va- (1) Io. Baptista Pinelli Genuensis Carminum, libri III. In 8 picc. di pag. numer. 303, più 32 prelimin. non numerate. (2) Ristamp. in Yen. 1618. GIORNALE LIGUSTICO 193 rallo ». Dovettero dunque gli onnipotenti suoi padroni stimolare. il Feccioso a dar fuori infarinati della sua Crusca i Salmi di S. Bonaventura in lode della Fergine (i), il che fece egli cogli stessi tipi del Pavoni il 1606 in un bel volume in quarto con in fronte l'immagine della B. Vergine in rame , dicendoli « volgarizzati e brievemente sposti per Giovan Battista Pinello ». Posto egli come dissi a questa dura prova, non ìiuscì che a dimostrare quanto meno valente fosse nel- 1 imitare il Casa, da lui celebrato in un epigramma come perfectus al· omni Parte (1), di quello si era mostrato nel gareggiare con Catullo, Orazio e Viigilio, che iurono, come a dire, i primi amori e il primo sangue dei teneri suoi anni, laddove, come stimò dovere egli stesso confessare, solo dopo essere stato ascritto all’Accademia della Crusca apparò « a conoscere un dì presso li migliori scrittori della favella fiorentina », non avendo egli « anzi quel tempo . . . maneggiato gran fatto autori del buon secolo », onde « era involta nelPerror di molti, che ella fosse una cotal lingua da non farne grande stima ». E non fu certamente il suo esempio valevole a correggere quel pregiudizio, ma più probabilmente l’accrebbe colla sua (1) I quali, egli dice, nella Dedicatoria, « alla Illustriss. sig. Brigida Spinola, del sig. Ja’copo Doria », dal suo Mecenate « della Vergine . . . devotissimo ... a penna la più parte una fiata e altra letti », lasciando intendere coni’ egli facesse in quest’ opera anche, e forse principalmente , il piacere della signora Brigida, alla quale dice : « Come sopra tutti i suoi Cavalieri gentilissimo, e cortesissimo la mia patria il sig. Jacopo Doria avvisa ; così voi, illustriss. Signora, sopra tutte le sue Dame bellissima e graziosissima ne stima. Per la qual cosa per dirittura a lui siete a sposa ». (2) Ediz. fiorent., L. 2, p. 47, genov. 112. Giorn. Ligustico. Anno XI. 13 194 GIORNALE LIGUSTICO stucchevole affettazione non disgiunta da qualche stiappo nell’ ortografia e anche nella grammatica (i), onde non ebbe l’approvazione della Crusca, alla quale ei si dice dolente di non aver « potuto lasciar riveder 1’ opera », poiché « la mia sventura (sono sue parole), che gravosamente mi ha sempre qui, nella mia patria, tenuto occupatissimo, non mi ha giammai conceduto, ch’io mi sia potuto trasferire a Piorenza; colà dov’ io pensava, come ben prima da’ miei Accademici stacciato egli fosse, di dare alle stampe questo mio volume ». Che anche F argomento fosse di poco suo genio lo volle accennare nel prologo accusando la sua « incredibile scarsezza di spirito di devozione ». Più tagliato egli era certamente a maneggiare il flagello che il rosario ; e degli avversarli suoi non si dimenticò neppure pregando in fine alla Vergine, poiché dice : « so che il volgo tra con le sue pun-gigliose morsure, e con le sue sciocche giullerie proverbie-rammi. Ma.... gabbisi pur di me, ed inviliscami, quanto si puole il più; lievi le ciglia, e faccia grotte a suo senno : chè il tutto sosterrò di buon talento » (2). E nel prologo, dopo recata una « cobola del sovrano Provenzale : col dottissimo Alaghieri dicovi tutto aperto, che Innanzi che 1’ uncin vostro mi pigli Traggasi avanti l’un di voi, che m’oda; E poi di roncigliarmi si consigli ». Altri suoi scritti posteriori a me non son noti che i seguenti : Esametri stampati coll’ Orazione di Riccardo Benedetto Riccardi pel doge Girolamo Assereto nel 1607; In nuptias Serenissimorum Etruria Principiati Cosmi Medicis et (1) Nel prologo ad esempio si legge: « colui lo si volgette » per volse o voltò. (2) Pag. 372. GIORNALE LIGUSTICO J95 Mar. Magcìal, Austriaca. Florentia, 1608, in 4.0 (1): due odi latine pel doge Tommaso Spinola, stampate nel 1614, le quali accusano, parmi, nell’Autore certa rilassatezza prodotta, più che dagli anni, dalla stanchezza in mezzo ad una lotta sempre viva, come accennano questi versi al principio della prima: Correptus et fo'dis procellis, Et mala avi sinum in obstrepentis Ponti astuosum nuper quid trepidem ?... .....opus hinc est Lave, invérecundique vulgi Quod jecur, et penetret medullas (2). Il 14 novembre 1617 scriveva da Savona il Chiabrera a Bernardo Castello a Genova: » odo che sia morto il signor Gio. Battista Pinelli; vorrei che fosse bugiarda la fama: pure se è uscito di questo mondo, certamente abbiamo perduto un nobile intelletto, e per la sua parte un pregio per la provincia ». E il 17 : « duoimi la morte del sig. Pinelli come di amico, e di uomo molto valoroso, e de’ quali non ne nasce ogni anno » (3). E ne scrisse Y Epitaffio che qui ri- (1) CiNELLi, Bïbliot. vol. Scanz. VI, p. 72. (2) Si leggono queste odi da pag. 49 a pag. 58 ; e la seconda termina con questo allarme: Fuge arbitrari, immane sidus Finibus incabuisse nostris Impune. Nuper non lave prœlium Preclusiti eheu, fortior Allobrox : Nuuc classicum Hetruscas in Alpes Intulit exitialis error. (3) Lett. pag. 288-9.. iç)6 GIORNALE LIGUSTICO porto perchè queste informi notizie abbian almen decorosa la line. Nell’ alme scuole della saggia Allea Appresi giovinetto il bel cammino Da sormontare all’ Ippocrenie piagge , E giunto colassù mi dieder mano Cortesemente Calliope , e Clio , E dell’alloro, che fìoria sul Tebro Mi cerchiare le tempie, onde mio nome Non mai sommergerà golfo d’ obblio ; Quinci impari ciascun , che per virtude Trionfar puossi dell’ orribil morte. Ebbi per patria la città di Giano ; Fornii miei giorni non ancor canuto ; Qui m’hau sepolto i non bugiardi amici (i). Era morto prima di lui Jacopo Doria ? Certo è che immediatamente precede Γ Epitaffio di lui nella serie dei Chiabre-reschi, del quale si leggano qui, anche a degna corona dello stesso, questi soli due versi : Sempre a lui visse cortesia compagna ; Ma la sozza avarizia ebbe in dispregio. {Continua). N. Giuliani. IL GIUOCO DEL LOTTO Seguitiamo a pubblicare, secondo la promessa da noi fatta, gli articoli nuovamente composti del Dizionario del linguaggio italiano storico e amministrativo. La direzione. [In prima, Giuoco straordinario che oggi più comunemente si dice Lotteria, volontario o forcato, di denari e di qualunque cosa, detto anche Ventura·, e poi Giuoco ordinario te- (i) Opere, ediz. ven. 1730, II, p. 286. GIORNALE LIGUSTICO r97 nuto dal Governo, nel quale i primi novanta numeri dell’ Abbaco sono messi alla rinfusa dentro un’ urna, donde a certi tempi se ne traggono a sorte cinque, e colui vince, la cui polita contiene in parte o in tutto i numeri sortiti: in Genova, Seminario'|. Il Giuoco del Lotto è il discendente ed erede più fortunato di que’ tanti giuochi, molti nominati sì stranamente ed oggi sì poco conosciuti, che furono la passione meno ragionevole e più ardente degli uomini del medio evo. Le lotte civili, la febbre di novità, i rovesci improvvisi di fortuna, i subiti guadagni la fomentarono; compì P opera la corruzione e 1 avidità delle milizie condotte. Si giocava da tutti e da per tutto; per le case private e per le pubbliche, per le vie, per le piazze; in Pisa, in Modena, in Ferrara, in Lucca, in Osimo, in Brescia, in Chianciano si proibì espressamente di giocare nelle chiese e ne’ cimiteri, segno che prima vi si giocava; chè la riverenza debita a’ luoghi sacri non impedì la Signoria Lncchese di assegnare per sede alla Baratteria i gradi di S. Michele in foro, come non dissuase la Parmense di lasciare padroni de’ cimiteri delle Chiese i porci, solo che fossero forniti di un anello al grifo, ut non possint rugare mortuos (i). Il peggio fu che di tante generazioni di giuochi si preferirono i più accidentosi e rovinosi, quelli della sorte (2), che più accendono le fantasie popolari (1) Statut. Brixiae (1253) col. 180: Torino 1877. Brev.Pis. Coni. (1286) I, 154- Statut. Cianciarli (1287) cap. 105. Statut. Lucae (1308) III, 92. Bandi Lucchesi del secolo XIV, pag. 142 : Bologna 1863. Statut. Parmae (1316-1325) pag. 207, (Deputai· $tor■ ?atr■ P^rm.) Statut. Civ. Auximatis (1371) I, 8: MS. Arch. Rom. Cittadella L. Notizie di Ferrara, pag. 247: Ferrara, 1864. (2) Dico Giuochi di sorte in genere, e non di azzardo, perchè questi non comprendevano allora se non i giuochi de’ dadi (invero svariatissimi ed infiniti), come appare perla rubr. 52 del lib. III dello Statuto già citato di Osimo, il cui titolo è il seguente : De poena ludentium ad ludum a^ardi I9S GIORNALE LIGUSTICO e non richiedono rattenimento di studio 0 poco; ma pei avventura non avrebbero infiammato la generalità se non fossero stati di quella specie. Della qual cosa spaventate le Signorie che vedevano ogni di la desolazione delle famiglie, le discordie, le risse, gli ammazzamenti e i sacrilegi provenienti da quella frenesia, vietarono a dirittura ogni sorta giuoco, pure al Podestà ed ai suoi Giudici, e solo eccettuarono i giuochi degli scacchi e delle tavole (forse quello che oggi della Dama) ed in Pisa anche quello delle uova ne giorni quadragesimali (che oggi è rimasto a’ fanciulli) (1)· Proibirono ancora Γ assistere a’ giuochi, Γ albergare i giocatori, e loro prestar danari, dichiarando nulli i contratti e gli obblighi per cagione di giuoco (2); nel che i Legislatori andavano d’accordo coi Teologi (3). Allora per fermo non si sarebbe preveduto che scorsi pochi secoli, in Venezia, in Malta, in Messina e nella stessa Roma per far ciurma da galera, quando il votare le carceri non bastava, i governanti avrebbero dato facoltà agli arrolatori di aprire bische speciali di giuochi proibiti per la città, dove poteva essere più concorso di gente, e quivi prestar danaro, con questo che sive taxillorum ei alium prohibitum. Una carta ravennate del 1271. ha · Ludendo ad a\ardum. (Tarlazzi, Append. Monum. Ravenn. tom. I. N.°LXIV). Dunque la denominazione de’ Giuochi d’ attardo era già italiana nel secolo tredicesimo. (1) Constitutum Vicecomitatus Vallis Ambrae (1208, cap. iy. Pisis 1861. Statut. Vercellarum (1241) cap. 283, 285. Statut. Bononiae (1230) II, 42· Statut. Com, Paduae (1277) cap. 785. Brev. Pis. Com. cit. I, 1545 35· Statut. Luc. loc. cit. Statut. Brixiae (1313) cap. 34. Statut. Mutinae (1327) IV, 36. Statut. Vallissesiae IV, 214. Vedi Podestà, § 10. (2) Statut. Cumarum (1281) cap. 265: MS. Bibi. Ambros. Thesaurus QQ· Forens. lib. IV, quaest. 18. Statut. Luc. loc. cit. Statut. Mutin, loc. cit. Statut. Castri Arquati (1445-1449) III, 46, § 10. (3) S. Bernardini Senensis, Opera omnia, I, 313, 315 et seq. Ve-netiis 1591. GIORNALE LIGUSTICO 199 chiunque perdeva e non restituiva andar dovesse a scontare il debito come Bonavoglia alla catena remigando nelle galere ; provvedimento che accomunava nella colpa i Governi co’ giocatori (1). Ma non in tutti i luoghi i due giuochi privilegiati ebbero libertà intera. In Modena s’intendevano permessi entro le case non sospette, e fuori era disdetto al padrone di casa di tenere se non un sol tavoliere alla porta di strada, forse per cortesia a’ passanti che volessero prender parte al giuoco (2); in Pisa ed in Milano per contrario, non si permettevano se non di giorno, e pubblici, per le vie e per le piazze, e così si trovano usati in Firenze nel secolo quattordicesimo (3); in Como, nè in casa, nè fuori se si giocava, più di venti soldi il giorno (4). Le pene, al solito di moneta percuotevano i giocatori, chi stava a veder giocare, chi prestava sul giuoco, e più forti chi a’ giocatori dava ricetto, fosse in casa, capanna, orto o qualunque altro luogo aperto o chiuso ; in Modena e in Brescia distrutta la casa, in Lecco abbruciatane la porta e per un anno disabitata la casa se il padrone non pagava la multa (5) ; in Pisa tenuti i giocatori in prigione infìno a tanto che la pagassero, o, secondo il gusto del Magistrato, messi alla berlina, o tuffati nell’ Arno (6), come in Pavia i bestemmiatori nel Ticino, in Modena in uno de’ canali della città, in Ferrara nel Po, se non sì moz- (1) Guglielmotti, La Guerra de’ Pirati, I, 302.304: Firenze 1876. (2) Statut. Mutin, loc. cit. (3) Brev. Pis. Coni. cit. Ili, 35. Sacchetti, Nov. LXVII e LXXXI. Giulini, Meni. Mil. lib. LI. (4) Statut. Cumar. (1458) Lib. De officio Maleficiorum, cap. 105. MS. Bibl. Ambros. (5) Statut. Brix. (sec. XIII) col. 179: Torino 1877. Statut. Mutin, loc. cit. Statut. Leuci, II, 26: Milano 1669. Statut. Cumar. cit. cap. 114. Statuto di Cecina (1400) cap. 50. (6) Brev. Pis. Corn. loc. cit. 200 GIORNALE LIGUSTICO zava loro la lingua sacrilega (î); e i bestemmiatori moltiplicavano nella atrocità delle pene. In altri Comuni si puniva del doppio chi giocava di notte, simile a chi di notte portava armi proibite o faceva altro delitto, favorendo le tenebre il malfare (2). Ho detto che le nostre Signorie nel metter fuori i divieti e nel condirli di salse tanto pungenti mostravano di vedere il male a cui si affaticavano di rimediare; ma non credo che lo sentissero convenientemente. Ogni secolo ha il suo suggello e difficilmente può l’uomo scusarsi di portarne qualche segno addosso, più o meno grande. Altrimenti non si potrebbe spiegare che nella stessa legge dove con parole infocate si bollavano in infamia i giuochi di sorte, in quella medesima si permettessero da’ Vercellesi agli scolari, i quali (1) Tuffati, non Macerati che è pena mortale. Il Breve latino Pisano scrive in Arno balneari, e da ciò il Bagnare o Tuffare poteva accompagnarsi colla pena alternativa della Berlina, il che non avrebbe potuto essere se valeva Macerare, come opina un mio amico. Pe’ bestemmiatori barattieri di Modena lo Statuto di quella città del 1327 (IV, 38) adopera la frase in acqua scposetur; che è più forte del balneari; ma in fondo non significa che Gettar uno interamente sotto V acqua, sommergerlo, non affogarlo se ciò non si voleva; e non si voleva, visto che il Giudice poteva a sua posta condannare il reo o ad essere soppozzato, o a stare un giorno alla catena. E non si voleva dai Pavesi. I quali chiudevano il bestemmiatore in una cesta di vimini; legavano la cesta ad un capo di una di quelle macchine o cicogne adoperate in molti luoghi a cavar 1 acqua da pozzi per l’irrigazione degli orti; e quindi, inclinata l’antenna, immergevano il reo nel fiume e poi, sollevandola, lo traevano fuori, nient’altro che madefactus, dice il Cronista (Anon. Ticin. De Laudibus, Papiae cap. 14). Anch’essi i Ferraresi ponevano il condannato dentro un corbello e lo tuffavano più volte nell’ acqua se non pagava (Statut. Ferrar. (1288) MS. apud Murât. A. M. Æ. diss. XXX). In somma era una bagnatura incomoda, tormentosa se si vuole, ma non mortale. Vedi Lingua, § 2. (2) Constttut. Vallis Ambrae cit. cap. 23. Statuta Burgi et Castellantiae de Varisio (1347) cap. 27. GIORNALE LIGUSTICO 201 devono prima di tutto formarsi 1’ animo alla verecondia ed alla temperanza, e quindi esercitare insieme colle nobili ititi 1 intelligenza e la pazienza per imparare a vivere ed a morire virtuosamente (r). E si permettessero da’ Comaschi ai fanciulli minori di dieci anni (2). Ai fanciulli, io dico, che per scimiottare gli adulti avevano allora la costumanza di trastullarsi, scambio de’ dadi, con noccioli segnati de’ punti de dadi (3); e i savi legislatori favorivano in que’ sollazzi le inclinazioni prave de’ fanciulli e poi pretendevano di potere con efficacia di buon effetto imprigionare, multare, miterare chi lifaceva le stesse cose da grande. Alla quale enormità si pose riparò da’ Fiorentini nel 1473, prescrivendosi da loro che 1 giovani insino in ventiquattro anni non potessero giocare a niuno gioco di carte o di dadi (4). Nè potrebbe capire in mente sana che per agevolare i commerci dovessero que’ giuochi esser leciti nelle fiere e ne’ mercati, dove sono maggiori i pericoli delle frodi e delle risse (5), e dove altri Comuni meglio avvisati li proibirono più strettamente (6). Molto meno che si permettessero ne’ giorni delle festività religiose più solenni, rinnovellando sotto la Croce l’osceno privilegio de’ Saturnali pagani (7). Che se questo non bastasse a dipingere la virtù civile di quelle leggi, potrei aggiungere, fra le altre cose, che in qualche Comune il Podestà, a cui generalmente erano interdetti i giuochi de’ dadi, poteva a gran (1) Statut. Veredi, cit. cap. 286. (2) Statut. Cumar. cit. lib. De Officio Maleficiorum, cap. 81. (3) Dominici, Governo di cura familiare, pag. 145: Firenze, 1860. (4) Strozzi Alessandra, Lett. pag. 600: Firenze 1877. (5) Statut. Vercell. cit. cap. 286. Statut. Bonon. cit. Vili, 58. Statut. Luc. loc. cit. Cittadella G. Star. Carrai·. Padov. II, 329. (6) Breve Offic. Coni. Sen. (1250) rubr. 41. (7) Martialis, V, 14. Statuto della Pieve di Molli (1338) pag. 31 e seg. : Siena 1866. Statuto di Voghera, cap. 213: Milano'1 558. 202 GIORNALE LIGUSTICO favore gratificarne chicchessia per due, tre o quattro giorni e quanto più gli piacesse (i). Per tutto ciò la fiumana ingrossatasi via via nel seguito dei tempi, non che arrestarsi, veniva innanzi più minacciosa, ed ormai bisognava pigliare un partito. Non si seppe far meglio che chinare il capo e capitolare col vizio; forse per la speranza che poi si avrebbe modo di soffocarlo più facilmente; laddove pel consentimento de’ Governi inverso di esso, la sua forza cresceva e quella de’ Governi scemava. Si capitolo, rilegando i giuochi di sorte in luoghi distinti, con certe cautele di vigilanza e fuori proibendoli con più aspre minaccie. E mantenitori del monopolio furono generalmente quelli proprio che dovevano essere, vo’ dire i Ribaldi, i Barattieri e gli Scalabrini, donde si cavavano le spie, i sicari ed i carnefici; i quali nel più de’luoghi tenevano i loro bossoli (strumenti del mestiere) per le piazze, sotto trabacche, frascati o loggie, o nello spazzo all’aperto, o dentro alle cantine (2). Sul quale ritrovo privilegiato, che gli antichi chiamarono schiettamente Baratteria e Bisca^a e noi più leggiadri, diremmo Casino e Ridotto, i Lucchesi, aggravando il male sempre di più, imposero una tassa da appaltarsi ; infame tassa, che forse fu la prima a pascere il Fisco col giuoco. Ed il Proventuale od Appaltatore se ne rifaceva su i giocatori colla riscossione d’un grosso per fiorino giocato. Egli oltracciò aveva il governo della Baratteria; doveva badare che non vi si bestemmiasse, non vi si mettessero malvagi dadi, vi si giocasse al possibile dirittamente; ed il Bargello era obbligato di trarre al suo aiuto, massime se vi fosse affluenza di soldati, per antica abitudine caldissimi in questi esercizi, talmente che i Romani li permettevano ad esso loro sol- |i) Salutum Vàllissoldi (1246) cap. 16: Italia, 1864. (2) Vedi Baratteria, § 5.. GIORNALE LIGUSTICO 20 3 tanto (1). Parimente, ma più in qua ne’tempi, si pagava una tassa sul giuoco alla Mirandola, e quivi era un Ufficiale detto di Baratteria (forse egli stesso Barattiere o Ribaldo) a regolarlo, stipendiato da’ giocatori, ai quali, per superare la disonestà dell’ ordinamento lucchese, egli prestava danaro per giocare (2). Quel Provento fu poi in Lucca appaiato col-1’ altro, non meno indegno, del Postribolo, ed ambedue per qualche tempo, insieme colle elemosine procurate per Bolle Pontifìcie, furono convertiti alla ricostruzione del ponte di San Pietro sul Serchio (3). In antico molti i ponti, alcuni con ispe-dali attigui, edificati e mantenuti nel Lucchese ed altrove per movimento di carità cristiana ; e carità tragittare i viandanti su le navicelle dove i ponti mancavano e confortarli di ospizio fraterno, al modo di quel Giuliano a cui diceva i suoi paternostri Rinaldo d’Asti per avere il buon viaggio (4). Ma il fine pietoso non giustifica per nulla i mezzi disonesti. Con questo stato di cose entrammo nel secolo quattordicesimo. Ed eccoci dinanzi frate Bernardino da Siena, viaggiante Γ Italia a commuovervi con prodigioso fervore popoli e magistrati contro le usure, i giochi, le nefandezze, le vanità, le usanze feroci, le discordie intestine, e sopra tutto l’ignoranza che egli definisce : Quella cosa che è più contraria alla salute delle anime, che tutte Γ altre cose (5). Ai credenti si potrebbe dir più e meglio? Dopo la predica, in piazza, ad immenso popolo, per suggellare con un fatto materiale e memorabile le conversioni spirituali ottenute, egli si faceva porli) Iustinian. in L. Alearum. Band. Lucch. cit. pag. 28, 142,288,293. (2) Atti e Memorie delle RR. Deputazioni di Storia Patria per le Provincie Modenesi e Parmensi, vol. Ili, pag. 294. (3) Band. Luch. cit. pag. 293. (4) Vedi Pontonaro, § 2. Si avverte che questi richiami si riferiscono al Dizionario non solo quale è ora, ma ancora quale sarebbe nella 2. ediz. (5) Bisticci Vesp. Vita di San Bernardino. Banchi, Introdurne alle Predichi volgari di San Bernardino, toni. I: Siena, 1880. 204 GIORNALE LIGUSTICO tare dalle donne i lisci, le cuffie col balzo, le pianelle sfoggiate, i capelli posticci e simili vanità muliebri, e da0 1 uo mini i tavolieri, le carte da giuoco, le faccie conti a atte (forse, le maschere) i libri degli incanti, i brevi e e so t, che erano gran numero di some; di cui, senza alcun esame precedente, si rizzava alla rinfusa nella piazza un caste ο o catasta e le si dava fuoco, onde in Perugia si pei dettelo Oj, getti di gran valuta, come accadde altre volte in queste 1 struzioni fanatiche, sempre inutili, spesso dannose meno male, se il nostro Santo, preso all’amore dei falò, non avesse ancora fatto bruciare in Roma una poveia colpata di stregheria (2). Miseri tempi che sostenevano 0 stizie così sformate e crudeli! Ora, fra le cose biuc^ , ^ sciando stare i brevi che paiono indubbiamente ^ ^ ^ amuleti, involtini e ninnoli de’ cirumatori e de superstiziosi da portarsi al collo per difesa da ogni malanno, che cosa erano le sortii La parola sorte, così nel latino, volgare della media età, oltre significare ventilici e ft > valse (senza che la Crusca se ne sia accorta) la ce breve che si trae a sorte per qualunque cagione, e va se p sortilegio quando la tratta delle cedole 0 d altro che faceva per indovinare o deliberare. Se ciò è, perchè no potrebbe presumere che quelle sorti prese dimiia dal a^ servissero di già a qualche giuoco, come servivano a& 1 dovinamenti ? Pe’ sortilegi le cedole si adoperavano p< ^ scritte e parte bianche (3), e lo stesso rito si tenne pose < (1) Graziami, Cren. Perug. pag. 314: Firenze 1850. Infessura, Diar-Rom. col. H12-H23. (Murat. R. I. S. Ili, part. II) Tuccia Cronaca di Viterbo pag. 53 : Firenze 1872. (2) Paolo di Benedetto di Cola dello Mastro dello Rione de Ponte, pag. 10: Roma, 1875. (3) Volgarizzamento della Somma Pisanella, MS. citato dalla Crusca del Manuzzi alla v. Sorte. GIORNALE LIGUSTICO 205 ne primordii del Lotto di cui si abbia notizia; la quale corrispondenza si mantenne lungamente anche in alcuni errori più deplorabili. Però sembra di vedere che alcuno degli antichi giuochi nascondesse da gran tempo sotto il manto misterioso del nome suo il Lotto, che poi discioltosi venne fuori scoperto, con in mano la borsa fatale de’ suoi brevi, colle sue proprietà e col suo nome. Di fatto gli Statuti Lucchesi del secolo XIV vietavano il far giuochi de5 pesci e de’ frutti degli alberi (1); e ciò ricorda come di quelle cose mangerecce e della cacciagione ancora oggi si costumano giuochi o rife, particolarmente denominate Lotterie, nelle quali si cavano da una borsa le cedole della sorta vanamente bruciate dal Santo Frate di Siena. I primordii del Lotto appaiono nel secolo XV chiaramente, se non quanto egli allora portava il nome di Ventura , il quale a mio avviso fu il suo primo vocabolo italiano, barattato dappoi collo straniero Lotto, a cui gli antichi Sassoni davano il significato di Sorte (2). E comparve in Modena per l’opera di un fiorentino innominato, l’anno 1476, secondo le notizie che si hanno finora, la prima volta ; il quale fiorentino incominciò presso alcuni banchieri di quella città a costituire una Ventura (da lui così chiamata) di danaro; con varie somme scritte ne’ brevi, e con molti brevi bianchi, che si traevano a sorte, e a cui toccava poco o assai e forse anche nulla. E pochi giorni appresso nella stessa città altre cinque Venture dello stesso genere, e con tanto concorso di gente, che si faceva alle pugna per accostarsi alle tavole, e chi non aveva danaro poneva anelli, cinture, carne salata, forme di cacio, salsicce; sicché il Reggimento vedendo la terra andarne in conquasso, proibi di farsene più alti) Statut. Luc. loc. cit. (2) Muratori A. M. Æ. diss. XXXIII. 20 6 GIORNALE LIGUSTICO tre (i). Dunque fermiamo questo punto, che fino dui secolo XV un fiorentino, di quelli che erano il quinto elemento nell’ arte di far danari, se non inventò il Lotto, si fu il primo, che si sappia ο che so io, a fare in Italia un giuoco diverso in alcune forme, ma nella sostanza simile al Lotto odierno. Andando più avanti riscontriamo le Lotterie pubbliche genovesi (dico Lotterie nel senso che si pi esta oggi a questa parola) appellate Lotti , una nel 1519? 1 ivolta a dai perfezione al coro della chiesa di San Lorenzo di Genova e a riparare l’acquedotto pubblico, ripartita in due anni, e un'altra nel 1591, col benefizio, cioè collo sbasso del cinque per cento a coloro che pigliavano in una volta cento polizze e del quattro a chi ne pigliava almeno venticinque, de putata ai lavori delle case e botteghe di piazza de Banchi (2). E sappiamo delle Lotterie private genovesi, nell’udire le molte querele che contro di esse movevano nel 1523 alla Signoria gli Ufficiali d; Virtù, a cui la Signoria rispon dendo commetteva di proibire eglino quelle Lotterie e di far diligenza che la proibizione si eseguisse (3); ma meglio era di raccomandare alla Signoria di non dai lei tiisti esempi. Ancora nel 1543 furono esse vietate in Genova e con nuovo rigore; imposte pene pecuniarie contro chi le facesse, chi le scrivesse e ne tirasse il danaro, chi desse il luogo per te ^ nervele e farvi le estrazioni; facendosi in chiesa 0 monasteri (nè fu solo di Genova il convertire i monasteri in Prenditorie), puniti i Priori, gli Abati e gli altri Ufficiali di quei luoghi; punite le donne che vi partecipasseio, obbligato il marito per la moglie, il padre per la figliuola; confiscata (1) Bianchi Jacopo, Cronaca di Modena, pag. 20, 21 : Parma, 1861. (2) Cod. Diversor. A. 1591, MS. Arch. Gen. Boccardo, Feste, Gmocìn, Spettacoli, pag. 168: Genova, 1874. (3). Cod. Diversor. A. 1522-23 MS. Arch. Gen. GIORNALE LIGUSTICO 207 la roba e i danari, le quali disposizioni per rendersi più autorevoli e stringenti si trasportarono negli Statuti Civili del *633 C1)· Venezia ancora ebbe le sue Lotterie, e là pure chiamate Lotti, alcune di danari, alcune di case, messe fuori molte quasi in un gruppo ne’ primi del 1521, secondo lo stile veneto e 1522 secondo il computo comune; quelle de’danari rassembranti la Ventura introdotta in Modena da quel tale fiorentino di cui si disse di sopra, e ciò forse per essere stati alcuni dei Tron mercanti veneziani seguita-tori dell’opera del Fiorentino nella stessa città, donde possono averla poi recata ed insegnata nella loro patria (2). Pare al tutto che in Venezia ella fosse allora cosa novissima ed insolita, eziandio per questo che in que’ giorni colà ne tenne discorso, riprovandola per scienza divina come illecita e da non doversi proseguire, il Predicatore de’ SS. Giovanni e Paolo, nel cui monastero appunto si facevano le estrazioni del giuoco ; e, notevole a dirsi, nel giorno medesimo della predica, cioè il 28 febbraio 15 21, (s. v.) il Consiglio de’ Dieci decretò la proibizione di quello e nel suo Decreto lo disse : nuovo %_uogo da alami xorni in qua trovato da trader danari da questo et da quel altro chiamato Lotho, cimi tanta murmuration universalmente de luti (3). Però chi lo pretende antichissimo in Venezia, non so dove possa fondare la sua opinione. Ma il Governo Veneto per questa parte non volle meritare di meglio che tutti gli altri, i quali con offesa della loro riputazione misuravano a’ sudditi 1’ onestà diversa- (1) Leges o Libri Decretorum A. 1530-63, MS. Arch. Geli. Statut. Civ. Gen. (1633) cap. 17. De securitatibus. Bongi, Inventario dell’Archivio di Lucca, II, 116. (2) Bianchi J. Cron. Mod. loc. cit. Petitti, Giuoco del Lotto, pag. 157: Torino 1853. (3) Cons. X. Decret. 28 febbraio 1521 s. v. MS. Arch. Ven. Petitti, loc. cit. 2o8 GIORNALE LIGUSTICO mente che per sè ; e quindi anch egli, non ostante la sua proibizione, ordinò più volte pubbliche Lotterie a suo \an taggio (i). Di Lucca abbiamo nel 1533 una Lotteria pubblica per la vendita del Palazzo dei Borghi, e nel 1609 la proibizione delle Lotterie private senza la licenza dell’Eccellentissimo Consiglio, forse per abusi che vi erano trapelati (2). Nel Granducato sotto il reggimento mediceo molte pi 01 1 zioni de’ giuochi di sorte ed insieme qualche Lotteria; una delle quali permessa dalla Balia Senese nel i57°> sotto nome di Ventura (i Senesi parlatori gentilissimi, conser vano al giuoco il nome antico nostrano) agli orafi Pompeo e Pier Maria di Lorenzo Fucci, affinchè potessero spacciare prontamente e vantaggiosamente le loio oreficerie, c tasei premi consistenti in quegli oggetti e con polizze a un oiulio F una, di cui furono vendute la bellezza di dodicimila settecento, numero che credo non si potrebbe forse; raccozzare oggi; la quale si fece sotto gli occhi di due officiali 1 Balia (3). Nè posso tacere la Lotteria pubblica medicea de 1710, per ducati trecentomila, la quale ebbe la singo anta de premii pagati mediante rendita vitalizia sul Monte (4> In Ferrara altresì furono Lotterie di qualunque maniera ne secolo XVI, ed anche là si richiedeva ad eseguirle 1’ approvazione e l’assistenza del Governo per vietare le frodi (5); f noi, secondo il nostro sistema (andiamo sempie per (!) Compilarne delle Leggi. Busta 239 = MS. Arch. Ven. Romanin, Storia di Venezia, V, 557. (2) Bongi, Invent. cit. I, 116 (3) L’egregio Luciano Banchi che mi onora colla sua costante cortesia, di cui gli sono cordialmente grato, mi avvisa, partecipandomi questa notizia, di averla tratta da un grosso volume che fa parte dell 'Archivio de’ particolari, pregevolissima raccolta di documenti dell’ Archivio Senese. (4) Cantini, Legisl. Tose. XX, 87 e seg. (5) Cittadella L. N. op. cit. pag. 249. GIORNALE LIGUSTICO 209 e 1 uno peggio dell’altro), lasciamo fere e misfare, che vediamo alle volte riscosse le giocate e impuntate le estrazioni, senza che ci sia speranza che sgranchino per tutti i secoli. Furono Lotterie in Piacenza tre secoli fa, come afferma il Conte G. Pailastrelli il cui nome è autorità sufficiente (1). Furono in Roma, perchè in Roma è destino che vi debba essere tutto il bene e tutto il male; e citerò quella di oggetti preziosi ed artistici a benefizio del Monastero di Santa Marta dell’anno 1702; nello stesso anno che il Governatore di Roma, prometteva l’impunità ed un premio pecuniario a chi avendo giocato al Lotto di Genova rivelava 1 prenditori di quel giuoco (2); ma peggiore del giuoco era la vile denunzia. Fin qui I10 parlato delle Lotterie volontarie. Restano le forzate, molto disformi da’ prestiti forzosi moderni, non dirò se in bene o in male, atteso che esse ci pervennero specialmente dalle Repubbliche di Siena e dì Firenze, pensate negli affanni terribili della’ patria pericolante quando tutto si ardisce e tutto è buono per salvarla. Tale fu il Lotto ordinato in Firenze nel 1530, e composto dei beni de’ fatti ribelli in quell’ anno ; poderi, case, gioie, masserizie, drappi d’ogni ragione, tanto per polizza; e le polizze distribuite a guisa di tassa su tutti in proporzione dell’avere; che poi si traevano a sorte, e a cui toccava che subito dopo l’estrazione della sua polizza seguisse quella d’una polizza speciale chiamata beneficiata, quegli vinceva gli oggetti descritti nella sua polizza (3). E tale la Ventura imposta da’ Senesi nel 1541, con seimila cento polizze da due (1) Prefazione agli Statuti dell’ Arte della Lana di Piacenza, pag. XXI. (2) Notificazione del Tesoriere di Roma del 26 aprile 1702. MS. Arch. Rom. Altra del Governatore di Roma del 14 novembre 1702, MS. Arch. Rom. (3) Paoli P. Ricordi pag. CXCVIl; stampati insieme a’Ricordi di Alamanno e Francesco Rinuccini. Varchi Sior. II, 339· Firenze 1858-41. Giorn. Ligustico, Anno Xi. 14 210 GIORNALE LIGUSTICO scudi Γ una e premi di danaro , che il maggiore era di quattrocento scudi ; ripartita, al pari del Lotto fiorentino, sopra Γ Estimo o la Lira come lo dicevano i Senesi ; esenti gli allirati di cento cinquanta lire in giù; e chi mancava al suo debito, si gravava a pagare ma non aveva polizze (i). Con tutti questi giuochi di sorte s’intrecciavano .le Scommesse, anzi n’erano l’anima, in modo che si appellavano Scommesse i punti onde si provocava o disfidava l’avversario ne’ giuochi, e Scommesse le somme giocate, ed in Venezia anco le poste stabilite per concorrere a’ diversi premii del Lotto. E ciò derivava dall’ indole generale delle Scommesse di avere sempre per intendimento un fatto della vita umana o naturale incerto, opinabile, o futuro, non necessariamente soggetto alla ragione de’ numeri ; onde si scommetteva sulla vita e sulla morte dell’uomo, su i matrimoni, sul sesso de’ nascituri, su le loro qualità, su le stagioni, su tutto (2). Dopo la battaglia di Fornovo del 1495» ai primi avvisi che ne vennero, un Geronimo Tiepolo scommise il trenta per cento (credo il trenta per cento oltre alla somma delle scommesse avversarie) che Re Carlo vi era rimasto morto o prigione, e mise per ciò assai danari ne Banco Pisani: la quale Scommessa venne accettata da circa quattrocento giocatori (3). Ma nel secolo decimosesto, se non prima, le Scommesse acquistarono ben altro credito, volgendosi più strettamente alle elezioni de’ Papi e de’ Cardinali, ed in alcuni luoghi anche delle Signorie Repubblicane, al quale uopo si offriva molto acconcio 1’ ordine degli Squittinì, dal sapersi i nomi degli imborsati a ciascuno uffizio, quelli de’ già usciti dalle borse e quelli che restavano a trarsi, atteso che (1) Deliberazione della Balia di Siena, A. 1541 ; MS. Arch. Sen. (2) Vedi Scommessa. (3) Malizerò, Annali Veneti pag- 363, 364: Firenze, 1843. L- GIORNALE LIGUSTICO 211 uno Squittino serviva per più tratte (i); onde le induzioni potevano avere qualche fondamento. Non intendo per questo che la elezione a mano od immediata, non possa dare e non dia appicco a prognostici capaci e spesso facili a rendersi interi, se si conoscano le passioni e gli istinti della generalità degli elettori e le pratiche diverse operate e, non sempre civilmente, combattute sopra di loro; e noi lo proviamo di frequente. Ma nell’un modo o nell’altro seguissero le elezioni, il fatto è che nella Toscana repubblicana, dove gli Squittinì vegliarono costantemente e largamente, non si è scoperto infino a qui segno alcuno della pubblica usanza delle Scommesse nella elezione de’ magistrati. Per contro s’è trovato nella Repubblica di Genova, e quando nella elezione della Signoria non aveva nessuna parte la sorte, cioè innanzi alla instituzione del Seminario, e mentre durava intatta la riforma del 1528. E quel primo segno è un Decreto del 3 giugno 1539, col quale la Illustrissima Signoria genovese, dopo avere ricordato altri decreti e costituzioni anteriori contro alle Scommesse 0 Partiti, come ancora le chiama, avvisa non essere permesso fare Scommesse sopra la elezione degli Illustrissimi Duci e de’ Magnifici Governatori, nè prendere o dar danari per tal negozio, sotto la pena di dugento scudi e di altra corporale ad arbitrio della Signoria oltre alla nullità de’ contratti (2). Contratti, dice il Decreto, e propriamente, dacché le Scommesse si fermavano (1) Vedi SauiTTiNO, § 1. (2) Petitti, Op. cit. pag. 645· 1^ questo Decreto, consultato il testo originale leggo Governatori, e non Concervatori, come scrive il Petitti, 0 meglio il suo libro, poiché se il chiarissimo uomo fosse vissuto tanto da potere rivedere un’ altra volta il suo lavoro, non vi si troverebbe quello strano errore e parecchi altri assai rilevanti, i quali, uniti cogli strafalcioni del Proto, tutti insieme rendono necessaria una buona lucerna critica per trarre utilità da questa opera per sè importantissima. 212 GIORNALE LIGUSTICO sovente per sensali, con scritte mercantili regolari, accettate da banchi e dai negozianti e costituivano per ciò veri giuochi pubblici (i). In questo Decreto la cosa apparisce già molto innanzi, ma non ancora al suo punto ; Γ occasione di mandarvela non tardò guari, e i Potentati Europei se ne presero essi la cura. L’anno 1576 sarà sempre memorabile nella storia de’ giuochi. In quell’ anno i predetti Potentati, o meglio i loro ambasciatori, raccolti a consiglio per assettar meglio ed assicurare lo stato della Repubblica Genovese, sempre turbato dalle fazioni, fra le altre riforme fecero quella di trasportarvi dalle Repubbliche toscane e da parecchie Comunità municipali lo Squittino o l'urna che essi denominarono Seminario; dove in tante cedole inchiusi i nomi di centoventi notabili cittadini, di questi alla metà de’ mesi di giugno e dicembre si dovessero trarre a sorte cinque, i primi tre per iscambiare tre Governatori, i due ultimi due Procuratori (2).. Se gli alti Riformatori avessero nelle loro consulte solo studiato a favorire il Lotto, non potevano far di meglio. Che in vero con quel modello dinanzi si appresentò subito da sè, e, pur troppo, alla intelligenza di tutti l’appostare il giuoco su questo o quel personaggio che potesse esser tratto dall’ urna, e de’ primi o degli ultimi, e sovr’ uno 0 più della cinquina politica del Seminario; ed ecco gli estratti semplici 0 determinati, ecco gli ambi i terni e tutta la famiglia fantastica, scongiurata e maledetta. E gli occhi aguzzati alle faccende de’ banchi, avranno altresì scorto subito dietro alla nuova prospettiva il pingue e certo guadagno de’ mantenitori del giuoco, e lo spogliamento similmente sicuro de’ giocatori. All’ incontro questi, non guardando addentro o non sapendovi guardare, rinfiammarono di (1) Bongi loc. cit. Vedi Sco.vmessa. (2) Vedi Seminario § 2 e Squittino, § 1. GIORNALE LIGUSTICO 213 più. Onde il Governo genovese volle ancora provarsi se valesse a correggerli; e nel 1617 vietò le Scommesse sul Seminario politico minacciando pene straordinarie; e ripetè la proibizione e le minaccie nel 1619, 1627, 1630, 1640 (1). Nel 1627 le proibì insieme coll’ Arcivescovo dichiarante quel giuoco caso riservato, ob gravissima et enormia scandala et delieta quae inde proveniebant, come già egli aveva detto e fatto a proposito del Redoglio nel 1588 (2); e le proibì nel 1630, dopo consultati per più sicurezza solenni Teologi, nelle quali consultazioni si riconobbe che fra le molte scelleraggini delle Scommesse, quella toccava il colmo, per la cui opera l’azione più augusta del Governo civile, la dispensazione de’ magistrati, solita ad accompagnarsi di preghiere e di limosine per impetrare sopra di essa 1’ assistenza dello Spirito Santo, era diventata abominevole nel cospetto di sua Divina Maestà (3). Disgraziamente, per mettere a dura prova queste dichiarazioni, nel 1641 sopravvenne che si dovessero compiere senz’altro indugio, ed in quanto l’arte di allora sapeva, le munizioni della città contro gli assidui nemici che le procacciava la sua ricchezza famosa e la positura importantissima al possesso d’Italia; e si divisasse la spesa di un mezzo milione di lire, per que’ tempi gran somma, a cui le entrate ordinarie della Repubblica non davano riscontro. Pensandosi al modo di sopperirvi, si prescelse come più spedito e sicuro un balzello sul giuoco proibito delle Scommesse del Seminario, e nel 1643 si diede balia alla Camera Eccellentissima di governarlo a suo piacimento. Fu un passo mal misurato e da lamentarsi in (1) Petitti op. cit. pag. 100. (2) Rodotà, Ί)e’ giuochi d'industria, di sorte e misti, pag. 30: Roma, 1769. Vedi Redoglio. (3) Consultatio circa ludum sponsionum, vulgo dictum dille Scommesse sopra il Seminario, pag. 4 et seq. Genuae, 1630. 214 GIORNALE LIGUSTICO perpetuo; quantunque chi avesse la voglia, che io non· ho, di giustificarlo o scusarlo, potrebbe osservare, che mentre tutti i Governanti d’ Europa per le loro necessità vere o pe’ loro sciali, per le loro specialità e de’ loro favoriti adoperavano le Lotterie, il far quel medesimo sul Seminario per motivo certamente santissimo, non doveva sembrare a’ Genovesi cosa stravagante, non dirò buona in coscienza, poiché eglino stessi Γ avevano dannata come pessima. Pertanto l’anno dopo la Camera strinse un contratto col quale ad una compagnia di banchieri e mercanti concesse per un anno il gius privativo di tener giuoco in Genova sulle tratte del Seminario politico, mediante il pagamento d’un censo alla Repubblica; concessione alla prima d’un anno per patriottici bisogni; e poi senza di quelli o con molto minori (Dio ci guardi dai facili guadagni) sempre prorogata, con diversità di durata e di censo insino agli ultimi giorni della Repubblica; donde si rileva che nel 1644 il Lotto o Seminario prese in Genova, prima che nelle altre città d’Italia, assetto legale e forma di pubblica gravezza. Ed in Genova prese ancora alcune norme e pratiche di esercizio. Quantunque gli eleggibili imborsati nel Seminario politico fossero centoventi, nondimeno pe’morti, assenti od impediti si riducevano talvolta a cento e spesso a soli novanta; però il numero novanta in breve diventò Γ ultimo del giuoco. E all’ avvicinarsi di ogni tratta, i Senatori imborsati e presenti, sopra i quali poteva cadere il giuoco, si scrivevano in una lista con a lato di ciascuno il numero corrente che gli apparteneva (donde il numero prese presto il luogo del nome), insieme co’ premi delle vincite e col prezzo delle giocate; la Camera vedeva se vi fossero corsi errori e li correggeva ; e dopo la sua approvazione la lista che s’intitolava Lista del Seminario per V estrazione del mese tale, anno tale, messa ‘die stampe, si divolgava dentro e con industria mercan- GIORNALE LIGUSTICO 215 tesca fuori della Repubblica (1). Vediamo ora a quell’esca nuova, girata per l’aria, quello che intervenisse nel resto d Italia. Introdotto da privati nello Stato di Milano il Lotto col nome di Giuoco del Seminario 0 de’ Senatori di Genova, il Governo lo proibì, sotto pena della galera il 1644, l’anno stesso che in Genova s’approvò; nel 1665 lo permise; lo proibì di nuovo nel 1672, 1698, 1700 condannando qualunque tolleranza (e chi glielo aveva fatto tollerare?) ad un giuoco opposto al servigio di Dio e pernicoso al ben pubblico, come se poco prima non l’avesse egli accolto a grande onore; ed aggravò la pena della galera colla confìscazione de’ beni. Ma perchè. Spesso è da saggio il variar consiglio, egli avvenne che lo stesso Governatore il quale nel 1700 aveva bandito e vituperato il giuoco, lo stesso, non parendo suo fatto, nel 1702 lo riammise nella sua grazia (2). In Piemonte fu vietato al pubblico nel 1655 ; si regalò nel 1674 ad un privato col solo peso d’ una piccola dote alle cinque zitelle povere estratte d’infra le novanta che in Torino, e poscia in altri Stati, s’ imborsavano scambio de’ Senatori genovesi ; nel 1696 cominciò a darsi per monopolio privato con un censo allo Stato e collo stesso obbligo delle doti ; e così nel 1699 ed ancora più avanti (3). Ogni estrazione, due 1 anno, si cantava in quella città una messa solenne allo Spirito Santo, ed il prete celebrante andava in cotta e stola a benedire il fanciullo deputato ad estrarre i numeri; la quale friponnerie sanctifiée, scriveva nel 1699 il Generale Giuseppe Maria Solaro della Margarita, dava agli sciocchi non vincitori (1) Petitti, op. cit. pag. 103 e seg. (2) Id., op. cit. pag. 173 e seg. (3) Id., op. cit. pag. 116-124. 216 GIORNALE LIGUSTICO de nouvelles esperances et les voilà encore jouir et à se faire jouer tant de fois qu'on le voudra (i). Si faceva servire la religione alla vile ingordigia di un Appaltatore ed il Clero vi prestava mano ! Ma il Duca Amedeo II tosto che fu libero dai dispendi e dalle cure della lunga e terribile guerra donde uscì vincitore glorioso, per ringraziare Iddio della pace ottenuta e per muoverlo a continuargli la sua protezione, non credette poter far cosa più meritoria se non di abolire, come abolì, nel 1713, il giuoco del Lotto, riconosciuto pernicioso ai buoni costumi ed al pubblico bene, e di proibire ai suoi sudditi di prender parte a’ giuochi degli altri Stati (2). Questo fece e disse il Principe più illustre del suo secolo; e tuttavia dopo circa trent’ anni il Lotto si riprese in Piemonte e non si lasciò più (3). In Napoli sette anni di esercizio avevano dimostrato quel che egli sa fare; donde il Governo ammaestrato lo tolse di mezzo nel 1689; nondimeno nel 1713, per l’usata concordia, quando in Torino si levava, in Napoli si rimetteva, ed anche là colla ipocrisia delle doti alle fanciulle povere (4). Qui mi duole di dover dire che non migliori esempi, ma assai più dannosi, per esser voce dall’alto, ci forniva Roma, a cui tutti avevano ragione di guardare con fede. Cominciando da Alessandro VII, egli più volte proibì il Lotto di Genova e gli altri fatti alla sua forma, colla minaccia della scomunica a’ prenditori e a’ giocatori tanto negli Stati suoi, quanto in quelli degli altri (5). Al che si contrappose Clemente X, il quale revocando le concessioni da lui già fatte a diverse persone, di pren- (1) Manno, Pietro Micca ed il Generale Conte Solaro della Margarita, pag. 97: Torino 1883. (2) Petitti, op. cit. pag. 125. (3) Id., op. cit. pag. 126. (4) Id., pag. 254. (5) Bongi, op. cit. 1, 118. GIORNALE LIGUSTICO 217 dere scommesse sui giuochi forestieri, nel 1676 assegnò quella facoltà per nove anni ad un solo, Giacomino Roseo, coll obbligo di rispondere alla Camera Apostolica pro recognitione hujusmodi concessionis cinquecento scudi l’anno (1). Venne poi Innocenzo XI, e appena salito sul trono pensò di fare studiare ad una Congregazione di Teologi se convenisse mantenere il giuoco ; la congregazione rispose in guisa che la concessione fatta al Roseo fu subito sospesa, e poco appresso fu ribadita l’antica proibizione de’Lotti di Genova e di Milano, colla pena pecuniaria di trecento scudi di oro e con quella della galera (2). Questa proibizione ripetuta da Innocenzo XI anche negli ultimi anni del suo pontificato e raffermata da Innocenzo XII (3), durò , comunque osservata, fino a’ tempi di Clemente XI, a cui parve di provvedere altrimenti appaltando il Lotto ad evitanda majora mala e destinandone il profitto a’ Luoghi Pii (4). Il Cardinale Zauli lasciò scritto che il giuoco era amministrato con integrità e giustizia e procedeva regolatamente (5). Ma poteva procedere nel modo che egli dice ed insieme esser cattiva instituzione. Perciò Innocenzo XIII non essendo ben sicuro su quel fatto ne richiese i Teologi, i quali questa volta opinarono di potersi permettere il giuoco, sì veramente che fossero maggiori i premi|, il che viene a dire che fosse maggiore l’allettamento al male ed infine il danno pubblico (6). E senza tardare si conchiuse un appalto durevole cinque anni con (1) Constitutione del 13 giugno 1676: MS. Ardi. Rom. (2) Bando del Governatore di Roma del 12 febbraio 1678, e Bando del Protonotario Apostolico del 2 giugno dello stesso anno. (3) Bando del Governatore di Roma del 3 dicembre 1685 e del 24 marzo 1696. Mss. Arch. Rom. (4) De Zaulis, Statut. Faventiae IV, 42; Addit. VI: Romae 1723· (5) Id. loc. cit. (6) Editto del Protonotario Apostolico del 21 luglio 1721. 2l8 GIORNALE LIGUSTICO quella condizione (poi accettata per amor di guadagno, e potrei dire guadagneria, dagli altri Stati) su le giocate ai Lotti di Genova, Napoli e Venezia, abbenchè in quel tempo non fosse ancora in Venezia Lotto pubblico; e si conchiuse col marchese del Bufalo e compagni, pel censo di cinquan-tunmila cinquecento scudi Γ anno (i). Del quale negozio molto si rammaricava un Diarista di que’ giorni al vedere, come in Roma si volesse far danaro di tutto, e dopo la gabella sulle Commedie del Carnevale, venisse in uso anche l’imporre sui i Lotti, senza pensare, egli diceva, che il canone pagato alla Camera dall’ Appaltatore doveva pur cavarsi dalli giulj che i poverelli si levavano dalla bocca per mettere al giuoco con speranza di vincere (2); sicché era ricchezza che costava assai cara. Il buon Diarista aveva ragione, poiché di fatto in quell’appalto del Lotto, i poveri restarono più poveri di prima ed aumentarono; e soli arricchirono gli Appaltatori scandalosamente (3). Onde tra per questo e per più alte considerazioni di moralità e di disciplina religiosa, il nuovo Pontefice Benedetto XIII sospese il giuoco cogli Editti del 2 marzo, 18 settembre 1725 e 4 ottobre 1726, ed infine, udite persone di sperimentata prudenza ed il Sacro Collegio de’ Cardinali, lo condanno solennemente colla Bolla Credite Nobis del 12 agosto I727> con" fermando le pene temporali già statuite e minacciando le spirituali più gravi (4). Ma ecco che dopo quattro anni, quando meno si sarebbe dovuto aspettare, se lo straordinario non fosse diventato ordinario, Clemente XII, anch’ egli consigliato da Teologi, annulla gli atti del suo immediato antecessore, per la principale ragione dell’illaqueamento delle coscienze, alle quali per soddisfare restituisce la contentatura del Lotto (1) Chirografo 11 agosto 1821. MS. Arch. Rom. (2) Diario di Roma, MS. del Sig. Comm. A. Ademollo. (3) Bongi, op. cit. pag. 118. (4) Bolla di Benedetto XIII del 12 agosto 1727. Petitti, op. cit. pag. 231. GIORNALE LIGUSTICO 219 colle seguenti regole; che l’impresa vada sotto la ditta della Congregazione ài S. Girolamo della Carità in Roma; che i premi siano di molto accresciuti ; che le estrazioni si eseguiscano in Campidoglio e si levino dall’ urna i nomi delle cinque zitelle povere per le loro doti, come altrove si faceva, e che i benefizi del giuoco si convertano ad Opere Pie, alle Missioni Apostoliche,, alle Comunità più bisognose, ed eziandio alla Camera (qui sta il buono) secondo fosse ordinato dal Sovrano Pontefice (1) ; nè più si parlò di abolizione. Con questo si rese stabile il Lotto negli Stati Pontificj, quando alcuni Stati secolari d’Italia resistevano ancora, resisteva la Francia, resisteva la Spagna il cui Re Filippo IV, pel bene dei suoi popoli aveva invocato ed ottenuto da Alessandro VII la condanna religiosa di quel giuoco (2). Grandissimi applausi accolsero ed accompagnarono per qualche spazio la riforma pontificale, nè poteva esser altro, dacché gli sfavoriti dalla fortuna in verità o in estimazione, gli inesperti e 1 corrivi sono i più della comunanza; e questa esultazione si manifestava da loro per le vie di Roma anche la notte, ne’ canti popolari che allora si usavano, aventi per soggetto i fasti prodigiosi del Lotto; 1 quali altresì si ripetevano per iscritto e, credo, per dipintura, ne’ ventagli, affinchè in ogni maniera fossero ognora presenti alla immaginazione (3). E colle adulazioni plebee facevano consonanza le letterate, crucciandosi da molti a quell effetto magnanimo la prosa e la poesia, in latino ed in -volgare; e massimamente dai Gesuiti, sempre gli stessi così allora come oggi, nella trista difesa del Lotto ed in tutto. (1) Motoproprio di Clemente XII del 9 dicembre 1731. (2) Petitti, op. cit. pag. 231. _ (3) Cordara, In numerorum Divinatores, vulgo Cabalista5, Carmen: Venezia 1735 (nel tom. XII della Raccolta S Opuscoli scient,üc, e filologi del Calogerà). 220 GIORNALE LIGUSTICO Vanno segnalati fra que’ Padri due difensori, al certo ingegnosi e talvolta eleganti, Giulio Cesare Crodara e Gerolamo Lagomarsini; ambedue Poeti nella lingua del Lazio. Il pi imo de’ quali trattò della cabala felicissimamente e ad incoraggiamento e conforto de' giocatori cantava : Nam quodcumque hibit sanctissima Principis arca, In commune bonum rursus plena evomit unda, Et refluit nostros congesta pecunia in usus. Dunque avanti, Signori, chè non si perde mai. Il secondo descrisse il magistero del Lotto di Genova trasportato in Roma, e dopo annoverate le opere pubbiche eseguite con quel provento dice a Roma, e per lei al Papa, senza batter palpebra : Roma, tuo debes Clementi haec aurea secla, Roma, diu tali Principe digna regi. Ille sibi Imperii vigilanda negotia sumit Ut festos agitet plebs sua laeta dies. Inque tuos, non ille suos ditescit in usus: Quae confers, multis partibus aucta refers. Cui conjerre grave est, in publica commoda peccat. Quis tibi et invideat commoda tanta suis? (i). Francesco Petrarca, per dire delia felicità più desiderabile al genere umano, imaginò poeticamente si, ma nobilmente da pari suo, che dovesse aver luogo quando: Anime belle e di virtude amiche Terranno il mondo, e poi vedrem lui farsi Aureo tutto e pien dell’ opre antiche (2). (1) Cordara, op. cit. Lagomarsini, Aleae Ianuensis Romam traductae, Elegiacon: Venezia, 1735 (nel tom. XII della cit. Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici). Bongi, loc. cit. Civiltà Cattolica, A. Vili, Ser. 3.“ vol. IV, N.° CLXX, pag. 134. (2) Petrarca, Rim. II, 273: Padova, 1819. GIORNALE LIGUSTICO 221 E Vhgilio allo stesso servigio faceva discendere Astrea sulla teira donde, corrucciata giustamente cogli uomini, s’è bandita da tempo immemorabile (i). Per contrario ilP. La-gomarsmi, più positivo, chiama aureo il secolo di Clemente, a rispetto del poter egli quel Papa incidere bellamente il nome suo nelle facciate di alcuni nuovi edifizi, mediante il milione di scudi che il Letto da lui fondato riceveva ogni anno da giocatori (pare incredibile) nella sola città di Roma, ingrassando erario ed impresari, estenuando e ne’ suoi doveri corrompendo il popolo (2). Ma non più di queste miserie e tocchiamo dell’ ammissione del Lotto negli altri Stati d’I-talia. Già eravamo a tale che le antiche memorie de’ nostri Comuni, quelli che avevano condotto imprese ben altre dalle moderne, oggi miracolose, e sempre avevano trovato nell’a-mor della patria e nella parsimonia come supplire noDÌl-mente al dispendio, non parevano più osservabili; sendochè provato una volta che si poteva fare il servigio largamente senza molestia, anzi con soddisfazione, non si richiedeva di più a sceglier la via apparentemente dilettosa, dovunque ella portasse o precipitasse gli incauti e la patria. Questo si disse di Genova ed ora di Venezia. Era quivi stretta necessità di accrescere gli apparecchi navali al cospetto delle straordinarie minaccie del Turco, mirante al racquisto della Morea (che poi racquistò troppo facilmente) ; e per sostenere la spesa, non sapendosi più fare altrimenti, nel 1715 si concedette ad un privato, Lodovico Corner, la facoltà decennale d intro-_ durre nella città ed esercitare per conto suo, facendone eseguire pubblicamente le estrazioni in Venezia, il Lotto genovese, ali’universale più accetto, dice il Senato Veneto; gravato di un censo annuo di ducati venticinque mila per la Repub- (1) ViRGiLii, Bucol. Egi. IV. (2) Muratori Ann. A. 1707. 222 GIORNALE LIGUSTICO blica e della pronta anticipazione di ducati centoventicinque-mila, non che delle doti alle cinque putte povere estratte dall’urna e formanti la cinquina del giuoco, come in Geno\a i Senatori (i). Non era ancora veramente il Lotto pubbico de’ nostri di; ma non si fece troppo aspettare il suo compimento, essendo che l’anno 1733 (secondo lo stile veneto) lo Stato di Venezia prese il Lotto sopra di sè, e ne fece uno de’ proventi stanziali della sua Camera, ordinando che fosse regolato all’esempio di quello di Roma tanto proficuo, ed il 5 aprile 1734 se ne fece la prima estrazione (2). Dopo la qual cosa il Consiglio de’ Dieci proibi tutti gli altri Lotti che venisse in capo a’ privati di metter su, e particolarmente quello tanto abominevole del Biribissi in qualunque luogo e tempo (3). In Parma e Modena, nella prima, a dispetto delle dottrine del Dutillot e del Condillac che avrebbero dovuto aver potenza in quel Ducato, il Lotto , vi era di già Provento pubblico innanzi al 173^ e V1 n" mase tranquillo ; ed era di già nella seconda, intorno al 1756 (4). Quanto è alla Toscana i Granduchi Medicei, che pure avevano fornicato colle Lotterie, del Lotto non volleio saperne mai; e nel 1733 quasi per testamento politico rinnovarono gli antichi divieti, infamandolo come traffico disuguale che priva dell’ opportuno sostentamento le famiglie, della onestà le donne, eccita a truffe, falsità, sortilegi e nefandissime superstizioni, e se altro ce n’ entra : ed imposero multe, esilio (1) Sen. Ven. Delib. 21 dicembre 1715 : MS. Arch. Ven. (2) Sen. Ven. Delib. 14 gennaio 1733. MS. Arch. Ven. Nota distinta di tutti li numeri e nomi delle figlie che furono estratte nelle Estrazioni del Lotto Pubblico di Venezia; MS. Arch. Ven. fra gli Atti del Convento di S. Antonio di Castello. (3) Cons. X Ven. Delib. 13 luglio 1734, MS. Arch. Ven. (4) Petitti, op. cit. pag. 191, 197. GIORNALE LIGUSTICO 223 e galera a chi metteva al giuoco e a chi prendeva (1). Ma succeduti i Lorenesi, a cui sopra ogni cosa premeva di rastrellare danaro per sovvenire alle guerre straniere dell’ Imperiale Padrona Maria Teresa (2), improvvisamente si rivoltarono i giudizi, e si chiamò il mah necessità, scrive Enrico Mayer, la galera si cambiò in impiego, la carcere in salario, la corruttela in Finança·, e nel 1739 si celebrò in Firenze la prima estrazione del Lotto pubblico (3). Restava Lucca; essa ancora proibì e minacciò fieramente nel 1696 e nel 1711 ; si diede ancora a studiare se non le tornasse meglio di seguire le pedate delle sorelle ; nel quale studio durò quasi cinquanta anni, infino a che il Lotto genovese, ammesso nella Toscana granducale ed in Massa, l’anno 1748 bussò alla sua porta imperioso ;ed allora non potendo altro gli aprì (4). Bensì nel-P annunziare il novello ospite ai suoi sudditi, la Signoria Lucchese, sostenendo insieme la persona di pervertitore e quella di maestro, gli ammonì per consiglio de’ suoi Teologi, di non lasciarsi sedurre e trasportare da quella lusinghiera speranza, che con mettere in vista un grosso guadagno ha cagionato la fortuna di pochi e la rovina di molti (5); che era un confessare la debolezza propria e l’iniquità del provvedimento : tuttavia sarà sempre gran lode a Lucca 1’ essere stata fra i Governi italiani il più costante. Riepilogando e concludendo, si disse di Genova 1 antica Ventura o Lotto a danaro che invase tutta 1 Italia e gli altri paesi meridionali, si come il Lotto Olandese i settentrionali ; non perchè allora s’inventasse in Genova quello che eia stato sostanzialmente inventato ed esercitato da più lungo (1) Cantini, Legisl. Tose. XXIII, 187, 188, 369. (2) Giornale degli Archivi Toscani, IV, 84. (3) Mayer, Letture, di famiglia, A. 1843 num. 24 e seg. (4) Bongi, op. cit. pag. 117. (5) Bando del 23 aprile 1748· 224 GIORNALE LIGUSTICO tempo dove che sia (ed io mi pento che fidandomi tioppo di altrui ho creduto diverso per lo passato); ma perchè accomodate le combinazioni de’ numeri del giuoco agli atti del Seminario politico, in Genova il Lotto acquistò forme sicure e ben determinate da farne una specie di Lotto distinto, che diventò popolare in breve termine sotto la denominazione di Seminario o di Lotto di Genova. Invase tutta Italia, e, come astio maggiore, tirò a sè i giuochi congeneri, de’ quali paiecchi si spensero in lui, altri si moderarono alla sua presenza, perche le grazie del popolo erano tutte per lui. Così fu compiuto il trionfo de’ giuochi di sorte, grande infermità morale pei tre o quattro secoli (non contando l’età romana), ora curata a sproposito coi farmachi de’ criminalisti, senza mai alzare la mente agli instituti della vita donde il male procedeva e poteva procedere il bene; ed ora assai più esacerbata dalla avarizia e condiscendenza fiscale; il che finì di confondere i giudizi e screditare 1’ autorità. E così mentre i nostri Governanti, privi di accordo fra loro e privi di consiglio, operando a caso avevano fatto che quando gli uni vietavano il Lotto e gli altri lo permettevano, o lo vietavano oggi e permettevanlo domani, con perpetuo e vergognoso contrasto infra sè e cogli altri; mentre sulla legittimità e convenienza de’ divieti sì dello Stato e sì della Chiesa le dottrine de’ giuristi, degli statisti e de’ teologi si contraddicevano insieme piegando piuttosto verso la parte contraria al vero ed al giusto, e perfino nel tribunale tremendo della Penitenza discordavano le sentenze ; mentre tutti gli ordini della cittadinanza, anco gli Ufficiali de’ Governi, gli stessi esecutori della Giustizia, e i Religiosi innanzi a tutti, bandiere che dovrebbero essere alla gente cristiana di nobile ubbidienza e di annegazione affettuosa, ricalcitravano alle leggi sprezzando ugualmente scomuniche e galere, cosicché all’ ultimo i trasgressori erano tanti che non si potevano più pu- giornale ligustico 225 mie, mentre gran quantità di moneta per atto volontario e confoito degli infelici si versava da’cittadini e dagli esteri negli eiari degli Stati forniti del giuoco, donde veniva lode di gian piudenza a’ Governanti, potendo eglino per ciò sov-\eniie copiosamente alle occorrenze straordinarie ed ai comodi ed ornamenti pubblici senza l’opera odiosa di aggiunger gravezze a cittadini, laddove, gli altri Stati restavano avvizziti nelle angustie economiche e nel disordine civile; de’ due mali resi inevitabili, o l’anarchia 0 il Lotto, si venne nella estremità disperata di abbracciare il Lotto per il meno peggio, come ebbe a dirlo Clemente XII quando lo ristabilì nelle terre pontifìcie ; le quali ragioni ed opinioni, qualunque si siano, egli è pure un gran che, si reputassero allora tutte rette e sane dall’ universale (1). Oggi all’ incontro per questa patte migliorati d’assai i tempi, oggi finalmente rifornito 1 erario, niuna cosa poteva ancora tenerci dal riparare al- 1 antico errore se non la nostra volontà, siccome egli accadde or sono pochi anni. Dove la moderna Democrazia, per essere ben consentanea a sè medesima, avrebbe dovuto onorarsi ed esultare, che a lei fosse pervenuta la facoltà di abolire per la sua prima riforma, la tassa sulla ignoranza e sulla fame. Ma se ciò non s'' è fatto, si faccia e presto quanto si possa ; affinchè l’Italia, accusata inventrice del Giuoco del Lotto, almeno non abbia di più la vergogna di esser l’ultima a ripudiarlo. G. Rezasco. (1) Bolla di Benedetto XIII cit. Motoproprio di Clemente XII cit. Muratori, Ann. loc. cit. Bongi, op. cit. pag. 116, 117. Giorn. Ligustico Anno XI. J5 226 GIORNALE LIGUSTICO VARIETÀ un Coriolano da strapazzo (Aneddoto della rivoluzione corsa) Sulla fine del 1745 la città di Bastia sollevatasi in anni contro i genovesi, cacciò il commissario De Mari, accogliendo Domenico Rivarola, il quale sovvenuto dagli inglesi e dal Re di Sardegna, aveva mosso quella nuova ribellione. Ad aiutarlo nell’ impresa vennero incontanente co’ loro partigiani Giampietro Gaflorio e Alerio Francesco Matra, già eletti fino dal 50 agosto nell’adunanza della Pieve d’ Orezza, insieme all’ abate Venturini pacieri e protettori della patria. La fortuna fu sulle prime seconda ai loro disegni ; ma non andò molto che perdettero in un punto tutto il favore da prima procacciatosi. La diversità del carattere, il desiderio di soverchiarsi, la sete del comando mise ben presto la discordia fra quei tre, e tanto s’ inacerbirono gli umori, che parve imminente uno scoppio, segnale sicuro di guerra civile; a fine di scongiurare il pericolo s’ accordarono di abbandonare la città, dopo aver stipulato una convenzione , colla quale i bastiesi s’impegnavano di governarsi da se, di non dar ricetto ai genovesi, e di aiutare i sollevati nelle imprese che si proponevano per liberare la patria. Senonchè gli abitanti di Bastia impauriti da queste discordie , e temendo di peggio, sollecitati altresì dai partigiani e dagli emissari dei genovesi, si sottomisero, facendo prigioni parecchi dei sommovitori, che, condotti poi a Genova , vennero parte dannati nel capo, parte alla galera perpetua. Il Rivarola coi suoi s’accinse allora a riprendere la perduta città. Anche il Matra era corso ad ingrossare le schiere degli assediami, quando sui primi d’aprile, passato già un mese da che giornale ligustico 227 la citta veniva oppugnata, ricevette da Nicoletta Maffei una lettela sciitta a quanto pare da un frate, colla quale lo esortava in nome della patria a por fine alle ostilità (1). Egli rispose così : Signora dolorosissima Dal campo di Bastia 3 aprile 1746. Se quel buon frate, che non so di qual setta egli sia, sapesse tanto delle storie, quanto mi pare che sappia delle Profezie di Geremia , per averle composta una lettera pari ai treni che si cantano a larga bocca in San Francesco di questa fedelissima città ne’ giorni della presente settimana, le avrebbe insinuato di scrivermi che fra le cose di questo mondo la più cara, che dobbiamo avere, si è la nostra patria, e che tutti i rispetti devon cedere all’amore della medesima; avrebbe scritto, e con più senno, che si legge nelle storie romane, che un certo cittadino di Roma fu da quella ingiustamente scacciato, e pagato d’ingratitudine, doppo avere prestati segnalatissimi benefizi alla sua patria ; avrebbe altresì scritto che nel suo esiglio egli con ragione si era voltato contro di essa per vendicarsene, e che il Senato di Roma per divertirlo dalle minacciate ruvine, gli spedì incontro la madre, affinchè perorasse a favore di Roma. Questi saprà il frate settario chi fosse : ma Coriolano non si arrese ai prieghi della genitrice, benché poi si arrendesse alla tenerezza che aveva per la patria. Io peraltro faccio troppo onore all’ Ill.ma Plebaglia di Bastia nell’ accennare questa storia, non essendo paragone da portarsi. Dico solamente che mi rincresce eh’ Ella sia iniquamente vessata, e che ho viscere di pietà verso di Lei, e verso (1) Per i fatti storici cfr. Cambiagi, Storia di Corsica, T. Ili; Paoli, Lettere edite dal Tommaseo nelli Arch. Stor. Ital. Ser. I.*, T. XI. Renucci Storia di Corsica T. I. La lettera è nell’Archivio di Stato, Divers. Coll. a. 1746 n. 2. 228 GIORNALE LIGUSTICO di codesta ingratissima e sacrilega città; e perchè sono più cristiano e catolico di codesto popolo, il quale, dopo aver tradito Dio, la patria, ed il suo fantastico principe, si è sfogato contro lo splendore della città, cioè a dire nell’aver venduto il sangue de’ più onorati cittadini all’ implacabile odio de’ genovesi, se mai non l’avessero pesati e donati per altrettanta farina, venuta dall’isola Fortunata della Gran Capraia alleata e pienipossente, per la inquisizione del savissimo e nobilissimo magistrato di Bastia, stimarei di fare in questi giorni di passione il sagrifizio più accettabile a Dio col trucidare tutti gli abitanti di codestà città, e perchè sarei sicuro di acquistarne un gran merito da S. D. M. troppo offesa, ed alla mia patria , che amo più di qualunque cosa doppo Dio. Il suo frate erudito le potrà dire che la distruzione di Gerusalemme fatta dal pio Tito, seguì appunto ne’ giorni di Pasqua, per divina permissione, conforme già predisse Cristo, il quale fervorosamente pregarò negli ultimi giorni di questa Santa Settimana, che mi conceda sopra la Bastia la grazia che fece a Tito, e se non seguirà così presto , Ella sia pur certa che non può scappare dall’ eccidio, perchè la Corsica tutta è maggiore' di questo piccolo angolo di terra, ed è protetta da Dio e da prencipi non di stirpe giudaica, ma di germoglio santissimo. Per finirla in poche parole, io non parto, nè partirò co’ miei seguaci da questi contorni, fintantoché non entrerò a fiaccare l’orgoglio di codesto vile, ed insolentissimo popolo ; e se a quest’ ora sono illesi i beni di questo territorio, ciò procede dal genio, che nudrisco di non far la guerra contro le cose insensibili, e non già perchè non lo meritasse la perfidia di codesta canaglia: la devastazione della campagna, se non è seguita, seguirà infallibilmente. Suo figlio è qui indisposto e non è uomo da guerra, e subito, che sarà riavuto anderà in Orezza per dar sesto ai suoi interessi. GIORNALE LIGUSTICO 229 V. S. si faccia animo e si contenti anco della morte, quando da codesti malvaggi le fosse data, perchè morirà gloriosa per la patria e non resterà esposta a morire sotto dei sassi, come quanto prima seguirà ad una gran parte di codesti Oilandi, per servizio de’ quali i signori inglesi ci devono portar da Livorno molti fasci di corde. E qui abbracciandola resto Di V. S. Afi.m nipote Alerio Francesco Matra. Non era privo di coltura costui, che affettava quegli alti sensi di romanità, attinti forse fino dalla sua prima educazione e non infrequenti nei connazionali del suo tempo. Parrebbe di più a prima giunta che nel suo animo altero albergasse un amore di patria così grande, accompagnato da un sentimento di sì fiera dignità individuale, da non dubitare della sua fede. Eppure gli atti della sua vita contradissero aperto all’altezza delle sue parole. Guadagnato dai genovesi si chiarì oppositore del Rivarola e cospiiò a suoi danni, poi accettò gradi e commissioni dal Re di Sardegna, di guisa che perseguito dai suoi nazionali e dai francesi, fu costretto andar ramingo alcun tempo, finché si ridusse a stabilire mora in Cagliari. Di qui lo trasse il governo di ^ει^ΰ promettendogli onori e ricchezze, e lo sguinzagliò in sica seminatore di zizzanie e orditole d intrighi contro ^ pera magnanima del Paoli. Indarno però, chè l’ambizioso traditore, dovette indi a poco tornarsene a Genova svergo- ... A. Neri. gnato e vilipeso. UN MAESTRO d’ ARITMETICA DEL SECOLO XIV È questa la più antica memoria di un maestro d’aritmetica stipendiato dal Comune, sebbene le parole del documento, là dove afferma come niuno addottrinato in quella disciplina 2 jO GIORNALE LIGUSTICO esistesse in Genova « obviante mortalitate seu epydemia preterita », inducano a credere che già vi fosse questa scuola per Γ innanzi. Il documento venne pubblicato parecchi anni or sono dal Bonaini, per incidenza, in una sua breve memoria intorno a Leonardo Fibonacci (i); ma noi abbiamo reputato utile riprodurlo, e per la sua importanza, e perchè gli atti del governo genovese muovono nel nostro Archivio dal 13S0, e invano quindi vi si cercherebbe la presente deliberazione. Millesimo trecentesimo septuagesimo tertio, die penultima augusti. Magnificus dominus, dominus Dominicus de Campofregoso, Dei gratia dux Ianuensis et populi defensor, in presentia, consensu et voluntate in-fiascriptorum dominorum Antianorum, sui Consilii, Duodecim sapientum, in sufficienti et legitimo numero cengregatorum ; nec non ipsi domini Antiani, auctoritate et decreto eiusdem domini Ducis (et quorum Antianorum qui interfuerunt nomina sunt hec : dominus Petrus de Castelliono Jurisperitus, Benedictus de Paxano, Martinus Marruffus, Petrus Piconus, Franciscus Turturinus, Obertus de Monelia, Petrus de Grota , Symon de Bargalio, Laurencius Angeli et Dexerinus de Sancta Agnete) ; habito super infiascriptis colloquio, voluntate, consilio et consensu ac deliberatione, piout seriosius distinguit materia regullarum , et ipsarum prorsus forma in omnibus observata, cum infrascriptis nobilibus et prudentibus vins dominis officialibus monete, videlicet Francisco Erabriaco, Christiano Curio, Bartholomeo de Nigro, Eliano Spinulla, Iohanne de Bargalio, eoigio Lomellino et Peregrino Muscha, in sufficienti numero congre-Datis, absente tamen Anthonio Griffioto octavo socio ipsorum ; considerantes quantum utile et necessarium est habere in civitate Ianue unum P bum ac expeitum et sufficientem virum arismetricum et qui artem ismetrice in civitate Ianue doceat, et ipsius artis et scientie publice colas regat, eam artem et scientiam prout congruit scolares docendo ; presertim cum nullus magister vel doctor ipsius artis et scientie, ob-e mortalitate seu epydemia preterita, Ianue existât; volentes tante ecessitati occurrere et subvenire remedio opportuno, de sufficientia tamen ( ) Giornali Stor. d. Arch. Tose. I. 239, poi di nuovo edito a Pisa, Nistri 1858. GIORNALE LIGUSTICO 23I probitate et industria ac experta et manifesta doctrina circumspecti viri domini magistri Thome quondam Miniati civis Pisarum plenius informati, ac audita requisitione coram eis pro parte ipsius oretenus exposita quam pluries per nonnullos notabiles cives Ianue tam nobiles quam populares ; eidem requisitioni cum minori gravamine Comunis quo possunt, preferendo eidem gravamini expressam necessitatem ac evidens commodum civitatis et civium sicut licet, complacere volentes , ex omni potestate et baylia quovis modo et forma eisdem attributa et concessa simul et di-visim, tam ex serie regularum quam alio quocumque modo et forma quibus melius possunt, posito partito ad ballottas albas et nigras, repertis prius ballottis Officialium monete omnibus albis numero septem, et subsequenter ballotis dicti domini Ducis et Antianorum similiter omnibus albis numero undecim ; presenti decreto et gratia speciali, usque tamen ad dicti domini Ducis et Consilii beneplacitum valituris, statuerunt, decreverunt, ordinaverunt et deliberaverunt, ac statuunt: decernunt et ordinant, quod dictus dominus magister Thomas a die tertia februarii ipsa die comprehensa, ultra usque tamen ad dicti domini Ducis et Consilii beneplacitum , regente dicto domino magistro publice scolas in civitate Ianue et artem arismetrice scolares et quoscunque adiscere volentes illam fideliter docente, ipse sit penitus liber, exemptus, franchus et immunis a quibuscunque toltis, di rictibus, introytibus et cabellis comunis Ianue impositis et imponendis pro usu suo et sue familie domestice tantum, scilicet pro victualibus quibuscunque et vestibus ac vestitu dicto usui necessarii: et similiter a quibuscumque impositionibus, cotumis, collectis, datiis, mutuis, coemptionibus, avariis realibus, personalibus et mixtis, ac angariis et oneribus quibuscunque, exercitibus et cavalcati terrestribus et maritimis dicti Comunis impositis et decetero imponendis , quocumque nomine nuncupentur. Mandantes universis et singulis magistratibus, officialibus, emptoribus, collectoribus et exactoribus predictorum civitatis Ianue et districtus, ac consulibus callegarum et dohaneriis quibuscumque, ut presenterei gratiam, immunitatem et franchisiam dicto domino magistro Thome, usque ad dicti domini Ducis et Concilii beneplacitum, observent et faciant penitus inviolabiliter observari. Extractum est ut supra de actis publicis Cancellarie piefati magnifici domini Ducis et comunis Ianue, scriptum manu mei notarii et cancellarii infrascripti. Georgius de Clavaro, Cancellarius. [L. S.] 232 GIORNALE LIGUSTICO TRE DOCUMENTI GENOVESI DI ENRICO VI L’Imperatore di questo nome verso li 11 novembre del 1191 venne in Genova secondo i nostri Annali, e il iS dello stesso mese era di ritorno a Pontedecimo, come ci insegna un documento imperiale a favore di Savona di questa data. Della dimora di lui nella nostra città troviamo traccie anche in tre carte in data del 12 e 17 novembre che qui sotto si riportano, e nelle quali Enrico VI legittima uno spurio e crea due notari. Tali documenti si leggono ai fogli 68 v.° e 69 v.°, fanno parte del Registro originale in bambagina del notaro Guglielmo Cassinense, che si conserva nell’Archivio di Stato. Essi rimasti inediti prima d’ora, benché noti per le pandette Richeriane, per le Miscellanee del Poch e perchè citati da me recentemente (1), sono stati ultimamente pubblicati dal- 1 illustre prof. Ficker d’Innspruch (2). Il quale vi fa sopra annotazioni brevi, ma come egli sempre suole, particolareggiate e piene di comparativa dottrina. Quanto alla sostanza di questi documenti egli confessa che quello di legittimazione dello spurio è il più antico esempio che se ne conosca mentre finora non si avevano che le formole senza data di Federico II; e quanto alla nomina di notari, non se ne conosce che una anteriore (1186) pubblicata dallo stesso prof. Ficker (3). La forma dei tre atti gli porge occasione ad altri anche più (1) Sui Marchesi di Massa e Parodi nei secoli XII e XIII, (Archiv. Stor. Ital. 1882, X, 342). (2) Kleme Mittheilungen, articolo inserito nel Vol. V. (1884) delle Mit-theilungen des Instituts für ôsterx_. Geschichtsforschung (Comunicazioni del- 1 Instituto per le ricercne storiche austriache), pp. 313-319. (3)Forschungen %ur Reichs-und Rechtsgeschîchte Italiens, (Ricerche per la Storia dell Impero e del Diritto italiano). Innsbruck, Wagner 1869, II, 71, 96. GIORNALE LIGUSTICO 233 importanti rilievi. Già nella sua opera (1) ha discorso non brevemente della compilazione di un genere di atti i quali non sono stesi per intiero nè in modo definitivo, da potersi consegnare immediatamente alla parte che li richiede : al contrario il loro scopo è di fissare soltanto in iscritto la sostanza e le condizioni essenziali dell’atto, per guisa da poterli all uopo anche tardi integrare e consegnare in extenso. Questa specie d'’ atti si chiamano imbreviature e tali sono appunto quelli che formano il Registro di Guglielmo Cassinense; come sono in generale i Notularii più antichi genovesi cominciando da Giovanni Scriba che è il più antico di tutti. Il lodato professore nota che in questi tre documenti Enrico VI parla in persona prima, al contrario degli altri tutti che di lui si conoscono altrove. Il che si spiega facilmente (ed egli lo ammette) poiché il notaro nella forma tiene il proprio stile, consueto a lui e ai notari suoi conterranei per quei secoli. Un’altra questione si è il perchè l’imperatore per atti suoi non siasi servito del notaro proprio di Corte che era allora il pavese Martino di Filippo e che pare dovesse aver accompagnato Enrico a Genova, come lo troviamo con lui li 8 dicembre successivo a Milano. L’autore rispondendo ammette che il valersi del proprio notaro di Corte sarebbe il mezzo più proprio e naturale, ma che ciò non infirma affatto la fede a documenti fatti fare ad altro qualunque notaro, il quale da per se gode della fede pubblica. Vi possono essere buone ragioni perchè il privato, a cui benefizio l’imperatore dispone, preferisca la compilazione dell’atto per mezzo di un notaro locale; forse anche per la minore spesa, senza forse pel comodo che ha il beneficato di poter ricorrere a suo piacere al protocollo del notaro locale per averne copia , provarne ove (1) Beitràgen %ur Urkundenhhre, (Contribuzioni alla dottrina delle Carte), Innsbruck, 1877, II, 340 e segg. 234 GIORNALE LIGUSTICO d’uopo l’autenticità ecc. Il Ficker cerca e cita documenti più o meno somiglianti in altre citta d Italia; infine vedendo che il notaro Guglielmo Cassinense non solo compilò i documenti ma gli inserì tra le imbreviature degli altii atti suoi, sup pone che così si facesse anche altrove, ma confessa che non si conosce di ciò altra prova diretta all infuori della pi esente. C. D. I. — « Testes dominus Albertus episcopus Vercellensis, dominus episcopus Bonifacius Novarensis, Arnaldus Strictus, Otto Cendatarius, Albertus Cremonensis iudices curie, et Wilielmus Caligepallij, Otto bonus scriba, Anselmus Garrius ; in palacio archiepiscopi Janue, ea die. Nos Enricus dei gratia Romanorum imperator augustus Bonum Johannem scribam consulum iusticie notarium sacri imperij constituimus, plenam ei dantes auctoritatem instrumenta pubblica iuxta morem eius offiJj condendi , et ea per omnia exequendi pro loco et tempore, ubicumque fuerit, que ad ipsius officij amministrationem exigitur. Similiter constituimus notarium Bonum Villanum , filium Jordani notarij per omnia ut supra. Et eum investivit ». II. — « Nos Henricus dei gratia Romanorum imperator et semper augustus notum facimus universis nostri imperij fidelibus, quod Wilielmum, filium Roberti de Levi et Agnetis spurium , imperiali auctoritate legitti-mum facimus ei filium, ut de cetero eum in potestatem habeat ipsique aquirat et ab intestato ei heres consistat, tamquam ex legiptimis nuptus et ex legittima uxore predictus Robertus eum habuisset, non obstante lege vel consuetudine, in qua cavetur, filium spurium in potestate patris fore non posse nec patri aliquo modo succedat ; habeat ergo de cetero ius li-gittimi filii nomen beneficium consecutus, nec de cetero dicatur spurius sed legittimus, nullo iure obstante omniqne persone vel rei impedimento remoto ; et eundem Wilielmum ex anulo aureo investimus, dantes ei ius aureorum anulorum ; et ut hoc firmius habeatur et credatur per manum publicam scribi iussimus. In palatio Januensis archiepiscopi, mclxxxxi. r indicione xvm. die xvn novembris. Testes interfuerunt dominus Albertus episcopus Vercellensis, Albertus Cremonensis iudex curie, Wilielmus marchio de Palodo, Ogerius Comes canonicus ecclesie sancti Laurentii Janue, Bonus Vasallus filius Ansaldi de Trevelo ». III. — « Nos Henricus dei gratia Romanorum imperator et semper augustus Bonum Vasaleum, filium Ansaldi de Trevelo de Rapallo, notarium GIORNALE LIGUSTICO 235 sacri imperij constituimus, plenam ei dantes auctoritatem instrumenta publica iuxta morem eius officij condendi, et ea per omnia exequendi pro loco et tempore, ubicumque fuerit, que ad ipsius officij amministrationem exigitur ; et ut supra eum investimus auctoritate nostra. Similiter constituimus notarium Martinum fì'.ium Tortagne de Rovegno. Ea die et loco et testibus ». SULLA SCOPERTA DELLO STATO DI XaLISCO nel Messico nel içîo ·»** Il Fase. VII, Anno II, del Giornale Storico della T.jit r*-1-' ""spigolaturìTe notizie Nella Nuova Rivista di Torino (anno IV, fase. IV, 240) il Bertolotti col titolo Un’avventura a Roma discorre, recando i documenti, di una querela data in Roma da una donna al poeta Gaspare Murtola genovese, perchè era stata da lui ingiuriata e minacciata in pubblico. * * * Il sig. Giovanni Livi, già noto favorevolme per altri pregevoli lavori, ha condotto assai innanzi uno studio storico intitolato La Corsica e Cosimo I de’ Medici, il quale per le molte cure spesevi attorno, le licei che fatte e 1’ esperienza dell’ autore, promette di riuscire opera assai importante. Intanto ne ha pubblicato nell’ Archivio storico (T. XIII, pag. 415^ la introduzione, nella quale brevemente tocca le relazioni de Corsi con la Repubblica Fiorentina e con Giovanni de’ Medici delle Bande Nere, fermandosi più specialmente sopra Sampiero della Bastelica. *** A Foligno sotto la direzione dei signori Santoni, Mazzatinti e Faloci Pulignani si è incominciata la pubblicazione dell’ Archivio storico per le Marche e per V Umbria il cui primo fascicolo contiene : Ai lettori. — Padovan G. Gli Uffici drammatici dei Disciplinati di Gubbio. - Faloci Pulignani M. Le iscrizioni medioevali di Foligno. - Santoni M. L’ arte della Seta a Camerino. - Raffaelli F. Le Constitutiones Marchiae Anconitanae bibliotecnicamente descritte in tutte le loro edizioni (continua). — Rivista bibliografica. - Avoli A. Autobiografia di Monaldo Leopardi (Uu Marchigiano). - Cristofani A. Il più antico poema della vita di S. Francesco (F. Novati). - Feroso G. Ancona (M. Faloci Pulignani). -Fratini G. Storia della Basilica e del convento di S. Francesco di Assisi 236 GIORNALE LIGUSTICO connazionali naufraghi o dispersi non bastarono ad impedire la fama che corse della scoperta, fama anzi esagerata come di terra piena di pietre preziose e d’ ogni ben di Dio. Chi brami saperne di più, consulti segnatamente fra i moderni il Peschel (Geschichte dir Erdkunde, ed. 1878, p. 267): e fra gli antichi le note opere di Herrera ed Oviedo , anzi la relazione stessa di Nuno de Guzman inserita nella colle- HpI Ramusio (III. ediz. 1606, car. 281, seggO-I. — « Testes dominus Albertus episcopus Vercellensis, dominus episcopus Bonifacius Novarensis, Arnaldus Strictus, Otto Cendatarius, troviamo le seguenti c[ie'ngTaarffarâ^-^^W.4Ji^mug„.C?liPreDallii, Otto- A Carpello, presso Foligno, sopra un arme del vescovo Luca Cibo (1489- 1322) si leggeva : Splendida Borsciano dedit haec insignia Lucae Pastor Romanae Sedis Apostolicae. Haec ratus ille satis, uirtuti praemia tantae Addidit et meriti munus Episcopi], Ergo unga uigila si quis non spernis honorem Sunt haec Virtutis praemia digna sacrae. Nella loggia delle canoniche della cattedrale, in una grossa lastra di pietra : IVLIO ■ II PONT · OPT · MAX Q.VOD LVCA CIBO EPO FVLGIN EXORANTE ANNUO SVBSIDIO CLERVM PERPETVO LIBERAVIT CANONICI LIBERALISS PRINCIPI POSVERE · M · D · XII · Ivi in frammenti di marmo : FRANCISCVS CYBO COMES INNOCENT'1 Vili ■ NEPOS EX FRATRE LEONIS · X · SORORIVS AFFINIS · s · R · E · GENERALIS GVBERNATOR, IN DITIONEM HANC PRIMVS IMPERIUM AVSPICATVS EST , ANNO SAL · MDXVII ■ ........IS F.X EO PROCREATVS COMITATVI GIORNALE LIGUSTICO Nella parete vicina alla cappella di santa Monaca, nell’ antica chiesa di sant’Agostino, leggevasi a lettere maiuscole l’iscrizione che segue, sormontata dallo stemma dei Boschi : Laurentij Boschi Saonen · Viri, optimi reliqui in hoc Loco sita est potiorè parte, ob recte facta coelum habet · Innocentiae Boschae Filiolae Infantulae Blandulae Vagulae Laurent........Ligures Saonen · dues ■ P · P ■ vixit An · iy ■ *** Il Fase. VII, Anno II, del Giornale Storico della Lett. Italiana contiene : Pio Rajna, Intorno al cosidetto « Dialogus creaturarum » ed al suo autore. I. Il testo. - G. Mazzatinti, Le carte alfierine di Montpellier. - Varietà. -Giusto Grion , Note alla «Divina Commedia ».-Arturo Graf, Sopra la novella 26.α del « Pecorone ». - Antonio Lombardi, Il prologo degli « Incantesimi » e la « Dolcina i> di G. M. Cecchi. - Antonio Manno, Intorno all’ « Adramiteno » - Elia Zerbini, « Alla sua donna » , Cannone di G. Leopardi. — Rassegna bibliografica. -Rodolfo Renier. - Anthoine Thomas, Francesco da Barberino et la littérature provençale en Italie au moyen âge. -Rodolfo Renier. - Adolfo Bartoli, Storia della letteratura italiana. Vol. V e VII. — Achille Neri.-Car7o Goldoni. Bolettino bibliografico. — Si parla di: Testi inediti, ed. 'Γ. Casini .-Lì dis don vrai aniel, ed. A. Tobler. - Le cento novelle antiche, ed. L. Cappelletti. -J. Franche.-A Bacchi della Lega.-E. Braunholz. - Catalogo della libreria Panâotfini.- A. Luzio. - F. Negri. - L. Falconi - Mémoires de M. Goldoni. - G. A. Cesareo. - A. Zanelli-P. Ferrieri. - Album virgiliano.-G. Occioni-Bonaffons. - G. Pitrè. - Cronaca. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Miniere, pecche e monete della Sardegna. Ceniti cronologici con quadri e litografie di Agostino Toxiri. Ancona, Morelli 1884. Questo lavoro è condotto con amorevole diligenza, e mantenendosi nei confini modesti che l’autore si è imposto fin da principio, riesce a dare una nozione abbastanza esatta della materia. Lo svolgimento segue un metodo strettamente scientifico ; nè era proposito dello scrittore ap- 240 GIORNALE LIGUSTICO profondire certe ricerche, o discutere alcuni risultati ; ma piuttosto mettere innanzi una serie di fatti disposti secondo l’ordine dei tempi e ce sunti da fonti attendibili. E questo fine può dirsi pienamente 1 aggiunto. Il cardinale Mazzarino. Saggio storico di Federico Donaver, Pei as 1 3, di pp. 315. Scopo dell’autore di questo lavoro, uscito in questi giorni sebbene porti la data del 1883, era quello di offrire in compendio la vita del ce e re cardinale, lumeggiando particolarmente quelle azioni di lui che hanno re a-zione coll’Italia, per dimostrar erronee diverse accuse onde fu fatto segno da alcuni scrittori francesi, ed accennare alle buone ragioni che si ìanno per credere la famiglia sua di origine ligure. Nello svolgimento del lavoro egli si valse, come dichiara nella pre a-zione, della Histoire de France pendant la minoriti de Louis XIV di A. Cheruel, che è il più recente, il migliore ed il più completo sciitto sul Mazzarino, quantunque lasci travedere anch' esso un po’ della solita an tipatia francese verso quel grande italiano. . . Il sig. Donaver correda alcune volte il suo dire e le sue osservazioni con autorevoli testimonianze, e con documenti inediti tratti dal nostro Ar chivio di Stato, particolarmente dalle corripondenze dei ministri della Repubblica di Genova alla Corte di Francia, onde il lavoro riesce di qualche interesse. Ci spiace però di dover osservare che il programma annunziato, non è completamente svolto, e che se vi sono al principio dei punti trattati con bastevole accuratezza e larghezza di vedute, in seguito se ne tro\ano alcuni, e di non minore importanza, anche relativi all’ Italia, che sono ap pena accennati. Egli è vero, che, come si rileva dal titolo di: Saggio storico, il signor Donaver non intese di darci un lavoro storico-critico compiuto; ma un po’ più di uniformità nello insieme, ed un più ampio svolgimento di alcuni punti non sarebbero spiacciuti. Tanto più che gli sarebbe riuscito agevole giovarsi di note fonti italiane, dove del Mazzarino e della sua politica verso l’Italia si discorre assai largamente e col sussidio dei do cumenti. Tali mancanze però devonsi attribuire a che l’autore, per cagioni in dipendenti dalla sua volontà, fu costretto a condurre il lavoro un po a spizzico, ad interromperlo mentre era già in buona parte stampato, come lo prova la data del 1883, ed a diverse altre ciscostanze. Comunque sia, il Saggio storico sul cardinal Mazzarino del sig· F. Donaver, è un lavoro il quale dimostra come il suo autore conosca sufficen-temente la storia, e sia educato alla buona scuola; tale infine da poterci far sperare lavori di maggiore importanza. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 2Jt 1 STUDI ETRUSCHI Ofhendo agli studiosi delle antiche lingue italiche una interpretazione della grande iscrizione Perugina, il traduttore sente la necessità di dichiarare che questo saggio, per poco \alore che abbia, non è sorto almeno dall’impeto di una fatua audacia, giacché un vocabolario etrusco, una grammatica, e la versione di trecento fra le più notevoli iscrizioni di questa lingua sono lavori innanzi ai quali il presente studio si mostra come un araldo. Fu anzi il desiderio di ottenere un giudizio sul proprio metodo, che indusse chi scrive a presentare come saggio una traduzione della maggiore fra le iscrizioni etnische, nel convincimento che la varietà del tema, e la moltiplicità dei vocaboli offrano ampia materia al bramato giudizio. Mostrando col fatto quali sono gl’intendimenti dell’autore, è inutile diffondersi con un discorso preliminare sulla natura della lingua etrusca , e sui modi con i quali si svolge o si può interpetrare, ma occorre invece notare, che sebbene ogni parola della iscrizione presente sia commentata in modo largo quanto occorre a giustificarne la spiegazione, pure lumi maggiori offrirebbero la grammatica e gli altri lavori qualche volta citati benché inediti, ma che diverranno di pubblica ragione quandochesia. La lingua etrusca è pressoché ignota, ciò nondimeno ognuno comprende, che se l’autore non fosse nella credenza di avere rettamente interpetrato l’etrusco non avrebbe cercato la pubblicità ; pure di una lingua che adesso è studiata, altro è cogliere in genere la significazione, altro intenderne con rigorosa sicurezza ogni minima parola o modificazione di voce. Nello stato delle cognizioni attuali ciò sarebbe troppo presumere ; quindi chi scrive, come qualche volta non esitò a manifestare dei dubbi, così sarà grato a chiunque voglia esprimergli, in forma pubblica o privata, il suo giudizio, o i suoi consigli sul presente lavoro. Adolfo Borromei. Giorn. Ligustico Anno XI. 16 242 GIORNALE LIGUSTICO GRANDE ISCRIZIONE PERUGINA. MÉMIOBì ^V^riqfH AMHA+- +fNV3 3 · MAHIOlBi * ΊΙ · D2K13 · 1 VqA) · 03ν|3Ί2 MflMVSflPN+M 3ΚΙΡΝ3ΊΜ · A MI3fMM23f · ^mv>ivs · 10 qSlAnMBBAmflPMlMillMflq !ΟΊ3ΊΜΑ3 3'l|viAqAMAqVOflHIO'l3rINX +M3l03H3q Μ30ν^Ίν)23Ί}ΑΊν^3)Μ^ AHKH3^fl VqfNV-WODZB • SUV'J DA ΑΜΟΙΒΉ · IMBAVA )M3HVqVf 3 · VK13D · ΑΜ\ΟΜΊΙΟ · IIO · IMKI3 :>V*A3*3HV M3i/lVSAM'lAOqA'DI'l33 · >M OA · D23KI3 · 1 30'IV4'HV0K13'D V8A · MDimV ΑΜΙΟΊΒί · 3>IMVSIt13l'i' · MA^AS ηΟΥΙΞΑ · MAKI V2Affl +3ΌΙΙΐνΐί13Ί éOAOMIB OviBqflmfl · a ì Ι+ΜΊΑ8 IlOWHAqM ’ 'te'WW HV$A - AHI Μ3ΦΚ13Ί · qS'Ifln · +VB · ΑΜΚΝΞ ma · mvqvo >13^1 flKlVSfl · Ί3Ί) · AHIH:>0 · V2AW1 40AHViq3* 3MAfti3+m · flim^qa^itiflii 10 >MVOIIO· A BUB+AMAI* · ΑΚΙΙΟΊΒί · >IMD * <1 AD· ΨΙ · 'JO'JV O MAqVOAHIO«ì · A)3 · >11123 + ΦνΦΊ^ΑΨΒ) l3)3HMflq3M23-HN3BflqVA . 3 'IMOmi'J'MBMMflq ■ MI3+MH3 + ΑΚΙ3ΜΑΚν$ΑΑΚΐν:>ΜΑ-Ι-νθΊ3 3MVf3q ΑΒΊΚΟΙ) · ΉΊΜ · H3B I 2 3 4 5 6 7 8 9 10 I I 12 Γ3 14 iS 16 17 18 19 20 21 22 23 24 GIORNALE LIGUSTICO TRADUZIONE LETTERALE I Alte querci degli avi possenti Veltina 2 fra le donne ululanti arsi con rito. Veltina Per Minerva un por¬ 3 sta presente, (e ad) Anfonio ucciso da Caronte co uccise e libò ; 4 è offerente funebri riti dieci e due. Spelanio 5 Gli Etruschi libano alla madre (*) uniti sul le sacrificò un giovane sepolcro ; caval¬ 6 XII volte Veltina incensò 1’ altare ar¬ lo, e farro 7 dente: posevi farina con lai pei peccati, e asperso di acque lu¬ stra) i ; 8 uccisione pel banchetto mortuario. --- Veltina. 9 Aulesio Veltinio prole ad Arsana, illustre sulla coperturara (del IO uomo , consacrò l’iscrizione sepolcrale e monumento) provvide al in offertorio al sepolto, 11 banchettare abondante. Le genti Larziali e Afonie fece dono di un por¬ 12 fecero il voto e le prime cerimonie, co, (che) immolò. Le 13 (perchè) il cielo dia quiete funebre a lui. genti (Afonio). Veltina Arie per Afo¬ 14 lo spettro (del morto) contiene nella munita cella, e postosi in misura, nio intervenute, 15 sul sepolcro distribuendo cinque lavacri con¬ sacrò il monumento ; la madre e Velti¬ 16 Veltina (poi) come potestà del sepolcro , na , ad Afonio 17 postosi in misura, un’agnello (sacrificò) sul fecero offerte : ancora 18 I Veltini-Lersinii durante Marzo, sulla cella sepolcrale τ9 e la stirpe Veltina, (promisero) un dono di l’iscrizione posero in cereali. --- culto 20 Dieci e uno Veltina sacrificava to¬ di lui. Abbia questa 21 ri pel banchetto, e la decuria etrusca di quelli (tori) la tomba per semp- 22 dette due. Gli etruschi cinque volte di far¬ e . ---. 23 ro a'sparsero la sepoltura Afonia (in onore) della luna, 24 e così pure l’ollario, che dalle famiglie (ebbe) preci e incensazioni. (*) Questa Madre, nominata senza altre qualifiche, era la madre del morto Afonicu; Veltina il capo del Clan. 244 GIORNALE LIGUSTICO COMMENTI (lato maggiore). ,.· Linea Eulat tanna lares ul Alte querci degli civi possenti. Euiat tanna. — La versione di queste due prime paiole e combattuta. Vermiglili, ant. iscr. Perugine, vol. i, ind. confronta Eulat al latino Elatus, elevato, alto. Fabietti, e altii, sono discordi o dubbiosi nell interpetrare tal parola. In ai morico Evlech varrebbe olmo, ed Elui scandinavo è ontano , Eia ebreo quercia: queste forme ci additano dunque uno dei grandi alberi : ma il latino El aie, che suona Abete, e modo alto, l’italico o spagnuolo — Elato — alzato, elevato, accennano in Eulat un significato prisco di alto, attribuito quindi come nome proprio agli alti alberi; olmi, ontani ecc. Di fatto Eulat non è che una variante di Ulat, e la radice sta in Ul, che in sanscrito vale: alto, forte, potente, come piesto vedremo : così nei composti sanscriti si ha per esempio . Ul-lapa: il parlare alto, da lap, parlare, e, ul alto. Si sa del pari che gli antichi uomini tennero gli alti alberi, in specie le quercie, quasi Tempii di Numi e luoghi sacri, onde il funerale di cui parla Γiscrizione certo fu fatto presso Perugia, colà ov’ erano alberi sacri, anzi i due primi versi alludono a tal rito. Tanna è anch’ esso vocabolo mal noto, però il greco Thamnos : arbusto , virgulto , Thamnus latino vite selvatica, Tannimi, latino barbaro , Vallonea e scorza di quercia pei cuoii (onde Γ italico tannino, estratto di quercia), tann, tanne, tanna, germanici, abete e quercia, ci indicano che il tanna, etrusco fu nome di vegetale, o di quercia, venuto forse dal GIORNALE LIGUSTICO 245 sansciito fan allargare, estendere, dacché i grandi rami di questi alberi molto si estendono. Las es ul. Su Lares, o Larex, crediamo inutile fermarci, peichè tal \ocabolo passò ai latini nei Lari, cioè ombre dei patriarchi, e restò sempre nell’etrusco in Lars, titolo di onore usato fra vivi, e morti di poco. Ul in ebreo vale : fortezza, esser forte, in celtico esprime elevato, in sanscrito, come sopra si disse, è Vallo, e anche οποί are ecc.; questi significati pressoché uguali nell’ariano e nel semitico, mostrano che la parola appartiene alla favella unica del prisco idioma umano, e durò fino ai latini, giacché nei composti : Ul-terior : che è di là : Ul-timo, cima, o fine di tutti, si ha ul, tilt, e uno, e qui pure il sanscritto ci da-ìebbe il confronto di: ut, ud, cioè, in alto, forma diventata Uh nel latino e nell’ italico. a.» Line». Vachr lautn Velthinas' e (da unirsi al verso seguente) fra 1ε donne ululanti arsi con rito. Veltina. Ame. — Ama, spagnolo, è: nutrice, balia; in celtico vale madre; in ebreo ancella , fanciulla. In tedesco amine significa balia ; questi esempi provano, che anche ame è vocabolo della prisca lingua umana, onde ama fu madre e femmina, quella che restava in casa, perciò in sanscrito ama vuol dire : assieme, in casa, presso di se. Ame etrusco è un plurale di declinazione in A. cioè : le madri, le donne. Vachr. — Vac’ sanscrito è: parlare, dire: Vacàs voce, parola: Vacu che grida: Vaktar oratore : Vacra, Vagra, la muggente (vacca), ma Vagra esprime pure: penetrante. Da questi significati di voce, muggito, penetrante ecc. si comprende che Vachr etrusco deve valere : voce, voce forte, urlare, muggire e simili. La finale R rappresenta gl’ infiniti etruschi presenti e futuri, i quali valgono eziandio come preteriti (Elem. grani. 246 GIORNALE LIGUSTICO _ S 16), perciò a rigore Vachr è l’urlare, che urlavano, e ante vachr: donne che urlavano, l’urlare delle donne, gemere eo.. Lautn. Velthinas'. - Il Tarquini traducendo l’iscrizione di S. Manno interpetrò Lautn arso, e arso con lito· ^ tn v0 _ lero che significasse Liberto, o altro. Noi in più iscrizion mostrammo, che — Lautn — è il suono, la musica funebre, accompagnata dai gemiti ; erano infine gli onoii une ^ etruschi; ma in italiano dire che gli avi vennero — funerati, o musicati — sarebbe frase impropria , quindi conservammo la versione del Tarquini, anche perchè cremazione, e urla: musiche e lai, erano un tutto funerario e onorifico, il quale si desume ancora da alcuni monumenti etruschi, ove sono figure che suonano strumenti e altre in atto di miai e. Vel-thinas', come i nostri: Andrea, Battista, Doria, Peti ai ca, è nome etrusco maschile di declinazione in A. Velthina è nome singolare Velthinas' plurale, alla lettera Veltini, che si risolve in Veltino o Veltinio, usato come nome piopiio, giacché gli Etruschi non avevano (come gl’ italici moderni) cognomi al plurale, invece però usavano spesso di attinenze, e Velthinas', preso come Veltinasio , varrebbe: 1 uomo dei Veltini, chè in sostanza torna ad esprimere Veltino o Veltina, se si vuol conservare la forma etrusca. 3.a Linea. E-s'tla afunas' sleleth caru Sta presente (e ad) Afonio ucciso da Caronte. Es'tla. — Dell’armonia attuale propria all’italico si trovano fonti nelle prische lingue, le quali spesso premettevano una vocale alla consonante aspra, così Fabret-Gloss cita pei esempio : set umbro ed Eset, forme del verbo essere. Perciò crediamo che — Eslla 0 stia — equivalgano, ed esprimano il verbo *■ stare, permanere , avere stanza, di origine osca. Corssen. (sopra la ling. degli Etrus. Voi. 2, p. 456) traduce GIORNALE LIGUSTICO 247 sta, stare ecc. Il sanscrito ha: Stha, stare, sthana casa, dimora e altri vocaboli simili fra i quali : sthaìa luogo, sito, tenda , quindi lo Es Ila etrusco è lo stanziare , l’avere stanza in quel luogo, ossia 1’ essere colà presente. Alla linea 7 e 8, lato minore, vedremo che questo stare è anche forma di sacrificate, ma la metafora è di poca importanza. Afunas'. — Da tradursi Afonio, caso uguale al sopra veduto in — Velthinas'. Sleleth. — È vocabolo che sembra di origine osca. Veramente in sanscrito le forme Slan, (Çlank) si mutano anche in Sram; (Çrank e Çran) col significato di — andare, muoversi, fare. Cosi leggendo l’etrusco Sel-eleth, avremmo un confi onto nel sanscrito Sei : muoversi, andare, onde interpe-trare sleleth (t) andò (a Lete); ma è così difficile determinare se SK sle, — prefisso, sia verbo o attributivo di parola , che ci appagheremo di notarne il generico significato di letale per le ragioni seguenti. SI prefisso si converte in L nelle lingue affini, come appare da : Slaac di Fabret, che cita Mom-msen, corrispondente al latino : Languere, Laxare. Slabii Lan. ind. 2, labbruto, Slagid Corssen iscr. abella — luogo — Sle-paris iscr. 263 Liparo nome. Ciò premesso Sleleth, 0 Leleth può confrontarsi al celtico — Llaith, (Llaeth, L-leth) che vale morte, e corrisponde al Lethe greco-latino oblio, da cui Letho. latino, uccido, Lethum, Lethi (morte ecc.). Caru. — Molti confronti avrebbe questa voce, ma omettendo tutti quelli che non sembrano opportuni, solo osserveremo, che dai monumenti funebri etruschi figurati appare più volte, che l’autore di morte (Sleleth) è Caronte armato di maglio o scure. Però al nostro vocabolario, e così Corssen: Fabret. e altri registrano il nome di questo Dio nella forma: Charmi e Charu. Tuttavia noi crediamo, che fra Caru e Charte non vi sia differenza, giacché YH interfisso era un’aspirazione non sempre usata scrivendo la parola medesima, e perciò si 24S GIORNALE LIGUSTICO trova : Churcle e Kurklu — Chestes Cestes Achle Acle — Chavis Cavi — Chracnal Cracne Chaîne Caine Erchle Ercle — Felthuri Velturi e altri molti, non solo nomi, ma anche parole, come : Heri Eri, — Hesiu Esu ecc. 4.* Linea. Texan fus'leri tesns' teis' È offerente funerali (funebri riti) dieci e due. Texan. — Vermiglioli traduce le due parole — carutexan Proclamò, significato che noi ricusammo e per ragioni etimologiche e pel vincolo che deve legare questa frase con le pi e-inesse. Ai nostri Elem. Grani. § 18, del verbo: tes, Lex (dare, offrire) abbiamo il participio tesati; dante , offerente e cosi tradurremo. Fus'leri. — Corssen (V. 1, p. 487, 490, 502 e voi. 2, 46, 267) dice che Fus'le vale : funebre, fumo, vittima, sacrificio e funerale, sepolcro ecc. Anche Rosa : (le orig. della civiltà voi. 2, p. 150) da una prisca radice: fu, fur — accendere — deduce la cremazione, il fumo e il funereo, d’onde : funesto e favilla. Fus'le etrusco è dunque fumo, e in traslato ogni rito che si fa col fuoco, come le cremazioni, i suffumigi ecc.; perciò Fus'leri è: funerei, funebri, funerali e fatti col fumo, appunto come in latino fumus vale : fumo e ostentazione : funeratus sepolto e funereus funebre. Tesns' teis'. Fra questa frase e altre simili etrusche vi sorgeranno sempre difficoltà interpetrative, perchè M-teis’ porterebbe al verbo stare; tein a dare, ma poco fa riscontrammo appunto i verbi stare e dare, qui dunque la loro ripetizione non è necessaria. Tesns' secondo il chiaro Fabretti significa — dieci — e così pure interpetra tesne il Corssen : di fatto il sanscrito lia daçan (dasan), che in etrusco per mancanza del D sarebbe tasan, dieci, ma il daç sanscrito era divenuto dee nel latino decem, dunque : tesn o tesne, etrusco dieci, tesns' GIORNALE LIGUSTICO 249 0 tesnes plurale i dieci, le dieci volte, — teis' , finalmente, dai due succitati scrittori è tradotto — due — onde la frase: fusleri tes'ns' teis’, alla lettera varrebbe — (è offerente) i /uniraii per volte dieci e due, ma diremo funebri riti, giacché traducendo troppo alla lettera si finisce col dare una versione che male si comprende. 5 “ Linea· Ras'nes' ipa ama hen naper Gli Etruschi libano alla madre uniti sul sepolcro. Ras'nes'. — Muller. (Gli etruschi, V. r, 65 e 2, 284) dice che Rasenas è nome degli etruschi, ed è seguito dal Corssen e da altri, i quali in tal forma traducono parole simili. Del pari C. Balbo nella meditazione 14.“ cita i Raseni come prischi immigranti in etruria. Pare che da tale origine venisse il nome di Ramni anche a una delle 3 prime tribù di Roma neonata. !pa, — Sarebbe cosa più comica che seria, citare le tanto varie interpretazioni date da diversi a tal voce. Giambullari nota che in semitico: iba, ibba è il frutto. Anche in sanscrito ida è la terra come nutrice, e ida, ila vedico è la libazione, la offerta agli Dei. Questa voce dunque è del prisco linguaggio umano : mutò coi diversi alfabeti, quindi ida, iba, per gli etruschi, che non avevano B nè D, fu ;pa, ed è la libagione, o in genere 1’ offerta, sia di frutti come di liquidi. Ama hen. — Alla linea 2.a si vide che ama vuol dire madre. Hen è particella dal Fabretti tradotta: in e così pure dal Ver-miglioli ma che il Corssen, forse a ragione, estende coi significati di — del pari, così, ancora ecc. Naper. — Questa voce fu diversamente intesa : Deecke 2, p. 511, e Corssen 1, 457, 494, 519, le dettero il significato di: sepolcrale, ripostiglio, ollario ecc. e forse deriva dal sanscrito nabha (etrusco napa) buio, oscuro. Altri, dedu- 250 GIORNALE LIGUSTICO cendo da parole simili greche e latine, la tradussero selva. Forse una qualche conciliazione fra opinioni cotanto diverse si avrebbe dal tedesco — napf — scodella di legno, che in vecchio francese e in celtico è: hanap, hanaf, prendendo il greco napos, selva, per luogo dal legno, e napf come legno scavato, cioè cassa mortoraria , ma tal conciliazione e assai sforzata, e noi non ne conosciamo una migliore: diremo solo che più volte trovammo la parola naper, e sempre ella concordò con le premesse interpetrata : ollario o sepolcro, mai intesa per selva. I 6.* une.·, xii Velihina Thuras' aras' pe — (Ji u'i!rsi il Iinea 7-3) 12 volte Veltina incensò l’aliare. XII Velihina. — Questa frase esprime — 12 volte Veltina e ciò si comprende senza bisogno di commenti : si noti solo come la sintassi etrusca, che è piuttosto una sintesi, col solo scrivere il ninnerò intenda di esprimere anche 1 anione di esso. Thuras'. — Il verbo Thur (dare) e Thus (incensare), da cui turribolo, gettano nelle parole di radice thu qualche incertezza, pure Fabr. traduce Thuras chi fa sacrifizio; cosi il Maggi lettere di etrus. erud. p. 228 — vede in Thurasi il sacrifizio. Noi pure in altre iscrizioni si tradusse Thuras' per sacrificio, offerta, che può essere di cose materiali, come di suffumigi : qui anzi non trovandosi nulla che indichi la qualità delle cose sacrificate , crediamo che il Thuras sia la forma etrusca del turribolo, per : turribolate, incensazioni, giacché, secondo Corssen 1, 495, il turribolo in etrusco deve chiamarsi: Thur uni, adesso dunque, come a linea 4, Veltina fa 12 atti di rito funebre. Aras' pe. — Tutti gl'interpetri dell’etrusco sono concordi nel riconoscere che ara è l’altare o ara : quanto alla sua giornale ligustico 251 forma : per noi, ara, aras' , sono due modi del nom. sing. dedin. in A. (Gram. § 12). — Pe, finalmente non bisogna credere che equivalga al nostro per, e tradurre — per le are ma invece unirlo alla parola ras' del verso seguente. 7 » Lmca. Pe-ras' ce mulm les cul zuci en — (& unirsi a linea 8.*) Ardente e potevi la farina con lai pei peccati; di un porco Peram. — Secondo Vermiglioli, seguito da Corssen, per as vale ardente: Le parole greche-latine pyr, pira, fuoco ecc. il sanscrito prush, ardore, plusha, combustione, da cui pura: pane cotto, mostrano che la radice prisca della parola dovè essere pr; quindi pera etrusco, pura e plusha sanscrito , del quale il latino non serbò che la finale usha mutata in usta: (ustus e ustio). Ce mulm. — Nelle lettere di etrusca erudizione Cemulm è tradotto: focaccie, versione la quale è da accettare, purché si separi il primo dal secondo membro della parola. Ce, frequentissimo in etrusco, e pronome avverbiale che molte volte commentammo, e non solo vale — egli, ei, questo, cosi ecc. — ma qualche volta, nella solita compendiosita etrusco, esprime ancora l’azione di, ei, questo significando : ei fece, questo pose, così fece. L’italico Ci, Ce vi ha qualche affinità, giacché: ci penserò, c'era, sottintende egli e questa cosa. Mulm poi ha confronti nel cimbro : malli, macinare, in melin, meilin, irlan. macinare , e mulenn molino ; in mahna gotico, polvere e in simili parole greche e latine : mulon, molo ecc. per molino e macino. È notevole come la radice vari fra vini, mel, mal, forse perchè la forma prisca fu mi, in ogni modo dagli esempi citati è facile dedurre, che mulm etrusco è il macinato, cioè farina o pulte : la traduzione rigorosa sarebbe : così il macinato , egli la farina, ma preso ce come azione , allora vuoisi intendere : ei pose il macinato, dette la farina. 25 2 GIORNALE LIGUSTICO L6S cui. — A iscrizione 169 si tradusse Les pianto, nenL, lai, concordi con Migliarini pel quale Les - è pianto, e lo desumemmo anche dal latino lessus, che è appunto il pianto fatto nei funerali. — Cui — dal pari a iscrizione -71, si vide che è la reità, non tanto pel confi onto di Cul pu tino , quanto pel Col, Coill irlandese (etrusco cui.), colpa , reità, peccato, incesto. Suci (0 Zuci). — Ecco una delle parole che il cav. Poggi chiama ostiche, e 1’ egregio Pauli pretende che neppure con la tortura possano farsi ariane. Molti dei traduttori moderni dell’etrusco concordarono nel leggere: Z la lettela #, ma noi crediamo che essa valga 5, o SS, e X, pei ciò leggiamo questa parola anche Suci, ma non è adesso il momento, op portuno per svolgere così fatta questione. La 1 adice Sue, 0 venga dal sanscrito su: generare, o da svan, svein, che è suono e il grugnito, ha un esempio completo in succila, sanscrito porco, e in su, ant. elem. sug scandin. porco Lo stesso latino se ha sus, poi in suculus, sucula, poi ghetta ecc. ritorna alla radice sue. Suci etrusco adunque per le dette ra ragioni, e pel verbo uccidere che segue, vale: poi co, e un genit. sing. masch. — di un porco. 8.a Linea. En-esci epl tularu fece uccisione pel banchetto sepolcrale (del sepolcro). Enesci. — Dal sanscrito nahk, naç, che è ■— uccidere^, distruggere — venne il latino necare uccidere , il quale pei ο nella forma prisca fu non già neco ma eneco, quindi enectus ucciso come dice Forcellini nel suo lessico. La parola dunque era etrusca, ed Enesci di questa lingua, è Enescit latino prisco (necavit) : uccise, o meglio — fece uccisione — perchè sopra si disse che suci è genitivo : suci enesci : di un porco fece uccisione. giornale ligustico 253 Epl. Questa voce si trova quasi sempre abbreviata: epl. eplc , eplu. I modi sono diversi, ma il significato è quello di epulae latino, vivanda, banchetto, convito, cena pubblica. Cosi la intendono Fabr. Maggi, Corss. e altri. A noi sembra che nella forma eplc si abbia l’equivalente di Epulaiicus latino, o colui che dà opera al banchetto, e che : epl, eplu sia il banchettale, e la cena, il banchetto — eplu: epulatio. Tuiaru. ■ Fhular, o tular, fu da molti inteso per sepolcro, ossario, ecc. in ciò si accordano Vermiglioli, Conesta-bile , Corssen , Deecke, Fabretti. Quest’ultimo osserva che m osco ulani è olla; da ciò si può dedurre che ularu sarebbe 1 ollario, e di fatto trovasi ularu o vlaru , citato da Vermiglioli op. cit. indice e che egli traduce olle, come ula di Corssen e della nostra iscrizione 129 — urna, olla. In conseguenza di ciò pare che il T prefisso a ularu, sia 1’ articolo 0 segnacaso altre volte segnalato e t-ularu vada tradotto — del sepolcro — della tomba. 9·* Linea. Auies'ì velthinas’ arsnal ci - (da unirsi a linea io.a) Aulesio veltinio prole ad arsana. Dopo le cose già dette la traduzione di questa linea non ha bisogno di commento, senonchè, per noi, al è attenenza simile al dativo. io.» Lìnea. Cl-ens'i tliii ih il s'cuiia cenu e — (da unirsi a linea il.*} illustre uomo pose (consacrò) Γ iscrizione sepolcrale e provvide. Clens'i. — Al nostro vocabolario vi è un’intera pagina di commenti su — Cle — e sue varianti. All’ iscrizione dell’ar-ringatore (N. 270) è pure illustrata la parola Clens'i. Diremo dunque brevemente, che Cle vale: chiaro, glorioso, illustre, giacché Cleos greco è gloria, Cimi, Cliu, irlandese antico e 254 GIORNALE LIGUSTICO moderno, gloria e celebre. Anche il latino clementis e, secondo alcuno, dedotto da Claritate mentis; infine Bardetti (ling· t,e primi abit. d’It. p. 253) traduce clen: chiaro limpido. La !i-nale della s'i 0 ns'i. potrebbe aversi come suffiso attiibutho. clenasio, cioè: uomo celebre, cui spetta la glora ; in questa forma si avrebbe espressa la persona e la gloria, perciò può anche seguirsi Tarquini, il quale traducendo 1 iscrizione dii l’arringatore, vede in ns'i un nasi semitico, che spiega, pi incipe. Di fatto il nasi ebreo è : rettore, capo, preside, titolo che apparteneva ai capi delle grandi tribù e famiglie, nè si rifiuti ogni etimologia ebrea, giacché la lingua etrusca è ariana, ma essa come la latina e Γ italiana, ha eziandio parole venute dai Semiti. Per altro anche nel celtico: nas neach, vale, alto, elevato, e neas nobile. Tradurremo perciò Cle-nsi : illustre capo, glorioso elevato, per preside; uomo celebre e simili. Thii. — Dai diversi interpetri dell’ etrusco tal voce si tenne come intrusa, insieme ad alcuni riti greci, in forza dei quali anche nel vecchio · latino entrò — Thiiis — per divino , e Thyas (tiadi) sacerdotesse di Bacco, da tyo significato di sanificare : (io onoro) e fare orgie a Bacco. Anche il Fabretti traduce Thii etrusco pongo, sarifico, e noi pure-lo interpetreiemo pose, per consacrò, giacché il sacrifizio bisogna prenderlo in senso metaforico, qui, ove 1’ oggetto dedicato è una pietra. Thii s'euna. — Il Corssen pensa che Thii significhi: titolo, memoria, iscrizione, e s’euna: bello, avvenente. Quanto a Thii ci sembra eh’ egli sia nel vero, perchè anche nel latino : stilus (penna da scrivere) vi è il TU, Thii etrusco, come esso trovasi del pari nell’ italico stile. Ma siccome l’antico scritto, fatto con istrumenti duri, era un taglio continuato, forse 1 o-rigine della parola è nel sanscrito TU: scorrere, muovere, e dal, dala (etrusco tala): lacerare, tagliare, ma da TU pare venuto il latino titillus: muovere e toccar lievemente, come titulus iscrizione. GIORNALE LIGUSTICO 255 Quanto poi a Senna, è parola veduta a iscr. 285, nella quale si disse che dal sanscritto Siili: coprire, si ha: s'cunu, scunus eti usi_o : coperto e sepolto. Il vocabolo non è tradotto con ceitezza, pure s'euna sarebbe il femminile, la copertala sepoltura, e siccome tradurre — thil scuna — V iscrizione della sepoltura è frase che bene accorda con le premesse, questa accoglieremo. Genu. Il chiaro Fabretti, seguito da Corssen (forse ambedue guidati dalla somiglianza del nome) credettero che tal vocabolo espiimesse cena, eppure eh’essi errarono .è quasi e\idente, perchè a cena succede eplc, da tutti tradotto: cena, " banchetto. È per questa causa che noi ci accostiamo all’opinione di Taiquini, il quale crede centi doversi interpetrare picpaio, ordino; e poco importa disputare se la parola sia un accorciamente del semitico ihenu, come vuole l’autore suddetto, o (come a noi pare) una forma di cerno (etrusco: cernu, cenu): esaminare, provvedere, giacché anche il sanscrito ha ci osservare, conoscere, cumulare, da cui ciniti slavo ordinare e cinti slavo antico ordine. Quindi interpetriamo centi etrusco die ordine, provvide ecc. u-a Linea- Eplc felic · Larthats' afunes' al banchettare abondante · Le genti Lardali e afonie. Eplc felic. — La prima di queste voci si vide a linea 8.a Fe.ic da Corssen e Fabretti è tradotto: ubertoso, abbondante, licco, felice; di fatto tutte le lingue neolatine serbarono quasi intatta la parola. Larthals afunes. — Sono due plurali di agnome, la prima delle quali ha l’attenenza : al, cioè : gli spettanti, ai Larci Afoni: le genti Larziali e Afonie. 256 GIORNALE LIGUSTICO 12,a Linea. Cleri Thun chulthe fatto il voto e il primo cullo (cerimonia). Cleti. — Che questa voce, usata dagli etruschi in più forme e significati, adesso non esprime : chiaro, ne illustre, è mani festo, però Labus (Prefaz. al museo Chiaramonti di A. F. Visconti p. 47) Lan. ind. i.° Vermiglioli, op. cit. md. e Fabretti glossa la interpretano, voto, invocazione, voto fatto ecc. Thun-chulthe. — È frase disputata, giacché Fabretti la traduce : assegna o esclama, e Corssen : monumento , memo riale, ricordo. Sebbene il verbo dare abbia forme simili a questa, come : thuns dettero (Grani. § i8) senza escludere che la presente possa essere una variante di dare, forse me glio è da paragonarsi a parola numerale: thun (pei duri), condo Deecke 2, p. 411, uno, primo, duno. ■ Chulthe poi, tolte le aspirazioni, può paragonarsi a cui celtico ■ guar K > chi ha cura — e al cultus latino: cura, coltivazione, e ceri^ monie sacre, da cui viene il cullo italico, tutte derivazion per quanto sembra da Im sanscrito, radice, che vale ^ ce lebrare e suonare — Taunchulthe etrusco perciò de\e signi ficare : dato, prestato il culto — oppure fatto il voto e la prima cerimonia. 13.3 Linea. Fatas' chiem fus'ie; Yeithina (perchè) il Cielo dia quiete funebre (ad Afonio) Veltina. Falas'. — Il Forcellini les. dichiara che per gli Etruschi Falanto valeva: cielo, e così Guarnacci, Deecke, Corssen, Fabretti, da Falae, F alando, falani ecc. deducono: cielo, altitudine, sommità. Chiem. — Corssen e Fabretti lo interpetrano : quiete, ri- GIORNALE LIGUSTICO poso ; requie. La versione è spontanea, massime pensando che al difetto di O l’etruria suppliva col C, Ch. Fus le Velthina. — Corssen vede in fus'le il significato di fumo, funebre ecc. modo del quale parlammo a linea 4.“ e qui ancora può tradursi : quiete funebre e simili : ma fust (Fabr. Glos.) è pure un preterito di essere (in ciò concorde col Passeri e col Gori (tav. egub.) e cosi alla nostra coniugazione di essere : fus, fust, sia, sia stato. Le, 0 L, (grani, § 2) è il pronome : egli, quello ecc. onde fusle — sia a lui — sia concessa a lui (Aionio); oppure — chiem fus'le — quiete funebre (sia data ad Afonio) resta sottinteso. — Velthina è noto. 14 a Linea· Hintha Cape munì elei masu Lo spettro del morto contiene nella difesa cella, e postosi in misura. Hintha. — Conestabile, Fabretti, Corssen, Deecke e altri, vedono in Hintha, Hinthia, una deità di morte, la quale noi pure commentammo in altre iscrizioni tenendola per una luna funebre, o cinzia, forma di Proserpina. Le anime dei morti come suddite di Hinthia erano divenute: rinviali, e di fatto nel sacrificio dei /yoiani, ove ogni persona ha il suo nome etrusco sovrapposto, Γ anima di Patroclo è chiamata — Hinthial. — Nel caso presente adunque Hinlba parrebbe cinzia — Luna, ma invece le parole segueti dimostrano che tjd nome è dato allo spettro, o anima del morto : perciò in etrusco si ha: Hinthia, Dea; Hintha, anima, ombra 0 spettro; •Hinthial spettante a Hinthia. Cape. — Vermiglioli, ant. iscr. perug. (Voi. 1, ind.) traduce questa voce — impedisci, raffrena. Di fatto Capio lat. è capacità e contenere, onde Dante par. 3, 76, dice: che vedrai non capere in questi giri — è Petrarca — mio ben non cape in intelletto umano. In sanscrito kapala è cranio e Giorn. Ligustico, Anno Xi. 17 258 GIORNALE LIGUSTICO coppa, da cui Hafalo anglo-sassone testa ed elmo, che mostrano capacità a contenere. Hapi sanscrito esprime fumo e incenso, e in questo caso Hinthia sarebbe incensata, ma anche nell’Odissea 11, vediamo Ulisse il· quale volendo consultare Π-resia, con la spada alla mano contiene e raffrena le alti e ombre; si sa pure che gli antichi avevano diversi riti affinchè l’anima del morto stesse quieta nella tomba, e nei luoghi in feri, onde qui il· cape etrusco vuoisi intendere : contiene pu raffrena e la interpretazione di Vermiglioli è molto appa gante, Muni-clet. — Questa frase resta non poco dnbbia peitie alcuno in muni vide il municipio, la città, il munite, cioè fabbricare opere difensive ecc. e in molti casi hanno tagione. Altri in mun, muni, vedono 1’ uomo ; veramente anche in sanscrito abbiamo muni: sapiente, saggio; manu uomo pei eccellenza , nume , onde i mani. Bardetti poi op. cit. p. 289 dice che Lucu-mun, etrusco , viene dal celtico mon uomo e lue lucere, quasi —- uomo illustre. — Tuttavia nel caso at tuale, il contesto dei discorso e la parola clet ci avvisano , che muni vale; munito, murato, difeso, come vuole il Coissen 2, 458 ecc. e crediamo che derivi dal sanscrito tttu legate, connettere, da cui viene il celtico mun, mund, tutela e altro. Clet avrebbe confronto nel Clepta di Plauto ladra rapitrice e ciò sarebbe convenuto se Hintha municlet fosse Cinzia di uomini rapitrice, ma delle cose antedette si comprende che Clet deve essere anch’ essa parola di origine celtica, la quale fu conservata dall’ irlandese. In quella lingua Cleith è copertura, occultazione, da Cleithim io ascendo e Cleithe ascoso. Nel latino invece prese la forma di Claudo e Cludo. Il sanscrito ha : libala rifugio, onde kalatra fortezza, kalat castello fortificato, quindi la maniera prisca di Clet dovè essere : Calet, che corrisponde al francese chalet capannello e al latino-italico Cella. Corssen x, p. 276 e 2, 92, 187 ecc. ha GIORNALE LIGUSTICO quasi ragione se traduce municlet: munì, fortificò, ma questo vale pei muni; ad esso si aggiunga, clet, cella e avremo in tal fi ase un munito recinto — una difesa cella — Γ ascosa tomba e simili. Masu. In sanscrito mas è misurare, da cui viene masa: luna e mese, come il sabino mesene, o mense flusare, che pel Lanzi vale : misuramento , media misura, termine medio. Altri confronti potrebbero farsi, ma l’autorità di una lingua madre come la sanscrita e la somiglianza che era, secondo Varrone, fra molte parole Sabine ed Etrusche bastano a provare, che masu esprime misurato, è, cioè, una nuda forma' rituale, indicante che alcuno si poneva nella misura o nel modo piescritto, forse andava in mezzo, o al luogo opportuno. is a Li»ea. Naper s'ran cxl thii falmti v — (da unirsi a linea i6.a) sul sepolcro distribuendo j lavacri consacrò il monumento. naper s'ran. — Al 5.0 verso si tradusse naper ollario, sepolcro. Mran è parola ignorata da tutti i traduttori dell’ e-trusco, ma le radici sanscrite da cui può derivare sono due: Sr, cioè — Sar, Sara — fluire, ciò che scola : succo, latte, midollo, onde Saram acqua e latte, corrispondente al latino, italo serum-siero. L’altra radice è Çran (Sran) dare, donare, distribuire e siccome 1’ etrusco Mran leggesi aneli’ esso, Sran la preferiremo. Al gerundio delle nostre coniugazioni si trovano le finali an : il vocabolo si deve dunque tradurre — dando, distribuendo — anziché : versando. Csl, 0 Cxl. — Questa abbreviazione agli etruschi dovè essere familiarissima quanto per noi è incerta. Il chiaro Fabretti crede che — CS — possa esprimere : cinque. L dovè significare uno di quei riti uguali come : L-avar (Lavacro), L-avis (onda, acqua), L-uta (sacrifizio), 0 altro simile. Tradurremo — cinque lavacri — ma solo in ipotesi. 26ο giornale ligustico thii fais'ti. — A linea io.1 si disse che thii vale pose, consacrò, onorò ecc. - Falsti è tradotto da Corssen (i, 503 e 2, 43, 127, 191) luogo sepolcrale, elevatezza, turno lo 01-nato. Di fatto, lasciando a parte 1’ ornato, se falas', veduta a linea 13.* esprime: sommità, altura ecc. falsti, 0 falasti ha la stessa radice e uguale svolgimento, onde a noi pure sembra il falastio, cioè - quello che è alzato, l’altura delle pietre, 1 monumento. — In celto gallico fus , fana sare vacuo, che qui additerebbe il vuoto, la cassa pel cadavere, ossia il contenente pel contenuto, ma questa ultima ra ica e è meno esatta della prima, talché falsti deve essere la mora di Dante. Sotto la guardia della grave mora. jé.a Linea. V-elthina huì naper penexs' Veltina (poi) siccome avente potestà sui sepolcro. Velthina hut. — Velthina è noto. Hut si vide 111 diverse iscrizioni e si credè un pronome avverbiale: come, ancora questo ancora, di nuovo ecc.: simile è Hod ebreo (etnisco Hut) di nuovo; ut latino : come, siccome; ut, ud, sanse, su, via Corssen inclina a interpetrarlo quale pronome questo, mio, e veramente preso qual pronome, o avverbio, sempre si tio verà in armonia col resto del discorso. naper penexs’. — Naper, cioè sepolcro, già si studiò. Quanto a peness o penexs Vermiglioli lo traduce, appi esso, vicino, in potere: per Corssen vale Penati Fabietti cita Campanari, il quale paragona penexs a prosecato, quasi. tagliare, incidere. È facile vedere che questi due ultimi confronti poco appagano, perchè i Lari etruschi mai si trovano chiamati Penes e sempre Lares, e la forma penes si è stiasci nata nel confronto detto ove si cita pendo per seco , sta in vece spontanea nel latino arcaico : penes, cioè : in potere, frase GIORNALE LIGUSTICO 2 6 I che usavasi verso persona la quale aveva una potestà , quasi a significare: può: ha potestà: la versione di Vermiglioli è dunque da preferisi. 17.* Linea. jyiasu acnina elei afuna Vel — (da unirsi a linea 18.a) postosi in misura un’agnello, (.sacrificò) sul sarcofago di a fon io. Wlasu acnina. — Masti è porsi al luogo, in misura (V. linea I4.a). Acnina, sembrò così al Fabretti che al Corssen Vagnella; di fatto la parola è tanto simile al latino: agninus, agnina, da non lasciar dubbio. Si noti qui la forma etrusca al solito più che laconica — Veltina si pone al luogo, e un’agnella sulla fossa di Afonia — sacrifica, offre, porge? — il verbo è omesso. Clel afuna. — Clel solo dal Corssen fu studiata e tradotta per cella, camera funebre, e noi accogliamo tale versione ma in altra forma. Clel è un’abbrev. di Cde-l . Cela, dice Deecke, 2, p. 511, è la Camera della tomba. Bardet. 1, p. 122 ecc. deduce tal parola dal gallico Cel: cava, ripostiglio, e Celti nascondere. Aggiungeremo che anche il gallese Gaigai, mora, sassi ammucchiati, in etrusco suonerebbe Calcai e in sintesi Clal, alla gramm. § 3 e 5, si notò però che le finali in L indicano il pronome : egli, suo ecc. o un diminutivo-vezzeggiativo come il nostro ola ecc. Clel etrusco è dunque Cellula (sepolcro), o Cella sua, Cella di, Cella di lui (Afonio) — Afuna. 18.a Linea. Vel-thinam Lersinia inte mame-r (la R presa a linea 19.») I Vellinii-Lersinii durante marzo. Velthinam. — La finale nam, rara in etrusco, crediamo, qui in specie, che sia di spettanza — i Veltinamii — cioè quelli di casa Veltina, ossia i Veltinii. — In Atum-ics della 262 GIORNALE LIGUSTICO linea 12.a lato minore, si ha una modificazione simile, là variata in attenenza — ornici. Lersinia. — Tal vocabolo è dal Vermiglioli posto fra i nomi, e tradotto Lacinia; a noi questa mutazione di forma sembra arbitraria e lo scriviamo — Lersinia — forse derivazione di Larcio 0 Larsio. Di fatto a linea n.a si vede che a questo funerale vi erano le genti Larcie.e Afonie; dunque seguirono Veltina: i Larci, gli Afoni, Aulesio , Veltino, d’Arsana (linea 9.“) e adesso i Lercini o Lersini, giacché lersinia non è che un derivativo , declinazione in A — gente Lersinia — Lercinii. inte. — Nessuno tradusse questa parola, la quale crediamo una forma prisca del latino inter, significante: tra, fra, pendente il, durante lo, in quel mentre e simili, giacché fra le parole di italico antichissimo si nota : interamna (Lami ant. toscà. 2, p. 380) fra due fiumi (fra l’acqua). Marner. — È anche essa parola di origine Sabina, secondo il Lanzi che la studiò e la tradusse — marzo. Nel canto dei fratelli arvati si trova in più forme questo vocabolo. 19.* Linea. R (unito a mamer) cnl Velthina zia Materie (insieme) alla stirpe Veltina un dono di Cereali. Cnl Veltina. — Cnl sarebbe abbreviazione ignota, ma essa si trova in: CiNeaL irlandese, che vale: razza, famiglia e sopprimendo all’ ebraico le vocali di Cineal resta Cnl etrusco il quale corrisponde pure a Cenai, cimbro, con uguale significato. Se a ciò aggiungiamo il Cna di Fabretti in senso di nascere e le note attenenze etrusche : Cna, Cnal, al ecc. si avrà la certezza che Cnal, Cinal 0 Cenai, in sincope Cnl significa : gente , stirpe , progenie , famiglia. Si disse altrove che al per noi è attenenza dativa. Velthina pure è noto. Ί GIORNALE LIGUSTICO 263 Sia (0 zia) Satene. — Pel Corssen χία vale — diè , dà e il dono — Satene giusto , sacro e farro. Che la forma : Sia nelle versioni muti in di appare anche dal nome etrusco ^mmithe : Diomede (Fabretti), ^zcolom diem ecc. ma Sia, χία per dono, avrebbe confronto nello Scia ebreo : dono. Quanto a Malene, cioè Satene, il Fabretti in Satame , Sate, vede il sacello (cappella, cella), ma da un altro lato in sanse. Çaktu è farina e orzo , cui corrisponde Sator latino seminatore e Saia, seminati e biade. È difficile cogliere il vero significato tra : dono al sepolcro e dono di farina, 0 semi, cereali, ma noi preferiamo quest’ ultimo. ro » unea. Tesne eca Velthina thuras' th — (a linea 2i.a) Dieci e uno Velthina sacrificava. Tesne eca. — Tesne pel Corssen 2, p. 57, 502, tesns' pel Fabretti glossa, desen pel Mazzoldi : 2, p. 205, equivalgono a: dieci. A noi pare che tesne sia il dieci, il decurio, singolare e tesnes' e tesns’ i dieci o i decurioni. Questa distinzione oziosa in italico, sembra opportuna in etrusco, ove. anche — Eca — fu tenuto dagli interpetri e pel pronome questo e per la voce immorale uno : come in sanse. Eka uno, unico solo e che facilmente mutasi in — questo. Così a linea 4.* — tesns' teis1 — dieci e due sono in plurale, e qui tesne eca: dieci e -uno sono al singolare. È notevole che in lingua italica corretta seguasi una norma simile, attribuendo all’ unità i singolari, onde scrivesi ventunesimo anno, ventidue annz; tesne eca è dunque : dieci e uno. Velthina thuras. — Significa: Velthina faceva sacrificio come si disse a linea 6.a È una modificazione del verbo thur : incensare , celebrare, sacrificare (gramm. § 18): ma thuras esattamente esprime — sacrificava 0 una frase verbale come : dava olocausto, faceva offerta. GIORNALE LIGUSTICO 21.* Linea. Th-aura Iielu tes ne ras'ne cei Tori pel banchetto e la Decaria Etrusca di quelli (cioè dei Jori). Uralica lielu. — Thaura è voce già nota , solo alcuno la interpetra : Toro o Vacca, mentre altri credono che esprima i giuochi Tauri, ove pure si mangiava carne di Toro. Helu secondo il Corssen significa Rosso, Fulvo: nel caso attuale però tal qualifica insignificante toglierebbe al discorso 1 unica parola che lo completa, quindi Flelu devesi paragonare al latino antico Heluo mangione: e al posteriore Helluo, da Helluor divorare, mangiare. Helu etrusco, preso come parola, con la finale u indica il nomin. sing. Pranzo, Banchetto; preso come verbo è participio : divorato, da esser mangiato. Si noti qui che Taura sarebbe un singolare, eppure i Tori uccisi furono undici, sembra dunque, come sopra si disse di Eca singolare, che Thaura concordi con esso. Tes'ns ras'ns. — A linea 4/ e 20.a si parlò di Tesne — dieci, Tesnes' — i dieci; e a linea 5-a si vide che Ramnes' erano gli Etruschi: qui Rasne è singolare come Tesne, dunque devesi tradurre — il dieci etrusco — cioè : la Decuria Etrusca: 0 forse il decurione etrusco. Cei. — Secondo il Tarquini vale dolenti. Ciò può essere, ma noi anche in altre iscrizioni lo tenemmo qual plurale del pronome Ce, che significa: esso, questo ecc. onde cei, questi, quelli, quali. Anche il Bardetti p. 204 osserva che Ce: (dal gallico) esprime — con quello, e insieme, in compagnia. 22.·' Linea. TenS' ίβίΥ Ras’nes' chimth s'p - (da unirsi a linea 23.*) ne dette due . Gli Elruschi cinque volte. Tens1 leis'. — Questa frase si confonde quasi con tesns' teis' (dieci e due) veduto a linea 4*a ove si osservò che il GIORNALE LIGUSTICO 265 verbo dare ha forme simili. Difatto Teis', qui come a linea 4«a vale due, ma Tens’ non è Tesns'. Alla coniugazione del nostro verbo Dare si troverà: Tens' — dettero e dante — qui dunque la decuria etrusca fu — dante dite di quelli — (cei, cioè quei lori) 0 di quelli i decurioni ne dettero due. Ciò alla lettera, ma nelle versioni non occorre esser pedanti. Ras'nes' chimlh. — Dei Rasni si è parlato assai: qui è plurale — Raseni, Etruschi, Chimlh fu tradotto dal chiaro Fabietti nella Glossa come voce numerale — Cinque — si sa però che nello stile etrusco, cinque vai pure : cinque volte. 23.* Linea. Mp-el thuta s'euna afuna mena il farro sparsero sulla sepoltura afonia (in onore 0 alla) Luna. Wlpel thuta. — Il Fabretti suppone che Γ etrusco Spelti sia il nostro Spelda. Ciò noi pure crediamo , perchè anche il tedesco ha: Spel%_, cioè spelda, che è il latino: zea. La spelta o spelda, era una specie di grano, ma tradurremo — farro — perchè il nostro grano non era posseduto dagli etruschi. Nel lato minore di questa iscrizione troveremo anche Mpelthi, del quale Mpel pare abbreviazione. Thuta poi non bisogna unirlo a farro, ne leggere — Spel-thuta — quasi : infarrata, perchè Thuta è una forma di dare, quasi Ditta, cioè : data. Così lo traduce anche il Corssen, il quale pubblicò una traduzione di questa iscrizione che può ancora vedersi nel Glossario del Fabretti. Questa però è la sola parola che noi prendiamo da tale versione, sembrandoci che il metodo del Corssen, di interpetrare tutte le parole a lui ignote come nomi propri, sia il nemico nato di ogni progresso. Forse a rigore da Eta-etutu : andato si avrebbe : etuta 0 Thuta, andata (Eleni, gramm. § 17) ma andata, gettata, sparsa, 266 GIORNALE LIGUSTICO è forma rituale come data : quindi: Spel thuia: la spelta tu sparsa o data: in altra forma : sparsero il fai io. Mcuna mena. — A linea io.a trovammo Mcuna e vale sepoltura, chiusura, tomba, mena è la Luna come dea infera. Su questa molto altrove si disse, ma per adesso ci appagheremo di notare che il Fabretti pure traduce mena ««-(luna). 24.® Linea. Hen naper ci cui hareu tus'e g così pare sull3 oliar io, che dalle famiglie (ebbe) preci e incensalo™. Hen naper. — Veduti a linea 5/ e altrove significano — così sulla tomba, del pari sul sepolcro. Ci cnl. — A Tarquini, a Corssen e a noi — Ci sembiò il relativo — che, quali, altra forma di Ce o Cei sopra vedute e che Γ italico pure ha ereditate. Cnl venne studiato a linea 19/: Cenai genti, famiglia, stirpe. Hareu. — Questa voce non fu studiata, solo il Corsenn la traduce: farina, focaccia, ma crediamo ch’egli s’inganni. Tarquini crede che Hare significhi auguri, incanti, e il Vermi-glioli preci. Veramente il latino Hariola (indovina), con simili voci esprimenti arte augurale, inducono a vedere in Hare, Hareu un atto di augurio, di indovino 0 di prece augurale. Fabretti registra la voce Hare-tuse come ignota, citando pero Campanari che la interpetra : fare sacre preci. In sanscr. Han, Hara, è la fiamma, il sole ed altro: forse la voce Ara, che per gli antichi era altare, ma in tutti i riti serviva sempre come il luogo del fuoco , viene da Hara suddetto, e allora l’etrusco Hareu dovrebbe esprimere : il fuoco fatto , il fuoco acceso e simili, ma come si può indovinare qual grado di modificazione abbia assunto da popolo a popolo una voce ? certo è che gli auguri, gl’ incanti, le preci, dagli etruschi, come dai romani, si facevano quasi sempre accompagnate da arsioni, quindi Hareu deve essere un fuoco sacro , acceso GIORNALE LIGUSTICO 267 a scopo di intercedere, pregare, oppure la prece stessa, che prese il nome dai modi con cui il rito soleva imporla. Tus e (tuse). — Nel latino arcaico Tus, poi Thus , significo . olibano , incenso, odore e bene in esso si vede Γ ana-logia, anzi Γ eredità, del Tue, Tus'e etrusco, che esprime la incensata la suffumigazione. Altri pure in questa e in simili voci videro lo incenso, il sacrifizio, la offerta di odori. (lato minore). ■ ■» a.” ì.a Linea. Velthinas' atena siici enesci ipa : Veliina per minerva un porco uccise e libò : Velthinas' atena. — La i.a di queste voci si trovò a linea 2.a — Atena, ha confronto in Athena di Rosa, il quale (Voi. i, cap. 6, p. 183 orig. d. civiltà) dice tal Dea sacra ai Pelasgi ed Etruschi e venuta dal Nilo con Cecrope. La differenza fra ΓH, interfissa od omessa di Atena, non muta il nome, come si mostrò a linea 3/ parlando di Caru. È noto del pari che in Grecia questa Dea si chiamò Minerva, ma Atene città col suo nome, mostra che al tempo delle immigrazioni pelasgiche la Dea era Atena e non Minerva. Suci enesci ipa. — Sono voci commentate a lin. 5.% 7.% 8.a ecc. da tradursi — un porco uccise e libò. 4·“ 5·η 6.λ Linea. Mpelane thi Fulumchua Mpelthi. Spelano la onorò (col sacrificio) di un giovane cavallo e farro. Mpelane thi. — Vermiglioli (ant. iscr. perù, ind.) vede in questa voce il nome Pelenio 0 Pelanio. In questo caso pare che la radice stia nel casato Pele, da cui derivò il sub-cognome : Pelani o Spelani. Il Fabretti però legge : Mpelanethi e lo interpetra libum, che era una focaccia fatta pei sacrifizi 268 GIORNALE LIGUSTICO e composta di farina, miele e olio. Veramente in etnisco il cognome Pele ha vari esempi e modificazioni, invece Mpt lane è solo, mentre nella radice — Mpel già si vide la Spelda, ossia Orzo. Il dotto Fabretti potrebbe dunque avere ragione, bene inteso leggendo la parola: Spelane, giacché thi, a linea io. e 15.“ si tradusse far sacrifizio, onorare ecc. Se si tiene Mpelane — per nome, allora è Spelano che onorò Minerva. Se invece tal voce si traduce per focaccia 0 libum, allora Fazione ritorna a Velthina, il quale (linea 6. ) un porco uccise, libò (linea 7.“) — porse in sacrificio una focaccia e altro che vedremo. Però la Spelda è nominata alla susse guente parola. Fulumchua. — È vocabolo non ancora tradotto , il quale mostra nel finale : cima la sua pertinenza con Fulu. Di essa finale si parlò a iscrizione 87. La radice è dunque in Fui, Pul, Fulu, Puh. Il Corssen deduce fulu dal fullo latino : follatore, gualcheraio, ma questo non può connettersi al sigm ficato della iscrizione presente , e di fatto il vocabolo espri mente un’opera di arte raffinata raramente si trova nelle lingue dei popoli prischi. In sanscr. fulla, o meglio pulla, phulla è il Germe da cui viene: pollone, fronda, pollo, pul cino, poliedro : quindi il persiano pai, fai e anche 1 arabo fuluw accennano : cavallo, poliedro, cui risponde il latino pullus: nato, germoglio e poliedro come lo spagnuolo poi lastron: giovane, alto e delicato: Pollo, pulcino e Pollino, asino. Appare da ciò che la radice suddetta, come ano-semita, dovè appartenere alla prisca lingua umana e che fulumchua, etrusco, vale : attenenza della cavalla : il giovine cavallo, il poliedro. Il sacrifizio del cavallo o del mulo: non è pelò nuovo nei monumenti etruschi, anzi essendo il cavallo consacrato a Minerva (Atena) sopra detta, l’interpetrazione così intesa delle due voci le avvolora reciprocamente. Mpelthi. — Veduto a linea 23/ ecc. è farro — qui al ge- GIORNALE LIGUSTICO 269 nitivo : o — Spel-thi : di farro onora , farro sacrifica , fa offerta ecc. ma ciò è poco probabile come ora vedremo, e Mpelthi deve essere una sola parola — di farro. ~‘·■’ S-J Linea· Renethi emtac . Velihina asperso con acque lustrali . Veltina. Renethi. — Renes antica parola che si fa derivare dal greco in significato di — Rivo -—- ha pure altre origini. Bardetti (op. cit p. 151,155) notò che dal Gallico — Ren-fluente, nacque il nome al fiume : Reno. Per questa etimologia Renethi etrusco esprimerebbe : le renelle, cioè : le fluenti, che nel caso attuale essendo fluenti per aspersione, dovrebbe tradursi — asperso con acqua. — La radice prisca si trova però nel sanse. Ray, Ri: andare, scorrere e nel zendo Rudh: fluire, questa forma si modificò poi nelle varie lingue: Ravvan (persia) liquido, Rinno (gotico) torrente, Ryne (anglo-sass.) corso d’acqua, Rud (perso e afgano) Riviera, che è il zendo Rudh fluire, Rami (germanico) colare, Ren (celto-italico) fluire. Ecco perchè noi crediamo che: Reno, Rodano, Ravenna e simili nomi, benché non uguali, tutti alludano all’acqua. Avendo altrove incontrato Thi, che si tradusse onorare , sacrificare ecc. alcuno domanderà se Mpel-thi: Rene-thi non è invece una ripetizione di formula sacrificale. Non sarà facile distinguere caso da caso, ma in etrusco vi è il Thi offerta sacrificale e il Thi forma di attinenza, che corrisponde all’ italico esia, %io ecc. per esempio nei nomi Arnthi (Passeri e Lanzi) Arunzio, Arunte: Anilhi (Corss.) Anisia : Cii-sarthii (Lan.) Cesarsia ecc. Modi simili si riscontrano nelle parole e lo notammo a iscriz. 283 ove è : Muthith, funebre, sepolcrale) e Muthiti, doppia forma della stessa parola, che per conseguenza è modificazione grammaticale e non sacrifizio. 2ηο GIORNALE LIGUSTICO Es'tac Velthina. — Es'tac sembra parola di origine osca: se esprimesse : è o sta andrebbe unita a Veltina nel tradurre. Ma seguimmo Passeri (Voc.), che in questa e voci simili (Esto, Este ecc.) trova il verbo essere, con forma rituale usato per sacrificare o far voto: in ciò seguito dal Coissen, 1. 508 e 2, 222, che traduce Es'tìa: sacra offerta, sacra oblazione : questa voce Es'tla è appunto a linea 3-a (lato maggiore) e colà si tradusse alla lettera cioè : vi è: sta presente: ma poteva del pari interpetrarsi : sacrifica. Qui si parla di — Renethi — (o aspersione di acque), che sono Estac, cioè sacre, sacrificali: tradurremo dunque — lustrali giacché tali erano le acque date a uso sacro o sacrificale. Velthina è noto. 9-a 10.a n.a Linea. Acilune turune Mcune zea suci sulla copertura del (monumento) in offertorio del sepolto fece dono di un porco. Acilune. — In Acilu, Acilesa ecc. 1’ etrusco ha certo nomi, la cui radice è Acilio , ma qui un nome posto subito dopo Velthina sarebbe fuori di luogo e ancora la finale une sem- ... brano indicare una parola anziché un nome. In Adi si può vedere un vocabolo complesso, o un di, kil, quii, gii, al quale serve di privativa Va prefissa : genere di negazione passata dal greco al latino-italico , ma la origine della quale è sanscrita. Le radici in ac, ag, as e anche in di accennano a significazioni di : punta, vertice ecc. come da aç sanse, penetrare: kila dardo e punta, scritto pur Çili: questa forma nelle lingue derivate si è aggiunta VA senza forza privativa, quindi: acies, acer, ago, acuto, corrispondono a — punta, vertice. Invece a-kila, paragonato ad acil con A privativa, varrebbe: spuntato, ovale e simili; così aquil, aquilinus, latino curvo (come il becco d’aquila) è un an 0 am-cisum — spuntato, ovale, da GIORNALE LIGUSTICO cui ancile nome di scudo rotondalo (che surrogato nella prefissa am; an, da A sanscr. e greco-italo privativa) resta a-cile come acil etrusco suddetto. Trovammo acil anche alla iscrizione 75, e là pure ci sembrò uno scudo, una copertura o difesa; la Versione non è certa, ma è quella che conviene al significato delle promesse, e che si potè logicamente dedurre dalle ìadicali CU, Acil, Aquil. — La finale Une è poi di spettanza , quasi acilonio, ciò che attiene alla coperta o difesa del sarcofago —- la copertura — la pietra sovrapposta — la chiusura del mausoleo. Turune. Pel Corssen tal voce vale — turribolo : incensiere, ma noi avendo distinto negli elementi Gram. (§ i8), il verbo Tur: dare, offrire, da Tus : incensare dobbiamo in-terpetrare turune, da tur, come offertorio , donario, essendo une finale di spettanza. EVlcune. — A linea 23.a trovammo Mcuna: sepolto, qui si ha il genitivo. zea suci. — Anche queste voci a linee 7.» 19/ ecc. si tradussero -— dono e porco. «2.» 13.» 14.» Linea. Enesci. Athumics' Afunas’ penthna che immolò. Le genti ate per Afonio intervenute. Enesci Athumics'. — La prima voce è nota : la seconda solo il Vermiglioli (op. cit. indice) la interpetrò qual cognome — Attonii. In massima l’autore ha ragione, ma questa parola con la M finale indica un plurale di attenenza — i°s' — (ici) corrispondente al nostro Atomici. La radice etrusca è però athu, atb, cioè ato o azio ; gli — atomici — sono dunque : quelli di a^io, le genti ate. Afunam penthna. — Afunam è noto ; penthna invece è voce nuova, giacché solo da alcuno fu paragonata al — cinque — greco, significazione qui fuori di luogo. Dal sanscr. pat, pani, GIORNALE LIGUSTICO andare e pantha: via, si ha il giusto confronto con tal \oce. È vero che la forma etrusca include VE: penthna, mentre il sanscritto (il quale usa ben parcamente dell’-E) ha pantha, ma però dai confronti con lingue figlie si trova 1’ equivalenza, così pAtti sanse, è il pEdester latino : pAd sanse, è il pEs. latino, piEd italico, piE spagnuolo, mentrechè in passo si ritorna al pat. Penth etrusco vale dunque : pare, la via, muoversi, fare. I’ andata e la finale na significa : quivi, presenza in quel luogo, sede ecc. onde penthna : quivi andati, intervenuti. i).a i6.a 17.a Linea. Ama Veithina Afun turimi ein la madre e Veltina ad Afonio fecero offerte: ancora. Ama Veithina Afun thuruni. — Queste sono parole già esaminate, cioè: Madre, Velthina, Afonio e fare doni, dare offerte. Ein. — Secondo Vermiglioli significa — in. Per Corssen vale: di nuovo, ancora, così, similmente, e. Altri puie lo interpretano quale avverbio; è in sostanza una particella come il latino: en, eia, in er.im, etiam, della quale e difficile piescri vere 1’ esatto significato , forse appunto perchè ne aveva diversi avverbiali. 18.a 19.a 20.a 21.a Linea. Zeriun accha thii Thun-chulth-l ich ca cechasi chuche. Sulla cella sepolcrale Γ iscrizione posero — in culto di lui; abbia questa la tomba per sempre. Zeriun accha. Zerium, dice il Corssen (1,495> 79^ e 2> è l’olla, l’urna cineraria. Veramente anche Seritu umbio di Fabretti — serbato — concorda per fare di Seriun il serbatoio, cioè : la cella (sepolcrale). Così dal servo latino : custodire, conservare, si potrebbe dedurre che il Seriun etiusco GIORNALE LIGUSTICO 373 sia il serbatoio. — akka in sanscr. è la fossa : akka-nika — chi fa fosse mortuarie, quindi Seriun — accha (0 akka), etrusco è una frase che vale — serbatoio fossa, cella sepolcrale o ollario, il quale è fossa e urna. Thii. — Si vide a linea 10.“ che è l’epigrafe, l’iscrizione. Thun-chulth-l. — Questa frase in più modi fu tradotta da diversi scrittori , ma non riferiremo quelle varie opinioni, perchè essa è l’insieme di voci che già abbiamo osservate. Di fatto Thun è il verbo dare e Thun o Thuns significa — dettero, ma per servire alle forme italiche si tradurrà: posero: thii, thun — l’iscrizione posero — Chulth (tolte le H interfisse) è il Cultus latino, di cui si parlò a linea I2.a del lato maggiore. L finale è un pronome — egli, lui, questo ecc. del quale molto si parlò in diverse iscrizioni: cosicché Thun-chuthl devesi tradurre — Dettero in culto di lui — posero in suo onore e simili frasi. ich ca. — Vermiglioli traduce ich — là, colà, in quel luogo, onde il latino Ulte, illue, con lo stesso significato, sembrano le forme derivate di ich etrusco. Fabretti (Glos.) pero osserva , che questo ich vale pure come — abbia — ed egli ha ragione, giacché in etrusco il verbo ausiliare essere o avere, è spessissimo surrogato da forme avverbiali e pronominali, come il frequente mi usato per io, io sono e sono, fui. ■— Ca. in sanscr. equivale al que latino. In etrusco pel Lattes (istit. scienze, n, 3, p. 7, del 1870) è un pronome, 0 torse un’avverbio. Veramente anche noi avendo tante volte tradotto Ce — questo, crediamo che Ca ne sia una torma, forse femm. ma anche il Corssen (1, p. 800) traduce Ca questa. Ichca dunque significa : qui (sia) questa : abbia questa. Cechasi Chuche. — In altre iscriz. si mostrò che Cecha è la : baia, la nera (tomba), come il latino Caecus vale . privo di luce, oscuro, nero e anche ascoso — Cechasi pei noi ha l’attenenza si, cioè : sepolcreto, ollario, il luogo ove fa buio. 18 Giorn. Ligustico, Jinno XI. % 274 GIORNALE LIGUSTICO Il Fabretti nota però che il: si etrusco può significale : sii o sia e allora dovrebbe tradursi che — l’iscrizione sia della tomba (Cecha). L'espressione equivale e nello stato delle cognizioni ajtuali sull’ etrusco non si può in tutto decider e con sicurezza. Ciniche finalmente, se udiamo il Corssen, devesi leggeisi cliniche, con i presa a cechcisi, ma il dotto tedesco eiia. Fabretti scrive : Ciniche e traduce — quoque (o libazioni ?) Ver-miglioli pure legge Chuche e traduce — dar suono Bai-detti, op. cit. p. 275, in hiketes vede l’umbro Seniori e Curii. A dir vero il sanscr. ha culto. o Çuka — turbante, caschetto, da cui crediamo che derivi il Cucullus, latino e cocolla italico, cioè mantellina con cappuccio , che fu in antico veste più o meno patrizia, talché concorderebbe coi Seniori di Bai -detti. Nondimeno nel caso attuale ci rembra che il eh. Fabretti abbia colto nel vero. Quoque latino, letto come comporta l’alfabeto etrusco, diventa : Ciniche, chuchue e simili voci, quasi uguali a Chuche: anche in sanscr. hi, fra gli altii significati ha quello di — molto, quantità, onde bisogna intei-petrare il quoque latino, come ciniche etrusco, largamente : molto, ancora, ognora, sempre ecc. CONCLUSIONE In questo modo noi crediamo che (salvo qualche parola sulla quale può disputarsi) il significato della iscrizione Perugina sia fedelmente interpetrato. Quanto al metodo, forse alcuno ci dirà: voi non avete limiti assegnati: come Molière prendete il vostro bene ove lo troverete e questa larghezza, sentendo di empirico, diminiiisce il valore delle vostre inter-petrazioni. GIORNALE LIGUSTICO 275 A ciò rispondiamo. Se con limiti certi , se , per esempio, coi confronti delle lingue : greca, latina, volsca, umbra, osca, si poteva tradurre P etrusco , già esso sarebbe al tutto noto per le opere di Lanzi, Passeri, Gori, Vermiglioli, Fabretti, Corssen. Invece questi valentuomini non giunsero ad intendere che una parte della lingua etrusca; era quindi mani-testo che il campo interpetrativo andava allargato, e noi lo allargammo, primamente e in massima parte atttingendo dal sanscrito, il quale come idioma prisco, e fonte d’interpetra-zione da tutti accettata : ma nelle lingue figlie, anzi appunto perchè sono figlie o derivate, le forme variano un poco dalla 1 adice materna, quindi un modo etrusco che non ha confronti sanscriti, nè greco-latini, li avrà forse celtici 0 germanici ; e che perciò ? Le principali lingue antiche e moderne d’Europa non sono forse ariane ? ossia sorelle nella filiazione di un tipo indiano, vedico o sanscrito ? — Se questo è vero, ci sia permesso di paragonare le parole etrusche così a quella della lingua madre , come a quelle delle sorelle , senzachè il metodo sembri empirico , nè la versione resti sfatata , giacché 15 etiusco stesso è filiazione Inda, e per conseguenza può avere parole simili a ogni lingua , che discenda dalle origini stesse. Quindi porre il sanscritto come fonte interpetrativa , le lingue figlie come nersilio, è il metodo che riceve nella presente versione il suo compimento. VARIETÀ Il processo di Jacopo Bonfadio. Le opere dell’infelice letterato di Gazzano, dopo che nel 1744 ne erano state raccolte le lettere (1), vennero in luce (1) Lettere famigliari. Bologna, Longhi, 1744. 276 GIORNALE LIGUSTICO nella stampa del 1746-47, mercè le cure dell’ab. Antonio Sambuca segretario del cardinale Quirini (1). Ma poiché in breve Γ edizione si era esaurita, pensava il Sambuca a procurarne una ristampa accresciuta e migliorata (2); cercando eziandio notizie per chiarire meglio alcuni punti rimasti ancora oscuri nella vita del Bonfadio, dettata in servizio della prima stampa dal conte Giammaria Mazzuchelli. A questo proposito si rivolgeva nel febbraio dal 1749 al governo genovese con là supplica seguente (3) : Serenissimi Signori L’ umilissimo oratore delle SS. Vostre Ser.me Abate Antonio Sambuca segretario dell’Eminentissimo Querini, si dà 1’ onore di loro ossequiosamente esporre che siccome più motivi lo hanno indotto non é molto a raccogliere e pubblicare le opere del tanto rinomato Bonfadio, così i medesimi lo fanno ora risolvere ad una seconda edizione, giacché sonosi esitati tutti gli esemplari della prima. 11 principale di essi motivi egli è __ il fine di dare nuovemente in luce la storia assai rara di Genova, di uno scrittore sì colto e sì leggiadro, e dar mano a simigliante intrapresa in un tempo in cui il mondo tutto ammira l’intrepidezza e valore di una Repubblica, la quale a’ di nostri ha fatto chiaramente vedere, che l’antica virtù non solamente non è spenta, ma anzi che è più invigoiita negli animi italiani, e i di cui cittadini, e sudditi non hanno punto degenerato dalla fermezza e costanza de’ vetusti e più recenti Liguri, ma loro anzi hanno accresciuto nuovo lustro immortale, e pregi senza esemplo di eterna ricordanza. Già qualche cenno si è di ciò fatto nella prefazione alla stessa storia, ad oggetto di rendere la dovuta giustizia ad una nazione sì valorosa ; molto più dirassi in un’ altra che si pensa di premettere alla nuova ristampa degli Annali. Ciò stante l’Abate suddetto supplica riverentemente le SS. Vostre Ser.me a voler benignamente degnarsi di far estrarre dall’ augusto segreto loro archivio, e partecipargli (1) Opere volgari e latine. Brescia, Turlini, 1746-47; voi. 2. (2) Novelle lett. di Firenze, A. 1748 col. 780. Cfr. Mazzuchelli, Scritt. Hai., II, 1617, n. 96. (3) Archivio di Stato, Iurisdict. Fil. 1233. GIORNALE LIGUSTICO 277 le più certe notizie del tempo e della nascita, e della morte di esso Bon-fadio, con quelle particolarità, che sia lecito di riferire intorno alla di lui vita, come altresì di comunicargli, se mai in esso archivio vi fossero, altri scritti di tale autore Greci, Latini e Volgari, i quali estraendosi e pubblicandosi recherebbero vantaggio e piacere agli amatori delle umane lettere. Spera il supplicante di conseguire dalla benignità di VV. SS. Ser.me favorevole rescritto, tanto più che ridondare ciò dee in somma giustissima gloria della Repubblica Ser.ma, promottrice ancor essa delle belle arti in tempi sì illuminati, ne’ quali i più eccelsi Principi si recano a gran vanto di proteggere le Ietterei e i letterati. E profondamente s’inchina. Detto Supplicante. La Giunta di Giurisdizione, alla ouale era stato commesso ' 1 di riferire, suggerì di operare qualche ricerca nell’archivio segreto, per vedere se si poteva trovare il processo; e perciò i Collegi davano a quest’ uopo « facoltà al Presidente del· 1’ Archivio segreto di far aprire la Cassa di ferro ». Ma le ricerchè riuscirono infruttuose, perchè il segretario trasmetteva ai Collegi questa nota : « L’asserto processo contro Giacomo Bonfadio non si è ritrovato nell’archivio secreto, non ostante le replicate diligenze fattesi per rinvenirlo, particolarmente nella Pandetta de’ processati e de’ condannati relativa a’ fogliacci dello stesso archivio, la quale si riferisce anche agli antichi processi di Lesa Maestà racchiusi nel Cassone di ferro, e supplisce in questa parte al difetto della pandetta generale delle scritture custodite nel medesimo Cassone; onde non pare vi sia luogo di aprirlo per la presente ricerca ». Intanto il Mazzuchelli ricercava anch’egli a Genova per via privata notizie intorno alla morte del Bonfadio; ma da Lorenzo de’ Mari, officiato a questo fine dal marchese Trivulzio, veniva riferito come le più diligenti ricerche fossero riuscite senza alcun frutto, di che accagionava i bruciamenti avvenuti in Archivio per le bombe del 1684, e lo smarrirsi delle carte 278 GIORNALE LIGUSTICO nei trasporti a cui furono soggette (1). Se non che ove si consideri che le indagini dei Deputati all’archivio segreto vennero fatte sulle pandette, la cui compilazione , come si vede da altre che rimangono, poteva anche datare dalla meta del seicento, e perciò innanzi al bombardamento, conviene dedurne che già fino d’allora mancassero tutte le calte che si riferivano al processo e all’infelice scrittore. Discusse il Mazzuchelli nella vita del Bonfadio, tre volte stampata (2), due punti assai controversi; quando cioè fosse avvenuta la morte, e quale il delitto per cui fu condannato ; ma nella terza edizione soltanto produsse la nota ritrovata a Genova nel Registro de’ condannati, tenuto dalla Compagnia della Misericordia, ed oggi perduto, che pone al 19 luglio 1550 la decapitazione nelle carceri e il successivo bruciamento del Bonfadio (3). Il quale documento tronca, a mio parere, qualunque ingegnosa ipotesi, rinnovata di recente, sulla non eseguita sentenza e intorno alla morte avvenuta più tardi in carcere per via naturale (4). Per ciò che tocca il secondo punto, non era sicuro, perchè mancava la prova diretta, se il delitto appostogli fosse di sodomia; ma anche qui, lasciando stare se l’imputazione non ricoprisse qualche altra causa segreta, ci hanno soccorso i documenti, i quali dichiarano che « fuit incarceratus prò crimine sodomitico » (5). Il supplizio del Bonfadio se valse forse a frenare momentaneamente il vizio nefando, non ebbe virtù di spegnerlo affatto ; (1) Mazzuchelli, Scritt. cit., II, 1615, n. 84. (2) La prima innanzi all’ediz. delle Opere d. B. 1746; la seconda innanzi a quella del 1758; la terza negli Scritt. itaì. cit. (3) Scritt. cit. II, 1612. (4) ViANi, Lettere filologiche. Bologna 1874, 253 e segg. (5) Giornale Ligustico. A. 1874, p. 288. GIORNALE LIGUSTICO 279 poiché indi a pochi anni, e cioè nel 1555, tornò a divampare con violenza, di che ci reca testimonianza un proclama col quale si dava notizia al pubblico, di un severo decreto repressivo emanato dal governo, nell’ intento di aggravare la mano sui colpevoli. La grida è del seguente tenore (1) : Quanto abbominevole sia il vicio della lussuria usata contro natura, ciascuno per se chiaramente il conosce. Qual peccato per esser stato in tanto dispiacer dell’ omnipotente Iddio, fu con severissimo castigo da Sua Maestà punito. La qual cosa considerando 1’ Ill.mo et Ecc.rao S. Duce et molto Mag.ci S.ri Govern.'1 et Procu.ri dell’ Ecc.sa Repu.“ nostra, et desiderosi per tutte le vie et modi possibili svellere et estirpare cosi nefando vicio, hanno lor S.ne Ill.me per pubblico decreto dichiarato deliberato et statuito, che tutti coloro quali da hora in 1’ avvenire come colpevoli di detto vicio sodomitico et contro natura saranno condannati et banditi, non pensino nè li sia più lecito godere il beneficio del Decreto formato contro li banditi, per quale si dichiara et dispone come possono domandare, rimettere et rebandire li banditi, in modo tale che detti banditi, per il vicio predetto in vigore et forza di detto Decreto non possino esser per alcun tempo mai nè domandati, nè rimessi, nè rebanditi, cosi per ragione che si potessi dire che competessi ad essi banditi,-come esser domandati rimessi, o rebanditi da altri a quali competessi ragione in vigore et forza di detto Decreto, escludèndo al tutto, come si dice, li detti delinquenti del vicio predetto dal beneficio del Decreto disopra, che in qualsivoglia modo non lo possino godere, al quale decreto in questo caso di piena possanza, movimento proprio, et certo sapere, loro S.rie Ill.me hanno derrogato et der-rogano. Et afine che la presente deliberatione et Decreto sia a notitia universale, hanno comandato che se ne facci pubblica grida per parte di loro S.rle Ill.me acciochè in qualsivogli tempo non se ne possi per alcuno pretender ignoranza. 155$ die VI III octohns. Questo documento, che sembra indicare il bando come la più grave pena per il delitto di sodomia, ci fa naturalmente domandare in qual modo, per qual ragione, e secondo quale legge (1) Arch. di Stato, Senato, Fil. 94 n. 390. 28ο GIORNALE LIGUSTICO criminale sia stato sottoposto il Bonfadio all ultimo supplizio. Legge scritta ferma e sicura non esisteva, e soltanto gli statuti criminali dalla più antica redazione (i), alla riforma del 1414 (2)> durata in vigore fino al 1557, stabiliscono che pei il ìeato di sodomia saranno applicati i tormenti; ma questa, secondo ben si vede, piuttosto che una pena, apparisce modo di procedura; ed è notabile rilevare come mentre negli statuti del 1414 viene imposta esplicitamente la pena per il ratto, lo stupì o, e l’adulterio, non vi sia un capitolo speciale contro il vizio nefando, il quale invece comparisce, e gravissimo, in quelli ìedatti nel 1557 (3). Ben è vero che lungo il corso del secolo XV compariscono più volte dei decreti per richiamare il rigore delle leggi contro il malo costume, ma non vi è detei minata alcuna pena. Nè al caso nostro giova Γ esempio di quel corallaio, che nel 1479 « fu attenagliato con tenaglie di fuoco e fatto morire » per aver violato e poi ucciso un fanciullo (4), trattandosi di un doppio delitto; e, sebbene ci sia ignoto il processo, non possiamo ritenere colpevole il Bonfadio di un tanto eccesso. Ma il documento qui innanzi riferito ci assicura che intorno a’ tempi in cui avvenne il miserando supplizio, i sodomiti venivano dannati al bando, e ci induce a rilevare una evidente, e diciamo pure enorme, differenza nella applicazione della pena rispetto al Bonfadio; tanto più se si considera che solamente alcuni anni dopo venne sancito per legge che « praeter naturam lasciventes, tam incubi, quam succubi furca suspensi, igne ultore deleantur de terra viventium ». (1) Statuti della Colonia di Pera in Misceli, di Star. Ital., XI, 513 cap. CLXXIV. Si noti che il Lib. VI soltanto giustifica il titolo; chè gli altri cinque libri costituiscono propriamente i Capitula Communis Janua. (2) Statuta et decreta Communis Genuae. Bononiae, 1498, Crini, cap. V. (3) Criminalium Jurium Civit. Genuensis. Genuae, 1557, Lib. II, cap. 2. (4) Giustiniani, Annali della Rep. di Gen. Genova, 1854, II, $33. GIORNALE LIGUSTICO Noi manchiamo invero degli elementi necessari a determinare il grado di colpabilità dello storico ; ma dal complesso dei fatti, e dalle opinioni che si sono subito levate per attribuire a qualche altra causa, all’infuori del delitto appostogli, il rigore usato verso di lui, pongono nell’animo sospetti ed incertezze grandissime. Le ultime parole stesse del Bonfadio valgono ad avvalorarle. « Mi pesa il morire, perchè non mi pare di meritar tanto », egli scrive sul punto di andare al supplizio (i), e con ciò mentre ammette la sua colpa, nota il soverchio rigore della pena, come se volesse rilevare la diversità ond’ egli veniva trattato rispetto ad altri rei come lui. Il quale sentimento d’ eccesso in ordine alla procedura ed alla pena, si riscontra tanto radicato nella pubblica opinione, che a Roma lo stesso pontefice giudica « essorbitante » il caso del Bonfadio (2). Che il processo fosse condotto con molta sollecitudine, e senza dar luogo alle eccezioni ed alle difese non è dubbio; lo dimostra il fatto che nel marzo del 1550 gii erano ancor pagati i suoi onorari dal Governo (3), e il rimprovero del Papa per averlo mandato a morire, « ancorché allegasse (1) Lettere di diversi eccellentiss. momini. Venezia, Giolito, 1554, car. 181. — Due altre lettere di Bonfadio tratte da mss. dell’Ambrosiana furono pubblicate dal Ceruti nel 1867 (Lett. inedite di dotti ital. del sec. XVI, Milano 1867, 20) di sugli autografi, secondo afferma l’editore; ed appaiono scritte anch’esse, come la citata, a Gio. Batta Grimaldi 1’ ultimo giorno della sua vita. Il Viani le reputa « tre forme diverse » della stessa lettera (Leti, filolog., 256); ma io dico di no. Comincio ad escludere la prima dell’ ediz. Ceruti, perchè evidentemente falsa, di che è prova la diversità e l’incertezza del carattere, la forma, la sostanza e la firma : le due altre assai simili ritengo vere, ma dirette a due persone diverse per Io stesso fine. (2) Bernabò Brea, Appunti sui documenti della congiura del Fteschi, pag. 8 ; in lettera di monsignor Giambatt. Lomellino da Roma 1 Febbraio 15 51. (3) Giornale Lig., anno 1874, pag. 289. 2 82 GIORNALE LIGUSTICO d’ esser prete, senza darli tempo a provarlo (i) »· D’altra parte che cosa è mai questo mistero ondo si circonda il tremendo giudizio, da muovere un contemporaneo, Ortensio Landò, ad asserire che « fu arso per opera de’ falsi accusatori ? » (2). Che significa la cura gelosa di custodire, e poi sottrarre (per me non la reputo cosa fortuita) tutte le carte processuali ? E perchè si vanno a far le ricerche fra i processi conservati nell’ archivio segreto, nè si dimenticano quelli di Lesa Maestà? Concludiamo adunque che se da un lato, secondo i documenti rimane posto in sodo che il Bonfadio fu decapitato ed arso per delitto di sodomia nel luglio del 1550, dall’altro convien pure confessare come da quanto ho esposto si avvalori il dubbio, che un’ altra e recondita ragione movesse i governanti genovesi a qaell’ eccidio. A. N. Il Casti a Genova. Reduce dalla Toscana, dove si era recato nel 1796 (3), giunse il poeta di Montefiascone in Genova Γ anno 1798 sulla metà di Giugno, ed il Censore, giornale del Biagini, dava la notizia con queste parole (4). « Abbiamo in Genova incamminato alla volta di Parigi il celebre Abate Casti, che ha meritato, per tante sue leggiadrissime opere, un nome dei più distinti fra i Poeti Italiani. Ne ha seco una recentissima, cui sinora non ha apposto alcun titolo, ma che si crede sarà detta 11 Regno delle Bestie·, in essa vi sono dei Ritratti molto ben tratteggiati delle persone, che or più figurano (1) Bernabò Brea, 1. c. (2) Cit. dal T1RAC0SCHI, Storia Lett. Ital. (ed. Classici) VII, 1465. (3) Nuovo Giornale dei Lett. di Pisa, V, 74; art. di Rosini. (4) Il Censore Italiano n. 92, pag. 263. GIORNALE LIGUSTICO 283 nelle Corti d’Europa ». Di qui ben si vede come il Casti già avesse riciotto per buona parte a forma di poema, quella serie di apologhi, già finiti di comporre quando andò in Toscana, che, secondo il primo disegno, dovevano stare staccati e ognuno da se, ridotti poi alla nuova forma per le « suggestioni » altrui (1). Tuttavia non aveva ancora ben determinato il titolo da darsi al suo lavoro, sebbene quello detto forse da lui stesso al giornalista, già ben ne indicasse la materia; era per avventura un po’ troppo politico, e a Parigi, dopo aver allungato il poema, con « buon numero di particolarità inutili affatto » (2), lo mandò in luce con il noto titolo di Animali Parlanti (3). Ma un’ osservazione più importante meritano le ultime parole dell’articoletto, là dove si afferma che nel poema vi sono dei ritratti di persone viventi nelle Corti Europee; perchè si debbono ritenere come provenute direttamente dall’ autore. Ora tutti quelli che hanno discorso di quell’ opera vi hanno riconosciuta un’ allegoria generica ed impersonale, ma nessuno, che io sappia, vi ha ricercato dei ritratti contemporanei ; nè ci sembra per ciò fosse al tutto fuor di ragione il governo di Napoli, se intravedendovi queste dirette allusioni, proibivane fosse divulgata la stampa. Da Genova scrisse il Casti ad Antonio Greppi alcune curiose lettere, che per liberale conununicazione dell’ egregio Emanuele Greppi ho avuto in copia di sugli autografi , e qui riproduco. Genova 16 Giugno 1798. Non attesi a Sarzana il corrier di Genova, ma essendovi una buona felucca che partiva da Lerici il giorno 12, mi (1) Nuov. Gior. cit. (2) Ivi. (3) Gli animali parlanti, Poema epico. Parigi Treuttel e Wùrtz, anno X (1802). voi. 3.° in 8.° gr. 284 GIORNALE LIGUSTICO portai colà ben di buon ora, e mi imbarcai con due a Iti i Romani, che quantunque uno fosse ciò che in Civitavecchia dicesi assentista, e cioè quello che ha sopra di se il mantenimento delle galere e dei galeotti e tutto ciò che riguarda Γ armamento marittimo, per cui può avere e credo anche abbia 400000 Scudi, e Γ altro sia commissario, per parte della repubblica romana, della marina, pure erano ambedue bastantemente gretti, e mi parvero aver sì poco mondo, che io li avrei creduti di fresco usciti di collegio. Le calme e i maestrali ci obbligarono ad impiegar due buoni giorni nel tragitto, fermandoci per altro in diversi luoghi della Riviera; ma i tanto temuti corsari non abbiamo avuta la sorte di incontrarli di veruna nazione, nè cattolici, nè eretici, nè infedeli, nè atei. I marinai della mia feluca erano ben repubblicani e democrati. Io domandai loro se veramente credevano di aver migliorato e perchè. Essi risposero : primo che nell’antico regime venivano per governatori e per giudici soggetti mandati da Genova, per lo più poveri e ignoranti, e ordinariamente ex-nobili che pelavano il paese, vendevano la giustizia e l’ingiustizia e se ne ritornavano a Genova colla borsa piena, ma che ora essi stessi eleggono i rappresentanti , e, quello che più importa, i loro giudici e governatori, che, conoscendo essi personalmente i soggetti, erano in caso di eleggere i migliori; che se poi si ingannassero, il che era difficile , non avrebbero a dolersi che di se stessi. Secondo: perchè nell’antico regime non vi era ad essi alcuna speranza di migliorare, ma che presentemente un figlio loro, se avesse avuto talento, istruzione e giudizio, poteva sperare di giungere ad essere perfino Direttore con 20000 Lire di provvisione; questa particolarità non isfugge loro. Terzo; perchè nell’antico regime non vi era reo che non avesse potuto essere assolto a forza di denaro, e che i con- GIORNALE LIGUSTICO 285 dannati erano solo i poveri. Ciò che essi prentendono non accadere nel presente governo. Quarto : perchè non essendo stato alcun denaro nelle Casse di S. Giorgio, tutti tengono per articolo di fede esserselo spartito fra loro gli ex-governanti. In conseguenza di queste loro persuasioni, essendosi incontrati con altra felucca , ove erano anche delle donne dei marinari, cominciarono così per celia a farsi fra loro con urli e grida, dei saluti veramente poco gentili. Per esempio. Aristocrate f...., hai ancor fruite le 96 Lire? Una donna dell’ altra feluca : Sei tu andato a fare il tuo mestiere di far la spia agli emigrati di Pisa? E l’altro: zitta tu p.... degli aristocrati ; e tutto questo con un chiasso che stordiva. Ciò non ostante non vi dico che lo spirito pubblico abbia veramente energia repubblicana, quantunque l’incidente della guerra col Piemonte l’abbia alquanto elettrizzato, a cagione della rivalità delle due nazioni. Questa guerra per altro v’ è Γ apparenza che non andrà troppo avanti, essendosi i piemontesi di già ritirati dal territorio ligure, e stabilito un armistizio per alcuni giorni fra le armate; probabilmente per attendere la risposta dell’oracolo , cui ambo le parti hanno mandato a consultare. Finora in questo affare non si sono mischiati, per parte della Francia, che i ministri e i generali francesi in Italia, ed hanno accalorato e determinato il Direttorio Ligure, come Brune, Sotin ecc.; finora, se vanno dei francesi all’armata, vi vanno coll’uniforme ligure, ed hanno presidiato Genova e i posti più importanti e non altro. Si attende la decisione da Parigi, ma si sa anticipatamente esservi su questo punto discrepanza di parere. Barras, Rew-bell con Talleyrand, Bonaparte e tutto il suo partito sono per la manutenzione del Re Sardo: Merlin, Lareveillière Le-peaux, e forse Treillard con tutto quel che è in Italia, sono 286 GIORNALE LIGUSTICO per la rivoluzione. Saliceti scrisse ultimamente che la democratizzazione d’Italia era aggiornata a cagione delle cose di Germania. Tornando ai Liguri, essi farebbero volontieri la guerra, ma mancano i mezzi e particolarmente il denaro, perchè sono sotto un enorme debito proveniente dalle grandi spese che hanno dovuto fare, e prima e dopo la rivoluzione, dall’affare del 25 Settembre, che ha fatto un gran torto e prodotto grandissime spese, dal pagamento degli impiegati e del-Farmata, e dal pagamento di 4 milioni, a cui si era obbligato il governo passato; dal non aver trovato denaro nelle casse, e tutto ciò colla cessazione di tutte le risorse, e massimamente del commercio. Onde, se la guerra restasse sulle braccia dei soli Liguri, andrebbe male per quanto spossato sia anche il Re Sardo. Bisogna dunque aspettare un’ altra dozzina di giorni prima di sapere a che attenersi. Oggi sarà costi la famosa luminare, di cui io sono stato tenuamente compensato colla festa patriottica fattasi qui il di 14 per l’anniversario della istallazione del nuovo governo. Te Deum, ricevimento dei deputati dei dipartimenti nella piazza della libertà festosamente adorna; ballo intorno all albero della libertà tutto il giorno e tutta la notte; concorso immenso; ma poco chiasso, poco entusiasmo, poca ebiietà di repubblicanismo; non ostante più forza che nelle altre repubbliche 0 più ancora che taluno non crederà. 23 Giugno, Genova. Io qui ricevo mille gentilezze! — Per esempio il Ministro di Finanze, che chiama sè stesso ministro della miseria, un tal Rossi, uomo generalmente stimato, è venuto a trovarmi non meno che qualche altro impiegato che io non co-noscea. Essendo andato giorni sono ai Consigli , diversi rappresentanti a più riprese vennero a farmi complimento GIORNALE LIGUSTICO 287 sul mio arrivo e gentili esibizioni. Domani sarò a un pranzo che il ministro di finanze vuol darmi per farmi trovare insieme colla maggior parte dei Direttori, che vi interverranno. Se io fossi un tantino meno persuaso della mia nullità, potrei tacilmente esser tentato a credermi qualche cosa; ma la più bella è la visita che ho ricevuta un paio di volte, indovinate da chi.... da Rusca, che non conoscevo che per riputazione. Egli ha voluto conoscermi, si è messo meco sul tuono di amicizia e di famigliarità. Parte questa sera e va a Roma. Genova 30 Giugno. Io parto domattina contentissimo delle tante politezze e attenzioni usatemi. A udire ciò che mi si dicea costà avrei avuto difficoltà d’ esser ricevuto a Genova; mi sarei trovato fra torbidi , fra impertinenze , fra miserie. Niente di tutto questo ; ho trovato la città tranquillissima e bastantemente contenta, e sono stato trattato che più non poteva sperare ; eppure lji maggior parte delle mie conoscenze era in quella classe che ora, o qui non sussiste, 0 è nulla. Ma è quella classe che crede che senza essa non possa esistere, nè tranquillità, nè felicità, nè gusto, nè buon tuono. Hanno per altro qui introdotta alcuna buonissima cosa, per esempio i ristoratori alla francese, ed hanno sufficientemente fatto illuminare la città di notte. Fanno fabbricare un altro ponte fuori del porto colla sua rispettiva e magnifica porta che dà sul mare, cosa che dicono molto commoda e che avanza a colpo d’ occhio. La domenica scorsa fui a quel desinare del Rossi, ministro di finanze, che vi indicai nell’ altra mia. Egli fu magnifico, e vi erano 34 o 36 commensali, in un palazzo dietro Carignano meravigliosamente esposto sul mare. Vi è qui un istituto di ragazzi simile a quello del padre Baramer a Vienna. 288 GIORNALE LIGUSTICO La banda della musica di questi ragazzi fe<_e più gin intorno alla tavola con assai belli concerti. Dopo desinare ottanta di questi ragazzi in uniforme assai proprio e con un be ciet tone in capo, si squadronarono sulla terrazza contigua alla sala di desinare, fecero tutte sorte di manovre e di esercizi! alla francese, prima al comando e poi senza comando, al solo suono della banda. Questo Rossi è un uomo assai ricco del suo, e bisogna che. sia molto di garbo perchè tutti lo Egli ha latta una delle principali figure nella rivoluzione, ma sempre moderato, ed egli fu un di quei pochi che impe I ^ massacro dei sessanta nobili chiusi nel palazzo pei 0Sl:ao§ il dì 4 e 5 Settembre, e che il popolo fanatico vole\ a lutamente massacrare prima di andare a combattere i co dini fatti sollevare dagli ex-nobili e dai preti. Non os < in un rovescio sarà uno dei primi ad esseie sacrificati mi si è fatto amico e ha voluto darmi lettere per Paii0i. Lunedì susseguente fui a desinare dai Direttori, o\e ciano la maggior parte, e fra loro v’ è della buona gente, puic ^ non voglia darsi fede a quei che stimano baron fofct.... tutt quei che non sono aristocrati o loro sostenitori, i quali non v’ è dubbio che son tutti fior di virtù. Oh! quel desinale po^i non si può dir magnifico, è assai modesto e repubblicano, affittato; e mi dissero che,, se volevano dare un trattamento, lo davano fuori della loro abitazione. Vi furono letti un paio dei miei apologhi , e vi assicuro che mai non mi ha fatto tanto piacere la sensazione da essi prodotta. Fui invitato andarvi a desinare ogni qualvolta io fossi libero e ogni qual volta volessi; onde io con egual soddisfazione vi tornai ieri. Fin da domenica scorsa giunse un corriere al governo dal Direttorio di Parigi, che portò nello stesso tempo la lettera di richiamo di Sotin destinandolo console. E dove ? A Char lestown in America, posto che egli certamente non accet^ terà. E fu destinato Belleville a esercitare la carica oltre di GIORNALE LIGUSTICO 289 console anche di incaricato di affari; onde il pover’ uomo è oppresso dai molteplici affari delle due cariche. Per altro egli è generalmente stimato e anche assai bene alloggiato, onde per tutti i versi egli è infinitamente meglio qui che a Livorno: quantunque egli dice che non è meraviglia, poiché a Livorno egli era costretto a far delle parti odiose. Nello stesso tempo della rimozione di Sotin, che ha tutta l’apparenza di una decisa disgrazia, si seppe esser partito Faypoult da Roma per Milano, e molti credono per tornare qui; ed ora si è sparso essere stati richiamati anche Gin-guené da Torino e Brune dall’ armata d’Italia, in luogo di cui si deve nominare Ledere. Se questo è, chiaro apparisce la ragione di questi richiami. Questi tre erano stati quelli, come in altre mie vi dissi, che avean soffiato nel fuoco per istigare i Liguri a muover guerra ai Piemontesi senza ordine nè consenso del Direttorio di Parigi, sicché questi ha scritto ultimamente una polita lettera a questo governo in cui dice che egli volontieri avrebbe vedute composte le differenze loro col Re di Sardegna, e che egli prenderebbe sopra di se comporle, e che intanto sperava che si sarebbero sospese le ostilità, mentre egli avrebbe pensato a fare evacuare il territorio ligure dalle truppe piemontesi, cosa che si crede essere già stata loro ordinata, ed è stato in momento ben opportuno per li liguri, poiché li piemontesi quasi senza resistenza occuparono Porto Maurizio, Pieve d’ Albenga ed altri luoghi aperti, che sono i più ricchi del territorio ligure. All’ incontro i liguri, oltre Loano, avanti ieri presero Serravalle col forte. Questi è vero che son luoghi forti, ma non ricchi. Si vedrà se i francesi obbligheranno anche i liguri ad abbandonare le loro conquiste. Questi per verità dicono di aver delle ragioni sopra i luoghi conquistati, antiche e incontrastabili, che provano esse appartenere al loro territorio. Giorn. Ligustico, *Anno XI. 290 GIORNALE LIGUSTICO Circa a Sotin, il Direttorio poteva, a quel che dicono, lagnarsi di lui che avesse, senza ordine di detto Diiettoiio, preso un tuono imperativo sopra il governo ligule, come in qualche occasione è accaduto. Comunque sia, una numeiosa deputazione di patriotti andò a complimentare e a condolersi con Sotin, esaltando la sua condotta. Egli rispose che non altro desiderava che di essere accusato di qualche mancanza, essendo sicuro di potersi interamente giustificare; ma che non si sarebbe prodotta accusa veruna contro di lui. Non mancano taluni che credono tutto ciò esser maneggio di Gio. Carlo Serra, e qualche altro ex-nobile genovese in Parigi. Cosa dire di tutto questo? Non altro se non che la sorte di tutte le repubbliche italiane dipende e dipendei a sempre dall'interna solidità o vacillazione della repubblica francese. Sussistendo quella, assai probabilmente sussisteranno queste; cadendo quella o vacillando, tutto vacillerà o anche cadrà ciò che ne dipende. Merita osservazione un aneddotuccio curioso. Un grosso picchetto piemontese inseguiva alcuni patriotti insorgenti che si ritiravano sul territorio Ligure di quà da Ovada, luogo di frontiera presidiato dai francesi. Quando i piemontesi furono sotto al luogo, trovarono una sentinella francese sola nella strada, che disse on ne passe pas d’ici. Questo bastò pei far ritirare i piemontesi. Il Casti si trovò in Genova, quando !e trame dei ministri francesi avevano gettato il Piemonte in una guerra di repressione, che lo condusse a violare il territorio ligure; di qui la rottura fra i due stati limitrofi, usufruita cosi bene da coloro che Γ avevano mossa. Quindi scaltro intervento della Francia, ed apparenti soddisfazioni date al Re di Sardegna con il richiamo da Torino del Giuguenè e da GIORNALE LIGUSTICO 291 Genova del Sottin, colpevoli di aver troppo scoperto il giuoco (1). Dispiacque invero ai patriotti genovesi la partenza di Sottm, il quale doveva essere accompagnato « dai voti più sinceri di gratitudine e di ammirazione per parte di que’ pochi amici della probità e virtù », che sapevano in lui « apprezzare un uomo nè corrotto, nè corruttore, attaccato ai principii democratici per sola sublimità di cuore » (2). Quando si iecò a prendere congedo in forma pubblica dal Direttorio Ligure, lo accompagnarono buon numero di patriotti; in nome de’quali poi gli scrisse una lettera di condoglianza il noto farmacista Felice Morando (3). Di più come ricordo e come « pegno della loro stima e della loro riconoscenza », gli fecero dono « di una sciabola Damaschini », che egli accettò « con gradimento, assicurandoli, che non sarebbe giammai impugnata contro gli amici della Libertà » (4). I] Rusca, del quale il Casti ricorda le proteste d’amicizia era il notissimo e valoroso generale Francesco Domenico di Dolceacqua, arrivato appunto la sera del 13 giugno (5). Genova fu delle prime a ristampare alcune opere del nostro poeta. Riprodusse in fatti nel 1802 gli Animali Parlanti dalla edizione originale di Parigi, e forse dalla prima copia venuta in Italia (6). Stampò nel 1804 Ie Novelle nuove dando in fine anche le prime dodici già note (7). E sebbene Γ edili) Bianchi, Storia della Monarchia Piemontese del 177^ al 1S61, II, 629 e segg. (2) Il Censore Ital. cit. n. 97, pag. 282. (3) Ivi, n. 98, pag. 286. (4) Ivi, n 100, pag. 299. (5) Ivi, n. 92, pag. 263. (6) Gli Animali parlanti poema epico diviso in ventisei canti. Genova, stamp. dell’istituto e della Gazzetta Nazionale 1802; vol. Ili, in 8.°. (7) Le ultime novelle insino ad ora inedite. Amsterdam 1804; vol. VI in 8.° picc. fig. Si noti che gli ultimi due contengono le già stampate. 2Ç)2 GIORNALE LIGUSTICO _ zione rechi la falsa data di Amsterdam, pur facilmente si riconosce dai caratteri e dalla carta per stampa uscita dalla tipografia della Gazzetta Nazionale della quale era proprietario il Frugoni. Non è poi improbabile che la notizia anonima intorno alla vita dell’ autore premessavi, sia scrittura del . e-lestino Massuco. Finalmente nel 1810 dalla stessa tipograia vennero fuori le Poesie Liriche ()). L’assassinio di Angelo Gavotte Un ramo della famiglia savonese dei Gavotti si recò sulla metà del sec. XVII ad abitare a Roma, e forse fu il primo a prendervi stanza quel Giovanbattista moito nella taida età di 90 anni l’anno 1661, del quale si vede il busto nella chiesa di S. Niccola da Tolentino, là dove, presso Γ altare di N. S. della Misericordia di Savona, da lui dotato, esiste il sepolcro della loro casata. Il Della Cella accennando a questa diramazione ricorda come ad uno della famiglia « sul principio del corrente secolo » (scriveva dopo il 175°) (< av venne l’orrido atrocissimo caso, che ognuno sa, col mai-chese Santacroce » (2). Il fatto accadde ad Angelo Gavotti nel settembre del 1703, ed anziché duello bisogna veramente chiamarlo assassinio, come si desume dalla relazione mandatane al suo governo da Francesco Fascie, agente a Roma della Repubblica genovese (3); relazione ricca di particolari più esatti ed importanti di quelli esposti in un recente racconto dello stesso avvenimento (4). (1) Poesie Liriche. In Genova, nella stamp. Frugoni 1810; in 8.° picc. con front, fig. (2) Famiglie genovesi MS. R. Univers. (3) Archivio di Stato, Lettere Ministri, Roma, mazzo 47. (4) Bruzzone, Scipione Santacroce, in Domenica Lett. a. Ili, n. 24. GIORNALE LIGUSTICO Il Fascie scriveva: « Domenica a sera ritrovandosi con la sua carrozza sulla Piazza della Trinità de’ Monti Angelo Gavotti, che si era preso luogo per sentire la serenata, che si faceva fare dalla Regina di Polonia sopravenne, il figlio del Marchese Santa Croce, che pretendeva gli si dasse luogo; ma non muovendosi il primo fece questi un giro con la sua carrozza e, nel ritorno investì quella del Gavotti con dire che così si trattavano le persone malnate. Di questa ingiuria risentito il Gavotti, al quale fu riferita, et i di lui Parenti, fu pensato di farne risentimento e averne il riparo; fu perciò tenuto dai medesimi un congresso, a cui intervennero D. Augusto Ghigi, Marchese Ruspoli, Angelo Gabrielli, Marchese Patritij, Camillo Corsini, et il Gavotti medesimo; e fu risoluto di chiamare in duello il Santa Croce ; ma perchè la cosa non meritava tanta dote, stante che il Gavotti non era presente all’ingiuria che gli era detta, e si credeva che Santa Croce havrebbe data sodisfattione senza venire all’estremità, fu mandata la disfida per mezzo del Corsini, il quale hebbe commissione di portarla lui, essendosi creduto che per essere parente dell’uno e dell’altro, haverebbe portata la cosa in forma che, o non sarebbe seguito il duello, o al più non si sarebbe fatta se non la mostra di volersi dar sodisfattione colla spada, e a questo solo passo assicuravano gli altri il Gavotti che si sarebbe venuto, e non più oltre; anzi che il Ghigi diceva che vi si sarebbe trovato lui stesso per far che ne meno a quest’ atto si fosse venuto. Ma portatasi la disfida dal Corsini con poca circospezione, e accettata questa dal Marchese Santa Croce senz’ alcun altro trattato che di battersi, chiamò questi per padrino il Marchese Bentivoglio, e si trovò all’ bora appuntata nel luogo destinato a Campo Vaccino, dove trovò il Gavotti che stava sulla buona fede del trattato fatto alla mattina, e sentitosi chiamare dall’inimico uscì egli pure in campo, ma con la spada sua da città e senza 294 GIORNALE LIGUSTICO che si misurassero Tarmi o si dividesse il sole, nelle quali due cose haveva tutto il svantaggio : si messe a battersi con l’inimico, che essendo venuto risoluto di combattere haveva spada e abito proprio per tal fonzione, e restò ferito nel primo incontro il Gavotti tra la gola e il mento, e assai subito fu investito d’un’altra stoccata nel fianco, che gli trafisse il petto, per la quale cadde a terra dicendo non potersi più difendere; ma ciò non ostante il Marchese gli andò sopra, e con cinque altre stoccate lo conficcò, benché fosse rivoltato col petto in giù. E perchè un Lacchè del ferito lo pregava a dar la vita al Padrone, ferì questo di un gran rovescio in capo, et avanzatosi il Marchese Bentivoglio ferì ancoi esso il Lacchè con due stoccate, una delle quali, passa d un canto all’altro. A questo spettacolo accorse un monaco di S. Fian-cesca Romana per assistere al Gavotti, dal quale ebbe i segni di contrizione e puotè dargli l’assolutione. Seguito questo fatto si rifugiò in Santa Croce nella Chiesa di S. Pietro in Vincola, e il Bentivogli si ritirò nel palazzo della Regina alla quale serve, et il Corsini con una bacchetta in mano, senza essersi presa alcuna parte nel fatto, si ritirò nella Chiesa di S. Francesca Romana. » Il mercordì mattina, sull’assertiva del sacerdote che attestò di haverlo confessato, fu esposto il cadavere del Gavotti nella chiesa di S. Nicola a capo le Case, e sotteirato nella sepultura della sua famiglia. » Il Papa sentì con la maggiore alteratione il caso, e si mostrò irritatissimo contro il Governatore, che senza nota di trascuraggine non poteva a meno di essere informato di un accidente, in cui tanti Cavalieri si erano interessati, e non vi haveva provvisto; ha dati poi gli ordini per farne la giustizia con la maggior esattezza, e si sono inventariati i beni del Corsini e del Bentivoglio, e chiamati ad informare la Corte tutti quelli che intervennero al Congresso a S. Marcello, e GIORNALE LIGUSTICO ingionse intanto ai parenti del morto le sigortà solite di non ofìenderesi ». Tanta fu la collera del pontefice per l’atroce avvenimento, che non volle accettare « P esibizione della pace » fattagli dal cardinal Marescotti in nome della vedova, la quale si mostrava « pronta a fare con ciò il miglior sacrificio che possa ricevere l’anima del marito ». Di più sospese la domandata udienza alla regina di Polonia, perchè teneva rifug-giato il Bentivoglio, cercando ogni modo di farlo uscire con sicurezza dallo stato; e ordinò si derogasse al privilegio ecclesiastico messo innanzi dal Corsini per sottrarsi al foro civile, onde impaurito l’ambasciatore di Spagna ricusò di proteggerlo. Venuti fuori poi i monitorii contro i rei, sJaffrettarono a mettersi in salvo; e il Santacroce « passando per Siena e stimolando alla corsa il vetturino che lo serviva, diede il calesse addosso ad un povero vecchio, che non havendo tempo di ritirarsi, restò sotto le ruote e poco dopo morì ». Sopra questo duello uscirono satire e scritture parecchie, alcune delle quali ingiuriose al Santacroce vennero da Napoli; ma da quanto ci è stato narrato dal Fascie si vegga come la musa satirica colpisse giusto con questi pochi versi : Fu morto il buon Gavoni, Come già Cristo in croce , Da Scipion Santacroce In mezzo a due assassini Bentivoglio e Corsini. A. N. Un’ iscrizione ritrovata. Nel 1765 il canonico Alberto Poch di Sarzana dava notizia a Giovanni Lami di alcune anticaglie trovate nel territorio di 2^6 GIORNALE LIGUSTICO Luni, e fra le altre di una iscrizione scolpita in un frammento di colonna, del seguente tenore : TAEBVTIVS . C . F . FORTVNAE V . S . L . S . L’erudito fiorentino pubblicandola nelle Novelle Lette)arte (XXVI, 282) ed osservando come non fosse nota agli archeologi una famiglia Tebu%ìa, avvertiva: « Può essere che ! inscrizione non sia intera, perchè non è verosimile, che il nome preso dalla gente non avesse innanzi il prenome proprio della persona; e forse vi manca una C avanti il nome, o qualche altra lettera iniziale conveniente ai soliti prenomi de’ Romani ». Fermo in questo dubbio, non sospettò che la lezione mandatagli dal buon canonico di Sarzana fosse errata; ma riproducendola più tardi il largioni (Viaggi tee. X, 418), interrogava se non si dovesse leggere: T. AEBVTIVS, e a conforto di questa sua ipotesi metteva innanzi il ricordo di due soggetti della famiglia Aebutia de’ quali parla Tito Livio. Le quali citazioni si potrebbero moltiplicare, perchè Livio stesso altri parecchi ne nomina di questo cognome, ed un numero maggiore ne ha il Grutero. Il Muratori poi reca una iscrizione (Nov. Thesau. pag. 1623 , n. 11), nella quale si legge precisamente lo stesso nome così : T . AEBVTIVS . C . F . E che veramente si leggesse appunto in questo modo nel marmo lo affermò il Promis, il quale deve aver veduto il frammento di colonna, poiché producendo corretta 1 iscrizione aggiunse trovarsi « in una villa detta il Becco, non lungi dal villaggio di Nicola » , ed essere quel frammento di cipollino di 0. 332 di diametro; ma con manifesto er- GIORNALE LIGUSTICO 297 ìore asserì che il Lami aveva messo nel fine della terza linea una M, là dove il marmo ha una S (Memorie di Luni, nelle Meni, delia R. Acc. di Sciente di Torino, Ser. Sec., I, Par. 2.a, 244); mentre invece egli produsse in questa parte 1 iscrizione esatta, come si vede quà sopra. Ultimo a stamparla fu il can. Sanguineti nella sua erudita * importante raccolta delle Iscrizioni Romane della Liguria (Atti Soc. Li'g. St. Pat., Ili, 51) traendola dal Promis; ma omise la paternità C. F. e disse « d’inesplicabile o di dubbiosa e gratuita interpretazione » le sigle finali V . S' . L . S . appunto per quell’ultima S, che nella formula votiva più comune dovrebbe essere una M. Se non che il Cavedoni esaminando l’opera del Sanguineti, senza avvertire l’ommis-sione, propose di spiegare le sigle così : Votum susceptum libens solvit (Atti cit., Ili, Correed agg-, 8). Ottimamente, diremo anche noi col Sanguineti, non senza osservare però che nello stesso modo le aveva interpretate già il Lami. L’iscrizione adunque, secondo si legge nel marmo è questa: T AEBVTIVS aCF FORTVNAE V S λ L S Il frammento di colonna, che era andato disperso dopo gli studi del Promis, oggi è ricomparso alla luce in quella stessa villa del Becco, e l’egregio proprietario sig. Luigi Bernardini col lodevole intendimento che fosse conservato, ne ha dato notizia al cav. Paolo Podestà Ispettore degli scavi, affinchè lo spedisse a Genova ad accrescere la suppelletile archeologica del futuro Museo; onde frattanto si trova depositato nella Biblioteca della R. Università. A. N. # 29S GIORNALE LIGUSTICO RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Studi sulla Letteratura Italiana de primi secoli per A. D’Ancona. — Ancona 1884. È un nuovo volume che l’illustre A. reca quale importante contributo agli studi sulla letteratura italiana, egli per numerose e dottissime pubblicazioni già tanto benemerito. Un suo antico e valente alunno, il Prof. F. D’Ovidio ha riassunto prima d'ora (1) col brio che gli è proprio, il metodo del venerato maestro e spiegato con ciò l’influsso efficacissimo eh’ egli esercita sui giovani suoi discepoli. Il D’Ancona, in breve e perciò che riguarda il metodo, appartiene all’ insigne schiera dei dotti che vogliono studiata la storia letteraria a parte a parte con una serie di pazienti monografie. Veramente questa necessità si era sentita da un pezzo e il De Sanctis raccomandava a sua volta la minuta e circoscritta analisi, e di metodo analitico c’ è da averne ogni tratto la testa intronata, ma d’altra parte è così comodo lo scombiccherar giù un imparaticcio pur che sia puerilmente sintetico, risparmia tante noiose ricerche, che davvero è naturale nello scolaro la tentazione di lasciarsi prender la mano, quando il primo a darne 1’ esempio è il maestro. Come il D’ Ancona mandi di pari passo il precetto e l’esempio è dimostrato una volta di più e splendidamente dal volume edito di recente dal Morelli. Comprende una serie di studi raccolti qui per la prima volta in forma compiuta e accresciuti di due appendici, una delle quali lunghissima intorno al noto Contrasto del supposto Ciullo d’Alcamo: Rosa aulentissima. Gli altri lavori che compongono il volume sono: (1) F. D’ Ovidio, Saggi Critici. Napoli 1879, p. 152. GIORNALE LIGUSTICO Jacopone da Todi, Convenevole da Prato, Del Seicentismo nella poesia cortigiana del secolo XV. Io m’accontenterò di accennare brevemente gli intendimenti che l’A. ha avuto nello scrivere questi suoi studi, per intrattenermi poi un po’ più a lungo sul Contrasto che occupa una buona metà del volume ed attira di preferenza la nostra attenzione. Nel primo, ossia in Jacopone da Todi, egli volle ricollocare al posto che gli compete la figura del sacro giullare, dagli uni giudicato con troppa severità, dagli altri esaltato fuori d’ogni misura. L’A. non disconosce le doti potenti che il Tudertino aveva sortito da natura. Alcune Laudi a dialogo e specie quella sulla Passione di Cristo, hanno tal vigore drammatico, malgrado la dizione plebea, da potersi non indegnamente comparare agli scorci michelangioleschi. E come poeta popolare « rappresentante de’ sentimenti che fervevano a’ suoi tempi nel seno delle plebi e della forma che essi potevano assumere nel canto » — grande è la sua importanza. Ma come poeta mistico egli è misero. Mancò a Jacopone il freno dell’arte che pon modo ai traviamenti dello spirito, e gli mancò anche quella corrispondenza simpatica posseduta in sommo grado dal poverello di Assisi col mondo esteriore. Però, Jacopone da Todi non ha limpidezza di forma: la sacra fiamma che gli prorompe dall’ anima è ardente, ma torbida. Lo studio su Convenevole da Prato, è una postuma riabilitazione del buon vecchio che fu maestro del Petrarca. Fino a qui il suo nome era ricordato sol per aggiungere che a lui era dovuta la perdita del De Gloria ciceroniano. L’A. stabilita , per la prima volta credo, e ingegnosamente un po di cronologia nella vita del Convenevole, mette in rilievo i meriti non grandissimi davvero, ma ad ogni modo degni di menzione del povero grammatico da Prato che lacrimava di tenerezza al solo ricordargli 1’ alunno, fra tutti gli altri da lui avuti, glorioso. Se non gli si può ascrivere con sicurezza 300 GIORNALE LIGUSTICO il curioso poema in esaltazione di Roberto re di Napoli, poema di cui l’A. fa in questo suo studio una diligente analisi, forse non è congettura avventata Γ attribuirgli un altro merito, quello di aver iniziato il futuro cantore di Laura alla conoscenza ed allo studio delle antiche rime volgari. Ultimo in questa prima metà del volume è il Seicentismo nella Poesia Cortigiana del secolo XV. Il Marini, il Ciampoli, il Preti non scaturirono pur troppo come funghi nel fortunato paese d’Italia ad inaugurare la scuola delle antitesi, delle svenevolezze e dei concettini luccicanti. C’ era voluta una lunga preparazione anche per ciò e dobbiamo cercarla nelle raffinatezze provenzali, nelle lambiccature della scuola cortigiana alla corte di Federico II, e finalmente anche nei canzonieri volgari sul finire del secolo XV, secolo che « colla sua vita squisitamente elegante, ma per tanti aspetti artificiosa, prestavasi ad un ricorso di mal gusto (i) » (p. 234). L’A. prende in esame specialmente il Cariteo, il Tebaldeo e Serafino l’Aquilano, il felice improvvisatore per la cui morte le Muse italiane dall Alpi al Li-libeo corsero grave pericolo di struggersi in lagrime e 1 Italia non fu per poco inondata da un fiume di poesie deploiative. Se si eccettua qualche accento virile inspirato dalle misere fortune della patria, nel Cariteo e nel Sasso, o qualche nota di una malinconia sincera e passionata , segnatamente nello Aquilano, tutto il resto non a torto è naufragato in quella vecchia palude dell’ oblio che ha seppellito cose anche meno indegne di queste. Ma se nulle dal lato dell’ arte, esse sono però importanti per la storia letteraria e per 1’ esatta conoscenza de’ tempi. Alcune invenzioni non sono inferiori a quelle del Marini 0 di qualsivoglia altro celebrato seicentista. Valga come esempio la seguente dell’Aquilano : « Nei giardini della (1) I brani virgolati, senz’ altra indicazione, sono dell’Autore. GIORNALE LIGUSTICO 3OI Duchessa d’Urbino eravi un amore marmoreo e dormiente: opera fatta passare per antica, ma com’ è noto di Michelan-giolo ». Volete sapere chi 1’ ha cosi pietrificata? Madonna, la duchessa di Urbino: Quel nemico mortai della natura, Ch’ ardi ferir più volte uomini e Dei In marmo è qui converso da costei. Che col dolce mirar gli animi fura. Ferir la volse un dì senza aver cura A quelli ardenti sguardi medusei, Ed a questi alti monti, che per lei D’uomini son conversi in pietra dura. I poeti provenzali hanno più caro Γ amore della loro bella che lo stesso paradiso. Ma il Cariteo e dopo di lui parecchi altri vanno assai più in là. Il poeta è felice d’ andare anche all5 inferno, purché nell’ infernale tormento egli possa contemplarsi vicina la sua donna : Ch’essendo voi presente agli occhi miei, Vedrò nel mezzo inferno un paradiso , Che ’n pregio non minor che ’l cielo avrei. E se dal vostro sol non son diviso, Non potran darmi pena i spirti rei : Chi mi vuol tormentar mi chiuda il viso. Passiamo in fretta al Contrasto. Ciò che l’A. diceva nel ’74, levando la mano dalle Appendici finte seguire alla bella edizione delle Rime antiche volgari, secondo il codice vaticano 3793, claudite jam rivos, avrebbe potuto ripeterlo licenziando alle stampe questo volume, colla coscienza di aver detto ormai su Γ argomento 1’ ultima parola, se pure nuovi monumenti popolari non verranno a portare nuova luce, 0 ad infirmare le attuali legittime illazioni. Pronunziare un giudizio 302 GIORNALE LIGUSTIGO sullo studio edito allora dall’A. e riportato nel presente volume integralmente, sarebbe per parte mia qualche cosa più che una superfluità , dopo quanto ne scrissero uomini valentissimi come il D’Ovidio, Gaston Paris e molti altii. Anzi cotesto studiò del prof. D’Ancona parve per un momento un altro cavallo troiano nel campo della critica letteraria dei primi secoli. Erano nuovi, sempre nuovi combattenti ed alcuni armati di tutto punto, che scendevano a misurarsi intorno al Contrasto siciliano trasformatosi per poco in una vera tenzone. Ha ragione l’A.: — « Da quel momento appunto , un po’ per mia colpa, anzi mca maxima culpa, le acque messe in moto non si fermarono più , minacciando di tanto in tanto il piccolo campo, eh’ io aveva creduto di assicurare contro Γ aperto irrompere delle cervellotiche ipotesi ed il subdolo infiltrare delle bizze e borie provinciali » (p· 3^7)· E con rara modestia di linguaggio riassume i risultati che alla distanza di un decennio restano ancora quali 1 A. li aveva determinati, ossia : l’indole paesana e popolare della poesia, la falsa aggiudicazione della stessa ad un Ciullo d Alcamo che non è mai esistito. Il D’ Ovidio (i), a proposito della prima edizione del Contrasto fatta dal prof. D Ancona, non avrebbe voluto eh’ egli ingombrasse le sue note con le cervellotiche varianti delle due edizioni del Grion, limitandosi a riferire nei luoghi dubbi le congetture più notevoli ; ma altro è il criterio critico che ha guidato il D’Ancona e che l’illustre A. assai ragionevolmente, a mio parere , mantenne anche nell’ Appendice onde va corredato il presente volume. Poiché si trattava di dare un lavoro definitivo e che offrisse al lettore le diverse interpretazioni c induzioni e varianti trovate da coloro che si occuparono fin qui del Contrasto, anche certe mostruosità critiche e fanciullaggini dovevano fi) Op. cit. p. 468. GIORNALE LIGUSTICO 303 avervi luogo , se non altro a titolo di curiosità. Alcune poi sono decisamente amene, come per un esempio la questione della defensa trattata donquicbottescamente dal Vigo e sarebbe stata crudeltà il privarne i lettori, tanto più che la materia non oftre mica frequenti occasioni di ridere. Più giusta , per contro, mi pare l’osservazione del D’Ovidio sulla peritanza dell'A. nel ribattere, alcune deboli 0 strane interpretazioni , peritanza che veramente sarebbe vizio, se ripensando a certa beata sicumera di certi ragazzi, non si avesse a chiamare invece un’ altra notevole virtù del dottissimo erudito. Per dirne una, mi pare che al v. 75 del Commento (1) non avrei neppure adoperato quel modesto: non (1) Anche nella presente ristampa del Contrasto, 1’Autore s attenne scrupolosamente al testo vaticano, raffrontato coll’ antica copia, ammettendo nel Commento le lezioni proposte dai diversi che si occuparono di questa canzone. Alcune di esse l’A. introdusse opportunamente nel testo, come al v. 49 il comsonre = consorella, invece del con sore proposto dal Grion, ma biasimato dal D’Ovidio. Al v. 123, st. ΧΧλ , fu conservata invece la forma trobaréti, recando in nota l'altra trolàfati portata, non solo dal Corazzini, ma anche dal D'Ovidio come migliore. Del resto il verso è dei più guasti. Al v. 49 dove l’A. annota: « arrendo par qui aver valore di converto », oltre il simile esempio di Giacomo Pugliese, forse sarebbe stato opportuno accennare alla concordanza provenzale se rendre, antiquato francese, soi rendre, appunto nel senso di « farsi frate o monaca » . (V. Gaspary, La scuola poetica siciliana , ti adii Jone Fi ,eJ manti, p. 287). Al v. 51, str. XI, la forma cleri sa al D Ancona di fore stiero, e il Grion annota: «frase tecnica dei trovatori provenzali Anche il D’ Ovidio la crede un francesismo. Ma 1’ Ascoh (Arch. ott, p. 554), seguito in ciò dal Gaspary (trad. cit. p. 2S0), recano un ime 1 zione meritevole, parmi, di essere riferita. Cone tubno da mit , ^ da rudius, su di che vedi Diez, Gr. II, joi, cosi clarius per clarus d.edc clicro, clero, cleri come caballarius, cavaliere, cavali! 0, cai Per la stessa ragione al v. 40, str. Vili, U gueri non ha b.sogno d essere preso per francese, poiché esso può stare a guari come cai caballarius. 3°4 GIORNALE LIGUSTICO acconsentirei, per respingere la lezione del Vigo che fa di villana un vocativo, per quanto essa lezione sia confortata dal-Γ autorità grandissima del Rnjna. Che il buon N. Caix ci tenesse molto a quel vocativo si capisce, trovando in esso un forte argomento per sostenere la sua tesi, vale a dire che la donna nel Contrasto è veramente una villana e 1’ uomo un cavaliere, come in altre posie; ma ogni altro critico, libero di siffatta fissazione, non penerà, io credo, molto ad avvedersi che quel vocativo non solo lascia il senso ed il verso a mezz’ aria come i rondoni, ma stona maledettamente col linguaggio che era naturale prendesse 1 amatoi e di ti onte alla donna. Bel modo di persuaderla a concedere de lo frutto del giardino, gettandole in faccia, e proprio ahoia che la bella cominciava a starci, quel brutale villana ! 11 quale osserva qui benissimo l’A., non ò la stessa cosa dell adorna villanella in Ciacco dell’ Anguillara, dove non è dubbio che villanella sia appellativo. Una questione grossa e che, anche dopo la pubblicazione del D’Ancona, continueràri a manere insoluta è quella riguardante non solo il Contrasto, ma tutte le poesie del periodo Siciliano; ossia in quale lingua esse furono originariamente composte. Non è certo più il caso di parlare delle dottrine perticariane sul volgare illustre e neppure di quel romando mescidalo tirato in mezzo dal Galvani, « specie di lingua franca, interprete delle crociate e dei commerci che si scambiavano lungo le coste del mediterraneo (i) ». Le prime son cosa davvero troppo arcadica, la teoria poi del Galvani lascia dubbi soverchi, ed egli stesso mostrasi oscillante tra questa ed un’ altra opinione più generalmente accettata dai dotti, di un posteriore toscaneggianiento subito dalle poesie della (i Galvani, Osservazioni sulla poesia dei Trovatori. Modena 1828, p. 7· GIORNALE LIGUSTICO 305 scuola siciliana. Anche il D’Ancona fu di quest’ avviso nel suo pi imo studio su la canzone Rosa fresca. non v ha dubbio che siffatta spiegazione ha molti e validi argomenti in suo favore. Come ammettere che nel secolo XIII, e prima ancora che nella Toscana stessa fosse sorta una letteratura, potesse in Italia esistere una lingua toscana comune e questa esser parlata dai poeti di Federico II? E se ciò è impossibile ad accettarsi, se i poeti siciliani dovettero necessariamente scrivere nel dialetto che era il loro, come dar ragione della forma toscaneggiata delle poesie sicule cortigiane, se non ammettendo che i testi quali giunsero a noi furono fortemente modificati dai copisti ? Della loro origine sicula ci è indizio la rima che va perduta colla termi-minazione toscana e ritorna sol che si ristabilisca la forma sicula. Ed inoltre siffatta « trascrizione non poteva riuscir difficile per poesie che trattavano in povero linguaggio convenzionale un gruppo limitatissimo di idee e di sentimenti (1) ». Quanto al Contrasto di Ciullo che specialmente ci occupa, il D’Ovidio prima e poi il D’Ancona (p. 313), ottimamente osservarono che Γ indole sua popolare e il linguaggio che sgorga da una vena poetica, torbida se vuoisi, ma abbondante e impetuosa , dovevano renderlo scevro della frase convenzionale che caratterizza le poesie sicule cortigiane. L uso largo e spensierato del vernacolo a differenza della forma monotona e scolorita delle altre, rendeva quindi la canzone popolana di Ciullo tanto esotica, così intinta di colorito locale che diventava difficile impresa il ridurla a forma toscana anche volendo (2). Per altro questo proposito deliberato, nel più (1) Gaspary, La scuola poetica siciliana del sec. XIII, trad, Fnedmann. Livorno 1882, p. 183. (2) D’ Ovidio : op. cit. p. 387. . ao Giorn. Ligustico. Anno λ’/. 3o6 GIORNALE LIGUSTICO dei casi, non c’ era. Malgrado ciò anche cotesta canzone finì per subire un notevole travestimento e a dimostrarlo basterebbero i due ultimi versi, i due soliti endecasillabi a bocca baciata — « che quando terminassero alla toscana e alla napoletana, l’uno con ora l’altro con ara non rimerebbero più, e vengono invece a rimare benissimo sol che si rista bilisca la forma sicula ura, ventura (i) ». Inoltre quel che si è fatto in fine del verso, non c è ragione di sorta perchè non si facesse anche nel mezzo, solo che in mezzo al verso non ce ne possiamo accorgere con la stessa facilità, mancandoci l’importante sussidio della rima. Questa spiegazione accettata, come dicevamo, da molti critici autorevoli e tra quest? anche dal D’Ancona, non manco di trovare contradditori. Primo il compianto N. Caix, il quale, fisso nella sua idea di riconnettere il Contrasto : Rosa fresca, colle Romanze e Pastorelle francesi , tentò dimostrare che la lingua di esso fu originariamente pugliese, per concludere che il Contrasto è dovuto ad un poeta di corte, imitatore di un genere popolare francese, e se non bastasse, che questo poeta dovette essere un protetto di Giovanni di Brenna , suocero di Federico. II. Su quale fondamento il Caix giungesse poi a questa scoperta non lasciò detto. Il D’ Ovidio, il Bartoli e parecchi altri hanno già luminosamente confutato siffatta tesi e però non vale più la pena di soffer marcisi. Passiamo piuttosto ad obbiezioni più serie. Già il Monaci (2) in una recensione della nuova raccolta delle Rim: antichi, esprimeva dei dubbi sulla restaurazione delle cosi dette rime siciliane nel testo del D Ancona. Egli osservava a questo proposito che non tutte le rime , attualmente imperfette, si acconciano alla restituzione sicula; alcune 1) D’Ovidio; op. cit. p. 498. 2) Ria. <1: Fil. Rom. II, p. 237-; 13- GIORNALE LIGUSTICO 307 1 esistono per es. veglio che risponde a piglio, mercede che ìisponde a diffide, cherere a dire ed altrettanto dicasi di alcune alti e. Ed inoltre le forme, con ò toscano aperto, anche presso 1 poeti sicuramente siciliani, rimano con quelle in ó chiuso, il quale negli originali dei poeti siculi dovette senza dubbio diventare u. Così amóre (sic. amuri) rima con còre, còsa con amorósa (sic. amurnsa). Il Monaci su ciò abbozzava una sua teoria secondo la quale nel sec. XIII, non sarebbe ancora stato attuato quel rigido sistema di rime che prevalse nel secolo successivo, ossia in quel tempo sarebbonsi ancora ammesse rime imperfette, di i con e, di u con 0. Su questa via lo seguì il Gaspary nella sua recente opera Die sicilianische dichlerschule des XIII, jahrhunderts : Berlin, Weidmann (trad. ital. di S. Friedmann. Livorno, Vigo, 1882). L ai gomento della rima, dice egli, prova o proprio nulla o eccessivamente troppo. Anche presso i poeti dell’ I-talia di mezzo si incontrano spessissimo rime siciliane, come per un esempio ancide, mcrcide in Guittone d’Arezzo. Dante sorpriso, ripriso. Se il Bartoli dalla rima: pari,fare, formare, conclude per una forma siciliana, allora anche Dante da Maiano avrebbe scritto in dialetto siciliano, rimando pare, allegrare, fare, celare. Quali sono dunque le rime che riconducono a forme siciliane ed a siffatte soltanto? Dopo aver prodotto larga copia di esempi, il Gaspary conclude: « Tal ricerca non può niente affatto dare quegli splendidi risultati, che ne furono tratti per monumenti di altre lingue. Infatti le rime che accennano veramente al dialetto siculo, non sono molte, cioè soltanto quelle di è lat. con i, e di ύ lat. con u, in quanto Pi e 1’« non subirono anche qui la mutaziione ». Infine — « benché sia verosimile che i Toscani abbino ricevuto dal mezzogiorno certe rime che in essi s’ incontrano, adoperando così queste forme d’un dialetto straniero per amor della rima, potevano pur anche 508 GIORNALE LIGUSTICO i siciliani stessi già adoperare i medesimi elementi del pi ciprio dialetto esclusivamente là dove la rima ve li costringeva e scrivere diversamente ; nè le rime dànno il diritto di modificare per avventura su esse tutta la lingua ». Rimaneva' l’altra quistione se cioè, traducendo le poesie nel dialetto siciliano, non verrebbero, per inverso, distrutte certe rime : o in altro modo se attualmente" non si trovino • 1 in rima parole che recate in siciliano non consuonano più. Questo lo riconduce alle forme già osservate dal Monaci. « Toscanamente a 5 ed au lat. diventarono in egual modo o con pronunzia diversa, ma indifferente per la rima, sicilianamente invece ò divenne u, o ed au divennero o ovvefo restò 1 au. Da ciò segue che la maggior parte delle rime di o toscano aperto con o chiuso , sicilianamente cesseranno di essere rime ». — Gli esempi prodotti per verità non sono molto numerosi: inoltre còre ci si trova sempre. L’A. per altio osserva che in esame vennero prese soltanto le poesie ap.-partenenti con sicurezza a Siciliani, ed il loro numero per conseguenza non va al di là delle quaranta; in 15 di esse e in due casi doppiamente si trovano delle rime che in siciliano sono impossibili. In ultimo è da osservare che coteste rime di ò: 0 quasi sempre si trovano in componimenti in cui ve nc hanno di c: i, 0: u; di maniera che anche il cambiare arditamente le attribuzioni non potrebbe tirar fuori dalia contraddizione. Il Gaspary per altro non ricava da questi fatti le conseguenze che ci potremmo aspettare. — « Sarebbe precipitato il voler inferire con certezza dal trovarsi di tali rime non siciliane presso poeti siciliani, che essi non avessero potuto scrivere in dialetto. I Siculi, cosi come i Toscani, potevano benissimo servirsi del proprio dialetto, pur adoperando in rima di tanto in tanto una forma latina 0 pugliese ». Ma vi sono anche altre ragioni di dubbio GIORNALE LIGUSTICO 309 per quest’ ultima ipotesi. Al Gaspary p. es. sembra difficile che Dante non conoscesse che la forma colla quale gli si pi esentarono le poesie siciliane ed il verso da lui -citato nel Volgare Eloquio : Traggemi déste focòra se l’ esle a bolontate. Non era la genuina. Quanto alle due poesie recate dal Barbieri come saggio di dialetto siciliano (la canzone di Stefano Protonotai io di Messina e il frammento del re Enzo) su cui molto si fondano coloro che sostengono la teoria del toscaneggia-mento, si può anche dubitare che « come oggi si suppone che le poesie siciliane fossero ridotte in toscano, queste due in\ece fossero state sicilianizzate ». E la conclusione a cui Mene è la seguente, che mi sembra da riportare per intero, sebbene un po lunga, come quella che riassume chiaramente le congetture del Gaspary : — « Il latineggiamento e inoltre il provenzaleggiamento , da nessuno negato, e di più il probabile influsso di un altro dialetto molto affine, non che la nostra difettosa conoscenza dello stesso idioma siculo di allora tutto ciò rende dubbio il decidere in quale rapporto stesse col siciliano odierno la lingua della corte di Federigo, od almeno la favella adoperata a fini poetici. Se oggi, per esempio, si parla pinsantiu, forse anche allora si parlava così, put scrivendo più presso al latino pensandu; e se oggigiorno si dice amuri, e se effettivamente già allora si diceva così, nondimeno i poeti usavano accanto a questa forma T altra amore, che era in bocca de’ pugliesi, ed alla quale si era abituati per il latino e per il provenzale amors. Da questa incertezza non si esce co’ sussidi presenti. È certo che i siciliani non scrivessero toscano ; ma con ciò non è escluso che la lingua poetica di cui essi si servivano possa già esser stata assai vicina alla lingua scritta di oggigiorno. Gli amanuensi hanno certo contribuito alla trasformazione di questi testi, 310 GIORNALE LIGUSTICO come essi fecero dappertutto, ma noi non possiamo sapeie quale fosse la forma originaria, svanita sotto tali mutamenti, quando ία quistione non venga decisa per il ritrovamento di nuovi documenti : e finché ciò non avvenga, sarà meglio tenersi a quello che abbiamo e studiare i testi quali sono , anziché tentare delle restaurazioni che non possono non fallire ». Quanta parte di vero e per conseguenza di accettabile ha questa teoria? Lis sub judice est e sarebbe soverchio ai dimento il permettersi più in là di un semplice dubbio. Ma se un dubbio è consentito, certo cotesta lingua poetica che differenzia dalla parlata per una tendenza a nobilitarsi, latineggiando o provenzaleggiando, cotesta lingua poetica che in tal modo finisce per essere assai vicina alla lingua scritta di oggigiorno, parrà, e forse non a me soltanto, una cosa molto forte. Come supporre, per un esempio, che il plebeo Ciullo d’Alcamo, o Ciclo dal Camo o con qual altro nome s abbia egli a chiamare, e la bella ritrosa, non meno plebea di lui, fossero così guardinghi o di gusto così delicato da usare con gran cura pensando, e amore, come vorrebbe il Gaspary , allorché parlavano in rima, quando invece il vocabolario che suonava loro in bocca insegnava pinsannu e amuri? So benissimo che colla teoria delle influenze provenzali e di quelle non minori dei dialetti meridionali affini, si spiega ogni cosa, ma non perciò sarà meno duro a credere che per un esempio il verso troppo citato : Traggemi d'éste foc'ora, se t’este a bolonlate, il quale, secondo il D’Ovidio, in origine avrebbe dovuto essere : Trajimi di sti focata, si ti esti a bbuluntati, sia stato pensatamente ridotto a quella prima forma dall impetuoso popolano e non piuttosto da un copista toscano nel- GIORNALE LIGUSTICO 3 11 1 ultimo ventennio del secolo XIII. Il D’Ovidio, rispondendo al Monaci, già dimostrò con efficacia d’ esempi che tutte le forme credute sicule nei poeti toscani non però sono tali. D altra parte le rime imperfette di còre: amóre : servitóre: meglidre : ini^iadóre — còsa : amorósa , si potrebbero spiegare plausibilmente come casi rari e sporadici. — Sarebbe irragionevole, egli dice, il supporre che lo stesso poeta rigoroso e preciso nell’ allacciamento delle rime , nelle vocali atone e nelle consonanti, diventasse d’ un tratto trascuratissimo quando si trattava di vocali accentate in esse rime. Prova sia che in tutto il voi. Auliche Rime Volgari soltanto sei sono imperfette nelle consonanti. E come queste assonanze in cambio di rime sono poche e sporadiche, la stessa cosa si ha ragione di credere fosse per cori e fori rimanti con amuri, cosa con amurusa, o forse per analogia si ebbe una forma inorganica, curi, furi, usata solo quando la tirannia delle voci in uri vi costringeva il poeta (i). Il Bartoli (2) è più reciso. Le obbiezioni del Gasparv non hanno scossa menomamente la sua antica fede che i poeti Siciliani scrivessero nel loro dialetto, toscan^giato più tardi. Per altro sui monumenti che il chiaro autore cita come validissime prove, ossia le due Cronache di Frate Atanasio da laci e le due poesie pubblicate dal Barbieri , il Gaspary e prima di lui l’Hartwig e il Mussafia espressero dei dubbi clic vorrebbero almeno una risposta. Siffatte ed altre questioni che, oltre il Contrasto, si slargano fino ad abbracciare tutta la letteratura italiana de' due primi secoli , sono trattate dal D'Ancona, nel volume fin qui esaminato , colla sicurezza clic gli viene da’ lunghi studi e le pazienti ricerche , col modesto riserbo che è proprio di chi non vede un lato solo de' fitti e il più superficiale. (1) D’ Ovjdio, op. cit., p. 505, segg. (2) A. Bartoli, Stor. della lett. Ital. v. II, p. 176, segg. 312 GIORNALE LIGUSTICO La canzone un po’ spavalda, un po’ troppo svelatamente procace de’ nostri volghi nel secolo XIII, ma stupendamente umana, ma fedele ritratto di quella vita e di quei costumi , ha trovato nel D’Ancona un valente interprete e un giudice sincero. L’invito malizioso, talvolta scurrile, la vana difesa e la licenziosa catastrofe, cotesto piccolo dramma che qui si espande gioioso e noncurante in una struttura metrica ingegnosissima che colla stretta finale dei due endecasillabi tempera la solenne monotonia degli alessandrini — sarà seguito in breve da un altro simile dialogo ma di versi settenari il settenario vile — e con una strofe di otto versi baritoni (piani) a rima alternata. È il dialogo di Ciacco dell’ Anguil-lara, è il solito tenue dramma che si svolge in Toscana con movimento lirico più spedito e con forme più signorili, preludio alla poesia amorosa più idealmente inspirata , dal dolce stil novo. Carlo Braggio. NOTIZIE E SPIGOLATURE __Φ La Matura (n. 24, pag. 371) reca un importante studio del Prof. Issel intorno ai Pintaderas, utensili adoperati dagli antichi messicani rinvenuti nelle caverne ossifere delle Canarie e della Liguria. Furono questi oggetti singolari di terra cotta trovati nella caverna delle Arene Candide presso Finalmarina,’e servivano, specie di sigilli, ad imprimere sul corpo umano, con materie coloranti, certi segni o rozzi ornati rilevati sopra di essi ; forse per ornamento od anche per pratiche superstiziose. *** Un importante contributo alla biografia di Uberto Foglietta ha recato il Bertolotti con i documenti tratti dall’ archivio notarile di Roma, e pubblicati con opportune illustrazioni nella Nuova Rivista (a. IV, fase. V, 289). Veniamo prima di tutto a conoscere il nome del padre suo, rimasto finora ignoto, che fu Gio. Battista già morto nel 1547; nome riprodotosi poi nel figlio di Paolo, il noto poeta vernacolo , fratello di Uberto , an- GIORNALE LIGUSTICO ch’egli allora dimorante in Roma e distinto con l’appellativo di abate, secondo era costume colà ; donde tuttavia impariamo come egli pure avesse forse in animo di correre il palio degli uffici chiesastici. Ma poi prese moglie ; e chi sa non abbiano appunto servito come regalo di nozze le gioie comprate da Uberto nel 1555· ■ Era questi a Roma fino dal 1538, dove appena ventenne comprava l’ufficio di sollecitatore delle lettere apostoliche, per il prezzo di lire trecento, le quali gli erano prestatate da Alessandro Dcti mercante fiorentino , messo perciò a parte dei frutti che rendeva quell’ impiego pubblico. Più tardi lo troviamo « prothonotarius apostolico et maioris presi-dentiae abreviator » e finalmente Referendario del Papa. Aveva in affitto possedimenti dei Canonici di S. Pietro, e pensioni nella diocesi di Maz-zara in Sicilia. *** I registri delle Sentenze Civili che si conservano nell’ Archivio municipale di Bruges e spaziano a quanto pare dal 1447 I47° contengono preziose notìzie sul commercio degli Italiani nel Belgio durante il secolo XV. I dieci estratti che ne ha prodotto il Brunner nella Rivista di Diritto Commerciale del Prof. Goldschmidt, oltre a molti altri nomi di mercanti fiorentini, lucchesi e lombardi fanno conoscere come versati nel commercio cambiario i genovesi Aurelio Spinola, Paolo Doria, Lazzaro ed Ottobuono Lomellini, Leonardo Cibo. *** Nel n. 11 della Gazzetta bibliografica tedesca (Deutsche Literatur zeitung) Alfredo Stern passa in rassegna la pubblicazione del Prayer relativa ad Oliviero Cromwell inserita nel vol. XVI degli Atti della Società Ligure di Storia patria. Non crede il recensente che questi nuovi documenti sien tali da mutare sostanzialmente il concetto che si ha di presente intorno agli avvenimenti che si compendiano nel nome del Protettore ; cionompertano non ne dissimula il pregio e tiene per fermo che si debba saper grado al Prayer della fatica spesa nel darli alla luce. Accenna come specialmente preziose le notizie che se ne traggono intorno ai preludi d:llo scioglimento del Rump Parliament, sulla madre del Duca di Monmsuth , sulle molte congiure ordite contro il Protettorato ecc. Ma sopratutto poi crede importanti i ragguagli personali sopra Cromwell, sebbene le condizioni e le propensioni non dissimilate dei rappresentanti genovesi, da cui questi rao^-uao-li emanano, fossero tali da non consentir loro di colpire intiera-mente le singolari prerogative del carattere di Cromwell. Se troviamo 314 GIORNALE LIGUSTICO non infondato Γ appunto fatto al Prayer, di non essersi giovato nella prefazione istorica delle più recenti opere del Guizot, del Carlyle , e del Ranke, ci sembra strano il lamento che dallo Stern si muove intorno al-Γ errata ortografia dei nomi inglesi, strano diciamo per chiunque praticando con documenti di questa fatta, non ignori che i nomi inglesi solevano per lo addietro dagl’ italiani tradursi, riducendoli a forma italiana storpiandoli spesso assai miserevolmente. Il prof. Santo Varni in una lettera al Direttore del Movimento (n. 152, 9 Giugno) ha dato ragguaglio degli oggetti trovati in due sepolcreti romani scoperti a Savignone in un podere denominato Camiaschetta. Le pietre onde erano formati vennero disperse, e si conservò soltanto quelle che servivano da coperchio. « Quanto agli oggetti trovati nel primo di essi, scrive il Varni, va notato anzitutto un bel cinerario con vernice nera, il quale stava dal lato manco della tomba: la sua forma non è delle più comuni; l’altezza misura cent. 21, il maggior diametro nel ventre è di 0,18, e il minimo nel collo è di o,ii. Questo vaso vedesi lavorato al tornio, e conteneva delle ossa bruciate. Debbo poi segnalare una tazza, o meglio un ossuario, del diametro di 0,14 e dell’altezza di 0,11 1 j2 ; il quale serviva di coperchio al cinerario anzidetto; e così una tazza del diametro di 0,12 per 1 altezza di 0,06 posta ancora sopra la precedente. A prima giunta , questi fittili così collocati assumono Γ aspetto di un’ urna sola. Inoltre , appoggiata al cinerario, stava una lancia di ferro colla punta in alto, ma molto irruginita ; ed accanto alla stessa miravasi un frammento d’ oggetto non ben definito. Ivi pure vedevasi una lama di spada a un solo taglio , attortigliata in tre giri e finiente in punta. Nell’ impugnatura, forse di osso o di altra materia consumata , si scorgono ancora le borchie che la tenevano salda ; similmente si trovarono i pezzi del fodero pure in ferro. La spada può avere la lunghezza di circa 60 centimetri : la costa della lama ha circa sei millimetri di spessore ; e di circa tre centimetri è la. larghezza maggiore. E qui osservo che delle spade ripiegate nei sepolcri se ne incontrano di frequente , massime in quelli che non potevano contenerle distese. Vedansi ad esempio, le tavole che corredano 1’ erudita Re-iasione del cav. Paolo Podestà alla R. Accademia dei Lincei sul sepolcro ligure di Cenisola, stato scoperto nel 1879. Forse anche non vi mancava la cintura ; fferchè il signor Caprile mi fece vedere altresì una specie di disco, del diametro di un piccolo asse, il quale a me è sembrato appunto 1’ avanzo di uno di quelli ornamenti GIORNALE LIGUSTICO SIS impressi su laminette, onde si decoravano le cinture, e che precisamente non sono rari ad incontrarsi nelle tombe. Più altri frammenti di ferro, non riconoscibili (forse avanzi di uno sperone), si scorgevano del pari vicino alla spada ; ma bellissima è una fibula in bronzo, e di tal forma eh’ io non rammento averne véduto se non un esempio riportato dal Zenoni negli Scavi della Certosa di Bologna (Sepolcro 100). Essa è ben patinata ; e nella cerniera (precisamente come nel detto esempio) ha qualche cosa, come uno spillo, dalla cui ossidatura trasparisce tuttavia alcuna traccia di lavoro ornamentale. La pietra che copriva cotesto primo sepolcro è di natura calcare, ma molto screpolata e consunta in più parti dall’ umidità che doveva penetrare nell’ interno. E se si sparse voce che la stessa era tutta coperta d’iscrizioni, per conto mio debbo rilevare come non vi si scorgono altro che dei piccoli solchi o tarli, come s’incontrano spesso in simile materia. Solamente nella parte più infracidila e molle di essa pietra, rintracciai due lettere in questa guisa : V 1 sebbene anche queste vennero abrase dopo la mia visita, essendo la pietra stata ripulita e lavata senza usare alcuna diligenza. Or io a proposito di tali lettere, arrischio, senza insistervi, una mia supposizione, cioè che la tomba appartenesse ad un militare della legione VI, la quale sarebbe espressa in detta pietra come nelle monete della famiglia Antonia. ISiel secondo sepolcro si trovò un’ olla di forma piuttosto elegante, con piede, lavorata al tornio e coperta di vernice nera : 1 impasto ne è arenoso e la cottura irregolare; l’altezza misura 20 centìmetii, e la larghezza di 0,18 nel ventre si va restringendo fino a 0,11 nel collo. An-ch’essa, del resto conteneva ossa bruciate. Similmente un’alti a tazza con piede, e capovolta, serviva all’uso di coperchio; e se la sua lavorazione non è tanto fina, la forma però è abbastanza graziosa, ricordando alcuni esemplari aretini, e presentando un certo interesse per diverse linee di tinta nera tirate a penello , ed incrociate a guisa di rete. La qual foggia di ornamento occorre pure in non pochi vasi etruschi, ed in alcuni frammenti estratti da’ sepolcreti trovati nelle proprietà Bailo, nell’ occasione 3i6 GIORNALE LIGUSTICO in cui si aprì la galleria della strada da Arquata a Gavi. Questa tazza ha il diametro di 19 centimetri nel labbro, e di 25 nel punto della sua maggiore larghezza : 1’ altezza si limita a soli centim. 7. Da presso vedevasi quindi un vasetto di forma tonda, a somiglianza di quelli vitrei che i romani chiamavano cipolle, stringendosi molto nel collo, or frammentato ; ed anche questo era coperto da una piccola tazza d impasto argilloso e resistente, benché a me sia sembrata senza cottura, ma indurata soltanto al calore dei raggi solari. .Forse la presenza di queste e delle altre tazze già dette , in luogo di coperchi, conforta un poco Γ opinione di coloro i quali pensano che servissero a mo’ di patere, e vi si versasse del vino si come offerta agli Dei tutelari del morto. Ma sia di ciò come si voglia Γ impiego di esse nelle tombe non è raro, nel caso in cui gli ossari non aveano coperture più proprie, o le ossa non erano chiuse in grandi olle di pietra e d altra materia, delle quali ne’ musei abbondano gli esempi ». BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Christophe Colomb, son origine, sa vie, ses voyages, sa famille et ses descendants, d’après des documents inedites tirés des Archives de Gênes, de Sa-vone, de Séville et de Madrid, études d’histoire critique par Henry Harrisse. — Paris, Leroux, 1884. È questa una pubblicazione storica della più alta importanza per gli italiani a particolarmente per noi genovesi. Questo dotto americano il cui nome è notissimo per i molti lavori di critica storica, non pochi dei quali riguardano Cristoforo Colombo, e la sua famiglia, scritti in inglese, in spagnuolo ed in francese, in detta nuova opera intende esaminare tutto quanto si riferisce all’illustre scopritore, passando a rassegna e sottoponendo all’esame della critica la più accurata e la più coscenziosa, le diverse opinioni che corsero e corrono tuttora sopra la sua origine, e i diversi fatti di lui, e colla forza del raziocinio e col corredo di opportuni documenti, far emergere la verità. Lungo, e forse impossibile, sarebbe se si volesse fare un’analisi di questo lavoro, tanti sono i punti controversi esaminati, le questioni sollevate e discusse, le testimonianze addotte, i documenti accennati. Basterà un semplice cenno sull’ ordine del volume. GIORNALE LIGUSTICO 317 L’ autore comincia con una introduzione con cui accuratamente descrive le sorgenti, Les sources, a cui attinse, fra le quali, sono primi, gli scritti stessi di Colombo, da lui minutamente esaminati, e quindi gli atti degli Archivi di Genova, di Savona, Simancas, Siviglia, S. Domingo ecc. ecc. nonché gli scrittori che di Colombo trattarono. Tutti sono passati in rivista dal chiaro autore e di tutti porge particolareggiate notizie storiche c bibliografiche importantissime. Vien dopo il primo capi'olo intitolato: Les origines de la famille, ove dimostrate totalmente infondate le pretese di diverse città e terre, ed immaginaria la nobiltà della famiglia di lui, scende al secondo, nel quale si intrattiene- sopra Les aieux de Christophe Colomb, e particolarmente sopra i suoi genitori, già abitanti a Quinto presso Genova, e provenienti da Terrarossa in Fontanabuona. Segue capitolo intitolato: Christophe Colomb, comincia coll’esame del luogo preciso e della data della nascita di lui, e quindi successivamente parlando dell’educazione, dei primi viaggi e delle avventure della sua vita in Portogallo ed in Spagna, lo chiude col primo suo viaggio, e precisamente coll’ approdo nella terra incognita scoperta. Molteplici ed infinite sono le questioni storiche, genealogiche e nautiche, discusse ed esaminate dall’autore; ed in tutte, oltre il corredo di un’immensa erudizione, egli vi fa primeggiare una prerogativa che troppo spesso fa difetto in molti scrittori, particolarmente fra quelli che di Colombo trattarono, voglio dire quello spirito di imparzialità da cui tutti dovrebbero essere nelle controversie animati. Pel signor Harrisse, americano, distinto avvocato alla Corte di New York, è indifferente che Colombo sia più genovese che piacentino o corso, e se lo dichiara ligure, è solo perchè la critica ed i documenti lo dimostrano tale. Anzi a tale proposito diremo, che l’egregio autore mentre dimostra prive ui fondamento le pretese di Piacenza, di Calvi e di altri luoghi, e lo ritiene di famiglia originaria da Terrarossa nella Fontanabuona, non crede ancora come provata incontrastabilmente la nascita di lui nella città di Geno\a. L’opera completa consterà di tre volumi, nell’ultimo dei quali saranno pubblicati in disteso tutti i documenti, molti dei quali sono inediti e sco nosciuti , ed un grande albero di discendenza della famiglia Colombo, a cominciare dall’avo di Cristoforo, sino al vivente Duca di λ eraguas. Relativamente alla parte tipografica, diremo che il pubblicato e uno splendido volume in 8.° grande di pagine 460 stampato, con bellissima varietà di caratteri, dalla tipografia dei fratelli Protot a Macon, e per conto dell’ editore Ernesto Leroux di Parigi. 3*8 GIORNALE LIGUSTICO Il volume poi va ricco di diverse tavole , la prima delle quali ci offre 10 stemma di Colombo diligentemente riprodotto a colori, e cavato dal cartolario originale composto a Siviglia nel 1502 sotto gli occhi stessi di Colombo, e che concorda pienamente con quello del codice Colombo-Americano , conservato presso il Municipio di Genova. Un’ altra è la pianta topografica delle valli del Bisagno e di Fontanabuona , ove tro-vansi particolarmente indicati i luoghi di Terrarossa, di Quinto ed altri accennati nell’ opera. La terza poi rappresenta la parte superiore del Borgo di S. Stefano in Genova, ove si trovano le case' possedute da Domenico Colombo, ed è lavoro del marchese Staglieno. Sappiamo poi che gli esemplari mandati ai signori avv. Cornelio Desi-moni, avv. Didimo Grillo e marchese Marcello Staglieno, i quali fornirono all’autore non poche notizie e documenti, come egli dichiara nella prefazione e nel corso dell’opera, sono impressi in carta distinta- forte, a grandi margini, onde sembrano in quarto, e ciascuno porta impresso 11 nome di quello fra i suddetti signori al quale venne offerto dall’autore. S. Alessandro Negozi - Fantasmagorie — Ancona, A. Gustavo Morelli, 1884. È un volumetto di versi diviso in due parti : Primo Vere e Fronde autunnali. L’autore non è povero di fantasia, nè sfornito di attitudini poetiche; ma procede a tentoni e scrive per lo più sotto l’impressione ricevuta dall’ultima lettura, tant’è vero che ora nuota nell’azzurro a pieni polmoni, ora è un verista sfegatato e il libro contiene reminiscenze di tutti i poeti, non esclusi il Fusinato e l’Aleardi. Ma la nota stecchittiana domina, e se il volume capitasse tra le mani dello Stecchetti, avrebbe motivo di picchiarsi il petto ed aggiungere all’ infinito numero de’ suoi peccati e de’ suoi imitatori un peccato ed un imitatore di più. — I miei Versi — Storia Quotidiana — Reazione — Apparenze — Amore diviso — Triste Avvenire — Il libro d’ un verista — In chiesa — e in generale tutta la 2.“ parte, provano la verità di quanto ci permettiamo di asserire. Per non andare troppo in lungo, ci limiteremo a citare il sonetto Amore diviso : Quando di fiori un mazzolin m’ appresti Come un emblema del tuo santo amore, E arrossisci a’ miei detti più modesti Quasi fossero offese al tuo pudore, Quando mi fissi con gli occhi celesti Che hanno del sole il vivido fulgore E ne’ capelli tuoi, ne le tue vesti C’ è un profumo gentil d’ un casto fiore, GIORNALE LIGUSTICO 319 Tu non mi sembri un essere del mondo: Ma vuoi che schietto il mio pensier ti dica, Quel pensier che del core ho qui nel fondo ? Io dubito che tu, piccola amica, Ti stringa fra le braccia un altro biondo E sia con lui lasciva ed impudica ! Quando non è lo Stecchetti, è il d’Annunzio che si sente lontano un miglio, come nel sonetto Al mare : .... Van solette le paranzelle e sfidano gli ardori tra gli opali delle acque violette. Una femmina nuda su la riva Scherza tra i flutti e dall’ iridi fonde Il lampo scatta d’un’idea lasciva ; e in quello intitolato Culto divino e culto umano : .... A te, Maria, ne la pupilla splende Γ acre desìo d’ una terrena ebbrezza e come fredda lama il dorso ascende. Ci permetta l’autore un consiglio. Cerchi di essere lui, sempre lui, unicamente lui, e invece di lavorare sopra un canevaccio prestabilito, non iscriva se non cio^che sente. In tal modo non correrà il pericolo di rie-scire falso, volgare, e di fare dello spirito di cattiva lega. Si persuada che la vita ha anche il suo lato buono e che il regno di certa poesia, la quale ebbe le sue ragioni di essere e potè sembrare buona un tempo, comincia a decadere e invece d’inspirarsi alle modiste, alle sartine e a tutte le graziose creaturine cui si permette di .prestare dei libri immorali, che mandano la gente all’ altro mondo e trovano dei buoi che le sposano, si sollevi in più sp ir ab il aere. Ai giovani italiani non dovrebbero mancare ideali alti e sereni a cui inspirarsi, e il signor Negozi ha dimostrato che quando vuole sa scrivere delle cose carine carine : Il di dei morti, per esempio, dove è peccato che sia sbagliato il penultimo verso dell ultima quartina : Tutti i miei affetti mi rapi la morte, e Sognando, dove troviamo un’ altra reminiscenza : lieve il vento bisbiglia tra le aiuole, bisbiglia e narra di lontani amori. Luce c Tenebre, Per la Morte di Carolina Pacco e In Cimitero, a tacere di qualche altra sono buone aneli’esse, anche perchè sentite. Peccato che nell’ ultima abbiamo un nuovo verso sbagliato : da le odorose e sante zolle. 320 GIORNALE LIGUSTICO Ma l’autore che non manca d’ingegno saprà correggere queste mende in una 2.“ edizione, e ci darà presto, speriamo, nuovi e migliori lavori. Noi saremo i primi ad applaudire. A. G. F. Francesco Podesti - Poesie Varie — Ancona 1884. È un nuovo volume anch’ esso edito dal Morelli, ed ogni lode intorno all’ edizione è quindi soverchia. Chi conosce il Morelli sa che nei suoi libri la tenuità del prezzo s’unisce al gusto ed all’eleganza, e questo è precisamente il caso. L’ A. che accoppia la pittura alla poesia, rendendo vero il precetto di Orazio: Ut pictura poesis, ha raccolto ora per la prima volta in un volume i versi che venne scrivendo in diversi tempi. Valoroso nell’ una arte, egli non si mostra da meno nell’ altra che tuttavia non ha adottata se non come sollievo e distrazione dalla, prima. Certo, chi cercasse in questo volume il disinvolto andamento dei moderni che nasconde ben di spesso il vuoto e la nullità non lo troverebbe. Anzi, per dire il vero, un po’ di ruggine con la modernità, il Podesti la conserva, e lo dimostra nelle sue poesie, sicché a sentirlo declamare contro il secolo novissimo e positivo, contro 1’ arte nova, contro tutte le cose nove, correrebbe pericolo di scambiarlo per un vecchio arcigno e brontolone. Ma codesti nonni che fanno la voce severa coi nipoti scapati, nascondono sotto il loro terribile cipiglio l’indulgenza e l’affetto e bisogna finire per adorarli. I lettori giudicheranno di per sè dell’ eleganza che sorride raccolta e mite attraverso queste pagine: giova che ciò si faccia senza l’aiuto dei critico. Noi citiamo solamente: Il dubbio, Amore ignoto, I due Canti, A Raffaele Sanzio, Gli ultimi momenti della Vestale,· ecc. Ceito quel lento avvolgersi di tante stanze per tante canzoni quante ne contiene questo volume, produce un po’di stanchezza, e noi pure crediamo che la musa del secolo XIX voglia il piedino di dea chiuso in una calzatura più attilata e stringata. Né ci piacciono le troppe reminiscenze mitologiche di cui è cosparso il volume. Il negro Lete, Vara di Vesta, lo Stige, 1 Elicona, il Parnaso e tutto codesto vecchio arsenale è ormai giù di moda e insufficiente ad esprimere i nostri affetti e i nostri sentimenti. Anche gli avvegnaché, e gli attesoché vorremmo soppressi, ed eliminati certi latinismi ed arcaismi che danno al verso un’aria artificiosa, convenzionale, di scuoia insomma e quindi pesante: ad es. donno per signore, lece, per lice, 1 onda irremeabile, la fronda immarcescibile e cosi di seguito. Questo puie senza dubbio è un effetto della ruggine cui abbiamo accennalo e la quale, in fin del conti, non sappiamo rimproverare all’autore. Cui piace il bisantinismo invadente tutti i pori dell’odierna vita italiana, scagli la prima pietra. Noi ci limiteremo ad osservare che ogni evoluzione d idee è seguita necessariamente ed inevitabilmente da un’ evoluzione di lorraa, e che, sotto questo rapporto, ostinarsi nell’antico è difetto. A. G. F. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 321 SCAMPANATA Seguitiamo a pubblicare, secondo la promessa da noi fatta, gli articoli nuovamente composti del Dizionario del linguaggio italiano storico e amministrativo. La Direzione. Fracasso che. si fa con vari arnesi contro di alcuno per ischer-nirlo. E particolarmente, quello di campanacci, padelle, teglie cembali, bacili, vanghe, tamburi, nicchi, corni, trombe e altri strumenti simili, e spesso con grida scurrili ed oltraggiose, fatto la sera 0 la notte sotto la casa di chi e passato recentemente alle seconde nozze'· chiamato con questo vocabolo di Scampanata in molte parti della- Toscana e della Lunigiana; nel Senese, anche Campanata; nel Sar^anese, Cembolata (Cimberlada), e cosi nel Lucchese dove ancora, come in Carrara, si dice Scampanata e Tamburata; alla Spe^ia Trimpellata (Trempellada) ; in alcuni paesi della Emilia, e forse in tutti anticamente, Mattinata; nel Mantovano, nel Gua-stallese, nel Parmigiano e nel Piacentino Cecconata (da Cecca 0 Gazzera, uccello che gracchia forte e sguaiato) ; nel Napoletano Ciambellaria e poi Banna (Banda) e Cucca (pare da Cuculiare); in Pesaro Yucca (1) (non potrebbe esser piuttosto la Cucca napoletana ?) ; iu Piemonte, Ciabre 0 Chiabre (forse dal francese Charivari); in Genova e altre parti della Liguria, Tenebre (nome dato in Toscana al Fracasso che si fa in Chiesa battendo sulle panche al finire degli Uffizi della settimana santa)', e con altri nomi in altri luoghi. (A provare Γ opinione che si aveva nell’antichità intorno alle seconde nozze, io credo che poche voci tocchino il cuore più fortemente di quella che Virgilio attribuisce a Didone; la quale, vedova di Sicheo e già presa dell’amore di Enea, tuttavia, combattuta dai due affetti (1) De Gubernatis, Usi nuziali, lib. IV, 2. Giorn. Ligustico. Anno XI. 21 322 GIORNALE LIGUSTICO contrari, esclama che se l’antico legame non la stringesse ancora, Huic uni forsan potui succumbere culpae (i). Per la quale colpa del secondo matrimonio, Servio, commentando quel verso virgiliano, c’insegna che i Romani alle donne, che lo avessero contratto, interdicevano qualunque sacerdozio (2). Nè poteva mancare che le seconde nozze non fossero di gran lunga più sinceramente abborrite nel suo primo fervore dalla novella civiltà, quella che rifece il mondo e che noi ingrati malediciamo ogni dì; tuttoché nessun Concilio le vietasse mai. Laonde molti Santi Padri le condannarono; dei quali basta ricordare due de’ più solenni; Sant’ Ambrogio, che le disse mancanti di gloria pure, in questo mondo, non avendo la benedizione di Dio la quale si dà alle prime soltanto; e San Girolamo, che senz’ altro le chiamò esecrabili (3). Ma que’ Padri giudicavano per modo di comparazione, non assolutamente, però che cosi ragionando essi avevano solo in mira, dinanzi agli esempi corrottissimi ed ai turpi riti della società pagana, di esaltare la santa viduità sopra il matrimonio rinnovato, come esaltavano la verginità sopra il matrimonio primo; confortando, cioè, la gente cristiana alla vita perfetta, qual s’intendeva da loro, che era l’ottimo; od almeno alla dignità dei costumi, se non si poteva di più; il che vuol dire, e lo dimostrarono, che non per questo rifiutavano il buono. Potrei qui distendermi, ma perchè ci dilungherebbe dal nostro proposito , meglio è chi voglia penetrare la quistione teologica, pigliarsi a guida gli esperti (1) ViRGlL. Aeneid., lib. IV. (2) Serv. in Aeneid., loc. cit. (3) S. Ambros., in Epist. ad Corinth — S. Hieronym., Epist. ad Furiam el Salvinam. GIORNALE LIGUSTICO 323 di tal materia , e fra questi Bartolomeo Napoli, il quale nel suo libro sulle Scampanate (1) la trattò appieno. Per me quello che più monta sono gli effetti prossimi delle opinioni di que’ Padri, le quali seguite da altri scrittori e maestri, e direi anche da Tertulliano, se sopra lui non cadesse sospetto di parzialità, dovevano, passate alla conoscenza comune, dar mala voce alle seconde nozze appresso il pubblico, e, se non altro, difficoltarle e renderle meno frequenti. Per la qual cosa da prima egli avvenne, che al tempo dello stesso San Girolamo, quando egli era Segretario di Papa Damaso, tra l’anno 366 ed il 374, un vedovo di venti mogli essendosi riammogliato, e l’ultima volta con una vedovella di altrettanti mariti, proprio tal guaina tal coltello, quell’ e-sempio di ostinata concupiscenza non suscitò alcuno scandalo dalla gente, non dirò censura dalla parte ecclesiastica; anzi il popolo (a cui piacciono sempre le pazzie straordinarie) portò il fresco marito, quasi trionfante, a predellino alla Chiesa; e San Girolamo, cosi focoso contro alle seconde nozze, quale si appalesa nelle sue Lettere a Furia ed a Salvina, nel raccontare per minuto il fatto singolare non vi appicca alcun sonaglio di riprovazione, dove sarebbe stato il luogo suo se lo avesse creduto conveniente (2). E nondimeno la novella LIV delle Cento antiche, denominate il Novellino , ci avvisa, che susseguentemente in Roma nessuna donna osava più di rimaritarsi. Laonde per provare se alle cose più avversate e disusate possa il pubblico per istracco finalmente acquetarsi ed accettarle, una vedova gentildonna romana, a cui lo stato vedovile pungeva i nervi, fece scoiare (1) Dei Baccani che si fanno nelle nozze dei vedovi, detti volgarmente Cembalate o Scampanate, Dissertazione teologica e istorico-critica di Bartolomeo Napoli, Lucca, 1772. (2) S. Hieronym. , Epist. ad Gerontiam. 324 GIORNALE LIGUSTICO vivo un suo cavallo e cosi concio lo mandò attorno per la città; alla cui sozza e pietosa vista la gente da principio correva in frotta per la novità, tempestando di domande i famigli che lo conducevano in giro; ma replicato lo spettacolo più volte, tutti ne furono ristucchi e nessuno se ne curò più. Il quale esperimento la gentildonna trasse al suo desiderio, e si rimaritò; e così dall’ora innanzi, dicela Novella, si cominciaro a rimaritare, le donne vedove in Roma.... et questa fu la prima (1). Chi fosse questa vedova ed il tempo del fatto, si venne a scoprire ultimamente, lei essere stata la Contessa Emilia Donna di Pellestrina, dal cui secondo matrimonio con un Colonnese derivò la prosecuzione dei Conti Tuscolani nella famiglia Colonna; ed il tempo, l’anno 1137 (2). Dopo qualche altro secolo Francesco da Barberino consigliava la donna rimasta vedova a rimaritarsi, se le piacesse; ma purché fosse ancor giovine, non avesse figliuoli, e fosse passato F anno della vedovanza (3). E tutto questo perchè travasate le dottrine de’ Padri nelle menti dei volgari (li chiamo così in qualunque stato 0 grado gli abbia posti la fortuna) e quivi alterate, trasformate e viziate, secondo portava la comprensione e l’indole diversa degli uni e degli altri, non poteva pretendersi che all’ occasione questi volgari non facessero dei loro concetti dimostrazione alla loro maniera; donde originarono le Scampanate (4). Io credo bensì che, almeno da principio, inspirate, comunque fosse dalle sante parole, avranno sonato espiazione e carità fraterna nella discreta censura, non oltraggio e villania. Ma dilungatesi dalla pura sorgente, presto saranno cadute nel fango (1) Le Cento Novelle antiche: Firenze 1572. (2) Amati, Prolegomeni alla Bibliografia Romana, pag. CVI. (3) Barberino, Del reggimento e costume di donna, Parte VI. (4) Muratori , A. M. Æ. diss. XXIII. GIORNALE LIGUSTICO 325 delle passioni e dei difetti de’ loro autori. Delle quali manifestazioni la Francia non ebbe il solo modo clamoroso delle Scampanate propriamente dette Charivari, poniamo che egli fosse sempre il principale e consueto; ma anche un altro; che forse più volte si sarà unito col primo ; quello di dirsi, ed impunemente, ai vedovi sposi da chiunque fosse mascherato, tutto quanto di più osceno gli venisse sulla lingua, e di far loro ogni sorta di atti sconci e lascivi e di follie. In uno de quali baccanali celebrato nella Corte francese il 29 gennaio 1393, per le seconde nozze di una dama della Regina, avvenne cosa stranissima: che il Re Carlo VI con cinque suoi cortigiani tutti contraffatti da selvaggi e da satiri, entrati dopo la cena nuziale nel ballo a dare la turpe baia agli sposi ed alle altre dame secondo 1’ usanza, saltò in capo al Duca d’ Orleans, ubbriaco, forse per aggiungere un po’ di baldoria alla festa, di metter fuoco alla stoppa incollata colla pece sulla cotta che da capo a piè formava il travestimento di quei digraziati; onde quattro morirono dalle arsioni, uno riusci a spegnere il fuoco che lo divorava gettandosi in un tinello pieno d’acqua, ed il Re non si salvò dal finire bruciato vivo se non perchè fu subito trascinato fuori della sala (1). Mandato innanzi Γ illustre esempio della Francia, per la generalità e la potenza del costume, ritorniamo a noi pur troppo comunemente facili, non meno de’ Francesi, alle contumelie ed alle indecenze ; ma in questi casi talvolta omesse, massime nelle città, e non mai disgiunte dalla Scampanata da cui prendevano occasione e (1) Martin, Histoire de France, V, 438, 439, Paris 4.rae edit. Il Vavra (Curiosità e Ricerche di Storia Subalpina, II, 178) e il De Gubernatis (Usi nuziali in Italia, IV, 2) toccando di questo fatto celebre nelle Storie di Francia, scrivono, il primo, che esso avvenne l’anno 1386, il secondo che avvenne l’anno 1392 ed il Re fu Carlo V. Questo certamente per semplice inavvertenza degli egregi scrittori o per errore del Tipografo. 326 GIORNALE LIGUSTIGO qualità, e sempre dette a viso aperto, accettando ognuno le conseguenze degli atti propri. Da noi queste dimostrazioni, sempre romorose, le facevano principalmente i vicini degli sposi e perfino i loro parenti, e spesso più fracassose e vivaci fra questi, per le ragioni d’interesse che vi si potevano framescolare facilmente; e ciò anche nelle città e fra’ cittadini più onorati ; in Modena, sotto la guida d’ un capo più onorato di tutti, come uno dei Rangoni o dei Molza; a cui tutti della brigata dovevano ubbidire; ed egli conduceva la faccenda, negoziava cogli sposi per la taglia se eglino volessero redimersi pacificamente, e bisognando far battaglia, disponeva prima tutto per assicurare la vittoria (1): questo quando le cose andavano per la piana. Tuttavia quegli atti, quanto più regolati e moderati si volessero, non erano men grave offesa ai diritti più cari degli uomini, e continuo pericolo di turbazioni pubbliche e di delitti. Laonde i Governi civili, benché non in fretta, si opposero ad essi; in Torino, forse più anticamente che in altri luoghi d’Italia, l’anno 1343; in Ferrara, l’anno 1476; in Genova, l’anno 1499; in Napoli, 1 anno 1540; in Modena, l’anno 1547; in Lucca, più tardi che altrove, non ostante il grande bisogno, l’anno 1569: pene, la perdita degli istrumenti, tratti di corda ad arbitrio del Podestà e multe gravissime, in Torino col troncamento d una mano a chi non le pagava (2). Ma si potrebbe giurare che non proibirono le Scampanate perchè lo meritassero veramente nella loro essenza; bensì per accidenti so- (1) Bianchi Tom., Cronaca di Modena , II, 311 ; III, 316, 333 ; IV, ior, 240: Parma, 1862 e seg. Arch. Stor. It. IX, 143. (2) Statuta Mutinae (1547) rubr. 109. Decreti Penali Lucchesi (1569) pag. 60, Lucca 1649. Cittadella L. N., Notizie di Ferrara, pag. 153» Ferrara 1864, Archiv. Stor. Ital. IX, 18, 143. Vayra, Attentati contro la libertà del matrimonio in Curiosità e Ricerche di Storia Subalpina, tom. II Pag. 176 e seg. GIORNALE LIGUSTICO pr avvenuti, o di qualche violenza straordinaria, o di grande offesa a qualche uomo d’alto affare e simile altro che spinse e fece aprire gli occhi: ad esempio, ili Genova questo accadde per lo strepito obbrobrioso ed ingiurioso fatto al novello sposo d’ una vedova, Francesco Pammoleo, che fu illustre giureconsulto e assai benemerito di molti e rilevanti servigi verso la Repubblica (i). Nè se ne rimase la Podestà ecclesiastica, a cui per la libertà del Sacramento era più strettamente raccomandata la cosa; nella quale opera i Prelati Francesi precedettero a’ nostri, non so la ragione, se non è che in Francia il guaio fosse maggiore che da noi, come credo. Onde il Vescovo di Avignone fino dal 1337, il Vescovo di Treguier nel 1465 e quello di Berri nel 1368, condannarono il Charvarium, Charivatium, Chalvatium, Charu-vallum o comunque sapessero latinamente storpiare di più il volgare Charivari; sotto pena della scomunica; per ciò che secondo 1’ apostolo Paolo, mulier, mortuo viro suo, ab eo est lege soluta, et nubendi, cum vult, in Domino liberam habet facultatem (2). In Italia per la stessa autorità dell’ Apostolo il Vescovo di Torino, dando forse le mosse ai suoi col-leghi, nelle Costituzioni Sinodali del 1500, vietò le Ciabre ai cherici ed ai laici; si noti, ai cherici (3): lo secondò San Carlo Borromeo sul declinare del secolo XVI (4); e dietro gli altri Vescovi nelle diverse diocesi. Ma in Francia dove più per tempo si provvide al male e si eseguì e fecesi eseguire gagliardamente la legge, le Scampanate non tardarono molto a cessare in quasi tutto quel Regno , se vo- (1) Fogliazzo Diversorum Cancellariae A 1497-1500 MS. Arch. Stat. Gen. (Giornale Ligustico, III, 147). (2) Durand, Thesaurus novus Anecdotorum, tora. IV, col. 654. et 1119; Du Cange, Gloss. verb. Charivarium, Charivatium etc. (3) Vayra , op. cit. pag. 186. (4) Napoli , op. cit. pag. 263. 528 GIORNALE LIGUSTICO gliamo starcene a quello che ne scrive un francese (1). Al contrario, in Italia, dove i rimedi vengono sempre tardi o scarsi, e dove la ribellione alla legge e la compiacenza o P indulgenza verso i ribelli sono nel sangue di tutti, e più si ribella od indulge chi si vanta più liberale degli altri, Pentarca in essere, Triumviro o Presidente in aspettativa; in Italia, dico, i seguitatori dell’ anticata consuetudine non s’accorsero mai, se non per lunghissimi intervalli, che un divieto particolare contro di loro esistesse, nè tampoco vegliasse o non dovesse dormire la ragione comune quando quello mancava : peccato e vergogna di tutte le classi, cittadini e contadini, nobili e ignobili, ricchi e poveri, dottori, ufficiali pubblici, secolari e religiosi (2). In Torino, costituitasi nella prima metà del secolo XV la gaia Compagnia degli stolti 0 degli asmi, che si dissero anche Monaci, quasi sinonimi, ed Abate il loro capo, protetta e privilegiata, per maggiore strazio, dal Duca stesso, ella si rise delle leggi del I343> tenute al solito come spada nel fodero; e ne’ suoi Statuti pose apertamente per propria incombenza o missione, per dirla modernamente, il penitenziare, secondo i suoi riti, i vedovi sposi; cioè coll’obbligarli a pagare, sotto la minaccia della Scampanata, un quarto di grosso per ciascun fiorino della dote e un desinare ai Monaci da vantaggio (3). Colla quale disposizione pare che si mirasse ad escludere il popolo da sedere a mensa cogli altri, forse a fine di scemate i disordini, non avendosi la forza od il coraggio di tagliarli di netto. E fuori di Torino, all’esempio della città capitale, il Marchese di Saluzzo negli Statuti da lui concessi (1) Il P. Chardon nella sua Storia de’ Sacramenti, appresso il Napoli, op. cit. pag. 262. (2) Bianchi T. op. cit. Ili, 316; IV, 120, 288 ed altrove. (3) CiBRARio, Storia di Torino , II, 477. GIORNALE LIGUSTICO 329 nel 1533 alla Compagnia degli sciaioni di Valmaira, anche eglino appellati Monaci e governati dall’ Abate, diede loro ampia libertà di fare le Ciabre ai vedovi novamente uniti in matrimonio e di pretenderne la taglia che egli tassò in due testoni (1). Nella stessa Torino, l’anno 1585, Monsignor Peruzzi, Visitatore Apostolico, trovò tuttavia l’Abate della stolta brigata, ed i suoi Menaci nelle Chiese a questuarvi pe’ loro tripudi, non bastando a ciò i proventi delle Scampanate e le contribuzioni particolari de’ Soci ; lasciati questuare fra devoti, e certamente nelle sacre funzioni; perchè i Curati, non meno che il Principe, i Magistrati non meno che tutti gli altri, non dirò che approvassero quella profanazione , ma credevano bene di non disapprovarla (2). Per tale guisa, sopraffatta la legge, i termini della libertà umana, di là da’ quali dovrebbe incominciare razione della giustizia tutelare e punitiva, si scossero e furono rimossi dalla loro sede. Tanto che nella prima metà del secolo sedicesimo interveniva, che il rompere le porte delle case, il fracassarne le masserizie e le stoviglie, il disperderne le derrate, il disordinarvi ogni cosa non fosse nella civilissima Modena caso criminale, e si facesse ad uomo di famiglia conspicua e per opera principale di un fratello dello sposo, sotto gli occhi del Bargello o Capitano della Piazza avvisatone da prima per giunta dagli stessi perturbatori; e poi colla approvazione del Governatore della città, il quale allo sposo querelantesi di tanti danni e soprusi, rispondeva, suo essere il torto, che non doveva contravvenire alle Costituzioni (intendi, male usanze) della città rifiutando di pagare la taglia (3). Per la ragione di quelle Costituzioni, non (1) Vayra, loc. cit. (2) Id., op. cit. pag. 181. (3) Bianchi T., op. cit. II, 333, 334. 330 GIORNALE LIGUSTICO uscita ancora la legge proibitiva (che valse come le altre), i Governatori modanesi credevano altresì, doversi lasciare che agli sposi pertinaci si murassero di letame gli uscì (i), e se in cambio di murarli riusciva ai mattinatori di aprirli, oltre ai danni della casa specificati or ora, i poveri sposi venuti a mano de’ loro avversari, non avevano difesa alcuna dall essere portati a furore nel canale a rinfrescarsi, se non a peggio, come poteva lor capitare in quello scompiglio (2). Imperocché delle resistenze, qualunque fossero, se ne facevano, o almeno se ne tentavano, non essendo tutti disposti a portare pazientemente le soperchierie di quegli insolenti; donde risse e misfatti, e la costumanza, specialmente nelle cam- ( i) A proposito di letame e di tolleranze governative. Alla Chiusa di Cuneo un panattiere ebbe la dappocaggine di lasciarsi schiaffeggiare pubblicamente dalla moglie. A tale notizia quelli della Società citi Cenciosi di Boves, i quali devono vestire senza camicia, portare il cappello bucato in quattro punti almeno, abito e brache rappezzate a più colori e non sapere come campare la vita, per certo articolo de'loro Statuti, si credettero obbligati di punire questa viltà. Però, datisi la posta, tutti insieme, col loro Re alla testa (paiono Scamiciati monarchici), circa quattrocento marciano alla volta delfe Chiusa, dove giunti si accampano e attendano. Il Re gli arringa a fare il debito loro. Ed eglino prima di tutto chiudono la bottega dello schiaffeggiato, sigillano l’uscio e gli alzano a ridosso un monte di letame. Messe poi le guardie perchè non fosse guasta 1’ opera loro vanno chiedendo ed ottengono il vitto dagli abitanti, colla promessa di pagarlo che non mantengono. Quindi si danno all’assedio, rumoroso, diabolico, della casa del bottegaio, il quale dopo otto giorni si piega a capitolare, sborsando al Re una grossa somma di danaro, e consegnandogli molti ettolitri di grano e di vino : tutto ciò liberamente da parte della Società, sendochè il Governo, rispettoso della consuetudine, se non della legge comune, non istimò d’intervenire a turbare così bella impresa. Se il ore mi domandasse in quale anno del medio evo accadesse quel fatto, sponderei non lietamente, nel 1858. (De Gubernatis, Usi nuziali in Italia, pag. 241, 242: Milano 1878). (2) Bianchi T., op. cit. IX, 188. GIORNALE LIGUSTICO 331 pagne, di presentarsi alla fazione una parte armati di zagaglie, di ronche e di pennati, le quali armi accrescevano 1 esca al mal volere (1). Si afferma che in questi eccessi portassero corona sopra tutti gli Italiani i Lucchesi, per ciò che alle loro cembalate o tamburate infernali aggiungevano cantate oscene e vituperose appropriate ai difetti corporali, veri o immaginati, degli sposi, di cui rifiuto di ragionare, non potendo esse onestamente passare per bocca di persone costumate (2). Dicono ancora che eglino gettassero pazzamente scope accese sopra le case degli sposi, con grande spavento e pericolo d’incendio; e, come questo fosse poco, conducessero gli sposi in figura sopra un asino per tutta la terra, fra gli scherni, le contumelie e le fischiate della sfrenata plebaglia, che in queste vili opere era molto spesso esecutrice inconsapevole di quelli che non si dicono plebei (3). Io non confermerò quel giudizio, avverso ai buoni Lucchesi. Già ricordai quel che sapessero fare i Modenesi. Ora dirò che i Piemontesi di Alba vincevano i Lucchesi di lunga mano, poiché nel 1626 continuavano a portare in su Γ asino, non un fantoccio come questi facevano, ma gli sposi in carne ed ossa, legati sopra la bestia all’indietro e costretti di tenerne in mano la coda a modo di briglia (4). Nè erano da meno di tutti costoro i Genovesi, i quali nel 1690, di giorno chiaro, nel bel mezzo della città in luogo frequentatissimo, presero a viva forza, mentre passeggiava, una vedova sposa, rea di non aver voluto pagare la taglia di cinquanta lire, e accavallatala sopra F asino d’ un treccone la menarono a vitupero per le vie; del che per buona ventura non andarono (1) Napoli, op. cit. pag. 62. (2) Id. pag. 8, 9, 10 e 247. (3) Id·» °P- cit- PaS- 3°· (4) Vayra, op. cit. pag. 183. 33 2 GIORNALE LIGUSTICO impuniti i valorosi autori, ed alcuni furono mandati a rinsavire in galera (i). Altro fatto notevole accadde pure in Genova nove anni dopo contro il Magnifico Luca Pinello ; il quale fu, che non si contentarono i mascalzoni di sonargli le tenebre, per dir la cosa al modo genovese, ma nel giorno, ributtando egli sempre le loro pretese, uscito di casa, lo trassero fuori della bussola e strapazzarono vilmente lui e i facchini che la portavano; non però questa volta puniti i colpevoli, mercechè nel giudizio avrebbesi dovuto fare gran fascio e comprendervi de’ Nobili, non isdegnosi pe’ loro fini di abbracciarsi in questi tafferugli col popolaccio, onde la punizione, accrescendo le civili discordie già troppe, sarebbe riuscita alla Repubblica più dannosa della colpa (2). Con tutto ciò quando la Signoria genovese si mise a considerare la nullità scandalosa del suo antico decreto, consultando le provvidenze necessarie a porre finalmente un riparo contro questo abuso, disdicevole a gente civile e cristiana, non mancarono Consiglieri, i quali pur biasimando le Scampanate come si facevano, proposero di comportare almeno un po’ di chiasso, per freno, qual si voglia, al rimaritarsi, che essi condannavano sempre (3). Altrove, alcuni anni innanzi, non potendosi far di più, per diminuire lo scandalo pensato se non sentito delle seconde nozze, e chi crede ancora per accertare la paternità della prole, si ordinò con uno Statuto del I525> che la vedova non andasse ad altro marito dentro all’ anno del vedovile, sotto pena di multa (4). La quale disposizione, raccomandata, come vedemmo, in forma di consiglio o di (1) Staglieno , Le Donne della antica Società Genovese in Giornale Ligustico, tom. V. pag. 313. (2) Id., op. cit. pag. 314. (3) M., loc. cit. (4) Statuto di Castelnuovo di Val di Cecina (1525) rubr. 148 (Targioni, Viagg. Tose. Ili, 425; ed. 2A GIORNALE LIGUSTICO 333 ammaestramento, da Francesco da Barberino nel secolo XIV, rinnovò, sebbene più mite, in Castelnuovo di Val di Cecina una parte della Costituzione di Teodosio ed Arcadio, che stanziava la privazione delle donazioni usate allora dai mariti alle spose novelle, e Γ infamia alla vedova rimaritatasi non ancora finito Fanno del lutto; e ciò, non ostante che quella Costituzione imperiale fosse stata fino dal suo nascere riprovata da San Gregorio il Grande come avversa alla libertà del matrimonio, e poi Giustiniano 1’avesse abolita: nel che si addimostra, come gli errori, lasciati invecchiare, siano ben duri a sradicarsi dal mondo, dove provano mirabilmente (i). Del resto, ritornando al nostro fatto, per finire, il solo mezzo di liberarsi da’ fastidi delle Scampanate o Mattinate, secondo si appellavano nell’ Emilia, era quello di venir subito e meglio per innanzi agli accordi coi mattinatori, non lasciandosi tirare per gli orecchi a pagar la taglia, al solito proporzionata al patrimonio dello sposo ed alla dote della sposa, ed in Modena raramente maggiore di dodici scudi, se non c’erano particolari disposizioni come le sovraccennate di Torino e Saluzzo. I quali danari i mattinatori spendevano in un desinare, colazione o cena più o meno lauta, o nel premio di un pallio di cavalli od asini, o d’una giostra all’anello, od in musiche e falò, o in un ballo pubblico; delle quali feste, sotto le finestre de’ vedovi sposi, si fece alcuna in Modena a cui assistette tutta la nobiltà. In questo caso quelli che avevano riscosso la taglia e che erano sempre, come si disse, i più ragguardevoli, in Modena, si assumevano 1’ obbligo dinanzi agli sposi di tenere addietro ed in silenzio i male intenzionati non intervenuti agli accordi e non godenti, ai quali, bisognando, scrive uno de’ mattinatori, Notaio Apostolico ed Imperiale, Giudice Ordinario e Conte Palatino, (i) Novell. XXII, De nuptiis. Napoli op. cit. pag. 264. 33 4 GIORNALE LIGUSTICO in somma un gran bacalare, avremmo dato altro che pane e mandorle (i). All’età del Muratori, messo da gran pezza tra le sferre vecchie il decreto del 1547, in Modena vegliava ancora il costume delle urlate e del getto de’ cocci dalle finestre, quando alcuno della plebe conduceva una vedova, il che venne in fine a risolversi in un aggravio sulle doti da pagarsi ai Palafrenieri del Principe; non altrimenti che in Firenze i Serragli alle novelle spose passarono in privilegio a Paggi del Granduca: costumanze popolari convertite in monopolj cortigianeschi (2). Ora le Scampanate sono costrette dalla civiltà nelle sole campagne (salvo qualche leggiera scorreria, liberissima all’usato, nelle città minori ed anche nelle maggiori, non esclusa la capitale del Regno d’Italia) e quivi si praticano, un poco variatamente; della quale varietà mi duole che i contadini della mia Spezia non si avvantaggino punto. Giacché . memori de’ cattivi esempi delle grandi città, le quali danno sempre alle campagne di questi regali, ai vedovi sposi, che ricusano di mostrar loro la borsa dopo il primo esperimento della Trimpellata, essi fanno la caccia per legarli sull’asino e condurli a spasso; e qui una gara, degli uni in cercarli e prenderli, negli altri in sottrarsi alle loro mani. E generalmente non si lasciano carpire; quantunque io sappia d’uno, il quale, non ha guari, come in terra senza legge, venne sottoposto per ben tre volte alla cavalcata; ma egli povero contadino, più dignitoso de’ suoi go-vernanti, non si smosse dal proposito di non pagare, e vinse. Nelle altre parti della Liguria e della Lunigiana campagnuola (paesi che conosco di più) si lascia in pace l’asino, e tutto il danno, chi vuole redimersi, si riduce ad una offerta alla (1) Bianchi T., op. cit. II, 322; III, no; IV, 101, 119, 240; Vili, 53 j 333 ; IX, 188. Vayra, op. cit. pag. 182. (2) Muratori. A. M. Æ. diss. XXIII. Vedi Serraglio. 3 GIORNALE LIGUSTICO 335 Chiesa, spesso equivalente al prezzo della corda della campana , e talvolta aggiuntavi la mercede d’un sonatore per una festa da ballo, se non un buon rinfresco, secondo Γ umor della gente. E tuttora le nozze de’ vedovi, oltre che nelle ville della Liguria e della Lunigiana, sono per tal guisa più o meno oltraggiate nelle campagne del Vercellese, di Cuneo, di Pinerolo, di Novi Ligure, della Valtellina, del Comasco, del Pistoiese, del Pesarese, dell’ Umbria, e dell’ Abruzzo teramano, e forse in altre parti che non so (i). In Miano Siciliano, dove le Scampanate non sono, la vedova nel farsi sposa deve in segno di lutto sostenere l’umiliazione di andare alla Chiesa con tutti i capelli arruffati; per altro condizione men dura di quella che toccava un tempo alle vedove di alcune terre napoletane, condannate dalla consuetudine a troncarsi le trecce e farne sacrificio alla memoria del marito estinto (2). Lo stesso praticavano le vedove dell’ Umbria, nel vestire i panni corrottosi (3). La gravezza del quale atto si può desumere dal costume dell’ antica Germania, pel quale, conceduta al marito la pena contro la moglie adultera, egli, vendicatore inesorabile, ne incominciava 1’ esecuzione tagliando i capelli alla impudica (4). Dopo le quali narrazioni si misuri la celeiità del progresso civile, e si vegga se abbiamo ragione di andarne col viso altero, come facciamo). G. Rezasco. (1) De Gubernatis , op. cit. pag. 245. (2) Id., op. cit. pag. 244. (3) Graziani, Cronaca Perugina, pag. 269, Firenze, 1850. Tacit. German. XIX. 536 GIORNALE LIGUSTICO SPIGOLATURE GENOVESI IN ORIENTE _ · Il Zeitscbrift von Deutschen Palàstìna Vereins (i), IV, 217, 1S83 contiene un articolo intitolato: Neues %ur Geschicbte des Iohanniter Ordens (2), in cui il dott. Herquet, accenna alla nostra pubblicazione : Actes passés en 12η 2-71y à Layas et a, Beyrout par devant des Notaires génois (negli Archives de'll’O-rient latin I, Gênes 1881, pp. 434-534). Si allude special-mente a uno di questi atti del 25 marzo 1879 (Ivi, pp. 511-12) relativo a una nave de’ cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, denominata Sant'Andrea; la quale era stata appigionata a certi mercanti genovesi, e questi l’aveano subaffittata a tre altri genovesi, con facoltà di poterla condurre da Lajazzo dell’Armenia minore a Genova ο alla sua Riviera in principio d’Aprile, per commerciare e far pagamento del dovuto un mese dopo l’arrivo a Genova. L articolista già chiaro per la sua Cronologia· dei Gran Maestri del predetto Ordine (Berlino 1880) e per più altri lavori analoghi, qui a proposito di Bonifacio di Calamandrana, il quale come Gran Precettore d’Acri avea fermato il primo di essi contratti, rileva che i documenti noti prima d’ ora non nominavano Bonifacio in tale qualità che per gli anni 1269 ^1 71» mentre ora figura pure nel 1279. ■Le notizie storiche sull’ Oriente e sugli Ordini militari delle Crociate si raccolgono al nostro tempo avidamente, e si pubblicano mano mano nei diversi Periodici o Collezioni. Per ristringerci alle cose nostre, aggiungeremo che in questo stesso articolo (p. 206) il sig. Herquet porge una serie di (1) Periodico della Società tedesca per la Palestina. (2) Nuove notizie per la Storia dell'Ordine di S. Giovanni. GIORNALE LIGUSTICO 337 Arcivescovi di Colossi nell’isola di Rodi, frai quali nel 1336 un Ugo Cicala che al cognome e ai fasti della omonima famiglia nostra, si dovrebbe reputar genovese. E quanto agli Ordini militari , abbiamo trovato a Parigi nell’Archivio del Ministero Esteri un documento a c.e 290 v.° del Jurium Vetustior (fond génois), con cui Γ8 luglio 1267 il genovese Podestà Guido di Rodobio e il Consiglio ratificano la convenzione e pace fatta nel precedente 10 febbraio col gran Maestro dei Templari Tommaso Berardi. Tale documento è finora inedito , ma disgraziatamente non è che una conferma in termini generali, senza riferir nemmeno la sostanza del convegno; ad ogni modo lo pubblichiamo qui sotto al n.° I. Questo documento ci suggerisce alla memoria la Bolla 0 meglio Breve del Papa Alessandro al gran Maestro de’ Templari, perchè voglia aggiustarsi coi Genovesi sulla quistione di costruzioni che il suo Ordine ha fatto su certe terre ecclesiastiche genovesi, poste in Arcas presso Tripoli di Soria. Il Giornale Ligustico (1883 pp. 164-65) in cui questa carta fu pubblicata , discute se si debba alludere ad Alessandro III 0 IV, entrambi favorevoli ai Genovesi. Seguitando le ricerche sovra altre pubblicazioni analoghe e non italiane, c’ incontriamo nel sig. Rey autore delle Recherches sur la domination des Latins en Orient, Paris 1877. Ivi a p. 31 è un atto in Acri, 8 ottobre, 1255, in cui 1’Arcivescovo di Nazaret Enrico dona al genovese Madius de Marini due carrucate di terra nel Casale Saforia, in guiderdone di servizi e favori da costui largiti a quella Chiesa. L’ originale si conserva nell’Archivio di stato a Venezia (Atti diplomatici, Miscellanea, Busta XV, n. 273). Il sig. Delaville Le Roulx ci fece 1’ onore e la cortesia di inviarci il suo importante volume : Archives de l’Ordre de S.‘ Jean de Jérusalem, Paris, Thorin 1883, del quale volume Giorn. Ligustico, iAnno XI, .22 338 GIORNALE LIGUSTICO speriamo poter discorrere altra volta con agio maggiore. Fra i documenti, parte in extenso, parte a Regesto, di quest’ Ordine, che tuttora felicemente si conservano a Malta, abbiamo rilevati i seguenti accenni o rubriche. A pag. 45 il sig. Delaville cita, dal Voi. o Registro Bullari Magistrali, serie V, fol. iSS, un Trattato fra il gran Maestro Folco di Villaret ed il genovese Vignolo di Vignolo per Γ acquisto di Rodi e diverse isole. Questo documento richiedendo diffuse osservazioni, ne riparleremo più avanti. Seguono a questo altri due documenti del 1400 e del 1403 relativi a prestiti fatti dai Cavalieri Gerosolimitani al Maresciallo Buccicaldo, Governatore di Genova, nella nota sua spedizione in Oriente. A pag. 42 egli cita dal Vol. XXIV, i.a serie, una protesta del 24 novembre 1385 contro la giurisdizione che pretende esercitare nel porto di Rodi il ben noto Ammiraglio veneziano Carlo Zeno. Alla protesta diede motivo la preda fatta dal Zeno di una nave genovese e la successiva traduzione della nave in quel porto. Ivi pure un atto del 7 febbraio 1438 (I439) a Rodi, con cui quel Gran Maestro invia legati alla Signoria di Genova per troncare discordie sorte tra le due Potenze. A pag. 40, (dal Vol. XX stessa i.a serie) dei 56 documenti originali contenutivi, cinquanta si riferiscono a quietanze fotte a favore del gran Maestro da parecchi creditori, specialmente da banchieri genovesi in notaro Bartolomeo Bracelli negli anni 1341-42. Del quale Bracelli abbiamo nel nostro Archivio appunto un notulario che dal 1325 corre al 1342. Quest’ ultima specie di atti ci richiama alla memoria una quistione agitatasi molti anni fa intorno alla esistenza ed autenticità di pergamene, venute in grandissimo numero e subitamente alla luce in Parigi dallo scrittoio del notaro Courtois; perchè aprendosi dal Re Luigi Filippo il nuovo Museo GIORNALE LIGUSTICO 339 di Versailles alle glorie patrie vi era ressa per provare la nobiltà rimontante fino dalle Crociate. Il ch. Comm. Canale nella sua Storia di Genova (i) ne parla a lungo citando i precedenti autori che ne discussero. Una piccola parte di tali piccole membrane originali, insieme a molte copie e qualche facsimile , andò nel 1865 alla Biblioteca Nazionale di Parigi ed è ora rilegata in un volume di carte 148, del fond latin, n. 17,803 , contenente in totale 447 documenti che ho potuto esaminare a bell’ agio. E oltremodo notevole il numero delle famiglie (circa 100) (2) che vi figurano più d’una volta; composte di diversi individui che compaiono ora come prestatori, ora come sicurtà pei debitori, ora come dichiarantesi soddisfatti, tutti in oltremare , Terra Santa e Damiata dalla fine del secolo XII.0 a quella del XIII.0. La massima parte dei quali al cognome si addimostrano genovesi, molti di patrizi, alcuni anche a noi noti individualmente per altri documenti. Da questo stesso manoscritto della Nazionale già avea tratto sei atti il sig. Lavoix e pubblicatili nel suo dotto lavoro, Monnaies à légendes arabes frappées en Syrie par le Croisés, Paris, Baer. 1877, pp. 13, 17, 19, 20. Il più importante di essi per noi è quello della p. 17-18, in cui nell’agosto 125 r, il Re San Luigi scrive al Comune genovese. Lo riportiamo al η. II dei documenti che seguono. O (1) Nuova Storia di Genova, Firenze 1860, II, 612-613. G azzera, Mem. dell'Accad. delle Sciente di Tonno. 1844, ser. 2/ VI, p. 241 e segg. Quest’ultimo autore che ha veduto ai primi tempi la Collezione dice che le carte erano più di 2000. (2) Tra le quali i Boccanegra, Buroni, Doria, Cataneo, Calvo, Cebà, Camilla, Chiappa, Cicala, Doria, Dinegro, Ermirio, Fattinanti, Fornari, Figoli, Gattilusio, Grimaldi, Grillo, Guarco, Lercaro, Pagano, Piccaniiglio, Recco, Rapallo , Sauli, Stregghiaporco , Scarella , Vignolo , Valdettaro , Vento, Xaba ecc. 340 GIORNALE LIGUSTICO La quistione sulla autenticità delle predette carte è tuttora pendente. Il Lavoix stesso ammettendola non nasconde il proprio dubbio in quanto ad alcune di esse; per parte nostra invertiremo la risposta ammettendo Γ autenticità di alcune che vedemmo, e riservando il nostro giudizio alla attesa di migliori elementi di criterio in quanto alla loro massa ; non nascondendo del resto che se esse sono inventate, lo furono certamente sulla scorta e colla forma e materia di veri documenti. Ritornando ora ad uno dei documenti del sig. Delaville, citato sopra, il trattato fra Vignolo genovese e Folco di Villaret è ivi indicato colla data del 1392. Che esso sia inserito nel Registro del 1392 non ha niente di strano; sapendosi che talvolta per supplemento o per conservarne memoria furono copiati documenti in Collezioni posteriori; ma che l’atto sia proprio dell’anno 1392, come farebbe supporre il modo ivi di esprimersi, ciò non si può ammettere. Basterebbe il solo nome di Folco di Villaret che fu gran Maestro dei Gerosolimitani dal 1307 al 1319. Inoltre l’arrivo del Vignolo con galea armata a Limisso di Cipro e le conseguenti sue trattative con Folco per la conquista di Rodi sono avvenimenti succeduti verso il 1306, come asseriscono ricisamente gli storici Ciprioti, Florio Bustroni (1) e Francesco Arnadi (2) ed ammettono il compianto Hopf (3) e l’illustre De Mas-Latrie ; infine si sa che la conquista fu compiuta nel 1310. Il dott. Hopf dice che Vignolo trattò con Guglielmo fratello a Folco e antecessore di lui nella dignità di gran Maestro; Amadi e Florio (1) Istorie di Cipro, ms. nella Bibl. Universitaria c.c 102, v.° (2) In estratti dalla Cronaca ras. di Francesco Amadi, riportati dal conte De Mas-Latrie nella sua Istoire de l’île de Chypre, III, 981, 18,-5, veduti anche da me in una copia dell’Amadi posseduta dal conte Riant. (3) Veneto-byzantinische Analecten, negli Atti dell’Accademia di scienze e lette, e di Monaco, Cl. storico-filosof. III, 379 e segg, 1859. GIORNALE LIGUSTICO 34I Bustroni lo fanno trattare direttamente con Folco, il quale avrebbe anche potuto ingerirsene come Maestro provinciale 0 per incarico del fratello gran Mastro. Questo fatto di un genovese che propone un’ ardita impresa, e fu quindi Γ origine della ferma sede di cavalieri erranti dopo la perdita di Gerusalemme , questo fatto , dico , era ignorato negli Annali patrii che sono troppo spesso muti rispetto alle glorie di fuori, specie dell’ Oriente. Le quali glorie vengono ora alla luce a ribocco, collo affratellarsi delle Società storiche e dei dotti e studiosi anche stranieri, e col moltiplicarsi conseguente delle pubblicazioni ; fra le quali, per mantenerci sul nostro proposito, ci limiteremo a citare oltre 1 Regesti dei Commemoriali di Venezia del ch. dott. Predelli, le prossime edizioni dell’ Amadi e del Bustroni, e quella per noi importantissima di Filippo di Navarra , che saranno dovute all’ iniziativa dell’ instancabile conte Riant dell’ Instituto di Francia. Il primo fra noi a sollevare alquanto il velo sul \rignolo fu Carlo Pagano (1), il quale ne attinse notizia da un ms. della Storia di Cipro , che crediamo non possa essere che il sovracitato Florio Bustroni, il cui codice si conserva ancora nella nostra Biblioteca Universitaria. Altra copia è presso gli eredi del march. Massimiliano Spinola, e quest’ultima probabilmente è la medesima che già nel secolo XVII possedeva il noto Collettore di carte genovesi Bernardo Castelletto (2). (1) Delle imprese e del dominio dei genovesi nella Grecia, Genova, Pagano, 1814, p. 25. (2) Abbiamo cognizione dell’antica copia del Castelletto da\\' Abecedario del Federici, a cui difficilmente sfuggi alcuna notizia genovese anche esterna secondo 1’ erudizione possibile nel suo secolo. Egli ne parla appunto nella famiglia Moresco, e dice che la trasse dalla carta 85 del ms. Castelletto, per cui tale ms. non è identico a quello dell’Università. Cita pure una stampa del Bustroni in Trevigi 1609. 542 GIORNALE LIGUSTICO Nel libro del Pagano attinsero poi i chiari march. Serra (i) e comm. Canale (2) senza alcuna mutazione; eppure di mutazione vi era bisogno. Ivi il primo editore 11011 si avvide che ha da cambiarsi in Spinola quel Badin Spina, il quale con Michele della Volta essendo capitani di galee si congiunsero ad aprire la conquista colla flotta del Vignolo, partita il 23 giugno 1506 e composta di due altre galee, una fusta, due galeoni, una fregata con 500 Turcopili e cinque frati di lingue diverse per interpreti. Ma ciò che più fa a noi, si è che il Pagano parla di un Giovanni Andrea Vignolo-Mo-resco, laddove Giovanni Vignolo e Andrea Moresco sono due persone diverse, quello zio di questo ed avendo entrambi una storia particolare e degna di nota. Andrea Moresco già nel 1279 soggiornava nell’ isola di Candia (3) e potrebbe essere una stessa persona con quell’ Andriolo Moresco che nel 1303 capitano d’una galea, in società con altre due genovesi ove eia comito Luigi Moresco, fece preda su’ Veneziani allo stretto di Corfù (4). Nel 1270 era stato ammiraglio dell’imperatore di Costantinopoli il genovese Giovanni De lo Cavo. A costui successe in quella dignità Andrea Moresco, cui pure fu conferita in feudo la signoria di Scarpanto e Kos, isole situate intorno a Rodi. Come genovese, nemico naturale allora dei veneziani e dell’alleato dei veneziani il re Enrico II di Cipro, esercitava vigorosamente il corso contro gli uni e l’altro; di che irritato il re fece rappresaglie, gli riesci di prendere il Moresco facendolo morire, ed intimò a Salveto Pessagno am- (1) Storia dell antica Liguria e di Genova, IV, 89, Capolago. (2) Nuova Storia della Repubblica di Genova, III, 228, Firenze, 1860. (3) Hopf , op. e pag. cit. (4) Regesti dei Commemoriali di Venezia, editi per cura della benemerita Deputazione Storica Veneta, 1876, I, pag. 34. ' GIORNALE LIGUSTICO 343 basciatore dei genovesi che i suoi abbandonassero il regno di Cipro. Luigi fratello d’Andrea. (probabilmente il Comito sovra nominato) fu poi preso egli pure nel 1319 sulle coste d’A-caja dal veneziano Cornato, e da costui spogliato del dominio di Scarpanto che divenne signoria del vincitore, fu posto in carcere nell’ isola di Candia , dove morì malgrado i tentativi per liberarlo fatti dall’ imperatore Andronico II (1). I nostri atti notarili sono muti su questi due Moresco, famiglia che tuttora fiorisce a Genova ; dei Vignolo (anch’essi tuttora in fiore) accennano alcuni, fra i quali un Giovanni figlio di un Simone e Giovanni q. Michele; ma segnati come sono agli anni 1335 e 1343 non saranno i da noi cercati, piuttosto o discendenti o altrimenti consanguinei (2). E notevole che Pagano e Hopf chiamano appunto Giovanni il nipote di Andrea Moresco e l’iniziatore dell’ impresa di Rodi (non si sa da quale fonte); ma Bustroni ed Amadi lo chiamano Vignolo semplicemente, e il trattato fra esso e Folco di Villaret lo dice più precisamente Vignolus de Vignolo. Ora nei Commemoriali troviamo un’ altra notizia, sempre sullo stesso doloroso metro della rivalità a morte fra le due perle della marina Italiana, oggi la Dio mercè ricambiata in altrettanto affetto. Nel 1311 alcuni veneziani navigando verso Candia nella galea genovese di A^ignolo de Vignolo, furono raggiunti e spogliati dell’ avere dagli uomini di una galea appartenente a Simone Doria ed Antonio Arcanto, la quals portava gli ambasciatori genovesi al gran Maestro dei Gerosolimitani (3). (1) Bustroni, Amadi, De Mas-Latrie, Hopf, ai luoghi sovracitati ; Schlumberger , Numismatique dell’Orient Latin. Parigi, 1878, p. 217. Regesti dei Commemoriali cit., T. I, p. 224. (2) Richeri, ms. in Archivio di Stato; A. 14, 5; A. 26. 8, B. 21, 5, B. 25, 2. (3Ì Regesti dei Commemoriali, I, 480. 344 GIORNALE LIGUSTICO Giacché abbiamo nominato sopra Γ Archivio parigino del Ministero degli affari esteri, vogliamo qui pubblicare, (nn. Ili e IV), due brevi documenti inediti ed ignorati che, come il primo già accennato, rinvenimmo l’anno scorso nella nostra gita colà, studiando nella preziosa ed integra Raccolta dei nove volumi dei libri Iuritim Genuensiiun, di cui gli esemplari die restano fra noi (tre membranacei e un cartaceo) non sono che più o meno esatti duplicati. Questa collezione , come si sa, ci fu rapita dal primo Napoleone, e per questa parte, come per più altri codici, non fu ancora restituita al nostro Archivio. Il primo di essi documenti è una lettera di Balduino cancelliere dei Patriarca di Gerusalemme (Guglielmo), indirizzata ai genovesi e relativa alle altre egualmente lagrimevoli discordie fra i Comuni di Genova e di Pisa. Il documento non ha data, ma si sa d altra parte che il cancelliere Balduino è nominato in altre carte dell’anno 1134, 1138 e 1141 (r). Il secondo e una nota posta in fine dei privilegi dei re di Gerusalemme a favore de’ genovesi. In quella nota è cenno di altro reale privilegio, sottratto dagli Archivi genovesi della patria e d oltremare, e venduto pare dal tradimento di uno de nostri Consoli colà a chi aveva interesse a privarci del migliore e più prezioso titolo. Lo sciitto sembra della solita mano dell’ Annotatore del Septimus Iurium, che ivi appose anche parecchi alberi genealogici delle famiglie principesche di quel tempo in relazione colla Repubblica. Non eccedendo egli in questi alberi la fine del secolo XIII, e vedendosi in personale conoscenza con Filippo di Monfort signore di Tiro, si potrebbe scommettere ( ) Cartes de .V. D. losapliat, edizione di Delaborde p. 49. Cartulaire . Sépulcre, n. 27, p. 57, n. 33, p. 63, n. 87, p. 169. Delaville Le koulx, Archives de Malte, sovracitati p. 75. GIORNALE LIGUSTICO 345 eh egli c una sola persona coll’ annotatore contemporaneo del Caffaro originale della Biblioteca Nazionale di Parigi ; e che questo annotatore è Iacopo Doria il custode dell’Archivio patrio , 1’ ornai celebre Annalista che ci ha conservato la Cronaca di Gerusalemme del Caffaro. Giustizia vuole che confessiamo, come la copia dei documenti I e III ci fu fatta fare sui nostri appunti dall’ originale parigino , per la consueta liberalità del conte Riant, il quale ci somministrò altri dati per la nostra qualunque siasi illustrazione. C. Desimoni. I. 1267 , luglio 8. ίχί In nomine Domini amen. Nos Guidotus de Rodobio Janue civitatis potestas, consensu et voluntate infrascriptorum ex octo Nobilibus et Consiliariorum comunis Janue et congregatorum ad consilium more solito cornu et campana in palatio quo tenetur curia potestatis et una cum ipsis et nos dicti octo et consiliarii una cum dicto domino potestate, nomine et vice comunis Janue et pro ipso comuni, approbata et examinata prius torma presentis instrumenti per octo viros discretos , unum videlicet per quamlibet compagnam et duos iurisperitos secundum formam capituli Janue , volentes observare omnia et singula que nobilis vir Belengerius, traverius , sindicus et procurator comunis Janue, nomine ipsius comunis promisit venerabili fratri domino Thome Berardi magistro domus militie templi et conventui dicte domus, super facto pacis, compositionis et concordie facte inter dominum Belengerium nomine dicti comunis ex una parte et dictum magistrum et conventum dicte domus , nomine dicte domus, e conventus ipsius ex altera. Confitemur tibi magistro Alberto de Casali scribe comunis recipienti nomine et vice dicte domus et dictorum magistri et conventus dicte domus, nomine ipsius domus et conventus quod pacem et concordium factum et factam inter dictum Belaen-gerium (sic) procuratorem et sindicum dicti comunis, nomine dicti comunis ex una parte et dictam domum templi et magistrum atque conventum dicte domus, nomine ipsius domus et conventus ex altera. Nobis placet et de voluntate nostra atque dicti comunis facta est et factam esse 3 46 GIORNALE LIGUSTICO confitemur et ipsam et quicquid continetur in eis instrumentis factis de ipsa pace et de ipso concordio que scripta fuerunt in Tyro m.° cc.° lxvij.0 die x mensis februarii. Approbamus , ratificamus et confirmamus atque prestaniur ipsa pacem et concordium secundum quod factum est et quod continetur in dictis instrumentis et quicquid in ipsis continetur velle in integrum de cetero in omnibus observare. Et promittimus nomine nostro et dicti comunis tibi predicto magistro Alberto de Casali recipienti nomine dicte domus et nomine dicti magistri et conventus dicte domus quod a die confectorum dictorum instrumentorum dicte pacis in antea non petemus nec requiremus nec etiam questionem seu querelam movebimus vel alius nomine nostro seu dicti comunis contra predictam domum templi seu aliquos alios nomine ipsius domus, super aliqua re quacumque occasione hinc retro postea usque ad dictam diem aliquo modo vel ingenio ; salvo et exceptato quod si dicta domus templi teneret aliquas hereditates seu possessiones que essent iuris comuni Janue quod comune Janue possit eas petere sicut ius postulat e: requirit, et dictam domum templi quie-tamus et quietam habere volumus et finem et refutationem ipsi domui facimus et tibi dicto magistro Alberto recipienti nomine dicti magistri et conventus dicte d imus et etiam facimus finem et refutationem tibi recipienti nomine dicte domus et magistri et conventus dicte domus omnium peticionum, questionum iniuriarum et offensionum factarum et que facte dici possent et illatarum nebis seu dicto comuni Ianue in aliquo locorum dicti comunis per ipsam domum templi vel quoscumque alios vel etiam per quascumque galearum et ligna alia ipsius domus in Regno Cypri vel m alio quocumque loco in terra vel mari et quod super predictis nulli homini per nos vel alios quoscumque auxilium impendemus. Et promittimus, nomine dicte comunis, tibi recipienti, nomine dicte domus templi et dicti magistri et conventus ipsius domus decetero pacem, concordiam et bonam voluntatem habere, tenere et servare ipsi domini sicut olim melius et firmius servavimus et servatum fuit per dictum comune Janue; et quod erimus nos et dictum comune Janue boni amici dicte domui templi sicut umquam melius fuimus seu dictum comune melius fuit, et nullam offensam inferemus predicte domui templi. Que omnia et singula promittimus tibi stipulanti et recipienti nomine dicte domus et templi et nomine et vice dicti magistri et conventus dicte domus, attendere, complere et observare per nos et successores nostros nomine dicti comunis et in nullo contravenire sub ypotheca et obbligatione bonorum dicte comunis, renuntiantes omnibus assissiis, beneficiis, capitulis, privilegiis, indulgentiis, decretis, decretalibus, omnique legum et canonum auxilio ac GIORNALE LIGUSTICO 347 omnibus iuribus et rationibus quibus nos tueri possemus seu dictum comune occasione predicta tueri se posset. In quorum omnium evidentiam presens instrumentum sigillo cereo pendenti comunis Janue fecimus communiri. Nomina dictorum ex Octo Nobilibus sunt hec : Conradus Em-briacus, Jacobus Squarzaficus, Albertus Castagna, Enricus Aurie, Rubeus de Orto et Matheus Ceba. Nomina vero Consiliarorum sunt hec : Luchas de Grimaldo , Ido Lercarius , Guillelmus de Savignono , Luchetus Gatu-luxius , Daniel Aurie, Jacobus Anioinus, Jacobus Ventus, Dabadinus de Nigro, Enricetus Spinula, Symon Streiaporcus , Ansaldus Pollicinus , Petrus Arcantus, Pastonus de Nigro, Obertus de Grimaldo, Ansaldus Falla-monica, Montanarius Guercius, Symon Belmustus , Conradus Ventus, Nicola Embriacus, Symon Grillus, Symon Aurie, Lambertus Fornarius, Bonifacius Piccamilium, Sorleonus de Grimaldo, Enricus de Gavio, Jaco-binus Spinula, Egidius de Cruce, Matheus de Guisulfo, Jacobinus Ventus, Guillelmus Gabernia, Merianus de Marino, Conradus Panzanus, Bovarellus de Grimaldo , Petrus Embriacus , Frexonus Malocïllus, Obertus Sardena, Francischinus de Camilla, Lanfranchinus Ricius, Thomas Mallonus , Ansaldus de Asture, Symon Tartaro, Marinus de Marino, Bertholinus de Castro, Marinus Adalardus, Johannes Guecius, Abramus Pillavicinus, Gigans Calvus, Enricus de Sancto Zinexio, Johanninus de Volta, Contenus Donatus, Johanninus Embriacus, Lanfranchinus Ventus, Paganus Guecius, Rollandinus Cantellus, Petrus de Nigro, Guillelmus de Pezagno , Petrus Lomellinus, Symon Panzanus, Symon Piccamilium, Fulchinus Mallonus, Philippinus Mallonus, Jacobinus Barllaria, Lanfranchinus Streiaporcus, Marinus Usus-maris, Uguetus Lomellinus, Andreas de Nigro, Otto de Cruce, Raimun-dinus de Mari, Brachetus de Turcha, Andriolus de Guisulfo, Lanfranchinus Lercarius, Manuel Licharie, Balianus de Carmadino, Raimundinus Agala, Iohannes de Mari, Thomas de Murta, Lanlrancus Albericus, Jacobus Li-gaporcus, Guillelmus Guaracus, Jacobus Rata'dus, Uguinus de Mari, Guillelmus Pollicinus, Ogerius Embronus, Bertholinus Dentutus , Jacobus de Fontono, Nicolaus Alpanus, Marinus Embronus, Ricobonus Coxanus, Guillelmus Sardena, Jacobinus de Gualterio, Johannes Bavosus, Thode-scinus Ceba, Gavinus de Tiba, Jacobinus Silvagninus, M?nuel de Vivaldo, Nicolaus Baraterius, Enricus de Vivaldo , Benevenutus Toscicus, Symon de Prementorio, Obertus Pistinus, Johannes Burgarus, Obertus de Vignali, Guillelmus Andree, Symon de Sancto Syro, Symon Bonaiuncta, Guillelmus Porcus, Paganus Cavaruncus, Manuel de Nigrono, Johannes de Quarto, Jacobus de Bulgaro, Otto de Yso, Nicolaus de Quinto, Symon de Mari, Lanfrancus Capelletus , Baldizonus Canis , Johanninus Stralleria , Jacobus 348 GIORNALE LIGUSTICO Piper, Armannus Pinellus, Montanarius Guaracus, Johanninus Guercius , Albertinus de Flisco, Jacobus Finusamor, Johanninus Bonetus, Johannes Botinus, Raimundus Buccucius, Andreas de Orto, Bonusvassallus Ususmaiis, Baxinus Gatuhixius, Bergognonus Embriacus , Guillelmus Cerriolus, Albertus de Vultabio, Bertliolinus Bonifacii, Corsus Ferrarius, Saladinus de Sauro, Saehetus Tartaro, Arguisius de Nigro, Lanfranchinus de Gualterio, Johannes de Moni.irdino, Thomas Aurie. Actum Janue in pajatio heredum quondam Oberti Aurie quo regitur curia potestatis Janue, anno dominice Nativitatis m.° cc.° lxvij0, indictione viiij*, die Veneris octava Julii, inter primam et terciam, presentibus testibus Joannino et Balduino de Iozo, scribis comunis , Enrico Cintraco et Marineto de Monterosato sub-scriba. Ego Ricobonus Paiarinus, sacri palatii Notarius, predictum instrumentum estraxi et exemplificavi de Cartulario Instrumentorum compositorum in consilio per subscribas palatii ante sedem potestatis, videlicet per manum Boni Johannini de Langasco notarii, nichil addito vel diminuto, nisi forte littera, sillaba, seu punto propter mutetur sententia et hoc abreviationis causa ut in ipso vidi et legi, ad quod corroborandum scripsi de mandato domini Gmdoti de Rodobio, potestatis Januensis, presentibus testibus. (Dal lurium Vetiistior c.e 290 v. intitolato Conventio Templi)· II documento precedente a questo, cioè il trattato del 1264 fra i Genovesi e il Signore di Tiro, Filippo di Monforte, era pure inedito, ma fu pubblicato dal Conte Riant negli Archives de VOrient latin, Gênes, Sourds-muets, 1883, II, 2/ parte, pp. 225-236. II. 12 51, agosto. Ludovicus Dei Gratia Francorum Rex, prudentibus viris consilio et Comunitati Civium Ianuensium citra mare existentium salutem et dilectionem sinceram. ^ obis notificare volumus quod cum 120 paria litterarum aliquibus de dicta communitate vestra civibus, per nos ipsos pro 3 paribus et per quosdam milites armigeros alioque crucesignatos pro residuis, obligatarum in quodam piratico vase per galeas nostras nuper capto reperta fuerint nobisque per fidelem nostrum Magistrum Balistariorum tradita ad vos ipsa GIORNALE LIGUSTICO 349 destinamus restituenda. Nos vero prudentum virorum consilio de dictis centum et viginti letterarum paribus 55 retinuimus, cum supèr ipsis secundum quorundam fide dignorum relationem et omni necessaria probatione diligenter coram nobis facta apparuerit, jam predictis civibus fuisse plene et integre satisfactum : quod melius et ex eorumdem civium parte justius probatum de facto fuisset per debitam cancellationem sigillorumque sublationem, prout in tallibus decet et expresse conventum extitit. Vobis igitur mandamus, quatinus circa hoc tantam curam apponatis, et cum ex tali indebita negligentia, prout per hunc proximum casum intellexeritis , multa prejudicia suboriri possint, taliter super predictis vos in futurum habeatis quod vestram observandam possimus merito commendare ac vobis exinde debeamus scire grates. Datum in Castris justa Cesarea'm Palestine anno domini MCCL0 primo, mense augusto. (Lavoix, opuscolo citato, p. 218, che descrive la carta come pièce originale avec le sceau royal ea cire Hanche et le contresceau à la fleur de lys, dal ms. n.° 17,803, fond latin fol. 115). III. Hec sunt \ erba epistole quam Baldoinus patriarche Ierusalem cancellarius et Bernardus A^accarius Ianuensibus consulibus et archiepiscopo a Pisis mandaverunt. Serenissimo domino et patri karissimo Sy [ro II] dei gratia venerabili Ianuensi archiepiscopo et Deo dignis consulibus eiusdem populi B. Cancellarius et B. Vaccarius felicem sancti propositi consummationem. Ad responsa Pissanorum confusi sumus et sensus noster ebuit quia illud quod de illorum perfidia a vobis predictum fuerat, cun causas abreviati termini opponerent, continuo claruit. Mandamus itaque vobis ne diem termini observetis quia, ut aiunt, nobiscum non possunt hoc tem-poie, renuentibus consulibus, federali. Rogamus autem ne vestri ardor propositi sopiatur ne gloria vestra et honor, quem iam super hoc ne-gocio acquisitis, aliquatinus obscuretur. Petimus etiam, ut sicut ex nunc et deinceps nominis vestri famam curabimus predicare, ita et vos domino patriarche et regi laborem nostium et conversationem, quam citius poteritis, vestris studeatis litteris intimare. Dolor quem habemus in corde in secunda linea errare nos fecit. (Dall lumini l· etustior c.e 5, e Iurium septimus c.c 73, v.°). 35° GIORNALE LIGUSTICO IV. Nota, quod debet esse aliud privilegium factum per dictos barones dicto tempore; videlicet quod debent habere libertatem in Tyro et terciam partem cathene et casale Sancti Georgii et multa alia ut continetur in Chronaca Cafari. Sed istud privilegium non est in Ianua nec ultramare; tamen audivi dicere Domino Philippo de Monteforti domino Tyri quod unus consul januensis in Syria vendidit unum nostrum privilegium melius quod habebamus ; unde potest esse quod fuit istud, sed noluit dicere nomen consulis nec tenorem privilegii. (Dall'Jurium septimus, c.° 68, v.°). INVENTARIO DI SPINETTA DA CAMPOFREGOSO Dopo che Genova nel 1421 fu caduta in potere del Duca di Milano, Tomaso da Campofregoso deposto il dogato, si ridusse con tutti i suoi ad abitare in Sarzana, la cui signoria gli era stata assegnata nell’ atto di convenzione stipulato col Duca per l’abbandono del dogato e della città, impotente ormai a resistere ai nemici interni ed esterni, che da ogni parte lo stringevano (1). Ma a ciò non s’indusse senza che egli ottenesse altresì una buona somma di danaro ; siccome Spinetta suo fratello, dopo aver alquanto resistito, consegno per 15 mila fiorini alle armi ducali Savona, che, secondo una testimonianza contemporanea, aveva usurpata (2), sebbene fin dal 1416 fosse stato eletto dal fratello doge, in governatore di quella città e di tutta la riviera di ponente (3). Altri uffici aveva questi innanzi sostenuto, chè nel 1410, essendo Ge- (1) Stella, Ann. Gen. in Muratori, R. I. S., XVII, 1283 e segg. Lunig , Ccd. Ital. Dip., IV, 1991 e segg. (2) Bosco, Consilia, Lodani, Castellana, 1620, p. 485. (3) Stella, op. cit., 1267. GIORNALE LIGUSTICO 351 nova governata da Teodoro di Monferrato, andò capitano a Pera, poi cinque anni dopo, nel dogato di Giorgio Adorno, castellano a Caffa; e fu mandato quindi nel 1417 contro Tomaso Malaspina marchese di Cremolino, il quale si era chiarito protettore del ribelle Raffaello Montaldo (1). Ridottisi i Fregoso in Sarzana presero dimora nel forte di Sarzanello, che a que’ tempi era sempre nelle condizioni primitive , e la sua conformazione consentiva ad una famiglia signorile ed assai numerosa di potervi abitare ; poiché eravi il palazzo difeso dalla gran torre quadrata, già residenza de’ vescovi di Luni, lavoro anteriore al secolo XI, mantenuto, senza importanti modificazioni, dai pisani nel trecento, incominciato quindi a ridursi a forma alquanto diversa, secondo le nuove esigenze militari, fra il 1492 e il 1494 dai fiorentini per opera dei loro ingegneri, Francesco di Giovanni detto il Francione e Luca del Caprina , e finalmente ridotto a termine, specie nella parte che guarda il mare, secondo anche oggi si vede, dai genovesi nel corso degli anni 1498 al 1502. Spinetta da Campofregoso prese stanza egli pur nel castello, dove condusse la moglie Ginevra figlia di Giangaleazzo Manfredi Signore di Faenza e sorella della Marzia, che aveva sposato suo fratello Tomaso. Ma egli quando contrasse questo matrimonio era già vedovo di una donna, il cui nome rimase ignoto ai genealogisti, e dalla quale ebbe fra gli altri un figlio suo omonimo, donde 1’ attribuzione a lui, già morto, di atti appartenenti a questi. In fatti il Litta lo fa sempre vivo nel 1445, asserendo com’ ei fermasse accomandigia con i fiorentini, mentre i documenti ce lo dicono morto nel 1425, e il fatto, se fosse vero (2), spetterebbe al figliuolo. Cosi lo (1) Stella, op. cit. 1267, 1274. Litta, Fani. Fregoso, Tav. IV. (2) 'NeWArch. di Stato di Firenze ho cercato invano questo documento. 3 52 GIORNALE LIGUSTICO stesso autore, oltre all’ aver ignorato di qual famiglia fosse Ginevra, assegna a Spinetta tre soli figli dimenticando affatto gli altri (i). Che la sua morte sia avvenuta nel 1425 11011 Pu0 metteisi in dubbio , poiché il 3 di agosto di quell anno l'omaso da Campofregoso e Ginevra, « cum magnificus vir Dominus Spineta, natus recollende memorie magnifici viri Petri de Campofregoso decesserit hoc presenti anno de mense Iunii pioxime preteriti ab intestato », si costituiscono tutori ed amministratori dei figli minorenni Alessandrino, Nicolosino , Gian-galeazzo, Teodorina e Maria, il primo di tutti, 1 altra solamente di Giangaleazzo e Maria, i due nati da lei (2). Dove e in quali circostanze sia morto Spinetta non è dato nello stesso modo accertare; ma si potrebbe supporre che ciò avvenisse nella guerra combattuta in quell’ anno dai Fregoso e loro aderenti contro la fazione nemica dei genovesi e del duca di Milano, per riacquistare la signoria della citta; fatto d’ armi dove rimase gravemente ferito il fratello Giovanni, 1’ eroe di Bonifacio (3). La vedova ed il fratello Tomaso costituiti tutori, adivennero alla compilazione di un esatto inventario di tutto quanto si trovava nella abitazione del defunto, e gli apparteneva, non che dei suoi crediti, ed è il documento che riferisco qui per intero (4). Millesimo ccccxxv Indictione iij secundum cursum Serzane die iiij mensis Augusti. Cum magnificus et excelsus dominus dominus Thomas de Campofregoso natus recollende memorie magnifici domini Petri de Campofregoso et magnifica domina Zenevria nata recollende memorie magnifici et (1) Op. cit. Tav. cit. (2) Arch. notarile di Sarzana, Atti di Andrea q. ser Jacobini GriJJi. (3) Stella, op. cit., 1293. (4) Arch. notarile cit. Atti cit. GIORNALE LIGUSTICO 353 excelsis domini domini Iohannisgaleaz olim favencie etcet. domini et consors rellicta recollende memorie magnifici domini Spinete de Campofregoso nati prefati quondam domini Petri et Germani prefati magnifici domini I home fuerint hoc presenti anno die heri tercio presentis mensis Augusti tutores et administratores legitimi dati et constituti Alexandrino, Nicolo-xino, Iohannigaleaz, Theodorine et Marie omnibus minoribus et pupillis ac filiis et filiabus legiptimis et naturalibus prefati quondam domini Spinete. Videlicet ipse magnificus dominus Thomas omnibus et singulis dictis filiis et filiabus minoribus et pupillis ut supra, et ipsa magnifica domina Zenevria dicto Iohannegaleaz et Marie filio et filie suis minoribus et pupillis ut supra per spectabilem et egregium virum dominum Petrum de Montesorro honorabilem vicecomitem Serzane etcet. ut patet de dicta tutella publico instrumento scripto et rogato manu mei notari infrascripti dicta die tercia presentis mensis Augusti. Idcirco prefati magnificus dominus Thomas et magnifica domina Zenevria tutores et administratores dati et constituti ut supra scientes et cognoscentes ex constitutione auctoritatis benigne legis ad invenctarii confectionem de bonis et rebus ispo-rum minorum se se teneri et obligatos fore hoc publicum invenctarium de bonis et rebus dictorum minorum premisso signaculo venerabile sancte crucis, manibus propriis ipsorum tutorum in hunc modum facere procurarunt. In primis namque dixerunt et asseruerunt ipsi tutores se in bonis et rebus dictorum minorum res et bona mobiles infrascriptas invenisse videlicet. Et primo in uno Marzapano (i) fermalios quadragintaquinque de auro cum zafirris perlis et barassiis. Item fermalium unum de auro cum perlis et uno barassio. Cofanetum unum de ebure nigro cum uno anulo adamantis in tabula. Anulos sex de auro cum uno robino duobus smeraldis tabula una adamantis cum duabus costetis. Uno lilio. Verghetam unam de auro et roxe-tam unam de granata. Item anulum unum cum barassio in octo cantulis. Item grupetum unum de perlis. Grossis numero trecentum decem et octo. Crucem unam de argento cun perlis quindecim. Item unum Agnusdey. Item cofanetum unum de ebure in quo erant crux una parva et unum Agnusdey de argento deaurato. Item collanam unam de auro cum perlis septuaginta septem cum barassiis septem et uno zafirro. Item bursam unam cum ducliatis de auro Mille quingentis septuaginta sex. Item cor- (i) È il Massapantim della bassa latinità cioò cassetta Cfr. Du Cange. Giorn. Ligustico Anno XI. 354 GIORNALE LIGUSTICO rigiam unam de argento deaurato fulcitam a capite usque ad finem. Tovaliolam unam cont.stani ad aurum involutam uni vultergio novo. Zebellinos duos de portando ad collimi. Perlas quadringentas quadraginta octo in uno filio. Corrigiam unam albam de argento deaurato. Corrigiam unam de cremexi de argento deaurato. Corrigiam unam de vii idi scuro de argento deaurato. Corrigiam unam de cremexi cum fulcimento albo. Corrigiam unam de celesti de fulcimento argenti deauiati. In uno coffano res infrascriptas videlicet : Palmos duos velluti de cremexi ad medium pillum. Cortelleriam unam fulcitam gladiis quatuor cum manicis de argento et cum una forcella de argento. Basalarium (t) unum. Corrigiam unam dicti Alexandrini de argento. Certas copetas de argento unciarum circa quatuor. Gladium unum cum manicho de argento in una vagina. Certum fulcimentum de argento a mula libre unius vel circa. In alio coffano invenerunt res infrascriptas videlicet : Clamidem unam nigram dicti Alexandrini. Caputegium (2) unum panni nigri dicti Alexandrini. Caputegium unum panni nigri dicti Nicoloxini. Mochias (3) duas de roxea dictorum Nicoloxini et Alexandrini. Zorneas duas de camucato albo pro dictis fratribus. Vestem unam de camucato violeto pro dictis fratribus. Nucham (4) unam de zeteni (3) de cremexi fodratam dossiis. Vestem unam pro dicto Alexandrimo vellutati nigri fodratam dossiis. In alio coffano invenerunt res infrascriptas videlicet: Copertorium unum de brocliato de auro pro infantulis fodratum panciis de vario. Clamidem unam a domina de roxea de grana. Nucham unam a puella de chamocato violato fodratam ventribus. Par unum cirothecharum vellutati nigri fodra-torum martulis. Vestem unam a puero de vellutato nigro retineto. Librum unum dantis in parvo volumine. Vellatam unam a domina pro balneo cum frixo de auro. Par unum cirothecharum de camussio fodratorum marturis. Zebellinos sex integros. Sognam unam cum certis peciis zebel-linorum. Copertorium unum velluti celestis a lecto fodratum bochassino albo. Manutergia sex. Trezzam unam a domina velluti vellutati de bro-chato aureo. Psalterium unum in parvo volumine. In alio coffano invenerunt res infrascriptas videlicet : Vestem unam ab (1) Specie di coltello. (2) Cappuccio o cappello. (3) Sopramaniche larghe cadenti. (4) Piccola berretta che copriva la nuca e parte della sommità del capo, simile a quella che usano anche oggi i preti, la quale a Genova si dice seguita, dall’ antico voc. milit. col quale veniva indicata la difesa che solevasi portare sotto 1’ elmo. (5) È il raso. GIORNALE LIGUSTICO 355 homine de rosea fodratam collibus de zebellino et cum manicis fodratis de zebellino. Vestem unam ab homine de vellutato nigro fodratam mar-turis. \restem unam ab homine de vellutato nigro brachatam ad argentum fodratam zebellinis. Vestem unam ab homine de vellutato de cremexi fodratam zebellinis. In alio coffano invenerunt res infrascriptas videlicet: Stregionum unum de pennis pavonorum. Trezzas duas de vellutato de cremexi. Nucham unam de roxea diete Theodorine. Biretum unum ab homine velluti de cremexi ad pilum nigrum fodratum zebellinis. Biretum unum ab homine vellutati nigri fodratum de bivera. Par unum manicharum magnarum de dossiis. Caputegium unum ab homine stampatum de roxea. Paria duo manicharum strictarum a domina unum de foynis et aliud de marturis. Nucham unam de zeteni vellutati de cremexi ab homine fodratam ventribus dossorum. Vestem unam ab homine vellutato de nigro fodratam dos-sibus. Nucham unam ab homine de vellutato nigro fodratam ventribus dossorum. In alio coffano invenerunt rex infrascriptas videlicet : Par unum manicharum a domina de vellutato celesti brochato ad aurum. Radium unum de auro cum certis aliis bordaturis a cortina. Cingulum unum de argento dicti Nicoloxini. Vestem unam a domina de roxato cum aliquibus dossiis ad manichas. Nucham unam a domina de vellutato nigro brochato ad aurum fodratam bochassino. Nucham unam a domina de vellutato de cremexi cum certis bordaduris. Vestem unam a domina de camuchato vio-leto cum manicis strictis fodratam dossiis. Gonelectam unam a domina de veluto de cremexi. Tabernaculum unum de ebure cum figura crucifixi. Vestem unam a domina velluti viridis cum aliquibus bordaduris. Vestem unam a domina vellutati cellestis brochatam ad aurum cum manicis strictis fodratam armellinis. Vestem unam a domina vellutati de cremexi brochati ad aurum cum manicis ad alletas fodratam euxetis. Vestem unam a domina velluti vellutati de cremexi brochati ad aurum cum manicis fodratis he zebellino. In alio coffano invenerunt res infrascriptas videlicet : Bacille unum de argento a barbitonssore. Piatos duos magnos de argento. Piatos duos mediocres de argento deaurato. Scutellas octo et scudellinos octo de argento. Flaschos duos magnos de argento. Bacilia duo magna de argento albo. Bacile unum de argento deaurato. Candelabra sex de argento. Gobelletum (i) unum de argento deaurato altum , cum choperchio. Sta- (i) Calice. GIORNALE LfGUSTICO gninos duos de argento deaurato. Tacias duas magnas de argento prò refrigerando. Tacias sex de argento cum pedibus. Salerias duodecim de argento. Busseletum unum de argento pro aromatibus. lacias sex de argento martellatas. Quadretos duodecim de argento. Incisoria duo de argento rotonda. Stagnaretos duos de argento albo. Gobeletum unum de argento deaurato cum choperchio. Choclearia duodecim de aigento. Item fulcimentum unum de roxea ab equo fulcitum argento. Perlas trecentas triginta Marie suprascripte. In alia cassia invenerunt res infrascripta videlicet : Gausapia (i) tredecim. Lentiamina sedecim. Cortinam unam a lecto de tela subtilli. In alia cassia invenerunt res infrascripta videlicet : Gausapia quatorde-cim. Manutergia decem et novem. Guardanapos (2) decem et octo. Manu-tergia viginti duo. Cultrem unam albani a lecto. Cultrem unam de burdo. Librum unum tragediarum Senece in cartis glossatum magni valoris. In alio coffano invenerunt res infrascripta videlicet : Nucham unam ab homine de roxea cum uno rotondo. Dagham unam fulcitam argento. Par unum calçarum de argento. Cingulum unum de cellesti fulcitum de argento. Gausapia duo. Corrigiam unam de vellutato de cremisi fulcitam de argento. Biretum unum ab homine velluti de cremexi fodratum de zebel-linis. Vestem unam vellutati de cremesi fodratam dossiis. Cortelleriam unam cum tribus gladiis de manicis de argento et una forcela de argento. Vestem unam ab homine de roxea fodratam panno albo, \estem unam ab homine velluti nigri fodratam pellibus linceis. Prefatus magnificus dominus Thomas dixit et confessus fuit coram me notario et testibus infrascriptis habuisse de rebus et bonis predictorum minorum pecunias et res infrascriptas videlicet post obitum prefati domini Spinete. Et primo in auro florenos mille quingentos sexdecim. Item in argento grossos florentinos numero quinque millia quingentos viginti sex. Bacille unum argenti. Stagnarias duas argenti deaurati cum veste. Scutellas quatuor de argento. Scutellinos quatuor. Incisoria duo argenti rotonda. Go-beletos sex de argento cum pedibus. Tacias sex de argento pichatas. Busseletum unum de argento pro aromatibus. Saleriam unam de argento. Piatos duos de argento. Forcellas duas de argento. Quadretos sex de argento. (1) Specie di tovaglia o mantile. (2) Arnese di legno o di metallo sul qaale si riponevano i vasi da mensa, affinchè non si insudiciasse la tovaglia, eJ anche specie di tovagliolo di tela per lo stesso ufficio. GIORNALE LIGUSTICO 357 Item invenerunt dictos minores et heredes debere recipere ab infra-scriptis personis et comunitatibus florenos et pecuniarum quantitates et summas ex causis infrascriptis ut infra, videlicet : Et primo. A montibus Comunis Florencie florenos octo millia ducentos quinquaginta, et plus et minus ut in libris dictorum montium scriptum est. Qui floreni suprascripti constant ad rationem florenorum auri novorum florenos quinquemillia. A Comunitate Vulterre florenos auri novos quinquemillia. A Comunitate Prati florenos auri novos mille. Ab Antonio Silvestro de Florencia et sociis florenos auri novos mille. A Iohanne Magiolino de Pisis capserio Lucano florenos auri novos mille depositatos eidem Iohanni per certos cives Ianuenses. A Paulo de Bardis bancherio in Pisis florenos auri quadringentos. Item quodam creditum et ius petendi et exigendi pro dictis filiis et heredibus q. D.mi Spinete a Nicolao de Usano et sociis florenos quingentos auri habitos et receptos per dictum Nicolaum et socios ab Isau Angeli et sociis consortibus prout patet per librum dicti Nicolai et sociorum. Item quodam creditum et seu ius petendi et exigendi a dicto Nicolao et sociis florenos ducentos quinquaginta auri, quos dictus Nicolaus et socii debent recipere pro dicto q. D.no Spineta, et hodie pro dictis suis filiis et heredibus a dicto Isau et sociis pro promissione facta per dictum Isau et socios dicto Nicolao et sociis pro dicto q. D.no Spineta. Item ius absolvendi et liberandi ac finiendi dictum Nicolaum et socios ab hiis de quibus proxime fit mencio. Item quodam debitum et ius solvendi Comuni Florencie, et seu decem officialibus baylie Comunis Florencie pro ipso Comuni, quantitatem florenorum auri MCCL, in quibus et de quibus dictus olim D.nus Spineta reperitur et est debitor dictorum decem baylie pro dicto Comuni habitis per dictum olim D.num Spinetam a dictis decem baylie pro suis negociis, prout patet per libros dictorum decem baylie. (Segue una lacuna di una pagina e un terzo). Et ad presens dixerunt et asseruerunt prefati magnifici Domini tutores de bonis et rebus dictorum minorum se se nil aliud invenisse, nec dolo aliquo fecisse quin singula bona et res ipsorum minorum in presenti inventario describerentur seu describantur, protestantes quod si quid de cetero ad manus vel noticiam eorum de bonis et rebus ipsorum minorum pervenerit quod presenti invenctario vel alio manu mei notarii infrascripti, 358 GIORNALE LIGUSTICO seu alterii notarii, addi facient et describi, et quod in predictis nulla lignitate usi sunt nec in futurum uterentur, et reliquerunt spacium supra scriptum. (Segue una lacuna di un ter^o di pagina). Lectum apertum et publicatum fuit presens invenctarium de mancato et commissione prefatorum D.norum tutorum per me Andream de Griffis de Sarzana notarium publicum infrascriptum in Rocha Castri magni Sar zane coram et in presentia prefati D.ni Petri Vicecoraitis suprascripti prò tribunali sedentis in dicto loco in camera cubiculari prefate D.ne Zenevrie ad hunc actum ob reverentiam prefatorum magnificorum D.norum tutorum (sic) : qui D.nus Vicecomes omnibus et singulis suprascriptis, causa piene cognita, suam et Comunis Sarzane auctoritatem interposuit pariter et decretum: et presentibus spectabile viro D.no Prospero nato prefati q. D.ni Petri de Campofregoso, Francisco de Boniohanne notai io Ianuense q. Antonii, Francisco Fredi q. Augustini cive Ianuense , Ser Iohanne Griffis q. Ser Bonifacii de Sarzana, et Batista de Rapallo Iohannis, testibus ad hec vocatis specialiter et rogatis. Come si vede, 1’ inventario è assai ricco vuoi di singolari oggetti di vestiario, vuoi di ornamenti e suppellettili preziose di gran valore; nè sfuggirà ad alcuno la sua importanza, ove si consideri la minuta diligenza onde gli oggetti sono indicati e descritti, e la cura usata dal notaro nel determinare per lo più a chi servissero gli abiti e gli abbigliamenti, poiché ci consentono utili osservazioni e confi onti pei i co stumi del secolo XV. Ci mostra altresì quanto fosse doviziosa questa famiglia, la quale per un certo rispetto può patago-narsi a quella dei Medici, ed è certamente fra le maggiori, più potenti e notevoli del secolo XV. Tre sono i libri qui ricordati e cioè un Dante, un psalterio, e le tragedie di Seneca, volume questo cartaceo ed asserito di gran valore. Quanto al primo, che non può dubitarsi essere stato la Divina Commedia, osservo come, insieme al libro di preghiere, si trovi fra le vesti appartenenti « a domina », ossia a Ginevra, donde si dee credere che anche il Dante fosse di suo uso, GIORNALE LIGUSTICO 359 ed ella preferisse questo ad ogni altro libro. E, curioso riscontro , dopo sei anni di vedovanza doveva entrare in quella famiglia Da Polenta, che fu ultima ospite del gran poeta ; poiché nel 143 i sposò Ostasio, partecipando con animo virile a tutti i casi della sua vita avventurosa (1). VARIETÀ Due lettere di Papirio Picedi. Quest’ uomo non ignoto nella storia civile ed ecclesiastica, e noverato altresì fra gli scrittori, era nato in Arcola, ma teneva nel vicino paese di Vezzano « casa aperta », essendo di famiglia assai doviziosa. Dell’ esser suo rende conto egli stesso nella lettera al Doge ed ai Senatori della Repubblica di Genova (2), che qui riferisco ; lettera da lui scritta mentre dimorava a Milano, dove fin dal 1572 aveva ufficio d’Agente del Duca di Panna (3). Eccl.”'o et lll.mi Signori Pro."' Col.mi, Quel danno che in alcuna occasione ho patito per gli accidenti, che ha portati il mondo da certi giorni in qua all’ Eccl.za et Ill.me Signorie VV. ho io con ogni patienza tolerato ; non dovendo io haver per male, (1) Mss. Passerini, Fase. 169 e 197 nella Bib. Naz. di Firenze. — 11 Litta malamente dice Ginevra : « non so se figlia o vedova di Ascanio da Polenta » ; e il Passerini , pur indicando il matrimonio di lei con Ostasio, non fa alcun cenno delle prime sue nozze, e della sua vedovanza. (2) Arch. di Stato, Litterarum ad ann. (3) Cfr. Lelt. del Contile in Arch. Veneto, IV, parte 1.., 552. 360 GIORNALE LIGUSTICO se in certi casi io non habbia miglior fortuna , nè maggiore privilegio de gli altri; come fu nel sacco di Vezzano, nel dì ehe ritornò all ubi-dienza loro. Nella qual Terra tenendo io casa aperta, benché non vi stia, corsi la medesima sorte de gli altri, e come che la casa mia non fusse delle mimine, così non fu minore de gli altri il danno che a me ne seguì. Ma quello che da quel giorno in qua è fatta a me solo, ben mi preme e tocca il vivo, non perchè essendo calpestato io solo, io voglia dire che a me dispiaccia il bene de’ Vezzanesi, le miserie de quali in un giorno principiarono e fìnirno, anzi in una o due hore, ma perchè le mie, che senza mia colpa patisco, non sono sino a qui finite, e durino tuttavia; poi che e la persona de gli miei servitori viene ogni dì molestata da gli soldati di VV. £cc.zl et Ill.rae SS.ne e continovano il commissario di Serezana, et altri officiali e soldati in ispogliarmi a piacer loro di quel che mi avanzò nelle calamità di quel giorno, il che non posso già negare che per Γ interesse non mi pesi, non essendo io in tal fortuna eh’ un danno di tante e tante centenaie di scudi non mi prema ; ma dico bene che altrettanto lo sento per la riputatione che in tal modo mi viene offesa; e per quel sollazzo, che ne viene preso da chi forse ha caro, che sapendosi eh’ io sono devoto loro vassallo, per ricompensa io sia trattato, et intitolato nemico della patria, e che gli vassalli loro più affettionati siano peggio trattati e vilipesi dalli loro proprii ministri, che gli dovrebbono tenere in particolare prottetione. Questo, dico, è quello che più mi pesa et affligge, come che questo a me solo si faccia per demerito mio con cotesta Republica, verso la quale come io mi sia portato sempre, sa Dio, e sanno tanti gentil’ huomini Genovesi, e d’ altra Natione, che potrei dire saperlo il Mondo tutto. Ma perchè il portarsi bene verso la sua patria, e farle beneficio dove si può, è di obbligo a ciascuno, lascierò di dire se in così bassa fortuna come sono, io possa anco haverle giovato , o no. Et invece di questo supplico bene 1’ Ecc.z* et 111.1"2 SS.rie VV. a restar servite di haver per bene ch’io renda loro conto della persona mia, perchè si certifichino chi 10 sia, e mi abbino per quello amorevole, fidele, e devoto vassallo della Republica che le nacqui. E lasciando di dire quello sia stato di me in età fanciullesca, dirò solo, che mi dottorai già sono finiti tredici anni; gli primi tre anni de’ quali io servii al signor Cardinale di Gambara per la maggior parte in Parma ; servii poi al signor Duca di Mantova tre anni per auditore nella sua Ruota; un anno poi consumai parte in Roma e parte in corte dell’Imperatore; dui anni fui poi al governo di Novara per 11 Signor Duca di Parma e Piacenza mio signore, et essendo poi andato GIORNALE LIGUSTICO 361 al Fischiato di Pavia, piacque al detto signor Duca mio di darmi qua in Milano il luogo che vi tiene, dove poi sono sempre stato senza intermettere più questa servitù, ancora che occasioni più che mediocri mi si siano presentate e di servire al signor Duca di Fiorenza, et ultimamente nella Ruota di Bologna; in tutti gli quai luoghi, e sin quando ero per gli Studii, sono sempre stato conosciuto da honorati cavalieri di cotesta patria. Nè in questi tredici o quattordici anni che sono Dottore sono stato a casa, nè nel dominio di Genova che quattro volte ; una delle quali fu solo d’ una sera : e da sette anni in qua che servo al signor Duca mio, due volte solo ci sono stato in occasione di morte di dui miei fratelli seguita da dui anni in qua. Dalchè si come si comprende che professione sia stata la mia, e che come Dottore ho cercato di camminare per la via dell’ honore, e come conviene a gentil’ huomo attendendo a servire alli Prencipi che mi stipendiavano, così si conosce chiaramente che non posso aver nociuto mai alla patria mia ; alla quale se devo quanto ho, e la vita stessa, fui anco sempre prontissimo a spendere in suo bisogno e quello e questa. E parlando de’ tempi presenti ne’ quali ha portato il cielo eh’habbia patita la Republica la perturbatione, che tuttavia dura, io non solo nè con opre nè col pensiero ho fatta cosa contra quella, ma ho desiderato poterle giovare, e Γ havrei fatto, se mi fussi trovato in tal fortuna di poterlo fare. Il che essendo vero come troveranno verissimo se vorranno chiarirsene (atteso che non dico queste cose per esser hora fuori del Dominio loro, poi chè quando così piaccia loro, sarò pronto di pormi in lor potere, e dove comandaranno, a fine che ne piglino della mia propria persona quella chiarezza e giustificatione, che esse vorranno; e sin d’hora segua ciò che piaccia a Dio, la cui Divina bontà pregherò sempre per lo mantenimento della libertà di così honorata patria, io mi conten-tarò di non esser mai compreso in indulti ne’ gratie , che fossero per fare a chi contro la Republica havesse delinquito) non so perchè dalli ministri dell’ Eccl.za et 111.““ SS.rie VV. siano trattate le cose mie come sono , poi chè nè anco mi può esser fatto sotto altro pretesto, essendo nove anni, che si sa quale è il mio. Per il che humilissamente le supplico ad esser serviti di commettere al Commissario di Serezana, che non solo non molesti, nè lasci più molestare le cose mie di Vezzano, d’Arcola, e di San Venerio, nè miei servitori : ma anco mi restituisca quello che altri hanno. Sarà questo degno della giustitia loro ; faranno cosa grata alli Ecc.ml Sig.r; Duca e 36 2 GIORNALE LIGUSTICO Prencipi di Parma e Piacenza miei padroni tanto benemeriti di eotesta Republica, et io restarò sempre pregando N. S. D. che le feliciti , come esse desiderano. Di Milano gli 14 Novembre 1575. Di VV. Ec.za et 111.™ Sig.rie. Humìl.m° e Fidelis.”'0 Vassallo e Servitore Papirio Picedi d’Arcola. Il fatto al quale si accenna, avvenne nel tempo delle turbolenze di Genova, fra le due fazioni de’ Nobili Vecchi e de’ Nobili Nuovi, allorquando Pietro Cabella commissario di Sarzana , chiarito traditore , come quello che teneva segreti maneggi col Gran Duca di Toscana per farlo padrone di quella città, costretto ad uscire co’ suoi mercenari raccogliticci , si gettò sul paese di Vezzano , e vilmente, senza ragione alcuna, soltanto per sete di danaro, lo mise a sacco ; di che poi « fu biasimato, e datogliene querela a Genova, ebbe a purgariene nelle carceri » (1). Certo il Picedi deve averne ricevuto, per la sua stessa condizione, danno gravissimo ; e forse gli fu fatto intendere che si era adoperato cosi con la sua casa, sapendolo favorevole ai fuorusciti, promovitori e mantenitori dei torbidi. Sembra anzi continuassero a taglieggiarlo, considerandolo come nemico della patria. Se il governo gli facesse giustizia non so ; ma si sa pur troppo che monna giustizia teme molto l’aria, e se ne sta nascosta chi sa dove a’ tempi calmi ; figuriamoci in mezzo a quel turbine di parti manesche e velenose ! Egli però rimase in buoni termini con la Repubblica; tanto che quando, dopo aver perduto due mogli ed accasate le figliuole, vestito l’abito chiesastico, fu in breve salito alla (1) Lercari (Spinola), Le discordie e le guerre civili dei genovesi, Genova, Garbarino 1857, p. 267 e seg. GIORNALE LIGUSTICO 363 dignità episcopnle , prima in S. Donino e poi a Parma, ne dava la lieta novella ai Signori con questa lettera : (1) Ser.™° et 111.™' SS/>' miei Oss.mi Essendo piacciuto alla benignità di N. S. di trasferirmi dal Vescovato di Borgo S. Donino a questo di Parma, ho stimato debito della riverenza, e devotione mia verso cotesta Ser.ma Patria mia di dedurlo a notitia di V. Ser.tA e SS.ne VV. Ill.me, come faccio per mezzo di questa, si perchè sappiano dove inviarmi per l’avenire il favore de’ loro comandamenti (ben che dall’ una all’ altra Città sia poca distanza), come, perchè giudicando elle lorse, che la fortuna, che mi s’accresce, mi renda più habile a poterle servire, si dispongano maggiormenti ad honorarmi anch’ esse co ’l comandarmi. Si degnino V. Ser.‘à et Ill.me SS.r!e d’abbracciare con la solita benignità loro l’animo, e la persona mia, che le sono, e saranno sempre deditissimi; e di riconoscermi in ogni luogo, e grado per loro amorevolissimo figliuolo e servitore, mentre per fine bascio loro le mani, e prego il Signore che le conservi con la prosperità che più desiderano. Di Parma li 26 di Settembre 1606. Di V. Ser.tA et Ill.me SS.rie Servitore bumilissimo e devotissimo Papirio Picedi Vesc. di Parma. Mori il 4 marzo del 1614 non senza compianto; sebbene non andasse mondo da una certa taccia d’avarizia, trapassata ai posteri nei Trattati manoscritti del canonico Ippolito Lan-dinelli suo contemporaneo, che certo assai ben lo conobbe (2). Di siffatto vizio ne tocca eziandio il fratello di questi, Vincenzo, in una lettera da Roma al governo genovese, del quale era colà Agente, scrivendo : « Questi camerali usano esattissima diligenza per trovare i denari, ch’ha lasciati il Vescovo morto di Parma Mons. Picedi, e per quest’ effetto si è scritto a Napoli et in cotesta Città, e s’inducono a credere tanto (1) Arch. di Stato, Iurisdict. et Ecclesiasl. ex parte ad ann. (2) Trattati storici di Luni e Sarrana, cap. 37, ms. Bib. Civica. 364 GIORNALE LIGUSTICO più facilmente che egli ne habbia lasciati gran somma, perchè haveva buona entrata, et era osservatissimo de’ Capitoli della Compagnia della Lesina » (i). Tuttavia ebbe altri e non pochi meriti, eh’ io ho brevemente divisato altrove (2), per i quali in vero non va defraudato di lode condegna. A. N. Privilegi per la proprietà letteraria. Nei libri stampati prima che una legislazione costante proteggesse le opere dell’ ingegno, si trova quasi sempre notata la formula : « con licenza de’ superiori e privilegio » : e questo voleva dire che non solo dai revisori, vuoi civili, vuoi ecclesiastici, era stata consentita la pubblicazione dell o-pera, ma 1’ autore 0 lo stampatore avevano ottenuto dai diversi principi 0 governi il privilegio, che per un tempo determinato guarentiva a loro soli il diritto della stampa e della vendita; anzi quando il privilegio emanava da’ Pontefici o da Principi grandi, a maggior gloria dello scrittore, e ad accrescer pregio all’opera, ne veniva adornato il volume. Era dunque precipua cura di chi voleva mandar fuori qualche lavoro, sia di prima edizione, come per ristampa, ricercare 1 più larghi e vantaggiosi privilegi, ed anco nel maggior numero possibile ; chè di questa guisa il pericolo di vedersi il libro impresso da altri e messo in commercio a lor prò’, diventava d’ assai più remoto. Alcuni esempi di si fatti privilegi chiesti e concessi dalla Repubblica di Genova mi sono venuti a mano svolgendo le (1) Arch. cit. Lettere ministri, Roma, Mazzo 3. (2) Vita di P. Picedi in Giornale degli Studiosi, Genova, ann. 1873, p. ni. GIORNALE LIGUSTICO 365 carte dell’ Archivio, e qui a titolo di curiosità voglio pubblicarli. Anch’ essi, comecché forse reputati inutili, possono avere, per certi rispetti, la loro importanza nella storia letteraria e giuridica. * * * Il primo per ordine di tempo che mi occorre venne connesso ad un genovese, Paolo Interiano (i): 1551 die xxij augusti. Cum Paulus Ittalianus Patritius Genuensis q. Iacobi, multum operae et laboris in restringendis antiquis annalibus Civitatis Reipublicae Genuensis, ipsisque redigendis ad compendium et formam continuatae hystoriae tusco conscriptae idiomate, non sine laude, impenderit; justumque sit ut aliquem e labore fructum capiat, ne si quidem utilitatis ob hoc oppere proventurum est, eidem ab alio subtratatur : Nos itaque Dux et Gubernatores prefatae Reipublicae, qua fongimnr autoritate deque nostrae potestatis plenitudine totis sufragijs vetamus prohibemus quisquis es hoc opus ad decennium ne imprimito impressumve vendito per totam Reipublicae nostrae dominium. Siquis autem hanc ierit jussionem contra, impressa omnia volumina amittito , centumque mulctam scutorum auri incurrito ; cuius dimidium Camerae Reipublicae, reliquum vero ipsi authori dissolvito; et ita cautum sanctumque esto. Si tratta dunque del Ristretto delle Historié genovesi compilato dall’ Interiano e messo fuori a Lucca appunto nel 1551 co’ torchi di Vincenzo Busdrago, il quale dedica il libro a Luca Grillo, a cui, essendo legato per « lunga servitù » , deve « infiniti obblighi », e la « cognitione » dell’ autore. Ed è quel Grillo, che abitando in Lucca, fece innalzare a Giano suo padre un grandioso mausoleo nella chiesa di S. Maria dei Servi (2). Senza stampare il testo del privilegio, a tergo della c. 2 fu annunziato nella parte sostanziale con queste parole: « Con (1) Arch. di Stato, Senato 1551, Fil. 70, n. 230. (2) Cfr. Giorn. Lig. a. 1883, p. 105. 366 GIORNALE LIGUSTICO Privilegio dell’Illustrissima Signoria di Genova, che per X anni non se ne possa per tutto il suo Dominio, nè vendere nè stampare senza espressa licenza dell’Autore, sotto le pene che in quello si contengono ». La data del documento ci ricorda che appena un anno innanzi uno storico ufficiale, il Bonfadio, lasciava il capo sul ceppo dei condannati, mentre l’elegante sua istoria doveva aspettare ancora trentasei anni prima di vedere la luce. Ma qual era l’intendimento dell’ Interiano nel dar fuori il suo lavoro ? L’ amore alla libertà della sua patria lo consigliò a « ridur in Compendio alla continuatione dell’ historia » (si noti la relazione con le parole del privilegio : redigendis ad compendium et formam continuatae historiae'), « le cose per l’adietro occorse » in Genova; « sì per dar più ispedita et men noiosa cognitione, ed utilità del presente Governo; della radice et origine delle passate dissensioni, sì ancora per far note le belle imprese dagli huomini illustri et valorosi mandate ad effetto ». Ma tutte queste cose non si potevano imparare dagli Annali del Giustiniani editi da ben quattordici anni? All’ Interiano pare di no, se stima « indegna cosa che debbano per difetto de’ mediocri scrittori lasciar di pervenire al cospetto di coloro che di ciò non sono men degni che desiosi ». Al diligente e coscienzioso lavoro del « Vescovo, ultimo scrittore degli Annali », secondo non senza dispregio lo cita così seccamente 1’ autore, era toccata ben poca fortuna, se doveva procurargli da’ suoi contemporanei concittadini prima l’onta d’ esser considerato scrittore mediocre e noioso, e più tardi l’oblio del governo, accompagnato dall’ acre giudizio del Foglietta : « quello che scrive Iustiniano non è altro, eh’una moltitudine d’ossa non compatte nè messe al suo luogo ». Il qual Foglietta non risparmia però neppure l’Interiano; poiché pur lodandolo per aver « supplito in parte » al « difetto » del suo predecessore, sentenzia « la GIORNALE LIGUSTICO 367 sua scrittura affettata et snervata », manchevole di « nervo, sangue, colore et ornamenti » (1). Se non che la posterità ha fatto giusta ragione di tutti questi scrittori di storie : che se appena ricorda Γ opera del primo, e poco si giova di quella del celebrato latinista, tiene in buon conto, secondo meritano, gli Annali, quantunque modesti e non pretensiosi, del Vescovo di Nebbio. * * * Quando Andrea Anguillara volle pubblicare Γ edizione completa della sua versione d’ Ovidio, ottenne il seguente privilegio (2): Per decreto e privilegio dell’111.™° Senato Genovese, seguendo il lodato stile di favorire gl’ ingegni et industria di coloro, che nella virtù faticano, e faticando giovano, si concede gratia alPhonorato Giovanni Andrea Anguillara , che non possa alcuno senza il suo consentimento e beneplacito stampare nella presente Città e Dominio, nè altrove stampate per anni diece avvenire in essa Città e Dominio vendere, le Trasforma-tioni di Ovidio tradotte in lingua volgare per esso Anguillara, sotto pena di perder le opere, e di scudi dugento d’ oro da tripartirsi, fra la Camera, l’accusatore e l’Anguillara sudetto. In fede del che si son fatte le presenti impresse dell’ usato nostro suggello e firmate per mano del primo nostro segretario. Di Palazzo a xij di Giugno Mdlxj. E dico edizione completa, perchè, come è noto, già si aveva una stampa senza data del primo libro, poi quella de’ primi tre fatta in Parigi nel 1554, e ripetuta a Venezia 1’ anno successivo. Il documento si riferisce dunque alla edizione uscita dai torchi di Giovanni Griffi in Venezia nel 1561. (1) Notizie e documenti intorno a U. Foglietta e P. Bi\aro in Giorn. cit. a. 1876, p. 430. (2) Arch. cit. Senato, 1561, Fil. 123, n. 249. 36S GIORNALE LIGUSTICO * •v· * Questo riguarda il noto poema di Bernardo Tasso (i): Per autorità dell’ 111.'"0 Senato Genovese si concede al Sig. Bernardo Tasso, che alcuno, senza il consenso et beneplacito suo, non possa stampare per anni dieci prossimi, nè far stampare in questa Città o in alcun luogho del dominio nastro, nè altrove stampato in esso dominio nostro vendere, l’Amadigi tradotto per esso Sig. Bernardo, sotto pena di perdere le opere e di scuti dugento d’ oro, la qual pena si divida per terzo fra la Camera nostra, l’acusatore et il sudetto Sig. Bernardo. In fede del che si sono fatte far le presenti impresse col nostro usato suggello e firmate per mano del nostro primo segretario. Di Palazzo alli tre di Genaro 1561. Chi ha letto la vita dell’autore scritta dal Seghezzi e dal Serassi (2), e specialmente le sue lettere, sa perchè ed in qual modo ei componesse il poema seguendo la tela di un romanzo brettone, voltato in lingua spagnuola , notissimo a suoi dì, anche per una traduzione italiana in prosa (3). Onde non deve far meraviglia se nel privilegio si afferma, sebbene impropriamente, « tradotto » ; il che vien detto altresì dal Duca d’Urbino, la dove in una sua lettera scrive che Bernando « ha messo in ottava rima in lingua italiana il libro di Amadis » (4)· E ciò mentre 1’ autore andava ripetendo che la sua non era per nulla una traduzione (5). La prima edizione di questo poema, fu fatta in Venezia dal Giolito, con molta eleganza, nel 1560; ma il privilegio non sembra emanato per questa recando la data del 1561. Si potrebbe credere tuttavia che il libro fosse uscito sui primi del ’61 con la data dell’anno innanzi, se il mancare nell o- (1) Arch. cit. Fil. cit. η. $· (2) La prima è premessa alle Lettere, Padova, Cornino, 173 3~51 > ^ •'Itra al vol. II dell’ Amadigi, Bergamo, Lancellotti 175 5- (3) Cannello, II Cinquecento, 166. (4) Tasso, Leti, inedite, Bologna, Romagnoli 1869, 58. (5Ì Tasso, Lettere, (ed. Cornino), I, 167, II, 278. GIORNALE LIGUSTICO 369 pera la menzione di Genova fra i Principi da’ quali vennero concessi privilegi, non ci mostrasse come a quella non debba riferirsi. D’ altra parte però una edizione di quest’ anno non è indicata dai bibliografi, i quali anzi affermano non se ne facessero altre, fino al 1583, onde non si saprebbe intendere la ragione di quel privilegio serotino, se non supponendolo domandato in servigio della prima stampa già uscita, 0 d una seconda che si aveva in animo di eseguire. E così era veramente; perchè vi sono prove che il Tasso nel 1562 stava per fare una seconda edizione (1), e supplicava a questo fine il Duca di Parma di soccorrerlo « di quella parte che le tornerà comodo » (2) ; infatti, secondo rilevò il Serassi (3), la seconda stampa esiste, sebbene il Giolito vi abbia messa la stessa data del 1560; forse in questa, e io non ho modo d’ accertarmene, si troverà menzione del privilegio genovese. * * * Ai due che or seguono vanno premesse eziandio le domande (4). Ser.m° et Ecc.mi SS.ri Pro.ni Oss.mi Francesco Bracciolini è per mandare alle stampe di Venetia un suo Poema della Inventione della S.ma Croce, da lui novamente fatto a Gloria di Dio et a Commune utilità e dilletto in ottava rima; e perchè l’ottenere il privilegio di non potersi altrove che in Venetia stampare, nè senza licenza de 1’ Autore vendere detta opera stampata, sarebbe un rendere più animoso il stampatore da lui preso a questa impresa ; supplica pertanto V. Ser.,A et le SS.rie VV. Ecc.me a degnarsi di favorirlo per decreto loro particolare, che in questo Ser.m0 Dominio, nè stampare nè vendere senza licenza non si possa 1’ opera suddetta, il che essendo in (1) Lett. itied. cit., 37. (2) Lett. di uomini illusi., Parma, Tip. Reale, 1853, 607. (3) Vita di T. Tasso, Firenze, Barbera, 1858, I, 156. (4) Arch. cit. Senato, 1610, Fil. 4. e 1612, Fil. 1. Giorn. Ligustico, Anno Xi. 370 GIORNALE LIGUSTICO simili casi ad altri stato conceduto, spera dalla benignità loro d’ottenere, alle quali vivrà sempre obligato di pregare ogni contento. Di V. Ser.'i et SS.™ VV. Ecc.™ Humil.’"0 Serv = che siino servite farle gratia in concederle privilegio che non possi detto libro essere stampato in Genova nè nel dominio Genovese a instanza di alcun altro, che di detti Accademici per anni venti, siccome sperano dalla loro benignità ottenere, alle quali etc. D. VV. SS. Ser.mc Li Accademici della Crusca. 1612 die 18 Februarij. — Vocabularium vulgare quod ab Academicis Cruschae tuscum idioma, et docte et severe colentibus, nuper in lucem prodijt, et anno proximo elapso Venetiis fuit impressum, in hac Genuae Urbe eiusque universo dominio cuiusvis durante decennio in posterum decurrendo imprimere interdictum esto. Quod si quis temerario ausu secus facere presumpserit, librorum sic impressorum amissionis poenam incurrat, ampliusque centum aureis eisdem Academicis applicandis irre-missibiliter damnetur. Ser. Gen. Senatu sic latis suffragiis decernente. L’ edizione alla quale si riferisce il primo, è quella della Croce Riacquistata uscita in Venezia nel 1611 dalla stamperia Ciotti e Giunti. L’altro è fatto per la prima stampa del vocabo- GIORNALE LIGUSTICO 371 lario, messo alla luce in Venezia dalla tipografia di Giovanni Alberti. * * * Viene per ultimo il privilegio a favore d’ uno de’ più bizzarri e mordaci libri, usciti sul principio del secolo XVII dalla penna del celebre Boccalini (1). 1612, die 11 Julij. — Centurias primam secundam, tertiam et quartam Commonefactionum Parnassi, Troiano Boccalino Romano autore, nuper in lucem editas, nulli penitus vicennio durante fas sit in Urbe Genuae eiusque dominio universo imprimere minusque alicui imprimendas dare ni eiusdem Troiani ad id voluntas accedat. Quod si quis temerario ausu secus facere prcsumpserit ammissionis librorum poenam ipsi Traiano applicanda aliamque quacumque Ser. Gen. Senat. arbitrariam incurrat pre-fato ser Sen. sic latis suffragijs imperante vel non citatis citandis. Che cosa vi abbiano a fare quel tertiam et quartam davvero non so, e deve essere errore del cancelliere, perchè i Ragguagli, come tutti sanno, si dividono in due sole Centurie, e le giunte postume non sono del Boccalini. Non trovo del pari esatto quel nüper in lucem editas in relazione con la data del decreto, salvo che per la Prima Centuria già pubblicata, essendo comparsa la seconda 1’ anno successivo. Infatti l’una reca in fronte: « Venetia, Pietro Farri, 1612 », l’altra « Venetia, Barezzo Barezzi, 1613 ». È noto come a’ tempi dell’ autore si credesse da molti, che a quest’ opera avessero contribuito i parecchi amici romani del Boccalini, e specialmente il Cardinale Bonifacio Caetani suo protettore costante ed amorevolissimo. Ma questa opinione , accolta da 'alcuni scrittori, venne vittoriosamente contradetta dal Mazzucchelli ; il quale ritiene a ragione che sia originata dalla molta intrinsichezza sua col Cardinale, e (1) Arch. cit. Senato, 1612, Fil. 4. 372 GIORNALE LIGUSTICO dalla palese benevolenza, onde questi lo proseguiva (i). Di che abbiamo evidenti prove in alcune lettere del Caetam messe in luce testé dal Mestica (2), e nella dedica premessa dal Boccalini alla seconda Centuria, appunto indirizzata al cardinale stesso. Quivi afferma essersi indotto a « venire all’atto tremendo di publicare al mondo le proprie fatiche » , non già perchè « confidi dell’ingegno » suo; ma perchè « per utili e curiose » furono « approvate queste » sue « vigilie » da lui; al quale tributa grandi lodi per intelligenza, buon senno e sapere. Lo prega poi di accettare « con la sua solita benignità il picciol dono di questi » suoi sudori, e consentire « che incontro ai gravissimi debiti » che egli ha con lui, « possa notare questa picciola partita a credito »; il che fa non per disobbligarsi, « ma per gustare la dolcezza che sentono gli honorati servidori, quando verso i benefici padroni loro essercitano la tanto lodevole virtù della gratitu-tudine ». Ed egli invero doveva esser grato al suo protettore, non solo per gli aiuti morali, onde gli era largo ; ma per quelli materiali altresì ; ben sapendosi, per testimonianza del Tiraboschi, che più volte lo sovvenne di danaro (3). Nè gli mancò questo aiuto per la stampa appunto della seconda Centuria, secondo si vede dalla seguente lettera scritta dal Cardinale a Fabio Neretti (4) : Ill.m0 Sig.re Ha bisogno il S.r Traiano Boccalino di centocinquanta scudi per tirar inanzi una sua opera, che già è alla stampa costi in Venezia, et è ricorso da me per haver questo servitio, volendo egli goder solo tre mesi di tempo a restituirli. Et perchè è mio grand’ amorevole, et io (1) Scrittori ita!., II, 1378. (2) Trajano Boccalini e la letteratura critica e politica del suo tempo, Firenze, Barbera, 1878, 21, 99. (3) Stor, d. Lett. Ital. (ed. Classici), Vili, 644. (4) Bib. Naz. di Firenze, Vili, Var. 7>is, 1487. GIORNALE LIGUSTICO 373 mi persuado che V. S. per amore mio se le mostrarà liberale in questo, vengo a dirle che riceverò per piacere accettissimo, che lei sborsi questa somma al S.r Boccalino, con conditione, che si obblighi egli di restituirglieli fra tre mesi; se bene io le aggiungo che in ogni caso, ch’egli non satisfacesse all’ obligo, pagarò del mio, che così io le prometto. Et a V. S. m offero di cuore. Di Roma li 21 di luglio 1612. Di V. S. IH.ma Al Serv.<>» Il Card. Caetanus. Queste liberalità, messe insieme alla palese benevolenza, confortarono per certo la voce, che attribuiva in parte al Caetano la paternità de’ Ragguagli. A. N. Due lettere dei duchi di milano. Sebbene il libro dal quale trascriviamo questi documenti sia pubblicato già da qualche tempo (1), pur ci sembra non debbano tornare sgraditi ai nostri lettori, a parecchi de’ quali riusciranno forse affatto nuovi, a cagione della scarsa pubblicità che ha avuto quell’ opera, rimasta per mala ventura incompiuta a cagione della morte del suo autore. Ecco la prima lettera : Magnifico Bolognino de Attendolis. Retornando de presenti a Zenoa il spectabile domino Francesco oratore d’ essa comunità de Zenova, ne ha dicto corno el seria molto contento potere vedere quello nostro castello et cossi la libraria. Del che siamo restati contenti. Pertanto volindo che quando lui sarà là, el debiate intrare in dicto castello cum la sua compagnia, et farglilo vedere tucto, et cossi gli monstrarete ancora dieta libraria. Et non guardate che questa (I) D’Adda, Indagini storiche, artistiche e bibliografiche sulla Libreria Visconteo Sfiorisca del Castello di Pavia, Milano 1879, Par. II, 21, 101. 374 GIORNALE LIGUSTICO nostra lettera non sia sottoscripta de nostra propria mano, perchè se re-trovamo a cavallo, che non gli havemo havuto el tempo. Circa quanto ve dirà Manuel de Jacoppo , nostro famiglio, presente latore, per monstrare dicto castello al predicto misser Francesco, crederetili come a nuj proprij. Datum Mediolani, die XV may 1456. Leonardus. Johannes. Di questa ambasceria non è fatta menzione alcuna dagli storici, e non ne ho trovato documento negli Archivi, ma deve aver avuto per fine di richiedere l’interposizione di Francesco Sforza per impedire la guerra con il re di Napoli. Riesce difficile determinare chi fosse il Francesco quivi indicato; perchè vissero in quel torno diversi uomini di quel nome, ad esempio Francesco di Sofìa, Francesco di Negro, Francesco di Vernazza e Francesco da Levanto ossia Panmolle o Pamo-glio o Pammolèo; tuttavia potrebbe credersi fosse appunto quest’ultimo, giurisperito di gran nome e tenuto in gran conto dal governo, siccome abbiamo per più riscontri (1). Tornando a Genova egli desiderava vedere il Castello di Pavia , e la insigne libreria, che ne formava un de’ principali ornamenti. Il tenore della seconda lettera è questo: Duci Ferrarie. Illustrissimo et Excellentissime, etc. Maestro Lorenzo de Zenoa, el quale lege nel vostro Studio de Ferrara, ce ha presentato una opera composta da lui, singulare testimonio del suo nobile ingegno. Per la qual cosa havemo compreso essere homo de grande doctrina, secondo anchora che ce ha referito alcuni valenti homini, et oltre la scientia etiam è homo molto virtuoso e costumato. Onde mossi da la sua sufficientia eramo inchinati tenerlo cum noi, e oltra la persuasione del reverendo quondam mes-ser Hibleto, secondo che per due littere nostre havevamo intimato a la (1) Federici, Abbecedario delle fam. genov. Ms. GIORNALE LIGUSTICO 375 Excellentia Vostra. Ma essendo avisati da quella essere grato e ali servici) del reverendissimo monsignore cardinale vostro, al quale in mayor cose semo parati compiacere , ce siamo contentati rimandarlo. E preghiamo aduncha Vostra Excellentia el riceva gratiosamente , e per la sua suffi-centia, doctrina e degni costumi , etiam per rispecto nostro , perchè li siamo affetti, 1’ honori et appretij et 1’ abbij charo e li sia ricommendato. (13 settembre 1497). In maestro Lorenzo è ovvio riconoscere il Maggiolo, medico e filosofo di molto valore, e di gran fama, del quale Agostino Giustiniani, che certo lo conobbe, ci ha lasciato nei suoi Annali questa onorevole memoria: « Mori questo anno(i50i) Lorenzo Maggiolo medico e filosofo eccellente, come che avessi letto più anni nei principali studi d’Italia in Padova, Pavia e Ferrara; e quel Gioan Pico conte della Mirandola e Alberto signor di Carpi Γ hanno avuto in pregio, e sono stati auditori delle sue lezioni; e ha lasciato alquante opere di Logica: e era studioso delle lettete greche » (1). Io non vorrò negare la testimonianza di un contemporaneo, e sebbene in quanto a Padova io non abbia avuto modo di accertarmene, debbo pur dire che il suo nome non comparisce fra i lettori dell’ Università di Pavia (2). Che insegnasse nello studio di Ferrara nel 1497 celo afferma la riferita lettera ducale, e si rileva altresi da quel che ne dice Aldo Manuzio in una sua epistola premessa all’ opera di Lorenzo intitolata : Epiphyl-lides in dialecticis, uscita appunto dai suoi tocchi nel 1497. Rivolgendosi egli ai giovani studiosi così parla dell’autore: « Vir apprime doctus , ac miro ingenio. Is enim Ferrariae publico conductus stipendio philosophia summa cum laude profitetur; itaque est ornatus moribus, ut omnibus ea in urbe (1) Annali della R. di G., Genova, 1854, II, 604. (2) Cfr. Memorie e Documenti per la Storia dell’ Università di Pavia ecc. Pavia 1877-78 vol. I. GIORNALE LIGUSTICO sit carus; praecipueque divo Herculi Estensi, qui mirum in modum favet ingeniis ». Questa opera è dedicata appunto al Cardinale Ippolito d’Este ricordato nella lettera. Così a Ibletto Fiesco vien dedicata una seconda operetta, che ha questo titolo: De conversione propositionum cuiuscumque generis secundum peripateticos; ed è a lui diretta dall’autore a fine di dargli un pubblico segno della gratitudine che per molte ragioni gli deve. Il raro volume, che ho dinanzi dove sono comprese le due operette (i), appartenne all’annalista Giustiniani, il quale vi ha lasciato scritto il suo nome e parecchie note marginali di tutto suo pugno; inoltre a tergo del titolo queste parole : Ultra-mondano Deo trino et uno. Laurentio malleolo summo theologo maiori medico maximo philosopho. Qui in primo flore invente, totius civitatis dolore ineffabili fato diem abijt. Fratres pietatis ergo Posuere. Anno gratie M D Primo. E poiché il nostro filosofo ebbe sepoltura nel chiostro di S. Maria di Castello, dove già vedevasi la sua figura in mezzo rilievo di marmo con una iscrizione in suo onore, monumento trasportato fin dal 1859 entro la chiesa a sinistra della cappella di S. Caterina (2), si potrebbe forse credere che il Giustiniani, allora dimorante in qual convento della sua religione, proponesse di ricordare l’amico con le citate parole, le quali hanno carattere di epigrafe sepolcrale ; e che per qualsivoglia cagione non avendole potute far scolpire, ne tenesse ricordo in questo libro. Come abbiamo veduto, afferma l’annalista che Lorenzo lasciò « alquante opere di Logica », e dice bene, perchè così le citate di sopra, come quelle da lui stesso ricordate trattano di sifatta materia; ed avendo i biografi ed i bibliografi indi- (1) Fa parte della collezione Aldina della R. Biblioteca Universitaria di Genova. (2) Vigna, Illustrazione della Chiesa di S. M. di Castello, Genova 1864, 365. GIORNALE LIGUSTICO 377 cati tutti questi scritti imperfettamente, credo utile darne qui una notizia più esatta : I. Epiphyllides in dialecticis. Opuscolo in 4 di cc. 54 senza numeri con segn. a-g. II. De Conversione propositionum cuiuscumque generis secundum peripateticos. In fine: Venetiis in domo Aldi Romani mense Julio MIIID impetratum est ab. 111. S. V. ne cui liceat imprimere et. caetera. Opuscolo in 4 di cc. 72 senza numeri con segn. a-i. Questi due opuscoli stampati da Aldo vanno sempre insieme, e sono seguiti da un terzo intitolato : Quaestio Aver-rois in librum priorum traducta per Heliam Hebraeum; dopo il quale vi è una tavola dei registri, comune a tutti tre gli opuscoli. Dagli Annales del Renouard (1) parrebbe che del primo ve ne fosse una stampa con titolo più ampio, e cioè: Epiphyllides. i. Botryunculi et Racemuli in dialecticis, ma con lo stesso numero di carte. III. De gradibus Medicinarum. In fine: Venetiis MCCCC LXXXXVII; in 4.0 di carte 55 non numerate. Impresso anche questo da Aldo, sebbene non vi sia il suo nome. È dedicato al Duca Ludovico Maria Sforza, ed è certo quello accennato nella lettera ducale. Dall’ Epiphyllides si rileva aver egli dettato un Commento sopra i libri d’Arisiotile, le Annotazioni sul libro della Fisica, il Trattato dell’ ordine de' libri d’Aristotile contro Simplicio, il Trattato del sillogismo ipotetico contro Avicena. In fine non è da tacere come di lui e del celebre Nicolo Leoniceno si servisse Aldo il vecchio per collazionare gli antichi codici, specialmente quelli delle opere d Aristotile in servigio della raccolta che ne andava stampando nella lingua originale. A· (i) Renouard, Annales de l’imprimerie des Aides, Paris, 1834, 14. 37S GIORNALE LIGUSTICO Una lettera di nicolò paganini. Nella raccolta d’ autografi legata dal conte Augusto di Cos-silla al Museo Civico di Torino, dove ora si trova custodita, esiste una lettera dell’ insigne violinista mandatami in copia dall’ egregio amico Rodolfo Renier. Eccola nella sua integrità senza pietosi concieri e correzioni : A. Cav. Annibale Milzetti — Bologna Roma 30 ottobre 1818. Al Cavaliere e papà Atnirabi.°, Ho riscossa la cambiale, ed ho rimborsato il sig. Lelli, quale vi ritorna i saluti, ed io vi ringrazio della pronta spedizione. Lo Spagn’iolo Segura pieno di maniere , e per essermi stato da voi raccomandato, mi feci un dovere di farle sentire per soli cinque minuti il mio violino. — Qiesti si sareboe trattenuto per sentirmi in accademia, ma la tardanza della medesima, e le lettere commerciali che lo richiamavano a Parigi per trasferirsi in America (mi diceva), glie lo hanno impedito. Dunque sono circa quindici giorni che è partito; prima però venne a vedermi, ma tacque la sua partenza, forse per non piangere......Ma sapete chi è lo Spagnuolo ? è un professore di violino, che ha servito il Teatro Imperiale di Parigi, e che al presente è un primo violino in America, ed è stato mandato, a spese non sue, in Italia, per comprare dei spartiti di Rossini e della musica da chiesa, quale ha comprata in Roma; e comprerebbe due violini di Stradivario ; mi duole moltissimo che mi abbia nascosta la sua condizione , e che poco regni la verità. Si dice ancora che con un certo Morandi pure professore di violino, quale lo conduce in America, abbino dato delle Accademie a Spoleto, a Terni, e a Narni. Se ripassasse da Bologna non le fate conoscere eh’ io sono cosi bene informato. Se desiderasse mai il mio violino di Stradivario che tengo in Genova, dite che ne ho ricusato cinquecento Luigi d’oro. Teatro all Argentina: Mayer ha scritto da divino maestro; ma il Pubblico di Roma non ama la musica scientiffica, e filosofica, ma ama soltanto le opere a uso Valtz da eseguirsi con un solo flauto, ed una mezza chitarra. Teatro Valle: del Maestro Cordella non ve ne parlo. GIORNALE LIGUSTICO 379 Io non ho ancora suonato in nessun luogo, perciò non vi parlerò di istrumenti d’ arco; ma se qui vi fosse 1’ organico violoncello del Cav. Mil-zetti farei subito un Quartetto. Riveritemi tanto la vostra Signora e dite tante belle cose all’ egregia Signora Marietta. Addio. P. S. Si dice anche in Roma, che lo Spagnuolo dando Accademia in uno dei paesi indicatovi, si sia servito del mio nome in luogo di Segura, ed io lo credo, perchè un giorno qua da un Chitarraio si annunziò per Paganini, e si ricevvè tutte le congratulazioni. Addio. Il vostro aff.mo figlio Niccol. Paganini. Il violinista spagnuolo, del quale qui si parla, dovrebbe essere quel Teodoro Segura, che il Fetis afferma nato a Lione e stabilitosi a Parigi nel 1816, senza poi dirci altro delle sue vicende, contentandosi di enumerare seccamente le sue composizioni. Da ciò che narra il Paganini veniamo a conoscere qualche nuovo particolare notevole della sua vita, e del suo carattere. Curioso è il giudizio sul gusto del pubblico romano in fatto di musica; e Γ ironia, anzi addirittura il sarcasmo, sgorga spontaneo e severo da quell’anima, che pregiava sì altamente le divine melodie di Mayer. Al teatro Valle il Cordella dava allora II Contraccambio. A. N. Una novella del boccacci TRADOTTA DA BARTOLOMEO FAZIO. Forse il Fazio traduceva in latino la Novella del Boccacci esistente in una Collectanea della Biblioteca Nazionale di Fi-tenze (i), e che qui pubblichiamo per la prima volta, volendo redimerla, come già fece il Petrarca per quella di Gri- (i) Cod. XXV, 8, 626 già Strozz. 293, c. 76. 3B0 GIORNALE LIGUSTICO selda, dall’ indegna compagnia delle altre. Quegli uomini del secolo XV che non sapevano più scriver nulla, nemmeno le lettere alla moglie o alla fantesca, senza intarsiarle di crudissimi latinismi, dovevano esser mossi da siffatto pensiero, quando volgevano nella lingua che solo era accetta ai dotti, qualche cosa del massimo prosatore trecentista. La novella, ora prodotta a titolo di varietà, è la prima della Giornata X del Decameron, e il codice del secolo XV donde è ricavata porta chiaramente in capo alla narrazione le parole : Bariho-lomej Facij. Non credo per conseguenza che vi possa essere quistione intorno all’autore; bensì si potrebbe vedere (e ciò per tentare una cronologia sulle opere dell’umanista genovese) in quale tempo della sua vita egli si sia occupato di volgere in latino una novella del Boccacci. La ricerca che a tutta prima potrebbe quindi sembrare oziosa, non è ; tanto più che cotesta versione del nostro Umanista andrebbe coordinata con 1’ altra assai più estesa, solo conosciuta fin qui, della Pulzella d’Inghilterra; versione latina da lui fatta di un Conto popolare, e che immettendosi nel ciclo europeo della fanciulla perseguitala offre questioni di ben maggiore importanza. Ritornerò forse un’ altra volta su tale argomento , dandovi l’estensione necessaria. Per fermarmi ora alla Novella di messer Giovanni, il traduttore ha per fortuna apposta alla versione una specie di dedica che ci può fornire qualche lume. La Novella di Ruggieri de’ Figiovanni che ha per argomento l’animo magnifico di un Alfonso re di Spagna, doveva fare presso 1’ amico, cui era dedicata in latino, 1’ ufficio di un nobile modello proposto all’ imitazione del re Aragonese in Napoli e de’ suoi consiglieri. La morale è ricavata discretamente dal traduttore stesso in quella forma dubitativa che molto piaceva ai Greci. — « Eadem fortuna vereor, vir amplissime, ne mihi sit apud liberalissimum regem nostrum GIORNALE LIGUSTICO 38i quae non patiatur me ab eo locupletati. Sed spero benignitatem regiae fortunae superaturam malignitatem meae. Idque tum summa ipsius bonitate, tum tua ac ceterorum amicorum diligentia confido fore. Vale ». — Ottimamente così, messer Bartolomeo , con un colpo al cerchio e Γ altro alla botte , tra una timida speranza che inchina ad una lode , e un più reale timore che vien contemperato da un liberalissimo re nostro , come uomo che delle Corti vi conoscevate un poco , nè vi era ignoto non esser quella dell A-ragoness gran fatto diversa dalle altre. Per colui che ne dubitasse rimando alla Vita di Alfonso scritta da Vespasiano Fiorentino (1), che dice molto a chi sa leggere. Chi fosse il vir amplissimus cui era dedicata la versione del Nostro , è difficile congetturare fra tanti cortigiani e dotti che empivano la reggia. 11 Panormita, ricordato il numero considerevole de’ teologi, aggiunge: « praetereo philosophos, medicos, musicos , iurisconsultos quibus regia omnis redundat, omnes a rege honestatos, omnes locupletiores effectos » (2). Dalle parole di sopra citate si potrebbe credere fosse un di quelli che in Corte godevano di seguito e favore, per quanto Alfonso fosse poco sofferente di consiglio e amasse di pensare col suo capo. Cotesta versione a qual tempo della vita del Fazio s ha dunque da riportare ? Non certo quando mise mano alla Storia dei fatti di Alfonso per incarico commessogli dal re stesso, ed egli poteva con sicurezza confidare di aver superata l’invidia degli emuli e l’indifferenza de cortigiani. Il Mehus porta la data del 145°) come l’anno in cui il Fazio avrebbe dato principio ai Commentari di Alfonso. Ma io du- (1) Cap. XI. (2) Ant. Panormitae , De dictis et factis Alphonsi ; Basileae, 153^, lib. II, cap. 61. 582 GIORNALE LIGUSTICO bito della sua esattezza, e la lettera del Fazio al Poggio che il Mehus reca a comprovarne Γ attendibilità, al mio parere conferma i miei dubbi. Difatti in cotesta lettera il Fazio promette di mandargli le quattro Invettive da lui scritte contro Lorenzo Valla, « hominem arrogantem , tibique cognitum qui ob id Romam venerat » etc. Ora 1’ andata a Roma del Valla, secondo tutti i calcoli ragionevoli, si deve porre subito dopo Γ ascensione al Papato di Nicolò V che, come è noto, sortì eletto nel marzo del 1447. Dunque questa lettera dovrebbe essere tutt’ al più de’ primi mesi del 1448. E se le parole del Fazio in essa contenute si riferiscono ai Commentari del re, come veramente pare, si deve concludere che fin dal 1448 egli vi aveva posto mano. Ma un altro argomento viene a convalidare questa data. In essa lettera egli parla al Poggio del suo desiderio di recarsi a Roma in Corte di Nicolò V. « Spero » egli aggiunge anche « mediante la tua amicizia tornar caro al Pontefice, il che mi persuado che umano come sei mi otterrai facilmente ». Ora io non saprei capire perchè essendo il Parentucelli sortito eletto fin dal marzo 1447, e(^ ^ P°oo'° essendovi stato chiamato ben presto come secretario apostolico, il nostro dovesse aspettare tre anni a fargli intendere il suo desiderio; quando invece sappiamo che le ragioni, forse legittime, le quali lo spingevano nei primi tempi della sua dimora in Napoli a cercare un mutamento di Corte, vennero man mano cessando verso il '50 per il sempre crescente favore di Alfonso. Di tale predilezione per il Fazio ci lasciò chiara testimonianza il Pa-normita, in quel vivace ritratto eh’ egli ci fa della vita e degli studi del re tra gli splendori della reggia aragonese. « Inter doctrina vero et ingenio insignes (Alphonsus) amplexus est praecipue Bartholomeum Facium suavis et priscae eloquentiae virum, a quo quidem et res a se gestas perscribi cupide appetivit. Maxime eius libri suavitate allectus quem de vitae GIORNALE LIGUSTICO 383 felicitate regi ipsi antea dictaverat » (x). E il Beccadelli accenna al Dialogo De vitae felicitate, che il Fazio dovè scrivere verso il 1445. Da tali premesse parmi di poter conchiudere che le parole all’ autorevole amico di sopra riportate, che sono , per cosi dire, la morale della favola, e per conseguente anche la versione della Novella, si devono porre tra il *44, anno in cui andò per la seconda volta al re Alfonso come sindaco e cancelliere della Repubblica Genovese, e il Re lo ritenne presso di sè, e il '48 , quando 1’ Aragonese davagli commissione di scrivere la sua Storia. In questo periodo di tempo dovette certo il Fazio provare, come tanti altri, la volubilità delle Corti' e l’arroganza dei servi che rendono soventi volte frustranee le ottime intenzioni dei padroni. E tanto più ebbe a trovarsi a disagio, se, come riferisce il Federici (2), gli fu mestieri, nel primo anno di dimora colà, logorarsi tra lavori e sopraccapi cancellereschi, alieni da’ suoi studi e repugnanti alla sua indole timida e un po’ impacciata. Difatti, stando al Federici, solo nel '45 egli era levato di cancelliere , il che vuol dire che Alfonso l’ammetteva tra i dotti della sua Corte con un’ annua provvisione. L’ affetto del Panormita e anche l’inimicizia cordialmente professatagli dal Valla, senza dubbio ebbero più tardi virtù di porlo in maggior luce, e di rivolgere sopra di lui con più efficacia il favore di Alfonso. Quando verso il *48 formava il desiderio di passare alla Corte di Nicolò V, credo egli secondasse assai più la naturale irrequietudine e incontentabilità che natura lia posta in ogni uomo, aggiunta alla ma· raviçliosa fama che di sè aveva levata l’erudito Pontefice, anziché un fondato e giustificabile bisogno. E si ricordi che (1) Op. cit. lib. II, cap. 61. (2) Abbecedario delle famiglie liguri, ms. 384 GIORNALE LIGUSTICO 1’ incontentabilità e Γ irrequietudine costituiva in generale il carattere degli eruditi nel quattrocento, e che anzi la costanza del nostro nel perseverare a servigi di un solo avrebbe potuto passar allora per una delle rare eccezioni. Certo è che egli dopo una gita e una breve dimora a Roma, durante la quale lesse a papa Nicolò buona parte del suo opuscolo De vitae felicitate, fece ritorno a Napoli dove si stabilì durevolmente. Nell’ aprile ’j 5 scriveva al Poggio: «A rege vero mecum perliberaliter agi scito ». Lode che non pare inspirata da una liberalità che si conceda capricciosa e svogliata a urli di lupo. In quel tempo non aveva ancor levata la mano dal X libro delle Storie, come avverte in essa lettera al Poggio. « Quod autem scire expetis de rebus meis, scito decimum librum rerum a rege gestarum mihi nunc in manu esse, qui liber omnia continebit » etc. La larga lode di liberalità data al re non può dunque riferirsi al dono fattogli da Alfonso di millecinquecento fiorini, oltre l’ordinaria provvisione, perchè questi gli furono donati, dice chiaramente Vespasiano Fiorentino, finito che ebbe la Storia ed il 14 aprile 1455, allorché scriveva al Poggio quelle parole, egli lavorava ancora intorno al X libro. Resta dunque, almeno per me, che quella lode si riferisce a benefizii precedenti, e largiti con qualche costanza, se no, sarebbe esagerata e falsa ; resta, come parmi aver dimostrato, che le lamentanze e le dubbiezze risalgono ai primi anni della sua dimora in Napoli, dal '44 al '45 e che a quest’ e-poca, piuttosto sul principio, a mio credere, che alla fine, si deve anche riportare la versione fatta dal Fazio della Novella di messer Ruggieri. La quale mi sono attentato a correggere in alcuni pochi luoghi, che, dal riscontro col Boccacci e dalla testimonianza delle altre opere dell’ Autore, giudicai veramente scorsi di GIORNALE LIGUSTICO 385 amanuense; e sono, un percontaterque che ho sostituito con un percontatusque; potius quam con potius quod, nella frase: sed potius quam fortuna vetuit, per metterlo in relazione con il quod precedente. Cosi ho soppresso Vaut nella frase : non Cium divitias expectabam aut quo ditior fierem, evidentemente intruso ; la lezione vera è : non enim, divitias expectabam quo ditior fierem, che traduce abbastanza esattamente il testo: « io non mi turbo di non aver dono ricevuto da voi, per ciò che 10 noi desiderava per esser più ricco ». E qui si fermano le mie correzioni. V’ è bensì ancora un paio di costrutti che non mi sembrano del Fazio, il quale d’ ordinario nella dizione latina va perspicuo per facile e sincera eleganza. E sono : coeterum virtutis id meretur ut me fortunae tuae violentiae ipse opponam — eadem fortuna vereor.....ne mihi sit apud liberalissimum regem nostrum quae non pariatur etc. Ma per non stare a rischio di sostituire ai supposti rifacimenti altrui , i miei forse anche più cervellotici, me ne rimetto al lettore. Rogerius nobilis eques florentinus dives et honesto I9C0 natus consideratis florentinorum moribus , qui magis mercature quam rej militarj student, arbitratus si domi manere perseveraret, se autem parum, aut nihil industriam suam proferre in lucem posse, constituit ad Alphonsum Hispaniae regem se conferre qui ceteris regibus sua tempestate virtute et gloria anteire putabatur. Itaque armis et comitibus pro dignitate comparatis in Hispaniam proficiscitur , atque a rege in contubernium comiter exceptus est, cumque aliquot armis in aula regia divertisset, Regis mores attentius contemplatus, qui huic castella, ilij pagos, alteri oppida immeritis dono daret, se autem qui sibi de rege optime meritus videretur irri-muneratum preterire, existimationj sue multum obesse arbitratus est, si in his locis diutius manere perseveraret. Qua propter a Rege commeatum petijt. Rex abeundi potestate facta , mulam quam pulcherrimam habebat ei dono dedit. Hanc Rogerius cum longum et laboriosum iter factuium se sciret gratam habuit. Subornavit deinde Rex unum ex fidis familiaribus, Giorn. Ligustico, XI. 386 GIORNALE LIGUSTICO qui dissimulata itineris causa abeuntem sequeretur, annotaretque que diceret, eumque postridie mane ad se reverti iuberet. Qui cum Rcgerium discedere animadvertit, statini ut erat a rege mandatum una iter ingreditur simulans et se velle Italiam petere. Rogerius mula regia quam diximus vectus , variis sermonibus in via habitis, sub horam tertiam , bonum sibi videri, inquit, equos in stabulum proximum induci. Introducti, omnes, preter Rogerii mulam, ventrem exonerant. Digressi inde, cum iter continuarent ad fluvium quendam perveniunt. Dum equi potant, Rogerij mula in aqua, mingit. Tum Rogerius indignatus : Di tibi malefaciant, inquit, bestia ; nimirum persimilis es qui te mihi dono dedit. Hec verba occultus ille comes qui per totam diem nihil ex Rogerio indignum rege audierat attentius annotavit. Cumque postridie mane Rogerius iter suum persequi vellet, iubetur a comite ad regem reverti. Iussus continuo paret atque ad regem revertitur; illo pregresso Rex qui iam que de mula dixerat cognoverat, redeuntem comiter accepit, percontatusque cur mulam sui similem dixerit. Tum Rogerius ingenue sane atque aperte : Quoniam, inquit, ut tu quibus debes non das, et quibus non debes elargiris, ita mula quam dedisti ubi minime convenit minxit; ubi autem conveniebat, renuit. Ad ea Rex : Non idcirco contigit, Rogeri, ne tibi benelecerim, quemadmodum ple-risque, quod non te probum ac strenuum virum et beneficio digno indicaverim, sed potius quod fortuna tua vetuit. Eius ista culpa est, non mea. Et quod ita verum sit id tibi clare ostendam. Tum Rogerius: Non conturbor Rex, inquit, quod a te non muneratus discedo. Non enim divitias expectabam quo ditior fierem, sed quum nullum virtutis aut meritorum meorum testimonium a te editum est, quo apud meos merito gloriari possem. Accipio nihilominus excusationem tuam ut veram atque honestam, et quamvis id tibi sine teste satis credam, tamen ubi vis ostende quod libet. Ibi Rex Rogerium in triclinium amplissimum adducit, ubi, quemadmodum prius constituerat, duo magna scrinia clausa parata erant. Tum Rex arridens, Rogeri, inquit, in horum altero coronam sceptrum spjn-ter gemmasque omnes mihi carissimas inesse scito, in altero pulverem; cape igitur ex his duobus utrum malis, dabitur quod delegeris ; ex hoc lacto facile iudicare poteris erga virtutem tuam et merita ego ne ingratus luerim, an fortuna tua. Tum Rogerius, perspecta regis voluntate, alterum capit. Rex illud confestim aperiri precipit ; terra plenum inventum est. Tum Rex subridens: videre, inquit, facile potes, Rogerj, vera esse que de fortuna tua dixi ; coeterum virtutis id meretur ut me fortunæ tuæ violenti® ipse opponam. Scio te nolle hispanum esse, idcirco neque castella, neque oppida, neque urbes quas tecum in Italiam ferre non potes tibi dono dare GIORNALE LIGUSTICO 387 statui ; sed scrinium illud preciosissimis rebus plenum , quod tibi fortuna tua paulo ante abstulit, eadem despecta, tibi dono dare instituj, ut illud tuum m Tusciam feras, et apud tuos iure gloriari possis. Rogerius his letus scrinium accipit et quas potest regi gratias agit. Deinde in Tusciam proficiscitur. Eadem fortuna vereor, vir amplissime, ne mihi sit apud liberalissimum regem nostrum que non patiatur me ab eo locupletari. Sed spero benignitatem regie fortune superaturam malignitatem mee. Idque tum summa ipsius bonitate tum tua ac ceterorum amicorum diligentia confido fore. Vale. Carlo Braggio. Descrizione dei funerali di carlo v. a genova. L’ annunzio ufficiale della morte di Carlo V, pervenne alla Repubblica di Genova soltanto verso la fine del 1558, quando già erano passati tre mesi dal di in cui era avvenuta. Pagò quindi il suo tributo di onoranze e di condoglianze assai tardi, e vi fu chi ne volle tramandare alla posterità la memoria, consegnando alle carte dell’ Archivio una particolareggiata descrizione della cerimonia (1). E la seguente : 1559 die ij laituarij. Perchè non passi la memoria de le essequie et pompe funerali che furon hoggi cominciate, per durar tre giorni, per la morte di Carlo Quinto Imperator Augusto, et Γ ordine tenuto in esse, si descrive qui di sotto brevemente, perchè possi servir ad essempio un’altra volta. Carlo Quinto Imperator semper Augusto della IH.ma casa d’Austria, Figlio di Filippo Re delle Spagne, nepote di Massimiliano Imperator, Padre di Philippo, qual naque, et fu allevato in Fiandra, venuto in Spagna doppo la morte di Ferdinando, che si dice esser nato 1’ anno del 500, il giorno (1) Arch. di Stato, Senato, 1559, Fil. 108. — Ne esiste una copia nel cod. C. V. 12 della Biblioteca Universitaria. — Fu in parte pubblicata nel Caffaro del 2 Gennaio 1880. 388 di S. Maria, ha havuto tante vittorie e fati tanti humani gesti, che si può dire esser stato, mentre che ha havuto vita, un semideo, un homo sceso dal Cielo , chi guarderà la vita sua incorrotta, e piena di tutte le virtù che homo possi desiderare, Principe giustissimo , e tanto Catholico cri stianissimo, di cui chi volessi anoverar 1’ acti egregi et le virtù, potrebbe anche anoverar forsi le stelle del cielo ! Ma lasciando descriver la vita et suoi degni fati a più famosi scrittori che ne faccino 1 istoria, siendo so lamente l'intento mio di narrar 1’ ordine che si è tenuto nella sua pompa funebre, oggi cominciata qui in San Lorenzo, dico che ha\endo eDli pagliato il debito alla natura, finiendo suoi giorni questo prossimo pas sato anno del mese di settembre, havute le lettere doppo alquanto spatio di così funesto caso da Philippo Re di Spagna figlio degno di tal padre, onde non solamente si è doluta quanto dovea la nostra città , ma con tutte raggioni dela perdita di tal principe tutto il mondo si de\ e attristar e bagnar di lachrime, quando che da la inclination de 1 imperio non sia mai stato Imperator sì grande, né sì potente, et se di forze e stato al quanto inferior di quei primi, Ottaviano et altri, con la viitù, con 1 a nimo Invito , co’ la Clemenza, co’ la Giustizia et co la pietà , gli ha di gran longa superati. Hora volendo la città in così acerba, et dannosa morte mostrar quel sentimento, et far quello honor alle sue essequie che si dovea per il poter nostro, non già per i meriti suoi, fu ordinato nella chiesa Cathedrale in mezzo della grande Nave il Mortorio di questa qualità: fu fatto un palco alto cinque palmi quadrato che quasi capiea la larghezza della nave, nel qual si ascendeva per gradi neli cui angoli erano levate quattro collonne di altezza di XVIII parmi incirca, sopra de le quali fatto intorno intorno un deambulator, in mezzo si ellevava di legnami una piramide, sopra de la quale in cima ne lo acuto era l’insegna sua co 1 aquila di doi teste, le collonne fassate di Negro, le quali erano disposte in guisa che faceano forma d’un arco triomphale , el quadratto da basso fassato di drappo Negro che copriva tuti i gradi che forsi erano cinque o sei, in mezzo del qual quadro era il mortorio a guisa di letto copeito di 'e-luto Negro, in mezzo del quale era la corona, da una parte la spada, da 1’ altra il sceptro Regale apogiato alle quattro Collonne. Stavano in piedi quattro Rei diarmes vestiti a dolo, con le gran Maggie de panno Negro, co’ un gran bastone in mano. I gradi per i quali si ascendeva sopra il catafalco Quadrato, eran pieni di torchie accese a schiere, et così su’ 1’ orlo del quadrato, et similmente sopra le collonne su l’ambulatorio, che andava intorno a la piramide che GIORNALE LIGUSTICO 389 si levava in alto, eran torchi a schiera tutt’ intorno : la piramide poi tutta piena di torchie a schiera andanti dal basso al alto dove si vedeva un’ infinita di lumi. Apparechiato a questo modo il Mortorio venne ad honorar questa pompa funebre l’IU.mo Principe D’Oria vecchio di 90 anni poitato in una bussola: vi venne Gomes Suarez di Figueroa Ambasciatore di S. M.'a con tutta la la sua famiglia, acompagnato con tutti quei cittadini che haveano qualche stipendo prima da esso Carlo, et poi da Philippo suo figliuolo, che era però un debito numero, tutti vestiti a dolo con gran maggie longhe. Era nella chiesa un frequentissimo Populo che quasi non vi capea, talché non potè la S.™1 111.™ ch’era senza Duce, per l’in-teregno dei quattro giorni, aver il suo debito loco, et li fu forza reddursi 111 coro assai lontana dal Cattafalco, mentre .si dicea la messa solemne dal Vescovo; la qual finita ascese sopra il sugesto presso al Mortorio il Sig. Dottor d’Arte et Medicina Ottavio Boero che cantò un’oration funebre, dove brevemente con voce querula, secondo la qualità del- 1 Ufficio et del loco, recitò tutti i preclari gesti fatti da tal Imperatore, dolendosi insieme con tu.to il mondo di tal giattura, e perdita di così fatto Imperatore, et finito il sermone, andò con tutto il clero acompagnato da altri quattro vescovi, che si divisero per i quattro angoli del Cattafalco, facendo tutti a vicenda oratione a Dio che havessi ricevuta la beata anima di questo principe nel riposo delli eterni gaudij. Et finito 1’ Ufficio si parti ognuno, ritornando al medesmo il dì seguente et l’altro, sotto il medesmo ordine, rinovando ogni dì la cera, la quale il terzo dì restò alla chiesa, parte alla sacrestia et parte a’ sacerdoti, et così il veluto di che era coperto il mortorio coi cernicali per farne paramenti in uso delle messe alla sacrestie. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA E. Celesia , Linguaggio e proverbi marinareschi. Genova, Sordo-muti, 1884. E un libro che merita lode da ogni sincero amatore delle cose nostre, e con il quale il chiaro A. si propone di dimostrare che esiste un’ unica lingua di mare, concisa, tutta nerbo e non mancante di certa poesia, che fiorisce spontanea dallo 390 GIORNALE LIGUSTICO schietto sentimento del popolo. Tutto sta nel saper scoprire le gemme del nostro idioma che vengono disprezzate da molti, solo perchè paesane, e diciamo scoprirle, essendo^ ben di spesso sepolte sotto molta scoria foiestiera. 11 Celesia si è accinto a questa fatica, con diligenza e competenza non co mune dell’ argomento. Nel Proemio dà prova del come egli sappia usare con proprietà somma ed eleganza quel lingua^ gio marinaresco, che stabilisce e strenuamente difende nei due dialoghi successivi. Se la nostra favella non venisse te nuta a vile, come patrimonio plebeo, si troverebbe che fin dal sec. XIII le città marinare italiane adoperavano «r nei termini tecnici quell’ istesso volgare che abbiamo tuttavia sulle labbra, salvo che come i tempi portavano, si dava ai vocaboli una terminazione latina ». Feloni, vela di cotone, artimone, terzaruolo ecc. ecc. si rinvengono usati negli antichi documenti, che stanno a ricordarci il passato glorioso dei no stri comuni. Non è vero che l’incremento odierno impresso dalla meccanica alla navigazione renda assolutamente necessaria l’alluvione di voci straniere. Si dà bensì il caso che noi soventi volte accettiamo « quasi merce venuta di fuori e nuova di zecca, vocaboli che studiati un po addentro ci svelerebbero la loro origine casalinga e domestica ». Mandraccio, brigantino, landra, bigotta ecc. ne sono esempio. Talvolta l’archeologia marittima diventa la migliore ermeneutica per ispiegare gli antichi scrittori. Così il verso di Dante : « La vendetta di Dio non teme suppe », tormentato ridevolmente dai chiosatori, che non lo capirono, diventa chiaro, quando si sappia dal Guglielmotti, che suppara o suppa era il vocabolo antico indicante la vela di pantra nei bastimenti, detta più tardi ed ancora oggidì pappafico. GIORNALE LIGUSTICO 39I I divari che riscontratisi nelle parlature della nostra gente di mare, divarii assai lievi che si riferiscono alla diversità della pronuncia, alle desinenze, alle dizioni proprie dei diversi dialetti, non devono sconfortare dal nobile tentativo di unificare il linguaggio marinaresco. In fondo l’essenza della locuzione è invariabilmente la stessa e 1’ agile e schietto linguaggio de’ nostri marinai poco o nulla è mutato da quello de nostri ammiragli, che correvano trionfalmente il Mediterraneo, per la seconda volta lago romano. L’ A. nel secondo dialogo avvisa ai mezzi per raggiungere l’intento, e finisce con una copiosa raccolta di proverbi marinareschi e modi proverbiali. Fra i nobili interlocutori che tentano di provvedere anche nel fatto della lingua alla dignità della patria, siede quel Nino Bixio che dopo la santa gesta del nostro riscatto , del quale egli fu il fortissimo Aiace, tentava mediante il Maddaloni di aprire agli italiani una via commerciale colle Indie. L’ A. si augura che insieme col linguaggio risorga presto trionfante anche il valore del nostro naviglio a cancellare vergogne recenti e non italiane, e che in quel giorno sospirato « si sostituisca all’odierno grido di guerra abbasso le brande — che troppo sa di bastardo, il solenne e italico grido — armi in coverta ». — Dio lo voglia! C. B. SPIGOLATURE E NOTIZIE Una lettera di Antonio Ivani. — Nel Bollettino storico della Svizzera italiana (anno VI, n. 7-8, p. 149) è inserita la seguente lettera di Antonio Ivani di Sarzana, diretta a Cico Simonetta, la quale tocca del saccheggio di Volterra avvenuto nel 1472 : Magnifice ac prestantissime domine mihi colendissime. Cum me huc contulerim gratia recuperandi nonullas puellas Volaterranas, que a vestris militibus miserabiliter abduci nunciabantur, statui pauca hec scribere ad 392 GIORNALE LIGUSTICO Magnificentiam vestram tum ut me sibi memorem atque commendem, tum etiam ut eidem aperiam que annis jam circiter quinque repeti atque legi in prophetijs, que sancte brigide esse feruntur. Canunt enim plura de urbibus Italie, et cum ad volaterranos ventum est, hi canuntur versus: O Volterrani leuati in gran barato Che hauete speranza In pouera possanza del paese Questa paza vorrà ancor far offese Sperando in fumo et in vento E come un fuoco spento vuole alzarssi. Si ergo datum erat desuper, ut eius calamitas hoc potissimum tempore futura esset, minus erit dolendum , cum presertim animaduerterim insaniam et ineptias paucorum easque predicaverim toti ciuitati maximum detrimentum allaturas. Commendo me Diuo principi et vestre claritutidim plurimum. Ex pontremulo die xxv Junij 1472. E. V. M. Seruitor Antonius hyuanus Scirzancnsis. L’Ivani fra le sue lettere inedite ci ha lasciato anche due componimenti ritmici sul medesimo argomento; il primo ha questa didascalia. * Antonij hyuani lamentatio in persona uolaterrane ciuitatis »; comincia. Eron le uele di la mia barcheta Nel sereno tempo aperte e chiare Suspinte in alto nel tranquillo mare Quando piacque a Dio far sua ucndecta; finisce : Concedi a me gratia integramente D’ esser acccpta a la città del giglio Crescente lauro, uerde, bianco e vermiglio. L’ altra : « Antonius hyuanus in persona ciuitatis uulterrane sue debitricis »; eccone il principio: Se spenta fosse la pietà nel mondo E perduto l’amore fra mortali De ditemi uoi quali Fugir potesson Γ infernal profondo ; e la fine : Di brigida sancta è prophetia finita : cioè compiuta. Sta in un codice, forse autografo, del comune di Sarzana. GIORNALE LIGUSTICO 393 Negli Atti e Memorie della R. Deputazione di St. Pat. delle Romagne (T.a ser. II, i) vi è un articolo di G. Sergi, Antropologia storica del Bolognese il cui primo capitolo riguarda la stirpe Ligure. *** Nel Fanfulla della Domenica (anno VI, n. 42) è comparso un curioso articolo di F. Tribolati intorno a « L’ultimo feudatario di Fosdinovo » che fu Carlo Emanuele Malaspina. Egli pubblica e cita alcuni documenti, i quali si riferiscono alle vicende di lui nel periodo francese 1796-1798. Noto che queste carte insieme a parecchie altre hanno veduto la luce due volte in quegli anni turbolenti. Io ho sotto gli occhi la seconda stampa intitolala: Documenti in giustificazione della condotta , e in difesa dei diritti del cittadino Carlo Emanuele Malaspina di Fosdinovo, nel Dipartimento delle Alpi Apuane. Nouvelle édition augmentée des notes par ]. S. Citoyen français, qui a dernièrement parcouru en philosophe et en politique les payes démocrates d’Italie. An. VI de la République français ; con questa epigrafe di Virgilio « quaeque ipse miserrima vidi, et quorum pars magna fui »; fase, in fol. di pp. nn. 16 oltre il titolo e la corrispondente bianca; senza indicazioni tip. Le note sono curiosissime, piene di spirito e spesso tinte di saporito sarcasmo. Da parecchi riscontri sembra che il Tribolati si sia servito di questa stampa. *** Il prof. Martinetti ha pubblicato nel giornale II Monviso (anno II, nn. 76 e 78) un importante articolo: « Ugo Foscolo a Genova » , nel quale giovandosi de L’ Amico dell’ ordine, periodico redatto , a quanto pare, dai Cisalpini rifugiati in questa città negli anni 1799-1800, e che non esiste e non è noto fra noi, aggiunge buone notizie alle già date da altri. *** Per semplice notizia bibliografica ricordiamo che è venuto in luce il seguente libro : Le révélateur du globe , Christophe Colomb, et sa béatification future, par Leon Bloy, Paris, Sartou, 1884. Libro polemico, esagerato, e fazioso; giudicato con severità dal visconte de Bizemont (Polyhiblion, sept. 1884, 207). *** Nel Giornale degli eruditi e cuiiosi si domandò qualche notizia sopra certa poesia italiana dell’ astronomo Gio. Domenico Cassini, corretta per la stampa dal P. Ruggero Boscovich (III, 293). Dalla dotta, ampia e minuziosa risposta di B. Boncompagni (IV, 269) si rileva che fra gli « Ecrits divers » del Cassini, conservati nella Biblioteca dell’ Osservatorio di Pa- 394 GIORNALE LIGUSTICO rigi, vi è un poema incompleto intitolato: « Frammenti di Cosmografia in versi italiani raccolti da fogli volanti del sig. Gio. Domenico Cassini dal sig. Maraldi ». È composto di 313 versi, cioè 78 quartine e un verso , i primi 188 de’ quali vennero pubblicati a Parigi nel 1810 dal suo discendente Gio. Domenico Cassini IV nelle « Mémoires pour servir à l’histoire des sciences et à celle de 1’ Observatoire Royale de Paris > fPP* 3I3‘3I9i. dove è altresì un’autobiografia dell’astronomo ligure. Questo frammento di poema apparisce scritto nella virilità del Cassini, e più precisamente fra il 1655 ed il 1671, come si rileva dai versi stessi ; perchè vi si fa parola d’un solo satellite di Saturno scoperto nel 1655, mentre la scoperta del secondo si deve appunto all’autore 16 anni più tardi. *** Nell’ Archivio Storico di Lodi (an. Ili, Disp. XI, 146-147) sono pubblicati due documenti che ricordano artisti lodigiani , i quali lavoravano a Savona. Il primo apparisce copiato dagli Atti del notaro Giovanni Solari, e in una nota appostavi si avverte essere accennato nell’ Arch. Stor. Ita]., 1 altro desunto dal Registro dei Massari della Cattedrale di Savona. Ma il vero è eh·.· questi due documenti sono stampati dall’ Alizieri nelle sue Notizie dei Professori del disegno ecc., II, 144 e III, 223. Sono piacevolmente illustrati della solita curiosa versione italiana ! *** Segnaliamo all’ attenzione dei nostri lettori una diligente monografia di G. Cerrato comparsa nella Rivista Storica italiana (Anno I, fase. 3.°, P· 445)> intitolata: La fiamiglia di Guglielmo il Vecchio, Marchese di Monferrato. L argomento fu in certa parte trattato anche nel nostra Giornale dal collaboratore C. Desimoni (a. V, 241J, e 1’ autore ne fa opportunamente suo prò; si riferisce poi e si compenetra tanto con la storia ligure, che non deve rimanere ignorata dagli studiosi di questa materia. *** Nelle Notizie degli scavi di antichità comunicale alla R. Accademia dei Lincei per ordine del Ministro della P. 1. (95, 135, 165, 230) si leggono le seguenti riguardanti la Liguria: « Ventimiglia. — Negli ultimi di marzo, essendosi 1 ispettore prof. cav. Rossi recato presso gli avanzi del teatro romano, per esaminare le opere che si fanno eseguire dallo Stato per la tutela del monumento, trovò che nel terreno arenile, ad occidente del teatro, erano stati scoperti due sepolcri. L’ uno di dimensioni assai piccole era stato esplorato, e conservava nel prospetto 1’ incavo per 1’ iscrizione già asportata. L’altro era un ambiente di m. 6,00x4,00, col rive- GIORNALE LIGUSTICO 395 stimento interno delle pareti, (ormato da strati orizzontali di ciottoli oblunghi, e di forma regolare , disposti ad opera spicata. Nei quattro angoli della cella stavano addossate quattro grandi diote , ed attorno alle medesime vasi di varia forma, cioè gutti, anfore, patere, di cui una in vetro nero di graziosa forma , che venne estratta in frantumi. Vi erano pure due lucerne coi noti bolli STROBILI e VIBIANI. Il sepolcro in parola era per di più decorato da una pietra, raffigurante un busto di donna con sotto un’ epigrafe, della quale il predetto ispettore non ha per anco potuto favorirmi il calco. Si dice che dentro la cella, oltre gli oggetti sopra descritti, si fossero scoperte delle statuine di terra cotta, ed una moneta di Antonino Pio. Lo stesso ispettore esaminò, in casa dell’ agricoltore Secondo Par-rodi fu Giambattista di Ventimiglia, una bella tavoletta marmorea di m. 0,31 x o, 18, rotta in quattro pezzi, e trovata secondo che disse il proprietario in un podere del Parrodi stesso, situato di faccia alla proprietà del sig. D. Giorgio Porro, ove avvennero altre scoperte. Vi si legge Γ iscrizione seguente, che traggo dal calco mandatomi dal sig. ispettore: D M ascia Q- VETTIO MANSv ETO APRONIA FEL1 CITAS MARITo FE*~ B M Unitamente alla lapide si rinvennero un vaso fittile ed una lucerna anepigrafe. Esaminò pure in casa del contadino Giov. Batt. Parrodi, possessore di un fondo ove si rimisero in luce molti antichi oggetti, a poca distanza dal Teatro romano in Ventimiglia, una base votiva in calcare della Turbia, di mi 0,65x0,34, la quale porta incisa in bei caratteri la seguente epigrafe, che tolgo dal calco trasmessomi: Ivlivs GEMINIAN CVM · SVIS V · S . L · M Vi si vedono ancora residui del metallo adoperato pel sostegno della statuetta, o di altro che la base sorreggeva, GIORNALE LIGUSTICO A cura dell’ ispettore predetto il monumento fu deposto in una sala del municipio di Ventimiglia. Potè poscia l’ispettore stesso esaminare la pietra raffigurante un busto di donna, della quale si disse nelle Notizie dello scorso marzo. Era stata tolta da uno dei due sepolcri rinvenuti nella proprietà Biamonti, come nel luogo sopra citato fu riferito. La misura m. 039x0,29x0,14, ed è opistografa. Da un lato presenta in alto rilievo un busto di donna rinchiuso in cornice, che sporge per circa m. o, 10, e che porta nel suo lato inferiore scolpita l’iscrizione: STATORIA · M · F · QAR/v sic È certo che manca il legamento fra il Q_e 1’A, per formare il nesso Q.A, avendo potuto rendermene certo mediante il calco, che di questa sola parola potè eseguire il sig. ispettore , non essendogli stato possibile formare un calco di tutta 1’ epigrafe. Nell’altra faccia egli poi copiò: C · STATORlVS SIPPO · MANIL sic W ■ E · TERTVLLA STATORIAE · C · F APPIAE · AN · XXII C · STATORIO · PROO sic LO · E · ANN ■ XXV Dell’ altra lapide, staccata dal sepolcro più piccolo, non mi fu concesso finora di avere un esatto apografo. Nello scorso aprile, essendosi posto mano ai lavori di costruzione del muro, che deve cingere il teatro romano dell’ antico Albium Intemelium, si misero in luce i seguenti oggetti : —- Grande anfora rotta. Due gutti. Lampada anepigrafe. Piccolo ferro a forma di ancora. Due monete corrose. Il seguente frammento epigrafico marmoreo, di m. 0,15 X 0,11, che rilevo da calco : 1 N I · C O R NE D A KE. Il 23 giugno poi, continuando Io scavo delle fondamenta di detto muro dalla parte di levante, gli operai s’imbatterono in resti di fabbricato con \ GIORNARE LIGUSTICO 397 la base di una colonna, presso i quali si riconobbero larghi poligoni di una via lastricata, di cui eransi trovate le prime tracce nel 1873, nel vicino predio di Vincenzo Ferrari. Tresana. — Il sig. ispettore avv. P. Podestà riferì circa alcune esplorazioni archeologiche avvenute a Barbarasco, frazione del comune di Tresana, provincia di Massa. Il luogo della scoperta è una piccola valle solcata dal torrente Pennolo, dove un contadino, certo Lazzarini, ridonando a coltura un bosco già coltivato a cereali e successivamente rimesso a castagneto, alla profondità di circa m. 1,50, spezzò col piccone un vaso di creta, coperto da una rozza lastra di pietra. Continuando lo scavo scoprì un altro vaso , già ridotto in pezzi ; ed in ambedue trovò ceneri ed ossa combuste. Ambo i vasi erano sepolti nella terra senza protezione di lastre, e senza cumulo di ciottoli, che servissero di difesa. A poca distanza furono trovati sparsi nel terreno molti frammenti di grossi tegoli romani, i quali fanno supporre la esistenza di altri sepolcri, che vennero distrutti nelle precedenti opere agricole. L’ossuario conservato è di creta rossa ben cotta, d’impasto e fattura grossolana ; quello trovato in frammenti è ancora più rozzo, di creta giallastra, mal cotto e quindi friabile. Tuttodì nelle circostanti montagne, e specialmente a Gurbugiaga , si fabbricano a mano e con simile creta delle stoviglie grossolane chiamate testi, le quali servono a cuocere fo-caccie per quei montanari. Presso il primo ossuario stava un vasello accessorio con coperchio, non che il frammento d’una patera. Il vasetto di forma elegante, alto mm. 30, del diametro alla bocca di mm. 60 , ed alla base di nini. 30, è fatto di creta fina, e tinto con vernice corallina in parte ben conservata. Ha forma di doppio cono tronco unito per la base, con piede circolare. Il coperchio ha pure un cerchietto per piede, è alto mm. 13, ed ha il diametro di mm. 60. Nell’interno dell’ossuario stavano poi i seguenti oggetti: Lastra di mm. 71. x 63 di metallo bianco per specchio, di forma quadrilatera, conservata in modo che riflette ancora bene Γ immagine. Due orecchini d oro pallido formati a navicella , vuoti. All’ una delle estremità un filo d oro tiene incatenata una sbarretta mobile pure di filo, terminata da un disco di circa mm. 2 di diametro ; la quale sbarretta va ad inserirsi ad un gancio di egual filo, saldato all’altra estremità. Un pezzo di piombo informe. Un astuccio circolare di bronzo, oggetto singolarissimo, contenente una moneta, e composto di due lamelle del predetto metallo, il cui orlo era stato ribattuto dopo esservi stata chiusa la moneta. Questa è di argento, appartiene alla famiglia Julia, ed è quella riprodotta dal Cohen alla tav. XX, n. 10 (cfr. Julia n. 11, p. 156). Fuori dei sepolcri fu rinvenuta una borchia di bronzo, la quale rappresenta la mezza testa di un vitello presa di prospetto , dalle narici alle corna: tra le quali sta un anello fisso, e nella parte interna una sbarra orizzontale. GIORNALE LIGUSTICO Importantissima in queste tombe liguri, per poter fissare la età del sepolcreto, è la presenza di questa moneta di argento della fine della repubblica ; e singolare il modo con cui la moneta stessa fu rinvenuta. Lo specchio poi e gli orecchini sono oggetti , che finora non si trovarono mai nei sepolcri Liguri di Cenisola ; ma devesi considerare che i Liguri di Cenisola, il cui sepolcreto è abbastanza noto, erano poveri montanari, quasi segregati dal consorzio umano , mentre i Liguri di Barbarasco vivevano in ricco ed ameno paese di pianura, più a contatto colla civiltà romana. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Guida di Ancona e dei suoi dintorni con pianta topografica della citta. Ancona Morelli (Tip. Sarzani, 1884)). Questo libretto, che il benemerito editore Morelli ha voluto metter fuori a decoro della sua città, si deve alla penna del sig. C. Feroso, ben noto studioso delle patrie memorie. L’ effetto ha pienamente giustificato la fiducia in lui riposta dall’ editore, nell’ affidargli la compilazione del lavoro. Dovendo fare un libro adatto a tutti, e in un tempo di piccola mole, era d'uopo dire assai in breve ed acconciamente; questo ha fitto 1’ autore, e vuoi nella parte storica come in quella artistica nulla ha dimenticato, o lasciato nell’ ombra. Anche la partizione del suo lavoro ci sembra ben riuscita, di guisa che il visitatore può agevolmente percorrere la città, e fermare la sua attenzione a que’ monumenti che gli vengono additati, con sobria, ma sufficiente descrizione. È riuscita infine assai bella e molto esatta la pianta topografica , che adorna il volume Francesco Colini. Pergolesi e Spontini. Saggio hio gràfico-critico. Ancona, Morelli 1884. Con affetto di concittadino, e con diligenza di biografo l’Autore ha qui raccolto quanto giova a lumeggiare la vita, e a render conto delle opere di quei due illustri maestri; i quali tennero un alto posto nell arte musicale, e lasciarono non dimenticabili testimonianze del loro valore. E se il nome del Pergolesi rimarrà vivo presso i cultori della buona musica mercè La serva padrona, e il celebre Stabat, non oscurato da quello del gran Pesarese ; allo Spontini non verrà meno la fama per aver aperto la via alle audacie melodiche dei moderni con la Vestale e il Ferdinando Cortei- Il lavoro del Colini merita plauso per il fine che si è proposto, ed anco per il modo col quale ha colorito il suo disegno; e il suo libro sarà letto con utilità ed anche con piacere. Ma si sarebbe desiderato dal lato dell’arte un più omogeneo ordinamento della materia, e quella armonica fusione che costituisce P unità. GIORNALE LIGUSTICO 399 C. Feroso. Spigolature biografiche di Francesco Podesti. Ancona, Morelli, 1884. Siccome dice il titolo, non è una biografia propriamente detta, ma una serie di aneddoti disposti in guisa da farci conoscere la vita e le opere di questo illustre pittore anconitano ; il quale al magistero del pennello seppe congiungere una non mediocre maestria nell’ opera della penna vuoi in prosa, vuoi in verso. L’ autore ci viene qui palesando quali furono i primi passi dell’artista, e per quali vie raggiunse l’eccellenza dell’arte. Novera tutte le opere sue e ne rileva l’importanza, e i giudizi ; e dell’artista più che ottuagenario scopre l’indole, l'animo, le benemerenze. Il suo nome resterà legato alla pinacoteca che da lui s’intitola, inaugurata il primo giugno di quest’ anno ; solennità che alla pubblicazione di questo pregevole libretto ha porto occasione. Italo Pizzi. Βϊχρ.ηο, Dramma lirico in quattro atti. — Ancona, Morelli 1884. Italo Pizzi, che diede all’ Italia alcuni bellissimi saggi di una sua versione del Libro dei Re di Firdusi, ha voluto, come egli stesso ci avverte, stralciare dal libro del grande poeta persiano uno degli episodi più commoventi e comporre un dramma : le avventure di Bizeno e di Menizeh. L’ argomento è semplicissimo. Menizeh, principessa Turania, s’ innamora perdutamente di Bizeno, giovine figlio del re degli Irani, e, siccome tra quella gente fortunata le maschere della civiltà non erano ancor note, acconsente che le sue damigelle addormentino il giovane con un filtro e lo rapiscano nella reggia del padre, re dei Turani. Ma quivi scoperto è condannato dal re ad essere chiuso nell’ orrida caverna abitata un tempo da Arzéng, uno dei Devi o Dèmoni delle tenebre, ucciso da Rustem il grande guerriero Iraino. La principessa è anch’ essa scacciata dalla reggia, sicché vada « limosinando per le sparse ville » un tristo pane a lui che la sedusse ». Ma sopraggiunge Rustem che libera il principe Iraino, e i due giovani, provati dall’amore e dalla sventura, si dànno la mano di sposi davanti all' ara del fuoco purificatore. Risulta in tutto il dramma , competenza e valore ben noti del Pizzi, cui anche non mancarono i consigli dell’ illustre Verdi intorno all’andamento del lavoro. Noi che non dobbiamo occuparci della sua musicabilità, perchè davanti al giudizio di tanto Uomo chiniamo riverenti la testa , ma del pregio letterario, notiamo segnata-mente per grazia delicata ed affettuosa la scena dell’Atto III, tra Menizeh e Bizeno, e per felice ardimento al principio dell’atto IV, il coro dei Devi, spiriti delle tenebre creati da Arhimane genio del male. Se si può fare un appunto a questo pregevole lavoro, è un po’ di deficienza nelle situazioni drammatiche. La prima parte che tratta dell’ amore dei due principi non può certo dar luogo a grandi sorprese, e la seconda parte 400 GIORNALE LIGUSTICO che riguarda la prigionia di Bizeno e la fedeltà coraggiosa di Ménizeh, si chiude in fretta in fretta con un matrimonio senz’ altre peripezie all infuori dell’ unica già detta , la prigionia di Bizeno , durante la quale Me-nizeh, accoccolata sopra un sasso presso la caverna, parla coll’ amante ; ora quantunque l’autore spieghi una grazia delicata e semplice, come ognuno vede , la posizione non è drammatica. Anche ci pare troppo superficialmente disegnata la grande figura di Rustem, e quanto al frettoloso matrimonio esso formerà senza dubbio la felicità dei giovani amanti, ma lascia alquanto disillusi i lettori. Il nome del Pizzi per altro non è nome ignoto agli Italiani, e noi facciamo voti perchè in breve gli spettatori, che. auguriamo numerosi al suo dramma, siano per giudicare di questo diversamente. A. G. F. Francesco Archibugi. Guida pratica allo studio della lingua Tedesca secondo il metodfi del dottor Carlo Gengnagel. — Ancona, Morelli 1884. Non è un- grosso volume nel quale l’autore affaccia pretese e vuol mostrare il suo sapere ad ogni costo, dove le regole sono affastellate sulle regole, e lo studioso è avvolto in difficoltà continue. L invece un modesto volumetto di poche pagine dove ogni cosa procede pianamente e regolarmente. Esso tratta della parte' morfologica della lingua. L’A. è convinto che la regola non vivificata dall’ esempio a nulla giova e che la prima condizione necessaria all’apprendimento di una lingua è l’esercizio, nè perde mai di vista lo scopo che si è prefisso di riuscire chiaro e proficuo. Sin dalle prime lezioni, lo studioso impara a coniugare i verbi ausiliari liaben e sein (avere ed essere), di modo che coll’ aiuto dei vocaboli che l’A. gli viene di mano in mano fornendo, e delle nozioni che non trascura di dargli ogni volta che l’opportunità si presenta, si trova quasi subito in grado di tradurre- e comporre brevi e facili frasi, la qual cosa, oltre ad essergli di glande vantaggio , soddisfa il suo amor proprio e lo invoglia a proseguire oltre nello studio dell’ importantissima lingua. A ciascuna lezione poi vanno uniti brevi e dilettevoli esercizi che crescono gradatamente in difficoltà, dei quali parte sono in Lingua Tedesca con la traduzione italiana corrispondente, parte devono essere tradotti in Italiano dall’allievo e parte in Tedesco. L’A. insegna poi anche come questi esercizi debbano essere variati e il modo con cui deve procedere il maestro perchè il libro non sia lettera morta. Certo il maestro deve ancora far molto ; ma per altro ha tracciata chiaramente e sicuramente la via che deve seguire. E noi in tanta copia di dotte e pesanti grammatiche, la maggior parte delle quali non fanno altro che riempiere di confusione la mente e stancano e sconfortano, non esitiamo a chiamar utile il libro del prof. Archibugi. L’A. esprime il voto che gli venga fatta dagli Italiani la stessa benigna accoglienza che ebbe all’ estero il dottor Carlo Gengnagel, del cui metodo si è servito, e noi glielo desideriamo di cuore, aspettando con desiderio la seconda parte del suo pregevole lavoro. A. G. F. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 4OI LO STORICO GIOVANNI FRANCESCO DORIA E LE SUE RELAZIONI con Ludovico Antonio Muratori • Fra le opere che trattano degli avvenimenti accaduti in Italia , e particolarmente a Genova e in Liguria negli anni 1745 e seguenti , per chiarezza e verità di esposizione e per imparzialità di giudizi, va meritamente stimata quella che corre col titolo: Della Storia di Genova negli anni 1745-1746-T741 libri tre, e la data 1748, ristampata poscia nel 1750 coll’indicazione di Leida, e con l’aggiunta di due anni, col nuovo titolo : Della storia di Genova dal trattato di Worms fino alla pace di Aquisgrana libri quattro. Relativamente però al suo autore, quantunque da tutti sia attribuita ad un Doria', la maggior parte, per non dire quanti l’accennarono, sulla fede dell’Accinelli (1), la credettero lavoro del patrizio Francesco Maria Doria; e di questa opinione fu pure il dotto scrittore della Storia letteraria della Liguria, che l’attribuisce a questi, con le seguenti parole: La storia degli anni 1^45-46-47 fu descritta dal marchese Francesco Maria Doria, che meglio d’ ogni altro dovea saperne i particolari, avendolo inviato la Repubblica al congresso di Aquisgrana, ove sottoscrisse cogli altri ministri quel trattato che diede pace all’ Europa (2). Senonchè, e ora sono già scorsi molti anni, avendo io osservato che in detta storia, ove si fa menzione di Francesco Maria Doria (3), che era stato legato straordinario della Repubblica al Re Cristianissimo, inviato straordinario alla corte di Londra, ed infine Ministro plenipotenziario al Congresso (1) Compendio delle storie di Genova ecc., Lipsia 1750, I, XXII. (2) Spotorno, Storia Letteraria della Liguria, V, 44. (3) A pag. 234 della prima edizione ed a pag. 238 e 516 della seconda. Giorn. Ligustico Anno XI. 26 402 GIORNALE LIGUSTICO di Aquisgrana, si accenna a lui con parole di encomio, ed essendomi venuto sott’occhio un esemplare della storia stessa, su cui era scritto di carattere del tempo come essa fosse lavoro del patrizio Giovanni Francesco Doria, mi nacque il dubbio, che invero questi e non l’altro ne potesse esseie 1 autore. Un argomento lo dedussi anche dal fatto che in casa del marchese Ademaro De Mari, nella cui famiglia cadde parte dell’asse ereditario di quella di Giovanni Francesco, estinta nel corrente secolo, ebbi occasione di vedere, assieme ad alcuni codici e libri col di lui stemma, la lastra di rame intagliata da Giuseppe Benedetti, che servì per l’impressione della carta topografica dei contorni di Genova, aggiunta alla seconda edizione. La quale lastra poi da detto marchese De Mari fu concessa in imprestito al Clavarino, per la riproduzione della carta topografica, cancellato il nome dell incisore, distribuita agli associati dei suoi Annali della Repubblica Ligure. A ciò si aggiunga, che avendo tenuto discorso di tutto DO O 7 questo all’ egregio mio amico Iacopo Doria, anche egli da lungo tempo trapassato, ed allora Vice Bibliotecario della Civica, uomo molto dotto, particolarmente nelle cose della famiglia Doria, sugli uomini illustri della quale, stava appunto compilando in elegante latino brevi note biografiche, lo trovai interamente della mia opinione. Per la qual cosa, nell’ e-sporre i cenni biografici di Giovanni Francesco Doria, fondatore dell’Accademia di Belle Arti, io lo indicavo pure come autore della citata Storia di Genova (i). Nonostante dai più si continuò ad attribuirla a Francesco Maria, e come sua figura sulla maggior parte dei cataloghi bibliografici, ed anche nel noto Dizionario del Melzi. Ora diversi documenti che ebbi la fortuna di trovare, ven- (i) Memorie e Documenti sulla Accademia Ligustica di Belle Arti, Genova, Sordo-muti, 1862, 22. GIORNALE LIGUSTICO 403 gono a dar piena conferma alle mie deduzioni che concludevano a favore di Giovanni Francesco Doria. Alcuni sono deliberazioni ed atti che trovansi nel nostro Archivio di Stato, de quali già feci cenno in una lettura sopra quest’argomento alla Società Ligure di Storia Patria il maggio 1882, gli altri, una serie di lettere del Doria dirette al celebre Antonio Ludovico Muratori, che si conserva nell’ Archivio Muratoriano di Modena, di cui ebbi copia 1’ anno passato per la cooperazione dell’egregio mio amico Achille Neri. Dirò degli uni e delle altre, cominciando da’ documenti del nostro Archivio. Questi hanno la data del 1747, e si compongono di due deliberazioni dei Serenissimi Collegi, nella prima delle quali in data 16 ottobre si commetteva allo Eccellentissimo Giovanni Francesco Doria, che allor siedeva in quell’ alto consesso come Procuratore biennale, il carico della compilazione della storia di Genova dal trattato di Worms sino a quei tempi, avendo già egli manifestato di scriverla; e con l’altra, in data del 24 pure di ottobre, sulla richiesta del medesimo, a fine di meglio accertare le date dei fatti, si autorizzavano i cancellieri del governo a dardi o o in communicazione le scritture e le lettere che fossero a lui necessarie (1). Osserverò a questo proposito, che la deliberazione presa dalla signoria di far compilare una storia degli avvenimenti che tanto interessavano la Repubblica di Genova, fu motivata od almeno accelerata, da una lettera scritta da un cittadino genovese abitante a Firenze, in data 11 ottobre 1747, letta ai Collegi (2), nella quale si avvertiva che in Germania erano state fatte alcune pubblicazioni allusive agli avvenimenti del 1746, che mettevano in cattiva luce la Repubblica, con manifesta (1) Militarium 1747, Filza 15. (2) Ivi, in copia che precede le deliberazioni accennate. 404 GIORNARE LIGUSTICO alterazione della verità, ed accennava ad un almanacco stampato nel 1746 dove un’ incisione interpretava la convenzione col Botta in senso di una completa dedizione, come dal sottoposto: Deditio Reipublicae Genuensis, e l’altra tacciava di ribellione il moto popolare contro gli Austriaci : Rebe w Reipublicae Genuensis. Per cui, soggiungeva l’autore della lettera: essere necessario che prima di alcuna conclusione di pace, venga data fuori la veridica istoria di quanto I sc^u.tc In seguito a ciò il Doria attese alla compilazione del suo lavoro, ma fu interrotto da imprevisto accidente, pei “ ’o nonostante la sua condizione e la sua autoiita, addi » naio 1748, si dovette costituire prigioniero di Stato nelle carceri della Torre (1). Di che era stato cagione il contegno tenuto dal Doria in una vertenza che il suo maestio »■ ebbe con gli agenti dell’ufficio di S. Giorgio alla porta di S. Tomaso , a causa di certa cassa di bottiglie su a qua e pretendevano il dazio, per cui, oltie a vivaci paro ' fra di loro, venne bastonato un commissario. Pare che 1 Doria non deplorasse convenientemente il latto, onde in certo modo ne cadeva la responsabilità, ed a dai sfazione all' Ufficio di S. Giorgio che vivamente reclamava , il Minor Consiglio ne decretava 1 arresto. Ma lo stesso Di in cui egli si costituiva, i Collegi dichiaravano di esseri, cessai Γincidente che avea dato lungo al decreto, ordinando di communicazione al Consiglio per 1 oppoituna delibaazi E da nota apposta in calce appare che ciò fu fatto lo ^tes giorno, onde è a credere fosse immediatamente posto in bertà. Ma offeso per lo sfregio sofferto, gli balenò in mente 1 idea di abbandonar la patria, e di entrare a servizio d un qua che principe forestiero; siccome ci manifesta la domanda lui sporta alla Signoria, in data 19 gennaio 174b, colla quale, (i) Collegii, 1748. GIORNALE LIGUSTICO 405 pur sempre protestandosi affezionato alla Repubblica, e pronto ad ogni cosa per il suo vantaggio, chiede il necessario permesso. I Collegii annuivano alla richiesta , ma colla clausola che il permesso dovesse aver effetto dal giorno stabilito il dai Conservatori delle leggi, perchè il Doria , quella mattina istessa, era stato estratto alla carica di altro fra i Sindicatori della Riviera di Levante. Calmato il primo bollore , egli smise Γ idea di entrare ad esteri servizi, e continuò ad occuparsi della sua storia, per cui Pii luglio seguente, chiede, e gli si concede, permesso di consultare le carte dell’archivio segreto, e trar copia di scritti, per certi particolari di cerimoniale praticati verso il Duca di Boufflers (1). Più tardi si assentò da Genova, ma a questo lo spinse particolarmente lo stato di salute di sua moglie , alla quale venne consigliato da’ medici il soggiorno di Pisa. Infatti negli anni 1749 e 1750 egli dimorò in questa città, meno diversi mesi dell’ estate e dell’ autunno, passati a Lucca, e precisamente alla Gattaiuola. Attese in questo tempo alla pubblicazione delle due edizioni della sua storia ; come si rileva dalle lettere di lui, al Muratori. Sono tutte interessantissime, e sarebbe cosa desiderabile che se ne potesse completare la corrispondenza colle risposte che vi fece l’illustre storico. Il Doria che personalmente non conosceva il Muratori, ma che come uomo de’ più colti del tempo, era al corrente delle opere sue e ne apprezzava altamente lo ingegno, onde più d’una volta aveva mandato a complimentarlo per mezzo de’ suoi figli, che trovavansi in educazione nel Collegio de’ Nobili a Modena (2), nel Marzo del 1749 gli si rivolse per (1) Senato. Filza 2.1 1748. (2) I due figli del Doria , Giuseppe e Gio. Niccolò , erano entrati nel Collegio di S. Carlo fino dal 1745. Catalogo degli alunni del C. di S. C., Modena, Vincenzi 1876, 41. 4o6 GIORNALE LIGUSTICO aver (i) consigli sulla sua storia, e direzione per la stampa. Egli desiderava fosse fatta in quella città da Bartolomeo So-liani, tacendovi però il nome suo di autore, e quello del luogo dell’ impressione, nel formato di quarto, e con i caratteri stessi della Secchia Rapita, uscita da quei medesimi torchi nel 1744. Il Muratori accettando Γ incarico, osservava che per tacere il luogo dell’impressione, occorreva il permesso del Duca, che probabilmente lo avrebbe negato. In seguito a ciò il Doria non insisteva nel primo proposito della stampa alla macchia, ove ciò avesse potuto recar perdita di tempo, pel dovuto permesso, fermo però restando in quella di conservare 1 a-nonimo e del resto rimettendosi in tutto al Muratori (2). Nelle trattative egli si mostra colle sue lettere quel perfetto gentiluomo che era, dando piena ed assoluta facoltà al chiaro storico di correggere e di cambiare il suo dire nella forma che egli avesse creduto più opportuno, non solo, ma di spendere quanto fosse abbisognato per far curare la stampa, rivedere le bozze, compilar l’indice, come pure per combinare col Soliani l’importo dell’impressione, dichiarando che gli esemplari stampati, egli intendeva lasciarli, meno quelli che destinava in regalo per i suoi amici e conoscenti, al suo segretario , in compenso della fatica incontrata nella trascrizione della storia medesima (3). L’originale veniva a mani del Muratori sui primi di giugno, per mezzo di certo capitano Menafoglio, che da Pisa si era recato a Modena; ai 5 egli ne accusava ricevuta al Doria, ed a’ 12 lo avvertiva della compiutane lettura, e della sua piena approvazione (4). Intanto le sollecitazioni di lui avevano (1) Lettera da Pisa, 31 marzo 1749. (2) Lettera da Pisa, 21 aprile 1749. (3) Lettera da Pisa, 19 maggio 1749. (4) Lettera dalla Gattajola, presso Lucca, 24 giugno 1749· GIORNALE LIGUSTICO 407 sortito pieno effetto, essendo stato concesso il permesso del- 1 imprimatur senza indicazione di luogo, e tutto era pronto per la stampa. Solo al Soliani mancava la carta di quella bontà che il Doria desiderava, e già questi si mostrava disposto a rinunziare alla sua prima idea di eseguire P edizione in 4.0 contentandosi di un formato in ottavo, e dividendo l’opera in tre tomi , appunto quanti sono i libri nei quali è distribuita (1), e ciò a fine di sollecitarne il più che fosse possibile la pubblicazione (2), quando il Muratori gli suggerì, di farne eseguire due edizioni, l’una di 500 esemplari colla carta soprav-vanzata nella stampa della seconda parte delle sue Antichità Estensi, e l’altra di 1000, con quella che il Soliani aveva a bella posta commessa in Reggio al fabbricante Cantoni (3). Così fu fatto. Agli 8 di agosto del 1549 il Muratori annunziava cominciata la stampa della prima edizione (4), a’ primi di ottobre che era alla metà (5), ed ai 21 novembre compiuta , e ne mandava al Doria in detto mese , per la via di Bologna, che era la più breve, due esemplari (6). Rimase il nostro patrizio assai soddisfatto della stampa, solo vi riscontrava alcuni errori, che voleva avvertiti con un errata-corrige. Quello che più gli rincrebbe si fu il vedere nell’ indice, segnato il patrizio Gio. Giacomo Grimaldi come ucciso in un combattimento, mentre tale indicazione doveva riferirsi ad Andrea Uberdò che era in quella fazione sotto gli ordini del Grimaldi (7). A questo errore cercò rimediar poi, come meglio si potè , facendo sulle copie che (1) Lettera da Lucca, 4 luglio 1749. (2) Lettera da Lucca, 14 luglio 1749. (3) Lettera dalla Gattajola, 24 luglio 1749. (4) Lettera da Lucca, 22 agosto 1749. (5) Lettera da Pisa, 20 ottobre 1749. (6) Lettera da Pisa, 1 dicembre 1749. (7) Lettera da Pisa, 15 dicembre 1749. GIORNALE LIGUSTICO vennero in Genova , coprire quelle parole con una lista di carta appicciccatavi sopra. Dei 500 esemplari tirati, il Doria avrebbe voluto ne fossero mandati 250 alla Spezia, diretti ad un suo raccomandatario , Teramo de’Federici, per distribuirli poi in Liguria, 150 a Lucca al signor Giovanni Conti, che li avrebbe fatti avere a lui stesso a Pisa, ed i 100 restanti, meno alcuni pochi destinati ai più intimi amici ed ai parenti specialmente indicati, desiderava rimanessero a disposizione del Muratori, per i suoi conoscenti di Modena, spargendo il rimanente a Parma, Bologna, Ferrara, e Venezia (1). Ma ciò non si potè fare. Il governo estense nel concedere l’impressione alla macchia avendo fatta assoluta proibizione di vendere, dare , od in qualche modo distribuire da Modena, copia alcuna dell’opera, convenne che tutte, meno pochissime rimaste al Muratori, o celatamente regalate e spedite, tossero mandate alla Spezia (2). Furono perciò avviate a quella città (3) dove, essendosi dovuta fare la via di Firenze (4), finalmente arrivarono alla fine di dicembre, nel tempo stesso che una parte perveniva a Pisa, d’ onde il Doria ebbe la soddisfazione di distribuirle (5). Nel frattempo egli aveva esposte le sue idee per la seconda edizione. Doveva essere in 4.0 grande, con carattere più vistoso, e larghi margini, frontispizio a doppio colore, rosso e nero, con una vignetta rappresentante un trofeo d’armi e di bandiere, e corredata di una carta topografica di Genova e dei dintorni. E, ben s’intende, purgata dai diversi errori che aveva gilevato, e che andava man mano correggendo nella (1) Lettera da Pisa, 3 novembre 1749. (2) Lettera da Pisa, 24 novembre 1749. (3) Lettera da Pisa, 22 dicembre 1749. (4) Lettera da Pisa, 2 gennaio 1750. (5) Lettera da Pisa, 9 gennaio 1750. GIORNALE LIGUSTICO 4O9 prima , oltre alcuni leggeri mutamenti ed aggiunte , perchè meglio riuscisse esatta e precisa. Dei preparativi per questa seconda edizione si occupò anche il Muratori, ma la sua malattia, la perdita della vista, e la morte, avvenuta ai 23 gennaio del 1750, impedirono ogni maggiore sua assistenza. L’ ultima lettera scritta , o fatta scrivere da lui al Dona appare colla data del 2 gennaio, alla quale questi rispose ancora il 9. Dalla stessa si conosce che Gio. Francesco Soli-Muratori, nipote dello storico, si occupava dell’edizione di cui ora è discorso, come certo si era occupato anche molto del compimento della prima. A lui poi è diretta l’ultima lettera che del nostro Patrizio si conserva nell’ Archivio Mura-toriano (1), ed alla stessa sono uniti diversi foglietti di aggiunte e cambiamenti desiderati dal Doria, ed adottati nella stampa. Questa edizione in origine non doveva comprendere che gli anni 1745-46-47, ugualmente che la prima, come appare dalla citata lettera , ove 1’ accurato patrizio proponeva le parole che desiderava aggiunte nel frontispizio. Ma poiché infatti comparve continuata sino al 1749, e così del trattato di Worms sino alla pace d’ Aquisgrana, è a ritenersi che il Doria si sia improvvisamente deciso a questa aggiunta, che deve aver compilato mentre già erano in corso di stampa i primi fogli, per i quali si conosce che tutto era pronto nel mese di febbraio del 1750. Il disegno della tavola topografica di Genova fu fatto eseguire a bella posta in patria dal Doria (2), e venne intagliato in rame a Bologna da Giuseppe Benedetti, che vi scrisse il suo nome. A lui pure devesi certamente l’incisione che figura nel frontispizio, vedendovisi la stessa mano di (1) Lettera da Pisa, 25 febbraio 1750. (2) Lettere da Pisa, 22 dicembre 1749 e 2 gennaio 1750. 410 GIORNALE LIGUSTICO chi intagliò quello delle Antichità Estensi, che poi ta scritto il nome del Benedetti, oltre quello dei disegnatore Domenico Fratta , che deve aver anche fatto il suddetto disegno per la nostra storia. Il numero degli esemplari era stato stabilito in iooo, ma chiudendosi la corrispondenza colla data del 29 febbraio 1750, non si può sapere se sia stato mantenuto od aumentato; come pure cessa ogni dato pei stabilire Γ epoca precisa in cui fu compita 1 edizione , ed il come furono distribuiti gli esemplari, i quali, come ho detto in principio, portano l’indicazione di Leida, e la data del 1750. Tutto ciò per la parte materiale di queste due edizioni. In quanto alla parte intrinseca, in merito alla storia, non meno importanti sono le lettere del Doria, attestandoci esse della piena approvazione data dal Muratori al lavoro del nostro patrizio; approvazione che ebbe la più luminosa conferma dalle cure minuziose ed assidue dal medesimo prestate, affinchè uscisse alla luce conforme a’ desideri del suo autore, onore che non credo sia stato da lui concesso ad alcun altro lavoro di autore vivente. Ed è a deplorare , che non si conoscano le lettere scritte dal Muratori in risposta, perchè si potrebbe apprendere da esse, e con le parole proprie di lui, il favorevole concetto in cui teneva il lavoro; allo stesso modo che dalle lettere del Doria appariscono chiaramente gli intendimenti suoi nel compilarlo. Ho già detto, e dai citati documenti è provato, come avendo palesato Γ intenzione di dettar la Storia, ne avesse dalla Signoria formale incarico , concedendogli perciò di consultare negli archivi i documenti necessari. Ma di questo, e particolarmente dello incarico avuto dalla Signoria, non è cenno nella sua corrispondenza. E il motivo non può essere che un riguardo verso il Muratori, a fine di non porlo forse in qualche imbarazzo, ove avesse creduto di doversi immischiare GIORNALE LIGUSTICO 4II in una stampa più o meno ufficiale di governo straniero. Ed egli certamente insiste nel voler conservare Γ anonimo , ed eseguita la stampa alla macchia, quantunque noi dica, per liberare la Repubblica da possibili rimostranze delle estere potenze , in ordine al racconto di certi fatti, che sebbene espressi ne’ termini i più moderati non potevano loro riuscir gradito. E questo probabilmente, fu anche il motivo per cui il governo Estense, accondiscendendo al permesso dell’ impressione, non permetteva assolutamente che da Modena ne fosse distribuita copia alcuna. Importantissima sopra tutto è la lettera datata da Pisa il 17 maggio 1749, colla quale accompagnava l’invio della Storia al Muratori, col mezzo del capitano Menaioglio. Imperciocché, dopo una dichiarazione sul difetto del suo lavoro, per quel che riguarda lo stile e la dicitura, egli vi espone chiaramente gli intendimenti , già in parte con altra accennati, che ebbe nel dettarla, la via che si prefisse in condurla; (i), « e tocca inoltre di un’altra Storia, che dice aver scritto più particolareggiata e senza riguardi a politiche convenienze, comechè destinata a stare presso di sè manoscritta, ad istruzione dei suoi figli e delle venture generazioni. Eccone il brano che fa conoscere qual fosse 1’ animo suo. « Nella » verità dei fatti da me esposti spererei di non aver » preso abbaglio , cosi per essere stato testimone di veduta » in moltissime cose, come per essermi trovato al maneggio » degli affari durante gli anni de’ quali ho parlato. Inoltre ho » potuto praticare diligenze , e le ho praticate per rintrac-» ciare il vero, assai maggiori di quelle che possano adoperi rarsi da chi non era nella situazione nella quale io mi » trovava. » Fra le molte cose che verranno da’ lettori in questa mia (1) Lettera da Pisa, 3: marzo 1749. 412 GIORNALE LIGUSTICO » Opera disapprovate, vi sarà certamente quella del darmi io » a conoscere manifestamente portato di genio a favore » genovesi, e mi si apporrà l’aver io peccato contro la nota » massima, la quale insegna a qualsivoglia storico, eli e^li » non debbe avere nè Patria, nè amici. Ma , e come mai è » ciò possibile a mettersi in pratica? Io ho sciitte le cose » del Paese dove son nato , cose da me maneggiate , e che » tanto appartenevano anche al proprio mio individuo ed al » tamente interessavano il mio onore; onde non t meiavi » glia se comparisco ad essa affezionato. Spero con tuttociò » che non vi sarà chi possa intaccarmi d’ aver io taciuto il » vero, per quanto i dovuti prudenziali riguardi lo permet » tono, o detto il falso. Che se poi le cose accadute sono » per se stesse gloriose alla mia Patria, e si scorge nel mio » dire il piacere che io ne risento, non so persuadermi, che » ciò debba ascrivermisi a delitto, tanto più, che nel principio » del libro dico ingenuamente di esser genovese, tuttoché per » altri riguardi io taccia il proprio nome. » Mi verrà altresì apposto l’aver io troppo minutamente » descritti molti piccoli fatti, che riguardano immediatamente » la Repubblica, e particolarmente nel descrivere la Rivolu-» zione accaduta in Genova nel dicembre del 174^ > e ^ as" » sedio tentato dagli austriaci nell’ anno seguente. A que-» st’accusa risponderei, pregando i critici a riflettere, che ho » scritta non la storia universale della guerra, ma la parti-» colare di Genova, onde molti fatti, che sembrano piccoli » per se stessi non sono tali riguardo al Paese, ove sono » accaduti, ed alle persone, che si sono in essi adoperate. » Si aggiunga che ho avuto in mira di scrivere una storia che » possa servire d’istruzione a’miei concittadini, onde ho cre-» duto spediente di rammentar loro tuttociò , che può ser-» vire di regola per ogni futuro possibile caso, avendo io » stesso conosciuto per esperienza il pregiudizio eh’ è stato GIORNALE LIGUSTICO 413 » recato a’ Genovesi dalla mancanza delle notizie delle piccole » cose praticate per Γ addietro da’ nostri Maggiori. » Le lodi altresì da me date a molti de’ miei concittadini » parranno forse troppo ampollose; ma per verità io le ho » date indistintamente a tutti quelli che al debole mio giu-» dizio, le hanno meritate , nè mi sono in ciò lasciato tra-» sportare dall’ amicizia, poiché molti, dei quali faccio ono-» revoie menzione sono persone, delle quali so solamente il » nome , da me sentito in queste congiunture per la prima » volta. » Il Duca di Boufflers, il Marchese di Taubin e gli altri » uffiziali Gallispani hanno certamente commessi degli errori » assai evidenti e grossolani, ma non credo di essere repren-» sibile , se non gli ho fatti risaltare nella loro vera luce, » trattandosi di persone, per le quali devono aversi non pochi » riguardi. Ho però raccontato il fatto, e dalla lettura di esso » può dedursi o 1’ inutilità d’intraprendere un’ azione, o la » massima di pensare poco giusta di chi l’ha ideata. In molte » congiunture avrei potuto segnare le intrinseche, e vere » cagioni che hanno prodotti perniciosissimi effetti, come sa-» rebbe a dire le rovine nella Lombardia, accadute a’ Galli-» spani nel 1746, e 1’ abbandono da essi fatto della Repub-» blica di Genova fuori d’ ogni ragione e necessità, gli spro-» positi fatti in Corsica dal signor di Choiseul, le alterate, » anzi false relazioni che fecero alla loro Corte i francesi, » per ottenere quella rimunerazione che non avevano me-» ritata ; ma ho dovuto sacrificare alla prudenza la propria » vanità, con tacere le massime delle Corti delle quali sono » per altro pienamente informato, contentandomi di conser-» varne la memoria presso di me in una storia manoscritta » per istruzione de’ miei figli, o di coloro, che nasceranno » ne’ tempi più lontani da quelli d’ adesso. Ho procurato di » parlare modestamente delle cose fatte dalla Corte di Vienna 4i4 GIORNALE LIGUSTICO » contro la Repubblica, chiamando durezza ciocché era ti-» rannia, spoglio ciocché dovea dirsi rubbamento, ed insom-» ma adottando le frasi più dolci agli atti più crudeli. Ma, » oltre il riguardo a’ Sovrani, ho avuto in vista di non di-» spiacere alle mia Repubblica, la quale professa in ogni cosa » la più scrupolosa moderazione. » Tutto ciò ho espresso a V. S. Ill.ma per sincerazione » mia, non intendendo però di ritrattare punto quanto nel » principio ho detto, cioè di appormi a tutte quelle muta-» zioni, e correzioni, eh’ Ella stimasse di fare nella storia, » che sempre saranno da me altamente venerate, e colla più » rispettosa riconoscenza ricevute. A nessuno sfuggirà l’importanza di questa lettera, special-mente per i giudizi del Doria sopra alcuni fatti narrati, e per P accenno all’ altra Storia , che dice conservar manoscritta. Aggiungerò che di questa come delle lettere scrittegli dal Muratori, pregai il marchese Marcello De Mari a far ricerche in sua casa, ma finora riuscirono infruttuose. Qualche particolare sulla vita del Doria apprendiamo pure da dette lettere. Vi leggiamo infatti, come si è veduto, che egli si trovava a Pisa, a causa della salute di sua moglie (i): che due suoi figli erano in collegio a Modena (2), donde poi li ritirava nel luglio del 1749 (3): che nello scrivere il suo lavoro ebbe molti disturbi, come la morte di un altro suo figlio , e la lunga e grave malattia della moglie (4) , e che nella compilazione del terzo libro, si trovava in disgustosa situazione (5) : che dal soggiorno di Pisa 0 di Lucca doveva qualche volta venire a Genova, come certo vi venne a’ primi (1) Lettera da Pisa, 21 aprile 1749. (2) Lettera da Pisa, 31 marzo 1749. (3) Lettera dalla Gattajola, 29 giugno 1749. (4) Lettera da Pisa, 19 maggio 1749. (5) Lettera da Lucca, 12 settembre 1749. GIORNALE LIGUSTICO 415 di settembre del 1749 (1) ; in tutte poi si palesa sempre un vero gentiluomo , colto , generoso ed amante del bene e dell’ onore della sua patria. Egli era Duca di Massanova , figlio di Giuseppe Maria e di Giovannetta Pinelli. Nacque il 16 gennaio del 1703 , fu de’ Procuratori biennali negli anni 1746 e 1747 , e moriva addi 12 maggio del 1752. Dal suo matrimonio con Eleonora Tanari di Bologna ebbe due figli che gli sopravissero , Giuseppe Maria e Giovanni Nicolò. Il primo nato a’ 12 luglio del 1730, fu Doge nel 1795 e 1796, e morì a Roma a’ 9 marzo del 1816. L'altro nato il 28 giugno 1732, come ricavo da una nota che anni addietro ebbi dal sopra citato mio amico Jacopo Doria, fu capitano di due navi da guerra spedite dalla Repubblica nel 1760 ad incrociare sulle coste della Corsica, per impedir 1’ accesso a quell’ isola, al Visitatore Apostolico De Angelis, e colto da improvvisa tempesta nella notte tra il 18 e il 19 di marzo faceva naufragio a Pineto , ove periva assieme al suo legno, ed a cento settanta uomini d’ equipaggio. Giovanni Francesco Doria fu il principale fondatore del-l’Accademia Ligustica di Belle Arti, eretta l’anno 1751, e quivi se ne conserva 1’ effigie in un rilievo di marmo, eseguito da Bernardo Mantero, colla seguente iscrizione: JOANNES FRANCISCUS AB AURIA PRIMUS BONARVM ARTIUM STUDIOSIS DE LYCÆO CONDENDO LEGIBUSQUE SERVANDIS AUCTOR. ANNO MDCCLI. Marcello Staglieno. (1) Lettera da Lucca suddetta. 416 GIORNALE LIGUSTICO I BASILE ALLA CORTE DI MANTOVA SECONDO DOCUMENTI INEDITI Ο RARI (1603-1628) I. A chi ripensi la storia della Casa dei Gonzaga nel peiiodo dal 1550 al 1628, non può non recare meraviglia la perseveranza con la quale i Ducni di Mantova, specie gli ultimi della linea primogenita, in mezzo ai sopraccapi politici e domestici che li travagliarono quasi di continuo, e quasi sempre per propria colpa, seppero serenamente conservale il loro dilettantismo, il loro gusto per le feste e gli spettacoli teatrali, il loro amore per le belle lettere , le belle arti e le belle donne. Anche restringendosi soltanto alla musica e al teatro , la Corte di Mantova nel secolo decimosesto offre materiale bastevole a grossi volumi di storia artistica. Della musica già trattò il compianto abate Pietro Canal, ed oggi sono in via di pubblicazione nuovi ed importanti lavori del Prof. Alessandro D’Ancona, e dei signori Stefano Dovari ed Antonino Bertolotti. Il D’Ancona prepara, e sarà lavoro da par suo, la storia del teatro a Mantova nel secolo decimo-sesto; il Dovari trae dai documenti dell’Archivio Gonzaga, ad esso affidato, le Notizie biografiche dei Maestri di musica, canloti e suonatori presso la Corte Mantovana che risalgono al i^94> e il Bertolotti ci presenterà gli Artisti in relazione coi Gonzaga. Io qui mi limito ad una sola artista, una celebrità musicale, che fu l’ultima conquista di quel Duca Vincenzo, il cui regno venne ampollosamente definito il secolo d 010 di Mantova. iNato il 21 Settembre 1562 dal gobbo Duca Guglielmo e da Eleonora d’Austria, il Principe Vincenzo cominciò presto GIORNALE LIGUSTICO 417 a far parlare di sè per il suo matrimonio con Margherita figlia d’ Alessandro Farnese. Questo matrimonio celebrato nel 2 Marzo 1581 fu rotto poco tempo dopo; appena ventenne, Vincenzo Gonzaga se la spassava allegramente nella più precoce vedovanza, mentre il Duca padre cercavagli una seconda moglie. La scelta cadde sopra Eleonora figlia di Francesco I de Medici Granduca di Toscana e marito di Bianca Cappello ; ma i Farnesi cogliendo il destro per vendicarsi dell’offesa sofferta col ripudio della loro Margherita, tentarono di disturbare il trattato. Vincenzo Gonzaga, un Don Giovanni atletico e di già emerito, fu accusato d’impotenza ! L’ accusa era ridicola ; pure, incredibile ma vero , bisognò che il Principe consentisse a dare con vie di fatto innanzi a testimoni, le prove della sua forza virile, per le quali si prestò gentilmente una puella, scrive il Possevino , honesto laco nota haud dubiae virginitatis (1). Il racconto di tutto l’apparato e di tutta la scena, si legge per filo e per segno nelle cronache contemporanee e anche nelle storie; lo cerchi chi si vuol divertire. Sono pagine che non hanno eguali, se non nelle Memorie del Casanova. Con la principessa medicea, il Principe Vincenzo, divevenuto Duca di Mantova nel 22 Settembre 1587, si portò da buon marito e ne ebbe non scarsa prole, quantunque non smettesse mai i suoi trascorsi amorosi extra moenia, dei quali quando cominciò la tarda età, gli si fecero sentire le conseguenze con gravi dolori alla testa ed ai ginocchi, onde nel 1603 fu consigliato di recarsi a Napoli, per tentare una cura radicale. Non so qual’ effetto producessero le acque napoletane sul travagliato Gonzaga, ma il resultato storico del viaggio a Napoli fu la relazione di lui con Andreana Basile. Nel 1603 (1) Gonzaga, Mantuae, Osannas 1628, 782. Giorn. Ligustico, Anno Xi. ?7 GIORNALE LIGUSTICO la futura bell’Adriana doveva essere giovanissima e nel suo primo splendore. Ricordando quel tempo Pietro Della Valle scriveva : « Chi ha sentito e veduto, com’ io, la signora Adriana negli anni più giovanili di quella bellezza che il mondo sa, a Posilipo in mare dentro una filuga con la sua arpa dorata in mano , bisogna ben che confessi che a tempi nostri ancora si sono trovate in quei lidi le Sirene , ma Sirene benefiche e adorne quanto di bellezza altrettanto di virtù , non come quelle antiche malifiche e micidiali » (i). Niuno vorrà negare, che queste parole del celebre viaggiatore romano, abbiano un valore storico molto superiore a quello di tutte le poesie buone e cattive del Cav. Marino, e degli altri troppo numerosi Anfioni che fabbricarono il Teatro delle Glorie della Signora Adriana Basile (2). II. Dove e quando venissero al mondo Γ Andreana (3)5 Margherita Basile ed il loro fratello Gio. Battista, che sono le tre celebrità della famiglia, non si sa con precisione. Chi dice Gugliano, che dice Napoli. Il Sig. Molinaro Del Chiaro ha recentemente scoperto nel libro dei morti della Parrocchia di Sant’Anna di Gugliano in Campania, l’annotazione del seppellimento in quella Chiesa di Gio. Battista Basile nel 23 (1) Lettera a Lelio Guidiccioni del 16 Gennaio 1640 nel Voi. 2. dei Trattati di musica di Gio. Battista Doni raccolti e pubblicati per cura d’ Anton Francesco Gori. Firenze 1763. (2) Sono 183 componimenti poetici in diverse lingue e non senza orribili favelle. Il Teatro ecc. alle virtù di lei dalle cetre degli Anfioni di questo secolo fabbricato, pare venisse in luce a Venezia e quindi a Napoli nel 1628. Io non ho visto che l’edizione di Napoli e dubito cha quella precedente di Venezia realmente esista. Il Marino, oltre i sei sonetti e due madrigali inseriti nel Teatro delle glorie, celebrò 1’ Adriana con la ben nota ottava del Canto VII deU’Adone. (3} Tale era veramente il suo nome. GIORNALE LIGUSTICO 419 Febbraio 1632 (1). È qualcosa, ma non molto; io per la storia generale dei Basile posso soltanto aggiungere che i loro genitori si chiamavano Daniele e Cornelia, che nel Maggio 1615 erano sempre vivi, e che per giunta agli altri due figlioli Giuseppe e Lelio, forse ebbero un’altra figlia di nome Vittoria (2). Quant’ all’ Andreana, è lecito anche congetturare la data della sua nascita non molto prima del 1580, e quella della sua morte verso il 1640 (3). Ma vediamola in vita. Il Duca Vincenzio tornato da Napoli a Mantova, dopo essersi fermato a Roma per firmare la causa di santificazione di Luigi Gonzaga, quale avvocato per il santo della castità, voleva ad ogni costo la Basile alla sua corte. Ma ΓAndreana, volpe vecchia quantunque donna giovane, prima di andarvi, aspettò di essere chiamata dalla Duchessa, la quale in data 30 Maggio 1610 le scrisse: IH. Signora, con molto desiderio di vedere, e conoscere V. S. altre tanto di persona quanto ci è nota per fama, ci siamo mossi io, e Ί Duca mio Signore a scrivere caldamente al Signor Viceré, e Vicereina di Napoli, che le concedessero licenza di venir a consolarci ; non voglia adunque che questo ufficio con nostra mortificatione sia passato senz’ alcun frutto, et si compiaccia di darne con la sua presta venuta buona corrispondenza della volontà che le portiamo, assicurandola , che troverà in questa casa quella pienezza d’ affetto , che si richiede alla molta virtù di V. S. alla quale mi raccomando di cuore. Di Mantova, 30 Maggio 1610. Al piacer di V. S. Leonora Duchessa di Mantova (4). (1) Giambattista Basile, Archivio di Letteratura popolare. Anno III. N. 3. (2) Vittorio Giuliano nel suo bellissimo Saggio su Giambattista Basile dice, che da alcuni luoghi dei suoi scritti rilevasi che avesse almeno sette fratelli. (3) Vedasi il mio articolo La bell’ Adriana nel FanfulL· della Domenica, N. 32 del 1S81. Certo è che nel 1615 P Adriana aveva un figliuolo in età da prender moglie. (4) Le lettere dirette all’Adriana dai Principi di Mantova che recherò, 420 GIORNALE LIGUSTICO Passando da Roma per andare a Mantova, la Basile fece la conoscenza di un altro principe Gonzaga , vero e degno figliuolo del Duca Vincenzo suo padre, cardinale di Santa Romana Chiesa a ventun’ anno (1606), il principe Ferdinando Gonzaga nato nel 26 aprile 1587; era giovanissimo e baldo , diacono e filarmonico, ed anche compositore di musica, quando s’incontrò la prima volta con la virtuosa Andreina, che forse a Roma alloggiò nel palazzo cardinalizio e senza forse ivi die’ saggio della sua virtuosità. Difatti Ottavio Gentili ambasciatore ducale a Napoli, delegato ad accompagnarla nel suo viaggio , scrive al Duca da Roma , che essa ., · * 1> 4* « per la soavità del suo canto ammagliò (sic) quanti 1 udirono », e afferma che fra gli ammagliati vi fu il Cardinale per il primo. La diva, sempre scortata dal marito e dall’ Ambasciatore ducale , giunse a Firenze il 13 Giugno, ed ebbe alloggio in casa di Giulio Caccini. Cosimo II, granduca, la volle a Corte; cantò e fece furore conquistando, oltre le lodi, una collana di quattro file di perle con annesso gioiello, del valore fra Γ una e l’altro di trecento scudi d’oro, regalo granducale. Di tutto ciò Ottavio Gentile ragguagliava il Duca di Mantova con sue lettere del 14 e 16 Giugno, aggiungendo anche che andarono a visitare l’Adriana in casa del Caccini, Paolo Giordano Orsini, il Nunzio Pontificio , l’Abate Giordano, il Conte Fontanella, Giovanni de’ Bardi con tutti i virinosi t molli altri gentilhuomini. E prosegue : « Li cantori sono stati la signora Adriana, sig. Lelio Grilenzom , furono da lei stessa pubblicate in appendice al Teatro delle Glorie, libretto che è rarissimo, onde le lettere possono dirsi quasi sconosciute. Circa l’autenticità niun dubbio, poiché per alcune si sono riscontrate le minute. Le lettere dell’Adriana, ed altre inedite appartengono all Archivio Gonzaga, e mi furono gentilmente comunicate dall’egregio signor Stefano Dovari, al quale rinnovo qui i miei ringraziamenti. GIORNALE LIGUSTICO 421 sig. Zazzerino, il Bandino e Gio Gualberto. E dopo, tutti ad una voce hanno concluso che lei non habbia pari. La Vittoria (1), non s’ è voluta far sentire , sentito che ebbe la signora Adriana in palazzo. Il sig. Paolo Giordano Γ ha regalata di 4 sottocoppe d’argento cariche di confetture del valore di 30 scudi in circa ». Finito questo viaggio trionfale, la Basile arrivata a Mantova nel 23 Giugno , si produsse il giorno dopo subito alla presenza di tutta la corte, e cantò tanto mirabilmente, che lo stesso Monteverde ne restò maravigliato (2). All’ annunzio che l’Adriana gli diede del suo arrivo a Mantova, e delle liete accoglienze e del bell’ incontro, il cardinal Gonzaga rispose da Roma e di proprio pugno : Ringratio V. S. della parte che s’ è compiaciuta di darmi del suo arrivo in Mantova, conforme a quello eh’ io speraua, et le pregaua dal Cielo. Non mi marauiglio punto, che Madama mia Madre l’habbia sentita con gusto particolare, poi che bastaua a me sapere che S. A. ha buon gusto, ma chi non l’haurebbe tale in simil occasione ? mi rincresce non la poter seruire nell’ arie che dimanda ; per ora le mando Vita della mia Vita, et una nuova mia, che forse non le spiacerà, et quando vedrò che le cose mie le sodisfacciano, inciterò la Vena e la Musa per servirla come deuo; stò aspettando di sentire come Mantoua le sia piaciuta, et come il paese le gusti, se ben Napoli è ’l più delizioso luogo del Mondo, e V. S. non (1) Di questa Vittoria parla anche il Della Valle nella lettera citata: Genova, Sordo-muti, 1881, 6 e segg. (2) Poesie cit., II, 186, 187. 444 GIORNALE LIGUSTICO Afflitta, e serva: e del tuo sangue immonda Dopo guerra crudel, dopo si amare Vicende, per mercede al fin riporti Un straniero Signor da tante morti. Poi scendendo più specialmente a Genova : Quando di Marte al primo suon guerriero S’ udirò risonar Calpe e Pirene, Lieta Liguria dell’ antico impero Su le belle sedea rive Tirrene : Ma vólto il nembo minaccioso, e nero, Turbò la pace alle tranquille arene; E il Danubio, e il Tamigi, e la vicina Dora fer prezzo della sua rovina. Ma invan, che pronti a sostenere il dritto Con lei si collegaro Iberi e Galli, E già il nemico in mille parti afflitto Fuggendo ristringea fanti, e cavalli ; Felice appieno, se un fr.tal conflitto Non fea chiare di Trebbia ancor le valli, Onde vide appressarsi alle sue porte In tetro aspetto e Servitude, e Morte I Cesse al destino, è vero, aperse il seno A gente ingorda e ne sostenne i danni : Ma al vincitor di tanta gloria pieno Costò un giorno di fasto estremi affanni : Famoso esempio a chi vuol porre il freno A prode libertà, quanto s’inganni; Che per un’alma, che virtude onori, Vi son mali di morte ancor peggiori. Alza, o Donna di Giano, alza la fronte, E gira lieta il guardo alle tue mura, Vedrai, scorrendo il vicin piano, e il monte, La patria libertà regnar sicura. Più non rammenti il memorabil ponte La greca istoria, ogni suo pregio oscura, E Salamina, e le famose strette, L’ alta memoria delle tue vendette. GIORNALE LIGUSTICO 445 Ottave che non mancano di possente inspirazione , derivata dalla vicinanza del fatto glorioso, poiché appariscono scritte nell’ anno in cui venne conchiusa la pace d’ Aquisgrana. E debbono ugualmente riferirsi a questi anni le traduzioni delle due tragedie di Voltaire 1 ’ Alçira, e La morte di Cesare, siccome della commedia di Marivaux La madre confidente, poiché furono fatte per avventura in servigio di casa Durazzo, dove , come è noto , si dava opera alla recitazione per utile passatempo (i). Di che ci porge buon argomento il sapere che , fra gli altri lavori manoscritti, il Durazzo conservava l’originale della versione dell’ Al^ira, da lui liberalmente concesso ai raccoglitori delle opere del Gastaldi, uscite a stampa alcuni anni dopo la sua morte (2). Nè devesi credere che la fama del suo valore poetico fosse ristretta per entro alle mura della sua patria; poiché i suoi componimenti se ne andavano qua e colà manoscritti, e non al tutto corretti (3), avendo sempre mostrato a quanto pare, una grande ritenutezza d’u-scire in pubblico; onde lui vivo, per quel che mi è noto, una sola anacreontica, e delle più graziose, vide la luce a Livorno; mentre alcuni altri pochi componimenti d’ occasione debbono essere venuti fuori in patria (4). Ma questi studi non lo distraevano dai più gravi della giurisprudenza, eh’ ei professava con onore , facendo conoscere in un tempo la rettitudine della mente e dell’animo; il che gli apri la via ai pubblici uffici. (1) Avvertenza all’ Oderico cit., 7, 8. — Neri Costumatile e soliari, Genova, Sordo-muti, 1883, 79 e segg. (2) Poesie cit., I, vii. (3) Poesie cit., I, vi. (4) Magazzino Italiano, Livorno, 1752, I, 116.— Alcune poesie dettate per Dogi, forse furono edite in raccolte, che io non ho potuto trovare; un sonetto in lode di G. B. Ricchieri, sta innanzi alle sue Rime, Genova, Tarigo, 1753. 44 6 GIORNALE LIGUSTICO Fino dal principio dell’anno 1753 incominciò a manifestarsi la necessità di richiamare da Torino il ministro residente della Repubblica Felice Vincenzo Villavecchia, il quale da parecchi anni esercitava quell’ufficio; poiché palesatosi essai debole, erasi lasciato sopraffare del ministro regio, e non sosteneva ormai più con avvedutezza e dignità la rappresentanza del governo genovese. La Giunta dei Confini, una specie di Consulta per le relazioni esteriori, alla quale era stato commesso di proporre soggetto atto a sostituirlo, dopo parecchi mesi d’indugio, presentò la sua relazione ai Collegi, indicando specialmente tre nomi, e cioè l’Abate Del Vecchio, Eugenio Nervi, e il nostro Gastaldi. Se non che mentre escludeva i due primi per diverse ragioni , restringendo il suo « esame alle qualità » dell’ ultimo, che già aveva servito la Repubblica in negozi speciali a Parma e a Parigi (1), osservava « che l’unica eccezione, che fosse rilevata contro di questo soggetto restringevasi a che, quantunque fosse agli fornito di sufficiente talento per la carica cui doveva destinarsi, pure era molto distratto da altri studi poco profittevoli, e molto alieni dal Ministero » ; tuttavia poneva in considerazione a’ governanti « che la più avanzata età in cui ritrovavasi » allora, « e qualche maggiore applicazione » alla quale egli aveva « cominciato a sottomettersi nella professione legale », potevano farlo reputare adatto al difficile incarico (2). La proposta non ebbe seguito d’alcuna deliberazione; ma un anno più tardi stabilito e mandato ad effetto il richiamo del Villavecchia, al Gastaldi toccò l’onore d’essere eletto a succedergli; e il 18 decembre assumeva 1’ ufficio, presentando al re le sue lettere credenziali (3). (1) Sebbene ciò sia asserito nella relazione della Giunta, io non ne ho trovato documento veruno. (2) R. Arch. di Stato, Confinium, Fil. 132. (3) R. Arch.. Leti. Ministri, Torino, Mazzo 14. GIORNALE LIGUSTICO 447 Nel tempo in cui egli stette a Torino rappresentante della Repubblica, e fu di quasi dodici anni, le relazioni fra i due stati limitrofi, e sempre sospettosi, si conservarono cordialissime, ed a mantenerle tali molto contribuì il Gastaldi. Ben s’accorse il governo Piemontese come avesse a fare con uomo ben diverso dal Villavecchia, e se ebbe per un momento in animo di governarsi verso di lui con modi altezzosi e prepotenti, dovette ben presto smetterne il pensiero, vinto dalla dignitosa fermezza, e dall’acuto discernimento mostrato dal Gastaldi, senza venir meno a quelle convenienze che gli erano imposte dall’ ufficio. Fatti di gran momento in questo mezzo non avvennero; ma in tutti quei piccoli incidenti di controversie intorno a’ confini, o riguardanti la tutela dei rispettivi sudditi, oppure ragioni di navigazioni e di commerci, seppe felicemente destreggiarsi, tanto da riuscire quasi sempre ne’ suoi intenti con utilità grandissima della Repubblica. Così stette vigilante scrutando gli intendimenti politici della Corte di Torino, vuoi riguardo alla diuturna ribellione di Corsica, inacerbita dalle esorbitanze della Curia Romana e dai coperti maneggi della Francia, vuoi intorno alle pretese di S. Remo, per entro alle quali soffiavano gli imperiali. A Torino aveva trovato degli amici; il marchese Caracciolo ministro del re di Napoli, e l’ambasciatore di Francia, marchese dì Chauvelin, col quale era entrato in dimestichezza a Genova, quando venutovi col duca di Boufflers a difendere la città dagli austro-sardi, v’era poi rimasto rappresentante del suo Re. Ed ebbe liete accoglienze altresì da tutti i diplomatici colà residenti, i quali ben presto conobbero di quale ingegno ei fosse dotato, e perciò di quanta stima meritevole. Di che gli fu data prova luminosa in uno spiacevole incidente accadutogli con il nuovo residente veneto nel 1756; poiché l’intero corpo diplomatico si schierò dalla sua parte, e costrinse l’offensore ad umiliarsi innanzi al genovese con tutte 448 GIORNALE LIGUSTICO le soddisfazioni richieste dalla sua fermezza, dal suo grado e dalla sua dignità (i). Ma la casa che più specialmente frequentava e con maggior famigliarità, era quella del Chauvelin, dove poteva aver pascolo il suo spirito, e meglio essere apprezzata la sua cultura. Chi conosce la corrispondenza del Voltaire , ben sa m quanta stima ei tenesse il marchese e sua moglie, e può ancora rilevare qualche accenno ai letterari passatempi di quelle conversazioni. Per mezzo adunque di questo suo amico, e forse indottovi da lui stesso, mandò al Voltaire la sua traduzione del Y Attira manoscritta, e volle accompagnarla con questa lettera (2): Turin le 10 Octoare ιηβι. Je n’oserois vous offrir, Monsieur, la foible traduction, que j ai fait, il à quelques années, de votre divine Alzjre, si des Amis respectables qui nous sont communs, ne m’eussent encouragé à vaincre la dessus ma juste defiance. Le mérite attaché à une traduction passe pour etre d un genre si subalterne, que je me serois fait un scrupule de me présenter avec ce seul tritre devant l’illustre Voltaire , le Sophocle, et l’Homere de la France, l’Ecrivain de notre Siecle, qui a reuni le plus de vrai goût aux plus grands talents, et aux plus vastes connoissances. On a beau dire que les Traducteurs sont très recommandables, puis qu’ils transplantent les productions du genie d’un pais à l’autre, et les naturalizent par tout comme on fait des Ananas, et que sans leur travail les meilleurs ouvrages des Grecs et des Romains seroient beaucoup moins connus. Il n’est pas moins vrai qu’un Traducteur pense avec la tête d’autrui, et qu’il n’a d’autre mérite que celui de fournir un habit de sa Nation à une belle Etrangère, qui trop souvent se trouve gênée dans cette nouvelle parure. Les recherches penibles, et les travaux utiles sont pour 1 ordinaire condamnées à l’obscurité, et il n’apartient qu’aux Auteurs, qui sca-vent remuer vivement les passions, ou frapper fortement les esprits, de pretendre aux premiers rangs dans le temple de memoire. Aussi nous voyons que les noms des Inventeurs de la boussole, des lunettes, et de (1) R. Arch., Leti. Min. cit. (2) Poesie cit., I, xm. GIORNALE LIGUSTICO 449 1 Imprimerie sont à peine connus, pendant que les brillantes Absurdités es systèmes, ont franchi avec leurs Auteurs l'espace de tant de siècles pour jouir de l’immortalité. Quand la vérité, et la bienfaisance sont le ut de ces efforts de l’esprit humain, la justice avoue le tribut de gloire, et de rei.onnoissance, que tous les âges s’empressent à leur rendre. Que de Commentaires on pourroit faire la dessus , qui seroient ici hors de leur place! Malgré tout ce, que je viens de dire touchant le peu d’importance de ma production , je vous l’offre, Monsieur, pour céder aux instances de nos Amis, ou plustôt pour avoir une occasion de vous temoigner l’estime et 1 admiration que plusieurs de vos ouvrages m’ont inspiré. Vous avez porté la Poesie Françoise d un degré d’elevation , qu’elle n avoit point avant vous. Une imagination vive, et feconde, qui enrichit tous les sujets, une force dans la pensée toujours soutenue par l’expression noble, et magnifique , cette simplicité , et ce vrai lumineux, que vous placez par tout, font les caractéristiques de votre Poesie , et de votre Prose. Sur le Theatre vous vous etes frayé un chemin nouveau ignoré des anciens , et de la plus part de vos illustres modernes. Vous avez fait disparoitre ces traînantes elegies , et ces longues phrases alambiquées par la Rhetorique , qui ont plus souvent reveillé les vapeur, qu’attaché l’attention , ou fait verser des larmes. On diroit que c’est la raison elle meme, qui chez vous a pris le Cothurne. Vous l’avez rendue interessante sans la charger de fard, et sans 1 hérisser d'arguments ; vous avez eu le courage de la mettre sur la Scene dans toute sa noble simplicité, et le rare talent de l’y soutenir. Pour ce qui regarde particulièrement la Piece, que j’ai eu l’ambition de traduire, ce sont les tableaux vraiment touchants, qui naissent du contraste de l’amour, et de la vertu sauvage d’un coté , et des principes sublimes de la Religion de l’autre, qui m’ont frappé au de là de toute expression. Je n’ose parler devant un tel Maître des beautés sans nombre que j’ai admiré dans cette Tragédis, mais il me sera permis de dire qu’elle m’a paru un chef d’oeuvre unique dans son genre. Malgré P attachement sincère que j’ai pour mon Pays, j’avoue inge-nuement que Corneille, et Racine avoient déjà fait pencher la balance en faveur du Theatre François, et que par vos ouvrages vous avez décidé sans répliqué cette joute littéraire de nos deux nations. Vous scavez cependant, Monsieur, que le Theatre François n’étoit pas même encore parvenu aux pièces de Jodclet, quand Rome voyoit représenter la So- Giorn. Ligustico, %Anno XI. 29 450 GIORNALE LIGUSTICO phonisbe de Trissino sous les auspice de Leon X. Cette Tragédie fort régulière est tout à fait dans le goût de la bonne antiquité. L Oreste de Ruccellai, la Merope de Torelli , et 1 ’Edipe de Giustiniani suivirent de près la Sophonisbe. Ces Tragédies sont remplies de grandes beautés, mais leurs Auteurs s’étant trop servilement attachés aux originaux Grecs, qui taisoient 1’ admiration des scavans à l’époque de la renaissance des lettres , n’ont osé pour ainsi dire rien imaginer d’eux mêmes , ou produire de nouveau. Gravina , cet homme si savant, et si connu par son livre De origine Juris, rompit au même eceuil. Enfin après le seizième siècle le cothurne baissa en Italie, et il a été réservé à la Merope du Marquis Maffei de prouver que le bon goût, et les vrais talents n’y étoient point généralement eteints. Les Rapsoidies, et les impromptus souvent naifs, et qualques fois ingenieux des Histrions gagnèrent les suffrages du public sur le Theatre Italien. L’Opera, ce beau monstre, ou l’action tragique est soumise aux loix d’un chant très-artificieux, a porté un coup plus fatal encore à l’art des Sophocles , et des Euripides. Les décorations, et la musique ont séduit nos sens , et cette brillante enveloppe nous a familiarisés avec l’absurdité, qu’elle couvre. C’est un barbarisme si vous voulez, mais les partisans de ce spectacle se tirent d’em-baras en vous demandant: Illiterati num minus nervi rigent? Cepedant beaucoup d’Italiens assistent avec un plaisir infini aux représentations des Pièces du Theatre François, quoiqu’elles nous soient données par des trouppes errantes qui sortent de vos Provinces. Madame de Chauvelin a bien voulu nous faire sentir ici les véritables charmes de la déclamation françoise. Nous avons versé des larmes delicieuses sur les malheurs d’Hypermestre, et nous avons senti ce charme vainqueur , au quel il n’y a des coeurs malheureux , qui puissent resister. Mais vous la connoissez, Monsieur, et vous seul etes digne de faire son eloge. Je vous dirai encore un mot au sujet de ma traduction. Malgré les efforts que j’ai fait pour la rendre fidele au possible , le genie de ma langue m’a forcé de prendre dans quelques endroits des petites libertés. Mes veux seront remplis si vous daignez encore reconnoitre votre Enfant, malgré les défauts, qu’il peut avoir contractes dans un pension étrangère. Ma lettre n’est déjà que trop longue? Cepedant avant que de la finir, permettez moi, Monsieur, de vous porter une plainte au nom de mon Pays. Vous etes aux portes de l’Italie, cette Nourrice autres fois des ans, et des sciences. Votre nom, et votre genie y sont célébrés par tous le Connoisseurs, et Amateurs des belles lettres. Comment pouvez vous GIORNALE LIGUSTICO 45 1 vous refuser à l’invitation , qu’ils vous font de venir voir la Patrie de Virgile, de Dante, d’Arioste , et de Galilée? Ce pelerinage dovroit bien tenter une arae sensible, et devote de la belle antiquité. Les admirateurs se teroient un plaisir de graver votre nom sur le tombeau de Virgile, et sur celui de lacite, si ont parvient à le trouver. Quant à moi j’ai été mille fois tenté de courir au lac Lemen , quand ce n’auroit été que pour passer vingt-quatre heures avec vous; mai des devoirs indispensables me retiennent ici. Daignez recevoir d’ici l’homage de mon estime : m’accorder 1 honneur de votre amitié, et celui d’être très parfaitement etc. Non è necessario invero richiamare Γ attenzione sopra questa lettera ; poiché mi sembra tanto notevole da non poter passare inosservata. L’ ornammo che e°;li rende allo scrittore Du O francese, se per avventura apparisse eccessivo, conviene tornare con la mente alla metà del secolo passato, e giudicarlo alla stregua della fama grandissima acquistata da quel gran-d’ uomo , e delle unanime lodi onde veniva universalmente esaltato. Ma lasciando stare questa parte , che potrebbe anche dirsi doverosa, merita considerazione tutto quanto egli tocca intorno al teatro tragico, poiché ci manifesta una conoscenza non comune dell’argomento, e delle due letterature, mente acuta e - rettitudine di giudizio. Così sono espresse saggiamente e con garbo le osservazioni intorno al tradurre; nè il concetto della fedeltà è in lui tanto esclusivo o malinteso , da fargli dimenticare che l’indole della lingua italiana richiede certi liberi atteggiamenti, e certe oneste larghezze atte a dar propria e nuova veste all’ opera straniera. Con la grazia e lo spirito consueto gli rispondeva poco dopo il Voltaire; e duole davvero che la sua lettera, mancante nell’ epistolario, ci sia pervenuta mutila in due luoghi, resecati forse dalla scrupolosa prudenza dell’ editore , oppure dalla meticulosità della censura. È la seguente (i): (i) Poesie cit., I, xvin. 452 GIORNALE LIGUSTICO Au Chateau de Ferney ce 26 Octobre /761. Si vous vous amusez à faire des Tragedies, je vous demande la pre ference pour en entre le Traducteur. Votre stile est si naturel , et si la cile, qu’on croira qualque jour que c’est vous qui avez inventé Al\ire, et que c’est moi qui ai eu l’honneur de vous tiaduire. λ ous parlez du Theatre en maître, et vous pensez comme vous écrivez. Si j’ai été charmé par votre traduction, Monsieur, j’ai été instruit par votre letti e. Il y a bien peu de bonnes Tragédies dans le Monde, à commencer par les Grecs. Nous en avons nous autres François environs quattre mille, parmi les quelles on n'en trouvera pas douze dignes de passer à la dernière postérité. C’est peut être de tous les beaux arts le plus difficile. Je vois très clairement mes defautes. Mais il y a l’infini entre juger, et faire. La nature a donné à notre espèce une sagacité prodigieuse pour discerner le mauvais, et une malheureuse impuissance de faire le bien..... Je concois que les Soprani, et les Maestri de Cappella, ont fait en Italie un peu de tort à l’Art des Sophocles; mais je suis persuadé qu à la fin, les Italiens nos Maîtres, reviendront au bon goût, dont il nous ont donné les premières leçons. Il y a quelques jeunes gens, qui s’elevent, et tout n est pas livré al-1’Opera alla Moda.................... Je me suis fait une petite destinée assez agréable dans une Terre libre que je possède. J’y bâtis une Eglise, et un Theatre; j’y achève en paix ma vie loin des orages de ce monde ; et une de mes plus grandes satisfactions, Monsieur, est d’y recévoir des lettres telles que les vôtre. Il est triste d’être borné à n’avoir 1’ honneur de vous connoitre que par lettres. C’est dommage que les gens qui pensent soient disperses, tandis que les Sots sont rassemblés en foule. Un grand préservatif contre les Sots, dont la terre abonde, c’est votre société; c’cst celle, que vous trouvez à Turin; et sur tout celle de Monsieur le Marquis, et de Madame de Chauvelin. Vous trouvez en eux non seulement l’esprit, mais encore des grands talents. Je vous porte envie, et j’ai l’honneur d’être avec tous les sentiments que vous m’inspirez. Sebbene questa lettera porti la data del 26 ottobre, pur nonostante fu scritta contemporaneamente a quella diretta il GIORNALE LIGUSTICO 453 giorno innanzi al Chauvelin; poiché ringraziandolo d’avergli mandato la tragedia del Gastaldi soggiunge, quasi con le stesse parole dell’ altra : « il me traduit d’un style si facile, si naturel, si élégant, qu’on croira quelque jour que c’est lui qui a fait Al^ire, et que c’est moi qui suis son traducteur. Je le remercie tan que je peux. Je ne prend pas la liberté d’envoyer la lettre a Votre Excellence, parce que j’y prend celle de parler de vous, et qu’après tout, il n’est pas honête, de dire des vérités en face » (i). Io non credo che qui si chiudesse la corrispondenza del Gastaldi col Voltaire; ma non vi sono prove che ce ne affermino la continuazione. Un’ altra volta soltanto ho trovato ricordo di lui nell’epistolario, e cioè nel dicembre dell’anno stesso, là dove scrive al Chauvelin: « Je supplie Votre Excellence de vouloir bien dire a M. Gastaldi combien je l’estime, j’ose même dire combien je l’aime » (2). Mancato nel 1766 uno dei segretari della Repubblica , il desiderio di tornare in patria e di poter ottenere quell’ ufficio stabile, siccome premio dei lunghi ed onorati servigi, indusse il Gastaldi a domandare un congedo, e a recarsi in Genova per riuscire nel suo intento. Egli credeva la via facile, facendo assegnamento, e ciò senza venir meno alla sua modestia, sulla fama acquistatasi e sulla benevolenza dimostratagli costantemente dai migliori patrizi; ma ben presto s’ avvide quanto s’ingannasse. Gli si attraversò un competitore; uomo oscuro e senza alcuna delle qualità che lo facessero atto a quell’ufficio, nè meritevole di stargli a fronte; eppure aveva protettori potenti : vilmente venale, ben presto chiari da quali ragioni d’interesse fosse stato spinto a levarglisi contro; chè fece intendere si sarebbe acconciato a ritirarsi, mediante (1) Voltaire, Oeuvres, Paris, Hachette, XXXVIII, 365. (2) Ivi, 396. 454 GIORNALE LIGUSTICO una buona somma di denaro. Il carattere del Gastaldi, e la ristrettezza delle sue fortune fecero si che resistesse per alcun tempo a piegare dinnanzi a siffatto turpe mercato ; ma vinto dalle insistenze degli amici, i quali si proferirono pronti a prestargli il danaro, si tolse, mercè ottomila lire, di fra’ piedi quell’ostacolo, e fu eletto Segretario di Stato. Se ne rallegrarono i buoni, lamentando solamente, che la sua « promozione, dando alla patria un eccellente segretario », avesse « tolto alla medesima un saggio e vigilante ministro » (i). Tornato egli per pochi giorni a Torino sulla metà di luglio per congedarsi dalla Corte, il 6 d’ Agosto annunziava essere imminente a mettersi in viaggio, « per dimostrare », aggiungeva, « la mia somma premura di rendermi ai doveri della mia carica, della quale senza veruno mio merito , e per mera clementissima munificenza , si sono degnati di rivestirmi, ben fortunato se potrò nell’ esercizio di essa meritare la continuazione del sovrano compatimento » (2). Le quali parole mentre rivelano da un lato quanto rimessamente sentisse di sè, dall’altro manifestano Γ alto rispetto eh’ ei, pubblico ufficiale, professava per il suo governo, pur non approvando per avventura la condotta d’ alcuni de’ suoi componenti. Nei sei anni che egli visse sostenendo questo carico, non ismentì mai nè il suo carattere, nè la sua onestà, nè lo zelo e la sollecitudine in servigio della patria ; e gli fa invero molto onore il confessare in un atto supremo, che « lo scarso emolumento del secretariato », era riuscito « forse minore a mani sue, senza sua colpa ». Ciò vuol dire che la sete del guadagno faceva qualche volta dimenticare 1’ onestà in quegli uffici, de’ quali sarebbe pur stato duopo fossero rivestiti uomini incorrotti; ed egli fu uno di questi pochi. (1) R. Arch. Lett. Ministri cit. , M. 19. (2) Ivi. GIORNALE LIGUSTICO 455 Non gli furono però risparmiate amarezze; e dovette persino sopportare gli insulti villani d’ un Senatore , essendogli tolto ogni modo di richiamarsene , e di ottenere adeguata soddisfazione. Lo stato dell’ animo suo profondamente ferito e pieno di sconforto, parmi si rispecchi nelle sestine in lode delle pace campestre ; di quella pace che egli invano è andato cercando altrove, ed ora che ha « cangiata natura e pelo » più vivamente desidera (i). Ti cercai ne’ palagi all’ombra altera D’ architravi dorati, e là non eri ; Ma su la soglia lor stava la fiera Torbid’Ambizion madre d’imperi. Forse, io dicea, de’ Regnatori a canto Qual donzella reai starassi in soglio ; Ma ohimè, che invece vi trovai l’Orgoglio Cinto di bruno maestoso ammanto ; Che a meste cifre di pallore, inciso Il tormento del cor portava in viso. Empie Corti vid’ io, Città superbe , Stanze di maestà , covil d’inganni ; Ma seminai speranze, e colsi affanni, Perdendo il fior dell’ età mia più verde ; Mentre da duol, da pentimento oppresso, In servizio d’altrui perdei me stesso. Simulata pietà , mentita lede , Soito veste d’ onor lordo desio , Mente perversa in viso onesto e pio, Generose promesse , empia mercede ; Questo è^il crudo piacer, che a’ suoi seguaci Dan 1’ empie Corti, e le città mendaci. (i) Poesie cit., II, 176, 177. < GIORNALE LIGUSTICO Le cure di stato e Γ età non lo distrassero interamente dagli studi prediletti, infatti, passandomi di alcune poesie composte di certo negli ultimi suoi anni, ricorderò che uscita nel 1770 la Melania, tragedia di La Harpe, egli tanto se ne ininvaghì che la tradusse ; ma per mala ventura il suo manoscritto, passando forse di mano in mano, andò smarrito, nè per quante diligenze vi adoperassero i raccoglitori delle sue poesie, venne lor fatto di poterlo trovare (1). Mancò ai vivi il nostro Gastaldi nel giorno 16 marzo x772 (2); ed è a credere fosse breve la sua malattia, perchè il 9 comparisce ancora, ma per l’ultima volta, la sua firma ne’ pubblici decreti (3). Fino da quando trovavasi a Torino in qualità di ministro, aveva creduto opportuno dettare il suo testamento ; ma tornato a Genova, e cambiate forse le condizioni sue e della famiglia, stimò annullare il primo con quello scritto da lui stesso nel febbraio del 1771 , un anno circa innanzi la sua morte, e che reputo utile riprodurre qui per intero, così per la sua singolarità, come per i provvedimenti governativi a cui dette luogo, e per l’uso che se ne fece dai novatori in tempo della rivoluzione. Eccolo (4) : J771, 26 di Febbraio. Ricordevol io Girolamo Gastaldo, di aver fatto un testamento in Torino, mentre ero Ministro della Repubblica a quella Corte, e lo stosso presentato al Causidico e Regio Notaro Colleg.'0 Placido Cesare Ravalij come suol dirsi per schedulam, e sigillato, intendo ora quello annullare, e rivocare, siccome lo annullo e revoco con questa mia nuova disposizione, la quale voglio che abbia forza e valore di testamento o di codicillo, e vaglia in qualunque altra maniera possa valere. (1) Avvisi, a. 1779, 714. (2) R. Arch. Famiglie genovesi (Race. Lagomarsino) Lett. G. (3) R· Arch. Divers. Collegi, a. 1772, Fil. 1. (4) R· Arch. Famiglie genov. cit. GIORNALE LIGUSTICO 457 Raccomando il rnio spirito al Sommo Essere, e voglio che la mia sepoltura sia fatta senza veruna pompa o apparenza di vanità, onde non si spendano in essa più di lire cinquecento moneta corrente. Lascio al Pad'e Gio. Tommaso Biancardi Domenicano mio Nipote lire seicento per una sola volta della stessa moneta, con Γ obligo di celebrare dodici messe per mio suffragio; siccome altre lire cento al Padre Giuseppe Re-gondi, perchè celebri altre due messe allo stesso fine. A Cesare Decomba mio cameriere lascio lire quattrocento, oltre i sa-larij di cui rimanesse creditore al tempo della mia morte , oltre due vestiti intieri, non però de’ più ricchi, e dodici camicie guarnite, non però delle più fine, con qualche fazoletti, calze, camiciole, e altre bagatelle a suo comodo, e a giudicio degli infrascritti miei esecutori testamentarii. A Maddalena Vigevi mia governante , per il suo lungo ed onorevole servizio , in cui ha spesi gli anni della sua gioventù, lascio lire milledu-gento, e tutte le cose segnate in una nota a parte, che si troverà annessa a questo mio testamento, e che dee essere e voglio che sia riguardata come parte integrale dello stesso, e voglio che sia mantenuta in mia casa per due mesi dopo la mia morte , onde possa aver tempo di provvedersi un alloggio in Genova o altrove. A Domenico Costa mio staffiere lascio per una sola volta lire cento moneta corrente fuori Banco, come intendo che siano tutti i riferiti legati. Nomino miei esecutori testamentarij con amplissima facoltà alle cose infrascritte il M. Pier Paolo Celesia e il M. Pompeo Rocca , e li prego a soffrire questo incomodo per amor mio, e voglio che possano operare anche in solidum senz’ obligo veruno di sigortà, o di render conto a chi si sia, intercedendo io per ogniuno di essi, e assolvendoli da ogni qualunque rendimento di conti. Prego 1’ uno e 1’ altro a scegliere tra’ miei libri, e ricevere in pegno della mia stima, e vera amicizia, tutti quelli, che potessero essere loro grati. Abbrucieranno o lascieranno a miei eredi quelli de’ miei scritti, secondo che credessero meritar questi o 1’ una ο 1’ altra sorte. Faranno vendere tutti i miei mobili, ori, argenti, biancherie e tutte le robe di casa, e terranno una nota di esse semplice, e senza obligo d’Inventario ; e del prezzo loro unito al danaro, che si troverà nel mio scrigno , pagheranno i miei debiti, e sodisferanno i riferiti legati, e il resto passeranno a mano degli infrascritti miei eredi. Intorno ai debiti mi accade di segnar loro qualche cosa, che può renderli minori. Per ottenere il segretariato mi convenne (oh deducus!) comprare con lire ottomila il recesso di quel malonesto e petulante Faraggiana, 45s GIORNALE LIGUSTICO tanto ingiustamente e vergognosamente protetto contro di me. Per così poco vendè Egli se stesso, il suo onore e i suoi amici. I miei degni Padroni, stanchi di un lungo contrasto, mi spinsero al gravoso contratto, e ni’ imprestarono Ira sei la detta somma, che mi obbligai a pagare in sei annate, il che non ho potuto sinora eseguire, per lo scarso emolumento del Secretariato, forse minore a mani mie, senza mia colpa. Essi, che sono ricchi signori, e alcuni di essi che ho servito per molti anni senza la menoma vista d’interesse, possono darmi una nuova cospicua prova della loro bontà ne’ miei eredi, e fare che non mi sia lusingato invano con la speranza della loro generosità. Devo ancora circa lire duemila all’IU.ma Casa di San Giorgio, resto di maggior somma esatta in Torino, di cui ho pagata parte, come da nota del signor Bernardo Carozzo. Mi rimane un ressiduo di debito, per istrumento aperto in tempo di mia gioventù, contratto col vermicellajo Giuseppe Musante , che non ho mai voluto pagare, perchè è un vero latrocinio. Una mia antica donna di casa, mentre mi ritrovavo in qualche critica circostanza, si è valsa di costui per farmi imprestare del suo proprio denaro una somma di mille e più lire , facendolo comparire creditore ancora con istrumento , e passandogli a mano il denaro. Io non essendo al fatto di questa finzione ne ho pagato parte, e poi egli ha negato di aver ricevuta la somma dalla donna, quantunque ne consti da due testimoni che hanno udito dallo stesso esser vero il fatto in un discorso tenuto da solo a sola. Queste deposizioni si troveranno ne’ miei scritti. La donna poi ha continuato a vivere mantenuta da me sino all’ estrema sua decrepitezza, e mi ha chiamato suo erede. In tutti i restanti miei beni, ragioni ed azioni presenti e future insti— tuisco miei eredi universali le mie due amatissime sorelle, la signora Agnese moglie del q. Emanuele Domenico Regondi, e la signora Clelia moglie del q. Filippo Biancardi, cioè ogniuna per metà, e nel caso che premorissero, sostituisco alla prima il signor Giovan Antonio Regondi di lei figlio e mio nipote carissimo, ed all’altra il signor Franco Biancardi di lei figlio e mio carissimo nipote. Gravo però quest’ ultimo di un legato di lire cinquanta annue, alla madre Anna Giuglietta Gastaldo monaca nel monistero di Alassio , in segno dell’ amor mio. I miei eredi troveranno nelle mie scritture armi sufficienti da difendersi , se si mettesse in campo da’ RR. Preti della Massa di Alassio la pretensione di un credito o sia censo mal costituito, di cui hanno avuto pagamento nel londo censito, come dall’acquisto delle loro ragioni fatto GIORNALE LIGUSTICO 459 da mia madre a denaro contante. L’obbligo poi di queste è potentissimo, perchè fatto coi consensi del marito e del cognato, debitori del censo medesimo. /oglio aggiùngere un legato di lire cento a favore di Niccolò Cordone giovine onesto , che mi serve da cuoco dopo pochi mesi con molta attenzione, al quale voglio che sia dato ancora uno de’ miei abiti da state gallonati. Se mi sopravivesse Maria Catterina Boggiano, vecchia donna di casa che orinai deve passare gli anni novanta, la raccomando a’ miei eredi, onde non rimanga abbandonata. Questo è il mio Testamento, piccole sono le idee, perché si tratta di piccole sostanze. Soddisfatti ho cosi i miei doveri verso i miei Parenti, e Domestici ; se fosse piacciuto al Cielo di farmi ricco di beni di fortuna , ne farei ora l’uso più nobile, che possa farsene, colli miei degni, e virtuosi Amici, ma non potendo avere questo piacere, mi contenterò di dar loro 1’ ultima testimonianza del mio sincero, e costante affetto con abbracciarli teneramente per 1’ ultima volta- Prego fra questi il signor Paolo Celesia a scrivere questi miei sentimenti al mio caro Marchese Caraccioli, al Marchese Chauvelin, e al buon Marchese Grizella, che tutti ho amato sempre, e stimato moltissimo : non ardisco contare in questo numero i Cavalieri Genovesi, perchè in questo paese l’amicizia non si estende oltre certi nomi ; e fuori del libro d’oro, natali, probità, talenti nulla giovano, per metter al coperto d’una certa differenza di modi, e vocaboli, che offendono gli animi Jilicati. Il vizio accompagnato colla Nobiltà, e colle ricchezze non è mai posto a conto di demerito, e la violazione delle Leggi, e la oppressione non rende gli uomini odiosi, nè gli allontana dalle dignità Patrie, nè dalle maggiori attenzioni nella Società. Un Senatore prepotente , che sarebbe detestato, e disprezzato in tutti i Paesi del Mondo, ardi un giorno insultarmi con modi villani, e çon parole ingiuriose ; nè la mia età, nè la mia carica di Segretario di Stato, nè la mia civiltà, per lo meno eguale alla sua, nè i miei costumi, e la mia vita onorata mi giovarono punto per ottenere riparo. Privo della protezione delle Leggi, rimasi abbandonato alla difesa della natura, che mi esponeva a mille pericoli. Presi il partito del disprezzo ; fui compatito dai buoni , ma nulla più ; il che ho voluto ricordare per far considerare a chi governa, che se gli stessi Cittadini non sono protetti dalle Leggi in simili casi, i boschi più selvaggi son preferibili alla Società. 460 GIORNALE LIGUSTICO Spero, che da tutti quelli, che conoscono le Leggi della Religione, e dell’ onore , mi saranno perdonati questi liberi sentimenti, nel momento , in cui è permessa la libertà. Se si pon freno alla prepotenza, alla nausea di governare, al sordido desiderio di arricchire , sarà questo un Governo felice; in altro modo, i Genovesi, infelici al di dentro, diverranno l'obbrobrio di tutte le colte Nazioni. Non è#questo un testamento dei soliti; non sciocche paure, non resipiscenze serotine , non mezze confessioni, o ipocrite viltà; qui la calma del puro credente; la rettitudine del-Γ uomo onesto ; il giusto risentimento di un animo nobile : infine la lealtà. Generoso quanto lo comporta il suo stato, non dimentica nessuno di quelli che lo hanno servito ; abbonente da ogni vanitosa apparenza, determina egli stesso il modo e la misura de’ suoi funerali. Agli esecutori testamentari lascia con gentile pensiero, la cosa eli’ei stimava più preziosa, e che certo tenne più cura, i suoi libri migliori, e ad essi più graditi. E di questi suoi amici, nelle cui mani egli affida le sue ultime volontà, va meritamente distinto il Celesia, uomo principalissimo fra i genovesi del secolo scorso; due volte ambasciatore, amato e stimato dal Tanucci, dal Galiani, dal Baretti, dal Caracciolo, dal Bandini, dal Voltaire, da d’Alembert, da Necker, da Marmontel ; ascritto a parecchie accademie d’Europa, decorato da Napoleone della Légion d’onore (1). A lui lascia Γ incarico di ricordare il suo nome (1) Di questo uomo, che ben meriterebbe una speciale biografia, scrisse Agostino Bianchi un Elogio inserito nelle Memorie dell' Accademia di Genova (II, 138) tradotto in francese da M.°’c E. C. G. (forse Madama Elisabetta Celesia Gabriac sua figlia) edito nel 1809 (Gûnes, Giossi) ; ne comparve la necrologia anche nella Gazzetta di Genova (anno 1806, n. 10, 37). Nell’Archivio di Stato esistono le corrispondenze delle sue ambascerie (Lett. Ministri, Inghilterra, M. 16, 17, e Spagna, M. 73-76). La sua corrispondenza con Angelo Maria Bandini è nella Bib. Marucel-liana di Firenze (B. I, IV, IX). È ricordato dal Marmontel nelle Me- GIORNALE LIGUSTICO 461 al Chauvelin, al Caracciolo, al Grizella, in segno della sua stima ed amicizia. Ma in questo documento sono specialmente notabili i tratti che toccano del governo, là dove ben si pare come la mente del Gastaldi, muovendo da fatti individui e soggettivi, assorga ad induzioni ed a conseguenze generali, guardando con luci-dezza e dritto intelletto all’ avvenire. Nella sua alta condizione politica ed amministrativa, ei vide ben a dentro tutti i meandri della macchina governativa ; riconobbe dove stava la sede del male, e gli parve opera di buon cittadino 1 additarla crudamente : può considerarsi perciò nel novero di quegli uomini che sentivano i tempi nuovi, e, senza neppure pensare ad audacie imprudenti, erano ben persuasi che conveniva uscire da uno stato d’infeconda atonia, a fine di non essere trascinati a ruina fatale. E il monito supremo della sua vita, spesa a prò’ della patria, fu veramente ventisei anni più tardi il verbo animatore della rivolta contro l’oligarchia. Aperto il testamento ne venne subito riferito al governo il contenuto; onde incontanente si ordinò ai Supremi Sindacatori, che valendosi della loro autorità lo facessero togliere dai protocolli del notaro, che 1’ aveva ricevuto in consegna, e si riponesse nella Cancelleria di Stato ; ma poco dopo essendosi saputo che ne giravano delle copie, si deliberò fosse rinchiuso 1’ originale nell’Archivio segreto, e datone al notaro un semplice estratto con le sole disposizioni d eredita e di legati ; perchè lo conservasse fra’ suoi atti ad uso di chi ne richiedesse copia 0 lettura (1). Intanto si indaga\a come e da chi avessero potuto darsi fuori le copie del documento, e specialmente delle particole riuscite così amare al go\erno. m or ics; dal Galiani nella Correspondance, e sovente nelle diverse raccolte di lettere del Baretti, siccome dal Mazzei nelle sue Memorie. (1) R. Arch. Famiglie genov. cit. 462 GIORNALE LIGUSTICO il cercare era vano, se può credersi, secondo si afferma, che Giambattista Spinola incaricato primamente di eseguire Γ ordine dai Supremi, ne facesse trarre alcune copie dagli scrivani della Cancelleria, mentre egli lo leggeva ad alta voce per constatarne Γ identità (1). Nei primordi della rivoluzione ecco subito comparire stampate le parti politiche di quel testamento; afferma infatti il Ciavarino che poco innanzi agli avvenimenti del 1797, ne erano state sparse molte copie, a fine di eccitare il popolo contro il governo oligarchico (2) ; le veggo altresì riprodotte in appendice ad un curioso libretto uscito in Genova nel 1798 (3), e poi nella Galletta Nazionale (4). Dopo la morte del Gastaldi gli amici vollero onorarne la memoria raccogliendo le sue poesie, che videro la luce in Finale nel 1779, e furono dedicate a nome del tipografo a quel Giacomo Filippo Durazzo, il quale procacciò parecchi componimenti manoscritti che conservava presso di sè, certo per dono fattogliene dall’ autore. Nè la raccolta si sarebbe fermata al secondo volume, se, come ho avvertito, fosse stato rinvenuto il manoscritto della Melania; poiché gli editori si proponevano metterne fuori un altro tomo ; donde si può ciedeie siano rimaste inedite, 0 disperse per entro a raccolte ignorate, alcune altre delle sue poesie. Comunque sia quelle mandate in pubblico piacquero in Italia ed all’estero; chè molte copie ne furono richieste dagli oltramontani (5). Fra noi ebbero non mendicate lodi dai giornali letterari , de’ quali (1) Libere riflessioni sulla rivoluzione di Genova, tradotte dal francese, con annotazioni ed aggiunte del traduttore. A Parigi (Genova) 1798, 76. (2) Annali della Rep. Ligure, Genova, Botto, 1853, 5· (3) Libere riflessioni cit., 64, 75. (4) A. 1797, N. 3, 25. (5) Avvisi, a. 1779, 801. GIORNALE LIGUSTICO 463 basta citarne due fra i più reputari, voglio dire le Novelle Letterarie di Firenze e il Giornale de’ Letterati di Modena (1). A. Neri. UN MONUMENTO IGNOTO. Dei Ricomanni da Pietrasanta, scultori assai reputati del secolo XV, ne hanno parlato il Santini (2), il Milanesi (3), lo Sforza (4), e per quel che tocca più specialmente Genova, 1’ Alizeri (5) ; il quale però non ha trovato documento più antico della dimora di Leonardo fra noi, se non quello che reca la data del 1452. Ma eh’ ei vi fosse molti anni prima, ben lo dimostra l’atto seguente (6): In nomine D.n! amen. Anno a Nat. eiusdem 1460. Ind. VIIJ. die vero XXVIIIJ. mensis Maii. Cum alias initum et ex pacto promissum fuerit per magistrum Leonarduni de Ricomano de Petrasancta, scultorem marmorum, de fabricando et conficiendo curtam sepulturam in Ecclesia S. Fran-cisci Ianue cum Francisco de Boniohanne agente nomine et vice illu. olim D.m Thome de Campofregoso, tunc Dominus Ianue, sub conditionibus formis modis et pactis in quodam instrumento contentis rogato per Ser Io-hannem Lobiam not. Ian. sub anno D.ni 1437 die prima Martii, a me notario infrascripto viso et lecto in presentia suprascripti Leonardi et Francisci eius nepotis ac testium infrascriptorum ad eorum et cuiuscum- (1) Nov. Lett. (seguito), XI, 681 ; Gior. Lett., XIX, 279. (2) Commentarii storici della Versilia centrale, Pisa, Pieraccini, 1863, VI, 191. (3) Noti\ie di Loren^o e di Stagio Stagi da Pietrasanta, in Vasari, Vite dei pittori ecc. Firenze, Sansoni, 1878-82, VI, 103. (4) La patria la famiglia e la giovinezza di Nicolò V, Lucca, Giusti, 1884, 263 e segg. (5) Notizie dei professori del disegno in Liguria, Genova, Sambolino, IV, 124, 141, 160, 1Ó2, 292. (6) Arch. notarile di Sarzana, Atti di Giov. Garzala ad ami. 464 GIORNALE LIGUSTICO que ipsorum claram notitiam et intelligentiam : cumque dicta pacta com-prensa in dicto instrumento per dictum magistrum Leonardum non videantur fore observata ; denuo idem magister Leoaardus , volens adimplere ea que continentur in dicto instrumento, non per errorem sed ex certa animi scientia, sollempniter et legiptime et omni meliori modo via iure formi et causa quibus magis et melius potuit et potest promitit et convenit mag.“ D.°o Iohanni Galeacio de Campofregoso, tamquam heredi suprascripti illu. q. D."> Thome, ibi presenti stipulanti et recipenti per se suisque heredibus et successoribus, facere complere et fabricare predictam sepulturam eo modo forma et ordine, et cum ornamentis omnibus et singulis contentis in predicto instrumento pactorum alias facto ut supra, et infra duos annos proxime futuros. Et etiam volens facere tutum et securum suprascriptum magn.um D. Iohannem Galeacium, tamquam heredem ut supra, pro fabrica predicte sepulture, obtulit et sibi dedit atque contulit infrascriptum fideiussorem, pro quo quidem magistro Leonardo et eius precibus et mandatis predictus Francischus q. Christo-tori de Ricomano de Petrasancta, nepos dicti magistri Leonardi, principaliter fldeiussit et intercessit, et ambo et uterque ipsorum in solidum promiserunt et convenerunt, et ad cautelam ibi presentialiter constituti promittunt et conveniunt suprascripto mag.co D.no Iohanni Galeacio, ibi presenti, ut supra stipulanti et recipienti, facere fabricare et complere predictam sepulturam eo modo forma et ordine et cum ornamentis omnibus et singulis in dicto instrumento pactorum contentis, et infra tempus dictorum duorum annorum proxime futurorum. Constituentes se se et constituerunt dicti magister Leonardus et Francischus et uterque ipsorum in solidum, casu quo non complerent dictam sepolturam infra dictum tempus, posse cogi et conveniri, et solvere et attendere promiserunt contenta in dicto et presenti instrumento, Sarzane, Petresancte, Pisis, Luce, Florentie, Senis, Ianue et ubique locorum ac si presens instrumentum et predictum aliud instrumentum condita fuissent in quolibet dictorum locorum. Que omnia et singula suprascripta et infrascripta predicti magister Leonardus et Francischus eius nepos, et uterque ipsorum in solidum sollempniter et legiptime promiserunt et convenerunt suprascripto mag.c° D.n0 Iohanni Galeacio, ibi presenti et ut supra stipulanti et recipienti, et iuraverunt ad Sancta Dei Evangelia manibus corporaliter tactis scripturis, firma et rata habere tenere et inviolabiliter attendere et observare et in nullo contra-facere nec contravenire de iure vel de iacto, modo vel in futurum : sub pena ducatorum ducentorum auri solvendorum de facto suprascripto mag.“ D.no Iohanni Galeacio, et auferendorum prius et de facto supra- GIORNALE LIGUSTICO 465 scriptis magistro Leonardo et Francischo pro damnis et interesse predicti D.ni Iohannis Galeacii, et cum restitutione omnium expensarum que prop-terea fierent litis et extra : renunciantes omnibus iuribus contra predicta introductis, sub obligatione sui et omnium suorum bonorum presentium et futurorum. Preterea suprascriptus mag.us D. Iohannes Galeacius promittit predicto magistro Leonardo ibi presenti stipulanti et recipienti per se suisque heredibus et successoribus eidem, vel habenti causam ab eo, dare et solvere residuum denariorum in quibus prefactus olim illu. D. Thomas sibi magistro Leonardo tenebatur et obligatus erat vigore predicti instrumenti rogati per suprascriptum Ser Iohannem Lobiam, sub o-bligatione omnium suorum bonorum. De quibus omnibus et singulis predicti contrahentes rogaverunt me Iohannem notarium infrascriptum ut publicum conficiam instrumentum dictandum ampliandum et extendendum ad laudem sapientis sillaba non mutata. Actum Sarzane in domo heredum Francisci Figaseche de Sarzana habitatione suprascripti mag.c> D.ni Iohannis Galeacii, presentibus: Ser Antonio q. Alioti de Ivanis de Cornilia, Iacobo Pauli de Marola, et Georgio q. Antonii de Feneo habitatore Sarzane, testibus ad predicta habitis vocatis et rogatis. Si rileva chiaramente da questo documento, che Leonardo Ricomanni nel Marzo del 1437 era in Genova, e prometteva al Doge Tomaso da Campofregoso di lavorare un monumento sepolcrale da erigersi nella chiesa di S. Francesco. Mancano nell’ Archivio gli atti di Giovanni Loggia rogati in quell’ anno ; riesce quindi impossibile conoscere le particolarità dell’ opera, e la persona in memoria della quale veniva ordinato ; al qual proposito però si potrebbe supporre che Tomaso, tornato Doge l’anno innanzi, pensasse innalzare il monumento sepolcrale ad onore del fratello Spinetta morto nel 1425 (1); se pure non si vuol credere che fosse opera di Leonardo quella sepultura scolpita, della quale ci ha conservato il disegno il Piaggio (2), posta in terra dinnanzi al- (1) Cfr. Giorn. Ligustico, a. 1884, 350. (2) Monumenta Genuensia, Ms. Bib. Civica, III, 203. — Il Giscardi nell’ Origine delle Chiese di Genova ecc. ms. Bib. Univers., 204, ricordando Giorx. Ligustico, Ληηο XI. 5° 466 GIORNALE LIGUSTICO Γ altare maggiore di detta chiesa a ricordare Pietro da Campofregoso ammiraglio nel 1373 morto l’anno 1404, secondo dice la scritta. È poi verosimile che il nostro scultore fosse conosciuto da Tomaso in Sarzana, dove nel 1432 aveva preso il caricò di scolpire Γ ancona dell’ altare maggiore di quella chiesa Cattedrale (1). Che dopo questa nuova promessa egli abbia eseguito il lavoro, per il quale già aveva intascato una parte del prezzo, ove non si voglia riconoscere nella sepoltura anzidetta, io non ne ho trovato alcuna prova, chè invano si ricercherebbe nelle memorie della chiesa indicata nell’atto, ed oggi distrutta (2). Non sarebbe però questa una ragione sufficiente per negarne 1’ esecuzione, poiché non è rimasta alcuna memoria neppure del monumento per Tomaso da Campofregoso, intorno al quale lavorava nel 1453 (3)· A. N. la morte del Doge Giano da Campofregoso e la sepoltura nella chiesa di S. Francesco, soggiunge che la Repubblica gli decretò « un superbo monumento »; il quale egli ritiene che sia quello che a suo tempo si vedeva « nanti il sancta sanctorum con le imprese » di quella famiglia. Nel che, come si vede, è manifesto errore ; perché nè il monumento può dirsi superbo, nè l’iscrizione ricorda Giano. (1) Sforza, op. cit., 266, 269. (2) Ratti, Istruzione di quanto può vedersi di più hello in Genova ecc. Genova, Gravier, 1780, 248; Piaggio, Monumenta Gtnuensia, cit.; Gi-scardi op. cit. ; Libro degli anniversarii del convento di San Francesco di Castelletto, in Alti Soc. Lig. di Stor. Pat., X, 385. (3) Giorn. Lig., a. 1877, 308. GIORNALE LIGUSTICO 467 SPIGOLATURE E NOTIZIE Una lettera di Andrea D’Oria. — Nel Mendico di Mantova (A. IV. n. 24, 8) il Bertolotti pubblica la seguente lettera del D’Oria : 111.™° et Ecc.m° Signor S.or mio osser.m°. Non sapendo con che altro uisitar al presente V. Ex. mi è parso almanco mandarli un leopardo et un gatto di pharaone, che mi sono capitati in questi miei uiaggi, suplico V. S. che non risguardi alla piccola cosa, ma accetti la mia bona uolontà, degnandosi tenermi per quel bon seruitore eh’ io li sono. Et in sua bona gratia alla quale mi raccomando et baso le mani. Da Genova alii v de Feuraro 1533. Di V. E. humill. seruitore Andrea Doria. All’ Ill.mo et Ecc.m° S.°r S.°r oss.m° EI S.or Duca di Mantoua. Aggiunge l’editore che Andrea stesso donava nel febbraio del 1535 al figlio del Duca una tigre maschio ; e che più tardi pervenivano pur da Genova alla Corte di Mantova un giovane camello nel novembre del '1590, ed uno struzzo nell’agosto del 1611. *** Versi latini del P. Giuseppe Gregorio Maria Solari. — Nella recente edizione del Misogallo le Satire e gli Epigrammi editi ed inediti d Alfieri curata dal Renier (Firenze, Sansoni, 1884, xlii, lxxxii) è riportata la traduzione latina fatta dal Solari del Sonetto XVI che comincia : « È Repubblica il suolo, ove divine », e dell’epigramma LIX. Ecco la prima: Est ibi Libertas, ubi lapsae ex aethere Leges Humanas pariunt praesidioque tegunt; Nec fratri in fratrem licet esse impune scelesto Atqne agit inclusus limite quisque suo : Est ubi nec fortem metuo, nec supplice laetor , Omniaque expedio pectoris ima palam ; 468 GIORNALE LIGUSTIGO Nec me dat subito mala fraus ex divite nudum, Nec nisi quod cunctis utile quemque ciet. Est ubi Mos sine labe viget, praeit integer unus; Nec lacrimae insontis livida corda beant. Num tibi Libertas, Grex Gallice funditus exlex. Grex modo veli! miseris comite Mancipiis , Quem premit arma tenens, pannosa, nefaria mutum Faex Procerum pejus faecibus ipsa tuis? Precisamente quattordici versi come 1’originale. L’ epigramma venendo per la prima volta pubblicato, lo riporto qui : Base di ogni opra bella, il nascer bene: Tosto i parenti ad emular si viene. — Cisalpine Spartine , Di sei mesi bambine, Già il ben di tutti il picciol cuor v’infiamma: E con brevi manine Rubate già da far invidia a mamma. Il Solari lo ridusse in latino così : ( Grandia molitur soboles de semine grandi Nempe refert grandes aemula facta patres. Spartillae Italicae vix sex e mensibus ortae Jam nunc vestra ciet corcula laudis amor ; Et manibus perquam teneris, perquam pusillis, Jam bene surripitis, mater ut invideat. Il Renier trovò queste traduzioni fra le carte dell’ Alfieri conservate nella Laurenziana. *** Us sonetto sulla guerra di Sarzana del 1487. — Nel Giornale ■ Storico della Leti. Ital. (IV, 168) il Frati pubblica il seguente sonetto di Benedetto Dei cronista contemporaneo, sulla guerra dei fiorentini contro i genovesi : San Giorgio tu chredesti siçichare soreçanel Marçoccho 1’ à soccorso e rotto t’à e messo in bocca un morso che Soreçana si chonvien lasciare. GIORNALE LIGUSTICO 469 E tuo’ prigion vedrai incharcierare, e proverai quant’ è superbo 1’ orso eh’ anchor ti seghue chon veloce chorso per far tuo stato sottosopra andare. Sempre ti fia nimicho il mondo tutto, se non ti gitti in grembo al tuo Milano la chrocie e ’l dragho e tu sarà distrutto. Credi quel che ti dicie il chastellano la pacie fa per te se vo’ far frutto chon dar Marçoccho Soreçana in mano. Sonetto , al chapitano Dirai che vada e chieghagli la pacie , e fia salute della via veracie. Il capitano cui allude il poeta è Gian Luigi del Fiesco fatto prigione dai fiorentini. L’editore trasse questo sonetto dal cod. magliab. II, II, 333 dove ne sono altri due pure del Dei, seguiti da altre memorie autografe del-Γ impresa di Seriandlo ed espugnazione di Ser\ana fatta da’ Fiorentini. U. * * In un articolo critico di Luigi Vasi inserito nell 'Archivio storico siciliano (N. S. a. IX, 125 e segg.) vi sono delle tavole di confronto fra il dialetto siculo di que’ luoghi dove si hanno memorie storiche di colonie lombarde, con le varie modalità del dialetto ligure. *** Nei Documenti relativi a un episodio delle guerre tra le fazioni latina e catalana ai tempi di Re Ludovico D’Aragona pubblicati ed illustrati da R. Starabba (Arch. stor. sicil. N. S. a. IX, 157 e segg.), oltre alla menzione de’ balestrieri genovesi, si veggono nel 134° restare mallevadori verso il comune di Palermo per il compratore della gabella « Iacobus de Princivallo et Nicolaus de Berlingerio, Iacobus de Aranzano et Ma-theus de Aranzano mercatores, cives dicte urbis », ma certamente liguri. Cosi fra coloro che danno in prestito al comune nel 134-9 > v* ® " ^a" cobus de Randaccio » e « Symonde Aranzano » ; e in altro istrumento dell’ anno stesso ricorre il nome di Simone Grillo. *W* Nella illustrazione di Un registro aragonese della Biblioteca Nazionale di Parigi (Arch. Stor. per le prov. Nap. a. IX, 453)> Domenico Giampietro narra con nuovi documenti i fatti che si svolsero a Genova negli anni 1458-60 al tempo di Pietro Campofregoso. 470 GIORNALE LIGUSTICO Enrico Narducci nel recente suo lavoro : Intorno al « Tractatus spherae » di Bartolomeo da Parma astronomo del secolo XIII e ad altri scritti del medesimo autore (Bullett. di Bibl. e di Stor. delle sciente matemat. e fisiche, XVII, 19) cita un ms. Tractatus artis geornantie esistente nella Bib. Reale di Monaco nel quale si notano queste parole: « quam prius compilavit anno domini 1288 ad preces nobilis viri Theodorisis de flisco nationis janue civitatis ». Il quale Tedisio, secondo una nota di Desimoni, sarebbe figlio d’Opizzone, e nipote d’ Innocenzo IV, non ignoto nelle istorie genovesi, avendo sostenuto pubblici uffici. *** ' Nel Frou-Frou, Cronaca di Sport e di Letteratura (a. II, n. 24, 1) l ittorio Poggi pubblica una notizia sopra un Portulano inedito di Pantero Pantera, del quale stampa un saggio incominciando dalla Liguria. *** Nel XX Settembre, numero unico uscito a Savona a benefizio delle famiglie dei cholerosi, troviamo una breve nota storica di Agostino Bruno intorno alla casa abitata da Domenico Colombo, padre del grande navigatore, e della sua famiglia, nel tempo della sua dimora in quella città nello spazio di circa dieci anni, cioè dal 1470 al 1481 secondo il diligente Harrisse (Christophe Colomb son origine sa vie etc. I, 156 e segg. 179)-Quindi è riprodotta da Giacomo Cortese una epigrafe esistente nella Badia di Fiesole, con la quale si ricorda la cittadinanza concessa dai Fiorentini ai Savonesi nel 1477. Segue una notizia sulla bandiera del Comune, la quale secondo un documento del 1261 « era composta tribus bindis quarum due erant vermilie et tercia alba que erat in medio ipsarum »; forma che è pure offerta da un bassorilievo del 1002 esistente nel Duomo di quella città. Si tocca in ultimo brevemente del cronista Vincenzo Ver-gellino, lamentando che proceda con troppa lentezza la stampa delle sue Memorie Savonesi. *** Giovanni Sforza narrando nella Rassegna Nazionale (XX, 190) Un episodio della vita di Vittorio Alfieri, tocca del viaggio da questi fatto in Liguria e della sua dimora in Sarzana, dove imaginò e stese la sceneggiatura della Virginia; indica la casa che quivi abitò, e rileva come presso il dott. Ottavio Mazzi, attuale possessore d’ una parte di quella casa, si conservi la poltrona su cui sedette il gran tragedo, secondo è detto in un cartellino di mano del secolo passato. GIORNALE LIGUSTICO 47I In una monografia di E. Motta intitolata : « Parafilo Castaldi, Antonio Pianella, Pietro Ugleimer, ed il vescovo di Aleria » (Riv. Storica Ital. 1884, Fase. II, 252-272), troviamo la notizia delle sollecitazioni fatte dai genovesi legati al papa, perchè monsig. Gian Andrea de’ Bussi vescovo di Aleria mettesse in qualcheduna delle principali chiese di Genova , la libreria che intendeva di fondare. Ciò si rileva da una lettera dell’ agente ducale dello Sforza, Nicodemo Trincadini da Pontremoli, il quale il 20 dicembre scriveva fra le altre cose : « El uescouo dhaleria più fiate me ha dicto a questi dì che li ambaxiatori Zenoesi lhanno pregnato uoglia mettere quella sua libraria delibera fare in qualunche più gli piace dele loro principali chiese de Zenoa: et che oltra el fargli un dignissimo loco, la dotarano ancora in modo hauerà a remanere ben contento , et curn altre bone conditioni ali posteri suoi ». Di questa biblioteca non è rimasta alcuna memoria fra noi, e forse non fu istituita. Si noti che fra i legati eravi Gotardo Stella, amante de’ buoni studi e letterato distinto egli stesso. *** Nel fascicolo I-II, àt\Y Archivio storico Siciliano , per 1' anno corrente (pag. 98-124), Michele Amari pubblica tradotti, gli Estratti del Tarib-Mansùri, che si legge in un codice unico, e pare anche autografo, posseduto dal Museo Asiatico di Pietroburgo. La cronaca , per l’importanza politica del suo autore, Abù al Fadayt, riesce di gran pregio per la storia della sesta crociata e di Federigo II, imperatore. Gli estratti toccano tutti da lungi o da presso la storia d’Italia ; e l’illustre editore li ha fatti precedere da una dotta prefazione e corredati di molte note. Subito i primi passi ci recan notizia di un genovese, dal quale vogliamo sperare che si abbiano da trovar tracce nei nostri documenti valevoli a stabilirne la identità. Avea nome Guglielmo , ed era di professione mercante : capitò in Egitto nell’anno 607 dell’Egira (1210-11), ed entrò sì fattamente nel favore del sultano Malik Adii, che questi « prese a ben volergli », e « perfino lo menava seco dovunque egli andasse : e il maledetto indagava pian pianino le condizioni dei Musulmani e scriveale a’ Franchi. Il che fu riferito al sultano, ma egli non ne fe’ caso ». L’anno appresso, Malik Adii viaggiò la Siria e la Mesopotamia « per veder lo stato del paese, e Guglielmo era con lui ». Ancora nel 611 (1214-15), allorché il sultano tornò in Egitto, « Guglielmo (era) sempre con lui />. 472 GIORNALE LIGUSTICO BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Il Misogallo , le Satire e gli Epigrammi editi e inediti di Vittorio Alfieri per cura di Rodolfo Renier. Firenze, Sansoni 1884. In questo volumetto, che fa parte della Piccola Biblioteca italiana, !’ editore ha voluto raccogliere tutti crii scritti dell’ Alfieri d’indole ο Ü più specialmente satirica; dì guisa che, ove si faccia eccezione delle commedie, qui c’ è proprio ogni cosa. Nè con questo intendimento si poteva tagliar fuori in Misogallo , la cui ristampa in edizione critica, a noi non apparisce, come per avventura ad altri, un fuor d’opera. È 0 no aneli esso questo terribile libello la viva rappresentazione di un momento caratteristico ed importante della vita dell’ autore ?, il quale ha lasciato per via dell’ arte tanta impronta di se e della sua indole in quelle volgari escandescenze e in que’ feroci sarcasmi, che sarebbe colpa il trascurarne lo studio. Nè ci si venga a dire che fu Io sfogo momentaneo d una collera passeggera; no no; poiché, come è noto, il libro \enne componendosi a poco a poco, ed ebbe organismo, e lima, e cure parecchie ; quasi 1’ Alfieri si compiacesse nel dettare, o nel riprendere fra mano a quando a quando tutte quelle villanie , saltate fuori qualche volta spontaneamente, ma spesso studiando e torturando l’espressione. Se fosse vero questo carattere subitaneo, ci parrebbe di vedere 1’Alfieri in un de suoi impeti furiosi scaraventare un sacco di vituperi contro la Francia, nello stesso modo che lanciava un candeliere nella testa al suo servitore: ma è ben diverso il sentimento che desta nell’ animo del lettore ; il quale pur concedendo assai alla occasione onde mosse , vede in quel Lbro una manifestazione politica, molto notevole per il tempo e per 1 uomo. Ecco perchè noi approviamo questa nuova pubblicazione. E veniamo perciò a parlare del volume che ci sta dinnanzi. Con la diligenza che il Renier suol mettere ne’ suoi lavori , dopo aver toccato brevemente delle vicende cosi dei libri come dei manoscritti alfieriani, discorre assai largamente della storia esterna del Misogallo, facendo conoscere quando ed in qual modo venne composto , i manoscritti che ne esistono, i frammenti usciti per le stampe, eppoi le edizioui intere messe fuori con la falsa data di Londra nel 1799 e 1800, ma stampate a Firenze, secondo egli ben rileva, nel 1803 e nel 1804. Si ferma intorno ad alcune particolarità degne di nota, mettendole d’ accordo con la Vita, e i fatti contempora- GIORNALE LIGUSTICO 473 nei a cui si riferiscono. Tiene ugual metodo parlando degli epigrammi che formano la parte più notevole di questa raccolta in quanto concerne i componimenti inediti, che sono trentotto. Nè s’imparano qui solamente le notizie atte a renderci ragione di questo genere di rime, e del tempo e del modo onde videro primamente la luce, ma in una distinta cronologica sono state raccolte dall’editore quelle indicazioni ancora che riguardano la bibliografia e la storia dei singoli epigrammi ; i quali sono così resi chiari alla intelligenza del lettore. Le satire essendo esemplate sulla edizione del Carducci non gli porgono argomento a molte parole ; osserva solamente che confrontandole con i manoscritti se ne trarrebbero molte varianti interessanti per ragione di studio ; poiché la lezione eh’ egli segue può dirsi data secondo gli ultimi intendimenti dell’ autore. Il Misogallo invece e gli epigrammi sono prodotti qui per le prima volta con la scorta degli autografi ; e perchè anche questi recano diverse lezioni, e pentimenti, e correzioni dell’ autore, il Renier ha tenuto buon conto di tutte qneste varianti, rilevandole opportunamante con un sobrio apparato critico. In questa guisa si può ben dire che il contenuto del presente volume risponde per il testo ai desideri dell’ Alfieri ; e quanto all’ illustrazione ed al lavoro critico , porge un’ eccellente contributo agli studi sulla vita e sulle opere dell’ astigiano, del quale si vorrebbero ora con il medesimo metodo pubblicati tutti gli altri suoi scritti, e specialmente le commedie. G. Morici. Versi. — Ancona, A. G. Morelli, 1884. L’ editore ha anima di artista, e ce lo prova anche questa volta regalandoci un’ edizione che è un vero gioiello, un piccolo capolavoro. Dallo sfondo della copertina si staccano alcuni quadretti originali e graziosissimi : una nave che, salutata da un volo d’ alcioni, si perde sul mare lontano, una gentile figura di donna che s’inchina mollemente verso di noi quasi a susurrarci misteriore promesse e a spargerci di fiori la via, un malinconico profilo di bella dormente la quale sogna forse il suo amore lontano : tutte cose carine come le due eleganti civettuole che, riparate dall’ ombrello, passeggiano sollevando delicatamente il lembo della veste, forse per mostrare il grazioso piedino stupendamente calzato. E questa volta la bellezza della copertina non è un controsenso, nè maschera pietosamente la meschinità dei versi, come una bella cornice destinata a far dimenticare la meschinità di un quadro. Chè se il libro si incomincia a leggere con la paura e la diffidenza con le quali, in tanta far- 474 raggine di versi falsi, barocchi, convenzionali, s’incominciano quasi sempre a leggere gli autori non abbastanza conosciuti, la paura e la diffidenza spariscono quasi subito per dar luogo ad un sentimento di gioconda maraviglia. Avviene come se un soffio d'aria pura ci accarezzasse il volto, e ci sentiamo come sollevati da un gran peso sin dal principio. L’A. ci seduce, ci scalda, ci trascina : noi svolgiamo le pagine con curiosità febbrile e ogni tanto siamo costretti ad esclamare: Questo è bello— Questo è stupendo — Bravo, bravo, bravo ! — Se la ristrettezza dello spazio ce lo consentisse, vorremmo qui riportare la poesia intitolata D’Autunno (pag. 69), stupenda per naturalezza , verità ed evidenza , la quale basterebbe da se sola a provare che 1’ A. è fornito di attitudini poetiche non comuni. Citeremo ancora, a tacere di molte altre, Flora dove l’A. scherza delicatamente sul graziosissimo nome, Vae victis, All' Ospedale, Difterite, Novembre, In biblioteca, Sacuntala ecc. Ma... pur troppo c’ è un ma. Pur troppo sunt bona mixta malis. Accanto a codeste pregevolissime composizioni, se ne trovano altre le quali fanno rimpiangere che l’A. non abbia saputo resistere al desiderio di raccoglierle e di pubblicarle: dove le quartine non dicono nulla e sono messe là semplicemente per far seguire ad esse le terzine , dove s’affacciano le vecchie reminiscenze classiche e romantiche, e dove non c’è niente di poetico, niente di sentito e la costruzione è barocca e il senso oscuro. Forse sul labbro mi verrà il momento eh’ io morirò per te, mia dolce amica quest’arcana parola del mio core. Cosi a pag. 18. E a pag. 21 : In un nembo di polvere, rapita da superbi destrieri, ella partia. Mesto il sorriso della dipartita per la sera adamantina svania. Addio gentil ! Tu parti redimita dagli splendori della fantasia, teco portando tutta la mia vita, tutti i bei sogni dell’ anima mia ! E già ’l candido velo, salutando, tra ’l verde de’ poggi e degli ontani, all* intenta pupilla rispondeva. Poi tutto tacque. — Solo a quando a quando dietro al rumore 1’ ulular dei cani per i vasti silenzi si perdeva. GIORNALE LIGUSTICO 475 Si sente qui il Leopardi e nell’ultimo verso della prima quartina l’accento è sbagliato, oltre che è cosa per lo meno curiosa un sorriso di dipartita che svanisce per la. sera adamantina. Sentano adesso i lettori le terzine del sonetto In Villa: « Cosi nell’ ora che la notte imbruna 1’ aere, che di te più non m’ avvivi e desio de* lontani in cor s’ aduna, chieggo : e ti vedo per beati clivi lenta passare sotto Γ alta luna cui, scintillando, amor cantano i rivi. Sarebbe il caso di dire: Chi ci capisce? E chi, aggiungeremo, chi ci capisce niente in questi altri versi? Oh d’altri al certo ora tu ascolti i trepidi detti alati, onde tanto allor ci amammo. Anche abbiamo a pag. 25: ed io sentivo il palpito del giovine tuo cor che il seti pulsava ; e a Pag· 26: E so che la mia pace e il mio riposo sono vicino a te, son la dolcezza del fulgido amor tuo, donna, tu sola. Né possiamo lasciare inosservati i versi seguenti, dove non solo 1’A. non si fa intendere, ma pare si compiaccia a ballare sul trapezio: E tu pietosa vieni tra i ceruli sogni dell’ alba, mite arridendomi dagli occhi divini, e consoli, colle soavi parole tue, il grave tedio che occupa il domito mio cor, cui tutte gli uomini uccisero le dolci speranze, e la fede nella virtù, vagheggiato inganno. Ai ciarlatani 1’ epa nei floridi banchetti sazia 1 Lor la longanime pazienza dei mille affannati, che il malumore de’ rotti sonni turbare, e gli ozi temon con l'umile chiedente voce, mentre del sigaro il buffo arrogante, la noia lunga tradisce, ed impone brevi parole. — O donna ecc. 47 6 GIORNALE LIGUSTICO Ci avete capito niente voi? Di più osserviamo che Γ espressione del-1’ amore, per il poeta non va mai più in là degli occhi arridenti o del volto soave, e se dovessimo contare quante volte ritorni il riso della bocca, l’arridere degli occhi ecc. non la finiremmo più. Ed è invece tempo di finirla per non abusare della pazienza del signor Morici, che ha, del resto, lo ripetiamo, tutte le qualità di un buon poeta e dal quale ci ripromettiamo moltissimo. Sentano i lettori questi stupendi versi che non sappiamo resistere al desiderio di riportare, anche perchè brevi: VAE VICTIS ! Gigante sonnacchioso, sotto al plumbeo cielo si stende il mitico Gargano. Non una vela, nè una bianca alcione, presso o lontano. Solo il ciociaro dal mantello lurido, guata 1’ immensa matutina pace. Innanzi, all’ orizzonte solitaria Tremiti giace. Quanto silenzio incombe sulla fetida riva ! quanta tristezza sul cor mio ! sento amor nella fredda anima piangere il mesto addio ! Sempre sempre così. D’ un tratto rompere la trama d’ oro dall’ amore ordita, per poi ritesser di miserie inutili la turpe vita. I lettori giudichino. Dal canto nostro noi diciamo all’ egregio autore : Coraggio e avanti ! A. G. F. I II profugo. Ismeina. — A. G. Morelli, Ancona, 1884. II edizione. L edizione è elegantissima. La fantastica copertina armonizza stupendamente col titolo, e fa immaginare un seguito di stranissime avventure. Nè la nostra aspettazione viene delusa. Giudicatene. Siamo ai tempi di Napoleone. La ritirata di Mosca ha avuto luogo, e il conte di Marliani che ha preso parte alla fatale spedizione di Russia fa ritorno in patria. In Russia 1’ amico Sanvito moribondo, gli ha consegnato un medaglione contenente il ritratto della moglie, sul quale ritratto il Sanvito stesso ha scritto : T’ affido al conte Marliani. Ma il conte Marliani non può rimettere il ritratto alla signora Sanvito, per la semplicissima ragione che il tenente Ridolfi gli ha rubato il medaglione, oltre ad GIORNALE LIGUSTICO 477 una bagatella di dieci mila lire. La signora Sanvito che , tra parentesi, doveva essere estremamente diffidente, non presta fede al conte Marliani. Questi ha un duello col RidoJfi il quale muore confessando i suoi torti, ma lasciando un figlio che giura di vendicare la morte del padre. La sua vendetta colpisce dapprima il Marliani, che fa condannare a morte come affigliato alla setta dei Carbonari, e che soltanto per grazia sovrana ottiene una commutazione di pena : quindi Maria Sanvito ed Alfredo Marliani dei quali disturba gli amori. Infine Alfredo Marliani, denunziato come affigliato alla Giovine Italia, è costretto a spatriare. Ma sopraggiunge in buon punto il colera che spazza via il Ridolfi, il quale muore confessando d’ avere introdotto i giornali della Giovine Italia nello studio del conte Alfredo Marliani per sua particolare vendetta. Il profugo ritorna allora in patria dove spera trovare finalmente la pace e 1’ oblio di tutti i suoi dolori; ma, presso a toccare la gronda sospirata, una burrasca sopraggiunge, la barca si capovolge ed è tratto semivivo dalle onde. Per colmo di sventura, una malaugurata ferita ricevuta a Strasburgo si riapre ed egli muore col nome della patria e di Mafia sulle labbra , nel momento medesimo in cui muore la sorella Giulia, consumata dalla tisi e alla vigilia di sposare Alarico nipote del Sanvito, che la cugina Sofia ha rischiato innocentemente di rapirle, ma che 1’ ama, riamato. Se 1' A. avesse ascoltato il consiglio d’un amico, il Profugo non correrebbe adesso la brutta sorte di essere sviscerato dal coltello anatomico del critico. — « Il vostro Profugo è come un’ innocente vergine che, pubblicandolo , lancereste nelle mani d’ un uomo brutale per essere profanata ». Queste le parole dell’amico, sulle quali trascorriamo rapidamente e non senza sorridere. La gentile scrittrice vorrà, speriamo, perdonarci se tuttavia oseremo dirle ugualmente e sinceramente la nostra opinione. E prima di tutto PA. non difetta d’immaginazione. Ella ci fa assistere agli incontri più fortuiti, alle combinazioni più maravigliose e sa tener desta la nostra attenzione sino all’ ultimo. Quello che forse le si potrebbe apporre è di modellarsi soverchiamente su certi romanzi francesi, dei quali ha qualche volta le inverosimiglianze e le esagerazioni ed imita le frasi rimbombanti ed i colpi di effetto. Anche vorremmo maggiormente rilevato il contrasto degli affetti e i personaggi, meno morali piuttosto, ma più umani e più veri : la vaporosa e sentimentale Maria per esempio, che nella difficile lotta tra il dovere e P amore e con un marito sessagenario non solo si conserva immacolata come neve alpina, ma non prova un momento di vertigine, di tentazione, non soggiace a un istante 478 GIORNALE LIGUSTICO di debolezza, e Alfredo che, pure a,mandola pazzamente e sapendosi riamato , non solo ne rispetta la virtù , ma non desidera, non chiede , non si ribella, non sente ardere il sangue giovanile e si contenta di un bacio, di una rosa e di alcuni versi non troppo belli che Γ amante ha avuto il torto di scrivere per lui. Vuole Ismeina permetterci un consiglio? Si guardi intorno e descriva la vita come la vede, come la sente , coni’ è infine, e gli uomini colle loro virtù e i loro difetti e non correrà più rischio di far sorridere con certe ingenuità. Si persuada poi che non è bello fare abuso di angeli, di voci mistiche, di estasi celesti, di campane serali. Tutto ciò è vecchio, arcivecchio, come l’espediente di far sorprendere le fanciulle dagli amanti nelle chiesuole deserte, al fioco lume delle lampade per giurar loro eterno amore davanti all’ immagine della Vergine; oppure quando sedute in faccia al relativo lago accordano sull’ arpa romanze chiuse da questi ritornelli : « E sospiro al nuovo giorno ma il mio ben non fa ritorno ». Arpa, laghi,' voci mistiche e campane serali, tutto ciò deve > oramai sparire. Noi non ci stancheremo di ripeterlo alla gentile scrittrice. Si spogli di certe reminiscenze, non si perda troppo nelle nubi, ma guardi dentro di sè e intorno a sè e procuri di essere vera. Quando vuole sa esserlo e lo provano le graziosissime lettere di Sofia , certe piccole descrizioni pregevolissime e certi dialoghi che corrono spigliati e disinvolti. Peccato che s’incontrino qua e là di queste espressioni : geniale aspetto, attrazione omogenea, donna cui natura fu larga dei suoi prestigi, spiritoso per arguto, occhi intenebrati di lacrime ecc. ecc. ... Ma acqua in bocca adesso. Noi ci siamo creduti in dovere di dire la verità, tutta la verità alla gentile scrittrice, perchè a chi ha ingegno come lei la verità si dice sempre, a rischio anche di riuscire uggiosi. Ella che ha una bell’ anima e un bel cuore ci perdoni, e ce lo provi regalandoci presto migliori lavori. A. G. F. ERRATA-CORRIGE. Pag. 242 Grande iscriz. Perugina, linea 3 minore 02KI3 leSSl D23F13 ivi » » » 14 » ΚΙΟΚΙ3Ί » ΚΙΟΚ3Ί ivi » » » 20 màgg. ΊΚΙ23 -f- » 3Kl23f 243 Traduzione letterale » 13 minore Arie » azie ivi » » » 21 » semp- « sempr- 25 1.........» 7 · · per as » peram 25 2.........» 17 . . ant. elem. » ant. alem. 25 7.........» 20 . . [}roiani » Troiani 25 8.........» 28 . . ascendo » ascondo 266.........» 6 mena — na-(luna) » mena (luna) ivi.........» 13 . . ereditate » ereditate 207.........» 5 . Tue, Tus'e » Tus, Tu.s'e 269.........» 4 . . eintac. » eMtac. 27 4.........» 7 . . cihuche » ichuche 27 5.........» 9 ... e » è ivi.........a 23 . . nersilio » ausilio Pasquale Fazio Responsabile. INDICE DEL VOLUME DOCUMENTI ILLUSTRATI. iX La peste dell’anno 1348 (A. G. Tononi) .... Pag. X Inventario di Spinetta da Campofregoso (A. Neri) . . » MEMORIE ORIGINALI. Ansaldo Cebà (N. Giuliani). ...... Senato (G. Rexasco)........ Una tragedia inedita del Risorgimento (C. Braggio) . Appunti di Epigrafìa Etrusca (V. Poggi) .... V Lettre sur la date exacte de l’arrivée e Gênes des reliques de S. Jean Baptiste (C. Riant)...... Il giuoco del lotto (G. Reiasco)...... Studi Etruschi (A. Borromeï) ...... Scampanata (G. Reiasco)....... ^Spigolature genovesi in Oriente (C. Desimoni) . Lo storico Giov. Francesco Doria e le sue relazioni con L. A. Muratori (M. Staglieno)...... I Basile alla Corte di Mantova (A. Adamollo) . VARIETÀ. -'"Un episodio della guerra di Negroponte (A. N.) . . Pag. Un Coriolano da strapazzo (A. Neri).....» Un maestro d’ aritmetica nel sec. XIV .... » • Tre documenti genovesi di Enrico VI (C. D.) ...» -Il processo di Jacopo Bonfadio (A. N.) .... » Il Casti a Genova (A. N.)........ L’ assassinio di Angelo Gavotti (A. N.) .... » Un’ iscrizione ritrovata (A. N.)......» Due lettere di Papirio Picedi (A. N.).....» Pag. 3. > » 50, T39 350 _ 161 36 rii 81 132 196 241 321 336 401 416 I’53 226 229 232 f 275 283 292 295 359 480 GIORNALE LIGÙSTICO Privilegi per la proprietà letteraria (A. N.) Pag, 364 Due lettere dei Duchi di Milano (A. N.) . » 373 ,XUna lettera di Nicolò Paganini (A. N.) ■ · » 378 Una novella del Boccacci tradotta da Bartolomeo Fa- zio (C. Braggio)........ » 379 Descrizione dei funerali di Carlo V a Genova . » 387 Un corrispondente genovese di Voltaire .... » 442 Un monumento ignoto....... » 463 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA. Studi sulla letteratura italiana de’ primi secoli per A. D'Ancona (C. Braggio)........Pag. 29® E. Celesta. Linguaggio e provverbi marinareschi (C. B.) » 389 SPIGOLATURE E NOTIZIE. Pag. 77, 156, 239, 312, 391. — Cose notabili. Documento di un corazzalo genovese a Modena, 77. — Scavi di Ventimiglia, 156, 394. — Iscrizioni liguri nell’Umbria, 238. — Anticaglie di Savignone, 314. — Una lettera di Antonio Ivani, 391. — Anticaglie di Tresana, 397.'— Una lettera di Andrea D’Oria, 467. — Versi latini del P. Solari, ivi. — Un sonetto sulla guerra di Sarzana del 1487, p. 468. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Actes passés à Famagouste de 1299 a 1301 par C. Desimoni; Quatre titres de propriétés des Génois a Acre et a Tyr par C. Desimoni, 79. — Ragguagli storici di Montignoso di B. Bertocchi editi da G. Sforma, 159. — A. Luttes. Il diritto commerciale nella legislazione statuaria delle città italiane, ivi, — Elementi scientifici di etica civile e di diritto di C. Au-tia*, 1Ó0. — Miniere, zecche e monete della Sardegna di A. Toxiri, 239. — Il Cardinale Mazzarino di F. Donaver, 240. — Christophe Colomb, son origine, sa vie, ses voyage, sa famille ect. par H. Harris (S.), 316. :— A. Negozi. Fantasmagorie (A. G. F.), 318. — F. Podesti. Poesie varie (A. G. F.), 320. — Guida di Ancona, 398. — F. Colini. Pergolcsi e Spontini, ivi. — C. Feroso. Spigolature biografiche di F. Podesti, 399. — I. Pini. Bizeno dramma lirico (A. G. F.), ivi. — F. Archibugi. Guida pratica allo studio della lingua tedesca (A. G. F.), 400. — Il Misogallo, le Satire e gli Epigrammi d’ Alfieri per cura di Renier, 472. — G. Morici. Versi (A. G. F.), 473. — Il profugo. Ismeina (A. G. F.), 476. Errata Corrige, 478.