GIORNALE LIGUSTICO DI ARCHEOLOGIA, STORIA E BELLE ARTI FONDATO E DIRETTO DA L. T. ‘BELGRANO ED Ji. IsLERI AHHO SESTO GENOVA TIPOGRAFIA DEL R. ISTITUTO SORDO-MUTI ' MDCCCLXXIX — . _ _ _ _ — SYNDICATUS ECCLESIAE JANUENSIS MCCCXI Gli amatori della storia ecclesiastica della nostra Città e Diocesi sono grandemente tenuti al benemerito Sig. Luigi Tomaso Belgrano, per avere nelle sue molteplici produzioni che da lunghi anni dona alle stampe a prò della patria storia, dato luogo alla pubblicazione del Registro della Curia Arcivescovile di Genova, e in questo alla pubblicazione della Tassa imposta da Papa Urbano VI sulle chiese dell’Archidiocesi di Genova l’anno 1387, traendolo dalle filze del Notaro Foglietta che si conservano nell’ Archivio dei Notai (1). È questo un documento della massima importanza. Diviso in plebanie esso indica in poco, quali erano a quei giorni, e quali chiese avessero a se soggette, quali le maggiori fra esse, e per una grandissima parte delle chiese tuttora in piedi è prova di esistenza da oltre cinque secoli, e tra parrocchie, cappelle succursali e monasteri ci dà il nome di ben 363 chiese. Alla pubblicazione di questo prezioso titolo cresce merito la traduzione di cui corredollo il chiaro paleografo indicando a quali luoghi oggidì corrispondano quei nomi in gran parte antiquati, e a leggersi in quelle vetuste carte tutti quanti difficili. Ora un altro documento di consimil natura ci venne fatto di scoprire in quel medesimo archivio, e tra le filze del prefato Foglietta indicatoci dalle Relazioni di parecchi parrochi indagatori di storiche memorie delle loro chiese (2). Questo (1) Vedi, Atti della Società Ligure di Storia Patria , vol. II, part. I, pag. 377.· ■ (2) Dietro facoltà benignamente concessaci dalla competente autorità potemmo consultare per storiche ricerche le Rela^'oni di ben oltre 1000 parrochi, scritte dal 1735 al 1869, e non trovammo che soli cinque di 4 GIORNALE LIGUSTICO nuovo documento ha nome Syndicutus, ed è una procura che il clero dell’Archidiocesi nostra faceva in Notaro Leonardo da Garibaldo li 7 giugno 1311 indizione nona a Prete Rollando della Pietra cappellano della Metropolitana. Come ognuno vede esso è di 76 anni anteriore a quello che riguarda la Tassa d’ Urbano, ed ha altre particolarità che lo rendono prezioso. Esso ci di distinte le chiese della città di allora (ristretta tra le porte di S. Andrea e dei Vacca), de’ sobborghi e della Diocesi. Esso ne porge i nomi di 26 Arcipreti e molti parrochi, e colla mancanza delle pievi di Gavi e di Pastorana, ne fa conoscere che queste non appartenevano in allora alla Diocesi di Genova. Il catalogo per la Tassa del 1387 vincerà questo per il maggior numero di chiese che nomina avendo la tassa colpito non solo le parrocchie ma anche i monasteri, e le più piccole cappelle che allora esistevano. Lo vincerà anche per la Plebania di Varese in esso distintamente indicata colle sue chiese suffra-ganee, dove invece nel Syndicatus è accennata appena in complesso. Da questi due svantaggi in fuori esso sta ottimamente a fianco di quello e si appoggiano e si rischiarano a vicenda con utile grandissimo d’entrambi. Peccato che sia stato fin qui così poco conosciuto ! Noi lo consegniamo qui volentieri alla stampa, e pensiamo di far un dono gradito a tutti che amano le antiche cose. Uniamo al testo una non traduzione ma indicazione de’ luoghi col loro nome e condizione attuale per quanto possiamo sull’ esempio di quanto fece con tanta uti- essi i quali ci mostrassero aver avuto cognizione di si importante documento. Volentieri ne registriamo i nomi. Lo conobbero nel 17/1 il Rett. di Carrodano soprano Alzari Pietro — nel 1769 Γ Arciprete di Framura Guidi Domenico — e P Arciprete di Moneglia Figari Giacomo— nel 1824 il Prevosto di Ziona Garibotti Gio-Batta — e nel 1838 l’Arcip. di S. Cipriano Perazzo Angelo. GIORNALE LIGUSTICO 5 lità il Cav. Belgrano stampando la nota della Tassa d’ Urbano. Se in qualche parte di questo nuovo documento ci staccheremo dalle indicazioni da lui date in quel primo, il lettore ne avrà le ragioni in nota. Prete Angelo Remondini. Syndicatus cleri januensis, ex libro Leonardi de Garibaldo 13 io in 1311 folio 35. In Nomine Domini Amen. i. Dominus Iohannes de Bagnarla archidiaconus januensis. Fr. Bernardus Abbas Monasterii S. Syri. Fr. Guillelmus Abb. Mon. S. Ste-phani Ian. Fr. Bernardus Abb. Mon. S. Fructuosi de Capite Montis. 5. Fr. Paganus Abb. Mon. S. An-dree de Brosono. Fr. Rollandus Abb. Mon. S. Venerii de Thiro jan. diec. Presbit. Henricus Ossus; presb. Franciscus de Bobio, et presb. Iacobus de Zignaculo, et presbit. Henricus de Castelliono canonici S. M. de Castello. Obertus prepositus S. Donati. Presb. Clariel, magister Petrus, Luchinus Passius, et Gregorius de Cognollo canonici S. M. in Vineis. 10. Rollandus Prepositus S. Ambrosii. Ansaldus Prepositus S. Georgii. Metropolitana di S. Lorenzo in Genova. S. Siro Monastero allora dei Benedettini ora Prevostura secolare. S. Stefano Mon. dei Benedettini ora Prevostura secolare. S. Fruttuoso di Capodimonte dei Bene ditt. ora Abba^ia dei Doria a Camogli. S. Andrea di Borzone già de’ Bene-dett. ora parrocchia. S. Venerio nell’isola di Tino Mon. di Beneditt. ora distrutto. S. Maria di Castello allora collegiata ora parrocchia e conv. dei PP. Predicatori. S. Donato prevostura. S. Maria delle Vigne collegiata. SS. Ambrogio ed Andrea prevostura. S. Georgio Prevostura. 6 GIORNALE LIGUSTICO Philippus Prepositus S. Petri de Porta. Accursus Prep. S. Damiani. Ambrosius Prep. S. Nazarii de Parazollo. 15. Conradus Prepositus S. M. Mag-dalene. Fr. Andreas Prior S. Mathei. Fr. Marchisius Prior S. Sabine. Presb. Ottobonus min. S. Salvatoris de Sarzano. Presb. Iohannes min. S. Crucis. 20. Presb. Armanus min. S. Pauli. Presb. Guilielmus min. S. Luce. Presb. Pinus min. S. Pancratii. Presb. Nicolaus min. S. Marcellini. Presb. Ruffinus capellauus monasterii S. Andree de Porta. Ianue Ecclesiarum. 25. Presb. Iohannes min. S. Vin-centii. Presb. Iohannes min. S. Martini de Via. Presb. Daniel min. S. Iacobi de Calignano. Presb. Hugo min. S. Nazarii de Albario. Presb. Ianuynus min. S. Vieti de Albario. S. Pietro della Porta Prev. in Banchi. SS. Cosma e Damiano Prévost. S. Nazaro Prev. ora S. M. delie Grafie. S. M. Maddal. prev. e Casa dei So-maschi. S. Matteo già Beneditt. ora Abb. dei Doria. S. Sabina già Beneditt. ora Prior. secolare. SS. Salvatore Prev. in Sarzano. S. Croce Rett. in Soriano ora soppressa. S. Paolo Rett. iti Campetto ora soppressa. S. Luca Rett. ora Prévost, degli Spinola. S. Pancrazio Rett. dei Pallavicini. S. Marcellino Rettoria. S. Andrea Monast. e già parrocchia delle Lateranensi, ora pubbliche carceri. Sin qui delle Chiese di Genova. S. Vincenzo Rettoria, traslocata a S. M. di Consolaiione dei PP. Agostiniani calli. S. Martino de Via, poi S. M. della Pace dei PP. Min. Rif. da poco soppressa. S. Giacomo di Carignano Prioria. S. Nazaro d’Albaro Rett. traslocata a S. Francesco dei PP. Conventuali. S. Vito in Albaro, chiesa esistente ma soppressa. GIORNALE LIGUSTICO 7 30. Presb. Ugo min. S. M. de Quecio. Presb. Stephanus min. S. Bernardi. Fr. Guilielmus *prior S. M. de Quetio. Fr. Guilielmus de Novaria prior S. Iohannis de Pavarano. Presb. Petrus min. S. Margarite de Marassio. 35. Presb. Antonius min. S. Antonini de Orpalatio. Presb. Obertus min. S. Bartolomei de Staiano. Presb. Vincentius min. S. Michae-lis de Melli. Presb. Martinus min. S. Agnetis. Fr. Guilielmus prior S. Sixti. 40. Fr. Bestagnus prior S. Antonii. Presb. Matheus de Portu Mauritio capellanus et syndicus Mon. S. Thome. Fr. Petrus Imbertus prior S. Mi-chaelis. Fr. Hieronymus prior S. Theodori. Fr. Rainerius prior S. M. de Priano. S. M. di Quezzi Rett. in Bìsagno. S. Bernardo in Peraldo , da poco chiesa e convento di Cappuccini presso le Porte di S. Bernardino. S. M. d’Albaro già dei Mortuariensi ora Abbazia dei De-Fornari (1). S. Gio. Batta di Paverano già dei Mortuariensi ora Ricovero di Mendicità. S. Margarita di Marassi Rett. e Cònv. dei PP. Minimi. S. Antonino m. d’Or palazzo Rett. a Casamavari. S. Bartolomeo di Staglieno Rett. S. Michele di Mermi Prior. di Mon-te^iguano, ma la chiesa vecchia. S. Agnese Rett. traslocata alla Prioria di S. M. del Carniine. S. Sisto Prior. de Benedittini, ora secolare. S. Antonio Abb. a Pr'e già dei Le-rinensi, ora Abbazia secolare. S. Tomaso monast. di Benedettine e Rettoria, ora secolare. S. Michele di Fassolo, parrocchia ora unita a Granarolo, e la chiesa spianata là dove sorge la stagione ferroviaria occidentale. S. Teodoro Prioria dei Lateranensi, ma la chiesa vecchia spianata. S. Maria del Priano a Bor\oli annessa a S. Teodoro, ora Sant.» di Virgo Potens a Sestri di ponente. (l) La parola de Quetio è errore dell’amanuense invece di de /libario perchè S. Ai. de Quetio è gii indicata al N.° 30: ed infatti nel documento del 1387 d’Urbano VI al N.° 34 corrispondente a questo, leggcsi ecclesia S, Marie de dibario. 8 GIORNALE LIGUSTICO 45. Fr. Alexandrinus prior de Gra-narolio. Suburbiorum civitatis. Et diocesis. Nazarius Archipresbiter Plebis S. Martini de Irchis cum infrascrip-tis ministris capellarum dicte plebis. Presb. Conradus minister S. Fructuosi de Bisamne. Presb. Petrus min. ecclesie S. Celsi de Sturla. Gulielmus Archipr. Plebis de Ner-f ... vio cum infrascriptis ministris capellarum dicte plebis. 50. Presb. Percival min. ecclesie S. Iohannis de Quarto. Presb. Supramons min. ecclesie S. M. de Quarto. Presb. Martinus min. ecclesie S, Petri de Quinto. Presb. Franciscus min. ecclesie S. Ilarii. Simon Archipr. Plebis S. Michae-lis de Sauro cum infrascriptis ministris capellarum dicte plebis. 55. Presb. Gayaldus min. ecclesie S. Margarite de Burgo et S. Apolinaris. Presb. Iacobus min. ecclesie S. Petri de Cravano. Presb. Nicolaus min. ecclesie S. M. da Caneva. Minister ecclesie de Besenego. Granarolo S. Maria dei Mortuarensi ora succursale della Prioria di S. Rocco. Sin qui dei Subborghi della Città. # Ora della Diocesi. Pieve di S. Martino de Ircis ora di Albaro. S. Fruttuoso del Bisagno Rett. ora Prévost, in Terralba. S. Celso di Sturla ora Oratorio dei SS. Naturo e Celso. Pieve di Nervi 5. Siro Vesc. S. Gio. Batta di Quarto Prévost. S. Maria di Quarto, ora S. Maria della Castagna Prévost. S. Pietro di Quinto, ma la chiesa vecchia ivi rifatta, Prévost. S. Illario di Nervi Prévost. Pieve di S. Michele di Sori. S. Margarita del Borgo di Sori, Arcipret. S. Apolinare di Son Rett. già annessa a S. Margarita. S. Pietro di Capreno Rettoria. S. Maria di Canepa Rett. Busonengo S. Bartolomeo Rett. GIORNALE LIGUSTICO 9 60. Nicola (sic) Archipr. Plebis de Recho cum infrascriptis ministris capellarum dicte plebis. Presb. Iohannes ecclesie S. M. de Muegio. Antonius ecclesie S. Martini, de Polanexi. Presb. Guilielmus min. ecclesie S. Margarite de Testana. Presb. Nicola (sic) min. ecclesie S. Petri de Avegnio. 65. Philippus Archipresb. Plebis de Camulio. Presb. Vasallus min. ecclesie S. Michaelis de Rua. Iacobus Archipresb. Plebis de Rapallo cum infrascriptis ministris capellarum dicte plebis. Presb. Gandulfus Prepositus ecclesie S. Stephani de Rapallo. Presb. Obertus min. ecclesie S. Michaelis. 70. Presb. Guilielmus min. ecclesie S. Margarite de Pessino. Minister ecclesie S. Iacobi de Castelletto. Min. ecclesie S. Marie de Noza-rico. Min. ecclesie S. Martini de Portu Delfino. Min. ecclesie S. Syri. 75. Min. ecclesie S. Laurentii. Min. ecclesie S. Maximi. Min. ecclesie S. Marie de Campo. Min. ecclesie S. Petri de Noella. Min. ecclesie S. Andre,e de Foxa. 80. Min. ecclesie de Axereto. Min. ecclesie de Monte. Pieve di Recco S. G io. Butta ma la chiesa antica ivi ricostrutta. S. Maria di Megli Rettoria. S. Martino di Polanesi Rett. S. Margarita di Testana Rett. S. Pietro d’Avegno Rett. Pieve di Camogli S. Maria, ma la chiesa antica ivi ricostrutta. S. Michele di Ruta Arcipr. ma la chiesa vecchia esistente e fuori d'uso. Pieve di Rapallo SS. Gervasio e Pro-tasio fratelli mm. S. Stefano di Rapallo ora Oratorio. S. Michele di Pagana ma la chiesa vecchia ivi ricostrutta, Prévost. S. Margarita-Ligure di Pessino, via la chiesa vecchia ivi ricostrutta, Arcipretura. S. Giacomo di Corte Prévost. S. Maria di Nozarego Rettoria, ma la chiesa vecchia. S. Martino di Portofino Arcipr. S. Siro di Rapallo Prévost. S. Lorenzo della Costa Rett. S. Massimo di Rapallo Rett. S. Maria del Campo Prévost. S. Pietro di Novella Rett. S. Andrea di Foggia Rett. Assereto S. Quirico Rett. Monti S. Maurizio Rett. IO GIORNALE LIGUSTICO Min. ecclesie S. Ambrosii. Min. ecclesie S. Martini de Zoalio. Min. ecclesie S. Petri de Robo-reto. 85. Ansaldus Archipr.'Plebis de Ple-cania cum infrascriptis ministris capellarum dicte plebis, λΐΐη. ecclesie S. Michaelis de Solio. Min. ecclesie S. Ambrosii de 01-ledo. Min. ecclesie S. Andree de Verzi. Min. ecclesie S. Margarite de Mo-conesi. 90. Min. ecclesie S. Martini de De-serega. Min. ecclesie S. Nicolai de Co-relia. Magister Iohannes de Neo canonicus et Sindicus Plebis Lavanie cum infrascriptis ministris capellarum dicte plebis. Min. ecclesie de Stubiverio. Min. ecclesie S. M. de Themusio. 95. Min. ecclesie S. Stephani de Ple-cherio. Min. ecclesie S. M. de supra Cruce. Min. ecclesie de Collereto. Min. ecclesie S. Iohannis de Sum-movico. Min. ecclesie S. Michaelis de Vi-gnollo. 100. Min. ecclesie S. Columbani de Bimbellio. Min. ecclesie de Zerli. Min. ecclesie de Breverio. S. Ambrogio di Rapallo Rett. S. Martino di Zoagli Prev. ma la chiesa vecchia. S. Pietro di Rovereto Arcipret. Pieve di Cicagna S. Gio. Batta. S. Michele di Soggio Rett. S. Ambrogio d’ Orerò Rett. S. Andrea di Verzi Rett. S. Margarita di Moconesi Rett. S. Martino di Dezerega 0 Zerega. Rett. S. Nicolò di Coreglia Rett. Pieve di Lavagna S. Stefano, ma la chiesa vecchia ivi ricostrutta. Stibiveri S. Pietro succursale di Temessi. S. Maria di Temossi Rettoria. S. Stefano di Cichero Rett. S. Maria sopra la Croce Rett. Corerallo S. Margarita Cappella a Borgonovo. S. Gio. Batta di Sommovigo Cappella a Me%j(anego. S. Michele di Vignolo Rett. S. Colombano di Bimbellio ora Vignale Rett. Zerli S. Pietro Rett. Drevegno già parrocchia ora frazione GIORNALE LIGUSTICO Min. ecclesie de Sambuxeto. Min. ecclesie S. Marie de Neo. 10$. Min. ecclesie S. Nicolai de Palio. Min. ecclesie de Monte. Min. ecclesie S. Marie de Monti-cello. Min. ecclesie de Bercanecha. Min. ecclesie S. Colombani de Costa. i io. Min. ecclesie S. Andree de Ro-boreto. Min. ecclesie de Maxena. Min. ecclesie S. Iohannis de Cla-vari. Min. ecclesie de Levi. Min. ecclesie de Levi. 115. Min. ecclesie S. Michaelis de Rio. Min. ecclesie de Capellana. di Camminata SS. Martino e Reparata Rett. (i). Sambuceto S. Cipriano Rett. S. Maria di Nè Rett. S. Nicolò di Paggi Rett. Montedonio già parrocchia ora frazione di Garibaldo o Chiesa nuova S. Biagio, Arcipret. (2). S. Maria di Monticelli Rett. Breccanecca S. Antonino m. Rett. S. Colombano della Costa Succursale di Monticelli. S. Andrea di Rovereto Arcipr. Maxena S. Martino Rett. S. Gio. Batta di Chiavari Arcipret. ma la chiesa vecchia ivi ricostrutta. Leivi S. Bartolomeo Rett. (3). S. Tomaso del Curio succursale di S. Bartolomeo di Leivi (4). S. Michele di Ri Rett. Caperana S. M. Maddalena ora distrutta e surrogata da S. Marga-garita Rett. (1) Nel· documento 1387 al n.° 131e scritto ecclesia de %Avenio per 146, 327. GIORNALE LIGUSTICO per fermo a contentare chi ricerca la dottrina, gli studi, i giudizi per dedurne le benemerenze verso la scienza e la società. Nè io mi propongo di rivendicare questo dotto illustre dall’immeritata dimenticanza, chè a ciò richieggonsi studi peculiari delle scienze naturali, e larga conoscenza degli avanzamenti in che sono venute fino a noi, per quei giudizi comparativi indispensabili oggi in siffatti lavori ; mi starò solamente contento, se queste mie parole potranno essere sprone ad altri per accingersi all’ impresa. La buona ventura mi pose fra mano due libercoli, dove il Viviani andava notando ricordi e memorie di varia ragione, e mi parve che spigolando in essi, ed anco nelle sue scritture, poteasene trarre alcunché di nuovo e non inutile a far conoscere il carattere dello scrittore, spoglio della toga dottorale dello scienziato. I. Un oscuro paesello, Legnaro, posto in mezzo a quei monti della riviera orientale, che il Giovio notava per la loro asperità, ed al quale mal s’accedeva se non dal mare per mezzo della calata del vicino Levanto, chè le strade ben poteano dirsi coll’Alfieri rompicolli, ebbe l’onore d’essere culla di questo acuto intelletto, uscito lassù di piccola gente, quasi a confortare il proverbio che vuole derivata la scienza dal monte , e bilancia la mente sottile colla grossezza delle scarpe. Non gli fu la fortuna nè avversa, nè seconda, ma solo concesse alla famiglia di fargli imparare dal prevosto i primi rudimenti; e poiché il giovanetto si mostrava volenteroso agli studi, s’ avvisarono i suoi mandarlo ogni giorno a Levanto municipium nobile magis quam vetustum, come lo dice il Bra GIORNALE LIGUSTICO 23 celli, dove la munificienza dei Passano, (uno dei quali, Gioachino, si narra insegnasse a Enrico Vili d’Inghilterra, giuo-cando agli scacchi, a guerreggiare e vincere il re di Francia), avea istituito scuole che oggi si direbbero ginnasiali, ed allora diceansi molto modestamente di grammatichetca, d’ umanità e di rettorica. E volean proprio dire costanza rara e amor vero allo studio, quelle non brevi gitarelle quotidiane dalla collina ove risiede il suo casale, alla terra di Levanto; ma io m’ argomento che siccome non furono invano pel giovinetto in ordine alle discipline classiche, cosi gli tornarono forse utili pel futuro magistero del botanico , avendo risvegliato in lui quel riposto spirito d’osservazione sulle produzioni della natura, che è sprone ai più nobili sentimenti e che nella educazione moderna, checche si dica, viene pur troppo e con grave danno trascurato. La natura provvidamente ha fornito Γ uomo di quel vivo desiderio d’investigazione, che lo trascina fanciullo a spezzare i giuocatoli, a disertare le aiuole del giardino riducendo in minuzzoli i fiori, a tempestare di domande e di perchè la povera mamma, e tuttociò non già, come erroneamente si crede, per la mania di devastare o distruggere o di noiare altrui, ma per sete di sapere. Ond’ è che mal s’ argomentano certi, e forse troppi, educatori nel cercare di spegnere quella fanciullesca bramosia; chè dovrebbero invece aver cura di spogliarla da ogni eccesso e ridurla ordinata e proficua. Il garzoncello uscito dalla scuoia del Righetti, pieno Γ a-nimo delle melanconiche immagini d’ Ovidio , della gaia atticità d’ Orazio, e della ineffabile dolcezza campestre di Virgilio, do vea già fin d’allora affissare con una grande compiacenza quei poggi, que’ fiori, quelle verzure , quelle piante , quegli animali, che ben gli ricordavano gli scolpiti ed efficaci versi del mantovano. E quanto sentisse addentro siffatte bellezze ci venne da lui stesso manifestato più tardi, quando a 24 GIORNALE LIGUSTICO ragione scriveva al Padre Solari: « Per limitarmi a Virgilio, ardisco dire, che fra gli scrittori de’ suoi tempi nessuno ve n’ha, che sotto il velo della poesia abbia più di lui lasciato travedere un vasto fondo di cognizioni nelle scienze naturali. Le Georgiche principalmente, sono il poema dove queste ricchezze dell’ingegno di Marone si mostrano più allo scoperto, e trasfondono nella poesia quel genere di sublime che spira sempre lo spettacolo delle cose' create, soddisfacendo a un tempo la fantasia e la ragione ». Nè ci dovremo poi meravigliare, se il vedremo adulto dettare alcune sue scritture con facilità anco elegante, in quella « bella lingua latina » eh’ ei lamentava « barbaramente privata del diritto di essere il linguaggio universale dei dotti », e del cui studio s’incomincia oggi a sentire nuovamente il bisogno. Cosi potremo intendere da quali principii derivasse la conoscenza profonda dei classici antichi, onde ci porgono prova tutti gli scritti suoi; nè de’ soli autori Latini, ma de’ Greci altresi, essendosi fin da giovinetto avventurato a ridurre in non spregevole metro volgare il difficilissimo Anacreonte. Alcuni ed importanti suoi lavori mostrano come gli fosse famigliare eziandio la lingua francese, la quale ei reputava però non dovesse essere studiata a scapito della italiana; e ciò liberamente e pubblicamente bandiva nel 1802, quando la Liguria era, non anche di diritto, ma di fatto, soggetta alla Francia. Coni’ ei facesse servire l’erudizione classica, a chiarire ed illustrare i prediletti suoi studi di storia naturale ben si pare, a non dire d’ altri, dal Lessico zoobotanico posto a corredo della traduzione delle Bucoliche e Georgiche di Virgilio, fatta dal Padre Solari (1), da un notevole articolo critico sul Bisso degli antichi (2), e dai molti studi di geografia e bota- (1) Sta nel voi. 3 delle Opere di Virgilio, Genova 1810. (2) Nella Biblioteca Italiana , LXXXI, 94. GIORNALE LIGUSTICO 2S nica comparata, inseriti dal Della Cella nel suo Viaggio di Tripoli (i). « Uscito da quella età, dirò aneli’ io colle sue parole, in cui la passione per lo studio è facile a confondersi col timore che ispira la sferza pedantesca, non tardò a spiegare assieme ad una non ordinaria prontezza d'ingegno, quella irrequieta vaghezza di apprendere, che non avendolo abbandonato giammai nel rimanente di sua vita, di tanto accrebbe e dilatò la messe delle sue cognizioni » (2). Però fu sì grande il frutto eh’ ei trasse dalle lezioni del Canovai e del Ricca, del Semenzi e del Mascagni nella Università di Siena, dove avea ottenuto un di que’ posti gratuiti istituiti da Domenico Ri-varola, che superati a Roma con plauso gli esami venne laureato dottore in medicina. Ma non doveva professare questa disciplina; ed è curioso il rilevare, come fallitegli le prime prove nell’ umile suo villaggio , abbandonasse quell’ arte dedicando tutto se stesso alla sua botanica. Chi sa con quale opinione d’ignorante usciva dalla sua terra quell’ uomo, che doveva quind’ innanzi levare tanta fama di sè! La sua autorità anche in questa precipua parte delle scienze fisiche gli consentiva tuttavia quella libertà di giudizio che riesce sempre male accetta, ove non derivi da uomo altamente stimato, e la cui vasta erudizione e dottrina non gli conceda incontestata supremazia. Non dubitava infatti affermare al cospetto di molti colleghi in una pubblica adunanza della società Medica d’ Emulazione, della quale era allora segretario, che il Gibelli, di cui tesseva 1’ elogio, « penetrato della vastità della scienza, cui s’era per tempo dedicato , si andava preparando a batterne 1’ arduo sentiero, con (1) Genova, 1819. (2) Nell’Elogio del Gibelli, Memorie della Società medica di emulazione, Genova 1802, I, 2.0 quadrimestre, p. XIV. 26 GIORNALE LIGUSTICO quel vasto e vario corredo di cognizioni, senza le quali un medico non differisce dal vero ciarlatano, che nell’ aversi comprato in un fastoso diploma la facoltà di ammazzare impunemente i suoi simili» . Stigmatizzava quei medici « che non avendo bastante coraggio per affrontare » i pazienti e profondi studi analitici che guidano alla scoperta del vero, trovano bene « di spacciarli per inutili » ; bandiva senza timore che nello stato in cui allora si trovavano le scienze in Genova molte lacune ingombravano ad ogni passo il sentiero della medicina; nè si peritava di chiamare insolente e baldanzosa la rivoluzione medica Browniana che proruppe nelle scuole di Genova, giudicando con rara acutezza gli eccessi dei novatori e degli antichi. E ben potea dirla di tal sorte siffatta contesa, dacché, com' egli argutamente accenna, delle dispute che si accendevano allora fra i medici, era talvolta giudice in ultimo appello quella .....più forte ragion che nelle selve Han sulle miti le più forti belve (i). Uomo veramente erudito, e sempre pronto a porre a cimento del pubblico i nuovi trovati e i risultamenti dei suoi profondi studi, non poteva sostenere la baldanza di coloro, che pretendono darsi voce di dotti con ciance speciose; imperciocché sentenziava, come « a voler acquistare dei diritti sull’ assenso del pubblico, non bisogna svaporare tutta la sua erudizione in qualche spezieria, ma bensì produrre colle stampe le proprie osservazioni al tribunale dei dotti ». Così dotato d’ una mente sintetica, si studiava esporre le sue dottrine con (i) Elogio cit. passim. — A che grave condizioni fosse ridotta la scienza medica e farmaceutica può vedersi anche da una nota a pag. 18 del suo Voyage dans les Apennins de la Ligurie, Gênes 1807, ed anche nella Storia dell’ Università, II, 134. GIORNALE LIGUSTICO 2? facile e chiara favella in uno stile succoso e stringato, ed irrideva coloro che « ghiotti delle lunghe tirate » , amano « veder diluiti i fatti in una larga e acquosa dissoluzione di parole » (1). II. L’ opera che prima valse a procacciargli non piccola fama anche presso gli stranieri, furono quelli Annali di Botanica editi e compilati interamente da lui dal 1802 al 1805 , che non andarono poi oltre il terzo fascicolo. Si fatta pubblicazione derivò dalla elezione eh’ ebbe il Viviani di professore di botanica alla Università, e coincide colla compra della villetta per opera di Gian Carlo di Negro, il quale la rese poi si rinomata. Egli era stata venduta col patto che per 6 anni, con parte del prezzo, stipendiasse il professore di botanica; e da qui nacque quel giardino botanico che levò qualche grido, fino a che, per opera del Viviani stesso, cessata ogni obbligazione da parte del Di Negro, non ebbe principio quello assai più vasto della Università. L’impresa del non dar fuori gli Annali alla quale si era accinto non procedeva con lieti auspici, chè non gli riusciva sempre vincere gli ostacoli ne’ quali incontravasi, donde i maligni ed i nemici, che non avevano nè dottrina nè animo per combatterlo a viso aperto, traevano argomento per muovere sospetti sopra la sua onestà. Ed ei se ne doleva col celebre Gaetano Savi, aprendogli i suoi intendimenti intorno a’ lavori da lui divisati, ed agli studi eh’ egli si proponeva ; e tanto deferiva all’ autorità di quel dotto che si dichiarava (1) Gintanner , Trattato delle malattie dei bambini e della loro educazione fisica coll’ aggiunta di un articolo sull’ innesto della vaccina, trad. da D. Viviani., Genova 1801, nella pref. all’ innesto ecc. 28 GIORNALE LIGUSTICO tranquillo se pro cuncto popolo avesse avuto a suo favore il giudizio di lui (i). La pubblicazione di un giornale specialmente scientifico, non è il più lieto carico per chi vi presiede; non lo è oggi che la fecondità giornalistica ha raggiunto un alto segno nella storia tipografica, molto meno allora, in quelli anni agitati da continui rivolgimenti politici. E le noie, le difficoltà si manifestarono imantinente a rendere disagiata Γ impresa del nostro Viviani, ond’ ei volendo rafforzare la dubitosa costanza aprendo , come suolsi, 1’ animo angustiato all’ amico, « io certamente continuerò, dicea, gli Annali, quantunque tediosissimo lavoro, non dirò dal lato della fatica, che, benché grave, non la curo, ma per tutto quel che riguarda la stampa, le correzioni infinite, le dilazioni e i capricci degli stampatori ». A queste difficoltà si aggiungeva altresi « la irritabilità degli autori, che talvolta hanno la ridicola pretensione che un giornalista garantisca al pubblico i loro equivoci ». Ed una dolorosa prova di siffatta verità egli aveva avuta di recente, in persona d’un amico e cooperatore, il Bertoloni. Annunziando negli Annali 1’ opera di questi Plantae genuenses quas annis 1802 180] observavit et recensuit, dopo averla meritamente lodata, con l’usata franchezza, e con quell’ autorità che già gli era consentita dall’ universale > si faceva a notare alcune mende in cui era caduto Γ autore ; il quale togliendo opportunità da una specie di Veronica descritta dal Viviani nei Fragmenta florae italicae, con una sua nota edita nel Giornale dei letterati di Pisa criticava l’a-mico, mal celando la concitazione dell’ animo suo. E il dotto ed onesip uomo così ne scriveva al Savi : « Avea egli a (1) Debbo alla cortesia del mio amico, l’illustre prof. D’Ancona la copia delle lettere del Viviani al Savi, gli eredi del quale ne furono benignamente liberali. GIORNALE LIGUSTICO 29 dolersi di me per la maniera con cui è stato trattato nei miei Annali ? Non era già un onore per lui Γ entrare a parte di un’ opera, destinata a rendere conto dei travagli dei più grandi botanici? I maligni suggeriscono aver io fatto ciò per mera volontà di criticarlo. Ecco quel che è falso. Si veda il giudizio che ho portato sulla massa del suo lavoro, e si dica poi che io sono stato ingiusto. Certo che mi son creduto in dovere di dire il mio parere sul punto di molte specie, nelle quali io dissentivo da lui. E questo era tanto più necessario in me, che abitando nello stesso luogo, il mio silenzio era lo stesso che partecipare lo sbaglio. Si duole per la Agronica cymballarifolia, e il giornale di Pisa, che pare che in questa occasione partecipi della cecità della folla de’ gazzettieri, che per tutta giustificazione degli articoli che pubblicano, rispondono che tali sono stati a loro scritti, il giornale di Pisa, dico, senz’altro esame s’incarica di una nota contro l’autore degli Annali. Ma la Veronica in questione non è scoperta nè mia, nè di Bertoloni, non è mio il nome di cimballari-fólia, nè posso avere avuto il progetto di far mia una specie che riporto col nome degli altri. Vedete che buona tela per una risposta, ma io non entro in pettegolezzi, sicuro che la mia ragione non risulterà mai di più, che appunto dopo la lettura della nota di Bertoloni. In quanto a lui poi io gli protesterò sempre la mia stima, nè declinerò mai dai sentimenti che ho esternato altre volte al pubblico sulle sue produzioni ». Molti anni più tardi ebbe il Viviani nuova cagione di polemica col botanico sarzanese, intorno al citato Bisso degli antichi, e la sua memoria che può dirsi un modello di vivace e stringente critica, palesa una profonda cognizione della Bibbia e di tutti gli scrittori antichi, greci e latini, non solo nelle loro opere originali, ma eziandio nelle più insigni traduzioni ed interpretazioni storiche e filologiche. E che tanta 30 GIORNALE LIGUSTICO e si svariata erudizione non fosse in lui superficiale lo dimostra il fatto di questa critica stessa, la quale è tessuta sulle note fatte col lapis, secondo era suo costume, in margine alla scrittura del Bertoloni, e che si veggono evidentemente gettate giù a mano corrente ad una prima lettura. Non si dee credere tuttavia che fra i due illustri scienziati durasse alcun sentimento di animosità; e se ne trae la prova dalla lóro amichevole corrispondenza non troncata che dalla morte. Nella quale è bello il veder confermata da parte del Viviani quella stima eh’ egli afferma nutrire verso il suo collega nella citata lettera al Savi. In fatti non solo gli spediva tutte le scritture sue ma ne voleva intendere il suo giudizio. E quando nel 1824 dava fuori lo Specimen Florae Libycae mandandogliene un esemplare scriveva : « Sentirò con vero piacere e interesse il vostro autorevole giudizio sopra questo lavoro. Ormai è spenta in me quella tale irritabilità che quando si entra in carriera, massime nella prima gioventù rende tanto sensibile alla critica e agli elogi. Sono tante le cagioni di errori in questa scienza, alcune delle quali talmente legate alla 'oro esecuzione, che non bisogna poi nè troppo temere la critica, nè troppo trascorrere nel farla...... Qualche rara volta non ho potuto essere d’accordo con yoi, ma troverete sempre che queste tenui dissensioni in nulla attenuano, anzi sono vera conferma del giusto conto in cui tengo il vostro giudizio. In una parola spero che non sarete malcontento nè di me, nè forse del mio lavoro ; almeno so di aver fatto quanto ho potuto per renderlo accetto a’ coltivatori della scienza ». Ed avendogli il Bertoloni notato alcune cose, e più specialmente una critica fatta a lui stesso a proposito di una specie di Salvia, ei replicava: « Quanto alla critica di cui mi parlate, credo che vi sarete persuaso che avrei messo meno importanza a rilevare ciò che io ho per inesatto , se P equivoco fosse venuto da chi fa meno au- GIORNALE LIGUSTICO 3 I torità nella scienza » , e dopo aver accennato a più ragioni scientifiche intorno alla controversia, conclude : « Del rimanente credete voi che io sia persuaso di non aver commesso errori, e sviste, e altre si fatte cose nel mio lavoro? Ormai credo aver bastante sperienza in queste materie , e molto più ne avete voi per sapere quanto sia facile d’ incappare in una scienza irta di litigi e di difficoltà. Ho fatto tutto quello che ho potuto, ed ho lavorato in mezzo a difficoltà d' ogni genere , e con queste metto in prima linea le locali, che altri non conoscono, e che io sento potentemente. Il mio lavoro non sarà almeno sgradito a coloro che amano il progresso della botanica italiana, giacché non ho mai perduto di vista le piante nostre quando Γ occasione si è presentata , anche a costo, nè mi pare d’ essermi ingannato , d’ incontrare critiche , le quali se saranno mosse dallo schietto amore della scienza, le riceverò con vera e leale riconoscenza ». E nel-1’ anno successivo, disputando amichevolmente sopra i nomi e le specie di alcune piante da lui descritte nel Prodromo alla Flora di Corsica, edito sul cadere del 1824, dichiarava al Bertoloni: « Tutto questo abbiatelo detto non per tenacità di opinioni, ma puramente per la verità della cosa ; e siate certo che i vostri dubbi sono sempre per me possenti motivi per rivenire con diffidenza sopra le mie opinioni. Vi dirò di più che coll’ oggetto di profittare delle altrui cognizioni, mi sono fatto precedere dal Prodromo ; onde non solo non siate ritenuto nel dirmi la vostra opinione, ma vi prego di studiare le mie piante col progetto di trovarmi in fallo ; e de’ miei errori francamente avvertitemi che io intendo se ho peccato correggermi ». E finalmente mentre lo eccitava con ogni maniera di sollecitudini e di consigli a dar fuori la Flora italica, gli apriva la speranza di vedere meglio maturate in quest’ opera le sue idee intorno a certe piante graminacee già da lui descritte, e sulle quali non si trovava d’ accordo 3 2 GIORNALE LIGUSTICO col Bertoloni e conchiudeva : « Del rimanente voi sapete che le nostre dispute non tolgono punto a3 sentimenti che da tanto tempo ci legano in amicizia (i) ». III. Esempio insigne del modo col quale ei sapeva maneggiare la sferza critica, ce lo porgono alcuni suoi scritti contro al P. Nocca professore di botanica nella università di Pavia. Non reputava atti allo insegnamento gli Elementi di botanica da questi editi in servigio della gioventù, e si meravigliava come opera si fatta, fosse uscita da un Ateneo cosi ricco di piante e di libri attinenti alla scienza ; « di nuovo , ei diceva , vJ ha tale superfluità di tecnologia, che rimane dubbio se pe’ botanici, o per gli studiosi della lingua latina abbia quel padre professore compilato i suoi elementi » (2). Nella conoscenza della qual lingua dotta non si mostrava poi il Nocca molto esperto, ond’è che’il Viviani in una saporita critica ad altra opera di lui, si passava volentieri dallo esporre le sue osservazioni sulla latinità in che era dettata, « abbandonandola alla censura dei maestri delle piccole scuole, che la troverebbero grottesca, ridondante di barbarismi, ed anche deturpata da solecismi » (3). E qui l’opportunità mi consiglia a mostrare un altro aspetto del versatile ingegno di questo uomo singolare ; intendo della (1) Debbo alla 'gentilezza dell’ amico Pietro Franchini nipote del Bertoloni queste lettere, ch’egli ottenne dalla cortesia di suo cugino Signor Antonio Bertoloni possessore di tutta la corrispondenza dell’ insigne Botanico. (2) Principii element. di botanica di G. A. Cavanillas, trad. da D. Viviani , Genova 1803 nella prefaz. (3) su^a maniera d’ impedire la confusione che tien dietro alle innovazioni dei nomi, ed alle inesatte descrizioni delle piante in botanica, Milano 1801, (Anonimo). GIORNALE LIGUSTICO 33 sua perizia artistica. È noto come egli stesso non solo ritraesse dal vero le piante atte ad illustrare le sue pubblicazioni; ma coll’opera del bulino ne apprestasse eziandio l’incisione, e vi sovrapponesse poi con bella maestria i colori ; ed il Ca-nobbio ci afferma aver egli lasciati alcuni ritratti a matita, degni veramente d’ogni encomio. Le tavole di sua mano, çh’ egli produsse a corredo della sua opera Della struttura degli organi delle piante, gli procacciarono molte lodi e dagli stranieri e fra noi ; ma quelle che levarono alto grido per la loro precisione e bellezza, furono le molte poste fuori nel suo importante lavoro sui funghi (i), rimasto per disavventura incompiuto. E questa speciale attitudine, e dirò anzi eccellenza nell’ operare, non era scompagnata da un profondo sentire in fatto d’ arte , e da quell’ acuto criterio artistico , che gli consentiva, una singolare lucidezza e rettitudine nel giudicare. E poiché ne’ suoi giudizi la mente non sole afferrava con precisione il concetto, ma riusciva a padroneggiarlo sì da assecurarsi agevolmente contro ogni obbietto, così l’argomentazione appuntavasi spesso in certe argutezze saporite, che non sempre riuscirono misurate. La prova di quanto ho affermato mi è porta dalla già citata critica al Padre Nocca. « Quando un botanico », egli scrive , « ha fatto la mano obbediente per esprimere fedelmente gli oggetti, nessuno coglierà meglio di lui i caratteri che sfuggono al pittore più valente, o sono da lui ad arte trascurati, per non dar nel minuto, o, come dicono essi, nel secco. Ma a ciò ben fare egli è d’uopo conoscere dapprima quei caratteri, che essendo differenziali in une specie, meritano di campeggiare nella pianta, appunto come il protagonista di un quadro fra le altre figure che lo circondano. Egli è singolare che tutti i tronchi delle sue piante pare si divertano a marciare a zig zag, che è uno (i) I funghi d’ Italia, Genova, Ponthenier 1834. Giorn. Ligustico, cAnno VI. 34 GIORNALE LIGUSTICO spasso a vederli. Il P. Nocca indica col bel nome di grazia o scherzo coteste storpiature; ma è forza il dire che la sua grazia è ben diversa da quella raccomandata da quel celebre poeta E un po di grazia del Parmigianino. « Gli scorci che si è avvisato affrontare nelle foglie, hanno sempre abortito in una strozzatura. La loro inserzione, di tanto gran rilievo in botanica, è talmente male espressa, che è d’ uopo supporle attaccate su su pei rami a foggia di cerotti. Nell’ ornithogalum avendo preso un pessimo partito per mettere in vista i fiori , e pur volendo a tutto costo farne vedere uno dalla parte superiore, lo ha ficcato e intruso cosi sforzatamente per mezzo agli altri, che par che dica : 1 Venitemi a veder che son qua io. « Nel colorito si è tentata per verità una maniera ardita, e a grande effetto, nè essendogli bastato il bianco della carta per le parti illuminate, e il contrasto con gran masse, o dirò piuttosto macchie, ha sbiaccato qua e là foglie e fiori e quanto gli è venuto in pensiero di far rilevare. Si direbbe che il Padre Nocca voleva imitare la fiera e grandiosa maniera di Guercino , e gli è riuscita all’ opposto quella delle stampe del Marescandoli ». Quindi dopo aver detto che dalla sua critica lo studioso vedrà, quanta erudizione si richiede per scrivere di botanica soggiunge : « Il disegnatore si avvedrà che le leggi dell’ arte pittorica, sono talvolta in contraddizione con quelle che addi-manda la esattezza botanica, che i vezzi e le grazie della prima devono fino ad un certo punto sacrificarsi alla verità dell’ultima, e che fa di mestieri essere valente in amendue, per trasfondere anche ne’ quadri botanici quel bello che soffre la loro severa natura ». GIORNALE LIGUSTICO 35 • E le doti di che qui ragiona ben possedeva il nostro \^i-viani, il quale amò l’arte di vivo affetto, sì come, oltre quanto ho esposto, ce ne porgono testimonianza e le figure e i paesaggi , toccati fugacemente a lapis ne’ suoi due taccuini che mi stanno innanzi (i), e poche note cosi sul modo di restaurare le vecchie pitture a olio, come sulle leggi del disegnare le teste tratte da pubblicazioni scientifiche, nonché alcuni brevi giudizi dei quadri veduti nel palazzo reale di Torino, allorquando egli si recò in quelle città nel Luglio del 1832, come accennerò fra poco ; giudizi eh’ io reputo dicevole qui riferire. « Palazzo del Re. Appartamenti magnifici, grandiosi, veramente quali convengono a una reggia. Gli ornati a oro vi sono profusi. Il gusto è caricato , ma non di quel barocco che si osserva nelle chiese. Il compartimento dei siti è grandioso , comodo e ben concepito. Fra i quadri ammirai i quattro elementi dell’Albani. Quadri ammirabili ove tutta si sfoggia la poetica immaginazione dell’autore, nell’esporre colle più vivaci allegorie questi difficili temi. Tutto è fatto pel ministero di vezzosissimi amorini, di vaghe ninfe , di deità le più volte femminili. Tutti fan mostra delle vaghe forme dei loro corpi ignudi, delle più graziose mosse e giaciture, delle spiritose e poetiche invenzioni, con cui tutti concorrono a rappresentare la loro parte in questo dramma. —- Due quadri di Domenichino che rappresentano scherzi di putti, figura di grandezza naturale. Nulla di più bello o sia che si riguardi l’ammirabile disegno e bravura con cui son mossi, quanto l’impasto dei colori, e un effetto di luce che dà loro un rilievo ammirando. Non ne sono usciti di più belli dal pennello dell’ Albani, e se avesse avuto 1’ immaginazione di questi nel farli servire in poetiche composizioni, il titolo del- (1) Bibliot. Università di Genova, Mss. E. I. 58, F. VI. 10. 36 GIORNALE LIGUSTICO 1’Anacreonte della pittura si sarebbe aggiunto a quello dello Zampieri. — V’hanno varii quadri di Guido. Tali son detti nella guida, e tali son contemplati per la maniera propria di questo pittore. Ma v’ hanno spesso sifatte scorrezioni di disegno nelle estremità, che dubito assai sieno veramente originali. — Quadretto Ai Potter, di animali, vacche ecc. Bellissimo, pregiatissimo ». Queste, che sono veramente note di viaggio egli scriveva, com’ io dissi, nel 1832 quando deliberato di mandare in pubblico la grande opera sui funghi, desiderava ne fosse accettata la dedica dal re Carlo Alberto, il cui patrocinio invocava altresi per sopperire alla ingente spesa delle tavole illustrative. Già aveva ottenuto benigno accoglimento dal sovrano, il suo libro intorno alla Struttura degli organi delle piante, onde gli era venuto animo ad offrirgli questo nuovo lavoro da lunga pezza meditato. Chi si fa a leggere la prefazione di quest’ opera, nel vedere le testimonianze di gratitudine che 1’ autore porge al presidente dt\YAccademia delle sciente di Torino ed al Ministro dell’ interno, per P appoggio prestatogli nel far pago il suo desiderio, s’ argomenta che la cosa sia proceduta nel modo il più semplice. Ma non fu veramente cosi. Il racconto eh’ egli stesso ce ne ha lasciato, e che si rivela scritto in quel subito, mentre da un lato ci pone sottocchio le difficoltà e gli ostacoli che gli si pararono innanzi, ci ritrae altresi lo avvicendarsi in quel suo animo timido e sospettoso per natura, della speranza, del timore, dello sconforto. Eccolo : « Oggetto del mio viaggio a Torino nel luglio del 1832. Di ricordare a S. M. la sua alta promessa di accettare la dedica del mio lavoro sopra i Funghi italiani, del quale portai meco 105 circa tavole condotte a perfezione. La mattina del mio arrivo il i.° luglio ebbi cordiale udienza da S. E. il conte Balbo. Pel buon successo del mio progetto, mi consiglia di GIORNALE LIGUSTICO 37 coadiuvarmi del mezzo del cav. De Gubernatis, e del conte Cesare Saluzzo. Accolto la stessa mattina cortesemente dal primo di questi, messe sotto i suoi occhi le mie tavole, ne rimane molto soddisfatto, e mi promette parlarne col maggiore interesse fino dalla stessa mattina a S. M., che partiva il giorno stesso per la sua campagna di Racconigi. Mi consiglia però di passare pel canale legale del conte Lescarena, ministro dell’ interno. Fui da questi il giorno dopo; ma noi potei vedere. Ritornatovi il di appresso, gli presentai il mio libro sulla struttura e funzioni ecc. Gentilissimo nell’accoglienza. Mi domandò egli stesso notizie della mia opera. Colsi il momento per dichiarargli essere questo Γ oggetto della mia venuta a Torino. Lo messi in chiaro di ciò che intorno ad essa era stato fatto presso S. M., lo pregai di voler concorrere a dar 1’ ultima mano a questo affare, e perchè potesse parlarne con più cognizione di causa a S. M., me gli offersi di fargli vedere le mie tavole. Fu fissato 1’ appuntamento al giorno dopo. Volle vederle dalla prima all’ultima, e mi as-assicurò che dal canto suo si sarebbe caldamente adoperato. Desiderava sapere la somma che sarebbe stata necessaria. Non seppi precisarla. Si esibì egli stesso di mettere sottc gli occhi di S. M. il mio lavoro. Io gli esternai allora il desiderio mio di passare a ossequiare S. M. a Racconigi, e che in questa occasione avrei portato meco le tavole. — Bisogna che domandiate prima un’ udienza che difficilmente accorda in campagna. Ve la farò domandare pel ministro degli esteri Della Torre, che dee recarsi domani a Racconigi e sarete informato di tutto venerdì. — Intanto ritenne le tavole. Al venerdì mi dice che l’udienza, come già mi aveva prevenuto, non mi è concessa. — Ebbene, non potrei essere meglio supplito nel trattare la mia causa che da V. E. — Aggiungo che da un calcolo fatto all’ ingrosso sulla spesa, crederei che con 6ooo franchi si sarebbe potuto fare eseguire Γ opera in 38 GIORNALE LIGUSTICO cento tavole, che pel suo proseguimento si sarebbe in seguito provveduto. Pare discreta la mia domanda. — Mercoledì mattina sarete informato dell’ esito. — Mi viene lo scrupolo che le mie tavole prezzo di tante fatiche, soggetto di tanta affezione, possano essermi trattenute, disperse, e che so io. La ripulsa del re a non accordare un’udienza a chi viene espressamente da Genova mi abbattè lo spirito, e temo qualche cabala a mio scapito. Grandi ambasce in tutti questi giorni d’intervallo. Il lunedì mi determino a passare ancora dal ministro, per supplicarlo di riportarmi le tavole. Pel timore di non essere ricevuto porto meco, per lasciarla in questo caso, una nota del tenore seguente : Le soussigné en prient S. E. de lui continuer son patronage pour la suite de l’affaire qui est entièrement abbandoné a sa protection, le supplie de vouloir bien lui reporter les planches, qui lui sont indispensables par la continuation de son ouvrage; il ne voudrait pas partir d’ici sans elles et se detachér de ces objets de ses plus tendres affections paternelles. » Queste inquietudini erano aumentate da altri accidenti. Il capo della Università, Provana di Colegno, mi ricevette non con quella cortesia che mi aspettava. Nessuna parola sul mio conto. Nulla affatto ricevendo l’omaggio della mia opera sulla struttura ecc. Anche il conte Balbo non mi parve più lo stesso. Il giorno 8 essendo ripassato dal capo della Riforma — non era in casa, vi sarebbe stato dopo un quarto d’ ora — ebbi la pazienza di aspettarlo un’ ora. Ricevuto, nulla del lavoro che gli aveva presentato. Però si entra a lungo sul nuovo piano di studj, e altri oggetti di polizia medica, intorno a’ quali il giudizio con cui gli dichiarai le mie opinioni, parve lo obbligassero ad avere almeno maggior concetto di me. In questi discorsi mi trattenne forse ?/4 d’ ora, e non mi congedai che all’ arrivo del suo segretario. In questa conversazione S. E. ha talvolta usato frasi, con cui ha voluto GIORNALE LIGUSTICO 39 farmi intendere che le teoriche matematiche dell infinito non gli sono straniere. Del rimanente tutti i professori e dotti torinesi lo hanno per un organo delle operazioni micidiali, che i Gesuiti si propongono d’ introdurre nelle istituzioni scientifiche. Nuove e reali cagioni di rammarico la mattina del io. M’incontro per via co’ dottori Trompeo e Acame , che ritornavano da Parigi per la cholera morbus. Tutti e due si recavano il giorno appresso all’ udienza del re. Domandai tosto come avevano ottenuto un udienza.....Riceve tutti.. Oh la schiettezza ministeriale ! Quale trama contro me o quali sinistre prevenzioni! Fatiche sprecate! Che sarà dei miei funghi? Il tanto temuto mercoledì arriva. Sono dal Mi nistro. — il Ministro è ammalato pel viaggio d’ieri, e non riceve alcuno — men ritorno oppresso abbattuto — e le mie tavole? Oh le mie fatiche! Risalgo le scale — vedete, dico al ' servitore, se S. E. avesse lasciato un libro a consegnarmi — entra e un momento dopo mi fa passare dal Ministio. Il trovo col mio libro fra le mani. — S. M. ha aggradito assai il vostro lavoro, ne accetta la dedica, vi accorda i seimila franchi che avete domandato. Altre obbligantissime espressioni aggiunge a queste che mi esaltano — Riprendo le mie tavole e lascio Torino il giorno dopo a giorno ». Non aggiungerò osservazioni, poiché ne verrebbe menomata la vivacità del racconto, soltanto parmi debito il ricordare come nel cuore del Viviani tanto rimanesse scolpita la riconoscenza verso il re, che a lui legò per testamento la sua libreria e le collezioni botaniche ed archeologiche da se raccolte, delle quali, è noto, Carlo Alberto fece liberale dono all’ Ateneo genovese. Ho accennato di sopra alla sua critica vivace, la quale non era sempre contenuta in giusti confini, specie quando s impegnava in qualche polemica, di che ne abbiamo veduto alcuno esempio. Ma a far meglio spiccare l’acutezza della sua mente 40 GIORNALE LIGUSTICO volta all’arguzia ed al saporito epigramma, non sarà un fuor d’ opera soggiungere qui alcuni motti spigolati e nelle sue pubblicazioni critiche e nei suoi taccuini di memorie. Confutando dottamente le affermazioni del Bertoloni, il quale voleva provare che il bisso degli antichi non era se non il cotone. esce a dire ; « Quanto a noi che in leggendo gli antichi scrittori veggiamo sempre i sacerdoti e i re, nelle loro vesti solenni, accoppiare il bisso alla porpora, ci ha recato gran sorpresa il vederli ora condotti in iscena dal prof. Bertoloni vestiti di cotone ». E poiché leggendo gli autori greci in traduzioni infedeli, citandone altri a controsenso, e peggio commentandoli « o mettendoli a tortura per farli dire a suo modo », quel botanico vedeva il cotone da per tutto, il nostro critico festevolmente sentenziava: « il professor Bertoloni dopo aver esteso alle vaste regioni dell’ Indie orientali la patria del cotone, diffusa e propagata questa pianta nell’ alto Egitto, guarniti di vele di cotone i navigli indiani e 1’ armata d’Alessandro, vestiti della sua lanugine tutti gli abitanti vivi e morti di quelle contrade, fuori di ogni nostra aspettazione ci cambia il cotone in quel bisso, prescelto dagli antichi a ornamento dei tempj, a veste distintiva de’ grandi, ad equivalente dell’oro ». Ma restaurando i testi antichi nei loro originali, e mostrando le fallaci interpretazioni degli scoliasti, riesce a strappare per le mani di Plutarco di dosso ai sacerdoti egizi la veste vile di cotone che aveva loro indossato il prof. Bertoloni, il quale non apparisce più fortunato nella sua ritirata ne’ cimiteri d’Egitto, di quello che egli sia stato ne’ tempj, poiché gli è provato dal Viviani come anco nella tumulazione si adoperasse il bisso e non il cotone. Assai più amare sono le parole eh’ egli volge contro que’ botanici stranieri, i quali mostrando ignorare l’opera sulla struttura degli organi delle piante, pretesero di esporre come GIORNALE LIGUSTICO 41 proprie Scoperte quelle eh’ ei aveva già dimostrato da lunga pezza. Dopo aver notato il plagio inverecondo, si fa a rilevare la confusione che deriva dal loro malvezzo di scambiare le antiche e più razionali denominazioni delle piante, con altre tratte non si sa da qual barbarissimo latino di nuovo conio; ond’ è che volgendosi agli italiani giustamente osserya: « Convengano dunque almeno quei botanici italiani, che nel-1’ adottare nuovi nomi si affrettano a schierarsi colla scuola francese, ed avranno per lo meno compianto le mie rancide abitudini nel non aver saputo abbandonare l’antica lingua, che io aveva realmente di che per non imitare, non amo di dire, il gregge delle pecorelle di Dante, ma bensì di non aver a occhi chiusi e capo chino calcato orme straniere Come i frati minor vanno per via ». Ond’ egli s’avvisa che certi nuovi legislatori di botanica, avrebbero a purgare prima di tutto la loro lingua che credono latina , dalla labe dei barbarismi, e perchè questa scienza tanto s’ appoggia sulla tecnologia, converrà che per avanzarne i progressi , la lingua debba essere esatta ; e perciò senza scendere fino al ciceroncino, dove propriamente potrebbero trovare costoro i tipi normali per modellare e correggere le loro frasi, consiglia Nocturna versare manu, versare diurna le opere di Linneo e di De Jussieu. Nè s’irritava meno per la censura fatta dal De Candolle ai botanici italiani, i quali, secondo diceva, « non hanno contribuito per nulla ai progressi della parte filosofica della scienza ». Non dubitava quindi di manifestare la sua indignazione, per questa strana ed ingiusta offesa all’ onor nazionale, dichiarando aperto che di certi progressi venutici d’ oltre Alpe, avrebbe fatto soggetto di peculiare ragionamento; poiché non poteva 42 GIORNALE LIGUSTICO passarsi senza rimorso dal prevenire la gioventù « del veleno versato ora da mano straniera, in questa altre volte pura sorgente d’innocenti piaceri, e a un tempo di utilissime cognizioni ». E ridendosi solennemente di que’ novatori, che si discostano dalla osservazione fedele della struttura degli esseri, quali uscirono delle mani di Colui che infinita provvidenza ed arte Mostrò pel suo mirabil magistero, per istraniarsi in risibili teorie fuor dell’ordine di natura, aspetta da questi novelli Pigmalioni gli esseri che debbono uscire dalle loro mani corretti, raffazzonati, e che valgano ad arricchire il regno vegetale, come lo fu di recente 1 animale di un Pidocchio, « il quale all’annuncio di questa sua nascita accademica, senza padre e senza madre, ha rizzato orribilmente tutti i peli di cui ha irto il dorso, e pei quanto ■ si dice, pretende a una lunga serie di avi, che per accidente avrebbero deposto il suo germe in quel miscuglio » (i)· A tratteggiare più spiccatamente l’ingegno arguto del Viviani, la sua attitudine umoristica, e forse anche la pretesa ambizione e lo studio eh’ ei poneva ad essere reputato un uomo di spirito, ci sovvengono molti acuti mòtti lasciatici in uno dei citati taccuini e dai quali io ne verrò scegliendo alcuno. « Si parlava un giorno della somma accortezza di Mad. B. e della difficoltà d’indovinare i suoi progetti. Niente di più facile, risposi io: basta credere tutto il rovescio di quel che fa e di quel che dice ». « Mi fu riportato un giorno che Μ. B. gran chiaccherone riportava molte sue opinioni e discorsi a mio nome. Non so (i) Memoria sopra alcuni plagi in botanica con appendice ecc. , Milano 1838. GIORNALE LIGUSTICO 43 come possa sapere cosa penso, risposi io, perchè tutte le volte che mi sono trovato in sua compagnia, non mi è mai riuscito aprir bocca ». « Ornai, mi disse un giorno a tavola M. D., vi metteremo con F. Carrega e crederemo il rovescio di quanto ci dite. Mi è stato fatto un’ altra volta questo rimprovero, risposi io, mentre faceva il vostro elogio. » Diceva un tale: Sono un nemico giurato de’ savans, sono .... veramente P inverso , 1’ opposto .... aiutatemi a dire.... Un ignorante volete dire.... No per verità.... Un asino .... Nemmeno. — Eppure questo è il titolo che vi si conviene se volete essere 1’ opposto di un dotto. » Un tale trovava ridicolo di aver veduto sul tavolino del Principe Borghesi le mie opere. — Ma caro, quando avete il coraggio di presentarvici voi tutte le sere, perchè non vi potranno per una volta essere presentate le mie opere? » Consultato da uno sciolo, per quale strada dovrebbe passare per essere ascritto a una qualche accademia scientifica, risposi : La strada per dove non passano le bestie da soma ». Chiuderò questa serie di facezie, riportandone due che toccano degli ordini cavallereschi ; la prima scritta molto tempo innanzi dell’altra, nella quale scherza sulla sua recente nomina a cavaliere. « Ah !, diceva Metonico, quando mai sarò si fortunato da potermi decorare di un ordine, di un titolo che mi nobiliti ? — Quanto vi compiango, gli disse Erasmo, voi vi tormentate con questi desiderj, perchè non avete mai saputo la definizione di questi vostri ordini. — E cos’ è un ordine ? — Non è altro che un’ invenzione dei potenti per dare una riputazione a un imbecille, o per partecipare di quella che altri si è acquistata accomunandone le insegne. » Ricevendo da ogni parte congratulazioni per essere stato insignito della croce de’ SS. Maurizio e Lazzaro io diceva: 44 GIORNALE LIGUSTICO A malgrado di tante congratulazioni io temo di averci sca-pitato, perchè prima di questa insegna tutti, senza cercar altro, mi avevano per qualche cosa, ora tutti vogliono sapere chi sono e che ho fatto per essere cosi distinto ». Non voglio io tuttavia affermare che tutti questi motti siano usciti dalla sua bocca, o si debba egli solo riconoscerne per autore ; ben posso dire, dall’ esame del manoscritto, che ve n’ hanno dei propriamente suoi, come facilmente può rilevarsi dai pentimenti, dalle cassature e dalle correzioni. Ad ogni modo noi dobbiamo essere certi che s’ egli raccoglieva siffatte argutezze, sapesse eziandio opportunamente applicarle; e perciò il suo merito non ne rimane scemato, perchè secondo la sentenza di Bayle, « il n’y a pas moins d’invention a bien appliquer une pensée que l’on trouve dans un livre, qu’à être le premier auteur de cette pensée » (i). E questo ch’io dico a proposito delle facezie, tanto studiosamente raccolte dagli antichi, può affermarsi altresì per non pochi pensieri di più grave argomento, sparsi qua e là nel citato manoscritto, e che meritano di essere fatti conoscere, come quelli, che manifestano spiccatamente certe speciali opinioni del nostro botanico, così nell’ordine morale, come nel politico e scientifico. Un frammento, a quanto sembra, di una lettera ci rivela con molta giustezza il suo carattere; e poniamo anche ei 1’ abbia tratto da qualcuno dei moltissimi e svariatissimi libri da lui letti, non apparirà men vero che lo trascrisse, perchè vi trovò riflessa la sua immagine. « Non vi parlerò più » egli dice « delle mie avventure nel mondo. Non potrei che disdirmi il giorno dopo di quel che vi avrei annunziato il giorno prima ; che esprimervi la mia più potente avyersione per colui del quale mi avreste cre- (i) Fournier, L'esprit des autres, Paris 1879, p. 6. GIORNALE LIGUSTICO 45 duto poco prima innamorato; che rappresentarvi gli stessi soggetti or buoni, or perversi, or amabili, ora intrattabili, ora pieni di gentilezza, ora di una sgarbatezza insopportabile. Non tardereste a caratterizzarmi pel genio più volubile della terra, o pure soggetto a quei cupi vapori di tetra melanconia, che sparge di fiele gli oggetti che ci circondano. No mia cara amica, non sono io di una tempra tanto leggera. Forse partecipando dell’ altrui volubilità, non avrei luogo di accorgermi delle altrui variazioni. Due esseri che cambiano contemporaneamente, possono felicemente trovarsi d’accordo anche alla seconda mutazione. Ma il mio carattere assicurato da principii inalterabili, che traggono la loro sorgente nella natura dell’ uomo, sostenuto, fomentato dalle sane massime della filosofia e della ragione, messo alla prova dalle vicende del tempo e della fortuna, non cambia mai. Aggiungete a questo un sentimento che imprime a tutte le mie azioni una vivacità ed una forza che non traggon mai dalla fredda ragione, e voi ravviserete in me un uomo tardo nel determinarsi ad un’azione, ma sollecito e direi perfino impetuoso dacché la decisione è presa. Uomo di pochi amici, perchè pochi crede degni della stessa stima, ma innamorato svisceratamente quando nulla manca a comandarla ». Può dirsi quasi corollario di quanto espone in questo frammento la seguente dichiarazione: « Non vengo nella società perchè dal lato delle mie opinioni non vi sono valutato per quel che mi mostro, ma secondo la classe alla quale i malvagi mi riportano. È professore, quindi saccente. Guardatevi da godere del complimento che vi fanno di dotto. Sareste ignorante se la sentenza emanata contro i dotti fosse a vostro favore. Una sola cosa mi rincresce nell’ abbandonare la società, ed è che la causa dei buoni principii ha un promulgatore di meno ». Quell’ acutezza e mirabile lucidità di mente che si rivela 46 in tutte le sue opere botaniche, non gli venia meno quando l’animo suo, educato alla osservazione filosofica dalla lettura di opere diversissime, si volgeva a meditare sulla umana convivenza sociale. E poiché la rettitudine del giudicare non andava in lui scompagnata dalla specchiata onestà, l’animo suo ribellavasi a qualsivoglia sentimento men retto ; ond è che alla domanda : « Perchè in molte amministrazioni non si vedono che birbanti? » risponde: « Perchè un solo galan-ruomo che vi penetri e vi s’intrometta rompe la catena di tutte le toro birbonate » , ed aggiunge con felice immagine : « È un dente messo a rovescio in una rota di un orologio ». Seguitando nel medesima argomento parmi degno di nota, a proposito de’ maldicenti, questo consiglio : « Guardatevi bene di acquistare nel mondo la riputazione di maldicente. Non solo vi farete molti nemici per il male che direte, ma avrete di più a vostro conto tutto il male che ne avranno detto gli altri. Chiunque vorrà, e non ardirà dir male di alcuno , lo dirà a nome vostro e ne sarete creduto voi l’autore. Egli è per questo che in tutti i paesi v’ hanno certi individui che godono presso il pubblico di questa riputazione. Spesso non è tutta opera loro, ma è comodo di avere certi organi della maldicenza particolare, come è estremamente pericoloso il diventarlo. Essi sono alla società quel che Pasquino è in Roma ». Quanto egli fosse nemico della baldanza vanitosa, e dell’ impudente orgoglio può raccogliersi da questa osservazione. <( Ho costantemente osservato che tutti coloro, che sono per loro mestiere avvezzi ad essere lodati in loro presenza dal pubblico divengono insolentissimi, e perdono non solo la modestia, ma il pudore. Tali sono i cantanti, i ballerini e quanti si danno in spettacolo pel teatro. Si aggiungano a questi gl’ improvvisatori, e quanti in una parola sono avvezzi a riscuotere gli applausi, che il pubblico bene o male crede GIORNALE LIGUSTICO 47 di compartire loro. Non v’ ha più lode privata che li soddisfaccia e che non reclamino. Avvezzi ai rumori del pubblico, ogni privato applauso, che stia nei limiti che esige appunto la delicatezza gli offende. Se non sono lodati si lodano essi stessi, e si lodano in un modo che offende, e rivolta gli ascoltanti. Queste persone non vanno trattate in privato. Esse sono fuor di misura delle private relazioni. Non v’ ha che il pubblico che loro convenga. Egli solo può lodarle quanto meritano ; o sprezzarle o abbatterle con quella solennità che basta ad agire sopra i loro animi esaltati. Quindi i fischi e i tumulti teatrali ». Assai notabile apparisce ciò che scrive intorno all’ educazione. Rilevando Γ errore d’ aver voluto correggere il difetto della italiana introducendo la francese, il cui fondamento essendo la frivolezza, non può innestarsi sul carattere solido degli italiani, sentenzia: « In Italia l’educazione è del pari trascurata che l’agricoltura. Si crede che in un suolo fertilissimo, e sotto un cielo benefico tutto possa abbandonarsi alla natura. Cosi la vegetazione è ricca e vigorosa, ma tutto nasce selvatico, e tutto, piante e uomini restano in questo stato. Volete avere la misura del talento degli italiani? Date loro una educazione tedesca ». I posteri hanno pienamente confermata l’opinione del Viviani, chè se gli effetti non corrisposero in tutto all’espettazione, se ne deve accagionare 1’ eccesso, non già ritenere falsa la sentenza. Trovano qui opportuno luogo alcune osservazioni politiche, che non mi paiono prive d’ importanza. E dò volentieri il primo luogo a quella che tocca dell’ antico governo genovese. « Ad un oligarca, che per far l’elogio della beatitudine del governo de’ suoi tempi, veniva sempre a mezzo colla generale sollevazione del popolo di Genova nel 1746 contro i Tedeschi, risposi: Voi vi vedete sempre dove non eravate per nulla. Il popolo tacque, se pure non *’ide volentieri, 48 GIORNALE LIGUSTICO quando passaste le chiavi della città nelle inani del conquistatore; egli non aprì bocca per nessuno degli atti di sommissione che faceste nel tempo della invasione. Il popolo si sollevò quando fu battuto, e malmenato. Fu un atto di difesa che interessava lui, e dove voi non eravate per nulla, o se vi eravate per qualche cosa, è per la colpa di averlo abbandonato. Gli artifizi cui doveste in seguito ricorrere per riprendere le redini dello stato, dimostrano chiaro se egli aveva agito per voi ». Nè si deve dedurre da ciò eh egli fosse nemico dell’ aristocrazia, poiché lasciò scritto : « Amo Γ aristocrazia, e Γ amo perchè ho abbastanza amor proprio per credere che ho molti sotto di me, co’ quali non amo mettere le cose mie in comune. Ma amo una aristocrazia formata di tutto quel che la società ove vivo possiede di meglio. Intendo mettere la mia quota in questa corporazione, e metterla in tal guisa, da non esigere maggior considerazione , che quella che vi arreco ». Non gli erano ignoti neppure gli eccessi a’ quali poteva trasmodare il governo dell’aristocrazia, ond’ei pensava: « Una nazione malmenata da un governo aristocratico, non può che cambiare in meglio, se da questa aristocrazia uno si solleva sugli altri, ne annulla il potere, e si assoda col voto del rimanente della nazione; e cambierà in bene ugualmente se, o per conquista o per trattati, passa sotto una monarchia possente. Ma guai se passa sotto una debole, perchè questa dovrà transigere con coloro che usarono fino allora del potere, e le loro sope»"-chierie e prepotenze invece di cessare col nuovo governo, ne trarranno sanzione e forza, e diverranno a un tempo insopportabili e incoercibili ». Per la qual cosa soggiungeva: «Un governo non solo deve essere forte, ma dee anche sapere di esserlo, e di questo sentimento dee essere penetrato il suddito. Guai se un avvenimento faccia perdere questa intima persuasione, e la indebolisca nel pubblico ». GIORNALE LIGUSTICO 49 Recherò finalmente un motto assai arguto intorno al governo inglese, che forse dee ad altri attribuirsi, ed egli semplicemente raccolse.· « Un inglese faceva in un’ assemblea un elogio pomposo della costituzione libera dell’Inghilterra, e trattava presso che di schiave tutte le altre nazioni. I discorsi del parlamento e le libere invettive dei membri dell’ opposizione contro i governanti erano le sue prove. — Io non vedo, perdonate mio rispettabile Lord, nel popolo inglese che un fanciullo, che ogni giorno è battuto crudelmente, e per tutto compenso gli si lascia la libertà di lagnarsi ». La scienza eh’ egli denominava amabile, ed alla quale aveva dedicato tutto se stesso, sapeva opportunamente contemperare con studi d’ altra ragione ; specie per infondere nuova lena alle facoltà ragionatrici, affievolite di troppo dalla diuturna osservazione , dalle esperienze e dalle comparazioni. Rileviamo questo fatto dalle sue stesse parole. « Le scienze naturali » egli dice « come quelle che occupano la mente della diversità di forme degli oggetti che comprendono, tengono in continuo esercizio la memoria, a scapito delle facoltà razionali. Per mantenere a queste il loro vigore, ogni due o tre anni io riprendeva un corso di matematiche, e le proseguiva in tutta la parte elementare tanto nell’algebra quanto nella geometria, che qualche volta stendeva fino alla trigonometria sferica. Ritemprata la mente con questo esercizio ragionativo io ritornava alle scienze naturali, con un vigore di mente che mi pareva dominarle, tanto mi trovava di forze, per vedere in esse rapporti, che senza questa preparazione non avrei colti. Questa forza ragionativa mi ha guidato alla compilazione del mio lavoro intorno alla struttura vegetabile, nella quale ho fatto entrare in un sistema di economia vegetabile tutte le osservazioni da me fatte, tutte quelle degli agronomi, mettendole d’ accordo colla struttura organica da me contemplata. Le tracce di questo vigore di mente, si notano pure nella mia Giorn. Ligustico, %Anno VI. 4 50 prefazione alla Flora Libica, in quella sopra i funghi d’Italia, nella memoria in cui ho combattuto il sistema di respirazione di Du Trochet ecc. ». La verità di quanto egli qui afferma ci è dimostrata da una nota che trovasi in fronte ai trattati d’aritmetica e d’algebra del Lacroix, dalla quale rilevasi che dal 1824 al 1837 lesse quefl’ opera ben sette volte. E le forinole matematiche gli erano cosi famigliari, che le usava eziandio nello enunciare verità scientifiche generali, come la seguente: « Il profitto in qualunque scienza è sempre il prodotto della capacità per lo studio ; a meno che uno di questi due elementi non divenga zero, si avrà sempre lo stesso risultato ». IV. Da alcuni pensieri dettati per fermo negli ultimi anni di sua vita, e forse dopo il 1838, anno in cui pubblicò l’ultima sua memoria, rilevo come egli avesse in animo di scrivere una storia o un quadro dello stato delle scienze in Piemonte, o come lavoro a se, oppure da preporsi ad opera maggiore, che forse meditava. Le note degne di osservazioni dicono cosi: » Facendo la storia dello stato delle scienze in Piemonte si protesti : non s’intende di far qui la critica del governo piemontese in generale; si conoscono le intenzioni ottime di quel giovane Re; si tratta dello spirito che hanno sovente dimostrato coloro che lo spirito di partito avverso ad ogni civiltà ha fatto prendere.....» E qui lasciava incompiuto il concetto per esplicarlo e lumeggiarlo poi nello stendere il lavoro; quindi soggiungeva: « Nel contrapporle con quanto si pratica dalla casa d’ Austria, non si sono voluti istituire paragoni odiosi. Questi progetti non sono ammissibili in chi scrive secondando i sentimenti di un cuore che vuole il bene. Anzi animato di queste intenzioni e diffidando GIORNALE LIGUSTICO SI di me, e di quanto il desiderio personale potesse introdurvi di proprio, nulla ho osato scrivere, che non fosse conseguenza di una lunga osservazione di quanto vedeva sopra questo proposito operato dalla casa imperiale; rilevando sempre dagli ottimi risultamenti che colà se ne ottenevano colla pratica, la saviezza con cui quelle istituzioni, che riguardano la pubblica istruzione, erano concepite. Dopo queste mature meditazioni in seguito di lunghe osservazioni ho potuto prendere queste istituzioni per modello, e non ho giudicato dello stato nostro che riportandole ad esso, e rilevata F identità o la differenza, rilevarne F effetto conforme 0 differente. Dopo questa dichiarazione sulla norma dei miei pensieri, credo inutile ogni altra giustificazione sulla tendenza e purezza delle mie opinioni ». Questi pensieri hanno una non lieve importanza storica, perchè appariscono scritti quando non erano per anco cessate le agitazioni che susseguirono ai moti politici del 1833, ed il governo piemontese sprovvedutamente messosi sopra una falsa via di severità e di sangue, dava cagione all’Austria di far risplendere la mitezza, che adoperava con fina ed astuta politica verso gli italiani a lei soggetti. Aveva destato gran rumore un libro del Dal Pozzo nel quale dissertava della felicità che gli italiani possono e debbono dal governo austriaco procacciarsi , facendo rilevare come gli ordinamenti amministrativi introdotti nella Lombardia, vincessero quelli d’ ogni altro governo e specialmente quelli del Piemonte. Severissimo giudizio di questo scritto esponeva Antonio Brignole Sale. Egli, comechè in quel tempo privato cittadino, reputò suo debito in quei difficili momenti rivolgersi al re con onesta e franca parola, consigliando « pel bene suo e del paese di ravvicinarsi a Luigi Filippo e dar mano a migliorie interne, afin que notre administration et notre situation vis-a-vis nos confrères gouvernés par un gouvernement étranger, soient si non au-dessus, au moins 52 GIORNALE LIGUSTICO égales.... En Lombardie Γadministration publique y est plus régulière que cheç-nous, et surtout beaucoup plus éclairée. Le cœur m’en saigne de l’avouer, mais c’est un aveu que je me sens obligé de faire ». E qualificando il libro del Dal Pozzo « infame brochure, dans laquelle parjure a sa patrie, il propose le joug autrichien à nos confrères » soggiunge: « L’infamie a part, ce livre nous fournit une grande leçons, il nous avertit de l’urgent nécessité ou nous sommes d’abandonner au plus vite le chemin des erreurs et des chimériques iilu-lusions, et de nous établir sur celui des reformes matérielles propre a consolider la prospérité général; prenent, si l’on veut, pour type les gouvernements de Prusse et d’Autriche ». La sua perspicuità politica lo conduceva a meravigliarsi dell’ accecamento dei ministri piemontesi, i quali non s’ accorgevano del malizioso e maligno operare dell’ Austria, e 1’ animo suo compreso dal più nobile concetto di nazionale unità usciva in queste, che furono davvero profetiche parole; « C’est surtout vers le Piémont que sont tournés les yeux de tout ritalie; nous seuls nous avons une armée courageuse et brave qui dans un cas de crise, serait le point de ralliement des braves de toutes les autres parties de l’Italie. Une armée qui réunie avec une armée française conquérerait dans dix semaines toute l’Italie. Cette crise, Sire, est inévitable. Elle n’aura pas lieu en 1835 en 1836, en 1837 mais elle aura inévitablement lieu dans peu d’années » (1). Ho voluto recare innanzi 1’ autorità di uomo così insigne, affinchè ognun vegga, come i suoi giudizi ed i pensamenti facciano tenore a quelli del Viviani, e giovino a lumeggiarli maggiormente. (7) Manno , Informazioni sul ventuno in Piemonte, nella Rivista Eu-ropea-Internazionale, XI, 18. GIORNALE LIGUSTICO 53 V. Il nostro botanico moriva in età di 68 anni (era nato il 29 luglio 1772) ai 15 febbraio del 1840, e la-sua salma era modestamente deposta nella chiesa dei cappuccini, onorata da quel bellissimo ingegno di Lorenzo Costa colla seguente iscrizione, che compendia i dolori fisici e morali di tutta la sua vita : « DOMENICO VIVIANI LODATO NATURALISTA » UOMO NON DEGNAMENTE INFELICISSIMO MOSTRÒ CHE I GRANDI INTELLETTI SONO GRANDE LUDIBRIO DELLA FORTUNA Sei anni più tardi, la sua memoria veniva, con gentile pensiero, rinverdita in una festa solenne; vo’ dire nel trattenimento accademico dato li 15 agosto del 1846 nel gran salone del palazzo ducale, distribuendosi i premi agli allievi delle scuole pubbliche. E fu eccellente proposito il ricordare i liguri illustri, quasi precursore di quello che consigliò modernamente a destinare un di dell’ anno alla ricordanza d’ uomo insigne, il cui esempio valga ad infondere nei giovani amore allo studio ed accenda P animo alla virtù. A1P elegante ingegno di Antonio Bacigalupo era affidato, come lo fu per molti anni, P incarico di apprestare i componimenti poetici commemorativi de’ chiari liguri morti dopo il 1830, i quali dovevano essere recitati dagli alunni. Il poeta consertava i nomi illustri di Giorgio Gallesio e del Viviani in un’ ode chiabreresca, dove la delicatezza del-l’immagine e la grazia del metro, rende appena sensibili alcuni nei, che sarebbero per fermo scomparsi, quando 1’ autore 54 GIORNALE LIGUSTICO avesse dovuto tornarci su colla lima Eccola: Due leggiadre acerbe Dive Dalle rive Di Liguria a ciel sereno, Del Tonante al sommo soglio D’ alto orgoglio Scintillante, un dì muovieno. Precedea 1’ una il diletto Zeffiretto Agitando ambrosio nembo, E di fior 1’ azzurra via Riempia, E di lei la fronte e ’l grembo. Se ne già coll’ altra a paro Giovin caro Simulando varij aspetti, Or Apollo, or giardiniero, O guerriero, O cultor d’ arbori eletti. Pei sentier dell’ auree stelle Le due Belle Si volgean sdegnosi sguardi, Ma crescea cotal fierezza La bellezza, E d’Amore erano dardi. Di piacer, di maraviglia Sulle ciglia De’ Celesti apparver 1’ orme , Giuno, Palla e Citerea Si vedea Paventar si vaghe forme. Ogni Dio parteggia e vuole Sue parole Dispiegar per questa o quella, Ognun s’ offre, ognuno inchina La divina Fronte all’una e all’altra Bella. per mandarla in pubblico. Ringraziando pur col viso D’ un sorriso, Qual chi nutre altro pensiere Passali elle aspre il sembiante Tosto avante Al Signor dell’ alte sfere. Di ben mille fior conserto Porge un serto Quella a Giove, e, Mira, dice, Chi mi vuol rapire il regno Che ognor tegno Sulla ligure pendice. Tu togliesti al verno il gelo, L’ire al cielo, L’onde al mar per la Riviera, Perchè intatto sia 1’ onore D’ ogni fiore In eterna primavera. Questo aprico amabil suolo A me solo Concedesti, e al mio consorte; Or cotesta forosetta Coll’ accetta Mi minaccia le ritorte. Taci, d’ira ingiusta figlia, Qui ripiglia L’ altra, i detti interrompendo : Come mai su questo lido Il mio nido Al tuo noccia io non comprendo. Dove spunta la tua rosa, Pampinosa S’invermiglia ancor la vite, Per le piagge, pe’ poggetti Ai fioretti Van le arance a schiera unite, GIORNALE LIGUSTICO 55 Pesche, prune, poma d’oro, La vittoria incerta pende, Mio tesoro, E s’ intende Fan ghirlande agli arboscelli, Fra gli Dei cupo bisbiglio. Che in olezzo ed in colori Alle Dee tutto amoroso De’ tuoi fiori Il Nemboso Non puoi dire esser men belli. Sì rivolse i detti e il ciglio: Giusto Sir, che sui mortali Tre rivali disdegnose Volgi eguali Già compose Le bilance al bello e al buono, Pastorello amante in terra : Io di ciò che tu comparti Or in terra ancor si dee, Tutte parti, Care Dee, Flora ha sol metà del dono. Terminar la vostra guerra. Che se ad una in questa prova Alla destra e manca sponda Vincer giova.... Che circonda Proseguia, ma umile e destro La città del Dio bifronte, D’ ogni frutto dell’ autunno Sorge un par di giovinetti Qui Vertunno Che ai diletti Presentò colmo un canestro. Vostri studi han 1’ ali pronte. Rivolgea sereno il lume Ogni frutto onde s’ ammanta L’ alto Nume Ogni pianta, Ai soavi eletti frutti, Ogni fior, che pinge 1’ erba, Quando Zeffiro gentile Quanto può nel vostro regno D’un aprile Stelo o legno Di bei fior coprilli tutti. In lor mente alto si serba. A volar con voi la Fama Già li chiama Fino ai lidi più lontani, Segneran sull’ emisfero Vostro impero Un Gallesio ed un Viviani (i). Ho detto fin da principio che non era mio intendimento esporre la vita di Domenico Viviani, quindi, anziché, come dice argutamente il Giusti, tessere il mio lavoro col lunario in mano, o prendere dai passaporti il modo di designare alla (i) Bibliot. Università, Ms. E. IX, 12 (Autografi). 56 GIORNALE LIGUSTICO posterità questo illustre viandante, e rovesciarmi sul povero scrittore in guisa che ne restasse soffocato e sepolto (i), ho reputato miglior consiglio destare un tratto P uomo dal sonno quarantenne, e farlo parlare proprio coni’ ei fosse in carne ed ossa. Poco dunque v’ ha del mio. Io mi vedeva innanzi un acervo di pietre e di mattoni atte allo edificare, volli provarmi nel duplice magistero dell’architetto e del muratore, apprestai il disegno, la calce e poi P opera della mano. Giudichino gli esperti se, non contraddicendo alle leggi dell’ arte, aggiunsi il mio fine. ISCRIZIONI E BATTISTERO DI CORVARA Memoria letta in seno alla Società Ligure di Storia Patria dal socio Rev. Marcello Remondini la sera del Aprile 18J9. MCCC DIE XIII. 7BRIS FUIT CLAPATA I Letta una cosi importante iscrizione nella raccolta fatta dal Paganetti (2) mi venne vaghezza di sapere se veramente era tale. Ma bisognava fare un viaggio. Il Paganetti la dice esistente a San Michele della Corvara: parrocchia sui monti alle spalle di Spezia a mezza via tra Spezia e Borghetto di Vaca. Scrissi, mi raccomandai ad amici e ve ne mandai uno da Lago a prenderne il calco : ma il calco gli falli e n’ ebbi un disegno a mano il quale se me ne attestava la esistenza e in parte l’identità per ciò che già ne conosceva, mi fece accorto che (1) Nella Vita del Parini. (2) P. Paganetti, Storia ecclesiastica, voi. 1, pag. 408, num. 178. 11 . , * ■ ' Γ - ——— — - ■ GIORNALE LIGUSTICO 57 l’iscrizione non era letta bene, nè finiva li, ma aveva ancora due righe non potate leggere dall’ amico nè da chi informonne il Paganetti. Ciò mi fu stimolo per andarvi io, e vi andai. Nè ebbi a pentirmene, o Signori. Trovai in facciata alla Chiesa parrocchiale li da un lato presso la porta maggiore in pietra arenaria cenerognola ed a rilievo la magnifica iscrizione : MCCC DIE XVIII JUNII FUIT CLAPATA ECLEXIA A MAGISTRO UGU E CONO che può stare al paragone con un’ altra che leggesi a Monterosso delle Cinque-terre in questi termini : M · CC · LXXX°I DE MENSE JVLII TEMPORE NOBILIS VIRI D. ΑΝΤΗΟΝΙΙ MARIONI POTESTATIS MONTIS RUBEI ASTRE G AT A LOGIA ET FACTE BANCHE Trovai ancora le clape, lasciatemi dir così, con cui fu clapata la chiesa cinque e più secoli or sono: pietre o clape della medesima qualità che quelle della iscrizione, larghe una per Γ altra quale mezzo metro e quale due terzi : e tra queste una con le due lettere A N a grandi caratteri, avanzo sicuramente di una scritta chi sa quanto classica. Queste pietre oggidì servono a clapare non più la chiesa ma la piazza che le sta innanzi. Trovai in un avanzo di casa antica posta di contro alla chiesa parrocchiale, avente finestre divise con colonnine di GIORNALE LIGUSTICO marmo infissale in facciata una rozza immagine a bassorilievo della Madonna col Santo Bambino in grembo tenente in mano un uccello, due gigli scolpiti ai lati e più in basso uno stemma a tre sbarre che ne traversano lo scudo diagonalmente per cui avuto anche riguardo al luoço ove si trova sembrerebbe O O dei Fazj. Sotto le sta eziandio una scritta intorno alla quale permettetemi alquante parole di più. A primo aspetto si leggerebbe un po’ stentamente cosi: MCCCCC INDiCÌ/ONE XX ME FE CIT MARTELLINVS Se non che l’indizione riesce ad uno sbaglio enorme per due versi. Prima perchè un’ indizione vigesima non esiste; poi perchè al 1500 dovrebbe rispondere l’indizione seconda o terza tutto al più. Ma forse la data non è dell’ anno 1500. — La qualità della pietra tutta simile a quella delle clape e relativa epigrafe, i caratteri che molto si assomigliano alla iscrizione del 1300 che rammenta il lastricamento della chiesa mi fanno inclinare a crederla coetanea a quest’ultima. — Per dirla del 1500 mi par troppo rozza e l’immagine e l’iscrizione, quantunque non dissimulerò che a Legnaro su quel di Levanto trovai presso la porta della chiesa una data in rilievo su pietra con rozzi caratteri a questi molto somiglianti indicante il 1482. — Così pure a dirla del 1500 mi pare che osti l’indizione, sbagliata o no, in quanto che se posso argomentare dalle molte lapidi da me vedute mi sembra che quasi più non si usasse notarla, non dico nei pubblici atti, dico nelle lapidi. Pensate! nella mia raccolta l’ultima che l’abbia sarebbe del 1372. Nella quasi raccolta di lapidi veronesi che ebbi occasione di leggere in Persico (1) l’ultima che l’abbia è del 1321. In tutto il se- (1) Verona e la sua Provincia. GIORNALE LIGUSTICO 59 colo XV nemmeno una nè presso me nè presso il Persico. — Se noi pigliando licenza dalla rozzezza stessa dei caratteri e del tutto insieme, potessimo considerare come sbarre del primo e secondo C quelli che a prima vista compariscono C secondo e C quarto, e leggere 1300, il tutto sarebbe più consono e lo sbaglio dell’ indizione riuscirebbe minore. Al 1300 corrisponde 1’ indizione 12.11 o 13.°· e in questa ipotesi la prima X avrebbe diritto ad esserci, la seconda X poi sarebbe una ripetizione della prima in luogo delle due o tre asticciuole per sbaglio facile a comprendersi. E il pensiero che questa scoltura sorgesse ad un tempo coll’ opera del lastricamento della chiesa ad ornamento della chiesa medesima mi arriderebbe non poco. Trovai finalmente (e questo è ciò intorno a cui più che altro pensai intrattenervi questa sera o Signori), trovai in quella chiesa un battistero con iscrizione e con emblemi non immeritevoli di un po’ di esame da parte della nostra Società. L’ iscrizione è chiara e ce lo attesta opera del XIV secolo. Essa dice J IN XPI NOIE AÎWEN. MCCCXXXXV indictione xm die vrimo madii factus Est la PIS ISTE 7 Questa pietra è un masso alto 70 e più centimetri e quasi altrettanto largo, tutto di un pezzo, tagliato per il primo terzo in alto a dado ottagonato, per il secondo terzo nel mezzo a coppa e per 1’ ultimo che posa in terra in circolo a tre cordoni. Tutto l’insieme presenta come 1 aspetto di un calice (1). Stemmi ed altri segni sono scolpiti nel piede dei quali non v’ intratterrò io dappoiché non ebbi il pensiero al- (1) Vedasi nell’annesssa tavola la fig. 1. 6o GIORNALE LIGUSTICO lorquando fui a quella lontana parrocchia di osservarli bene e farmene idea chiara. Quelli che ben osservai sono gli emblemi o simboli rozzamente scolpiti intorno alla ..coppa. Questa si direbbe divisa in due zone: una zona di sotto in basso, ed una sopra in alto. Nella prima son rozzamente scolpiti erbe, foglie e tronchi di piante, nella seconda vi è Γ iscrizione anzidetta in rilievo anch’ essa e poi a cominciar dalla destra di chi si facesse a leggerla e girando tutto intorno fino ad arrivare da capo dinanzi alla iscrizione i segni seguenti e nell’ ordine in cui ve li accenno. Per primo vi ha un circolo con entro cinque sbarre che si attraversano reciprocamente e disposte in modo da unirsi 1’ una all’ altra alle estremità e formare come una stella a cinque punte; poi seguita uno scorpione, indi un altro scorpione della medesima forma del primo ma di più grandi dimensioni; poi un serpente con due stelle alla coda in due forme diverse, una a cinque punte, Γ altra a sole quattro e queste rotondeggianti la quale ultima per giunta si direbbe come avvolta entro le sue spire. Appresso viene una terza stella anzi grande che no; poi la luna raffigurata in uno dei suoi quarti; finalmente un pesce (i). Tutte queste figure alludono sicuramente al sacramento del battesimo. Il serpente noto simbolo della tentazione di Adamo ed Èva nell’ Eden donde il peccato originale, il pesce che per le lettere di cui si compone in greco questo nome è cosi notissima agli eruditi valere Jesus Christus Dei Filius Salvator, (2) e il trovarsi scolpiti in una pietra lavorata appositamente , come si scorge dal tutto insieme, perchè serva alla amministrazione di questo sacramento lo dicono senza altro. Se non che ei mi pare pregio dell’ opera il vedere un poco (1) Vedasi figura 2, ove è lo sviluppo della faccia esterna della coppa al decimo di sue dimensioni. (2) ΙΧΘΓΣ cioè IsooOç Χςιστός θεού ϊίδς Σωτης. GIORNALE LIGUSTICO él che cosa paratamente abbiano inteso di significare que’ nostri antichi con quelle scolture. E in primo luogo è da esaminare il circolo con entro le sbarre a cinque punte. Di una figura di questa fatta parla Giovanni Pierio Valeriano nella sua opera intitolata Hieroglifica al libro 47.0 — Egli la chiama pentalpba perchè presenta un intreccio di cinque A e conta a proposito di essa una storia 0 favola che sia, la quale le attribuirebbe non poca antichità. Ad Antioco Sotere, dice egli, cioè Salvatore, mentre guereggiava contro de’ Galati apparve di notte in visione Alessandro Magno il quale 1’ ammoni che desse per motto ai soldati questa parola greca ΥΓΕΙΑ latinamente Sanitas, e che Antioco non solo diè quel motto ai soldati ma fece anche mettere nelle bandiere e ne* vestimenti militari de’ soldati la figura geroglifica della sanità che chiamano il pentalfa con inserirvi le lettere greche componenti la parola ΥΓΕΙΑ e che de’ suoi nemici conseguì una maravisdiosa vittoria. Poi segue a dire che fra le milizie an- O O cora degli imperatori di Costantinopoli era un ordine di soldati che si chiamavano propugnatores e questi nello scudo portavano descritta questa figura pentalpba. — Indi finisce con cercare ui sollevar questo emblema a un senso cristiano immaginando che le cinque punte di questa figura corrispondano alle cinque piaghe di Nostro Signor Gesù Cristo, vero Sotere dice egli, ossia Salvatore, e applicando alla piaga del sacro costato la punta più elevata e le altre quattro alle piaghe delle mani e dei piedi : e ne forma così il pentagramma delle cinque piaghe. Altrettanto dice il Sarnelli riferendo il Pierio al tomo 10. Lettera 71Λ E in conformità a questo pensiero ho presso di me una divota immaginetta che avrà sicuramente non meno di cento anni, favoritami dal nostro socio e carissimo mio parente 62 GIORNALE LIGUSTICO Pier Costantino Remondini, nella quale immaginetta rappresentante il divin Salvatore piagato e seduto appiè della croce è il pentagramma colle cinque lettere della parola ΥΓΕΙΑ distribuite nelle sue cinque punte corrispondenti alle cinque piaghe di Nostro Signore. A riguardo di questa figura trovai anche un accenno, una parola nella Roma sotterranea cristiana del sommo Giambattista De Rossi a pagina 171 del tomo primo. Vi recherò le sue testuali parole: « All’angolo, dice egli, d’un ambulacro nel Cemetero di Pretestato sopra il bello e fino intonaco della parete quando era fresco furono delineati i segni seguenti: (e qui li dà disegnati, cioè il nostro pentalfa però senza cerchio la testa di un mostro e una croce (1); poi seguita) Questi sono segni arcani di Cristo e della sua croce salutifera conforme al genio dei primi tre secoli.....Stanno all’ angolo d’un bivio e non hanno relazione speciale con alcun sepolcro. Gli operai cristiani quando facevano quel rivestimento alla parete dell’ ambulacro od alcun fedele che allora passò per quella via segnarono que’simboli arcani». Nicolò Caussino nella sua Simbolica Aegiptiorum a pag. 117 nomina il pentalfa e a modo di spiegazione vi annette queste parole Infinitum, Principium et Finis, Fatum. Ciò è quanto mi venne fatto di rinvenire a proposito di questa figura. E che cosa ne possiamo conchiudere? Il De Rossi dandocelo per rinvenuto nelle catacombe di Roma e di più graffito sul fino intonaco che egli in altro luogo giudica essere il primitivo, ne fa sicuri che è un simbolo cristiano di antica data; ma che cosa significhi particolarmente non ce lo dice. — La pia immaginazione del Pierio non pare potersi adottare giacché accenna a idee che se poteano essere in corso nel 1614 quando egli ce la die’ fuori, non lo erano (1) Vedasi figura 3. giornale ligustico 63 probabilmente nel XIV secolo quando fu fatto il battisterò di Corvara e tanto meno nei primi tempi della Chiesa. Resterebbero i significati gentileschi, quello cioè, secondo il narrato, di Antioco Sotere che aveva questa figura del pentalfa per simbolò della sanità ; ο P altro degli Egiziani che l’avevano per simbolo del fato, dell’infinito, del principio e fine d’ ogni cosa. E a dir vero non sarebbe da maravigliare se pensassimo che i primi cristiani usufruttuando un geroglifico de’ pagani in mezzo ai quali vivevano lo avessero applicato a significare ben altra e più vera sanità o salute che non potea essere quella a cui alludevasi dai gentili, e cosi quel segno accoppiassero là nelle catacombe alla croce, istru-mento reso veramente salutifero dal divin Redentore, e i nostri costruttori del Battistero di Corvara nel 1345 lo scolpissero in quella loro vasca battesimale alludendo alla vera spirituale salute che 1’ anima ritrae dalle acque del battesimo cristiano : oppure sì gli uni che gli altri lo avessero applicato a significare il vero infinito, il vero principio e fine di ogni cosa cioè Iddio. — E in verità che a quest’ ultimo significato mi fanno con altre ragioni inclinare le circostanze che accompagnano nella nostra pietra questo geroglifico, come vi esporrò da qui a un poco, cioè dopo che avremo cercato il senso delle susseguenti figure, e quando come ci accadrà di fare cercheremo di vedere che cosa ci debbano tutte insieme significare nel nostro monumento (1). Ora proseguiamo dunque sulle altre. Dopo il pentalfa s’ incontrano due scorpioni o aspidi che (1) A rincalzo del detto qui e di quello dirassi ancora mi è dato aggiungere , grazie alla cortesìa del sig. avv. Enrico Bensa, che nel libro tedesco stampato a Lipsia e intitolato Handbuch der bildenden etc. Gewer-blichen Künste (manuale delle arti di costruzione e di industria) Enciclopedia storica archeologica biografica cronologica monogrammatica e tecnica dì Augusto Demmin di Wiesbaden vol. I, pag, 177 , fig. 500 , questo segno annoverato tra i monogrammi di Cristo chiamato come in esso GIORNALE LIGUSTICO siano, il primo più piccolo il secondo più grande indi un serpente con due stelle alla coda. — Il serpente, già lo dissi, è sempre stato il simbolo del demonio e vi chiama a memoria la tentazione di Èva e il peccato originale. Quelle stelle alla coda possono essere ricordanza della sua anteriore ribellione a Dio per cui fu cacciato dai cielo lui con tutti i suoi seguaci rappresentati in quelle stelle secondo il noto testo dell’Apocalisse al capo 12. Ccinda ejus (del dragone che un po’ più sotto viene anche detto serpens antiquus qui vocatur diabolus et Satanas) Cauda ejus trahebat tertiam partem stellarum caeli. Gli scorpioni poi al dir del Caussino presso gli Egizi davano idea della inimicizia, della persecuzione, dell inganno e della strage : Scorpius dice egli hostium cedes mutua doli fallaciaeque libido. E meglio per il nostro caso : San Meli-tone vescovo di Sardi là ai primi tempi della Chiesa e che scrisse un’ opera col nome di Clavis in cui abbiamo una ben copiosa simbolica cristiana ci dà P aspide e lo scorpione per l’immagine pur del demonio della disperazione del peccato Aspis peccatum. Scorpium diabolus. Scorpius desperatio (1). si legge Pentalfa , Pentagramma, Croce delle Alpi, annello di Saio-mone, Salus Pitagorae, simbolo de’ cinque libri di Mosè, simbolo dell antico testamento ecc., nel Medio Evo si usava non di rado porre sulla soglia della porte di casa e sulla prua delle navi come mezzo di difesa contro le infestazioni diaboliche. Ciò viene a dire che nel Medio Evo a questo monogramma si attribuiva una virtù soprannaturale : e questa attribuzione non poteva avere altro fondamento che nel significato o rappresentanza di esso simbolo avvalorata dalla fede nel soggetto simboleggiato, il quale non poteva essere che Dio o qualche cosa di divino. Il Pentalfa nell’ età di mezzo era dunque un che di somigliante al monogramma di Gesù ai giorni di S. Bernardino da Siena. Anche al di d’ oggi nelle navi e4 in vari oggetti pertinenti alla navigazione vedesi impressa una stella a cinque punte. (1) Si vegga 1’ opera del cardinal G. B. Pitra alla Biblioteca Brignole-Sale intitolata Spicilegium Solymense-, e anche Anecdota Sanctorum Patrum, Parigi 1855. giornale ligustico Dopo sì male bestie viene una stella anzi grande che no. E qui ne dice subito San Melitene Stella Christus spiegando di lui i due testi scritturali Ego sum stella splendida. Orietur stella ex Jacob. — Alla stella succede la luna; e qui se non basta San Melitone per dirci che in essa è raffigurata la Chiesa Luna Ecclesia ce lo attesta San Gregorio Magno : quis dice egli nella omilia 23.a Quis enim solis nomine nisi Dominus et quae Lunae nomine nisi Ecclesia designaturi Non che San Bernardo nel sermone delle dodici stelle Ecclesia lunae intei-ligenda videtur vocabulo. — Poi viene il pesce. Il pesce già dicemmo che è simbolo di Cristo, ma ha eziandio altre significazioni. Clemente Alessandrino dice nel Pedagogico « il pesce ricorda gli apostoli e i fanciulli salvi dall’ acqua ». Paolo Aringo nella sua Roma sotteranea dice « per piscem ait Origenes sanctus quisque infettigitur qui intra retia fidei conclusus .bonus piscis a Salvatore nuncupatur » e Sant’Ambrogio « Pisces sunt qui hanc enavigant vitam » e meglio ancora al nostro proposito leggiamo nel Mamacchi che per il pesce si indicano i fedeli i quali sono rinati nell’ acqua del santo battesimo, dicendo Tertulliano nel libro che compose per difendere questo sacramento al capo i.° « noi pescetti secondo il » pesce nostro Gesù Cristo nasciamo nell’ acqua nè altri-» menti che rimanendo nell’acqua possiamo salvarci ». — Finalmente nei tronchi e nelle foglie che sottostanno a queste figure tutto in giro della coppa si potrebbe vedere come raffigurato un bosco, una valle, un deserto, una villa. E questa villa sarebbe simbolo secondo San Melitone della vita ignobile, la selva, il bosco, il deserto, la valle rappresenterebbero il mondo, la vita umana, i peccatori, il paganesimo. Villa massa impiorum, ignobilis vita. Silva, gentilitas, vita humana. Vallis, mundus. Desertum, populus judaeorum sive omnes peccatores. Avuti così per ogni singolo capo i significati di tutte queste Giorn. Ligustico, Anno VI. S 66 GIORNALE LIGUSTICO figure proviamoci ora a determinare per ciascuna di esse quel proprio che probabilmente fu inteso da chi costrusse il monumento. Qui mi par che non sia da dubitare aver voluto que’ nostri buoni padri del XIV. secolo costruendo una vasca battesimale rappresentare in essa un concetto, una storia relativa al battesimo. Ora ognuno sa che il battesimo è il primo mezzo consegnato da Gesù Cristo alla sua Chiesa col quale rendere un’ anima capace di godere i salutiferi effetti della divina Redenzione. Dunque l’anima, là Chiesa e Gesù Cristo han qui grandissima ragione di venire rappresentati. — Ognun sa che il battesimo non è applicabile che ad anime facienti parte del genere umano; ad anime viventi sulla terra, e non produce i suoi salutari effetti che in queste. Dunque la vita di quaggiù, 1’ uman genere, il mondo sta pur bene che qui sia figurato. — Ognun sa che primissimo effetto del battesimo è la liberazione dalla schiavitù del demonio mercè il cancellamento della colpa, segnatamente della colpa di origine mentre non lascia di cancellare anche ogni altra quando la vi sia. Dunque questa colpa in ogni genere e grado, cioè originale ed attuale, grave e leggera: non che il demonio che ne fu il malaugurato ispiratore nell’Eden, son per dire che non poteano non essere qui messi in figura. E in fatti secondo che a me pare tutte queste cose son proprio qui simboleggiate. Nel pesce è simboleggiato non Gesù Cristo ma 1’ anima battezzata. Gesù Cristo autore del battesimo è già ricordato sotto la figura di Stella, e sotto quella della Luna è la Chiesa ministra in via ordinaria di questo sacramento e sempre guida e maestra per volere del divin Redentore d’ ogni anima fatta per il battesimo cristiana. Il serpente poi con le due differenti stelle alla coda è simbolo del demonio che ribellatosi a Dio riuscì a far ribellar seco altri spiriti celesti di ordini GIORNALE LIGUSTICO 67 diversi giusta il già recato testo Cauda ejus ecc. e nello stesso tempo è simbolo del peccato originale per l’aspetto suo di serpente che ci ricorda la tentazione di Èva, genio del male in cielo, genio del male in terra. E i due scorpioni in dimensioni diverse che gli tengono dietro sarebbero l’emblema del peccato attuale nella sua gradazione di mortale e veniale. E la sottostante selva di piante e pruni raffigurerebbe il genere umano guasto dal demonio e dalla colpa, rappresenterebbe il mondo e la vita presente inselvatichita dinanzi al suo creatore per questa corruzione e divenuta per il peccato una valle di desolazione e di pianto. In tre parole ecco il concetto voluto scolpire in questo battistero. Creazione, corruzione e ristorazione. Ristorazione: nel suo Autore, Gesù Cristo ; nel suo mezzo, 1’ applicazione dei meriti suoi coll’ opera della Chiesa che ne è la tesoriera e la dispensatrice ; nel suo soggetto, l’anima. Autore, mezzo e soggetto rappresentati nel gruppo delle tre figure, la stella, la luna, il pesce. — Corruzione : nel suo autore, il demonio ribelle a Dio ne’ cieli e poi tentatore dell’ uomo in terra ; nel suo mezzo, il peccato originale ed attuale; nel suo sog-getto, il genere umano. Autore, mezzo e soggetto che sono raffigurati nell’ altro gruppo composto dei simboli, il serpente colle due stelle, i due scorpioni e la selva che sottostà. — Creazione . „ . Ma dov’ è, o signori, il simbolo di questa ? Si potrebbe dire che anche senza simbolo essa si sottintende; perchè come l’idea di ristorazione suppone l’idea del guasto, così l’idea del guasto o della corruzione suppone quella della esistenza in istato sano che in origine non può altro essere che la creazione. Tuttavia in quella guisa che furono qui simboleggiate e la ristorazione e la corruzione nei due anzidetti gruppi di figure pare che anche la originaria esistenza in istato sano 0 in altro termine la creazione portante con se lo stato di originale giustizia dovesse, 0 almeno 68 stesse bene che fosse simboleggiata: e simboleggiata nel modo che le altre due , vale a dire nel suo soggetto , nel mezzo, nell’ autore. Ed eccoci, o signori, tornati qui sen-z’ altro al primo simbolo scolpito in questa coppa, il pentalfa. La esistenza in istato sano dell’ uman genere dissi che qui volea essere rappresentata: che è quanto dire la esistenza originaria o lo stato di originale giustizia, quello cioè che l’uomo ebbe appena uscito dalle mani creatrici di Dio. E questo concetto perchè stia a paro della rappresentanza degli altri due, cioè Corruzione e Ristorazione dovea essere simboleggiato nel suo soggetto, nel suo mezzo, nel suo autore. Se non che pel soggetto qui non occorreva un emblema speciale, essendo il medesimo che quello della corruzione e dello ristoramento, cioè l’uomo, l’anima, il genere umano. Per il mezzo si dica quasi il medesimo , in quanto che 1’ uomo è fattura immediata della divina onnipotenza e così questo mezzo, cioè 1’ onnipotenza, si identifica coll’ autore stesso della creazione; di modo che una volta simboleggiato l’autore di questa creazione o di questo stato di originale giustizia è tutto simboleggiato. Ora questo autore secondo il domma cristiano è Dio^ Dio onnipotente, Dio eterno infinito e avente tutte le perfezioni, Dio principio e termine di tutte le cose, e più uno nell’essenza e trino nelle persone. E questo Dio è qui simboleggiato, pare a me, colla figura del pentalfa. Oh! e non vedete il nesso tra questa figura e Dio creatore d’ ogni cosa buona? Il pentalfa, richiamatelvi a memoria, o signori, il pentalfa che con la parola ΥΓΕΙΑ o senza era avuto dai Gentili per simbolo della sanità e si può quindi anche dire della integrità, della giustizia, del bene. Il pentalfa che valeva anche a significare presso gli Egiziani l’Infinito, il fato, il principio e la fine di tutto : idea imperfetta ed GIORNALE LIGUSTICO 69 oscura di un Essere superiore a tutte le umane cose e a cui come a principio o come a fine tutte le umane cose si attengono e si riferiscono. Sanità, fato , infinito , principio e fine che noi con parola cristiana diciamo Iddio. — Anche la forma e il nome di Alpha ha qualche cosa che vi richiama P idea di Dio perchè vi rammenta quel detto dell’ Apocalissi Ego surn Alpha. — Anche il cerchio o 1’ anello che attornia questa figura concorre a farvela qui dire emblema di Dio, giacché questo cerchio fu sempre avuto se non erro, per segno dell’ infinito, dell’ eternità, della perfezione o almeno il dovea essere allorché fu costrutto il nostro battistero; dacché come a proposito ricordò il socio sig. avv. Enrico Bensa ,si vede che anche P Alighieri cosi vicino a quel tempo volendo descrivere Iddio ricorse all’ idea del circolo. Nella profonda e chiara sussistenza Dell’ alto Lume parvemi tre giri Di tre colori ed una continenza (1). Ma vi ha di più, ed è quello che più mi preme farvi osservare. In questo pentalfa si trova cosa che si attaglia ottimamente al concetto di Dio che è proprio del cristiano, cioè di Dio uno e trino. Gli antichi chiamarono questa figura pentalfa perchè presenta all’ occhio cinque alpha messe a sfera, ma in verità non sono che tre, e a formare questa figura mentre bastano tre alpha non ce ne vogliono meno di tre. Io la chiamarei più volontieri Trialfa. Proviamoci di grazia a decomporlo e voi lo vedrete (2). E questa particolarità propria di questa figura non è attissima a farvi andar (1) Dante, Paradiso, Canto 33. (2) Vedasi figura 4, nella quale sono tracciate le tre alphe: la 1.« in linee forti col vertice in A; la 2.“ in linee sottili col vertice in B; la 3/ punteggiata col vertice in C. 70 GIORNALE LIGUSTICO colla mente al domma cristiano dell’ Unità e Trinità di Dio? Unità nel tutto insieme del pentalfa; Trinità nelle tre alpha di cui si compone? — Eziandio con tre triangoli si può mettere insieme questa figura (i). E il triangolo sapete che già per se ci dà il simbolo della Trinità, e probabilmente lo dava anche in antico secondo una osservazione dell’ Abbate Martigny là dove nel suo Dizionario des antiquités chrétiennes parla de’ triangoli uniti al monogramma di Cristo. Uniti poi insieme in modo da fornirci una figura sola in tutte le sue parti compiuta contiene più che mai, pare a me, il concetto dell’ unità e della trinità di Dio e della eguaglianza che è propria delle divine persone secondo le espressioni di San-t’Atanasio nel suo simbolo Totae tres personae sunt coaequales Unitas in Trinitate et Trinitas in Unitate. Tutto questo, o signori (se bene o male giudicatelo voi), per ispiegare in qualche maniera le sculture del nostro battistero di Corvara fatto nel 1345 , le quali per riassumermi rappresenterebbero nel pentalfa Iddio uno e trino creatore del-Γ uomo, nel piccolo scorpione il peccato veniale, nel grosso il mortale, nel serpente il demonio e il peccato originale, nei diversi e molteplici rami il genere umano guasto dalla colpa, nella stella Gesù Cristo, nella luna la Chiesa, nel pesce Γ anima battezzata e redenta. Ora sarebbe egli lecito a modo di appendice al fin qui detto avanzarci un passo di più? Giacché l’occasione ci si porge propizia potremmo da questi simboli del XIV secolo lanciarci a quelli di forse altri dieci secoli innanzi ? Se ciò non è soverchia arditezza quasi quasi collo studio sugli emblemi del battistero di Corvara vorrei farmi a spiegare i segni arcani di Cristo e della sua croce salutifera trovati dal (1) Vedasi figura 5, nella quale i triangoli a, b, c, in linee forti, d, e, f, in linee sottili, g, h, i, punteggiato. GIORNALE LIGUSTICO 71 sommo De Rossi nel Cemetero di Pretestato a Roma. — Là, come dissi in principio, è un pentalfa, là un mostro, là una croce (i). Or bene. Se il pentalfa è simbolo di Dio uno e trino nel nostro battistero ( e pare che non possa essere d’altro) perchè noi sarà sul fino intonaco di quell’ ambulacro nel Cemetero di Pretestato? E se in quello antico Cemetero il pentalfa è simbolo di Dio, ecco là con maggior parsimonia di emblemi lo stesso pensiere, lo stesso concetto del battistero nostro; pensiero concetto che in sostanza non è altro che la storia fondamentale del cristianesimo ne’ suoi minimi termini; cioè Dio, demonio e Gesù Cristo: Dio creatore, il demonio corrompitore, Gesù Cristo riparatore. Creazione e stato d’innocenza, ribellione di Lucifero e introduzione del peccato nel mondo per opera sua mediante la tentazione , ristorazione fatta da Gesù Cristo mediante il sacrifizio di se medesimo sulla croce. Ma lasciamo: poiché, sì, è ardimento soverchio il volere anche con peritanza subentrare a un Giambattista De Rossi. CONTRIBUZIONI ALLO STUDIO DELL’EPIGRAFIA ETRUSCA per Vittorio Poggi Nello scorso novembre i signori dott. Pico Cantucci e Vittorio Simoncelli perlustrando insieme i dintorni di S. Quirico d’Orcia (circondario di Montepulciano), in traccia di materiali per studi di storia naturale; sull alto d un poggio, in podere del signor conte Clementini Piccolomini di Siena a poca distanza dalla villa detta La Ripa, dello stesso pro- (i) Vedasi figura 3. 72 GIORNALE LIGUSTICO prietario, ebbero occasione di osservare due urne cinerarie scolpite in pietra tufacea, della specie ben nota in Toscana sotto la volgare denominazione di pietra puzzola, o fetida: circa la provenienza delle quali avendo chiesto informazioni ai contadini del luogo, seppero che le medesime erano state da questi tratte accidentalmente all’ aprico nella circostanza di alcuni lavori di sterro colà poco prima eseguiti. Datone avviso al proprietario del fondo, questi, in quanto gli fu concesso dalla stagione ormai troppo inoltrata, fece praticare altri scavi, il cui risultato fu di mettere a nudo in pochi giorni una quindicina di congeneri tombe etrusche giacenti alla profondità di non più che due metri dal suolo. La maggiore consisteva in un sarcofago d’ un sol pezzo, di oltre a m. i. 70 di lunghezza, lavorato finamente come dimostrano il taglio nettissimo degli angoli e le pareti levigate a guisa di marmo. Conteneva due scheletri; senonchè per l’inesperienza dei lavoratori si ruppe in più pezzi, nel quale stato trovasi ora giacente sul luogo stesso, mentre le urne minori vennero opportunamente trasportate alla vicina villa padronale La Ripa. Nello stesso sepolcreto, insieme alle urne si rinvennero vasi fìttili di varie dimensioni e forme; molti dei quali, come accade, furono dai contadini nello scavare non prima scoperti che infranti. I vasi sono senza vernice, da due infuori, dei quali uno col fondo ornato di una figura virile dipinta a color giallo in campo nericante, del così detto stile attico recente, per quanto mi è dato arguire dal cenno che me ne porge la lettera d’ onde ricavo questi ragguagli. Si raccolsero pure alcuni oggetti e frammenti in bronzo, ma talmente ossidati da non prestarsi ad una positiva qualificazione. Delle urne scoperte, il cui tipo generale è 1’ ovvio a parallelepipedo rettangolare, quando con piedi e quando senza, sempre però con coperchio talvolta piatto, più spesso foggiato GIOXNALE LIGUSTICO 73 a tetto, alcune racchiudevano lo scheletro, altre le ceneri del defunto. Quattro soltanto sono fregiate di iscrizioni, che qui trascrivo dai calchi in carta che l’avv. Giuseppe Poggi ebbe la compiacenza di eseguire per mio uso colla maggiore accuratezza sui monumenti originali. !» ΟΟΑΊ · AMI'‘HVflll'M (mi aupnis'a lar-9-ΜΊ-18ΊΑΙΟΟΑΙΜ1 M0>A acrnis’i a r θ i a 1 fels'-ΊΑν| n al) = Sum Aupinii uxor, Lartia Acrinisia, Aruntià Fdsinià matre nata. Urna con piedi, lunga m. o, 65, alta 0, 53, larga o, 39. Il coperchio è a tetto, con righe a imitazione delle scanalature delle tegole. La grafia delle lettere è arcaica; Va e Y faffettano la forma quadrata ; Γ e subisce una inclinazione pronunciatissima a sinistra. La forinola mi, più 0 men frequente su altri monumenti etruschi, non ricorre che assai raramente sulle urne cinerarie e sus^li ossuari; tanto che in non meno di 128 iscrizioni che, a mia conoscenza, ostentano tale monosillabo, appena è se una diecina, compreso la presente, appartiene alla classe accennata (1). (1) Otto ne registra il Fabretti (Corp. inscr. Hat., 263, 348 bis a, 348 bis b, 429 bis a, 439, 451 bis c, 467 bis; Suppl. pr., 234). Un coperchio di umetta in pietra arenaria inscritto mi lausies/ esiste nell Archivio del Capitolo della Cattedrale di Fiesole, .e ne desumo la notizia inedita dalle schede del eh. Gamurrini. 11 rimanente va diviso nelle seguenti categorie: architravi di sepolcri, basi e altre lapidi, n. 31; cippi, colonne e stele, n. 17; statue in marmo 0 bronzo, n. 6; vasi in terracotta, n. 48; vasi in bronzo, e altri monumenti dello stesso metallo, n. 5; suppellettili in oro, argento e osso, 74 GIORNALE LIGUSTICO Il m i iniziale è qui evidentemente accoppiato ad un nome di persona posto al nominativo : il che non sarà rilevato senza interesse da chiunque non ignori come nella più parte delle iscrizioni congeneri il caso di flessione in cui son posti i nomi dei rispettivi titolari formi soggetto di controversia fra gli eruditi che ne tentarono Γ interpretazione. Coloro, infatti, i quali riconoscono col Corssen nel m i etrusco il pronome della prima persona all’ accusativo singolare = lat. me, retto da un sottinteso verbo dedit, fecit o posuit, secondo la natura del monumento inscritto ( Ueber die Sprache der Etrusker, I, pg. 775 sgg.), sono di necessità portati a scorgere nei nomi personali che seguono tale presunta particella pronominale altrettanti nominativi, anche quando questi nomi escano in — s, o — ì', desinenza che è più sovente indizio del secondo caso di declinazione. Così mi tanxvilus (Fabr., Suppl. i.°, 451) è pel Corssen = me Tanaquilius (dedit)', mi alfinas (Suppl. 2°, 87) = me Albinus (dedit); mi mukis' rapa-naia (ibid., 84) = me Mucius Rapanuia matre natus (dedit) ; mi vels’ tites’ mulnanes’ (Corp. i. ital., 439) = me Vdiis Titius Mulnanius (dedit), e via dicendo. Per contro, i fautori della dottrina del Lanzi, giusta la quale l’etrusco m i equivale al greco είμΐ = lat. sum, sono naturalmente inclinati a ravvisare nei nomi personali accoppiati al detto monosillabo dei genitivi, eziandiochè non ne abbiano l’apparenza; quindi è che in epigrafi come mi lar-fria amanas (Suppl. 3°, 297); mi arafria arvftenas (2); mi larisa plaisinas 11. 5; vasi in piombo, n. 1 ; gemme, n. 1: dipinti su pareti di sepolcri, n. 2; specchi, n. 2. Uno degli argomenti onde fu testé impugnata la genuinità dell’ iscrizione che fregia il coperchio del famoso sarcofago bisomo di Cervetri, oggi nel Museo Britannico , consiste appunto nel fatto che quell’ iscrizione comincia con mi (Fabretti, Suppl. ter\o, p. 37). (2) Ibid., 293. Il ch. prof. W. Deecke nelle sue Neugefundene etruskische GIORNALE LIGUSTICO 75 (ibid., 294); mi arunftia malamenas' (C. i. it., 451 bis c), ecc., havvi chi considera i prenomi femminili lar'fria, ara&ia, larisa e a r u n fri a quali genitivi che hanno perduto nella trascrizione la sibilante finale caratteristica del secondo caso di flessione. La qual sentenza potrà per avventura apparire esorbitante, chi pensi come a tal ragguaglio verrebbe a mancare ogni criterio di distinzione fra i casi retti e gli obliqui. Di vero, senza nulla detrarre in massima al principio generalmente ammesso che nella scrittura etrusca non di rado ha luogo Γ ommissione della sibilante in fin di voce, probabilmente a imitazione della pronuncia volgare, non si vede il perchè delle due voci onde consta la nomenclatura delle singole titolari nelle addotte iscrizioni, la prima soltanto, cioè il prenome, avrebbe perduto la sibilante, mentre Γ altra esprimente il gentilizio Γ avrebbe, invece, conservata. Coloro i quali s’interessano allo studio della nominum ratio presso gli Etruschi non ommetteranno di prendere appunto della singolare posizione che occupa in questo titolo il cognome desunto dal coniugio. Di vero, sui titoli delle donne maritate, a prescindere dai casi, assai frequenti, in cui la condizione coniugale della titolare veniva espressa all’ uso romano col nome del marito al genitivo ,es. larfri-vetui· Inschriften, 15 (Beitràge kunde d. indogerman. Sprachen, I, p. 97) legge ara&enas; ma i due apografi che io posseggo delle iscrizioni incise sul-1’architrave della porta di ciascuna tomba della necropoli Mancini, uno dei quali provenutomi dalla gentilezza dell’ avv. signor Angelo Pezzuoli distintissimo cultore delle antichità orvietane, concordano pienamente colla lezione arv&enas esibita dal Fabretti dietro trascrizione del prof. E. Brizio. Non tacerò che il dott. G. Korte (Scavi di Orvieto, negli Ann. del-l'Inst. di corr. arch., tomo XLIX, p. 113) va di conserva col Deecke nell’ assegnare il valore d’ un a al terzo elemento di detta voce : basta però un’ occhiata al fac-simile dell’ iscrizione da lui riportata al n. 11 della tv. d’aggiunta k, per persuadersi che il contrastato elemento affetta la forma del digamma. 76 GIORNALE LIGUSTICO calisnas’ (Suppl. pr., 321) = Lartia Fetta Calimi (uxor), lartia · vetruni · cus'is' (ibid., 322) = Lartia Vetronia Cusii (uxor), 1’ ordine legittimo dei nomi era il seguente : prenome, nome gentilizio, patronimico, cognome coniugale, matronimico : a fr : 11 e s n a : v 1 : || p a p a s a : s e i a n t i a 1 : (C. i. i., 727) = Aruntia Telesinia, Velii filia, Papii uxor, Seiantià inatre fiata (1). Raramente però i titoli funerari esibiscono una nomenclatura così piena. Talvolta ommettevasi il matronimico, come in arnza : tlesna : ar nfralisa : camarinesa (ibid., 730) = Aruntia Telesinia, Aruntis filia, Camarinii uxor; tal’altra il patronimico : tanxvil : fremne(i) || tevatnal [| lecnesa (ib., 406) = Tanaquilla Fremnia, Tebatià matre nata, Licinii uxor; più di rado, con questo anche il prenome : veizi : cumeresa : varnal : s’e'c (ib., 940 = Vettia, Cumerii uxor, Varenià matr e nata. Senza dubbio, lo stile più usitato fu di ristringere la nomenclatura alla enunciazione del prenome, del gentilizio (che talora era duplice) e del cognome di coniugio, es. frana : vi-pinei : ranazunia : creiices’a (Suppl. }.°, 190) = Tannia Vibennia Ranasonia, Creicii uxor (2); frana : vetia || pump- (1) Faccio astrazione dalla serie ben nota di iscrizioni in cui ricorre la controversa voce p u i a, circa la quale non mi persuadono le proposte interpretazioni di fili a (Lanzi, Vermiglioli ecc.), di filia adoptiva, di nurus (Maury), di puella (Corssen); e tanto meno quella di uxor (Orioli, O. Muller), sebben patrocinata oggi dal Deecke e perfino accarezzata dal Gamurrini: accostandomi più volontieri al Fabretti, che le attribuisce, non però senza qualche peritanza, il significato di vidua. (2) Questa iscrizione, da me edita nel Bull, dell' Instituto di corrisp. ar-cheol. del 1874 (p. 187) viene tradotta dal Corssen (II, p. 586): Tana Vibinia, Ranasonia matre nata, Creicii uxor. Ma che ranazunia non sia altrimenti matronimico, bensì un secondo gentilizio della titolare, si evince chiaramente dai seguenti congeneri titoli di polionime: lar&ia latini cesunia tutnas a ult imnial s'ec (Suppl. i.°, 224); ____an.saci: 77 nasa (ib., 91) — Tannia Vdtia, Pomponii uxor; ta : petrui II fer in i sa (ib. 172) = Tannia Petria, Ferinii uxor. Non è raro tuttavia che il titolo consti di due soli membri, del cognome coniugale, cioè , accoppiato quando al gentilizio, es. carnei-.latinisa (ib., 93) = Cainnia, Latinii uxor; vedrei sepiesa (ib., 167)= Velcreia, Sepii uxor; quando al prenome, es. arnza · vetus'a (Suppl. i.°, iy8 bis) = Aruntia, Vettii uxor; (ha)stia || ani usa (Suppl. 3°, 82) = Fausta, Annii uxor; fra · tisleni || sa (Suppl. 2.0, 56) = Tannia, Tislenii uxor; nè mancano, finalmente, esempi della nomenclatura ridotta alla enunciazione del solo appellativo desunto dal marito della defunta, es. cumeresa (C. i. i., 487); lanialisa (ib., 640); uiscesa (ib., 781); ranazusa (ib., 1720); kamusa (1). Parimenti, l’ordine della nomenclatura veniva spesso alterato nella trascrizione : così il cognome coniugale trovasi in talune epigrafi posposto al matronimico, come in vel : arntni : latinial : creicesa (ib., 589) = Velia Aruntinia, Latinià matr e nata, Creicii uxor; altrove, invece, preposto al patronimico, come in frania : la rei : || frauenisa || ca (ib., 601 bis c) = Tannia Larda, Fruginii uxor, Caii filia; ar · calisnis1 apusa || larfral (Suppl. 3°, 198) = Aruntia Ca-linnia, Apii uxor, Lartis filia. Affatto insolita, peraltro, riesce la preposizione del cognome cumerunia____cnisa : tlesnal : sec (ib. 967); 1 ar θ-i vuisia penuria) pacsinial (ib., 323), lar-8-i. vipinei | leixunia || 1 eθ-ia 11| s’ec (Suppl. 3° , 147) etc., nei quali ad una voce di identica desinenza e posizione si aggiunge il rispettivo matronimico nella sua forma più propria. (1) Quest’ultimo titolo, inciso su rozza umetta di travertino trovata nel 1867 nell’agro aretino, è inedito, e lo tolgo dalle schede del Ga-murrini. La m è della rara forma Λ di cui ho discorso con qualche ampiezza nella mia monografia Di un bronco piacentino con leggende etnische. 7» GIORNALE LIGUSTICO di coniugio a rutti gli altri appellativi della titolare, nè mi soccorrono esempi di altre iscrizioni congeneri in cui il cognome stia a capo della nomenclatura, dai due seguenti in fuori: velus'a || anainai c (Suppl. i.°, 431) = Fidii uxor Anainia, Caiifilia; tutnasa [J frana tiscusnei : velnfrial (ib., 177) = Tutinii uxor Tannia Tiscusnia, Veltinià matr e nata: dove è da avvertire che la prima di tali leggende fa parte di più ampio titolo, in relazione al quale può apparire suscettiva di diversa interpretazione ; come per quanto risguarda la seconda, non si vuol pretermettere che questa è incisa su due linee in umetta chiusina di maniera che il cognome tutnasa corre da solo sul coperchio, mentre il rimanente del titolo occupa il solito posto nel corpo dell’ urna stessa; laonde potrebbe con pari ragione ritenersi, come ritenne infatti il Fabretti, che la linea superiore fosse la continuazione dell’ inferiore. Il cognome aupnis'a giunge in buon punto a confermare la lezione aupni di iscrizione chiusina che parve sospetta al Fabretti (Suppl. 1°, 246), risultando per appunto composto del gentilizio maschile aupni coll’ arrota del suffisso - i s a, secondo la solita formazione dei cognomi femminili etruschi desunti dal coniugio. La forma di questo gentilizio richiama quella del noto au Ini di tombe perugine (1), e accenna ad una parentela molto stretta coll’ hupnii di vaso fittile di Bomarzo (C. i. i., 2424 bis). acrnis'i sta senza meno per acrnis'ia, come ceisi per ceisia (C.i.i., 1188, 1190), vuisi per vuisia (Suppl- 1°, 324, 372), veini per veinia (Suppl. 3.0, 118), vlesi per vie sia (2). È un nome che fa oggi la sua prima apparita (1) C. i. it., 1001, 1585. Di altre urne cinerarie spettanti a membri di questo casato, recentemente scoperte a Perugia, furono pubblicate le iscrizioni nelle Notizie degli scavi di antichità comunicate alla R.a Accademia dei Lincei, aprile 1878, p. 127. (2) Cito qui vlesi a preferenza di tanti altri nomi congeneri, come GIORNALE LIGUSTICO 79 nel campo epigrafico, dove però non gli mancano attinenze di parentela e di affinità, avendo comune lo stipite col gentilizio etrusco acri (C.i.i., 1934 bis a), di cui si cono- vetesi, alesi, navesi, ailesi, lacnes'i atranes'i ecc., 1.“perchè voce nuova, proferta da parecchie iscrizioni etrusche ed etrusche-romane di urne esumate da pochi mesi in Perugia, e dalla quale vengono a ricevere luce e conferma le fin qui incerte lezioni vlesas e ulesial di due titoli sepolcrali già editi nel Corp. i. it. (534 ter h, 1708); 2.0 perchè il valore di vlesi = ulesia, è determinato nel modo più positivo dalla leggenda etrusco-latina tania ulesia.scarpes di altra fra le dette urne. E poiché sono a parlare delle iscrizioni di queste urne perugine di recentissima scoperta, siami permesso di richiamare Γ attenzione degli eruditi sulla seguente bilingue : nel coperchio ...... L · SCARPIVS · SCARPIAE · L · I · O...... sulla fronte dell’urna IHiVfNA^qiDZ · OMfN 11 ch. prof. M. Guardabassi, la cui relazione sulla scoperta indiscorso é inserita nelle citate Notizie degli scavi dello scorso novembre (p. 336 sgg.), mal s’ appone intorno al contesto della scritta etrusca, affacciando il presupposto che 1’ ultima parola di essa abbia a supplirsi au (lesi), mentre è troppo evidente che trattasi dell’ovvio lau(f«z); e più ancora esprimendo il timore che da questa bilingue ben poco utile possa derivarne alla scienza; laddove non mi disdiranno gli etruscologi se io affermo che tale iscrizione debba invece reputarsi importantissima, in quanto che viene per essa a porsi in sodo ciò che non era fin qui che una congettura, per quanto probabile, circa al carattere ed al significato della voce lautni. È noto, infatti, come in codesta voce, a cui comunemente si attribuisce il valore d’un nome personale, altri già avea sospettato poter celarsi un significato assai diverso; e come, più recentemente, il Gamurrini non pur dimostrasse con opportuni riscontri che in taluni casi la voce stessa mal si acconcia alla suddetta spiegazione, ma traesse in pari tempo argomento da una nota bilingue chiusina (C. i. it., 794 bis) per inferirne che il lautni etrusco possa corrispondere al latino libertus. Siffatta interpretazione pienamente conforme alle leggi della etrusca epigrafia e come So GIORNALE LIGUSTICO scono i casi, le forme e i derivati akrs' (i), acris’ (ib., 1729), acril (ib., 1841), akrul (ib., 1942), nonché coi latini Acrius, Agrius, Aenius (2) etc.; mentre per parte del suffisso terminativo è in stretto rapporto coi femminili etruschi turrisia (ib., 1817), vuisia (Suppl. i.°, 323), e più intimamente ancora con Ocrisia, nome della madre del re Servio Tulio, secondo Dionigi d’Alicarnasso (IV, 1 sq.), tale accettata da etruscologi di polso, fra cui il Deecke (op. cit., η. XIV, 43), venne testé poco men che elevata al grado di teorema scientifico per opera del Fabretti; la cui dimostrazione edita negli Appunti epigrafici che precedono il Ter^o Suppl. alla racc. delle antichiss, iscr. it. (pg. 22 sgg.), potrebbe dirsi, invero, rigorosa, quando più salda fosse la base su cui poggia. Imperocché 1’ unico monumento a citarsi come atto a somministrare una prova di fatto a conferma della propugnata induzione consisteva finora nella dianzi mentovata bilingue chiusina ; ma 1’ umetta su cui questa era pennelleggiata essendo andata disgraziatamente perduta, l’invocata testimonianza riposava ormai sulla fede d’una trascrizione, per confessione dello stesso Fabretti, di lezione incertissima: di che si evince quale e quanta sia l’importanza della nuova bilingue perugina, la quale sopraggiunge così opportunamente a confermare la verità della odierna dottrina italiana sulla interpretazione del controverso lautni, di fronte alle ultime conclusioni del Corssen, che la combatte a tutta oltranza persistendo più che mai nel riconoscere in quel vocabolo un semplice nome proprio di persona = Lautinius (v. la nota apposta alle pgg. S95-S99 II vol.). (1) C. i. i., 451. Sembrerebbe, invero, più consono alle leggi che regolano la declinazione dei nomi etruschi ritenere akrs' per genitivo di acri, dando alla nota leggenda mi akrs' dipinta su parete di cripta sepolcrale dell’ agro senese l’interpretazione sum Acrii. Ma il Corssen che a motivo del suo mi = me, onde ho pocanzi toccato, dovea ad ogni costo rimuovere il presupposto d’ un accoppiamento di detto monosillabo con forme genitivali, dichiara akrs' (di cui designa lo stipite in ak -r - io - ) quale forma contratta di un nominativo ak - r - iu - s' (I, p. 777. Cf. I, p. 363 ; II, p. 195). (2) Muratori, Nov. thes. vet.inscr., p. 1123,9. Garrucci, Syll. inscr. lat. aevi rom. reipubl., 81 r., 15 51, 1552, 1496. GIORNALE LIGUSTICO 8l Plinio (XXXVI} 70, 1) e Arnobio (V, 18), del qual nome sarebbe, infatti, anche parente in linea collaterale, se si ammette la corrispondenza etimologica dei nomi personali etruschi acri, akrs', ucar, ucrs', da cui ucurs, ucrsa, u cris lane, ucrinei (1), coi sostantivi umbr. ukar, ocar (genit, ocrer), sabell. ocres, lat. ocris = monte, gr. δκρις, ακρις = cacume, vetta (2). La notissima terminazione in -al, per -ali-s, comune ai due ultimi membri dell’ inscrizione non lascia dubbio doversi in questi riconoscere il matronimico della titolare espresso in due appellativi desunti 1’ uno dal prenome e 1’ altro dal gentilizio della madre. Vero è bensì che come i caratteristici suffissi -asa, - esa, -isa, -usa, onde si formano solitamente i cognomi femminili derivati dal coniugio (3), così anche la desinenza in -al propria dei matronimici vien talvolta usurpata nella formazione di appellativi enuncianti il prenome paterno, limitatamente però, in quest’ultimo caso, ai due prenomi nazionali etruschi arnfr (Aruns) e larfr (Lars), laddove gli altri escono, di regola, al genitivo in -s; di maniera che non è raro il caso che sullo stesso titolo si riscontrino l’uno a costa dell’altro due appellativi in -al, dei quali il primo accenna al prenome del padre e il secondo al gentilizio della madre, es. saturinies · arnfr || larfral fulnial.... (1) A tale plausibile lezione richiama il Fabretti la voce ucirinei proferta da tegolo chiusino (Suppl. pr., 222. Ind. pg. 139). (2) Ho cercato invano i due nomi di Turrisia e di Ocrisia nella recente monografìa del prof. Deecke Etrushische Lautlehre uus griechischen Lehn-wòrtern (Beitriige ζ. kiinde d. ig. Spr., II, pgg. 161-186). (3) Es. aule . amtpare . aulesa (C. i. i., 861) = Aldus Anfarius Aulifilius', aule velimnas' θ-efrisa || nufrznal clan (ib., 1491 ) = Aulus Volumnius, Tiberii filius, Noforsinia matre natus; lar&:peâ-na: s e ·9· r e s a (ib., 512) Lars Petinius, Setrii filius ; arn^umranas'.-velusa (ib. 786) = Aruns Umbranius, Veli filius. Giornale Ligustico. Anno VI. 4 82 GIORNALE LIGUSTICO (Suppl. 3°, 316) = Aruns Saturinius, Lartis filius, Fulloniâ matre natus; arnfr · cumere· arnfral || tetinal (ib., 280) — Aruns Cumerius, Aruntis filius, Tetiniâ matre natus; etc. Nella fattispecie però, sebbene manchi ogni altra indicazione della paternità della defunta, trattandosi non già di una arfr-al (.Aruntalis), come porterebbe la presunzione ove men certa fosse la lezione; ma bensì d’una arfri-al (Aruntialis), non può pensarsi che ad un matronimico; onde il titolo sarà da aggiungersi allo scarso novero dei già noti in cui la maternità viene espressa nella sua forma più piena, mediante due appellativi caratterizzati Γ uno e Γ altro dalla determinazione in -al, es. lartiu cucinies· lardai· clan (Jlarfl-ial ce in an al etc. (Suppl. i.°, 438) = Lars Cuculilius, Lartis filius II Lartiâ Ceinaniâ natus etc. ; velfrur lardai· clan |j pu m puai clan-larfrial etc. (Suppl. 2°, 112) = Velturius Lartis filius j| Lartiâ Pompiâ natus etc. 2. ’ΙΚΝΊΜ : OHOfl (arnfr : titlni : : ΊΑΟΚίαΑ arnfral X X) = Aruns Titulnius (Titulenius ?) Aruntis filius. Urna con piedi lunga o, 22 -j, larga o, 16, alta 0,27. Il coperchio è assai sporgente, ma il suo vano combacia a capello coll’ urna. Del gentilizio titlni o titulni non si conosceva fin qui che la forma femminile titlnei esibita da urna fiorentina (C. i. i., 227). Lo stile di citare semplicemente il prenome paterno, etere patrem, ommettendo il matronimico che presso gli etruschi tenea luogo in certo qual modo di cognome, accusa l’influsso romano, riportando il titolo ad un’ epoca di transizione, GIORNALE IGUSTICO 83 quando alle forme nazionali in Etruria cominciavano a sostituirsi gli usi importati da Roma. . La cifra numerale χ accenna evidentemente agli anni vissuti da Arunte Titulnio, e presuppone la nota formola avil rii che più spesso occorre sui titoli epigrafici amputata di uno o dell’ altro dei suoi due membri, e talvolta ridotta al solo segno numerico come nel presente. 3· : ΙΚΝΝΠ-'ΝαΑΊ (lart : titlni : : VI8Q\D* scurfiu:) = Lars Titulnius Scorpus. Urna senza piedi, alta 0,23, lunga 0,38, larga 0,28; coperchio piatto. L’ ortografia del prenome si fa notare per l’impiego della dentale tenue invece dell’aspirata. La forma scurfiu è nuova, però molto affine al conosciuto s c u r f u di urna dello stesso territorio (C. i. i., 866), da cui il cognome di coniugio scurfusa esibito da altra urna di identica provenienza (ib., 863): nè sfuggirà l’analogia di struttura col nome femminile urfia inscritto su tegolo di Cetona (Suppl. i.°, 251 bis /.). L’ ommissione del matronimico, di cui già ho toccato al n. antecedente, e la presenza del cognome, more romano, consigliano di riferire questo titolo, come pure il seguente, all’ ultimo periodo dell’ epigrafia etrusca. Un altro argomento a favore di tale congettura vien somministrato dal cognome stesso: il quale trovasi usitato nel primo secolo dell’ impero e più particolarmente ai tempi di Domiziano, quando si rese popolarissimo per opera di quello Scorpo, clamosi gloria Circi, celebrato ripetutamente da Marziale (IV, 67; X, 50, 51, 74), e che esser dovette liberto della casa augusta, per quanto 84 GIORNALE LIGUSTICO si può plausibilmente arguire dalla iscrizione di Diocle (Wil-manns, Exx,, 2601), dove è detto Flavius Scorpus. 4. -llMWIVfl (a · titulni · •0V8fl afur·) = Aulus Titulnius Afur. Urna su quattro piedi, con coperchio a piramide. Sulla faccia nobile è intagliato a bassorilievo un finestrone con inferriata a scompartimenti. U iscrizione occupa il lato destro di detto finestrone. Anche il presente titolo spetta ad un membro della famiglia Titulnia 0 Titulenia; soltanto, il gentilizio assume in questo una forma ortografica più piena che nei due titoli precedenti. Il nuovo cognome afur viene ad arricchire l’interessante eppur poco studiata categoria dei nominativi singolari etruschi con terminazione in - ur, la quale corrisponde in etrusco alle desinenze in^- ώρ e in - ουρος presso i greci, e a quella in - or dei latini. Così veggiamo i nomi greci ' Εκτωρ, Κάστωρ, Νέστωρ suonare in etrusco ectur (C. i. i., 2148 bis), kastur (ib., 108; Suppl. i.°, 252), nestur (C. i. i., 2164) (1); come epeur (ib., 2500) ed husiur (ib., 1487) si appalesano forme etrusche di έπίουρος e di δσίουρος. Così ufrur su (1) Sembrerebbe far eccezione alla regola la forma velparun onde veggiamo su due specchi (C. i. i., 2277 bis b, 2537) espresso in etrusco il nome di Έλπήνωρ;’ΐΜ se ben si osserva, la forma velparun invece di velpanur è semplicemente l’effetto di una di quelle inversioni o trasposizioni di sillabe che non sono insolite negli antichi parlari, e la differenza che ne risulta può paragonarsi per qualche rispetto a quella che corre fra le voci fracido e fradicio nella lingua italiana. Così in specchio chiusino (ib., 479), il nome di Castore (Κάστωρ) assume la forma kasutru invece della solita kastur, o castur. GIORNALE LIGUSTICO Ss statuetta enea del Museo di Firenze (ib., 255) risponde al latino auctor, e nicipur di ossuario chiusino (Suppl. 3°, 178) cui il Fabretti riferiva testé al greco Νικηφόρος, riscontra, se pur mal non m’ appongo, più esattamente col latino Nicepor proferto da parecchie iscrizioni arcaiche (Garrucci, Syll., 930, 1452, 1633). Similmente il genitivo naeipurs su urna di Chianciano (Suppl. 2°, 21) arguisce un nominativo naeipur = Naevipor, 0 Gnaeipor, giusta il costume antico di dedurre i nomi servili dal rispettivo padrone, accoppiando al prenome di questo in genitivo la voce por — puer; di che ci rimangono esempi in Aulupor, Olipor, Caipor, Lucipor, Marpor, Marcipor, Publipor, Quintipor, citati dagli scrittori o esibiti da monumenti epigrafici (1). Una iscrizione della villa Wol-kowski in Roma ci ha conservato la forma arcaicolatina NAEPORI, dativo di Naepor = Gnaei puer. L’ applicazione degli enunciati principii permette di ravvisare nella voce caipur di iscrizione sepolcrale perugina (C. i. i., 1488) il nome servile Caipor menzionato da Festo (Ouaest. XII, 25); nè tacerò in proposito sembrarmi molto probabile che all’incertissima lezione i ulti tur della fabrettiana 1954 abbia a sostituirsi quella di t iti pur = Titipor. Ma non mancano, sebbene qua e là disseminati e nascosti, ulteriori elementi di confronto fra i venerandi ruderi della prisca latinità. Io vo pensando, a cagion d’ esempio, che il prenome velfrur, la più ovvia fra le voci etnische in - ur, altro non sia, in fondo, che l’arcaico Fertor, prenome che fu di quel Resio re degli Equicoli, il quale PREIMVS || IVS FETIALE PARAVIT, come dice il suo élogio epigrafico dissepolto fra le rovine del Palatino (Garrucci, Syll., 1145)? (1) Varrone, Non., VI, 1; Sallustio, appo Prisciano, p. 236; Plinio, XXXIII, VI, 10; Quintiliano, Inst. orat., I, IV, 26; Kellermann, Vig. rom. latere., II, col. 2. n. 16; Muratori, Nov. thes. vet. inscr., 154., 2; Garrucci, Syll., 1358, 1421. 86 GIORNALE LIGUSTICO d’accordo in ciò colle testimonianze del libro de nom. rom.> i, nonché di quello de viris illustr., c. 5 (1): come tengo per fermo che l’appellativo sertur esibito da ossuario perugino (C. i. i., 1552) si identifichi col Sertor di lapidi latinoarcaiche dell’Umbria (Mommsen, C. i. lat., I, 1097; Garrucci, Syll., 2097), del quale discorrono l’autore del precitato libro de nom. rom., e Festo (Quaest. XV), derivandolo, quest’ ultimo, a serendo. Ad analoghi raffronti che non è qui il luogo di istituire si prestano altri nomi di identica terminazione, quali metur (C. i. i., 184), lar-frur (ib., 1625), tunur (ib., 1915) etc. •Per quanto concerne l’afur di questo titolo, è forse da confrontarsi nel campo onomatologico col problematico Iafor inscritto su cista prenestina del museo Vaticano a lato di un personaggio, i cui connotati nel campo dell’ antichità figurata rispondono a quelli del greco eroe Memnone (Garrucci, Syll., 523) (2). Riserbandomi di proseguire la descrizione e lo studio della necropoli di S. Quirico d’Orcia, allorquando i lavori di scavo che a cura del prelodato proprietario del fondo, signor conte Clementini Piccolomini, stanno per iniziarsi allo scopo di esplorarne il contenuto archeologico fossero per dare quei risultati che fin d’ora è lecito ripromettersene, stimo prezzo (1) Si conosce un altro esempio-dello stesso prenome espresso in sigla a graffito su vaso capenate (Garrucci, Syll., 813). (2) Altri ha letto Iacor, fra cui il Mommsen (C. i. lat., I, 1500) e il Fabretti (Gloss. italic., col. 2073); e tale appare in effetto dal facsimile pubblicatone nei Monum. ined. dell’Inst. di corr. arch. VI, tb. LIV. Ma il eh. Garrucci anche testé segnalava 1’ infedeltà di quella riproduzione per quanto risguarda la leggenda in discorso : Dixi Iacor an Iafor sit nondum liquido constare, magis autem ibi Iafor mihi apparuisse in detrito loco et aerugine obducto, non recte igitur tabula eo loco litteram ( videtur repraesentare (Syll., 523). GIORNALE LIGUSTICO 87 dell’ opera render di pubblica ragione alcuni monumenti epigrafici etruschi, una parte dei quali vidi e trascrissi io stesso in tempi e luoghi diversi, mentre della conoscenza degli altri son debitore alla gentilezza delle infra citate persone, le quali ebbero sottocchio i rispettivi originali, e da questi soltanto desunsero gli apografi comunicatimi. 5· VIMIBVIÌIfl (aisiu himiu) = Aesitis Himius. Nell’orlo interno d’una casside etrusca trovata nel 1877 nei dintorni di Talamone, e più precisamente in luogo detto Talamonaccio di proprietà del signor Vivarelli, con altri interessantissimi bronzi, unitamente ai quali fu acquistato da quell’ egregio collettore di belle ed erudite antichità che è il march. Carlo Strozzi di Firenze, donde passò più tardi al Museo etrusco della stessa città. Si crede comunemente che il suffisso - in che caratterizza 1’ uscita al caso retto di molti nomi maschili etruschi (1) arguisca la preesistenza di una forma nominativale etrusca in - iu - s derivata genealogicamente dal suffisso - io, che è quanto dire dallo stipite stesso a cui fa capo la consona forma presso i latini ; di guisa che la desinenza in - iu dei nominativi singolari etruschi altro non sarebbe che una alterazione O della forma regolare in - in -s, quasi a dire un idiotismo (i) arnziu (C. i. L, 1508), atiu (ib., 1013, 1228), auliu (Suppl.).0, 103), ecpesiu (C. i, i., 1895)) fefriu (ib., 1027), hupriu (Suppl. 3· , 221), caciu (C. i. i., 767), capiu (ib. 796, Suppl. i.°, 219), claniu (C. i. i., 497), laziu (Suppl. i.°, 188), larsiu (C. i. i. , 1500) lartiu (Suppl. i.8, 438), laucinnuiu (C. i. i., 264), letiu (Suppl. i.°, 333)> nurziu (C. i. i., J731), parliu (ib. 2033 bis), pestiu (Suppl. i.°, 181), sacniu (C. i. i., 2182) sepuriu (Suppl. 165), svetiu (C. i. i.7 340), surtiu (ib., 2131), cpasti ciu (ib., 1679) etc. 88 GIORNALE LIGUSTICO espresso nella trascrizione ad imitazione della pronuncia volgare la quale sopprimeva volentieri la sibilante in fin di voce. Si citano come esempi di questa forma nominativale etrusca i nomi di akius (C. i. i., 47), aviivs' (ib., 355), numusivs1 (ib., 467 bis) ravunius (ib., 2174), ru-cpuius (ib., 2048) (1), i quali corrisponderebbero per questo rispetto ai latini Cornelius, Claudius, Fulvius, Aemilius etc., (Corssen, op. cit., § 124). Senonchè, chi ben guardi, gli addotti nomi hanno in generale piuttosto 1* apparenza di genitivi : ed entrano verisi-milmente nella medesima categoria con arnzius' (C. i. i., 1511), arntius’ (Suppl. 1°, 220), fefrius' (C. i.i., 1913), lartius’ (ib., 692 bis), talpius' (ib., 2588) cui lo stesso Corssen designa appunto per tali (I, § 143; II, § 340: laonde, ammesso il comune punto di partenza nello stipite -io, sembra più esatto il dire che, conforme alla diversa indole fonetica delle due lingue, il finimento in - iu pei temi in - io venne a costituire un carattere etnico dell’ idioma etrusco (in cui il suono della vocale 0 si esprimeva col segno u) , come quello in - ius del latino. Con ciò non si nega in modo assoluto che ad alcuno dei citati esempi possa attribuirsi la portata e il valore d’ una forma nominativale etrusca, come d’ altra parte si concede che la desinenza in - iu non fu così esclusivamente propria degli etruschi che non se ne ritrovino le tracce eziandio nella lingua latina (Seppiu, Ca-risiu, Salvili, Siciliu, Mariu, Vibiu, Naniu, Calventiu, Tin- (1) Il Corssen (II, § 507, p. 403, 5 554, p. 475) aggiunge al novero di tali nomi da lui qualificati per nominativi singolari anche il lartius' della fabrettiana 692 bis; però altrove, cioè al § 143, p. 392 del r.° vol., e al § 341, p. 131 del 2.0, lo cita per genitivo. Dal suo punto di vista avrebbe invece potuto comprendere in tal novero il luvciivs di noto titolo cornetano (C. i. i., 2287). giornale ligustico 89 fuiu etc.) (1), e nell’osca (Herenniu, Flapiu etc.): ma l’eccezione anche in questo caso conferma la regola ; la quale è che in etrusco la s, 0 s' finale cade quasi sempre come desinenza del caso retto, conservandosi, invece, quale segno caratteristico del genitivo. Il gentilizio aiziu = Aesius (Labus, Marni. Brescian., p. 137. Muratori, op. cit., 469, 3; 2088, i.°) richiama le forme affini ah si (C. i. i., (ib., 1271, 1545), ahsial (ib., 1273), ais i nal (ib., 2283) ; a e si al is a (ib., 452), che tutte ci riconducono ad aes = ais, donde trassero nome il fiume e la città Aesis (οάαίς) nel Piceno, e che si connette in pari tempo, da una parte coi noti appellativi della divinità presso gli etruschi Aesar (Sueton.. Aug., 97) e Ataot (Esich., gloss., I, 173) e dall'altra col greco αΐσα = fato, sorte; di modo che il gentilizio Aesius può credersi derivato o dal nome geografico Aesis, 0 dal greco aggettivo αίσιος = fausto, auspicato , fortunato. Dei due gentilizi onde consta la nomenclatura del possessore dell’elmo di Talamone, uno potrebbe essere desunto dalla madre e costituire una forma di matronimico diversa dalla solita in - al, nonché da quella avente per caratteristica la voce clan che esercita in titoli virili, rispetto ai matronimici e talvolta eziandio ai prenomi paterni, ufficio analogo a quello che il sec, 0 s'ec (sex, 0 s'ex), rispetto ai matronimici in titoli spettanti a donne. L’ uso di assumere ed enunciare insieme al proprio anche il gentilizio materno fu molto e per lungo tempo in voga presso i romani dell’epoca imperiale (2),^; non è vietato di credere che avesse il suo riscontro in Etruria. (1) Sulla preterizione della sibilante finale nel nominativo singolare della seconda declinazione latina, veggasi quanto ho esposto nei miei Sigilli antichi romani, n. 75 (p. 73) e n. 98 (p. 97). (2) Cf. Γ anzidetta mia opera, n. 1, 74, 76 etc. 90 GIORNALE LIGUSTICO Già fin dai tempi d’Augusto, l’enunciazione di due gentilizi, uno dei quali desunto dalla madre, era un contrassegno di nobiltà, e tale continuò ad essere pel corso di più secoli, siccome consta per molti esempi (x). Molte volte rimane dubbio se il gentilizio materno sia il primo ο 1’ ultimo dei due enunciati; certo, l’usanza più antica fu che il materno fosse Γ ultimo; ma è del pari incontestato che sotto 1’ impero di Traiano già erasi introdotto il costume di anteporre non di rado il gentilizio della famiglia materna a quello del padre (2). Graffita profondamente su lastra di pietra fetida da me vista nel 1876 a Firenze presso il signor Giuseppe Pacini negoziante di anticaglie allora in piazza S. Maria Novella. Trovasi argomento a dubitare della sincerità di questa iscri— (1) Citerò fra questi la nomenclatura di Salonino figlio dell’imp. Gallieno (2.a metà del III secolo dell’ èra cristiana), quale viene enunciata sui titoli ufficiali, cioè P. Licinius Cornelius Saloninus Valerianus (Orelli-Henzen, 1012, 3657): dove dei due gentilizi il primo è quello del padre P. Licinio Gallieno, e il secondo quello della madre Cornelia Salonina ; e così dei due cognomi, invertito l’ordine, il primo è desunto dalla madre, e il secondo dall’avo paterno P. Licinio Valeriano. (2) Un esempio della difficoltà che s’incontra nel rintracciare quale dei due o più gentilizi dei polionimi sia il paterno, può dedursi dal fatto che mentre Salonino, di cui è detto nella nota precedente, firmavasi, come vedemmo, P. Licinius Cornelius Saloninus Valerianus, facendo antecedere il casato del padre al materno, suo fratello Valeriano, viceversa, posponeva quello a questo, intitolandosi P. Cornelius Licinius Valerianus iOrelli-Henzen, 1009, 5228, 5335). 6. A2i>m*iq3 :13 n+n qfl : : I+KAI3* (θ-ania seianti : per-isal frana : ar-n t n e i : e r i s a 1 i s a) AIHAO GIORNALE LIGUSTICO 91 zione, non tanto nell’ andamento della scrittura dal basso all alto; del che, sebbene in minori proporzioni, ricorrono altri esempi nell’epigrafia etrusca (i); quanto nella singolarità del titolo spettante a due donne; e più ancora nel fatto che appariscono qui riunite in un solo titolo le leggende di due diverse urne chiusine registrate ai n.' 524 e 525 del Corpus, cioè frania : seianti : perisal = Tannia Seiantia, Perisià nata, e frana :arntnei:perisalisa = Tannia Anmtinia, Perisià naia. La differenza fra perisalisa ed erisalisa è atta, chi ben guardi, ad avvalorare singolarmente il sospetto che 1’ epigrafe da me qui trascritta a titolo di semplice curiosità possa essere l’opera d’ un ignobile falsario. Maggior fiducia non m’inspira la seguente, dove del padre della titolare Erennia citasi, non già il prenome, bensì il gentilizio, e questo, per giunta, diverso da quello della figlia. 7. imq3B (herini umranal MVOfld rafrums MfVD clan) Sulla parte piana di grosso scarabeo in pietra calcare con (1) C. i. i., 597 bis ni; Suppl. i.°, 263. Un’umetta chiusina (Suppl. i.°, 177) esibisce una leggenda di due linee, delle quali la superiore, tracciata sul coperchio, è evidentemente la continuazione dell’ inferiore inscritta nel corpo del monumento. Così nella seguente iscrizione sul timpano del coperchio di urna perugina (Not. degli scavi di ant. comunic. all’ Acc. dei Lincei, Aprile 1878, p. 125): ial ar . pet vi., au s'e rtur le tre lettere della linea superiore non possono adattarsi che al matronimico s'erturial. 92 GIORNALE LIGUSTICO orlo così detto etrusco che circoscrive Γ infradescritta rappresentanza a graffito : Due giovani pileati hanno atterrato un avversario; uno di essi afferrandolo colla sinistra per un braccio, alza colla destra la spada per menargli sul capo un fendente, mentre F altro si accinge a colpirlo di punta. Dalla parte opposta accorrono intanto due altri eroi, la spada in pugno, il primo dei quali ha inoltre la sinistra armata d’ un sasso. Vidi e ricopiai nel 1876 presso lo stesso negoziante Pacini che Γ asseriva proveniente, in un colla pietra precedente, da Chiusi. {Continua). RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Giovanni Sforza. Francesco Maria Fiorentini ed i suoi contemporanei lucchesi. Saggio di Storia Letteraria del sec. XVII. Lucca 1879. A discorrere largamente e secondo il merito di quest’ o-pera, che può dirsi un bel monumento di storia letteraria, ed una prova luminosa del valore e della erudizione dell’ autore, richiedesi quella ponderata osservazione, che non può per fermo ottenersi da una rapida lettura come è stata la nostra; poiché, così fummo tratti dal soggetto e dalla pienezza del-1’ esposizione, che il libro fu più presto per noi divorato che letto. Ciò vuol dire, ed ecco la prima e principal dote, che la divisione del lavoro seriamente meditato, uscì dalla mente e dalla penna dell’autore, con quella opportuna economia che è domandata in sì fatti lavori, affinchè nulla v’abbia d’oscuro e di fuggevole, 0 palesi confusa la materia e mal digerita. Deriva da questa dote 1’ altra importantissima del non esservi nulla d’ozioso 0 di superfluo, e specialmente spicca l’avvedutezza dello scrittore, nello aver con felice perspicacia posto GIORNALE LIGUSTICO 93 nel testo quelle notizie e quei postulati che giovavano dirittamente alla sua narrazione, e relegato nelle abbondanti note le cose meno importanti, ma che meglio valgono a chiarire e lumeggiare uomini ed avvenimenti. Altri potrà trovare queste note soverchie, non già noi, ben sapendo come l’indole di questi lavori richieda moltiplicità di piccole appendici a pie’ di pagina; assai più poi quando, come qui, v’abbia larga parte la bibliografia. E diciamo le annotazioni piccole appendici, in quanto che quelle più ampie vennero opportunamente collocate in fine della prima e della seconda parte. E ne va data lode all’ autore, il quale anziché intromettere nel testo per intero lunghe lettere e relazioni ed altri documenti, v ha posto tutti quei brani che non interrompono bruscamente il racconto, e quasi si direbbe vi cadono da per se stessi senza sforzo o apparenza di artificio. Donde si vede, eh’ ei non solo s’era ridotto in sangue tutta la erudizione tratta da un grandissimo numero di libri i più disparati, indigesti e noiosi, ma seppe con grande felicità dominare il suo argomento, e quasi da luogo eminente abbracciarlo tutto con un volger d occhio, per la qual cosa si manifesta fatto di getto e quasi direbbesi scritto d’un fiato, piuttostochè una delle solite fastidiose spezzettature cucite insieme senza grazia e senza unità di concetto. Come si vede dal suo titolo l’opera muove dal nome di Francesco Maria Fiorentini, ma raggruppa intorno a lui tutti i contemporanei, donde le due parti in cui si divide. Nella prima si raccolgono le notizie della famiglia Fiorentini, v’ ha una estesa biografia di Francesco Maria, e i cenni più importanti de’ suoi discendenti, specie del figlio Mario e del nipote omonimo dell’avo, letterato quegli assai noto, questi bizzarro viaggiatore; la seconda ci porge un quadro in ogni sua parte compiuto, delle scienze e delle lettere in Lucca ai tempi del Fiorentini. Nè in questa seconda parte 1 autore abbandona 94 GIORNALE LIGUSTICO il suo principale soggetto, chè il Fiorentini scienziato, storico e poeta, campeggia dovunque e forma la figura principale ,del quadro. Per questa ragione anche Γ ultimo capitolo che discorre del carteggio e degli amici di Francesco Maria, e che avrebbe forse dovuto trovar luogo nella prima parte, quivi non disdice come quello che ha tratto allo svolgimento del pensiero letterario e scientifico, e giova benissimo alla conclusione in che viene lo Sforza, giudicando con sintetica lucidità alle stregua de’ fatti, del merito di quel celebrato lucchese. Francesco Maria nato in Lucca nel 1603 da famiglia venuta da Camaiore, da prima non parve disposto a perpetuare la famiglia; poi piegatosi a’ desideri del padre, abbandonata ogni idea dello stato ecclesiastico, studiò in Pisa e di 26 anni fu laureato filosofo-medico, secondo diceasi allora. In patria non tardò a mostrare i frutti dei suoi studii. E 1’ occasione dolorosa d’ adoperarsi a pubblico beneficio, gli fu porta dalla peste scoppiata in varie parti d’Italia nel 1630, e che invase fieramente il lucchese territorio e nella sola città riusci micidiale a ben 9000 persone. La storia di questo morbo terribile incominciato nel contado, ci viene esposta dallo Sforza con abbondanza di notizie, con verità di storico e con giudiziosa erudizione scientifica. Eletto il Fiorentini a presiedere al Lazzaretto (25 nov. 1630), non solo dette prova di intelligente operosità e d’ animo invitto, lagnandosi soltanto « di non poter far di più », ma edotto dalla pratica consigliò opportunamente i Conservatori di Sanità. Fu morso dalla calunnia, retaggio degli uomini intemerati, ma si difese e vinse. E quando nell’anno successivo, dopo breve tregua, la peste rialzò la cresta con nuova ed inusata violenza, il Fiorentini fu deputato pubblico sanitario (12 aprile) al terziero di S. Martino, e più tardi dovette recarsi a Viareggio ad esaminarvi alcune malattie. GIORNALE LIGUSTICO 95 Datosi agli studi eruditi, e introdotto commercio di lettere con tutti i più insigni uomini del suo tempo, ben presto sali in fama, ed ove avesse voluto abbandonare la patria non gli mancarono offerte d’ uffici degni e lucrosi da Principi e da Papi. Preferì servire la Repubblica, e le magistrature che vi tenne gli proccaciarono dispiaceri ; ma egli mostrò anche qui di qual nobile e generoso animo fosse dotato. Raccolse una importante biblioteca ricca di libri peregrini e di manoscritti di gran conto, ed è a dolere che passata in potere del Governo nel 1802 pel prezzo di lire 9240, venissero in gran parte distrutti que’ codici preziosi nell’incendio del 1822. La galleria ed il museo che ebbero le cure amorose del Fiorentini, e del secondo rimane memoria nelle opere del Targioni, del Donati, del Zaccaria e del Muratori, andarono miseramente dispersi dopo il 1790. Negli studii e nelle predilette occupazioni passò il resto della sua vita, che dal 1648 in poi tu travagliata da non lievi malori, e morì ai 25 gennaio del 1673. Molti figli ebbe da Laura Benassai che sposò nel 1640, ma quegli che in un colle sostanze redo in piccola parte Γ ingegno e la rinomanza del padre fu Mario (n. 8 giugno 1642), anch’ egli medico, e che disegnava una Biblioteca degli autori lucchesi, ma gli mancò 1’ animo e la mente a comporla. Più che per le sue scritture> rimaste inedite, viene ricordato per la dimestichezza eh’ ebbe col Magliabechi, col Redi, col Lapi, coll’ Aprosio e con altri. Di lui (morto nel 1720) nacque nel 1703 Francesco Maria Giuseppe, col quale si estinse nel 1790 la f; niglia, e che non sarebbe certo uscito dalla dimenticanza, r■■ non avesse lasciata una narrazione dei suoi viaggi, scritta « con lingua spesso scorretta, con stile incolto », ma di tanta evidenza nelle descrizioni, che « ci trasporta nelle principali corti d’Europa, nelle città più famose, ed ha la potenza di farci quasi rivivere in mezzo a que* 9 6 GIORNALE LIGUSTICO tempi, di mostrarceli nel più intimo de’ costumi, degli usi della vita ». Tutto ciò ben si pare dal partito che ne ha saputo cavare pel suo lavoro lo Sforza, il quale, secondo me, farebbe opera buona a darla fuori tutta quanta, sebbene mutilata, laddove parlavasi di casi amorosi, da qualche insulso torcicollo. Senza addentrarci negli argomenti scientifici e letterari che vengono svolti ampiamente nella seconda parte, ci contenteremo di accennare appena alle diverse parti trattate dall’ autore, presentandoci il suo soggetto nei molteplici atteggiamenti del suo versatile ingegno. Gli studi ne’ quali maggiormente spiccò il sapere del Fiorentini, furono la medicina e 1’ erudizione storica. Le opere mediche date fuori da lui e quelle che rimangono inedite, ci dicono che appartenne a quella scuola iatromatematica, che riconosce il suo capo nel Borelli e s’ illustra dei nomi del Redi, del Malpighi e del Bellini; quella scuola che fondava le sue dottrine nella filosofia sperimentale posta in onore da Galileo, il quale se non fu maestro del Fiorentini, certo il conobbe, come è manifesto dalle due lettere di questi indiritte al gran matematico. E qui è degna d’ osservazione la storia dell’ arte salutare in Lucca, desunta dalle opere de’ medici di quel secolo e dai molteplici carteggi, per la massima parte inediti. Ed a questa tien dietro la esposizione dello stato in cui trovavasi la botanica, ed alla quale il Fiorentini, che 1’ avea studiata a Pisa colla scorta del Del Vigna, contribuì mettendo insieme un erbario secco in 15 volumi, quattro de’ quali sono nella Biblioteca di Parma e undici in quella di Lucca ; erbario molto ricco e che contiene molte piante esotiche piuttosto rare a quei tempi. Di più scrisse un’ opera sull’ Issopo rimasta manoscritta. Ma il lavoro che doveva dargli fama ben più duratura GIORNALE LIGUSTICO 97 erano le Memorie della contessa Metilde, uscite alla luce nel 1642, e ristampate un secolo dopo con note e copiose giunte di Domenico Mansi. Le lodi che gli vennero da ogni parte d Italia e dai dotti stranieri, mostrano davvero eh’ ei si palesò « critico acuto e storico veritiero ». E quando si pensa che egli entrò in un campo non diremo inesplorato, ma reso già irto di spine e pieno di confusione, e che per ricercare la verità ha dovuto leggere dodicimila tra privilegi e strumenti, s’ intende di leggieri quanto fossero meritate le lodi date posteriormente a quel libro dal Leibnitz e dal Muratori. Pose mano in seguito ad altre opere di storia patria, ma non ne condusse a termine nessuna. Intorno alla pubblicazione del ricordato libro ed ai cenni dei lavori di storia lucchese intrapresi dal Fiorentini, ha bellamente l’autore annodato tutte le notizie, atte a mostrarci lo incominciare e lo svolgersi del concetto storico e d’erudizione in Lucca; le cure del Governo nel dar mano a pubblicazioni d’ opere di storia paesana, e la numerosa schiera de’ patrii scrittori, rimasti per la maggior parte inediti, de’ quali quel secolo si mostrò tanto fecondo. L’ antico martirologio pubblicato nel 1678 con si gran numero d’ illustrazioni e di note dal Fiorentini, lo pone di lancio fra i più valenti scrittori di sacra erudizione. Le unanimi lodi onde fu proseguito da dottissimi contemporanei, mostrano che 1’ insigne lucchese era giunto a quell’ alto segno, che la critica d’allora consentiva, ed anziché diminuire, crediamo cresca il suo merito se proprio oggi il principe degli archeologi, Giambattista De Rossi, ha reputato quell’ opera tanto importante da riprenderla in esame, e gli è pur forza riconoscere la verità di non poche conseguenze, e la dirittura di alcune sue ipotesi. Perciò se il De Rossi, come promette, ristamperà il martirologio sopra testi migliori, « la nuova edizione non farà dimenticare il nome del Fiorentini, nè le Giorn. Ligustico, Ληηο VI,. 7 98 GIORNALE LIGUSTICO sue utili e dotte fatiche ». Non è certo abbondevole il novero dei cultori di studi sacri che vissero al tempo e nella città di Francesco Maria, e que’ pochi eh’ ebbero qualche fama gli rimasero certo di gran lunga inferiori. Poco è a dirsi degli ascetici puri, che salvo alcune eccezioni furono troppi e miserabili, dovunque, e il Fiorentini dettò anche in questo genere qualche libricciuolo, perduto fra gli anonimi ; maggior arido ebbero i controversisti. Gli scritti del fratello suo Gi-rolamo de’ Chierici Regolari della Madre di Dio intorno al teatro, hanno mosso lo Sforza a darci una particolareggiata storia di quella disputa che accese per tanto tempo gli animi, ma non giovò a restaurare il costume. Belle, singolari ed ignorate notizie rilevansi sopra que’ pubblici divertimenti che attrassero sempre i popoli; ed è curioso il rilevare che mentre i moralisti e i predicatori si scalmanavano contro Γ abiezione, gli scandali e le disonestà, e lo stesso P. Girolamo riceveva una buona risciacquata, perchè era dispiaciuto alla Signoria che avesse parlato dal pulpito « con troppa libertà » del permesso concesso a certi uomini di recitare una comedia assai scandalosa, le monache di S. Giovanetto assistevano alla rappresentazione del dramma per musica così intitolato: Amor non vuole età che sia provetta, E chi denti non ha non ci si metta, ovvero lo scherno de’ vecchi amanti; ed a Roma i cardinali, ridendosi delle sante parole del P. Zucchi, s’ affollavano nel teatro della Regina' di Svezia ad udire comedie immorali. Un singolare riscontro di sì fatta controversia sulla moralità del teatro, se non per gli argomenti almeno pel fine civile, abbiamo avuto testé negli scritti del Martini e del Ferrari. E poiché abbiamo toccato del teatro, non vogliamo passarci dal notare come il Fiorentini anch’egli pizzicasse di poeta e si provasse nel melodramma. Ond’ è posto dallo Sforza in ischiera con tutti i pochi lucchesi contemporanei; e dopo aver detto GIORNALE LIGUSTICO 99 di questi e delle accademie, ci pone sotto gli occhi la storia del teatro, completando così quanto intorno a questa materia espone a proposito della suaccennata controversia dei moralisti. Dalla schiera di questi versificatori si leva tuttavia il nome d uno de’ più colti letterati che allora vantasse la piccola repubblica, le cui lodi abbiamo inteso risuonare modernamente per bocca del Giordani ; intendiamo Bartolomeo Beverini , il quale se non salì molto alto nella poesia volgare, vinse tutti quelli della età sua nel metro e nella prosa latina. Tiene quindi il primo luogo fra i cultori di questo idioma, de’ quali, e non mediocri, non patì difetto la città di Lucca, come ci narra l’autore, laddove tocca delle scuole donde uscirono quei latinisti. Anche Francesco Maria è del novero, ma « specialmente neltrattare cose scientifiche riuscì ruvido, contorto, spoglio affatto d’ogni eleganza...; al Fiorentini mancava affatto il senso del bello , nè sentì giammai amore per l’arte, nessuna cura ebbe della forma o scrivesse in prosa o in verso, o nella lingua materna o nella latina ». Quando si affermasse che il Fiorentini tenne commercio di lettere con tutti gli uomini più celebri del suo tempo, sarebbe tutto detto. Si sdegnò delle persecuzioni di Galileo « delle quali, non parlo perchè son sicuro che Γ affettione mi trasporterebbe in eccessi » ; sovvenne in alcune gravi difficoltà il belga Vanden Broecke, lodato latinista e professore d’eloquenza nell’ateneo pisano; ebbe lodi, incoraggiamenti e consigli dai dotti Dufresne e Du Faultery; il Wadingo gli pregava da Dio lunga vita, perchè erangli noti i suoi rari talenti; conobbe il Bollando del quale pianse sentitamente la morte, e fu liberale d’ospitalità, di codici e di notizie al-1’ Henschen ed al Papebroeck che continuarono 1’ opera di quell’ illustre gesuita; aiutò il Della Rena nella sua Serie degli antichi Duchi e Marchesi- di Toscana, 1’ Ughelli nella Italia Sacra, il Galeotti e il Puccinelli. Degli stranieri conobbe 100 GIORNALE LIGUSTICO anche il Lange, il Menestrier e il Suares; degli italiani ebbe lunga corrispondenza col Magliebechi, col Lapi, col Redi e coll’ Aprosio, per non dir d’ altri. Carlo Roberto Dati lo disse « in ogni sorte d’ erudizione, ma specialmente nelle antichità di Toscana, P oracolo Delfico ». Lo Sforza conchiude così: « Pieghevole ingegno fu quello di lui. Lo vediamo ad un tempo coltivare la medicina 'e la poesia, la botanica e la storia, l’archeologia e le scienze sacre. Appunto in questa pieghevolezza, in questo desiderio di addentrarsi ne’ molteplici rami del sapere sta la ragione, per cui non sempre gli riuscì di raggiungere quella eccellenza, che certo avrebbe egli toccato, se avesse volto la mente ad un solo genere di studi. Nella sua stessa città, come botanico, gli conviene cedere la palma al Campi; nella medicina parecchi de’ colleghi gliela contendono; nella poesia numerosa è la schiera a cui le Muse sorrisero con più soave dolcezza. Nella storia per altro non solo primeggia sopra i concittadini, ma tra gli storici italiani del secolo XVII, merita che il suo nome si ricordi con assai lode; con lode grande poi fra gli scrittori di erudizione ecclesiastica ». Ben fecea dunque il Comune di Lucca, a perpetuare la memoria di tanto uomo, collo apporre all’ abitazione che fu sua la seguente iscrizione dettata dal chiaro ingegno di Carlo Mi-nutoli : Casa di Francesco Maria Fiorentini medico naturalista antiquario uno de’ primi a introdurre la critica nella storia colle memorie della Co : Matilde MD CIU-MD CLXXIII. E qui ci arrestiamo volentieri, contenti di aver avuto sempre cagioni di lodi verso 1’ egregio autore. Sappiamo che altri riguardando sottilmente potrà scoprirvi delle mende, delle GIORNALE LIGUSTICO ΙΟΙ superfluità cosi in fatto di autori come di erudizione, forse troppa in luoghi non proprii e in cose relativamente di lieve importanza; ma chi considerala ragione dello scritto, e il proposito dell’ autore di raggruppare intorno al Fiorentini la storia letteraria lucchese del seicento, facilmente lo scusa; oltreché tanti e sì luminosi sono i pregi del lavoro, che scompare qualsivoglia neo. Nel dettare questa imperfetta notizia d’ un’ opera molto importante, fu nostro divisamento invogliarne gli studiosi, i quali certo si lagneranno che ne siano stati stampati soli 104 esemplari. Ma noi abbiamo in animo di riprendere fra mano il lavoro a più tranquilla stagione, trarne tutte quelle notizie che hanno tratto alla nostra Liguria, ora appostatamente taciute, e coi molti materiali che ci porgono le lettere dei lucchesi all’ Aprosio conservate nella Universitaria, tessere una memoria atta a far meglio conoscere questo libro e ad illustrare ignoti aneddoti di storia letteraria. VARIETÀ Lettera di monsig.re Agostino Mascardi , circa la censura fatta al suo libro : La Congiura di Genova del Conte Fieschi. Il sig. canonico Bracelli mi fé vedere in una lettera di V. S., 1’ honor grandissimo, che dalla sua gentilezza ricevono le mie scritture; poiché quando io credeva d’havere stancato ogni patiente lettore con la pubblicatione di tanti fogli disutili , trovo, che V. S. non satia ancora di leggere i componimenti stampati, ne chiede nuovamente degli altri, se pur vi fossero , in penna. Confesso a V. S. che non senza particolare ambitione ho letto quel che ella scrive; perchè veggendo di non poter dar tanti segni della mia debolezza, che non 102 GIORNALE LIGUSTICO sieno per rimaner sollevati da uguali espressioni della sua cortesia, auguro a me medesimo, o al mio nome qualche ventura nello avvenire, dove ho fin hora desiderata la sola tolleranza degli huomini letterati. E s’io potessi persuadermi del tutto, che V. S. havesse sinceramente giudicati, non amorevolmente commendati, i miei scritti, ardirei forse di stimarmi non quel che sono , ma quale vengo dipinto favoritamente da lei. Nè più oltre mi stenderei in argomento si lubrico, nel quale non posso prestar fede alla conoscenza c’ ho di me stesso , e della mediocrità de’ miei studi , senza ingiuriar tacitamente il suo giuditio ; alla cui autorità, e come ben fondata su la ragione della propria eminenza , io debbo sottopormi per non errare. Ma forse ha Voluto la mia buona fortuna somministrarmi 1’ antidoto col veleno, accio che quando 1’ altrui maligna ignoranza havesse bruttamente lacerata la mia Congiura, le benignità di così dotto, e gentil cavaliere la medicasse. Ho veduto quell’infelice componimento ristampato in Venetia da Giacomo Scaglia; il quale uscendo da’ confini di mercenario, e mecanico stampatore, s’ha usurpato l’ufficio di temerario, et arrogante censore: e dove era tenuto a sodisfare al debito del suo mestiere correggendo l’ortografìa vergognosa, e storpiata, s’ è fatto ad alterare i sentimenti della mia historia, tralasciando in più luoghi e cangiando a suo capriccio le mie parole. Questo, e forse anche più grave eccesso, fu dal Bidelli stampator milanese commesso gli anni passati nella quarta publicatione delle mie orationi e discorsi : poiché lasciò uscire dalle sue stampe tanto notabilmente contaminato quel libro, che fui astretto a farlo querelar criminalmente come falsario ; tuttoché ad istanza di grandissimi personaggi io desistessi all’ hora da proseguir il giuditio, come hora per me medesimo tralascio di favellarne più lungamente, per ritornar allo Scaglia. Costui dunque come circonspetto politico, e partigiano della nation GIORNALE LIGUSTICO IO3 Francese, ha stimato, che la grand’ anima del re Francesco riceva una segnalata ingiuria da me , mentre sostengo , che il Doria offeso dalla poca fede del re nell’adempimento delle sue replicate promesse· passò al servigio di Cesare; e perciò con danno manifesto del sentimento ha soppresse quelle parole in modo , che non si può vedere mostruosità più deiforme. L’ istessa falsificatione si trova quattro versi più sopra, dove dicendo io, che il re chiedeva al Doria con istanza importuna, e con superbe minaccie il marchese del Vasto, et Ascanio Colonna, questo modestissimo e scrupoloso satrapo della Scuola politica ha tolte di mezo le due parole importuna e superbe. Nè ha potuto quella virginal verecondia soffrire , che 1’ animo del re per l’ignominia della repulsa datali dal Doria, richiamato indarno, e con larghissime conditioni al servigio, si riempiesse d’amaritudine, e di vergogna , e però ha tolta la vergogna dal volto , cancellando svergognatamente le due parole ignominia, e vergogna. Tralascio di ricordare la semplicità del signor Teodoro Trivulzio (che con tal vocabolo di nuovo lo Scaglia adultera la mia scrittura) perchè può essere, che i successori di quel grandissimo capitano, si prendano pensiero di gastigar l’insolenza di chi tratta indecentemente le cose loro. Che se havendo costui havuto un mio originale in penna dalla perfidia d’ un amico (e havendomi in altre occasioni tradito, hora ha vendute le mie fatiche) dicesse, non dalla Congiura stampata, ma dall’ originale essersi trnsfusi nelle sue bugiarde stampe gli errori, io lo potrei cosi bene in tutte 1’ altre parti convincere per mentitore, come consentirei, che la voce simplicità, parlandosi del Trivulzio, fu da principio mia, ma per giustissimi rispetti rifiutata, e cangiata in quell’ altre, che nella prima stampa, e nella ristampa di Milano si veggono. Anzi s’ havessi opportunamente vedute certe memorie in penna, di persona d’ autorità, che vivere in quei tempi, come mi 104 GIORNALE LIGUSTICO vennero alle mani ultimamente in Genova , havvi fatto palese , che Teodoro Trivulzio assai tosto della reconciliazione de cittadini avvedutosi, ne diede avviso al suo re, da cui gli fa ordinato , che promovesse con ogni studio Γ unione civile perchè il consiglio reale si faceva a credere di migliorare la conditione del governo francese in quella città, mentre del tutta spente le seditioni popolari havevano a vegliar sulo contro la forza de’ nemici stranieri si chè‘ non fu sim-plicità come impertinentemente ha voluto lo Scaglia , quella di Teodoro Trivulzio , ma prudentissima essecutione de’ co-mandamenti reali : e se da essa nacque la perdita della città, non pertanto l’ubbidienza del Trivultio si de’ lodare, essendo parte d’ un buon ministro 1’ esseguire, non il bilanciar gli ordini del suo signore : anzi nè anche la risolutione del reai consiglio si può riprendere, se non accettiamo 1’ evento per giudice competente delle attioni ben regolate, contro il sentire di tutti i savi migliori. Questi farfalloni prendono i troppo arditi, che licentiosamente corrompono gli altrui scritti, e poteva bene persuadersi lo Scaglia, che non senza matura deliberatione io haveva cancellato quel termine di simplicita cangiandolo in altre forme di favellare più proportionate alla verità del fatto, et alle qualità del Trivulzio. A tutti questi inconvenienti poteva io farmi incontro, chiudendo con l’impetrazione de’ privilegi, la strada all’ avaritia d’ alcuni stampatori plebei (chè degli honorati io non parlo) i quali purché smaltiscano, com’ essi dicono, la mercantia, poco monta presso di loro, che la riputatione degli autori si trascuri, e pericoli. Perciò dopo la morte del cavalier Marino s’ è pubblicata ogni ciabatteria sotto nome di quel singolarissimo ingegno , con non minore amaritudine degli amici, che allegrezza degli emoli del cav?liere, e finalmente con provocar le censure legittime del Santo Ufficio; ma io non ho mai applicato il pensiero a’· privilegi, perchè abborisco in me stesso GIORNALE LIGUSTICO IO5 la venalità dell’ ingegno, che detesto in altrui. Troppo a vile tengono 1’ anima ragionevole que’ sordidi letterati, che le più nobili riparationi di lei sottordinano all’interesse. Il vero nudrimento dell’ ingegno è la gloria, la quale essendo primogenito insieme, e postumo parto della virtù, col ricco, et intero patrimnnio del merito, consola la mendicità de’ favori della fortuna. Nè già riprendo que’ virtuosi, che dalle dotte vigilie si studiano di trar profitto, perchè 1’ oro , che agli altri è idolo , serve lor di sostegno ; e ciò che 1’ anime vili si propongono per fine de’ loro avari, et ambitiosi pensieri 1’ huomo composto elegge per mezo de’ suoi savi, et honorati disegni. Ho dunque con una stampa libera gittati in mano della fortuna i miei parti, lasciando che il giuditio del mondo, 0 gli condannasse come rei all’ oscurità d’ una perpetua dimenticanza , o gli assolvesse come habili ad affissarsi al lume degli intelletti chiarissimi di questo secolo. Ha voluto la mia sventura che anche i benefitii mi si convertano in pena ; perchè la cortese inchinatione mostrata verso l’opere mie da’ letterati italiani, ha risvegliata la cupidigia degli stampatori , che per due volte 1’ han concie nel modo, che vede V. S. Ma fino a quest’ hora mi dolgo dello Scaglia, e la colpa è per avventura d’ altrui; forse i superiori, che sopran-tendono alle stampe in Venetia havran così comandato. Il motivo è considerabile, per le conseguenze, che dalla veri-ficatione di cotal presupposto potrei ritrarre ; ma non per tanto non rimane discolpato lo Scaglia, perchè s’havesse pure incontrata la difficoltà che s’ accenna, poteva farmene motto, adempiendo le parti d’ huomo ben costumato , a me poscia s’ aspettava il rimedio, il quale havrei procurato scrivendo a Venetia, a chi faceva di mestiere: perchè avendo io in quella Republica personaggi autorevoli, che nelle occasioni mi sono liberali di lor favori, con la sola dilatione di quindici giorni 0 d’ un mese si tòglieva ogni ostacolo, 0 s’ io fossi stato GIORNALE LIGUSTICO convinto dalle ragioni degli oppositori, si cangiavano quelle parole. Ma ciò sia detto quando fosse vera la scusa che senza dubbio è falsissima , come raccolgo da due potenti ragioni. Una è che non suole quell5 inclita Signoria mostrar la par-tialità dell’ animo, e la congiuntione della volontà sua con qualche principe per mezzo di queste leggerezze. Sa ella con Γ opportunità de’ consigli, con la fede delle collegationi, con la ricchezza de’ soccorsi, e quando lo richiede il bisogno , con la manifesta unione di potentissimi eserciti professarsi utilmente amica all’ amico , senza prendersi briga di sminuzzare con la consideratione due, o tre paroluccie d’ uno scrittore. Et essendo nata e cresciuta nel seno d’una perfetissima libertà, da lei solo possono gli historici giustamente sperare, che sia lor lecito chiamar le cose coi lor propri vocaboli, senza mascherarle per tema di non dispiacer ad alcuno. E chi va riccorrendo, o con la memoria, o con gli occhi tanti libri, che in ogni tempo per mezzo delle stampe ha partoriti Venetia, gli troverà pieni di termini somiglianti, e molto meno modesti, che i miei non sono. Nè ragiono de’ forastieri, ma de’ nobili Venetiani, e d’altri o nationali, o stipendiati dalla Repubblica. Altri pensieri covano que’ savissimi senatori, tutti rivolti con l’animo alla conservatione della libertà loro particolare, e della commune d’Italia. Nè le rivolutioni, che soprastanno a quest’ infelice provincia, lasciano luogo alla superstitiosa esamina d’ una voce bene, o male adoprata, e d’ un aggiunto più o meno significante, che si legga in un libro. Conchiudo dunque, che non essendo stile di quella gravissima Repubblica Γ avvilirsi in cose così minute , da superiori non può esser menuto l’ordine, che si cancellino quelle parole. Quest’ argomento dell’ esempio, come che altrove potesse parere non conchiudente, e leggiero, dagli instituti però della Republica di Venetia prende forza di dimo-stratione, non che di prova. Aggiungo per seconda ragione GIORNALE LIGUSTICO IO7 che in niun luogo, e da niun principe meritava questo irragionevole affronto la mia Congiura; dunque molto meno io doveva temerlo dalla Repubblica di Venetia, eh’è il vero seggio della saviezza : la quale havendo fra suoi ordini più lodevoli la deputazione d’un proprio historico scelto dal corpo della nobilità, e dal numero de’ più eminenti soggetti sa benissimo quali cose siano riprensibili in un’ historia: nè consentirebbe d’ esporre i componimenti de’ suoi genti- 1’homini alla pena del taglione, irritando con ingiuriosa censura le penne degli scrittori. Quando, alcuni anni sono, elessi di formar 1’ Historia d’ Italia, proposi per bersaglio, in cui mirasse ogni mio studio e fatica, la verità. Perciò m’impressi tenacemente nella memoria 1’ oracolo di quel grandissimo senatore: Primam esse historiae legem ne quid falsi dicere audeat, deinde ne quid veri non audeat, ne qua suspicio gratiae sit in scribendo nequa simulatio. E perchè il medesimo savio acccortamente soggiunge: Haec scilicet fundamenta nota sunt omnibus , non m’ è mai caduto in pensiero , che persona alcuna civile, non che la prudentissima Republica di Venetia possa recarsi ad ingiuria, ch’io dica il bene, e non tralasci il male quando la verità sola e legittima arbitra dell’ uno, e dell’ altro cosi commanda. Posta dunque in disparte ogni animosità , e dichiaratomi, come già fè colui, cittadino del mondo senza riguardo di natione, 0 di patria , debbo come fedel ministro della verità dispensar le lodi e i biasimi, a chi dell’ une, e degli altri meritevole, con le sue operationi, si sarà reso. Nè lascierò d’ honorar nel franzese, o nello spagnuolo le vestigia della virtù, e di riprendere nell’ italiano le sembianze del vitio', come che italiano io mi. sia. Questa prerogativa porta seco inseparabilmente il valore, che non solo nello straniero, ma nel nemico è lodevole. Anzi perchè ogni humana perfet-tione in ciò principalmente si dilunga dalla divina, che non è in tutto sincera, ma tragge seco il mescolamento di qualche ιο8 GIORNALE LIGUSTICO imperfettione (e perciò un huomo per ben qualificato che sia, havrà sempre qualche ombra opposta alla chiarezza de’ suoi costumi), può di leggieri avvenire, che la medesima persona sia da me hor biasimata, hor lodata, secondo il lume in cui mi s’ appresenta la tavola, che da un lato mi figura una Venere , e dall’ altro mi rappresenta una Striga. Nè ciò può dispiacere a gli attinenti, o a’ partiali di colui, quando il vitio non soprafaccia la virtù ; perchè ne anche il solo rimane per quelle poche macchie ingombrato, che scoperte dalla sagacità moderna, prendono più tosto qualche luce dal sole , che al sole communichino parte alcuna delle lor tenebre. Che se maggior sarà 1’ occasione del riprender, che del lodare , io non posso far d’un Tersite un Achille, e che Margute si trasformi in Ulisse. Lascio questi miracoli alle Circi, alle Alcine, et alle Armide, che per forza d’incanti così belle metamorfosi san cagionare. Nè mi si dica, che per incantatori appunto furono presso Platone publicati gli oratori eccellenti , e che dell’ eccellente oratore è proprio ufficio lo scriver historia, secondo 1’ opinione de’ Greci riferita da Tullio, perchè non è questo il luogo da rapportar le differenze tra l’oratore e 1’historico. Basta per hora, che chi racconta i fatti accaduti non scrive panegirico, od invettiva, e schivando quanto è possibile il nome, non che gli effetti delle passioni, le riserba all’ oratore, che fra gli strumenti efficacissimi, et infallibili della persuasione le annovera. Nè io in questa fatica mi studio d’acquistare nome d’oratore eccellente ma d’ historico tollerabile. Al che se satis est non esse mendacem come diceva Catulo presso Cicerone, perchè vuol persuadermi lo Scaglia, che la Republica di Venetia amantissima de’ virtuosi, e scuola d’ ogni virtù m’ invidii il titolo di buon historico, cancellando dalle mie carte 1’ imagine della Verità ? Ma dirà forse lo Scaglia, o qualche altro più saccente, che non la verità del fatto, ma Γ acerbità del GIORNALE LIGUSTICO IO9 modo dalla mia scrittura s’ è tolto , e che parlandosi d’ un grandissimo principe si potevano usar termini più riverenti, modesti. Lodato Dio che anche dallo Scaglia imparerò le regole de’ convenevoli, le quali (quando nè il nascimento, nè Γ educatione, nè la scuola della corte di Roma me Γ havesse insegnate) poteva haver apprese dagli studi, e specialmente dalla lettura di Plutarco, senza mendicarle in Venetria nella bottega di Giacomo Scaglia. Plutarco dunque nell’ operetta, che scrisse della malignità d’ Herodato dice, che uno scrittore all’ hora sentì più del maligno, che del verace, quando in re narranda (così suona la traduzione del Nilandro) odiosissimis nominibus utitur, cum in prompt sintu molliora, e ne porta gli essempi in persona di Cleone, e di Nicia. Hor se piace a V. S. esaminiamo con questa regola in mano, le pa-role cancellate dalla Congiura, e si vedremo s’io fui maligno in riponerle , o altri è stato temerario in levarle. Il re di Francia havea dato parola al Doria in riconoscimento dei suoi servigi, di ripor Savona ribellata da Genovesi, sotto l’imperio del suo legittimo principe : con questa fede servì egli utilmente quella corona molti anni, tollerando ogni altra acerbità volontieri, in conformatione di che veggasi monsignor di Monluc scrittoi' francese , non che il Sigonio , o il Cappelloni, 0 altro historico italiano. Il re finalmente donò Savona a Memoransì, in vece di adempier la promessa già fatta al Doria. Chieggo hora in cortesia, che mi dica lo Scaglia , o 1’ occulto sindico de’ miei scritti, con che nome scrivendo historia, esprimerebbe quest’ attione. In lingua italiana alcuno la nomarebbe perfidia, dislealtà, mancamento di parola, e di fede, e s’io fuggendo a bello studio quegli odiosi, benché propri, e significanti vocaboli, mi riduco a dire la poca fede del re, ho dunque vomitato così horrenda bestemmia , che meritasse d’ esser cancellata dalla Congiura? Mi dichiaro anche meglio. Considerando quel c’ ha fatto lo Scaglia I IO GIORNALE LIGUSTICO o altri, nel contaminar asuo’( capriccio le mie scritture , potrei nomarlo arrogante, insolente, temerario, senza creanza, senza giuditio , e cose tali e non userei voce , che non se D ' gli adattasse compitamente ; se io con tutto ciò mi compiacessi solamente di dire , lo Scaglia ha meco proceduto con poco rispetto, con poco termine, con poca modestia, con poca consideratione, potrebbe per ventura dolersi che io lo maltrattarsi, usando contro il ricordo di Plutarco nomi odiosissimi, cum in promptu sin molliora? Certo è che dalla natura , e dalla elettione son portato alla lode e non al biasimo di chi che sia; e quando verranno in luce l’historié, c’hoggi preparo, non doverà però tornar in vita Gio. Battista Leoni, per palesar la malignità della mia penna contro la Republica di Venetia, e contro il duca d’ Urbino, come già fece nel-Γ historia del Guicciardino; perchè sicome non sarò parco nel-Γ altrui lode, quando vi sarà fondamento , sopra cui potro giustamente appoggiarla, così all’ incontro andrò molto rat-tento nei biasimi, lasciando (quando Γ evidenza, e la necessità non m’ astringesse all’ opposito) che il lettore più dalle circonstanze dei fatti, che dall5 espressione delle parole formi in se stesso la ragione dell’ altrui vituperio. Con la medesima agevolezza giustificherei tutte F altre parole, se non temessi d’ esserle tedioso, perchè basta sapere che quei cavalieri prigioni erano dal Re chiesti, mentre il Doria dol ndosi della poca fede del re (mi perdoni lo Scaglia) per le cose di Savona, era insieme creditore degli stipendi), e della taglia del principe d’Oranges, per far l’istanza importuna, e bavere come superbe le minaccie di licentiare personaggio sì grande, che per ragionevoli disgusti machinava d’abbandonare il servigio, et havea pronta la condotta o del P^a, o di Cesare principi assai maggiori del re Francesco. Se poi recasse qualche ignominia al re, che il Doria invitato da lui con tutte le sodisfattioni poco di anzi negategli, e con più vantaggiose conditioni di giornale ligustico I 11 prima, rifiutasse l’invito, anzi passasse al soldo di Cesare suo nemico ; e se per ciò dovesse vergognarsi il re, che tutto il mondo fosse consapevole della gran perdita cagionata a se stesso per colpa sua propria ; dicalo chi sa come negli animi gentili la vergogna possa nascer dall’ignominia,_ perchè lo Scaglia non è forse buon giudice in cotal causa. Da queste considerationi fermamente raccolgo , che non pensò mai la Republica Serenissima , di far un torto si manifestò a me , che per difetto del libro no ’l meritava, et in virtù della mia divotione verso il nome Venetiano, ardisco di sperar da lei ogni protettione e favore. Anzi son più che certo , per 1 integrità conosciuta di quell’ eccelso senato, che s’io supplicassi, che come falsificatore degli altrui scritti fosse punito lo Scaglia, non solo non sarebbe la mia istanza riputata importuna, ma si prenderebbe volentieri 1’ occasione, di rintuzzar col gastigo di costui, 1’ ardire di tutti gli altri, onde non ci escano i disordini di questa sorte, che possono alienar gli animi degli sciittoii, e partorir un giorno pessimi effetti con pubblico detrimento. Il che desiderio, che sia capito pienamente da quelli, a chi è commessa da principi secolari la cura di riveder 1’ opere, che si stampano ; acciocché la sincerità di chi compone non venga dalle inutili sottilità o più tosto sofisterie loro indebitamente offesa, contro la buona intentione de principi sovrani, e si rivolga a publicare in paesi più liberi le sue fatiche, con quelle circostanze, che insensibilmente possono cagionarsi nell’animo d’un galan-t’ huomo giustamente irritato. E se qualche principe non trovan bene, che negli stati loro si stampino alcune cose, usino 1 autorità della ιοί fortuna in vietarlo, ma non consentano, che i lor ministri temerariamente s’arroghino di alterarle , viven'do massimamente i compositori; per che dove nell’ uno saranno da tutti prontamente ubbiditi, come dovere, così nelP altro si corre risico di qualche grave disordine : 112 GIORNALE LIGUSTICO tollerando ognuno mal volentieri, che altri s’ usurpi la giu-ridittione su gli intelletti humani, conceduta solamente alla fede , che gli incatena, e vedendo con gran dolore le storpiature dell’altrui penna, ne’ parti del suo cervello. De Censori ecclesiastici non ho necessità di parlare, perchè hanno et osservano le regole prescritte loro in questa materia dal Concilio di Trento. Ho voluto sfogarmi lungamente con V. S. cosi per non lasciar con la dissimulatione l’adito aperto alla temerità nell’ avvenire, come perchè essendo per mezzo suo venuto in queste parti 1’ opera dallo Scaglia corrotta , mi favorisca con la sua solita cortesia , di participare a cotesti signori virtuosi il mio senso , acciocché si contentino d ag giungere in penna al testo loro quelle parole scioccamente levate. Nè si lascino punto ingannare dalla ridicolosa fran-ciosaggine dello Scaglia, o di chi che sia il cii cospetto politico, perchè aneli’ io ho qualche conoscenza, e prattica con Franzesi qualificati, e buoni ministri del Re, i quali non han però per iscommunicate, e sacrileghe quelle parole. Se vi è persona in Italia, che ammiri le fortunate imprese del Re Luigi, e riverisca la sua bontà, son,io non l’ultimo fra di loro ; e quando sia il tempo d’ honorar le mie catte con le glorie di lui, non sarò io scarso a S. M. di lode, come ella a tutto il mondo è liberale d’ essempi d heroica virtù. Havrà V. S. qui congiunta una lettera, che scrissi ad un amico pur in proposito della Congiura ; si compiaccia di leggerla con quella partialità d’affetto, che P ha fatta desiderosa di vedere i miei Componimenti, e di me disponga come di servitor suo singolarmente obbligato e le bacio le mani (i)· (i) Questa lettera si conserva in copia sincrona nella Biblioteca Nazionale di Parigi Département des Manuscrits Fonds italien N. 347. Venne già ricordata da noi a pag. 233 dell’ anno i.° di questo giornale. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTjCO 113 COMPENDIOSE OSSERVAZIONI intorno al governo aristocratico, che resse la Repubblica di Genova al tempo dei Dogi biennali. Dall intitolazione di questo lavoro si scorge subito che non avemmo intenzione di scrivere un Trattato sul governo dei Dogi biennali, nè di tessere una Storia costituzionale della Repubblica di Genova. Il nostro intento fu più modesto, perchè si restringe ad esporre alcune osservazioni, dalle quali si possa meglio apprezzare il reggimento politico d’ una Repubblica italiana oggidì universalmente poco noto, e da molti eziandio disprezzato coll’ appellazione di governo oligarchico. CAPO I. DEI DOGI BIENNALI. Il reggimento dei Dogi biennali fu stabilito in Genova colle leggi dell’anno 1528, allorquando Andrea D’ Oria, giovandosi della cooperazione prestatagli dai suoi concittadini rivendicò la libertà e l’indipendenza della patria, togliendola dalla servitù del Re di Francia Francesco I. Ora per formarsi un giusto concetto sul reggimento dei Dogi biennali statuito dai dodici Riformatori coll'assenso del DOria, bisognerebbe comparare la costituzione aristocratica , eh’ eglino dettarono , colle forme dei governi sotto alle quali i genovesi nei tempi anteriori erano stati sottoposti. E da questo confronto si verrebbe a stabilire il vantaggio, che ricavarono i genovesi dall’ i-stituzione del Governo aristocratico fondato nell’ anno 1528. Giorn. Ligustico, Anno VI. 3 114 CAPO II. CENNI SOPRA I GOVERNI DI GENOVA ANTERIORI AI DOGI BIENNALI» È assai difficile instituire un esame comparativo tra il ìeg-gimento dei Dogi biennali e quelli degli anteriori governi, perchè gli scrittori genovesi si antichi che recenti mentre narrano diffusamente le discordie e le lotte intestine, che produssero in Genova frequenti mutazioni di governo, pei Γ opposto sono d’ una estrema parsimonia nel fornirci esatte e dettagliate notizie sugli statuti e sopra le leggi decietate dai fautori dei suddetti rivolgimenti politici. Non ci assumeremo Γ ardua impresa di riempiere questa lacuna, tanto più che ci condurrebbe lontano dal ristretto tema che abbiamo preso a trattare ; ciò non ostante reputiamo opportuno dare un cenno dei varii governi, che ressero la città di Genova dopo che si costituì in libero comune, sino all anno 1528. Questi furono, ommettendo le frequenti dominazioni di Principi stranieri, il Consolato, i Podestà forestieri, i Capitani del popolo, i Dogi popolari a vita. Il Consolato (come è noto) fu un governo repubblicano, che le città italiche giovandosi del discioglimento ognor crescente dell impero caro-lingio stabilirono ad imitazione degli antichi municipii io-mani. In Genova questa specie di governo venne stabilita dalle associate Compagne dei diversi quartieri della citta. Le suddette Compagne non erano formate da tutti gli abitanti dei quartieri, ma si componevano dei cittadini più agiati e più colti, tra i quali s’ annoveravano non pochi discendenti delle antiche decurionali famiglie romane, possessori di beni stabili, e molti cittadini divenuti ricchi in tempi più recenti a cagione delle proprietà mobiliari ed immobilian, acqui giornale ligustico ”5 state mercè l’esercizio delle loro industrie e del loro commercio. Di maniera che i Consoli eletti da queste associazioni erano i delegati d una locale aristocrazia rappresentante la ricchezza e l’intelligenza. Da ciò derivò che i membri maggiorenti delle Compagne costituirono un ordine di cittadini superiore, al quale spettarono di fatto i diritti politici, e che dipoi per consuetudine furono appellati Nobili consolari. Il governo consolare era costituito dai Consoli del Comune, dai Consoli dei placiti e dal Consiglio di credenza (Consiglio dei sa vii). Ai Consoli del Comune apparteneva la suprema cura degli affari della Repubblica, e perciò era loro attribuito il potere legislativo ed esecutivo; ma quest’ultimo dovevano esercitarlo tenendo conto dei pareri consultivi dati dal Consiglio di credenza sopra i provvedimenti e le leggi ch’eglino aveano intenzione di deliberare e promulgare. Ai Consoli dei placiti spettava decidere i litigi civili e sentenziare sui crimini; al Consiglio di credenza venivano affidati l’amministrazione economica, e 1 incarico di ricevere unitamente ai Consoli del Comune le estere legazioni, 1’ omaggio dei vinti, i ricorsi dei paesi soggetti, nominare le ambascierie, deliberare la pace e la guerra salva Γ approvazione del Parlamento. Gli individui aggregati alle Compagne avevano diritto d’ adunarsi in pubblica assemblea (Parlamento), a fine d’ approvare e rigettare le proposte di leggi, le dichiarazioni di guerra, i trattati di pace presentati dai Consoli del Comune, dai quali erano convocati. Il governo dei Consoli, stabilito in quasi tutte le città d’Italia nel secolo XII, fece ri germogli are la civiltà latina e diede un grande impulso allo sviluppo del rinnovato incivilimento italico. Fu una grande calamità che esso venisse interrotto e quasi annichilito dalle incessanti lotte combattute tra l’impero e il Sacerdozio; nelle quali i Comuni italiani si trova- GIORNALE LIGUSTICO rono involti e che furono causa della loro rovina (i). Non v’ ha dubbio che se i Comuni italiani avessero potuto acquistare maggiore autorità e potenza, si sarebbero costituiti in Repubbliche d’ ottimati, cercando d’ uniformarsi ai precetti stabiliti dagli antichi filosofi, Platone ed Aristotele, per fon-dare 1’ ottima Repubblica. Il libero governo municipale delle città italiane fu scosso coll’ accordo latto nell anno 1176 in Venezia tra Γ Imperatore Federico I ed il Papa Alessandro III, e compiutamente distrutto colla pace di Costanza imposta dallo stesso Imperatore ai Comuni italiani aderenti alla Lega lombarda. In vero Genova fu una delle città che più tardarono a rinunciare al governo dei Consoli, perchè soltanto nell'anno 1190 sostituì al Consolato il reggimento dei Podestà forestieri. Il qual mutamento di governo fuwi accolto a male in cuore. Ma i genovesi furono obbligati a sopprimere il governo dei Consoli, perchè incompatibile colle fazioni imperiali e chiesastiche che, sotto l’appellazione di ghibellini e di guelfi, si disputavano il predominio sulla Penisola italica, e perch un reggimento libero e repubblicano era odioso egualmente ai Pontefici romani ed agli Imperatori germanici. Al reggimento dei Consoli, nel quale predominavano i cittadini più colti e più agiati, succedette un governo meno indipendente ed assai più oligarchico, il quale derivava dall Impero oppure dal Papato. Le fazioni guelfa e ghibellina, nelle quali disgraziatamente s’ erano divisi i maggiorenti delle antiche Compagne di Genova, prima d’accettare definitivamente la soggezione dei Podestà forestieri, ora si sottoposero al governo di questi ed ora fecero ritorno a quello dei Consoli. (!) Egli è evidente che i Comuni iuliani furono costretti a prender pane atnva nella lunga lotta tra l'impero ed il Papato 1; e siccome essi «rano deboli ed isolati, rimasero vittime degli ambiziosi e potenti disputatori. GIORNALE LIGUSTICO n7 Nò torna ozioso Γ osservare , che coloro i quali mostrarono maggior ripugnanza ad ammettere i Podestà forestieri furono i Nobili consolari; sì come quelli che mercè questa nuova forma di governo vedeansi esclusi dalla prima Magistratura della Repubblica ; la quale era invece assegnata ad un non appartenente alla cittadinanza, il quale poteva essere un uomo più o meno illustre, ma sempre addetto ad una delle fazioni sopraddette. Soltanto eglino si rassegnarono a subire questa sorta di governo, ed anzi se ne vantaggiarono, allorché conobbero che Γ elezione del Podestà dipendeva da loro, e che l’eletto doveva essere di necessità un loro cliente. La qual condizione del Podestà proveniva dalla sua autorità circoscritta ad un anno od anche a sei mesi, con obbligo che appena terminato il tempo dell’ ufficio dovesse dimettersi e sottoporsi al sindacato d’ un Magistrato rappresentante il partito o la fazione dei Nobili che 1’ avevano eletto. Il Podestà forestiere in diritto avrebbe dovuto esercitare la suprema autorità legislativa ed esecutiva, ed avere il comando delle milizie comunali; ma nel fatto la sua autorità restringevasi a quella d’ un agente della fazione predominante, dipendesse questa dalla Chiesa o dall’impero. L’ordinamento politico di questa sorta di governo era il seguente : i Podestà aveano nominalmente il mero e misto imperio, ma in realtà l’amministrazione civile e politica concentravasi nel Consiglio degli Otto Nobili (appellato eziandio degli Anziani), il quale sedeva a lato dei Podestà esercitando 1’ ufficio d’ assessore e di consultore. Di maniera che il reggimento dei Podestà forestieri fu più oligarchico che aristocratico; ed in Genova appartenne alla fazione ghibellina sino al tempo in cui l’imperatore Enrico VI, nell’anno 1195, ricusò mantenere le promesse da lui fatte, ed eseguire le convenzioni concordate colla Republica per l’aiuto prestatogli ad insignorirsi dell’ isola di Sicilia. L’ingratitudine dell’ Im- ιιδ GIORNALE LIGUSTICO peratore avendo mosso lo sdegno dei genovesi, diede occasione ai Nobili aderenti alla fazione guelfa di riacquistare il perduto predominio, e sostituire all’ alleanza imperiale la protezione dei Papi. Negli ottanta anni durante i quali i Podestà forestieri ressero il Comune di Genova, le fazioni guelfa e ghibellina s’ avvicendarono nel governo ; ma tanto 1’ una quanto 1’ altra amministrarono la cosa pubblica, non già per conseguire il ben essere dei governati, sibbene per soddisfare la propria ambizione e per vantaggiare gli interessi della Chiesa e dell’ Impero. In Genova egualmente che in altre città d’Italia il governo dei Podestà divenne uggioso , perchè questi, facendosi forti dell’ estrinseco appoggio imperiale o chiesastico, arrogavansi troppa autorità, e perchè fu sperimentata la incompatibilità delle funzioni politiche, civili e militari loro commesse. I sopraddetti difetti incitarono la popolazione genovese , a qualunque ceto appartenesse, a mutar governo e sostituirne un altro nel quale a capo della Repubblica fosse, posto qualcuno dei propri concittadini. I nobili della fazione ghibellina che in quel tempo predominavano colsero questa occasione ; ed uno tra essi, Guglielmo Boccanegra, nell'anno 1257 coadiuvato dal minuto popolo fecesi eleggere Capitano del popolo e del Comune genovese con mero e misto imperio. Da principio egli mostrossi moderato nell’ esercizio della sua eccessiva autorità, e nell’ anno 1261 conchiuse la celebre convenzione di Ninfeo con grande vantaggio del Comune; ma in appresso nell’ amministrazione della cosa publica si chiari più tiranno , che giusto e valoroso reggitore di libero Stato (1). (1) Mi piace su questo proposito trascrivere il giudizio su Guglielmo Boccanegra dato da Gio. Battista Niccolini nella sua Storia postuma della Casa di Svezia in Italia. Egli scrive a pag. 261: « Tanto vi crebbe in Genova la potenza del Boccanegra Capitano del popolo, eh’ egli reggendo GIORNALE LIGUSTICO II9 La tirannide di Guglielmo avendo stancato egualmente i Nobili guelfi e ghibellini ed i maggiorenti del popolo grasso, costoro lasciando da parte le loro rivalità s’unirono e lo costrinsero a dimettersi dal governo. Venne quindi ripristinato il reggimento dei Podestà forestieri; ed a tal carica fu eletto il dottore di legge Martino di Fano aderente alla fazione guelfa. Ma questa fazione, che in Genova era capitanata dal Cardinale Ottobono Fieschi, nipote del Papa Inocenzo IV, che aveva un forte sostegno nella grande potenza dello zio, non ebbe forza nè autorità per far rivivere stabilmente un go verno caduto in disuso; e ciò rese agevole, dopo molte dissensioni intestine, ad Oberto D’Oria e Oberto Spinola capi della fazione ghibellina di sommovere la città, impadronirsi del Palazzo scacciandone il Podestà Orlando Putazio parmigiano , e farsi proclamare a lor volta Capitani del popolo e del Comune dai cittadini adunati in Parlamento. Il reggimento dei Capitani del popolo di fazione ghibellina stabilito nell’ anno 1270 fu chiamato da Oberto Foglietta nei suoi Discorsi delle cose della Repubblica di Genova « libertina tirannide ». Ma il giudizio del Foglietta, ripetuto da alcuni scrittori posteriori, è da ammettersi o no? Ecco una questione da doversi esaminare. I due Oberti rinnovando il reggimento introdotto da Guglielmo Boccanegra si fecero, come quest’ultimo, assegnare dal Parlamento il mero e misto imperio per un tempo determinato; e con questo cumulo d’autorità assunsero un potere che li abilitava a stabilire in Genova quel governo che fosse loro più gradito. Se non che i due Oberti non seguirono la a suo arbitrio Potestà, Consoli e Nobili, la loro potenza si era abbattuta e distrutta : quanto dal grande Consiglio deliberavasi egli tenea a vile, i pubblici offici a volontà sua distribuiva ; era venuto in odio ai migliori cittadini, e sol tenea con esso lui la plebaglia, del viver libero, di cui non è degna, perpetua abusatrice ». 120 GIORNALE LIGUSTICO condotta del Boccanegra, nè come questi drizzarono il pensiero a farsi tiranni della patria. La qual verità è dimostrata dal modo col quale ressero la Repubblica e dall’ ordinamento politico stabilito durante il periodo del loro Capitaneato. Le facoltà e le attribuzioni che ritennero per sè stessi furono di curare Γ amministrazione della Repubblica in tutto ciò che riguardava gli affari interni e le relazioni esteriori, ripristinando in tal guisa il reggimento dei Consoli del Comune. Dobbiamo aggiungere in loro elogio , eh’ essi circoscrissero la propria autorità stabilendo un Podestà forestiero assistito da tre giudici parimente forestieri, ed assegnando a costoro le facoltà un tempo attribuite ai Consoli dei placiti. Costituirono inoltre un Consiglio d’ anziani formato metà di nobili e metà di popolari, tutti di fazione ghibellina , e gli conferirono Γ amministrazione economica e la facoltà di dare pareri consultivi su le leggi e su i decreti, eh’ eglino divisavano promulgare ; nominarono un Abate del popolo , al quale concedettero molte pubbliche onorificenze, ma pochissima autorità, poiché questa riducevasi ad una apparente e scarsa giurisdizione sulle corporazioni d’ arti e mestieri. Il governo Obertino adunque venne a torto accusato di tirannide dal Foglietta. Non fu una Dittatura e nè meno un Principato, giacché era fondato sulle medesime basi del municipale reggimento republicano dei Consoli. Le differenze di maggior rilievo che notaronsi tra i medesimi, e costituivano il Capitaneato assai inferiore al Consolato, consistevano: i.° che i Capitani non convocavano mai o assai di rado il popolo a Parlamento, mentre i Consoli adunavano le Compagne a tempo determinato; 2.° che i Capitani nominavano i Magistrati del Comune e sceglievanli esclusivamente nella fazione ghibellina ad essi devota, mentre nel Consolato erano liberamente eletti dalla maggioranza dei membri delle Compagne adunati in pubblico Parlamento. Il capitaneato dei due Oberti durò sino all’anno 1292. In GIORNALE LIGUSTICO 121 questo tempo Genova godette d’ un grande ben essere materiale e morale, perchè le venne guarentito Γ ordine interno, fu mantenuto prospero il suo commercio marittimo, e venne rispettata e temuta dalle altre Repubbliche italiane. Dopo quel tempo fin all anno 1339 sorsero nuove discordie intestine, e le due fazioni guelfa e ghibellina combatterono per conseguire Γ assoluto dominio; anzi la fazione guelfa non tralasciò d’ adoperare qualunque mezzo per abbattere il potere degli av\eisarii, come successe nell’anno 1319, in cui pervenne a far deliberare dai propri concittadini la dedizione di Genova per dieci anni al Re Roberto di Napoli. Stimiamo inutile dare un esatto ragguaglio dei rivolgimenti avvenuti in questo tempo, giacché restringevansi al fatto che la fazione vincitrice insignorendosi del Comune cacciava dalla città i capi della fazione contraria, ed assumeva essa stessa il tanto anelato e conteso dominio della Repubblica. Gli annalisti e gli storici genovesi narrarono ampiamente l’astuto maneggio col quale Simone Boccanegra spodestò gli ultimi Capitani Raffaele D’Oria e Galeotto Spinola, non che il modo che uso per farsi attribuire la signoria della patria colla denominazione di Doge a vita. Il Dogato a vita, istituito nell’anno 1339, segna un’epoca importante nella Storia di Genova, perchè da questo tempo in poi la suprema autorità della Republica venne tolta ai Nobili consolari, tanto di fazione guelfa quanto di fazione ghibellina, ai quali sottentrarono i Nobili d’origine più recente ed alcune famiglie di ricchi mercadanti, che si contusero insieme coll appellazione di Nobili popolari (ovvero capellazzi), proseguendo sempre ad essere esclusi dal governo tutti quelli che appartenevano alla fazione guelfa (1). (i) L esclusione della fazione guelfa decretata da un governo ghibellino che succedeva ad un altro governo ghibellino è cosa di molta importanza, benché sia stata poco avvertita, specie dai moderni compilatori di storia 122 GIORNALE LIGUSTICO Taluni scrittori, specie moderni, sull’ autorità d’ Oberto Foglietta, supposero che il governo dei Dogi a vita escludendo l’aristocrazia consolare, tendesse a stabilire in Genova una Repubblica democratica, simile a quella che verso quei tempi fu stabilita in Firenze col Magistrato dei Priori delle arti, i quali in compagnia del Capitano del popolo costituivano il potere esecutivo, e governavano tutte le grandi e gravi cose dello Stato. Ma 1’ unico scopo eh’ ebbe Simone Boccanegra nell’ effettuare la mutazione di governo fu d assumere esso stesso quel dominio del Comune di Genova, che suo zio Guglielmo aveva tentato di possedere, e che non gli venne permesso raggiungere dai genovesi, i quali volevano conservare la libertà della loro patria. Nessuno ignora che coll’ istituzione del Dogato a vita cominciò l’infelice periodo dei Dogi popolari. Prima di ragionare di questa specie di governo, bisogna notare 1 inesattezza dell’appellazione di Dogi a vita; perciocché in i8y anni che durò questo periodo storico si numerano soltanto tre Dogi rimasti in carica dalla elezione fino alla loro morte. Costoro furono Giovanni di Morta, eletto nel 1345 e nlor^° nel 1350; Leonardo Montaldo e Giano Fregoso, 1 uno eletto Doge nel 1363 e l’altro nel 1447* ambedue morti innanzi che terminasse il primo anno del loro Dogato. Altra cosa da notare si è, che dall’ elezione del primo Doge a vita fino allo genovese che descrissero con amore il funesto periodo dei Dogi popolari a vita. A nostro avviso si dovrebbe dedurre da questo fatto, che una delle principali cause della caduta dei Capitani del popolo Raffaele D’Oria e Galeotto Spinola sia stata la tacita colleganza da essi conchiusa coi Nobili consolari di fazione guelfa, ai quali davano parte delle primarie cariche della Repubblica quando aderivano al loro governo. La qual cosa precludendo ai Nobili minori di fazione ghibellina le ambite Magistrature, originò scontento e agevolò a Simone Boccanegra il mezzo di i’arsi signore della patria. GIORNALE LIGUSTICO 123 stabilimento dei Dogi biennali ebbero luogo frequenti mutamenti di governo e non poche dedizioni spontanee 0 forzate a Principi forestieri. Lasciando da parte le straniere dominazioni e restringendoci ai tempi che i genovesi ebbero un proprio governo retto da Dogi popolari, osserviamo doversi questo periodo dividere in due parti. La prima comincierebbe dalle sopressione del reggimento dei Capitani del popolo e terminerebbe nell’anno 1413, cioè al Dogato di Giorgio Adorno; la seconda cominciando dalla promulgazione delle leggi del 1413 giungerebbe sino alla ricuperata libertà nel-1' anno 1528. Genova tanto nell’uno quanto nell’altro periodo storico fu di continuo afflitta da incessanti guerre civili e da numerose rivolture di governo. Per quanto concerne il primo periodo, noteremo che Si-mone Boccanegra promotore ed autore di questa specie di reggimento, prendendo possesso del Dogato a vita fece dettare dal pubblico Parlamento i seguenti capitoli di costituzione. Fosse a lui conferita la signoria con mero e misto imperio, e col titolo di Doge a vita ; gli si collocasse a lato un Consiglio composto di quindici persone, tutte popolari e ghibelline; si nominassero due Podestà forestieri, 1’ uno criminale sopra i delitti ordinari, l’altro della città sopra i delitti di Stato; i Nobili di fazione guelfa fossero banditi, unitamente agli ultimi Capitani ed ai loro congiunti ancorché fossero ghibellini; nessun Nobile consolare potesse essere eletto Doge; alle magistrature si dovessero nominare individui appartenenti alla parte ghibellina; e fossero esclusi quelli della parte guelfa. Il nuovo Doge si assicurò così la suprema potestà di Genera; e prendendo il nome di Doge a vita, ad imitazione del Doge di Venezia, non consentì che a lui venissero moderate le facoltà come al Doge veneto, ma volle conservare intatto il mero e misto imperio che davagli il popolo nel giorno che lo acclamava Doge e Signore. o o 124 GIORNALE LIGUSTICO Simone Boccanegra da prima usò con qualche moderazione dell’ autorità principesca ; ma ben presto ne abusò e divenne crudele tiranno verso nobili e popolari, guelfi e ghibellini, stimando che tutti dovessero essere soggetti alla sua arbitraria amministrazione. Alla tirannide del Boccanegra s’ opposero 1 Nobili consolari, coadiuvati dai maggiorenti del popolo grasso, e Γ obbligarono dopo cinque anni di Dogato a rinunciarvi, eleggendo in suo luogo Giovanni di Morta. Non è nel nostro compito di narrare in qual guisa Simone Boccanegra fecesi nominare una seconda volta Doge, ne come morì odiato non solo dalla fazione dei Nobili, ma eziandio dal popolo che lo reputava un esoso tiranno. In questo primo periodo del governo dei Dogi a vita popolari diremo che 1 capitoli di costituzione stabiliti nell’anno 1339 furono la base del loro governo ; e talvolta s’ aggravarono in danno dei Nobili consolari, come avvenne negli Statuti di Gabriele Adorno. Altre volte furono più miti ; ma ad ogni modo i Dogi a vita si mantennero costantemente nel possesso del mero e misto imperio , e nella loro amministrazione variarono soltanto nel determinare la partecipazione da accordare agli antichi Nobili nei varii Magistrati della Repubblica. A questo riguardo sappiamo dagli antichi annalisti e storici genovesi, che i Nobili erano talvolta esclusi interamente dai Magistrati (nel secondo Dogato in Simone Boccanegra e in quello di Gabriele Adorno) ; ma più sovente v’ erano ammessi ora per metà ora per un terzo. Coteste parziali riforme non mutarono però la forma di governo dei Dogi popolari a \ ita, la quale più che oligarchica Repubblica avrebbesi dovuto chiamare assoluto Principato (1). (1) I Nobili consolari, ai quali nell’anno 1539 venne tolta la suprema autorità dai Nobili di più recente origine, da quel momento in poi cessarono dal capitanare in Genova le fazioni guelfa e ghibellina, ed in vece si collegarono per difendersi ed impedire che i Nobili popolari li oppri- GIORNALE LIGUSTICO 125 Il secondo periodo, che abbiamo detto muovere dalle leggi del 1413 e finire all’anno 1528, differisce dal primo per un migliore ordinamento politico. Difatti le leggi del 1413 promulgate da Giorgio Adorno, sebbene non siano mai state esattamente eseguite e malgrado i loro numerosi difetti, formarono la base di governo su cui si regolarono i Dogi a vita, fossero Adorni o Fregosi, nei più o meno lunghi intervalli in cui la Repubblica non era soggetta a Principi stranieri. Devesi notare eziandio che colle leggi del 1413, lodate dagli annalisti contemporanei cui fecero eco alcuni recenti storici £ non si pervenne ad ottenere un qualsiasi stabile ordinamento politico; e ciò conforta la sentenza dell’ Alighieri : « Le leggi son, ma chi pon mano ad esse »? Di necessità ciò doveva accadere, perchè in quel tempo il Dogato a vita era conteso tra gli Adorni ed i Fregosi colle armi, come se fosse un Principato ereditario di loro spettanza. Al che ponendo mente, acquistiamo l’intimo convincimento che i genovesi non debbano dolersene , giacché ai suddetti intestini dissidii vanno debitori d’ aver evitato che un Adorno ovvero un Fregoso si costituisse signore di Genova, ed i Nobili fossero posti in condizione di stabilire nell’anno 1528 una più stabile e migliore forma di Repubblica. capo m. OSSERVAZIONI DEDOTTE DALLA RASSEGNA DEI GOVERNI ANTERIORI all’anno 1528. Da quanto dicemmo nella rapida scorsa che abbiamo dato agli ordinamenti politici succedutisi in Genova, prima della messero. Essi in vero non riacquistarono la perduta prevalenza, ma ebbero tanta forza ed autorità da non permettere a qualche nobile delle quattro famiglie capellazze di costituire un Principato ereditario. Laonde, abborrendo al pari di qualunque le intestine discordie e le guerre civili, siamo costretti a rendere omaggio alla fazione dei Nobili per avere colla sua opposizione ai Dogi popolari a vita preservata la patria dalla tira*-nide d’ un Sovrano assoluto. 126 GIORNALE LIGUSTICO promulgazione delle leggi statuite nell’anno 1528, possiamo trarre le seguenti deduzioni: i.° che la città di Genova ebbe i medesimi governi delle altre città italiche che s’ eressero in liberi comuni; 2.0 che se fu tra le prime a costituirsi in Comune indipendente, lo deve alla sua speciale condizione di città marittima, ond’ebbe un più anticipato sviluppo d’incivilimento; 3.0 che Γ aristocrazia genovese non fu una Nobiltà feudale, nè lombarda, nè franca, nè germanica (1), ma fu una Nobiltà cittadina ed indigena. A questo proposito crediamo opportuno riferire le divisioni del ceto dei Nobili, ed esporre in qual modo si contrassegnassero. — La Nobiltà consolare era formata dagli individui maggiorenti delle Compagne, nella quale predominavano le famiglie Adorno, Castello, D’Oria, Fieschi, Grimaldi, Spinola, ecc., coll’ aggiunta delle famiglie di coloro , che durante il reggimento dei Podestà forestieri parteciparono nel governo del Comune. Questi ultimi, per notare la loro differenza d’origine,/urono abusivamente addimandati «tetti appesi », volendo significare con questa denominazione la loro dipendenza ed inferiorità rispetto ai Nobili consolari; ma anch’ essi, dopo l’anno 1339, pei" la maggior parte (1) Ciò scriviamo pur sapendo che i nobili genovesi, guelfi e ghibellini, come i nobili popolari Adorni e Fregosi ed altri, hanno posseduto dei feudi imperiali e riconoscevano sopra gli stessi Γ alto dominio dell Imperatore. Costoro però vivevano in Genova liberi da ogni vincolo feudale, e consideravano la loro dipendenza dall’ Impero essere più apparente che vera, perchè non ignoravano che l’Imperatore avea una potenza assai minore delle pretensioni che metteva in campo nella sua qualità di successore dei Cesari. I nobili genovesi possessori di feudi, egualmente che gli altri feudatarii italiani, stimandosi assoluti padroni nei loro feudi rurali, non negavano d’ ammettere in diritto le sue pretensioni, ma in fatto negavano prestargli obbedienza persuasi di poter impunemente sostenere il loro rifiuto. GIORNALE LIGUSTICO 127 s unirono ai Nobili consolari e formarono insieme la fazione dei Nobili. Le famiglie che nel tempo dei Podestà forestieri e dei Capitani del popolo accumularono ricchezze e divennero potenti, partecipando pur esse al governo del Comune, s’appellarono dei Nobili popolari, e si suddivisero in « cap-pellazzi » ed in « serra-botteghe ». Ai primi appartenevano le famiglie più opulente; nei secondi si numeravano gli arrichiti di recente, e perciò venivano appellati « serra-botteghe ». Una esatta cognizione delle varie classi'in cui suddividevasi la Nobiltà genovese ci sembrava necessaria, per conoscere le cause delle discordie civili, cui diede luogo Γ ambizione e la rivalità del ceto nobile. In quarto luogo è pur da osservare, che nei. varii reggimenti successivamente statuiti in Genova prevalse 1’ elemento aristocratico sul democratico, tranne alcuni brevi momenti d’ anarchia demagogica. La qual cosa avvenne perchè in Genova le corporazioni d’arti e mestieri non si poterono mai stabilire in corpo politico, e le mutazioni di governo non erano causate da principio di prevalenza aristocratica e democratica, ma dalla rivalità d’ una turbolenta e divisa aristocrazia che dispu- tavasi il predominio. In quinto luogo finalmente vuoisi avvertire, che nella mas-gioranza della popolazione genovese prevalse quasi sempre la fazione ghibellina; ma errerebbe assai chi volesse da questo ultimo fatto dedurre che i popoli liguri rimpiangessero il governo degli Imperatori Carlovingi, ed il feudalismo dei Conti e dei Visconti franchi, ovvero bramasssero d’essere sottoposti al diretto dominio degli Imperatori germanici. Il popolo di Genova fu ghibellino durante il Consolato, perchè mercè d’ esso venne liberato dal dominio dei vescovi, i quali nel discioglimento dell’impero Carlovingio sotto i primi Imperatori germanici reggevano in nome di questi 128 GIORNALE LIGUSTICO il Comitato di Genova (i) ; seguì ad essere ghibellino sotto il reggimento dei Podestà forestieri, perchè i Podestà aderenti al partito imperiale presentavano una efficace guarentigia, eh’ essi non avrebbero lasciato riprendere ai vescovi ed al clero, la perduta ingerenza nella pubblica amministrazione. Fu ghibellino eziandio sotto i Capitani del popolo, perchè Oberto D’ Oria ed Oberto Spinola si numeravano tra i capi della suddetta fazione; ed una delle principali cagioni per cui il popolo abbandonò e si ribellò ai Capitani Raffaele D’Oria e Galeotto Spinola, fu che i sopra detti Capitani cercarono amicarsi i capi delle famiglie nobili di fazione guelia. Dal ravvicinamento delle dette famiglie guelfe e ghibelline il popolo di Genova temette potessero i vescovi alleati dei guelfi, (i) I Duchi ed i Conti, i quali, conforme ai Capitolari di Carlo Magno, amministravano le provincie ed i comitati dell’impero, erano eletti e rimossi a volontà dall’ Imperatore. È noto eziandio come i predetti duchi e conti si giovassero dello scioglimento dell’ Impero Carlovingio, sostituendo alla delegazione regia un governo proprio ereditario e patrimoniale , e riducessero l’Impero in altrettante sovranità divise e tra loro indipendenti, limitandosi nominalmente obbligati a riconoscere 1’ eminente dominio del Sacro Romano Impero. Ora i deboli successori di Carlo Magno ed i primi Imperatori germanici della Dinastia sassone, per ovviare al danno eh’ avrebbe recato alla loro autorità 1’ elezione di Conti, che avrebbero voluto arrogarsi una potestà ereditaria, preferivano eleggere a conti vitalizi dei vescovi. Ma questa loro precauzione fu vana, giacché i vescovi appartenendo alla gerarchia ecclesiastica, la loro giurisdizione era diretta particolarmente a stabilire la propria autorità e quella del clero nel luogo dove erano nominati ed a vantaggiare gl’ interessi e 1’ autorità dei Pontefici romani, come venne provato nella lotta tra il Sacerdozio e l’Impero ai tempi di Gregorio VII ed Enrico IV, imperocché il primo poco potente in Italia traeva la sua forza dai Principi ecclesiastici d’ Alemagna (*). (*) Lasciamo all’ egregio autore ed amico tutta la responsabilità della tesi da lui sostenuta a proposito del dominio politico dei vescovi. Noi non potremmo accettarla, senza abdicare alle idee professate da altri amici nostri e da noi stessi. La Dîrüzione. GIOXNALE LIGUSTICO 129 nella qualità di rappresentanti del Pontefice romano, trarre pro-tìtto (1) per riprender la preponderanza loro tolta dal Governo dei Consoli. Continuò ad essere ghibellino in tutto il periodo nomato dei Dogi popolari a vita, come risulta dalle leggi successivamente promulgate dai medesimi. Nel popolo genovese dal 1270 in appresso prevalse la fazione ghibellina, tranne alcuni intervalli di tempo, particolarmente quando Genova fu sottoposta al dominio di Roberto Re di Napoli, ed a quello dei varii Re di Francia. Una volta sola il popolo genovese dichiarossi guelfo, e fu nel 1506 ad istigazione del papa Giulio II; e da quella sollevazione derivò la ben nota tirannide demagogica, alla quale pose fine il Re Luigi XII con un piccolo esercito (12 mila uomini) cui la plebe insorta non oppose veruna resistenza, e quindi fu con ragione disprezzata dai vincitori. Il popolo genovese si mantenne ghibellino nel tempo dei Dogi biennali, se bene fosse cessato ogni dissentimento tra la Chiesa e Γ Impero , ed anzi fosse stabilita fra essi una salda alleanza. Il che è reso manifesto dall’ astio mostrato in diverse occasioni dalla Corte di Roma contro la Repubblica di Genova, cioè: coll’aver forniti soccorsi ai ribelli corsi nelle loro insurrezioni contro la metropoli; coll’aver fatto nel 1684 abbandonare, nella tregua di Ratisbona, la Repubblica di Genova in balìa del Re Luigi XIV; infine coll’avere biasimato il clero secolare e regolare genovese, che nell’ anno 1746 impugnò le armi in difesa della patria contro 1’ esercito austriaco. Di tal maniera Genova, i cui abitanti erano molto religiosi e che avea gran numero di chiese, conventi e (1) L’ esclusione dai Magistrati della Repubblica di tutti i cittadini appartenenti alla fazione guelfa, decretata dal Doge Simone Boccanegra, viene attribuita da Gioffredo Lomellini (Rivoluiioni del Governo accadute nella città di Genova) al fatto, che il Boccanegra ed i capi della plebe aderenti al nuovo Doge riguardavano la maggioranza dei Nobili appartenere alla fazione guelfa. Giorh. Ligustico. Anno VI. Q I3° GIORNALE LIGUSTICO monasteri riccamente dotati, si mantenne quasi sempre ghibellina a fine di non soggiacere alla diretta amministrazione dei vescovi dipendenti dalla Corte di Roma ed isfuggire al predominio che sarebbesi arrogato il Sacerdozio, nella sua qualità di dirigente la fazione guelfa, nell’amministrare gli affari interni ed esterni della Repubblica. CAPO IV. LE LEGGI DELL'ANNO I528. Nell’ anno 1527 Cesare Fregoso ed Andrea D’ Oria, cittadini genovesi al servizio del Re di Francia, assediarono Genova l’uno dalla parte di terra, l’altro da quella di mare, e costrinsero il Doge Antoniotto Adorno a consegnare la città al Fregoso, il quale ne prese possesso in nome di Francesco I elegaendone governatore Teodoro Trivul- DO O zio gentiluomo milanese. È noto che 1’ amministrazione del Trivulzio fu mite e non isgradita ai genovesi, ma non venne approvata dai primarii Ministri francesi, i quali indussero il loro sovrano a deliberare che in luogo della moderazione usata dal Regio Governatore si reggesse Genova come una provincia conquistata, senza aver riguardo alle pattuite libertà municipali. Il Re volle che si effettuasse la sua decisione, e non tenne verun conto delle giuste rimostranze fattegli in nome del Comune dal Consiglio di Balia, non che dai maggiorenti della fazione Fregosa, i quali aveano concorso a sottomettere Genova alla Francia, e nel cui novero primeggiava 1’ ammiraglio Andrea D’ Oria. Il dispotico reggimento che volevasi imporre ai genovesi fu tale da movere l’indignazione di tutti i cittadini nobili e non nobili, ed ebbe forza di unirli nel proponimento di rivendicarsi in libertà (x). (1) Francesco I aveva di già ridotta in atto la sua intenzione di reggere i genovesi con un arbitrario e dispotico governo. Egli aveva man- GIORNALE LIGUSTICO 131 Il modo col quale furono scacciati i francesi da Genova non lo descriveremo, essendo noto a chiunque non sia affatto ignaro della nostra storia. Per lo contrario crediamo opportuno fermarci alquanto ad esporre le leggi promulgate nel-1 anno 1528 dai dodici Riformatori. I genovesi appena che si furono tolti dalla servitù di Francia sentirono il bisogno d’ aver un governo stabile, che loro assicurasse la ricuperata libertà ed indipendenza, e nello stesso tempo sopprimesse le fazioni che li avevano ridotti alla deplorabile condizione cui s’ erano ora sottratti. Ad appagare si giusta brama furono deputati dodici prestantissimi cittadini, scelti tra i principali promotori ed autori della compiuta rivoluzione, commettendo loro di riordinare la costituzione politica e civile della Repubblica. Costoro per adempiere all’ arduo incarico dovettero studiare ciò di che i loro concittadini aveano mestieri per non cader di nuovo nelle miserie così lungo tempo sofferte, indagare qual fosse il miglior governo, che non contraddicendo ai costumi ed alle tradizioni del popolo genovese si potesse attuare nella abiezione politica in cui era caduta la penisola italica e coi principii autoritarii professati concordemente da Clemente VII, Francesco I e Carlo V. Ai dodici riformatori fu agevole conoscere che essendo estinte le fazioni che anteriormente si disputavano il dominio dato in Genova il Visconte di Turenna, a chiedere una somma di danaro a titolo d’imprestito gratuito ; ma l’imprestito venne ricusato dal Consiglio di Balia, in considerazione della misera condizione finanziaria della città. Questo rifiuto offese il Re ed i Ministri francesi, che volevano assolutamente cavare da una provincia considerata come proprietà di conquista quei denari che il loro capriccio dettava d’esigere; e colla risoluzione presa dal Re Francesco di togliere Savona dalla dipendenza di Genova per assegnarla in feudo ad Anna di Montmorency, divisavano porre la stessa a capo della Liguria occidentale. 132 GIORNALE LIGUSTICO della Repubblica potevano stabilire e mantenere la concordia tra i cittadini: conobbero altresì, rispetto alle relazioni estere, quanto fossero gravose le prepotenti volontà poste innanzi dall’Imperatore Carlo V e dai suoi consiglieri, in compenso della protezione che degnavansi accordare alla ricostituita Repubblica. I ministri spagnuoli, col tacito consenso dell’ Imperatore, aveano infatti suggerito ai dodici riformatori di fondare in Genova un Principato ed offrirne la signoria ad Andrea D’ Oria. Ma cotesto suggerimento non fu preso in considerazione, mercè la nobile assicurazione data dal D’ Oria, eh’ egli ambiva solamente la gloria d’ aver cooperato a rivendicare la libertà e Γ indipendenza della patria, e volea essere cittadino genovese sdegnando divenire principe e tiranno. Però nello stesso tempo che ricusavano di instaurare un Principato, si vedevano obbligati a fondare un governo stretto, a fine di soddisfare la volontà del loro protettore Carlo Y, il quale non avrebbe tollerato che in Genova si stabilisse un governo retto con istituzioni democratiche. Si avvisarono adunque che il reggimento da essi statuito dovea fondarsi su principii, che potessero essere accettati e riconosciuti dai Monarchi assoluti che in quel tempo predominavano in Europa. Nè alla loro perspicacia sfuggì l’impossibilità di rinnovare alcuno degli antichi governi; giacché quelli dei Consoli, dei Podestà forestieri e dei Capitani del popolo non erano idonei ai costumi più inciviliti ed alla maggiore coltura sociale cui erano pervenuti i genovesi, e 1’ esperienza avea mostrato quanto gli statuti promulgati dai Dogi a vita fossero viziosi ed atti a suscitare discordie civili. Tenendo conto delle sopraindicate circostanze, stimarono perciò che il reggimento aristocratico della Repubblica di Venezia fosse il tipo di costituzione meglio conveniente ad un libero popolo; e mossi da questo convincimento vollero appunto che questo governo si stabilisse in Genova, ordinandovi una temperata aristocrazia ereditaria. Tal GIORNALE LIGUSTICO I33 forma di governo risulta dalle leggi promulgate dai dodici riformatori nell’ anno 1528 (r). Un ordine unico di nobili, senza distinzione alcuna d’ anzianità di tempo e diversità di partito, ebbe assegnato il diritto di governare partecipando alle varie magistrature della Repubblica. Ma per conseguire e raffermare quest’ ordine, i riformatori stabilirono che tutti gli inscritti nel Liber civilitatis si comprendessero in ventotto alberghi, e si denominassero dalle ven-totto famiglie nobili, che in quel tempo aveano sei case aperte in Genova. In tal guisa venne fondata la nobiltà ereditaria, alla quale spettava esclusivamente l’esercizio dei diritti politici. Primo dei Magistrati della Repubblica era il Doge, che durava in circa due anni; e quando avea finito il Dogato, la sua condotta veniva sottoposta al giudizio dei Supremi Sindicatori. Il Doge nell’adempimento delle sue funzioni era assistito da otto Governatori e da otto Procuratori, ai quali s’ aggiungevano gli ex-Dogi nella qualità di Procuratori perpetui. Ma 1’ autorità del Doge era molto circoscritta ; di maniera che, sebbene in dignità fosse superiore ai Governatori ed ai Procuratori, nell’ autorità era eguale ai medesimi. Il Doge, i Governatori ed i Procuratori formavano il Supremo Magistrato della Repubblica; e quando deliberavano riuniti assieme, prendevano il nome di Senato, ed avevano facoltà: i.° di proporre al minore Consiglio le nuove leggi, nonché le modificazioni alle già eristenti, acciocché le approvasse ; 2.0 di amministrare l’introito dello Stato con facoltà di spendere per cause straor- (1) Vedi, oltre tutti gli storici pubblicati per le stampe, i due interessanti manoscritti: i.° Maiteo Senarega, Rela^one di Genova scritta nel 1598; 2.0 Gioftredo Lomellini, Compendioso ragguaglio delle mutazioni e rivoluzioni accadute nella città di Genova fino verso 1’ anno i$S6. La relazione inedita del Senarega, sebbene evidentemente partigiana, meriterebbe d’ essere resa di pubblica ragione, aggiungendovi molte note e correzioni. τ34 GIORNALE LIGUSTICO dinarie fino a L. 15000 senza adunare il detto Consiglio per averne l’approvazione; 3.0 di eleggere, coll’intervento di pochi individui appartenenti ai maggiori Magistrati, tutti i membri delle diverse Magistrature della città e del dominio tranne i Supremi Sindicatori. Oltre al Doge, ai Governatori ed ai Procuratori furono pure statuite due assemblee, cioè il maggiore ed il minor Consiglio. Alla prima assemblea nominalmente attribuivasi il potere sovrano e la facoltà di nominare i primi Magistrati della Repubblica; ma in realtà il suo potere si riduceva al diritto di scelta tra i candidati proposti dai due Collegi. L’ autorità della seconda assemblea, ossia del minor Consiglio, era di maggiore importanza, perchè ad essa unitamente ai due Collegi spettava discutere, approvare o rigettare le leggi che dai medesimi venivano proposte e non derogassero alla costituzione. In fine coll’ intento di moderare 1’ eccessiva autorità concessa ai diversi Magistrati della Repubblica, o che questi potevansi appropriare, i riformatori istituirono, ad imitazione degli Efori di Sparta, il Magistrato dei Supremi Sindicatori, eletti dal minor Consiglio a maggioranza di voti, senza quelli dei Collegi, i quali soltanto assistevano all’ adunanza da essi convocata. CAPO V. OSSERVAZIONI SULLE LEGGI DEL I528. Prima di lodare o di censurare i dodici Riformatori, conviene osservare se essi soddisfecero all’ aspettazione dei loro elettori, cioè se riuscirono a porre fine alle antiche discordie suscitate dalle fazioni guelfa e ghibellina, ed a stabilire un governo durevole, pel quale i genovesi fossero assicurati di non ricadere nella servitù di Francia. Il primo scopo 1’ ottennero mercè Γ istituzione d’ un unico ordine di nobiltà': ed è un fatto incontestato, che da questo tempo in poi cessarono le lotte GIORNALE LIGUSTICO H) promosse da ambiziosi cittadini, i quali sotto colore di difendere e propugnare gli interessi dei nobili, ovvero quelli del minuto popolo, disputavansi il predominio di Genova. Il secondo scopo non lo potevano raggiungere, se non possedendo una forza sufficiente da contrapporre agli assalti delle truppe francesi destinate a ridurre di nuovo Genova in potestà della Francia. Ora mancandole questa forza, la Repubblica era costretta, per conservare la propria libertà ed indi-pendenza , a chiedere il patrocinio dell’ Imperatore Carlo V. Di fatti il governo aristocratico fondato colle leggi dell’ anno 1528 iu raffermato soltanto dopo la vittoria di Landriano, riportata dal capitano spaglinolo Antonio di Leyva sopra l’esercito francese comandato da Francesco di Borbone Conte di San Polo. Le leggi decretate dai dodici Riformatori furono approvate e lodate dalla universalità dei genovesi, perchè per le medesime conseguirono un ben essere materiale e morale , che da lungo tempo aveano perduto e stimavano quasi impossibile di poter riacquistare. Al contrario furono disapprovate da un piccolo numero di cittadini appartenenti al ceto dei minori mercadanti, quali avrebbero desiderato far parte del-1’ ordine della nobiltà, ma non erano stati inscritti nel Liber civilitatis perchè ritenuti privi delle qualità necessarie per esservi ammessi ; e similmente furono biasimate dai pochi genovesi, i quali rimpiangevano la dominazione di Francia da cui traevano uno speciale profitto. Ci si potrebbe domandare se 1’ ordinamento politico istituito dai legislatori genovesi fu proprio un ottimo governo ? Noi rispondiamo subito negativamente, giacché esso presentava parecchi difetti gravissimi e non poche lacune; nondimeno affermiamo essere stato il miglior governo che consentissero le condizioni interne di Genova, la esiguità territoriale della Repubblica e le imperiose esigenze del Monarca spa- 136 GIORNALE LIGUSTICO gnuolo che se ne vantava alleato e protettore. In questo reggimento aristocratico ereditario, oltre i difetti proprii a si fatti governi e descritti da rinomati pubblicisti, se ne trovano altri provenienti dalle speciali imperfezioni delle suddette leggi; e similmente vi si riscontrano molte lacune risultanti dalla mancanza di collegamento tra le leggi separatamente promulgate. Dei primi mancamenti, cioè quelli inerenti alla forma di governo aristocratico ereditario, non si possono incolpare i dodici Riformatori, se pure non si dimostra aver essi prescelto questa forma per soddisfare la propria ambizione e favorire il partito cui aderivano. La qual cosa, per le ragioni sopra indicate,'da nessuno, secondo crediamo, può essere sostenuta e dimostrata con prove irrefragabili. Ma non si può dire altrettanto dei vizi che derivano dalla trascuratezza con cui vennero deliberate; e gli errori nei quali essi caddero si possono soltanto spiegare e scusare, adducendo delle circostanze attenuanti. E queste circostanze ci vengono fatte conoscere da Scipione Spinola (1), il quale prima d’ enumerare i difetti e le inconsideratezze, che erano a suo avviso nelle leggi del 1528, così scrive: « Queste leggi essendo formate in gran fretta e con ansietà, per la venuta dell’ esercito francese guidato dal Conte di San Polo verso la città , e con opinione universale che fossero per durar poco , rispetto ai passati tempi, avevano poca autorità e credito presso d’ ognuno, tanto maggiormente che in molti capi sostanziali erano piene di difetto e di inconsiderazioni ». Lasciando da parte il giudicio dello Spinola sopra il merito di queste leggi, risulta che i dodici Riformatori affrettaronsi a promulgare il nuovo ordinamento politico a fine di stabilire un governo regolare , che avesse cura di difendere la città dagli assalti (1) Le discordie e guerre civili dei genovesi nell’anno 157S, libro I, pag. 10. Quest’opera è attribuita erroneamente a Gio. Battista Lercari, nell’ edizione di Genova 1857. GIORNALE LIGUSTICO 137 delle truppe francesi tendenti a riporla sotto la dominazione del Re Francesco I. I difetti delle leggi del 1528 furono più o meno esattamente enumerati e descritti oltreché dal citato Spinola, da Matteo Senarega, Gio. Battista Lercari, Gioffredo Lomellini nei loro scritti dettati dopo la riforma dell’anno 1576. Uno dei principali difetti, secondo la loro opinione, fu l’erronea base fondamentale che diedero alle leggi dell’ Unione, cioè la formazione dei 28 alberghi; perchè se con questo provvedimento i Riformatori riuscirono ad annullare le antiche divi-, sioni di nobili antichi e di nobili popolari, e le fazioni Adorna e Fregosa, non videro però che un germe di nuove discordie racchiudevasi in si fatte leggi. Le famiglie incorporate negli alberghi non potevansi unire alle case cui erano aggregate, a cagione dJ opposti interessi, e per la gelosia e rivalità che nasce sempre fra eguali, quando uno vuole predominare sul-1’ altro, e per là disunione delle famiglie componenti lo stesso albergo, che sorgeva dall’ ognora crescente invidia e dall’ odio nutrito dai minori contro de’ maggiorenti. Altro difetto fu quello d’ aver assegnato moltissime rilevanti facoltà, tra le altre di statuire nuove leggi e deliberare della pace e della guerra, al minor Consiglio composto di nobili estratti a sorte, e quindi soggetto a riempirsi d’ uomini inesperti od incapaci a reggere tanto peso. I Riformatori commisero questa inconsideratezza , volendo mantenere una antica consuetudine la quale presentava il vantaggio di rendere possibile ai cittadini di diversa opinione la partecipazione ai principali uffici amministrativi. Ma pur conservando si fatta costumanza, essi avrebbero potuto agevolmente correggerla e migliorarla, stabilendo che i sorteggiati si riducessero ad un terzo o tutto al più alla metà. Fu eziandio un notevole errore quello d’aver dimenticato di dichiarare con esattezza la qualità delle arti meccaniche, che i38 GIORNALE LIGUSTICO s’intendevano incompatibili coll’ ordine della nobiltà; e questa trascuranza è tanto più inesplicabile, perchè in Genova tutti i cittadini erano dediti alla mercatura e la principale loro distinzione, specie nei primi tempi del Comune, stava non tanto tra nobili e popolo , quanto tra piccoli e grandi commercianti ; i quali in grazia delle maggiori ricchezze acquistando maggiore autorità nell’ amministrazione della cosa pubblica , s’attribuirono il titolo di nobili uomini, particolarmente perchè ad essi erano attribuite le primarie cariche deilo Stato. Le lacune poi dipendono dalla mancanza di coordinamento alle leggi del 1413 che si lasciarono sussistere. Perchè mentre la nuova costituzione era dettata con intendimento di stabilire una aristocrazia ereditaria ad imitazione della Repubblica di Venezia, quelle leggi invece aveano per fine d’assicurare la signoria di Genova al capo della fazione prevalente. Devesi pertanto attribuire alle leggi tolte a prestanza dalla costituzione dell’Adorno: i.° l’abuso invalso nella formazione dei Magistrati, cioè, che, sebbene estratti a sorte, dovessero comporsi per metà di nobili nuovi ; 2.0 la massima che i Dogi biennali dovessero alternarsi tra i due ordini nobili. La quale ultima distinzione si rivela eziandio contraria allo spirito delle leggi dell’ Unione, e fu cagione di mali umori e discordie tra gli inscritti nel Libro della civiltà. I reggitori di Genova avrebbero dovuto volgere la loro attenzione ai precitati difetti e lacune, rimediandovi col deliberare delle saggie correzioni fondate sovra più equi e liberali principii di ragione pubblica. Se ciò avessero fatto, non sarebbe avvenuto il criminoso tentativo di Gian Luigi Fieschi, pel quale i genovesi corsero pericolo d’ essere rimessi sotto 1’ uggioso dominio di Francia, e si rese necessaria la promulgazione della legge del 1547. GIORNALE IGUSTICO I39 CAPO VI. LA LEGGE DEL I547- Dopo la sollevazione del Fieschi, cotesta legge divenne una necessità, e fu uh vero benefizio per Genova. Di fatti, mentre venne deliberata in luogo delle riforme chieste per migliorare l’ordinamento politico istituito colle leggi del 1528, e fu poi causa delle successive discordie e guerre civili dell’ anno 1575, riuscì nello stesso tempo un avvenimento fortunato mercè cui i genovesi tolsero il sopra indicato difetto prodotto dalle nomine dei magistrati estratti a sorte, e poterono conservare la libertà e l’indipendenza che Ferrante Gonzaga governatore di Milano, e il Figueroa oratore cesareo in Genova, consenziente l’Imperatore Carlo V, voleano annullare dopo la repressa rivoluzione del Fieschi. I rei disegni dei Ministri spa-gnuoli in danno della Repubblica di Genova ci sono compiuta-mente noti, mercè la pubblicazione dei documenti dell’Archivio di Simancas negli Atti della nostra Società Ligure di Storia Patria. Da essi sappiamo essere i genovesi debitori al caldo amor patrio di Andrea D’ Oria, se cotesti disegni non si effettuarono. In questa circostanza il D’Oria, sebbene al servigio di Carlo V ed a lui affezionato, parlò chiaro all’Imperatore, e fece conoscere ai Collegi che l’unico mezzo di sventare 1’ ordita congiura a danno della Repubblica era d’ assicurare Cesare che Genova si manterrebbe a lui devota, e confidente nella sua benigna protezione. Il che non potevasi conseguire se non offrendogli una sicura guarentigia, col riformare la costituzione in maniera che gli avversarli del predominio spagnuolo fossero allontanati dal governo. I reggitori di Genova conobbero la saviezza del consiglio dato dal D’ Oria, e decisero seguirlo. Perciò dopo matura discussione, col tacito assentimento dei maggiorenti fra i nobili aggregati, deli- 140 GIORNALE LIGUSTICO berarono la legge del 1547 e meritamente ossequiarono in Andrea non solo il restauratore, ma il difensore e mantenitore della recuperata libertà. All’attentato del Conte Fieschi è da ascrivere se il riordinamento della costituzione politica di Genova non si potè effettuare, e se invece si dovette decretare la legge restrittiva del 1547. Si variò la composizione del maggiore e del minor Consiglio ; e fu stabilito che dei quattrocento nobili estratti a sorte dei quali si componeva il maggior Consiglio, da ora innanzi trecento si continuassero ad eleggere nella stessa guisa e cento fossero scelti a palle, a fine d’essere assicurati che in detto Consiglio si comprendessero degli uomini stimati per ingegno e per prudenza. Similmente fu ordinato che i cento membri componenti il minor Consiglio non fossero più estratti a sorte fra i quattrocento del maggior Consiglio, ma nominati a voti. L’elezione di cento membri del maggior Consiglio, come pure dei cento del Consiglio minore si facesse dai due Collegi, con gli otto Protettori di San Giorgio, i cinque Supremi Sindicatori ed i sette membri dell’Ufficio degli Straordinari. Finalmente si mutò il modo d’ eleggere il Doge, i Governatori ed i Procuratori, conferendone la nomina al minor Consiglio. Però se con questa riforma si tolsero i difetti che nascevano dall’elezione a sorte dei magistrati, non si corressero le altre sopranotate imperfezioni; e per dippiù fu ristretto il diritto elettivo in un piccolo numero d’ elettori. CAPO VII. DELLE DISCORDIE SORTE TRA I NOBILI IN SEGUITO DELLA LEGGE DEL 1547. Questa legge, allorquando venne deliberata, fu egualmente accettata e lodata dai cittadini iscritti o no nel Libro GIORNALE LIGUSTICO 141 della civiltà ; e soltanto pochi perturbatori la biasimarono. In vero con essa i nobili vecchi (consolari) acquistarono una grande superiorità nel governo della Repubblica, giacché possedendo per abusiva consuetudine metà delle Magistrature, era loro agevole, mercè Γ autorità e le ricchezze, il fare eleggere nell’ altra metà appartenente ai nobili nuovi degli individui, che fossero loro amici 0 aderenti. La prevalenza dei nobili vecchi stabilita colla legge del 1547 venne ammessa dai nobili aggregati, sebbene a malincuore, perchè conobbero che senza la medesima era impossibile Γ impedire che Genova diventasse una provincia spagnuola. I nobili nuovi adunque, non facendo alcuna opposizione, si restrinsero in quel tempo a sfogare il malo umore che cova-vano nell’animo, bisbigliando nelle private conversazioni contro questa legge e contro il D’Oria, stimato promotore ed autore della medesima, ed insinuando nelle pubbliche loggie delle amare censure. Ma la moderazione dei nobili nuovi durò sin che visse Andrea D’Oria, ch’eglino sapevano stimato e venerato dall’universalità dei cittadini; dopo la di lui morte, sperarono di potere non solo sminuire l’autorità dei vecchi, ma annullarla e riacquistare l’assoluto predominio. Per raggiungere il loro intento e meglio colorire il loro disegno, si restrinsero a domandare che la legge del 1547, da essi chiamata per disprezzo la legge del garibetto, fosse revocata e si rimettessero in vigore interamente le leggi del 1528. Eglino consideravano che una volta ripristinata l’elezione a sorte dei magistrati, sarebbe loro agevole accrescere la propria autorità, sopprimere 1’ abusivo costume d’ accordare ai nobili vecchi la metà delle magistrature, nonché la consuetudine d’alternare l’elezione dei Dogi tra i nobili vecchi ed i nuovi. In fine stimavano che potrebbero, in ragione della loro maggioranza numerica, 142 GIORNALE LIGUSTICO insignorirsi del governo di Genova. I nobili vecchi al contrario, sospettando o conoscendo l’occulto pensiero degli emuli, e non volendo spogliarsi dell’ autorità eh’ esercitavano nella Repubblica, non solo ricusavano di revocare la legge, ma consideravano i fautori di questa revoca come sediziosi e colpevoli novatori. Dalle pretese dei due partiti nacque una profonda divisione; la quale prese nome dalle loggie nelle quali adunavansi i loro rappresentanti, e che erano pei nobili vecchi quella di San Luca e pei nobili nuovi (ovvero aggregati) quella di San Pietro. Questi ultimi unendosi ad alcuni ambiziosi cittadini non ascritti nel libro della nobiltà, s’arrogarono l’ufficio di capi-popolo, e si reputarono abbastanza potenti da poter non solo ricusare le proposte di transazione offerte dalla loggia di San Luca, ma eziandio da obbligare i nobili vecchi ad uscire dalla città. In questo divisamento rimasero però delusi, giacché i Capi del popolo, specie Bartolomeo Coronata, volevano farsi sgabello dei nobili nuovi per rendersi signori di Genova. Così nell’anno 1575 il dominio della Repubblica era contrastato da tre fazioni: i nobili vecchi, i nobili nuovi, ed i Capi dei cittadini non ascritti. Non è nostro compito narrare i maneggi e le lotte delle suddette fazioni; le quali d’altronde son note abbastanza per le narrazioni di scrittori contemporanei. Ci basta conchiudere, che lo immediato effetto delle suddette discordie fu di ridurre i genovesi nella deplorevole condizione di riguardare come un grande benefizio l’interposizione del Papa Gregorio XIII, dell Imperatore Massimiliano II e del Re di Spagna Filippo II; i quali, avuto ampio compromesso dai Nobili nuovi e vecchi, riordinarono il governo della Repubblica mediante le leggi promulgate l’anno 1576 nella città di Casale. GIORNALE LIGUSTICO I43 CAPO Vili. # CAGIONI CHE INDUSSERO IL PAPA, L’iMPERATORE ED IL RE DI SPAGNA A POR FINE ALEE DISCORDIE. Prima di riferire ed esaminare le leggi del 1576, conviene conoscere le cause che mossero si potenti monarchi ad aggiustare equamente le faccende di Genova. La decisione non fu presa da essi per amore o simpatia verso la Repubblica, nè per assicurare il benessere dei genovesi. Il Papa e 1’ Imperatore procedettero piuttosto nell’ intento di impedire al Re Filippo di porre ad effetto Γ antico suo pensiero di rendersi padrone di tutta la Liguria e ridurla provincia spagnuola, come la Lombardia ed il vice-reame di Napoli. Che un tale timore non fosse un vano sospetto, ce lo chiarisce Andrea Spinola detto il filosofo , negli inediti Ricordi ed antitodi sopra gli affari e mali genovesi. Nel capo I intitolato: Arti del Re di Spagna contro la Repubblica, egli scrive: « L’anno 1575 Filippo II col mezzo d’ Idiaquez suo ambasciatore accese le nostre discordie, procurando d’irritare una parte contro l’altra; diede capo spagnuolo a quei tedeschi eh’ erano assoldati da quei di fuori, si comandò a Don Giovanni d’ Austria che offerisse di rimettere nella patria loro coloro che n’ erano usciti. Furono offerte condizioni a Gio. Andrea D’Oria, acciocché abbandonasse la patria ; furono fatti uffici dal Duca D’ Alba con gli ambasciatori dell’ una parte e dell’ altra ; fu fatto il decreto che si andasse con la corda al collo. Ebbe a male il Re, e fuor di misura, che il Papa mostrasse forte desiderio della nostra libertà, e che col suo mezzo principalmente si componessero le discordie ». Da ciò si ricava che il Monarca spagnuolo volea trarre profitto delle discordie e guerre civili, e non lasciò intentato alcun mezzo per indurre i Nobili della Loggia di San Luca, 144 GIORNALE LIGUSTICO in quel tempo espulsi da Genova, d’accettare il suo aiuto per rimetterli in città col patto eh’ eglino convenissero la dedizione di Genova alla Spagna. Se ne inferisce egualmente che i Nobili veçchi rifiutarono le proposte; come pure che il Re Filippo, dopo aver tentato invano di trattare coi Nobili nuovi, accettò Γ invito fattogli dal Papa e dall’ Imperatore d’imporre ai genovesi un riordinamento di governo dettato d’ accordo coi propri delegati. Questa proposta dal Re di Spagna venne accettata a malincuore; e vien notato da vari scrittori eh’ egli, anche dopo la promulgazione delle leggi del 1576 e la pacificazione avvenuta per le medesime, non dismise il progetto d’ assicurarsi il possesso di Genova. Su questo proposito Andrea Spinola scrive : « Finito il pericolo del 1575, se ne corse un altro non minore per le insidie dello stesso Idiaquez, il quale con promessa di gagliardi premi corruppe alcuni nostri, capo dei quali era Bartolomeo Coronata, unito anche al Podestà; il quale, scoperta la congiura fatta contro la patria, fu fatto prigione. Onde svanita la burrasca, si fecero imbarcare come di passaggio per la Spagna 5000 fanti spagnuoli venuti di Fiandra, i quali si erano trattenuti in questi contorni a posta fatta per trovarsi all’esecuzione delle cose trattate ». Il timore che si accrescesse la potenza spagnuola 'in Italia spiega un fatto straordinario nella Storia: quello, cioè, d’un Papa benevolo ad una piccola e debole Repubblica. Il costante pensiero del Re Filippo II d’unire Genova ai suoi dominii, spiega altresì un altro fatto che passò inosservato ai recenti storici genovesi. Questo si è il silenzio serbato tanto dai fautori della rivocazione della legge del 1547, quanto di quelli che volevano mantenerla; giacché sì gli uni come gli altri non ignoravano che la legge del garibetto era un effetto della pressione esercitata sul governo della Repubblica dai Ministri spagnuoli coll’ approvazione di Carlo V. Difatti è noto, che nelle GIORNALE LIGUSTICO discordie civili dell’anno 1575 i Nobili del Portico di San Pietro egualmente che quelli del Portico di San Luca richiesero 1’ approvazione e la protezione del Re di Spagna Filippo II. Ai primi non giovava dire che la legge da essi rivocata fosse stata deliberata dal governo della Repubblica dietro incitamento ed accordo con Carlo V. Ai secondi sembrava imprudenza rammentare al Re come il benefizio della legge del 1547 lo dovessero all’imperatore; imperocché tenevano che questo ricordo potesse riuscirgli disaggradevole, ridestando nella sua memoria la coraggiosa opposizione fattagli da Andrea D’Oria nell’anno 1548 durante il di lui soggiorno in Genova. Il silenzio serbato dai Nobili consolari su questo argomento venne sfruttato con abilità da qye’ fautori dei Nobili nuovi, i quali narrarono le guerre civili accadute in seguito della legge del garibetto. CAPO IX. LE LEGGI DELL’ANNO 1576. Le leggi compilate in Casale dai Ministri pontificii, spa-gnuoli e cesarei non possono essere approvate da coloro che vorrebbero un’ ottima Republica, nè dai partitanti della democrazia. E ciò è agevole intendere, perchè nelle dette leggi gli stranieri legislatori conservarono intatto il governo aristocratico stabilito nell’anno 1528, e proseguirono ad escludere i cittadini non scritti nel Libro della nobiltà dall’ esercizio dei diritti politici. Nondimeno, strana cosa a dirsi, gli autori delle leggi medesime, eh’erano Ministri delegati da Monarchi assoluti, e per conseguenza avversi ad ogni libera istituzione, statuirono un reggimento anzi che no temperato. Essi non chiusero il Libro della nobiltà, come fecesi in Venezia nel-1’ anno 1297 sotto il dogato di Pietro Gradenigo, ne giù- Giorn. Ligustico , Anno VI. io 146 GIORNALE LIGUSTICO dicarono che fosse passato il tempo delle repubbliche, come nell’ anno 1814 sentenziarono nel Congresso di Vienna Mettermeli, Hardenberg, Taillerand, Nesselrode, Castlereagh. I compromissarii, riformando 1’ ordinamento politico e civile, cercarono migliorare la condizione dei cittadini 11011 scritti, concedendo loro la facoltà di poter concorrere cogli ascritti ad essere eletti a varii determinati officii minori; regolarono meglio il modo di procedere nella creazione dei dieci Nobili da farsi ogni anno, togliendo Γ esclusiva facoltà di nominarli agli otto Governatori e trasferendola ai due Collegi unitamente al minor Consiglio. Ora conviene riassumere in che consistesse la riforma decretata in Casale. Per la medesima 11011 si mutarono radicalmente le libere istituzioni fondate coll’ assentimento del D’ Oria dai dodici Riformatori, ma fu mantenuto il governo aristocratico ereditario nei patrizi dimoranti nella città metro-poli della Repubblica. Si conservarono i Magistrati ed i Consigli-stabiliti nell’anno 1528, benché di taluni si variasse la composizione, si ampliassero o diminuissero le attribuzioni, specie dei due Collegi, i quali, mercè la legge del r547, aveano facoltà soverchiamente estese. Si stabilì che i cittadini nobili avessero un eguale diritto ,a partecipare nel governo, e quindi si sopprimessero i ventotto alberghi e le famiglie aggregate riprendessero 1’ arma, Γ insegna ed il nome della propria famiglia. Si definirono più esattamente le arti meccaniche , che vietavano ai loro esercenti d’ essere iscritti nel Libro della civiltà. Si institui l’urna del Seminario, nella quale erano poste centoventi cedole conte nenti il nome d’ altrettanti patrizi eletti a voti dal maggior Consiglio sopra una lista di ducentoquaranta proposti con elezione a voti dal minor Consiglio e dai due Collegi. Si determinarono meno confusamente le facoltà dei numerosi Magistrati, che con giurisdizione mista di potere amministrativo e di contenzioso GIORNALE LIGUSTICO *47 sopra speciali oggetti temperavano e coadiuvavano i due Collegi nell’ amministrazione della Repubblica. Dalla enumerazione sopra fatta delle correzioni e variazioni introdotte nella costituzione di Genova colle leggi del 1576, si rende manifesto che i genovesi hanno dovuto accogliere queste leggi con benevolenza e gratitudine; imperocché ad esse furono debitori del ristabilimento dell’ ordine interno e dell’ instituzione d’ un reggimento temperato. In quei tempi il governo aristocratico ereditario stabilito in Genova dai compromissari di Casale venne anzi approvato, e stimato la forma che meglio si adattasse ai bisogni dei cittadini genovesi. Del qual sentimento abbiamo una irrefragabile prova nella Relazione scritta da Matteo Senarega. Egli, che nelle discordie del 1575 fu tra i capi dei Nobili nuovi, non dubitò affermare che Γ ordinamento politico stabilito colle leggi del 1576 non era un governo d’un solo, nè di pochi, nè di molti, ma un reggimento d’ ottimati, quantunque assai difettoso, perchè i nobili ricchi, se non di diritto almeno di fatto avevano la preminenza nel governo. E che fosse’;’un reggimento temperato lo dimostra appieno anche Gian Raffaele della Torre, nella sua Relazione sulla congiura di Giulio Cesare Vacchero. Questo dotto magistrato accennando ai vari governi succedutisi in Genova, asserisce che 1’ ordinamento politico stabilito nel 1576 diminui l’autorità dei due Collegi presieduti dal Doge, ai quali nei tempi anteriori attribuivansi più ampie facoltà esecutive. CAPO X. INCOVENI ENTI DELLE LEGGI DEL 1576. Se le leggi promulgate in Casale meritano d’essere encomiate, è però d’ uopo avvertire che per esse furono tuttavia conser- I4S GIORNALE LIGUSTICO vati alcuni vizi già racchiusi nelle leggi del 1528; anzi ai medesimi se ne aggiunsero vari altri. Fra questi vizi noi ricorderemo soltanto quelli di maggiore importanza. i.° L’ aver mantenuto Γ esclusivo diritto di reggere la Repubblica e di partecipare alle diverse Magistrature unicamente agli inscritti nel Libro deila nobiltà. Questo vizio, che costituisce la base fondamentale dell’ aristo- crazia ereditaria, venne esacerbato dalla prevalenza arrogatasi dai nobili ricchi, i quali, tenendo conto del numero degli inscritti, erano pochi. Esso però non è inerente all* aristocrazia, cioè al governo degli ottimati, ma in Genova, come in tutti gli altri paesi dell’ Europa, proveniva dalle leggi di successione, che permettevano senza nessuna restrizione il diritto di primogenitura, i fedecom-messi e le sostituzioni. Per lo che la nobiltà genovese si suddivideva in due classi: Γ una ricca e potente; l’altra povera e quindi dipendente dai ricchi, ovvero malcontenta e tendente a prender parte nelle cospirazioni ordite da ambiziosi cittadini. 2.0 Il numero dei nobili imborsati nell’ urna del Seminario, non atto ad appagare tutti quelli che avrebbero desiderato d’ esservi compresi ; e nello stesso tempo troppo grande per dare una efficace guarentigia che non sortirebbero dall’ urna i nomi di Governatori e di Procuratori, incapaci a reggere cosi eminenti cariche. 3.0 L’ estrazione a sorte, per la quale precludevasi ad uomini d’ ingegno di far parte d’un Magistrato allorquando n’ era membro un altro patrizio appartenente al medesimo casato. 4.0 I provvedimenti, coi quali veniva modificata la prescrizione che si dovessero ascrivere in ogni anno dieci cittadini nel Libro della nobiltà, non mancavano anch’ essi d’ essere fonte di profondi mali umori. I sopra citati difetti son assai notevoli, ma non debbono maravigliarci quando si rifletta che le leggi del 1576 sono GIORNALE LIGUSTICO I49 una produzione imposta dai Ministri del Papa Gregorio e di due Monarchi assoluti. Si può credere che se il riordinamento politico fosse stato deliberato dietro studi e discussioni d’ una Assemblea composta da colti patrizi genovesi, i quali seguendo Γ esempio d’ Andrea D’ Oria avessero avuto a cuore di conservare e rassodare la libertà e Γ indipendenza della Republica, le lamentate imperfezioni sarebbero state evitate. Disgraziatamente le leggi del 1576 in seguito non si poterono emendare, a cagione della congiura tramata da Giulio Cesare Vacchero unitamente al Conte Gio. Antonio Ansaldo, agente prezzolato del Duca di Savoia Carlo Emanuele. E qui devesi osservare, come da questa repressa congiura sieno risultati i medesimi effetti reazionarii sorti dopo quella del Fieschi. Imperciocché la parte conservatrice dell’ aristocrazia si giovò dell’ attentato commesso dal Vacchero, per far decretare il Magistrato degli Inquisitori di Stato ad imitazione del Consiglio dei Dieci esistente nella Repubblica di Venezia. Statuendo questo Magistrato coll’ incarico d’ invigilare alla sicurezza ed alla salute della Repubblica, i legislatori genovesi stimarono guarentirsi dai cittadini faziosi, dando autorità e forza al governo, acciocché potesse mantenere 1’ ordine pubblico e reprimere la licenza popolare. Noi siamo ben lungi dall’ approvare e dal lodare 1’ istituzione d’ un Magistrato arbitrario così censurabile; tuttavia portiamo opinione che in quel tempo eccezionale potesse essere un provvedimento utile ed idoneo a conseguire il propostosi intento senza ricorrere a stabilire una Dittatura. In questo sentimento siamo tratti dall’ autorità di Gian Raffaele Della Torre, il quale cosi conchiude la Relazione della congiura del Vacchero: « E questo fine al suo principio proporzionato ebbe quella congiura, che da debolezza di governo nata nella Repubblica genovese, non altrimenti che per de- 150 GIORNALE LIGUSTICO bolezza di calor vitale nascono nei corpi umani le fistole, fuorché del ferro e del fuoco rifiutava ogni cura : la quale benché felicemente riuscita, poco avrebbe a più lunga durata della Repubblica provveduto, perseverando le stesse cagioni, se con istituzione d’ un nuovo Magistrato in essa d’Inquisitori di Stato, composto di sei cittadini ed un Senatore, con potestà assoluta di resecar dalle radici Γ origine di tanti mali, non si fosse con proporzionato fondamento reso il governo più vigoroso e più possente a consumare g!i umori maligni che nei corpi grandi per corruttela della natura alla giornata van pullulando ». CAPO XI. GOVERNO DI GENOVA DAL 1628 AL 1797* Abbiamo di sopra indicato come per la congiura del Vacchero non si correggessero le leggi del 1576, ed invece s’ instituisse il Magistrato degli Inquisitori di Stato, la cui mercè il governo acquistò maggior forza ed autorità, ma non ebbe un migliore ordinamento politico. Non v’ ha dubbio che soltanto un governo forte può far eseguire le leggi sieno buone 0 cattive, e mantenere l’ordine publico: è però altresì vero che una costituzione difettosa oltre a destare giusti lamenti ed acerbe censure, è un potente stimolo, se non alla maggioranza, almeno ad una numerosa e risoluta minoranza, a far sorgere delle insurrezioni tendenti a mutare la forma di reggimento. Ora sarebbe opportuno risolvere la seguente questione: Qual fu il motivo per cui dopo l’istituzione del Magistrato degli Inquisitori di Stato, coloro che conoscevano i difetti delle leggi del 1576 cessarono di chiederne la riforma, e si contentarono delle parziali leggi e dei temporanei decreti successivamente proposti dai due Collegi ed approvati dal GIORNALE LIGUSTICO 15 I minor Consiglio. La prudente condotta tenuta da costoro in parte si può attribuire alla rigorosa polizia degli Inquisitori di Stato. Ciò non pertanto gli Inquisitori, sebbene invigilassero rigidamente ad impedire che la quiete della città fosse perturbata da cittadini faziosi, non avevano autorità sufficiente da poter imporre il convincimento che nelle leggi vigenti nulla vi fosse da correggere. Egli è adunque da supporre che il silenzio, non diremo Γ adesione, di quelli che non erano soddisfatti dell’ ordinamento politico , civile ed economico, non fosse causato solamente dal timore incusso dagli Inquisitori di Stato, ma da altre ragioni. In tale avviso ci raffermiamo considerando che Andrea Spinola nel capitolo concernente le piaghe della Repubblica enunciò trentasei difetti, compresa Γ a-scrizione, quasi tutti assai rilevanti. Noi non li trascriveremo e ci limiteremo a riferire quelli di maggiore importanza : « Cittadini e ricchi, lontani dal grado privato, che per lo più hanno discordia Γ un coll’ altro. Ordine non ascritto, nimicissimo della nobiltà tutta. Plebe famelica, senza avviamento di professioni industriali. Pochissima coltura e disciplina di gran parte dei nobili. La ricchezza mal ripartita tra la nobiltà; pochi hanno soverchio, li più sono in bisogno delle cose necessarie. Religioni, ossia ordini religiosi nuovi, i quali assorbono continuamente i danari (delle donne) con 1’ aver fatto abolire quel decreto antico, vanno comprando stabili, i quali per 1’ avvenire, come beni ecclesiastici non saranno soggetti ai pesi, onde gli introiti pubblici mancheranno. Il maneggio delle cose importanti e di Stato si va riducendo in mano del Senato solo, o al più dei due Collegi , contro un’ ottima e santa legge che comanda espressa-mente che le materie gravi sieno trattate insieme al minor Consiglio. La povertà del pubblico erario è tale che non si può supplire alle spese, che sono necessarie per la conservazione dello Stato, aggiunto che non vi è somma di riserva 152 GIORNALE LIGUSTICO per li casi inopinati e subitanei. Li religiosi ed i luoghi sacri sono il maggior impedimento che abbia la giustizia criminale, ed anzi sono il rifugio dei tristi e dei delinquenti ». I numerosi difetti enumerati da Andrea Spinola non sono esagerazioni d’ un oppositore politico, ma fatti incontestati e a tutti noti. Noi li reputiamo di tale gravità da giustificare coloro che richiedevano fossero radicalmente riordinati gli statuti civili, economici e penali; e che i reggitori della Repubblica decretassero una miglior forma di governo. Ora è cosa diffìcile a comprendersi, come la maggioranza della popolazione in quel tempo non chiedesse ai Rettori dello Stato di nulla innovare nei principii fondamentali della costituzione aristocratico-ereditaria. Questo accordo dei cittadini scritti e non scritti nel Libro delia nobiltà, gli uni nel non deliberare una riforma delle leggi dettate dai compromissari di Monarchi assoluti, e gli altri a non chiedere un migliore ordina mento politico, dimostrano eh’ essi aveano Γ intima convinzione che una riforma radicale della costituzione non avrebbe arrecato alcun vantaggio, e per soprappiù sarebbe stata dannosa all’ ordine pubblico, f cittadini non scritti consentivano in questa opinione, perchè ritenevano che i Nobili, sebbene fossero estremamente gelosi di conservare le loro prerogative e la propria autorità, esercitavano un governo mite, il quale assicurava loro il mantenimento del benessere materiale da essi goduto dopo l’anno 1528. I Nobili erano egualmente ritrosi a riformare le leggi del 1576, perchè temevano scemare d’ autorità e di potenza. Gli uomini poi, che si trovavano alla direzione del governo erano contrarii ad un ordinamento che diminuisse la loro autorità; ed alle ragioni addotte dai Nobili che l’avversavano, aggiungevano la considerazione che volendo riformare l’ordinamento della Republica non potevasi evitare Γ intervento del Papa, il quale avrebbe voluto far predominare i principii teocra- GIORNALE LIGUSTICO r53 tici, e quello preteso da potenti Monarchi assoluti, dai quali altro diritto non viene ammesso se non la propria volontà. Eglino quindi dimostravano che un riordinamento nel governo della Repubblica avrebbe potuto risultare in detrimento della libertà e dell’ indipendenza di Genova. Tali erano le cause, per cui non si corressero i difetti delle leggi instituite nell’anno 1576, ed anzi, come si scorge da quanto scrisse Andrea Spinola, presero un maggiore sviluppo il quale durò fino all’ anno 1797, benché moderato da temporanee leggi. CAPO XII. OSSERVAZIONI SUL REGGIMENTO ARISTOCRATICO STABILITO NELLA REPUBBLICA DI GENOVA. Non premetteremo a queste osservazioni verun commento sopra le diverse specie d’aristocrazie descritte dai pubblicisti, e ci restringeremo a dire che il governo aristocratico stabilito in Genova nell’anno 1528 e durato, malgrado varii mutamenti e talune riforme, fino all’ anno 1797, appartiene a quella sorta di repubbliche, nelle quali 1’ esercizio della sovranità e dei diritti politici è proprietà esclusiva dei patrizi più o meno numerosi dimoranti nella metropoli. Questa specie d’ aristocrazia non è sicuramente la migliore, e noi concorriamo nell’ opinione espressa dal celebre Spinoza, il quale stimava doversi anteporle una aristocrazia come quella della Repubblica Olandese, nella quale tutte le città governate dai propri patrizi hanno, per mezzo dei loro elettivi rappresentanti nel-1’ Assemblea Sovrana, un eguale diritto di partecipare all’amministrazione politica, civile ed economica, in maniera da costituire un’ unica Repubblica e non una Confederazione di Stati. Ma nell’ anno 1528 Andrea D’ Oria e i dodici Riforma- I54 GIORNALE LIGUSTICO tori non poterono far meglio che stabilire un governo aristocratico, prendendo norma da quello di Venezia così pregiato dai pubblicisti e dagli uomini di Stato del secolo XVI. Bensì ebbero cura di modificarlo in tutto ciò che stimarono più conveniente ad agguagliare le diverse consuetudini dei due popoli, giacché non potevasi pretendere dai genovesi, fina quel tempo vissuti in continue discordie, Γ obbedienza ed il riverente affetto che avevano i veneziani al loro governo. Ora se prendiamo a considerare il governo aristocratico ereditario stabilito nella Repubblica di Genova, troviamo che questa specie d’aristocrazia, di per sé assai difettosa, era ridotta in modo che se non potevasi citare come un tipo di buon reggimento politico, nessuno però poteva negarle il merito di costituire un dei governi meno viziosi che in quegli infelici tempi fosse consentito di stabilire. Di fatti l’ordinamento politico di Genova durante il periodo dei Dogi biennali fu costituito in modo da potersi comparare, in parte, al corpo piramidato prescritto da Donato Giannotti per ordinare una perfetta Repubblica. Il maggior Consiglio formava la base, il Doge 1’ apice della piramide, tra questi due punti estremi stavano il minor Consiglio e i due Collegi. I diversi membri formanti la piramide aveano delle atlribuzioni tra loro mediocremente coordinate, quantunque le facoltà legislative, esecutive, amministrative e giudiziarie fossero confuse e mal diffinite. Inoltre l’esatta e non arbitraria esecuzione delle leggi veniva guarentita dall’obbligo imposto a coloro ch’esci-vano di carica da qualsiasi Magistratura d’ andar sottoposti al sindacato. Il magistrato censorio, la ristretta autorità del Doge, il breve tempo consentito alla durata in carica nelle diverse magistrature, la rielezione ad uno stesso ufficio non permessa che dopo un tempo determinato, e la divisione dei poteri, sebbene incompiuta e male coordinata, furono le benefiche cause, per le quali il governo accentrato nel ceto patrizio GIORNALE LIGUSTICO ISS dimorante in Genova non fu sottoposto ad una pedantesca e tirannica amministrazione, come avviene in tutti gli Stati dove il potere risiede unicamente nel governo centrale, ed è disimpegnato da pubblici impiegati pressoché inamovibili ed irresponsabili mercè articoli eguali al 75.0 della Costituzione francese dell’ anno VIII. Dalle suddette osservazioni si può dedurre che il governo aristocratico ereditario della Republica di Genova compensava i numerosi suoi difetti con delle istituzioni piuttosto buone. Mediante queste ai Nobili potenti era vietato decretar leggi a capriccio, e ad arbitrio derogarle ed infrangerle, come nelle monarchie assolute è lecito di fare ai Re ed agli Imperatori, ovvero ai primi Ministri in nome del Sovrano da essi rappresentato. Laonde i genovesi, particolarmente se paragona-vansi colle vicine regioni italiane, non aveano da lagnarsi perla loro condizione, perchè (tranne Venezia) dovevano riconoscere d’ essere meglio governati. CAPO XIII. DELLE RELAZIONI ESTERIORI DELLA REPUBBLICA NEL PERIODO DEI DOGI BIENNALI. I genovesi, dopo recuperata la libertà, conobbero subito che la loro Repubblica in confronto delle grandi e potenti Monarchie in quel tempo predominanti, non aveva nessuna importanza politica a cagione del suo ristrettissimo dominio, e quindi non poteva aver voce ed autorità nei consigli dei Monarchi che regolavano i destini dell’ Europa. Le relazioni internazionali della Repubblica doveano subire la sorte comune a quelle di tutti i piccoli Stati, non atti a far valere da per sè stessi i propri diritti, cioè la necessità di porsi sotto la protezione d’ un potente alleato. I reggitori di Genova non volendo che la loro patria ricadesse nella po- i56 GIORNALE LIGUSTICO testa di Francesco I, si vincolarono in istretta alleanza con Carlo V. Il patrocinio di sì potente Monarca giovò loro moltissimo, perchè impedì al Re di Francia di mover guerra alla debole e disarmata Republica, e fu costretto a contentarsi di molestarla, vietandole ogni sorta di traffici coi suoi sudditi. A questo proposito conosciamo dai carteggi degli Ambasciatori genovesi presso Γ Imperatore , come Carlo V repugnasse e fosse ritenuto dall’ accordare una efficace difesa alla Repubblica. Egli stimava soddisfare al suo debito, impedendo al Re Francesco I di ricuperare Genova; ma non si curava di concorrere ad assicurare ai cittadini genovesi il loro benessere, adoperandosi di por fine alle continue molestie colle quali il governo francese sfogava il proprio sdegno contro la restaurata Repubblica (i). Sappiamo parimente che 1’ Imperatore , considerando Genova come un’ appendice del suo vasto Impero, avrebbe desiderato annullare l’indipendenza della Repubblica; che a questo fine non cessò di suggerire diretta-mente o indirettamente ai reggitori genovesi di deliberare una volontaria dedizione di Genova alla Spagna, promettendo eh’ egli avrebbe approvato le ampie franchigie municipali che si sarebbero concordate. In tal guisa quel prepotente Imperatore poneva i genovesi nella dura condizione di consentire a dichiarar Genova provincia, a fine di non ricadere nell’a-borrita servitù di Francia. Gli annalisti e storici genovesi tacquero od ignorarono la fermezza e sagacia adoperate dai Nobili reggitori dell’ aristocratica Repubblica, nel ricusare d’ aderire alle imperiali proposte. Carlo V e Filippo li vagheggiarono sempre il pensiero d’unire Genova alla Monarchia Spagnuola; e se il primo (i) Una Nota su questi carteggi fu letta da noi nella tornata del 25 Maggio 1877 alla Società Ligure di Storia Patria. — Un sunto della medesima si legge nel fascicolo di Dicembre 1877 del Giornale Ligustico di Archeologia, Storia e belle arti. GIORNALE LIGUSTICO Σ57 nell’anno 1548 non eseguì la deliberata unione, ciò avvenne per la ferma opposizione d’Andrea D’Oria, il quale godeva tutta la stima e la fiducia di Carlo V (1). Nè fu più fortunato Filippo II, per la resistenza fattagli dai Nobili consolari nel 1575; e manco lo furono i suoi successori, i quali, benché non conservassero che l’ombra dell’ antica potenza spagnuola, pure non desistettero per lungo tempo dal nudrire pensieri contrari alla libertà ed alla indipendenza di Genova. Della qual cosa gli scrittori genovesi, e principalmente Andrea Spinola, fanno ampia testimonianza. Allorquando la decadenza della Monarchia Spagnuola tolse ai genovesi la disgustosa ed esigente protezione di quei Re, la libertà e l’indipendenza eh’ essi godevano venne insidiata ed attaccata dai Monarchi di Francia, dagli Imperatori d’ Austria e dai Duchi di Savoia. I primi non dimenticando che la Francia avea nei tempi antichi avuto il dominio di Genova, vantavano sulla la medesima un possesso che niuna nazione può concedere ad un’ altra, meno che non vi sia costretta dal diritto di conquista. I secondi facevano valere su Genova il diritto d’ alto dominio, il quale pretendevano competesse loro nella qualità di rappresentanti del Sacro Romano Impero, ed in seguito ai patti convenuti nel fatale trattato di Costanza. Gli ultimi tendevano ad insignorirsi della Repubblica , o di parte del suo territorio, usando qualunque mezzo, come vien dimostrato dalla partecipazione che presero nelle congiure del Vacchero e del Della Torre, dalle (1) Non è da maravigliare che Carlo V deferisse all’avviso di Andrea D’Oria più che a quello dei suoi Ministri Figueroa, Duca d’Alba e Ferrante Gonzaga ; perchè sappiamo dal Navagero, ambasciatore veneto, (relazione al Senato 1546) in quale alta considerazione il D’ Oria fosse tenuto dall’ Imperatore. — « Del Principe D’ Oria dirò solamente, che non è uomo di nazione alcuna a cui l’Imperatore abbia più rispetto e più osservanza che a lui ». i58 GIORNALE LIGUSTICO guerre ingiuste mosse contro Genova, nonché dalle continue dispute suscitate contro di essa per determinare i confini di alcuni distretti, e finalmente dalle pretese accampate in qualità di vicari imperiali sopra certe terre delle quali volevano arrogarsi il dominio considerandole feudi dell’ Impero. Una volta alleati alla Spagna, i reggitori genovesi si mantennero costanti nella sua alleanza, anche quando videro il continuo e progressivo decadimento di quella già sì grande e potente Monarchia. Perciò la loro dipendenza si prolungò fin quasi al Trattato d’ Utrecht nell’ anno 1713 ; e fu soltanto dopo questo tempò, che i genovesi dovettero sostituire al patrocinio spagnuolo quello dei Re di Francia ; giacché al governo francese conveniva impedire che gli Imperatori e i Duchi di Savoia crescessero di autorità e di potenza, insignorendosi di Genova o d’una parte del territorio della Repubblica. Certo fu un triste destino quello della Repubblica, d’esser costretta a collegarsi con degli Stati in piena decadenza e quindi a soffrire gli effetti procedenti dalla medesima. Difatti la Spagna sul finire del regno di Filippo II cominciò il suo abbassamento di potenza e pervenne all’ infimo grado sotto il deplorabile governo di Carlo II; e dopo la guerra di successione la potenza del vecchio Re Luigi XIV andò scemando, e vieppiù mancò nelle deboli mani de’ suoi successori Luigi XV e Luigi XVI. Alcuni scrittori imputarono a colpa di Andrea D’ Oria l’aver ricostituita la Repubblica sottomettendola alla dipendenza dell’ Imperatore Carlo V, e biasimarono acerbamente i Dogi biennali d’ avere perseverato nell’ amicizia di Spagna, adducendo che i Ministri spagnuoli si giovarono della prevalenza che aveano in Genova per ingerirsi nell’amministrazione della Repubblica, e per agevolare ai Re di Spagna 1’ esercizio d’un dispotico dominio sulla Penisola italiana. Ma GIORNALE LIGUSTICO r59 queste censure sono errate; perchè, come sopra dicemmo, i genovesi non aveano altro mezzo per conservare la propria libertà, se non di ricorrere al patrocinio di Carlo V e dei Re di Spagna suoi successori. Ciò posto cade il rimprovero fatto da un recente scrittore nei seguenti termini: « Dopo l’anno 1528 cessò la vita robusta e potente dell’ antico Comune di Genova, ed il governo dei Dogi biennali si strascinò con istento menando una vita inoperosa ed ingloriosa fin all’anno 1797 » (1). Nondimeno a questo giudizio ab irato fecero adesione vari dotti moderni, nemici del predominio spagnuolo in Italia, ovvero fautori di un reggimento democratico. In opposizione a questa avventata asserzione, affermiamo che Genova sotto i Dogi biennali può gloriarsi di vari fatti, i quali dimostrano che il governo dei patrizi genovesi fu operoso ed accorto, e che, senza essere audace, in molte circostanze non mancò d’energia e di coraggio. Tali sonò: i.° la già menzionata accortezza diplomatica, colla quale, senza scontentare Carlo V e Filippo II nonché i Monarchi cattolici loro successori, i governanti genovesi ricusarono costantemente di acconsentire che Genova divenisse una provincia spagnuola; 2.0 le guerre sostenute con prudenza, e con non mediocre ingegno e valore, contro i Duchi di Savoia, sebbene non di rado avessero da combattere truppe più numerose e meglio ordinate delle genovesi, come avvenne nell'’anno 1625 quando la Repubblica fu inopinatamente assalita dal Conte di Lesdighiera generale di Francia con 14000 fanti e 1500 cavalli, e dal Duca di Savoia con 14000 fanti e 2500 cavalli; 3.0 la coraggiosa ed eroica resistenza opposta nel 1684 al Re di Francia Luigi XIV, avendo essi ceduto soltanto quando si videro abbandonati e traditi nella tregua (1) Canale, Cenni delia Storia di Genova, inseriti nel volume II della Descrizione di Genova pubblicata nell’ anno 1846 e distribuita nel Congresso Scientifico. ι6ο GIORNALE LIGUSTICO segnata a Ratisbona dalla Spagna, dall’ Impero e dalla Cort e di Roma ; 4.0 il contegno nobile e riservato tenuto dal Senato genovese nelle controversie colla Corte di Roma, nelle questioni sorte a cagione delle pretese di Clemente XIII circa la missione del visitatore apostolico nell’isola di Corsica; 5.0 la prudente e saggia condotta tenuta dopo che nell’ anno 1746 in seguito di sommossa popolare furono espulse le truppe tedesche da Genova , mercè cui col sussidio di poche truppe spagnuole e francesi potè conservarsi la libertà e l’indipendenza contro il forte esercito austriaco comandato dal Maresciallo Schullembourg, il quale aveva ordine espresso dal-l’Imperatrice Maria Teresa di punire i genovesi e ridurre la Repubblica sotto l’assoluto dominio imperiale. A dimostrare che la Repubblica di Genova retta dai Dogi biennali non si mostrò sempre ossequiosa agli ordini dei Monarchi in quel tempo più potenti, menzioneremo due fatti poco avvertiti dai moderni storici. In primo luogo la deliberazione presa dai genovesi nell anno 1637, di proclamare con solenne atto pubblico Maria Vergine Signora e Regina di Genova, allo scopo di manifestare non solo i loro sentimenti religiosi, ma e precipuamente di por fine alle viete e ridicole pretensioni d’alto dominio feudale messe innanzi dagli Imperatori d’ Austria come rappresentanti i diritti del Sacro Romano Impero. Cotesta decisione che oggidì non verrebbe proposta in nessuna Assemblea politica, in quel tempo fu lodata; e colla medesima i reggitori genovesi ottennero 1’ effetto desiderato. Più tardi però ebbero a risentire la repressa ed occulta inimicizia della Corte di Vienna provocata dalla suddetta deliberazione. E ciò avvenne quando l’imperatrice Maria Teresa vendette al Duca di Savoia il Marchesato di Finale, dimenticando che questo Marchesato già nell’anno 1713 da suo padre l’imperatore Carlo VI era stato venduto alla Repubblica. La provarono eziandio coll’ a- GIORNALE LIGUSTICO 161 troce guerra che l’imperatrice fece ai genovesi negli anni 1746 e r747> nonché con gli aperti e segreti sussidi forniti dalla Corte di Vienna agli insorti còrsi capitanati da Pasquale De Paoli. La sperimentarono infine coll’ appoggio fornito agli insorti sanremaschi dal Consiglio aulico, durante il regno della stessa Maria Teresa e quello di Giuseppe II. In secondo luogo la risoluzione presa dal Governo della Repubblica d’osservare una neutralità disarmata, nella guerra accesasi tra la Francia retta da una disordinata democrazia, e gli assoluti Monarchi d’Europa (1). La predetta deliberazione , che risultava ad una tacita alleanza colla Francia, venne decretata dall’ aristocrazia genovese, che certamente non aveva alcuna simpatia coiprincipii demagogici prevalenti in quel tempo presso la nazione francese; ed è maggiormente commendevole, perchè dimostra come essa antepose al proprio interesse ed alla propria autorità la gloria di mantenere l’integrità della Repubblica, sapendo che l’imperatore d’Austria ed il Re di Sardegna agognavano ucciderla e dividersene le spoglie. In vero il Direttorio francese, a cui tanto- giovò la condotta del Governo di Genova, corrispose con somma ingratitudine ; ma d’ un cosi impreveduto caso devonsi incolpare due cittadini còrsi amici ed ammiratori di Pasquale De Paoli, cioè Cristoforo Saliceti ed il generale Napoleone Buonaparte. (1) Vittorio Alfieri nell’epigramma XLIX enumera tutti i coalizzati contro la Francia, che intitola Catalogo dei piedi militanti nella guerra dei deficit regnanti; conchiude: « Coalizzati ai Galli, e con gran frutto » Tutti i pessimi fur del mondo tutto ». Aggiunge poscia in nota: « Tutti i pessimi ecc., meno i RR. PP. Gesuiti ». Sembra strano che 1’ Alfieri ai Gesuiti non aggiungesse i Genovesi. Se li avesse aggiunti, si sarebbe mostrato coerente alla sua amicizia con Pasquale De Paoli, e alla preferenza di non mutare un re « in sessanta Parrucche d’idioti ». (Satira nona). Giorn. Ligustico Anno, VI. n 162 GIORNALE LIGUSTICO Rammentando alcuni avvenimenti e deliberazioni onorevoli al governo dei Dogi biennali , non pretendiamo negare che sovente la Repubblica aristocratica ereditaria abbia dovuto sottomettersi agli ordini degli assoluti Monarchi di Spagna , di Francia, di Germania. Ma questa malasorte non solo toccò alla Repubblica di Genova, sibbene a tutti gli altri Stati italiani indipendenti, dopo che la Penisola italica fu invasa dagli eserciti stranieri dietro Γ invito d’ alcuni Principi italiani e particolarmente dei Papi Alessandro VI, Giulio II e Clemente VII. CAPO XIV. CONDIZIONE POLITICA E CIVILE DEI CITTADINI DAL 1528 AL 1797. Nel lungo periodo di governo dei Dogi biennali, la condizione dei cittadini genovesi variò in conformità dei tempi più fortunati o più infelici. Ciò non ostante, siccome la condizione cui andavano assoggettati fu sempre dipendente dal medesimo sistema di governo, malgrado alcune mutazioni più o meno rilevanti, specie qilelle derivate dalle leggi del 1576 e dalle restrittive cagionate dalle congiure promosse dai Duchi di Savoia, crediamo non essere necessario esaminarla partitamente, ma poterne discorrere in genere. Ragionando sulle leggi dell’anno 1528 abbiamo notato che la sovrana autorità ed i diritti politici erano concentrati nel- 1’ unico ordine , che costituiva la Nobiltà ereditaria dimorante in Genova; e perciò i sudditi della Repubblica si dividevano in due classi. Alla prima appartenevano il mediocre numero di cittadini ascritti nel Libro della civiltà; nella seconda i non ascritti nel detto libro. I primi potrebbonsi equiparare ai moderni elettori politici, là dove il diritto elettorale è più o meno ristretto, e rappresentavano quella che gli odierni pubblicisti s’ accordano di chiamare nazione legale. Ma oltre alla divisione dei cittadini scritti e non scritti al libro GIORNALE LIGUSTICO della nobiltà, bisogna tener conto delle suddivisioni esistenti nelle due classi. Nell’ ordine dei nobili v’ erano i ricchi ed i poveri : quindi nella dominante aristocrazia esisteva una grande disuguaglianza, non di diritto ma di fatto; giacché i nobili ricchi, sebbene fossero in minor numero, avevano maggior potenza ed autorità. La qual cosa, quando non fosse stata corretta dalla moderazione, ovvero dalle rivalità dei nobili maggiorenti, avrebbe avuto per immediata conseguenza di ridurre il governo della Repubblica in potestà di pochi oligarchi. Su questa suddivisione di nobili ricchi e poveri, reputiamo opportuno osservare che il gravissimo diffetto della costituzione non appartiene esclusivamente alla forma di governo aristocratico, ma è un effetto delle leggi di successione, che stabiliscono il diritto di primogenitura e le sostituzioni testamentarie. Ora a tutti è noto che le leggi di successione, prima d’essere introdotte nelle Repubbliche italiane, formarono la legislazione successoria di tutte le Monarchie feudali d’Europa formate dalle invasioni dei popoli barbari che distrussero l’impero Romano. In quanto concerne i cittadini non scritti nel libro della nobiltà, devesi osservare eh’ essi si distinguevano in varie classi assai separate Γ una dall’ altra, cioè mercadanti, esercenti d’arti liberali, artigiani. Siffatte divisioni esistevano nella città di Genova, come nelle città convenzionate e nelle città e distretti sottomessi alla diretta amministrazione del governo centrale. Ma perchè sarebbe troppo arduo il dare una esatta descrizione dello stato sociale delle sopraddette classi, ci restringeremo ad affermare che il loro benessere non era inferiore a quello goduto dalle popolazioni italiche sottoposte al reggimento delle altre Repubbliche in quel tempo vigenti; e (tranne forse la Repubblica di Venezia) fu di molto superiore a quello delle provincie rette da Principi italiani, 164 GIORNALE LIGUSTICO e molto più a quello delle altre ridotte nella condizione di provincie aggregate alla Monarchia spagnuola. Di fotti i cittadini non scritti nel libro della nobiltà erano mercadanti ricchi, ovvero commercianti e industriali appartenenti a corporazioni d’ arti e mestieri, i quali sebbene non godessero dei diritti politici, avevano però statuti propri approvati dal Governo, per cui si prescrivevano e si guarentivano i diritti ed i doveri dei membri associati. Il sistema protezionista in quel tempo vigente in Genova, come in tutti gli Stati dell’ Europa, assicurava loro il monopolio commerciale e industriale; anzi questo sarebbe stato di gravissimo danno al rimanente della popolazione della Liguria, se non fosse stato corretto da un contrabbando fatto *su ampia scala, come lo permettevano i ristretti confini territoriali e le poche guardie doganali mantenute dal governo della Repubblica. Le città convenzionate erano soddisfatte di possedere un governo municipale autonomo, al quale, per quanto fosse difettoso portavano molta affezione; ed avrebbero ricusato di rinunciarvi, quand’anche fosse stato loro proposto d’esser rappresentate nei consigli del Governo centrale. Le città non convenzionate e le terre rurali erano governate cogli statuti civili e criminali stabiliti in Genova; ed a farli eseguire erano delegati speciali Magistrati, i quali al fine del breve tempo (due o tre anni) che stavano in carica, do-veano render conto della loro amministrazione ai Supremi Sindicatori. Gii statuti della Repubblica, qualora fossero stati ben eseguiti e bene applicati, sarebbero riusciti sufficienti al grado d’incivilimento cui erano pervenuti gli abitatori del Ge-novesato. Finalmente nelle campagne i contadini avevano se non una felice almeno una tollerabile esistenza , procurata dal possesso del dominio utile dei terreni tenuti nella qualità d’ enfiteusi latine, ovvero mercè il sistema agricolo delle mez- GIORNALE LIGUSTICO zadrie: coltura in vero poco conveniente ai proprietari delle terre, poiché i mezzaiuoli prendono sempre la loro parte, mentre talvolta si verifica il proverbio che « il mezzajuolo spartisce solamente la metà spettante al padrone ». Con tutto ciò, siamo ben lontani dall’ asserire che i cittadini genovesi possedessero una sicura, colta e soddisfacente convivenza. Mancavano loro vari elementi necessari per conseguirla , senza dei quali oggidì si reputa che un Governo non possa essere tollerabile. Questi sono: la libertà civile, per la quale ad ognuno è permesso di fare ciò che non è vietato dalle leggi, e per cui viene guarentita la sicurezza della persona e delle proprietà; la libertà individuale, che consiste nella facoltà di fare tutto ciò che non sia nocivo, come scrivere e parlare, pubblicare i propri scritti per mezzo della stampa, nonché aver piena libertà di coscienza nelle materie religiose; la libertà politica, per cui la nazione ha il diritto di sindacare i governanti e non rieleggerli quando non ne sia contenta; la facoltà attribuita ad ogni cittadino di poter essere eletto alle diverse funzioni dello Stato , purché dalla legge non ne sia dichiarato incapace od indegno. Nella Repubblica di Genova, sotto il reggimento dei Dogi biennali, le sopraddette quattro sorta di libertà mancavano interamente od erano quasi nulle. La libertà politica riducevasi ad un privilegio dell’ ordine dei Nobili; e questo era un vizio inerente alla forma di Repubblica aristocratica-ereditaria. à La libertà civile era incompiuta. Imperocché se i cittadini genovesi potevano esercitare i loro diritti individuali in conformità di quanto prescrivevano gli statuti civili e penali, è noto che mentre i primi erano buoni perchè dedotti dalla legislazione romana, i secondi (le leggi penali) erano assai difettosi ed in niuna parte vincevano quelli degli altri Stati d’ Europa. Di maniera che la maggior cosa di cui si lamen- 166 GIORNALE LIGUSTICO tavano i cittadini nell’ esercizio della libertà civile, era la poca o nessuna guarentigia della sicurezza personale. Ma un tal difetto non potevasi ascrivere che alla debolezza del governo ed alla impunità che dalla medesima derivava ai colpevoli. Concorrevano ad aumentare cotesto ditetto varie altre circostanze, cioè: la prossimità dei confini d’uno Stato, come quello dei Duchi di Savoia, nemico della Repubblica; e particolarmente il diritto d’asilo nelle chiese, nei conventi e nei monisteri, preteso dalla Corte di Roma come immunità ecclesiastica. Anzi questo privilegio, per non esser da meno, veniva eziandio preteso dagli Ambasciatori stranieri residenti in Genova; e talvolta per abuso di potere se lo arrogavano i più ricchi e potenti patrizi nei rispettivi loro palazzi. La libertà individuale dei genovesi era ristrettissima; perchè loro vietavasi di pubblicare per le stampe i propri sentimenti, sia in opuscoli e sia in libri di molta rilevanza, senza l’approvazione d’una rigorosa censura preventiva. La libertà di coscienza veniva egualmente vincolata dal Tribunale ecclesiastico dell’ Inquisizione, stabilito in Genova mercè la salda alleanza conchiusa tra i Papi ed i Monarchi cattolici assoluti. Su questo proposito conviene però osservare, che la censura preventiva non era un difetto proprio del Governo arjstocratico dei Dogi biennali, ma era una istituzione prescritta dalle Monarchie assolute predominanti e dalla Corte di Roma; la quale prevalevasi della giurisdizione della Santa Inquisizione, per avere una diretta ingerenza negli Stati cattolici. Invero dobbiamo aggiungere , in onore dei Rettori genovesi, eh’essi seguirono il buon esempio fornito dalla aristocrazia veneta restringendo l’autorità degli Inquisitori ecclesiastici; ma la loro femezza fu meno costante di quella che ebbe la Repubblica di Venezia. GIORNALE LIGUSTICO CAPO XV. CONDIZIONI ECONOMICHE DI GENOVA. Per avere una esatta cognizione dello stato economico della Repubblica di Genova dall’anno 1528 all’anno 1797, bisognerebbe fare un accurato esame della condizione finanziaria della Repubblica in questo lungo periodo storico. Noi ci contenteremo di darne una breve notizia, presa nel suo complesso. Prima di tutto fa d’uopo distinguere lo stato finanziario della Repubblica da quello dei cittadini privati ; perciocché 1’una era povera, mentre gli altri erano ricchi. La povertà della Repubblica procedeva dalle tenui tasse dirette e indirette da essa riscosse, per lo che il pubblico erario non giungeva ad incassare annualmente un milione di lire. Questa rendita bastava appena a pagare le spese ordinarie; e riguardo alle spese straordinarie i reggitori genovesi, volendo soddisfare le obbligazioni contratte, non di rado trovaronsi costretti di ricorrere ad espedienti più o meno onerosi, ovvero a contrattare dei mutui col Banco di San Giorgio, ipotecando in favore dello stesso ora uno ora un altro dei cespiti delle pubbliche entrate. Così alla Repubblica priva di danaro mancava la forza e 1’ autorità di far eseguire le leggi nei suoi dominii; e per la medesima ragione non poteva assoldare truppe bastanti a difendere la propria esistenza insidiata da Principi stranieri. Ma non si può già ammettere con Matteo Senarega, acerrimo nemico dei Nobili vecchi, che ciò fosse l’effetto di un malizioso sistema di governo dai medesimi adoperato; perchè egli dice che essendo costoro ricchissimi, e tenendo lo Stato povero, stimavano di poterlo con maggiore facilità dominare. All’accrescimento delle rendite, mercè l’aumento delle imposte, si opponevano molte difficoltà. Il ristretto, montuoso : 68 GIORNALE LIGUSTICO e sterile territorio, non permetteva verun accrescimento d’imposte fondiarie. Le grandi proprietà (estimate un quarto del territorio della Repubblica), possedute dai Vescovi, dagli Abati, dalle Chiese, dai Conventi e dai Monasteri, nella loro qualità di beni ecclesiastici erano esenti da ogni tassa, con gravissimo danno delle rendite dello Stato e con gravissimo peso dei contribuenti secolari. Inoltre doveansi rispettare i patti di non imporre alle città convenzionate nuovi balzelli senza il loro consentimento , che per lo più veniva negato. Infine è da calcolare la consuetudine dei sudditi della Repubblica di pagar pochissime gabelle ; di guisa che, se nei casi d’estremo bisogno consentivano di buona volontà a pagare qualche imposta straordinaria, erano oltremodo ritrosi ad accettare una nuova stabile contribuzione se bene fosse poco grave; la qual cosa dimostrarono sempre, rendendone malagevole la riscossione e creando spesso ancora delle perturbazioni difficili a sedare. La povertà dell’ erario aveva altresi per immediato effetto d’impedire alla Repubblica di concorrere attivamente al benessere delle popolazioni sottoposte al suo dominio, vietandole di cooperare ad utili lavori pubblici, d’instituire pubbliche scuole, fondare opere pie a similitudine di quelle stabilite nella città di Genova dalle private elargizioni dei patrizi. Nel mentre che il Governo della Repubblica era povero, i cittadini privati erano più o meno agiati e non pochi d’essi assai ricchi. In vero le ricchezze attribuite ai genovesi venivano esagerate ; nondimeno non pochi patrizi ed alcuni mercadanti giustificavano la riputazione di grande opulenza, in cui al di fuori era tenuta la città di Genova. L’opulenza dei primi derivava dai beni stabili posseduti nel Genovesato e dai cospicui feudi, che avevano in varie provincie d’Italia ed anche nel Regno di Spagna; dalla partecipazione nei traffici, nelle industrie e nelle speculazioni bancarie non compu- GIORNALE LIGUSTICO 169 tate nelle arti meccaniche ; dai proventi dei capitali depositati nel Banco di San Giorgio; finalmente dalle ragguardevoli azioni prese negli imprestiti fatti ai Monarchi Spagnuoli. Le ricchezze dei cittadini non scritti avevano egualmente origine dai traffici, dalle industrie, dalle speculazioni bancarie, nonché dai capitali collocati nelle Compere di San Giorgio. Il traffico era dunque, se non l’unica fonte delle loro ricchezze, almeno la principale. Perciò crediamo opportuno di dare un cenno intorno al commercio dei genovesi sotto il reggimento dei Dogi biennali. Che la restaurata Repubblica avesse ripigliato 1’ esteso commercio in Oriente, lanciasse le proprie navi in tutto il Mediterraneo, aprisse relazioni commerciali coi popoli di lontane regioni, fondasse delle colonie in Asia, ovvero in America, sarebbero state tutte pretese assurde. La potenza marittima e la prosperità commerciale posseduta dal Comune nei tempi eh’ era retto dai Consoli, dai Podestà e dai Capitani del popolo, non potevansi più conseguire, a cagione delle mutate condizioni sociali e politiche degli Stati d’Europa. Difatti al debole e disciolto Impero Greco era succeduto il potente Impero Ottomano, e al posto delle disgregate federazioni di governi feudali, ed a lato della teocrazia papale s’ erano col locate delle potenti monarchie assolute : inoltre la scoperia dell’ America e del Capo di Buona Speranza aveano cambiato la direzione del commercio europeo, e promosso in altre regioni dell’ Europa un maggiore sviluppo nelle industrie e nei traffici. Malgrado i suddetti gravissimi ostacoli, le industrie ed i commerci dei genovesi erano in uno stato piuttosto fiorente; poiché colle leggi del 1528 venne posto fine alla miseria ed alla abiezione in cui il popolo era caduto, in seguito dell’ anarchia derivata dalle ambiziose lotte delle famiglie capellazze Adorno e Fregosa. I genovesi dopo il 1528 ripresero le interrotte ■ \ηθ GIORNALE LIGUSTICO mercature e proseguirono la vendita dei loro prodotti industriali nei paesi coi quali già prima aveano trafficato, eccettuate le regioni d’ Oriente. Ma questa esclusione veniva loro compensata dai nuovi sbocchi commerciali offerti dalla Monarchia Spagnuola e dall’ Impero d’Allemagna. Non devesi peiò tacere che in questi Stati il loro commercio veniva diminuito dalla concorrenza dei mercadanti fiorentini, lombardi e veneti, e da quella assai più forte delle città tedesche costituenti la Lega Anseatica. Poi gli stessi sbocchi sminuirono via via d’importanza non già per colpa del governo della Repubblica, nè dei negozianti genovesi, ma a cagione del sistema mercantile dominante in tutti gli Stati d’ Europa, delle industrie progredite e del maggiore sviluppo del commercio che incominciato nell’ Olanda, in Francia ed in Inghilterra sul finire del secolo XVI si compiè nel secolo XVIII. CAPO XVI. SULLA LEGISLAZIONE GENOVESE. Delle leggi civili e penali eh’ erano in vigore nella Re-publica al tempo dei Dogi biennali abbiamo di già accennato i pochi pregi ed i molti difetti. Qui pertanto osserveremo solamente che gli Statuti civili avevano per fondamento, non già le istituzioni gote o longobarde, e nè meno le franche, ma le leggi romane; e questo forma il loro elogio. Ad esse però s’univano, deturpandole, varie consuetudini locali, civili e religiose, derivate dai sofferti dominii longobardo e car-lovingio, dalle lotte delle fazioni guelfe e ghibelline, dalle prescrizioni religiose dettate dai Papi, dai Concilii e dai Sinodi vescovili, nonché dai decreti temporanei promulgati in diverse congiunture più o meno difficili e dolorose dal Governo stesso della Republica. I genovesi però non aveano ragione di lamentarsi della I GIORNALE LIGUSTICO loro legislazione quando la comparavano a quella delle altre provincie italiane; soltanto potevano dolersi che gli Statuti civili e penali della Repùbblica molte volte non fossero eseguiti. Ma questa inesecuzione non dovevasi già ascrivere a colpa dei governanti, perciocché nell’ esercizio delle loro attribuzioni essi erano arrestati da difficoltà insuperabili. Gli Statuti civili sovente non potevansi mettere ad effetto, perchè la confusa autorità legislativa, amministrativa e giudiziaria conferita ad un gran numero di speciali Magistrati, quasi tutti collegiali, facea sorgere molti conflitti di giurisdizione, e quindi i diritti civili tanto individuali quanto collettivi ne soffrivano grande detrimento. Rispetto alle leggi penali, i colpevoli di crimini sfuggivano facilmente alla pena cui sarebbero stati condannati, ricoverandosi nei numerosi asili che loro offrivano le immunità ecclesiastiche, ovvero approffittandosi del ristretto dominio territoriale della Repubblica per rifugiarsi nei Principati limitrofi. A stabilire una efficace guarentigia d’ esecuzione sarebbe stata necessaria una legge colla quale si fossero equamente coordinati i diversi poteri legislativi, esecutivi, amministrativi e giudiziari. Ora questa riforma bisognava fondarla su principii di diritto non ammessi dagli autocratici e dispotici Monarchi in quel tempo predominanti; e questi vietandone 1’ introduzione nei loro Stati, non avrebbero permesso che si statuissero nella piccola Repubblica di Genova. A sua volta il Clero avrebbe sempre sostenuto il mantenimento delle immunità. CAPO XVII. SOPRA ALCUNI DIFETTI IMPUTATI' AL GOVERNO DEI DOGI BIENNALI. Alcuni recenti scrittori di storie genovesi hanno mosse al governo dei Dogi biennali varie censure, le quali furono poi \ηι GIORNALE LIGUSTICO ripetute dagli storici italiani giustamente avversi al predominio spagnuolo. Queste sono: i.° la costanza nel mantenersi alleati coi Re Cattolici, per cui Genova veniva riguardata un appendice della Monarchia Spagnuola; 2° il non aver soppresso il Magistrato degli Inquisitori di Stato; 3.0 Γ essersi giovati delle congiure del Vacchero , del Balbi, del Raggio e del Della Torre, nonché dei continui maneggi dei Duchi di Savoia contro la Repubblica, per promulgare delle leggi restrittive e rendere il governo sempre più oligarchico; 4.0 l’aver trattato con asprezza le città convenzionate ed i paesi direttamente sottoposti all’amministrazione qentrale sedente nella città di Genova; 5.0 l’aver preterito di vivere con miserabili espedienti, piuttosto che favorire il civile progresso che s’andava manifestando, iniziato colla ritorma religiosa di Lutero in Allemagna e di Calvino in Isviz-zera, e le dottrine sociali ed economiche sostenute nei dotti lavori de’ filosofi tedeschi, francesi ed inglesi. Per discutere a fondo la verità delle predette censure, bisognerebbe esaminare diligentemente le basi su cui sono fondate. La qual disamina 11011 faremo, perché la ristretta indole del presente scritto ce lo inibisce. Ci stringeremo pertanto ad esporre il nostro sentimento, senza farvi sopra una lunga polemica. Per quanto concerne la costanza della Repubblica nell alleanza spagnuola, crediamo averla di già abbastanza giustificata, ed esser inutile ripetere e sviluppare le ragioni sopra addotte. Il Magistrato degli Inquisitori abbiamo eziandio detto che venne stabilito in un tempo , nel quale Genova stava in pericolo d’essere turbata da infami cospiratori, ed era minacciata di perdere la propria indipendenza e vedersi unita agli Stati del Duca di Savoia, universalmente considerati la Beozia dell’ Italia. Ora Γ istituzione di questo Magistrato consegui lo GIORNALE LIGUSTICO *73 scopo desiderato, impedendo ai genovesi d’imitare gli antichi romani, i quali in un caso simile avrebbero eletto un Dittatore. Il governo genovese all’opposto, sapendo che dalla Dittatura al Principato è breve il passo, non ricorse a questo estremo rimedio, e preferì restringere temporaneamente la costituzione dello Stato piuttostochè rinunciare alla libertà. Abbiamo indicato i motivi che indussero i reggitori genovesi ad istituire un Magistrato eccezionale, per certo assai censurabile e da niun pubblicista liberale approvato. Ora rimane a sciogliere la questione se i patrizi genovesi che tenevano le redini del Governo commisero o no un errore conservando il sudetto Magistrato sino all’anno 1797. Ci sembra evidente che perseverando le cause, per cui venne instituito, non vi fosse motivo di sopprimerlo. Niun cultore della storia genovese può ignorare come le sopraindicate cause non cessarono, ma piuttosto s’accrebbero; di maniera che la piccola Repubblica fu incessantemente insidiata nella sua esistenza politica dai Re di Francia, dalla Corte di Torino e dagli Imperatori d’Austria. Non havvi sicuramente alcuno che non conosca quanto i genovesi ebbero a soffrire a cagione delle prepotenze del Re Luigi XIV nell’anno 1684, e dell’imperatrice Maria Teresa nell’anno 1746. Son pure a tutti cognite le congiure di Giovanni Paolo Balbi, di Stefano Raggio, di Raffaele Della Torre, l’insurrezione dell’ isola di Corsica, le sommosse avvenute in alcune città della Riviera di ponente ; le quali tutte ebbero Γ appoggio segreto o palese di Sovrani avversi alla Republica della quale agognavano la morte. Coloro che biasimarono i patrizi genovesi di non aver soppresso il suddetto Magistrato, non posero dunque mente allo stato pericoloso in cui trovavasi la Repubblica. Devesi eziandio osservare, che sebbene essi conservassero questo Magistrato, nel finto però lo diminuirono d’autorità e 174 GIORNALE LIGUSTICO lo ridussero ad essere una Commissione governativa che invigilava alla sicurezza pubblica dello Stato. Inoltre al suddetto Magistrato non si possono rimproverare delle sentenze arbitrarie, paragonabili a quelle promulgate dai tribunali della Santa Inquisizione o dai Comitati di salute pubblica della Republica democratica francese dell’ anno 1793, nè le più o meno arbitrarie lettere d’arresto dei Re di Francia, nè i giudizi delle Commissioni militari, dalle quali, dopo le restaurazioni avvenute nel 1815, gli italiani videro giudicare i loro concittadini accusati di delitti politici. In fine conchiuderemo affermando, che questa Magistratura ridotta nelle minime proporzioni che abbiamo detto di sopra, era presso che annullata col fatto; e perciò coloro che si dolsero perchè non tosse soppressa si mostrarono troppo severi. Per ciò che riguarda la quarta censura, d’avere cioè profittato delle occasioni offerte dalle represse congiure e sollevazioni per istabilire uno stretto Governo oligarchico, osserviamo che per difendere la Repubblica dai gravissimi pericoli da cui era minacciata, bisognava dare maggior forza al Governo; quindi se 1’ ordine della Nobiltà rassodò la sua autorità ed acquistò maggiore prevalenza, ciò fu un necessario effetto delle fatali circostanze che pesavano su Genova, e non devesi attribuire a malizioso progetto di quelli che tenevano le redini dello Stato. È altresì una censura erronea l’affermazione, che la Repubblica trattasse con aspr zza i paesi soggetti. Il dovere del Governo centrale, sedente nella metropoli, era di rispettare l’autonoma amministrazione delle città convenzionate ; ed in questo giammai mancò. Piuttosto si dovrebbe accusarlo di soverchia tolleranza, nel soffrire che le città medesime per avarizia 0 per altre più infelici ragioni si rifiutassero di contribuire ai maggiori carichi dello Stato; e così pure do-vrebbesi imputare di soverchia debolezza nel far eseguire le leggi ed i decreti nei paesi sottoposti al suo dominio. GIORNALE LIGUSTICO *75 intorno alla quinta censura, faremo notare essere ingiusta 1 asserzione che la Repubblica si mantenesse in vita adoperando miserabili espedienti; anzi a questo proposito la piccola e debole Republica aristocratica di Genova invece d’essere biasimata si dovrebbe lodare. Imperocché essa non cessò d’adoperare con somma destrezza diplomatica, per conservare la propria libertà ed indipendenza. Nemmeno si può incolparla d’aver impedito che in Genova si svolgessero i principii della riforma religiosa, giacché questi erano contrarii alle massime professate dalla popolazione genovese. Invece si dovrebbe notare con elogio la condotta tenuta dai rettori genovesi, osservando che in quei tempi nei dominii della Republica non ebbe luogo veruna condanna capitale per opinioni religiose. Lo che dimostra come il Governo, non mancando di proteggere e professare la religione cattolica, si mostrasse tollerante verso coloro che nell’intimo della loro coscienza ammettevano in tutto od in parte i principii predicati in Allemagna, nella Svizzera e nel. Regno Britannico. Risposto alle censure, rimane a sapere se in quel tempo conveniva ed era possibile ridurre a miglior forma di governo 1’ aristocrazia ereditaria che reggeva la Repubblica. Una riforma di governo sarebbe stata desiderabile; ma questa non potevasi effettuare se non statuendo delle leggi, colle quali si sopprimessero i difetti lamentati giustamente dalle popolazioni, e che davano alimento ai perturbatori di sfogare il loro malo animo con ingiuste querimonie e con tentativi di sedizioni. Qualora si volesse dare una soddisfacente soluzione a questo quesito, bisognerebbe esaminarlo sotto differenti punti di vista. E questi sono: i.° stabilire fin a qual segno l’indole del Governo aristocratico di Genova avrebbe consentito delle riforme, che restringessero 1’ autorità dell’ ordine privilegiato e coordinassero la stessa colle libertà politiche e civili, chieste GIORNALE LIGUSTICO dai cittadini non scritti nel Libro della civiltà ; 2.° determinare se tenuto conto delle condizioni sociali dei grandi Stati europei governati autocraticamente da Monarchi assoluti, fosse possibile deliberare una riforma di governo fondata su principii più liberi senza incontrare opposizioni ed imperiosi divieti per parte dei Re e dei Papi; 3.0 se i reggitori di Genova, supposto che avessero facoltà di riformare l’ordinamento politico senza soffrire alcun impedimento per parte dei governi stranieri, fin a qual segno avrebbero potuto effettuare cotesta riforma col consentimento e coll’ approvazione della ligure popolazione. Per quanto concerne la prima questione, dicemmo già che i dodici Riformatori nell’anno 1528 non statuirono un’ottima Repubblica , ma furono costretti a stabilire sull’ esempio del Governo veneto una aristocrazia ereditaria concentrata unicamente nei patrizi residenti in Genova. La qual sorte d’aristocrazia non è la migliore, perchè tende a trasformarsi in oligarchia e sovente si differenzia assai poco da quest ultima. Abbiamo eziandio fatto conoscere i numerosi difetti della costituzione di Genova, e perciò ora diremo soltanto che, per conseguire il desiderato riordinamento di essa, sarebbesi dovuta togliere la ineguaglianza delle ricchezze nell’ ordine dei nobili, non permettendo che s’instituis-sero fedecommessi, ed abolendo compiutamente le leggi di successione che statuivano il diritto di primogenitura e permettevano le sostituzioni testamentarie. Qualora fosse stata deliberata si giusta riforma, il ceto dei Nobili atti a governare non sarebbe stato ristretto ad un numero relativamente piccolo; e per conseguenza la pubblica amministrazione avrebbe cessato d’ essere un monopolio spettante ai primogeniti delle famiglie nobili. Una maggiore eguaglianza nel patrimonio del ceto nobile non sarebbe però bastata ad assicurare la colta e soddisfacente convivenza chiesta dal rimanente dei sudditi; GIORNALE LIGUSTICO I77 perchè questa, come insegna il Romagnosi, non si può conseguire se non quando sieno guarentiti alle diverse classi della società i diritti individuali e collettivi, che alle medesinfe competono. Ora lo stabilire i provvedimenti per appagare i desiderii manifestati dalla grande maggioranza dei sudditi della Repubblica, era vietato ai patrizi che reggevano il governo. Imperocché oltre alla repugnanza che doveano provare di diminuire la propria autorità, sentivano che tale riforma sarebbe stata loro imperiosamente inibita dai Monarchi assoluti che reggevano Γ Europa. Noi abbiamo di già accennato il motivo per cui i suddetti Sovrani aveano interesse a non permettere che in Genova si stabilisse una legislazione ed un ordinamento politico conforme ai principii liberali oggidì ammessi da tutti i pubblicisti non servili. Essi non volevano che i propri sudditi vedessero in una piccola Repubblica aristocratica un ottimo governo, ch’avrebbe ad essi fatto sentire maggiormente il dispotismo cui erano assoggettati. Ciò posto re- ι . putiamo aver con ragione opinato che coloro i quali imputarono al governo dei Dogi biennali i sopra detti difetti, mostrarono molta leggerezza nel formulare siffatte accuse. CAPO XVIII. DEL BANCO DI SAN GIORGIO. Ragionando sulla Repubblica di Genova, il non far menzione del Banco di San Giorgio sarebbe una mancanza inescusabile. Non volendo commetterla, esporremo brevemente la nostra opinione sul medesimo. L’Officio e Casa di San Giorgio, come anticamente la chiamarono i genovesi, fu una istituzione che meritò gli elogi degli scrittori politici sì antichi che moderni. Di questi, due soli ricorderemo, cioè Niccolo Machiavelli ed il Conte John Russel. Quanto scrisse il primo è noto; e da molti scrit- Giorn. Ligustico, Anno VI. 11 178 GIORNALE LIGUSTICO tori venne riferito e ripetuto il giudizio d’ un cosi acuto e profondo politico. Il secondo nel suo Saggio sopra la storia del governo e della costituzione del Regno Britannico, trascrisse dal viaggio dell’ Addison in Italia il seguente brano : « Non conosco nulla di più notevole nel governo di Genova che la Banca di San Giorgio, di cui il fondo si compone di vari rami di rendita, eh’ erano stati riservati per servire di pagamento a danari presi in prestito dai privati in tempi eccezionali. La detta Banca non pensò giammai a corrompere il credito pubblico, ed a disporre delle rendite adoperandole ad altri usi fuori di quelli ai quali erano destinate ». I riferiti elogi sono in gran parte veri e meritati; nondimeno ci permetteremo osservare che il Banco di San Giorgio, su cui si modellarono le associazioni commerciali di vari paesi dell’ Europa, come quelle che presero la denominazione di Compagnie delle Indie occidentali od orientali, racchiudeva i difetti che i recenti scrittori d’economia politica dimostrarono essere in tutte le associazioni commerciali privilegiate. L’ istituzione del Banco di San Giorgio fu deliberata nel-1’ anno 1407, mentre Genova stava sotto il dominio del Re di Francia Carlo VI ed aveva a regio governatore il maresciallo Lemeingre di Boucicault, sotto al quale godeva una specie di tranquillità forzosa. La causa per cui il'Consiglio degli anziani propose fondarlo, ed i regolamenti con cui venne provveduto alla amministrazione, furono descritti da antichi e da recenti scrittori. Ma a noi pare che se il Governatore francese consentì che fosse stabilito il suddetto Banco con una amministrazione non soggetta al suo diretto ingerimento, lo fece perchè credette con tal mezzo trarre forti somme di danaro dai cittadini da mandare in Francia ad impinguare 1’ e-sausto erario di quel Regno. Gli effetti politici derivati da questa istituzione furono vari ed assai notevoli. La Repubblica ne provò un grande bene- GIORNALE LIGUSTICO I79 tìzio, perchè potè effettuare il pagamento d’ enormi somme di cui erano creditori i possessori di titoli per antichi prestiti, ed assicurò ai suoi sudditi l’esatta riscossione degli interessi loro dovuti per danari mutuati. Il suddetto Banco formò un centro, che da finanziario agevolmente si convertì in politico. Della quale mutazione il primo a risentirsi fu il Governatore Boucicault, il quale non cessando di chiedere con alterigia agli amministratori della Casa di San Giorgio nuove ingenti somme di danaro, trovò nei medesimi una inopinata opposizione e n’ ebbe una recisa ripulsa. È noto che la contesa tra il Boucicault ed il Banco di San Giorgio spinse quest’ ultimo a prender parte alla sollevazione contro la dominazione francese promossa dal Lu-xardo e da Battista De Franchi. Al quale scopo sborsò a Facino Cane le 30,000 genovine chieste dal Signore d’ Alessandria in rimborso delle spese fatte per la spedizione, e così agevolò la dedizione di Genova per un anno al Marchese di Monferrato, non obliando di far inchiudere nella convenzione vari articoli favorevoli ad esso Banco, mediante i quali facevasi confermare il diritto d’una amministrazione indipendente dal Governo. La costituzione d’ uno Stato dentro uno Stato è un fatto enorme, che in un governo bene ordinato, non si può ammettere. Ciò non ostante i genovesi riconóscono dall’esistenza di questa deformità 1’ aver potuto in quel tempo conservare la propria libertà ed indipendenza. Questo fatto straordinario avvenne perchè tutti i cittadini agiati, di qualunque ceto o fazione fossero, i quali possedevano dei luoghi sopra San Giorgio, aveano un comune interesse a difenderli dalla rapacità d’ un governatore forestiero, come da quella d’ un potente cittadino che si fosse costituito signore e tiranno di Genova. Il Magistrato di San Giorgio, dopo la ricuperata libertà, ι8ο GIORNALE LIGUSTICO conservò i privilegi e Γ autorità che possedeva nei tempi anteriori; ma adottò un sistema diverso da quello eh’ esso teneva durante 1’ anarchico reggimento dei Dogi a vita. Di fatti dal momento della sua istituzione fino al 1528 il Banco si tenne sempre indipendente e lontano dal partecipare nel Governo della Repubblica, non avendo col medesimo altre relazioni se non quelle indispensabili che sorgevano dalle contrattazioni di mutui più o meno onerosi stipulate con i reggitoridi Genova. Per 10 che si può affermare, che prima deiP anno 1528 il Governo della Repubblica ed il Banco di San Giorgio, non di diritto ma di fatto, costituissero due governi separati ed indipendenti Γ uno dall’ altro. Il primo era povero ed in balia delle fazioni; 11 sécondo ricco, alieno dalle divisioni intestine, sollecito d’ accrescere le ricchezze in benefizio dei cittadini partecipi. Per P opposto durante il governo dei Dogi biennali il Magistrato di San Giorgio non cessò mai d’avere i medesimi interessi della Repubblica; ed i Rettori del Banco non solo aveano dirette relazioni col Governo, ma si numeravano tra i primarii Magistrati del medesimo. La predetta confusione d’interessi ci fa conoscere la cagione, per cui il Banco aiutò sempre il reggimento dei Dogi biennali nei suoi più urgenti bisogni. Laonde scrisse saviamente lo storico Gerolamo Serra: « Senza confondere mai, senza separare del tutto gli interessi e le forze, San Giorgio prosperò quando fiori la Repubblica, crollò quand’ ella cominciò a crollare, tentò di riaversi e ricadde con lei ». Ad oscurare alquanto gli elogi suddetti, conviene notare che gli amministratori di San Giorgio spesse volte anteposero gli interessi propri e del Banco al bene della popolazione, opponendosi a che si togliessero gli obblighi per cui le gabelle ed i principali cespiti delle entrate della Repubblica erano vincolate a favore di esso ; e perciò impedirono che s’operasse una radicale riforma nelle imposizioni, si riordinassero i difettosi GIORNALE LIGUSTICO l8l regolamenti che incagliavano le industrie ed il commercio, fossero assegnati al Governo centrale i mezzi neccessari per sussidiare gli stabilimenti di beneficenza e la pubblica istruzione nei paesi sottoposti al dominio della Repubblica. I sopra indicati difetti sono gravissimi, e come tali devono essere severamente censurati. Ma altri ve n’hanno ancora maggiori. Nel tempo in cui Genova veniva contesa dalle popolari famiglie cappellazze Adorna e Fregosa come se fosse stata un Principato ereditario, San Giorgio si giovò delle discordie intestine e delle guerre civili che dividevano i cittadini genovesi, per depauperar^ la Repubblica con un prestito ad usura; le scemò forza ed autorità col prendere possesso di città e di provincie ad essa appartenenti, cioè, l’isola di Corsica nell anno 145 3, la città di Sarzana e il suo distretto nell anno 1484, la città di Ventimiglia e luoghi adiacenti nell’ anno 1515 (1). Dalle su esposte osservazioni deduciamo pertanto che il Banco di San Giorgio, quantunque nei tempi in cui venne fondato sia stato una ammirabile istituzione, ciò non pertanto fu lodato più di quello che lo permettessero i suoi vizi intrinisici e la condotta tenuta dai suoi amministratori, specie nel tempo dei Dogi popolari a vita. CAPO XIX. IL REGGIMENTO ARISTOCRATICO DI GENOVA FU UN BUON GOVERNO? Questo quesito fu già da noi presso che risolto, affermando e dimostrando come il Governo di Genova dovesse annoverarsi (1) Anche le idee espresse dall’autore a proposito del Banco San Giorgio non sono tutte divise da noi. La Direzione. i82 GIORNALE LIGUSTICO tra i meno cattivi, che l’infelice condizione dell Europa in quei tempi consentisse di stabilire: perciò esso era relativamente buono. Ammessa la suddetta bontà relativa, 1 aristocrazia ereditaria genovese non si può nò si deve giudicare dietro le norme dettate dagli odierni progressi fatti nelle scienze giuridiche e politiche. Osserviamo che la maggioranza dei cittadini genovesi, se non era soddisfatta, mostravasi assai ritrosa nel chiedere nuove riforme, non ignorando che i Duchi di Savoia e la Corte imperiale di Vienna avrebbero colto questa occasione per isfogare la loro malevolenza contro la liberta e l’indipendenza della Repubblica, e se ne sarebbero giovati per aver un pretesto di mover guerra a Genova. Di più cotesto governo meritava quasi di essere considerato come ottimo, in confronto alle Monarchie ed ai Principati in quel tempo esistenti nella maggior parte del continente europeo. Parimente dobbiamo affermare, che se dall anno 157^ al 1797 il patriziato genovese non deliberò riforme che migliorassero il sistema di governo, ciò non devesi ascrivere a sua mancanza, ma piuttosto alle fatali circostanze comuni a tutta la Penisola italica, per le quali vietavasi lo stabilire dei governi fondati su libere istituzioni. Genova adunque prima della rivoluzione di Francia, awe-nuta nell’anno 1789, unitamente a \ enezia ed a Lucca, alle città libere d’Allemagna, alle provincie unite d’ Olanda, ed a taluni Cantoni della Svizzera, si numerava tra i paesi retti con leggi più o men buone, ma non assoggettati all arbitraria potestà di Monarchi assoluti. Perciò essa egualmente che i suddetti Stati formava una delle oasi (e per certo, a cagione del suo stato piccolo e debole, non la più felice) le quali si rinvenivano nel vasto deserto Monarchico del continente europeo (1). (1) Mi piace trascrivere da Bluntschly (Theorie generale de l'Etat. triv.par Riedmatten) la seguente nota che leggesi a pag. 339; dalla quale si può GIORNALE LIGUSTICO Al giorno d’ oggi invece in cui P Italia è unita e costituita in potente nazione, e fruisce delle libere istituzioni che derivano dai ben ordinati governi parlamentari-rappresentativi, niun genovese potrebbe da senno rimpiangere il caduto reggimento aristocratico ereditario. Massimiliano Spinola del fu Massimiliano. OSSERVAZIONI CRITICHE intorno all’aneddoto di Tommasina Spinola e Luigi xii. Il credito che noi siamo usi concedere agli scrittori stranieri da qualche tempo è venuto siffattamente aumentando, che accettiamo con molta facilità non solo le loro opinioni, ma sovente anche i fatti, sebbene di essi manchi ogni traccia negli scrittori nostrani. E spesso senza molto vagliare i racconti alla stregua della critica notiamo gli storici nostri di conoscere la condizione dei popoli sottoposti ai Re assoluti prima della rivoluzione francese dell’anno 1789. « Hormays. Lebensbilder I, pag. 256. Patente de Ioseph I d’Autriche, 20 dee. 1705: Tous les Bavarois s’étant rendus coupables de crime de lese-majesté envers Nous, le seul prince légitime établi par le Dieu tout puissant, ont par conséquent mérité d’être pendus. Cependant par notre haute clémence (!) et notre paternelle douceur (!), Nous ordonnons qu on tire au sort, et que chaque quinsieme seulement soit aussitôt pendu ». — C’est à n’en pas croire a ses yeux; et cette folie insigne s’écrivait au XVIII siècle, a peine avant l’époque a des lumieres philosophiques ». 184 GIORNALE LIGUSTICO ommissione, e applaudiamo di gran cuore a chi, secondo noi, ha riempito qualche lacuna, senza neppur sognare che altri abbia scambiato 1’ ufficio di scrittore di storia con quello di poeta, e regalatoci come vero ciò che poi si riscontra soltanto verosimile, e alcuna volta anche inesatto. Questo può dirsi a proposito dell’ aneddoto erotico di Luigi XII e di Tommasina Spinola, che venne rinverdito testé e recato ad esempio importante dei costumi genovesi del secolo XVI (I). Il fatto fu primamente narrato da Giovanni d’Auton nelle sue Chroniques (2), e non v’ avea ragione invero di dubitare d’ un avvenimento accaduto in Genova, quando vi si trovava pure lo scrittore colla corte del Re Luigi XII, di cui era lo storiografo ufficiale. Senonchè veggendo come ei ne tolga cagione a sbrigliare la sua fantasia poetica, non riesce remoto il sospetto che abbia intessuto fregi al vero. Gli autori francesi seguendo il d’Auton introdussero nelle loro storie 1’ aneddoto, il quale manca affatto in tutte le ero- · nache e le storie genovesi, salvo in quella del Bastide francese e del Varese che ne tocca appena di passaggio. Non lo accolse il Sismondi nella Storia delle Repubbliche Italiane (3) e nemmanco il Cantù, sebbene ad essi non fosse ignoto il cronista francese ; ed è osservabile specialmente il secondo, che nella Storia degli Italiani reeό con studio singolare tutti quei fatti che giovano a lumeggiare l’indole e il costume delle genti d’Italia. Ma quel che reca maggior meraviglia si è il non essersi mai trovato alcun documento nò in Genova, (r) Rassegna Settimanale, vol. Ili, p. 188 e segg., 230 e segg. (2) Paris, 1835, edite da P. S. Jacob (Lacroix), T. II, p. 236, e III, p. 122 e segg. (3) Ne tocca appena citando il d’Auton nella Storia dei Francesi. Noto che il Martin ne dice una parola in nota, sempre citando la stessa fonte. GIORNALE LIGUSTICO 185 ne fuori, atto a confortare Γ affermazione dello storiografo di Luigi XII. Intorno al componimento poetico che col titolo di Compianto dettò sul caso di Tomasina il d’Auton, pubblicava nel 1852 il Kiinholtz un libro assai erudito (1), nel quale raccolse non poche memorie sulla famiglia Spinola e radunò con molta cura quanto era stato scritto sul fatto dagli istorici. Vi aggiunse tre capitoli, uno sugli effetti dell’ amore sventurato , 1’ altro assai curioso in cui si studia provare che le relazioni fra il re e Tomasina furono oneste, pure e meramente platoniche ; ed il terzo dottissimo tratta con ampiezza del Compianto, della sua origine, della sua storia e delle sue forme poetiche, ed è seguito da una copiosa bibliografìa. Ricordiamo brevemente 1’ aneddoto. Luigi XII invitato dai Genovesi si reca nella metropoli della Repubblica nell’ A-gosto del 1502. Viene accolto con pompa straordinaria e con segni di non comune allegrezza. Le famiglie nobili vanno a gara nel prodigargli ogni maniera di cortesie; sovente è da esse convitato, e si studiano porgergli testimonianza d’ onore apprestandogli divertimenti, dove il lusso e la magnificenza vincono 1’ aspettazione degli stessi Francesi. Le dame sanno mostrarsi in tutta la loro bellezza, e ponendo da parte 1’ usato riserbo, si contentano che i cortigiani le bacino « pour faire l’essait » e poi le presentino al re, il quale a sua volta le bacia e balla con esse. « Et, entre autres, fut là une dame génevoise, nommée Thomassine Spinole , l’une des plus belles de tout Italie, laquelle jeta souvent les yeux sur le roi, qui étoit un beau prince à merveille tres-savant et moult bien emparlé. Tant l’advisa celle (x) Des Spinola de Gênes et de la Complainte depuis les temps plus reculés jusqu’à nos jours, suivis de la Complainte de Gennes sur la morte de Dame Thomassine Espinolle, Genevois, Dame intendyo du Roy. Paris, Montpellier 1852. ι86 GIORNALE LIGUSTICO dame que après plusieurs regards, amour, qui rien ne doute, l’enhardia de parler à lui, et lui dire plusieurs douces paroles ; ce que le roi, comme prince tres-humain, prit à gré volontiérs, et souvent devisèrent ensemble de plusieures choses par honneur; et tant, que cette dame se voyant familière de lui, une fois entre autres, le pria tres-hum-blement que par une manière d’accointe, il lui plût qu’elle fût son intendio, et lui le sien, qui est a dire accointance honorable et aimable intelligence. Et tout ce lui octroya le roi ; dont la noble dame se tint plus heurese que d’avoir gagné tout l’or du monde , et eut ce don si cher, que pour se sentir seulement bien venue du roi, tout autre mit en oubli, voire jusques à ne vouloir plus coucher avec son mari. Ce qui pourroit donner à penser ce qu’on voudroit; mais autres choses selon le vrai dire de ceux qui ce pouvo-ient mieux savoir, n’y eut que tout probité ». Ma il re deve partire e fra il generale dispiacere « dame Thomassine...... montra bien par le dégoût de ses larmes que le coeur en étoit marri, en disant que jamais n’oublieroit son intendio ». Correva l’anno 1505 ed una gravissima malattia condusse il re in fin di vita e n’ andò dovunque la notizia che fosse morto. Il che saputosi anche a Genova, ne prese tanto dolore Tommasina che morì di crepacuore. Luigi risanato ed inteso il lacrimoso caso della dama, volle che il d Auton ne serbasse memoria nella cronaca; ed oltre al racconto compose altresì quel compianto, di cui venne eseguita una copia con belli ornamenti e miniature, la quale serbasi nella Biblioteca di Mompellieri. Aggiunge il cronista che, secondo gli fu detto, il re inviò la sua poesia a Genova perchè, in testimonianza del suo affetto, fosse deposta nella tomba di Tommasina; e sembra che il citato manoscritto sia appunto quello a ciò destinato, ma non pervenuto a Genova. GIORNALE LIGUSTICO Niuno potrebbe giustamente negare nella narrazione del d’Auton ricchezza di particolari circa al viaggio ed alla dimora del re in Genova ; ma la fervida fantasia del poeta non può tanto ristarsi che non trapassi certi confini, infiorando il racconto d’immagini più presto verosimili che vere. Il che apparisce ben chiaro là dove esce a dire che al passaggio del re le strade di Genova « etoient tendues et parées de tapisséries, tissues, et ouvrées d’images vives et parlantes » e cioè delle donne riccamente vestite di bianco , di guisa che « a nymphes ou déesses mieux ressembloient qu’à humaines femmes ». E più innanzi invasato dal festevole accoglimento non si ristà dallo esclamare : « Ce fut merveilles : non seulement les grands et les moyens faisoient fête, mais aussi les petits, voire étant entre les bras de leurs nourrices ». Senonchè a proposito di quel continuo andare in volta delle donne ricevendo certe confidenze troppo francesi, pur un tratto è costretto a dichiarare che ad esse era conceduto dai padri e mariti « contre la nature de leurs moeurs ». Non ci faremo ad accennare neppure di passata alla natura ed al platonismo di questo amore, non importando gran fatto al nostro fine; e rimanderemo volentieri chi avesse vaghezza di addentrarsi in siffatta ricerca al capitolo a ciò consacrato dal Künholtz; solo osserviamo come riguardando i tempi e e l’uomo, ci sentiamo poco inclinati a credere alla purezza di questo amore, almeno nella intenzione, tanto più innanzi alla troppo arrisicata ed ingenua confessione del d’Auton che Tommasina « plus heureuse que d’avoir gâgné tout l’or du monde » fu tanto contenta della rispondenza amorosa del re, che « tout autre mit en oubli, voir jusques à ne vouloir plus coucher avec son mari ». Veniamo invece alla catastrofe del dramma. Anche qui P autore un poco poeticamente ci mette innanzi l’esempio di Giulia la quale muore di dolore reputando spento Pompeo ; ι SS GIORNALE LIGUSTICO ed entrando quindi nella casa di Tommasina ce la rappresenta addolorata al maggior segno per la notizia, della morte di Luigi XII, di guisa che abbandonata ogni cura ed ogni piacere, rinchiusa nella sua camera « repondit un torrent de larmes, et rendit un million de soupirs » ; e Γ eco di questi sospiri giunge fino allo scrittore, che ci reca proprio le parole lamentevoli nelle quali uscì la dama in quel punto. Questo porre in scena la persona e farla parlare, proprio come se il d’Auton l’avesse udita, ha curioso riscontro colla maniera adoperata dall’ altro francese moderno, il Bastide, che ne compone un romanzetto. Si affretta tuttavia il cronista a farci sapere che il misero caso della morte di Tommasina venne narrato al re « par vrai rapport d aucuns gè-nevois et autres qui etoient venus de Gênes » ; i quali, ci avvisiamo avranno altresì narrato come « les genevois en firent funérale fête ». Senonchè allorquando il re desidera che rimanga memoria di tanto virtuoso fatto, ed ordina al suo storiografo di esporne il racconto nelle sue cronache, questi ha bisogno di attingerne le notizie da Germain de Bonneval, e quali ei le ricava dalla bocca di lui le tramanda ai posteri. Donde è ovvio il concludere che il d’Auton a Genova non ne seppe nulla, sebbene ei se ne dimorasse in corte reale, ed il fatto dovesse per se stesso levare qualche rumore. Ma la fantasia e 1’ estro incalzano il nostro storico , e ne vien fuori il Complainte de Génnes sur la mort de dante Thomas sine Espinolle, avec l’epitaffe parlant par la bouche de la defunte, et le Régret que fait le roi pour la mort de sa dame intendio. Ei quindi presenta questo componimento al re che trovavasi a Tours, « pour lui donner (come ingenuamente ci dice) quelque diverse nouvelleté et moyen d’agréable passe-temps ». Venne poi a sapere in seguito che il re inviò quella sua poesia a Genova per farla mettere nel sepolcro della defunta. GIORNALE LIGUSTICO 189 Gli scrittori francesi che attinsero da questo cronista, e specialmente Velly, Villaret, Garnier, Delaroche e Künholtz (1), ingrandirono alquanto alcune particolarità del racconto, e dissero addirittura che « la Repubblique de Gênes, à qui Thomassine avait rendu les plus grands serviçes lui déçerne des riches funérailles publiques, et lui éleva un magnifique tombeau. Elle deputa, en autre, deux de ses illustres citoyens à Louis XII, pour lui porter cette triste nouvelle ». L’ultima affermazione è cosi strana e fuori d’ ogni verosimiglianza, che non avrebbe bisogno d’ essere confutata ; tuttavia diremo che nessuna carta degli Archivi ricorda questa ambasceria. E sarebbe stata una curiosa novità, che la Repubblica avesse spedito due dei suoi spettabili cittadini ad annunziare al re che la sua amante era morta. Ciò nondimeno tutto ciò potrebbe aver faccia di vero , ove si potesse provare che 1’ intimità di Tommasina col re abbia recato dei segnalati servigi alla Repubblica; ma non solo mancano anche qui le testimonianze e i documenti di qualsivoglia ragione, chè anzi Γ unanime silenzio dei nostri scrittori genovesi mostra la vanità di quell’ asserzione, poiché-nè il Senarega, nè il Giustiniani, diligenti autori sincroni avrebbero dimenticato almeno un- cenno di questa donna che s’ acquistò diritto alla publica benemerenza. Nè dobbiamo tacere come ci abbia grandemente meravigliati il non averne trovato alcuna menzione nelle Chroniques de Génes di Alessandro Sauvaige (Saivago), il quale, di parte francese dettò il suo lavoro in servigio di Champdenier governatore di Genova per Luigi XII nell’ anno 1512, quando la memoria del fatto singolarissimo doveva essere sempre viva (2). (1) Nel libro del Künholtz sono recati i passi degli autori francesi citati. ' (2) Uscirà in breve negli Atti della Società Ligure di Storia Patria per cura dçl mio amico cav. Desimoni, che mi comunicò i fogli di stampa. 190 GIORNALE LIGUSTICO Un monumento che ci poteva dare buon lume intorno alla Spinola era per termo il suo sepolcro, ma non se ne è mai trovata traccia, nè si può dire che sia scomparso colle chiese soppresse e distrutte dopo il i797> perchè ne sarebbe rimasta memoria nelle carte e specialmente in quella importante raccolta dove il Piaggio nel passato secolo trascrisse tutte le iscrizioni e le lapidi delle chiese genovesi, delineando altresì gli stemmi ed i mausolei (i). Tuttavia il Künoltz trovatosi in questa difficoltà, e pur volendo mantenere Γ affermazione che fu eretto « un magnifique tombeau » , cerca un modo specioso per uscirne, ed immagina che i Genovesi vendicatisi in libertà nel 1528 abbiano distrutto quel monumento che ricordava, sebbene indirettamente, la soggezione alla Francia. Chi conosce anche mezzanamente la storia ed i costumi di que’ tempi sa benissimo come i rivolgimenti politici non fossero sì violenti da condurre il popolo ad eccessi, e che era tanto e così alto il rispetto alle chiese, da non poter supporre nè che il popolo siasi lasciato andare a questi estremi, nè che la distruzione fosse ordinata dal governo. Esaminata così l’esposizione del fatto veniamo alla persona di Tommasina. Secondo dice il d’Auton, essa aveva marito: dunque doveva essere moglie di uno Spinola, ma il cronista non ci manifesta il suo nome; ond’è che il Lacroix vedendo come fra i deputati a ricevere il re sia annoverato Luca Spinola, che aveva appunto in moglie una Tommasina, disse senz’ altro in nota che ad essa si riferiva 1’ aneddoto amoroso; e il Künoltz scambiando l’editore moderno coll’antico storiografo affermò che il marito della Tommasina era senza dubbio Luca così dicendo testualmente il d’Auton. E qui fa d’uopo rilevare un altro errore del Künholtz. (1) Ms. nella Biblioteca Civica di Genova. GIORNALE LIGUSTICO I9I Egli dichiara Luca Spinola « célèbre jurisconsulte » confondendo , secondo avvisiamo, due omonimi contemporanei. Infatti mentre l’uno non è ricordato che per aver fatto parte dei gentiluomini deputati al ricevimento reale nel 1502, l’altro, che diremo uomo chiaro e stimato anziché celebre, ebbe ufficio d’ anziano negli anni 1472-1479, andò ambasciatore a Carlo VIII in Firenze nel 1494, e fu ufficiale di balia nel 1504 e 1507. Anche questi ebbe in moglie una Tommasina figlia di Brancaleone Doria, ma era già morta sul principio del 1500, giacché nel 1503 egli sposava in terze nozze Giulia dei conti di Candiano, e, rimasto vedovo, nel successivo anno Cornelia Landi di Piacenza. Dalle genealogie e dalle memorie della casata Spinola, si rileva come sei fossero le Tommasine viventi al tempo della venuta in Genova di Luigi XII. 1.a Tommasina figlia di Giovanni Ferrerò cittadino di Savona, moglie di Giovanni Spinola del fu Bartolomeo , la quale rimasta vedova nel i486 fece testamento nel 1509. 2.a Tommasina di Eliano Spinola, moglie di Rainaldo Spinola del fu Guirardo, vissuta fino al 1515 anno in cui fece testamento. 3.a Tommasina di Antonio Spinola, moglie di Gioachino Spinola del fu Antonio, nata nel 1479 e morta nel 1514. 4.a Tommasina di Giovanni Cattaneo Spinola, moglie di Paolo Spinola del fu Giorgio, morta nel 1535. 5.a Tommasina di Giovanni Antonio Spinola, moglie di Tobia Spinola del fu Giacomo la quale contrasse matrimonio dopo il 1510. 6.a Tommasina di Giuliano Grimaldi, moglie di Luca Spinola del fu Filippo. Questa, che è quella indicata dal Lacroix, nacque innanzi al 1464, si maritò nel 1477, rimase vedova nel 1509, e testò 192 GIORNALE LIGUSTICO nel 1516; nel quale anno verosimilmente morì senza prole, lasciando eredi i figli di suo fratello Marco (1). Ora è ovvio il riconoscere come a nessuna delle ricordate Tommasine s’attagli, almeno nella seconda parte, il fatto esposto dal D’Auton, poiché tutte vissero più anni oltre il 1505. Nè si può supporre che si tratti di un’altra Spinola rimasta ignota, imperciocché la fama che le attribuiscono gli autori francesi di donna singolarmente dedita alle lettere, e il fatto stesso che le viene ascritto avrebbero dovuto di per sè serbare memoria del suo nome ; e neppure è probabile che sia sfuggita ai diligentissimi e pazienti ricercatori delle memorie di quella illustre famiglia. Ammettendo poi come ipotesi che Γ eroina dell’ erotico avvenimento sia stata moglie di Luca, sorge spontanea la domanda, se una donna di ben 42 anni potesse accendersi di una fiamma tanto violenta ed insieme sì platonica, o, come la vuole il Künoltz, petrarchesca, da costituire un vero idilio. Non ci fermeremo a ricercare un’ adeguata risposta a siffatta domanda; accenneremo piuttosto alla tradizione del fatto rimasta in Italia nel secolo XVI. Lodovico Domenichi vissuto dal 1515 al 1564 nel suo dialogo dei Rimedi d’amore narra il fatto, secondo egli l’intese dire, così: « Essendo in Genova il re di Francia Ludovico XII, et essendogli stata lodata per la più bella donna che fusse allora in Italia una gentil donna di casa Spinola, et havendo egli per huomini giudiciosi et molto intendenti di bellezze coloro che gliela havevano lodata, per chiarirsi se era vero il vanto dato a quella nobil donna, et per non essere, come molti altri, ingannato dalle arti et malitie donnesche, disegnò di volerla cogliere alla (1) Debbo alla cortesia ed amicizia- del march. Massimiliano Spinola queste notizie, eh’ ei trasse dalla doviziosa sua raccolta di documenti. GIORNAI E LIGUSTICO 193 sprovista sì eh’ ella non havesse agio, nè comodità di lisciarsi et con artificio accrescere la sua naturai bellezza. Aspettò dunque, senza scoprire la sua intentione a persona, a doverla vedere la mattina per tempo , di’ egli voleva partire di Genova. Et passando con tutta la sua corte dalla casa di lei, che era ancora nel letto a lato al marito, et fattala chiamare in fretta, et venuta alla fenestra, conobbe fermamente, che chi Γ haveva lodata et datole titolo di bellissima donna non havea punto mentito ; anzi confessò che la fama di lei era assai minore del vero. Et di ciò fu certissimo , perchè cogliendola allo improvviso, non le haveva dato spatio d’immascherarsi » (i). Questa narrazione mentre da un lato viene a confermare la fama della bellezza di Tommasina, dall’altro contraddice al racconto del d’Auton, così nella sostanza come nei particolari. Ora essendo provato dai documenti che è affatto insussistente quanto il cronista narra circa la morte della sua eroina, e che per conseguenza può anche ritenersi inesatto ciò che concerne i primi amori, noi piuttostochè al poetico romanzetto tessuto dal d’Auton siamo assai maggiormente inclinati a dar credito alla tradizione tramandataci dal Dome-nichi, come quella che risponde meglio ai costumi dei tempi ed all* indole dei personaggi. Che se vorremo tuttavia esser larghi, e pur concedere qualche cosa al cronista francese, dovremo convenire nella sentenza già espressa con molto acume critico dal Gazzera, il quale toccando del manoscritto di Mompellieri disse quel fatto « non so se storico o favoloso, e forse Γ uno e 1’ altro » (2). Achille Neri. (1) Dialoghi, Vinegia, Giolito 1562, pag. 120. (2) Nella prefazione al Trattato della dignità ed altri inediti scritti di Torquato Tasso, Torino 1838, p. 81. Giorn. Ligustico, cAnno VI. x- 194 GIORNALE LIGUSTICO DELLE VICENDE DELL’ AMERICA MERIDIONALE E SPECIALMENTE DI MONTEVIDEO NELL’ URUGUAY (i). La scoperta d’ un nuovo mondo fatta nella notte fra P 11 e il 12 ottobre 1402 dall’ immortale Cristoforo Colombo, aveva incoraggiato altri valorosi ad avventurarsi sul mare e tentare nuovi viaggi in traccia di paesi ancora ignoti, per cui tanto si illustrò il secolo XVI. Sono celebri nella storia Vincenzo Pinzon, che nel 1499 esplorò il mare delle Antille fino alla linea, e la vastissima foce delle Amazzoni; e il portoghese Cortereal, che nel 1500 visitò le coste del Labrador, scoprendo P estuario del fiume San Lorenzo, e di poi lo stretto di Hudson. Nello stesso anno 1500 Pietro Alvarez Cabrai approdava a caso alla costa del Brasile; e quattro anni dopo, Vasco Nunez esplorava gran tratto di cotesta costa fra 1’Orenoco e le Amazzoni. Lo spagnuolo Ponce de Leon scopriva nel 1512 la Florida, e dodici anni dopo il fiorentino Giovanni da Verazzano, al servizio del governo di Francia, visitava gran parte della costa settentrionale della Florida fino al San Lorenzo, dandole il nome di Nuova Francia. Una audace impresa aveva compimento nel 1519: il fiero Ferdinando Cortes sbarcava al Messico, ed in tre anni 10 conquistava; e nel breve periodo che corre dal 1525 al 1533 Francesco Pizarro e Diego Almagro s impadronivano del Perù commettendovi tali crudeltà, da rendere odiato il nome spagnuolo. L’anno 1534, il francese Giacomo Cartier ripetendo 11 viaggio del Verazzano, e rimontando il fiume San Lorenzo, esplorava il Canada. (1) Memoria letta alla Società Ligure di Storia Patria di Genova il 5 e 19 luglio 1878. GIORNALE LIGUSTICO 19 5 Ma troppo lunga sarebbe 1’ enumerazione di quegli egregi che fidandosi all’ instabile elemento, aumentarono colle scoperte di nuove terre Γ umana famiglia. Solamente, pel compito che mi sono prefisso in questo scritto, io debbo ora trattenermi alquanto a discorrere d’ un uomo che ha un posto ragguardevole nella storia degli scopritori: intendo parlare di Giovanni Diaz de Solis, nominato piloto maggiore dal re di Spagna nel marzo 1512, titolo corrispondente a quello di ammiraglio, in luogo del defunto Americo Vespucci. Da Pinzon e da Solis era stata notata nel loro primo viaggio , fra i capi di Santa Maria e Sant’Antonio nell’America meridionale una vastissima insenatura, la quale al loro ritorno in Ispagna non avevano potuto determinare se fosse un golfo o una baia; pertanto verso la fine del 1514 Solis preparò una nuova spedizione per ratificare il suo riconoscimento. Il giorno otto di ottobre del 1515, egli partì con tre caravelle dal Porto di Lepe. Toccata Tenariffa, passò alla Costa del Brasile; seguendo la rotta del primo suo viaggio, voltò il capo di Santa Maria, e rasentando la costa entrò in una grande baia, nella quale avanzandosi viemaggiormente a fine di conoscere meglio la qualità dell' acqua nella quale navigava, poiché erasi avvistò essere dolce, si trovò in un grande estuario che chiamò Mare dolce, denominazione che più tardi doveva essere mutata in quella di fiume della Piata o d’Argento. Continuando Solis il suo viaggio, incontrò un’isola che fissò al grado 34 40', la quale si suppone sia quella di S. Gabriele, dove lasciò due imbarcazioni; ed egli sopra di un altro bastimento dirizzò la prora verso la costa orientale del continente, sulla quale subito apparvero alcuni indigeni mostrandosi sorpresi dell’arrivo inaspettato di persone straniere. De Solis non temendo veruno inganno sbarcò insieme a due ufficiali e altri suoi compagni, con intenzione di riconoscere il paese, inalberarvi la Croce, e prenderne possesso 196 GIORNALE LIGUSTICO in nome della corona di Castiglia. Ma improvvisamente sbucarono fuori da una imboscata degli uomini armati, i quali tosto saettarono con le loro frecce gli spagnuoli, uccidendo subito il De Solis ed alcuni del suo seguito, e conducendo prigioniero Γ Alfiere Francesco Puerto, che quei selvaggi serbarono vivo pel banchetto del trionfo. Morto il comandante prese la direzione della spedizione Francesco Torres, il quale tornò subito in Ispagna a ragguagliare il governo della importante scoperta fatta, e della morte inaspettata del de Solis, in onore del quale egli chiamo col nome di lui quel mare da esso già appellato dolce. Questa è la prima origine dello scoprimento del territorio della Banda Orientale del fiume Piata, avvenuto circa il 15*6, e che Γ illustre Solis consacrò col suo sangue, additando una via che dipoi venne percorsa da altri, come ora vedremo. Ferdinando Magellano, il 27 settembre 1519 5 con cinclue navi salpò da San Lucar col fermo proposito di tradurre in atto il sogno dorato di Cristoforo Colombo, la scoperta cioè d’un canale interoceanico., che lo conducesse alle Indie orientali. Seguì egli l’istesso itenerario di de Solis, e il 10 gennaio 1520 si trovò al Capo di S. Maria già scoperto da questi; veleggiando poscia a ponente, dopo una lunga fascia di terra mostrossi una bella montagna in forma di cappello, la quale, dice il portolano di Magellano, diede occasione a uno dell’ equipaggio, forse portoghese o catalano, che stava in vedetta sull’albero maestro avvistandola, di esclamare: Mont-vi-eu, io vidi un monte, per cui dipoi resto a quel luogo F appellativo di Montevideo, nome che non molti anni dopo doveva essere dato alla bella città metropoli della Repubblica dell’ Uruguay. Dalla morte di Solis passarono dieci anni senza che la Corte di Spagna si occupasse dei paesi scoperti da lui, essendo tutta intenta alle guerre che in quel periodo di tempo dovette GIORNALE LIGUSTICO 197 combattere; perciò il gran fiume Solis era posto in dimenticanza. Ma cotesta inerzia della Spagna non era imitata dal Portogallo , che s’ adoprava a tutt’ uomo a fine di estendere i suoi possedimenti. Ciò bastò per isvegliare nella Spagna la memoria delle scoperte fatte da Solis, e continuarle. Perciò allesti nel 1526 due spedizioni, le quali dovessero navigare a seconda dell’ esempio dato dal Magellano. Una di queste fu affidata a Sebastiano Cabotto nato in Venezia, ma figlio di quel Giovanni genovese (1) scopritore dell’ America settentrionale per gli Inglesi. A costui era serbato 1’ onore di completare l’opera del Solis,' poiché rimontando il fiume della Piata fino al Paraguay, diede nome ai luoghi visitati, fissò i punti astronomici, eresse fortini a difesa dei luoghi conquistati, anche combattendo con quelle tribù selvaggie. Quindi inviò a Carlo V ricchi doni di oro e argento, come saggio delle ricchezze delle terre esplorate, e accompagnando i medesimi con alcuni indigeni che là abitavano. Arrivato dipoi egli stesso alla Corte amplificò talmente la bellezza delle regioni conquistate, 1’ abbondanza dell’ oro e dell’ argento trovato, che gli fu conferito il grado di piloto maggiore del regno, e al fiume de Solis o mare dolce, fu dato il nome di fiume della Piata 0 d’argento, chè così suona questa parola nella lingua spagnuola, a ricordo della grande quantità di questo prezioso metallo colà rinvenuto. Ma era ormai tempo che il governo di Spagna desse ascolto ai consigli del Cabotto intorno alle nuove regioni acquistate, assicurandone cioè il possedimento con ottimi funzionarli che le amministrassero. Adunque fu deliberato di nominare un governatore con giurisdizione su tutte le pro- (1) C. Desimoni, Relazione sugli scopritori genovesi ecc. letta alla Società di Storia Patria di Genova. Ved. Giornale Ligustico ecc., anno primo, 1874. Genova, Tip. Sordo-muti. 198 GIORNALE LIGUSTICO vincie bagnate dal Piata, con istruzioni che lo stesso avvisasse al modo di ampliare il territorio acquistato e d’istituirvi una colonia, fondasse città, costruisse fortezze, favorisse il commercio e specialmente Γ agricoltura. Il primo governatore Pietro de Mendoza salpò il 24 di agosto 1534, dal Porto di S. Lucar con quattordici navi, alla volta del fiume della Piata. Eragli stato fissato lo stipendio annuo in duemila ducati, e altri duemila ancora da prelevarsi sulle rendite che avrebbe prodotto il paese. La spedizione era composta di 2,650 spagnuoli fra i quali v e-rano persone distinte per sangue e coltura, e otto religiosi pel servizio del culto. Lungo e penoso fu il viaggio, sebbene il Mendoza avesse seguito Γ itenerario del Solis e di Cabotto. Esplorate diligentemente le coste del fiume della Piata, fu stabilito di gettare le fondamenta della prima città della colonia, e questa lu S. Maria di Buenos Avres. il che avvenne il due febbraio 1535* ·» * un compito assai grave e difficile era stato affidato ai supremi moderatori della spedizione, poiché quelle coste erano abitate dagli indiani Querandis, popolo inquieto, bellicoso e assai coraggioso, il quale non s’acquietò così facilmente a lasciare in pace gli audaci invasori. Anzi ruppe tosto con codesti le ostilità non dando loro quartiere di sorta, e tenendo quasi in costante assedio gli spagnuoli, bruciava, quando il destro loro il permetteva, la maggior parte delle nuove abitazioni costrutte da costoro. Ebbero luogo diversi combattimenti, in uno dei quali mori Diego Mendoza fratello del governatore. Come di leggieri si vede, lo stato della nuova colonia era tutt’ altro che soddisfacente. Gli spagnuoli mancavano d’ogni cosa, e le sofferenze si aumentarono ogni giorno. Il governatore, sebbene infermiccio, continuò le sue esplorazioni rimontando il Paranà e il Paraguay, ma ovunque trovò gli GIORNALE LIGUSTICO I99 indiani pronti a combatterlo con accanimento; per cui disperando di ottenere un buon risultato della sua spedizione, nominato a successore di lui Giovanni Ayolas, parti nel 1537 per la Spagna; ma nel viaggio morì. Così ebbe fine il primo governatore del fiume della Piata, lasciando gli abitanti della nuova città di S. Maria di Buenos-Ayres in una situazione disperata. Intanto Ayolas con le sue genti era sbarcato al Paraguay, e onde mettersi in amichevoli relazioni coi Carios, popolo che abitava colà, tentò di fare scambio di viveri coi medesimi; ma alle offerte risposero colle armi. Assalito più volte da costoro ebbe a soffrire gravi perdite; ma gli indiani vedendo dipoi che avevano a combattere con uomini superiori a loro nell’ arte della guerra, offrirono la pace, la quale fu solennemente confermata il 15 agosto del 1536. Uno degli articoli della convenzione stabilì che fosse innalzato un forte nel luogo ov’ erano sbarcati gli spagnuoli, al quale fu dato il nome di Assunzione, in onore della solennità che ricorreva in quel giorno; e fu questo il principio della città che tuttora chiamasi con sì fatto nome. Ayolas continuò le sue esplorazioni, e rimontando il fiume sbarcò il due febbraio 1536 a un porto che chiamò della Candelaria, anche in omaggio della festività che celebravasi in quel giorno, e internandosi fino alle frontiere del Perù, tornò ben provveduto di oro ed argento. Ma qui Γ attendeva una ben trista fine, poiché apparvero in quel mentre i Pa-gaguàs e indiani d’altre tribù, i quali mostrandosi amici, offersero dei viveri agli spagnuoli. Ayolas credette troppo facilmente a coteste dimostrazioni d’ amicizia; e perciò appena egli ed i suoi compagni si abbandonarono al sonno, furono uccisi a tradimento. A lui successe nel comando il capitano Domenico Irala, il quale concentrò subito le sue forze alla Assunzione come punto strategico, per difendersi dagli attacchi incessanti degli indigeni. 200 GIORNALE LIGUSTICO In quel mentre arrivò a Buenos Ayres dalla Spagna una nave con rinforzi e provvigioni, sulla quale era imbarcato il visitatore Alfonso de Cabrera, con istruzioni di Carlo V allo scopo di provvedere all’ordinamento delle colonie che stavano per fondarsi. L’ astuto Irala avendo saputo che il Cabrera pensava di fissare la sua dimora all’ Assunzione, e temendo che ne potesse scapitare la sua autoriti, pensò di tarsi eleggere a governatore della colonia; perciò intesosi cogli amici, l’agosto del 1558 chiamò il popolo nei comizi, e questo rispose, nominandolo appunto all’ ufficio che ambiva. L questa la prima elezione che ebbe luogo in quelle provincie a suffragio universale. Irala però si rese degno dell’ onorevole incarico affidatogli, mostrando somma attività nel combattere le insurrezioni degl’ indiani, e organizzando bene la colonia. Costituì un Consiglio, stabili la pulizia della città, divise i terreni fra la popolazione , costruì le case, autorizzò il pagamento dei tributi, cinse la città con una palizzata onde difenderla dai nemici, fondò un tempio a fine di propagare il cristianesimo, affidandolo alle cure d’ un religioso Francescano. Quei selvaggi nessuna idea avevano dell’ esistenza di Dio, ma solamente le tribù di origine Guarany conoscevano superstiziosamente due spiriti, Γ uno del bene e Γ altro del male, chiamando il primo Tupà e il secondo Anang. Volendo dare maggiore importanza alla nuova città, Irala nell’anno successivo ne aumentò la popolazione richiamando in essa quella che aveva lasciato a Buenos Ayres. Divise la indigena in due classi: obbligò la prima per un determinato tempo al lavoro agricolo; costrinse la seconda a servire i signori, a patto che questi dovessero alimentarla, vestirla e farla istruire nella religione cristiana. Cosi 1’ Assunzione divenne la metropoli della colonia, nelle regioni del Piata. Le ricchezze che dalle medesime traevansi, e la speranza GIORNALE LIGUSTICO 201 di ricavarne delle maggiori avevano eccitato negli spagnuoli il desiderio di avventurarsi in quelle contrade; anzi vi fu persino taluno che offrì al Governo di Carlo V di anticipare il denaro occorrente per fare acquisto di oggetti di vestiario, di munizioni, di bastimenti, insomma di tuttociò che abbisognasse per continuare in quei luoghi la conquista, favorirvi Γ aumento della popolazione e quindi il commercio. Uno di costoro fu Alvarez Nunez Cabeza de Vaca, il quale ottenne dal Governo quanto desiderava, e fu eletto Governatore con autorità di nominare gli ufficiali pubblici, e propagare nel fiume Piata la religione di Cristo. Partì egli da S. Lucar il due novembre 1540 con sette navi, settecento uomini, 46 cavalli e alcuni animali bovini, e il 29 di marzo 1541 arrivò a S. Caterina; ma con due navi di meno perdute lungo il viaggio. In questo porto messi a terra trecento dei suoi uomini e 26 cavalli s’avviò alla volta del Paraguay; le donne e i malati continuarono la navigazione rimontando il fiume. Dopo alquanti giorni di cattivo viaggio, Alvarez passando per luoghi deserti, salendo aspre montagne e avendo guadati torrenti pericolosi, arrivò in fertili pianure abitate dai Guaranis, le quali occupò in nome del re di Spagna, chiamandole provincie di Vera. Traversò poscia il Paranà sulle canoe dei Guaranis, e 1’ undici di marzo 1542 arrivò all’Assunzione: nominato suo luogotenente Irala, attaccò subito e vinse le tribù che s’ erano poste in guerra con lui; dipoi ordinò a costui di recarsi con tre navi a riconoscere la parte superiore del fiume Paraguay. Irala compì felicemente la commessagli spedizione, arrivando il 6 gennaio 1543 ad un luogo che chiamò Porto de los Reyes; ed al suo ritorno Alvarez Nunez intraprese con 400 uomini (settembre 1543) un viaggio alla volta del Perù, a fine di mettersi in comunicazione coi conquistatori di quel paese. Ma dopo pochi giorni dovette retrocedere per la malattia da cui fu colto, per la mancanza di vi- 202 GIORNALE LIGUSTICO veri, la perdita delle guide e il malcontento della sua gente. In questo frattempo Irala, mal sofferendo di ubbidire al nuovo governatore, aveva pensato di formarsi un partito fra i coloni. I modi austeri e risoluti di Alvarez Nunez, specialmente diretti a frenare la cupidigia di quanti volevano arrichire troppo presto colle fatiche altrui nei lavori agricoli, facilmente gli procurarono dei nemici, specie fra i signori. Irala seppe dunque trarre suo prò da questo malcontento, e prestamente organizzò una congiura allo scopo di deporre il governatore. La notte del 24 aprile 1544 duecento congiurati al grido di viva il re, muoia il malo governo, impossessatisi di Alvarez Nunez, lo chiusero in prigione e proclamarono governatore Irala. Questi redatta una mostra di processo, dopo dieci mesi di carcere, deliberò di rinviare in Ispagna il Nunez. Il quale al momento d’imbarcarsi, ad alta voce elesse in sua vece Giovanni de Salazar; se non che questi pretendendo entrare nelle funzioni di governatore, ebbe la stessa sorte di Alvarez. Il governo d’Irala nato dalla insurrezione e dalla violenza, abbisognava d’ un battesimo di riabilitazione che lo legittimasse. Perciò egli si rivolse all’ autorità superiore del Perù, chiedendo alla stessa la conferma nell’ ufficio da lui usurpato. E per rendere ciò più agevole, l’agosto del 1548 partì con trecento spagnuoli e molti Guaranis verso il Perù, alle cui frontiere arrivò in condizioni assai migliori del suo antecessore nel governo; di là inviò ambasciatori a complimentare ed ossequiare La Gasca, capo supremo, sollecitando l’ambita conferma della sua elezione. Ritornò nell’ anno seguente, ma nel viaggio i suoi soldati ammutinaronsi deponendolo dal-P ufficio ; rinnovellando così P esempio dato da lui verso di Alvarez Nunez, e nominando in sua vece Gonzalo de Mendoza; ma nello avvicinarsi all’ Assunzione avendo saputo che colà era avvenuto un cambiamento di governo sfavorevole alle GIORNALE LIGUSTICO 203 loro intenzioni, tornarono all’ ubbidienza d’Irala. E difatti al-1’ Assunzione essendo stata sparsa ad arte la voce che Irala non tornava più, fu nominato governatore Diego de Abreu. E qui avvenne un fatto assai deplorevole. Francesco de Mendoza, uno dei rivali di lui, riuniti i suoi amici tentò rovesciarlo; ma Abreu lo prevenne, e ordinatone l’arresto lo fece giustiziare, macchiando cosi la prima volta il suolo di quelle vergini terre col sangue di un uomo, e per una causa ignobile. Irala intanto arrivò all’ Assunzione : Abreu con alcuni suoi fedeli fuggi nei boschi, abbandonando il potere nelle mani di Irala che subito schiacciate le fazioni formatesi nella sua assenza, si consolidò nel governo. Eccoci pervenuti al 1550 che segna un’epoca fausta per la ricchezza delle provincie del Piata, perchè arrivò dal Perù Nuno de Chaves con quaranta volontari spagnuoli, i quali condussero le prime pecore e capre al Paraguay, e quattro anni dopo dal Brasile giunsero i fratelli Goes portando all’ Assunzione i primi animali bovini, cioè otto vacche e un toro, i quali dipoi moltiplicandosi in modo maraviglioso formare dovevano la principale fonte di ricchezza dell’ America Meridionale. Il re di Spagna confermò Irala nel governo del Piata; e fu apportatore di cotesto decreto fra’ Pietro Ferdinando La-Torre, primo vescovo del Paraguay, che arrivò alla città di Assunzione il 1555. Ma per poco tempo Irala godette dell’ambito onore, poiché due anni dopo venne a morte in età di settanta anni, lasciando incaricato del governo Gonzalo Mendoza , che morì aneli’ esso 1’ anno appresso. Il funesto esempio di guerra civile portoci da Irala ebbe malefiche conseguenze, le quali durano tuttora in quelle regioni; anzi io oserei affermare, che egli gettò quel seme di continue agitazioni rivoltuose alle quali vanno soggette quelle Americane Repubbliche. 204 GIORNALE LIGUSTICO Rimasta vacante per la morte di Gonzalo Mendoza la carica di governatore, il popolo elesse a quell’ufficio Francesco de Vergara genero di Irala. Ma il viceré del Perù, che aveva( giurisdizione anche nel territorio del Piata. non confermò la elezione, invece nominò Giovanni Ortiz de Zarate forse perchè costui offrì di spendere otto mila ducati a favore della conquista, alle condizioni offerte già da altri: e intanto partì per la Spagna onde ottenere 1’ approvazione del Re, lasciando suo luogotenente Filippo Càceres. Eccoci pertanto alla guerra civile. Si formarono due fazioni; capo di una era il vescovo La-Torre, che parteggiando per Vergara ricusava ubbidienza a Càceres; ma fu arrestato mentre era in chiesa, condotto prigione e dipoi rimandato in Ispagna correndo l’anno 1573. La nave sulla quale era imbarcato il vescovo, fu scortata fino alla imboccatura del Piata da Giovanni Garay; il quale al suo ritorno, onde meglio favorire le comunicazioni fra il Paraguay e il Perù, fondò il primo novembre di quell anno istesso la città di Santa Fè, nel territorio abitato dalle tribu indiane dei Calchinès, dei Colastinès e dei Mocoretàs assai docili, per cui facile fu l’impresa. Le relazioni di Garay cogl’ indiani furono per qualche tempo tanto cortesi, che difet-tanto egli di viveri, gli furono provvisti dal cacico Zapicin, celebre nella storia della conquista. Breve però fu l’amicizia; perchè avendo i Charruds fatto prigioniero uno degli spagnuoli, costoro per rappressaglia presero Abayubà nipote di Zapican; e quantunque dipoi avvenisse lo scambio dei due prigionieri, cionondimeno gl'indiani rotta ogni relazione cogli europei, dichiararono loro la guerra. Gli spagnuoli risposero anch’ essi colle armi ; ma soperchiati dalla terribile e numerosa tribù dei Charruis, guidata dallo stesso Zapicàn, da Taboba, da Abayubi e altri valorosi cacichi, furono obbligati a battere in ritirata dopo avere sofferto sensibili perdite. Profittando della notte gli spagnuoli s’imbarcarono lasciando GIORNALE LIGUSTICO 205 il campo in potere dei figli di quel paese che sì valorosamente avevano difeso, i quali incendiarono il fortino costrutto dagli spagnuoli. Dopo avere naufragato in più luoghi, in uno dei quali Garay fu salvato dagli indiani a lui fedeli, egli pose piede a terra e continuò il suo cammino all’ imboccatura del San Salvador. Ma i valorosi Charruds non gli danno quartiere e tornano nuovamente ad assalirlo. Garay radunata la sua gente impegna una zuffa micidiale. I selvaggi caricano con gran forza e vigore gli spagnuoli, ma sono respinti valorosamente da questi perchè più istrutti nell’ arte della guerra ; gl’ indiani combattendo riuniti in massse informi, senza ordine , disciplina e strategia, patirono facilmente una grande strage. La morte però non li spaventa, nè il vedere diradarsi le file dei compagni, che anzi raddoppiano di ardire, e muovono all’ assalto più fieri di prima, facendo prove di gran valore Zapican, Taboba e Abayuba; ma questi due ultimi cadono finalmente estinti in difesa del suolo natio. Allora Zapican si slancia come un leone sui nemici allo scopo di vendicare la morte dei compagni, ma anch’ esso muore combattendo contro gli usurpatori della patria. Più di duecento cadaveri furono trovati sul campo; lo stesso Garay si ritirò ferito al petto; ma risanato si unì a Zorate, il quale aiutato dai Guaranis, che furono consigliati dal cacico Yamandù, nel 1574 fondarono la città di San Salvador, confermando così il nome dato a quel luogo da Cabotto. Ma due anni dopo questa nuova città fu abbandonata, perchè essendo sorte nella colonia intestine discordie causate dai cattivi trattamenti di Zorate, questi venne a morte e dubitossi di veleno propinatogli dai suoi nemici. Prima di morire raccomandò che fosse nominato suo luogotenente interino nel governo il nipote Diego Mendieta, giovine ventenne, lasciando per testamento la carica di governatore a colui che avrebbe sposata sua figlia. Garay combinò questo matrimonio con Giovanni 20 6 GIORNALE LIGUSTICO Torres de Vera y Aragon, uditore di Charcas, e così questi fu il quarto governatore della Piata. Garay ottenne di essere il luogotenente in assenza di lui, con titolo di tenente governatore e capitano generale. Mendieta poi colle sue cattive e violenti maniere fu cagione di molti e gravi danni ; specialmente lasciò in abbandono la popolazione della nascente città di San Salvador, la quale battuta dai continui assalti dei Charruàs dovette nel 1576 ritirarsi al Paraguay. Garay recatosi all’ Assunzione e preso possesso del governo della provincia, rivolse il pensiero a ripopolare la città di Buenos Ayres stata abbandonata, come già dissi, e l’undici di giugno 1580 spiegò colà la bandiera dello Stato. Si adoperò anche per entrare in amichevoli relazioni cogl’ indiani; ma non gli fu tanto facile rendersi benevoli i Querandis 0 Pampas, i quali anzi gli mossero guerra; presto ei li vinse, e fece di loro tale strage che anche oggi il campo ove furono sconfitti chiamasi Μαίαηχα. Essi totalmente si sottomisero, ritirandosi una parte di loro nell’ interno del' paese, altri unendosi a Garay che li distribuì nel lavoro dei campi. Credendo che la sottomissione degli indigeni fosse stata sincera, Garay nel 1584 si recò a visitare le provincie a lui soggette, ed essendosi fermato a pernottare alle rive del Paranà, fu improvvisamente assalito dalla tribù dei Minuanes, i quali l’uccisero insieme a 40 dei suoi compagni, recando i pochissimi salvati la triste notizia a Santa Fè. I successori di lui nel governo continuarono la conquista; ma non trovo fatti importanti da narrare, se non quelli di Hernandarias de Saavedra. Questi nel 1601 avendo tentato pel primo una spedizione nella Patagonia onde soggiogarla, trovò uomini animosi che gli contrastarono il cammino, anzi cadde nelle mani de’ Patagoni, i quali gli risparmiarono la vita. Riuscito a fuggire tornò con nuove forze in campagna, GIORNALE LIGUSTICO 207 e battuti con successo gl’ infedeli, accrebbe il territorio con nuove provincie. Penetrò anche nell’ interno e corse le frontiere del Paranà e dell’ Uruguay ; ma fu battuto talmente da quelle tribù, che difendevano con ostinazione il loro suolo naturale, ch’egli rinunziando a continuare quella impresa scrisse al governo di Spagna consigliandolo di sospendere la conquista per mezzo delle armi, e proponendo invece di vincere quelli animi rozzi colla religione cristiana. I consigli di Saavedra furono approvati dal Governo con decreto del 30 gennaio 1609, e perciò furono inviati colà dei missionarii : primi fra costoro due gesuiti italiani, Simone Mazeta e Giuseppe Cataldini, destinati a evangelizzare la Guàyara. Essendo compito il tempo in cui Saavedra doveva governare, gli succedette Diego Martin Negron, che governò fino al 1615. Intorno a quest’epoca venne dalla Spagna il visitatore generale Francesco de Alfaro ; e resosi celebre per avere abolito il lavoro personale al quale erano obbligati gl’ indigeni , aumentò la conquista e procurò agli stessi i mezzi per istruirli nella religione cristiana. I meriti di Saavedra essendo molto apprezzati dalla Spagna, questa lo nominò per una terza volta al governo del Piata ; ed egli in sì‘fatta circostanza avendo considerato che il territorio sul quale estendeva la sua giurisdizione era troppo vasto, propose che fosse diviso in due governi. Perciò nel 1620 fu creato il nuovo governo con sede a Buenos-Ayres, tanto per le cose civili quanto per le ecclesiastiche, dipendenti però ambidue dal Perù. Saavedra per la sua benefica amministrazione fu colui che decise dell’ avvenire di quelle colonie. Dacché San Salvador era rimasto deserto di popolazione, nessun’ altra città era sorta nella Banda Orientale fino al 1622, nel cui territorio abitavano gl’indiani Charruàs, Yaros, 2θ8 GIORNALE LIGUSTICO Minuanes e Chanàs. Questi ultimi da certe isole ove abitavano, esistenti nell’Uruguay, chiamate del Vizcaino e Fran-ciscane, eransi trasferiti in quel tempo al mezzodì di San Salvador; ma molestati dai Charruàs tornarono a quelle isole, e nel 1622 per mezzo dei loro cacichi invocarono la protezione del governo di Buenos-Ayres. Il quale raccomandò la conversione di costoro ad alcuni missionari, mosso a ciò dal buono esito ottenuto dalle missioni nella Guayara, le quali due anni innanzi aveva cominciato il padre Rocco Gonzalez di Santa Croce, protomartire del Paraguay alla Concezione dell’ Uruguay. Posteriormente, nel 1625, il governo si valse di tre religiosi Francescani, a fine di continuare la missione nel territorio Orientale. Questi missionari, fra i quali era fra Bernardo di Guzman, si diressero all’Uruguay ove fecero molte conversioni e stabilirono missioni; e nel 1650 fondarono tre cappelle. Dopo quel tempo la Banda Orientale del fiume della Piata fu destinata agli abitanti di Buenos-Ayres onde si provvedessero di combustibile e di legname da costruzione, ed anche a cagione della eccellenza dei suoi pascoli e abbondanti acque, per pascolarvi gli armenti. Perciò per molto tempo essi si astennero dal popolare quei luoghi, supponendolo un ostacolo alla pastorizia. Quindi col prosperare Γ agricoltura e Γ allevamento del bestiame, incominciò la manipolazione del cuoio, stabilendosi apposite fabbriche alle rive dei ruscelli e dei fiumi nei quali riunivasi gran quantità d’ essa merce. Coteste fabbriche s’impiantarono col consenso del governo di Buenos-Ayres, a condizione però che la terza parte andasse a beneficio di lui. Dalla pubblicazione della R. Cedola del gennaio 1609, già nominata, erano state fondate varie Missioni nel vasto campo della conquista col titolo di Commende, le quali andavano a totale beneficio dei conquistatori laici. Ma erano già trascorsi GIORNALE LIGUSTICO 209 venti anni dalla promulgazione della medesima, e in tutto il territorio conosciuto non esistevano che diciasette ecclesiastici, i quali ignari della lingua parlata dagli abitanti , poco o nulla aveano ottenuto dalla istruzione religiosa impartita ai figli del deserto. Nel corso del secolo XVI erano istituite dai capi che dirigevano la conquista altre trentanove missioni per gl’ indiani nel governo della Piata, incluse quelle della Guayara eh’ erano tredici. A queste, appena entrati nel secolo XVII, furono aggregati 708 villaggi o parrocchie spagnuole, per cui il numero dei sacerdoti eh’ erano addetti alle medesime in sì vasto territorio era deficiente. Per la quale cagione, in virtù di detta R. Cedola, fu creduto opportuno di chiamare i Gesuiti. Costoro vennero nei primi anni del secolo XVII, quando già erano state stabilite nei varii punti della conquista più di sessanta missioni. Due di loro furono destinati ai tredici paesi della Guayara, e ad altri luoghi. Con questi aiuti e altri che arrivarono dipoi, le missioni si aumentarono e fondaronsi nuove sedi di catechizzanti; cosicché nel 1640 la cifra delle missioni guaranitiche era aumentata di venti villaggi diretti dai PP. della Compagnia. Questi cominciarono a dirigere le missioni con diverso sistema di quello adottato dai conquistatori laici e dai religiosi Francescani. Soppresero le Commende, stabilirono il regime di vita comune rendendo obbligatorio il lavoro degl’ indiani in loro favore e prescrivendo la obbedienza ai Curati della dottrina, i quali erano incaricati di percepire i frutti del loro lavoro, e alimentare i neofiti. Ogni villagio 0 parrocchia era obbligata a contribuire con cento pezzi forti annuali in favore della massa delle decime. Gli abitanti poi godevano il privilegio di non pagare diritti di sorte, per cui andavano fuori del territorio a vendere i loro prodotti; pagavano invece al tesoro regio un pezzo forte per tributo annuale per ogni in- Giorn. Ligustico, aitino VI. 14 210 GIORNALE LIGUSTICO dividuo dai diciotto ai cinquanta anni di età, il di cui prodotto era poi convertito a sostentare i Curati della dottrina, i quali riscuotevano per ognuno lo stipendio o assegno annuale di seicento pezzi. Questa popolazione era continuatamente osteggiata dai Mamelucchi di San Paolo, colonia Portoghese formata dei malfattori deportati dal Portogallo al Brasile, allo scopo di impossessarsi degl’ indiani e venderli dipoi come schiavi. Ciò diè luogo che nel 1641, essendo governatore di Buenos-Ayres e sua giurisdizione Ventura Mujica, avvenisse il memorabile combattimento di Acaraguay contro i Mamelucchi e i Tupis, i quali miravano a impadronirsi delle missioni dell’ Uruguay, nel quale i Guaranis lottarono due giorni valorosamente facendo uso di armi da fuoco e di cannoni coperti di cuoio. La vicinanza dei Mamelucchi era stata sempre fatale agli abitanti della Guaiara, del Paraguay e Uuruguay, soffrendo costoro frequentemente i loro assalti, il cui oggetto era di distrurre il popolo Guaranitico e impadronirsi degl’ infelici indiani per venderli. Questi cattivi vicini, dopo di avere distrutti nel corso di venti anni ventidue paesi di Guaranis estesi sopra il Salto grande del Paranà, e anche più abbasso, e altri popoli spagnuoli limitrofi, tentarono d’ impadronirsi delle missioni dell’ Uruguay. A questo fine riunitisi 400 Mamelucchi e altri tre mila Tapés, si recarono su trecento canoe pel fiume Uruguay continuando per i fiumi Acaraguay e Mbororò, ove combatterono coi Guaranis riuscendo questi vittoriosi. Questa ed altre sconfitte toccate ai Mamelucchi non bastarono a contenerli. Riunendo essi nuovi elementi si diressero dipoi alle missioni dell’ Uruguay e del Paranà, ma furono sempre respinti. Gli Spagnuoli avevano abbandonate quelle lontane regioni al pacifico governo dei missionari cristiani; mentre i conquistatori preferivano volgere la loro attenzione alle popolazioni GIORNALE LIGUSTICO 211 più vicine all’ imboccatura del Piata. E così accadde che i Mamelucchi di S. Paolo poterono perseguitare e annientare in molta parte le missioni Guaranitiche fondate e catechizzate dai Gesuiti, facendo scomparire in un quinquennio più di 300 mila indiani che condussero al Brasile in servitù. La Spagna e il Portogallo che avevano dominato per tre secoli· il nuovo mondo, vennero a contesa circa alla estensione dei loro domimi. La questione aveva avuto origine pel trattato di Tordesillas, il quale non precisava bene il territorio, nè fissava i punti che dovevano segnare la linea divisoria, per cui i Portoghesi posero le loro bandiere a Santa Caterina come limite di loro giurisdizione. Non contenti di ciò nel 1679, incoraggiati dalle scorrerie dei Mamelucchi sulla Guayara e le coste dell’ alto Uruguay, tentarono d’ introdursi furtivamente nella Piata, cercando di estendere il loro dominio sul mare. A questo scopo Emanuele Lobo governatore di Janeiro venne con truppa, artiglieria e lavoranti, e il i.° gennaio 1680 occupò un punto della costa orientale di fronte all’ isola di S. Gabriele, ove costrusse un forte e collocò la colonia del Sacramento. Governava la provincia del Piata Giusepe del Garro , il quale essendo a cognizione dell’avvenuta occupazione, mandò le sue proteste a Lobo, alle quali esso rispose : che i Portoghesi dimoranti al Brasilè avevano il permesso dal loro Sovrano di occupare e popolare nuove terre disabitate, e che col consenso dell’ autorità di Rio Janeiro era andato in cerca d’ un porto ove stabilirsi, e che nessun altro fuori di quello eragli parso a proposito. Continuarono ambidue a contendersi il diritto al possesso di quelle terre, però nulla conchiudendo; per cui Garro risolvette di cacciare gl’ intrusi colla forza affidando questo incarico al maestro di campo Vera Mujica, che alla testa di 300 Spagnuoli e tre mila Guaranis, attaccò il 7 agosto 1680 212 GIORNALE LIGUSTICO la nuova colonia. I Portoghesi ributtarono per ben tre volte gli ostinati Guaranis; ma questi riordinatisi subito tornarono con nuovo ardore all’ assalto incoraggiati dal loro cacico Amandaù, e aiutati nel combattimento dagli Spagnuoli, presero la colonia facendo prigioniera la guarnigione col loro comandante. Incoraggiato dalla Francia, il Portogallo reclamò. La Spagna rispose affermando il suo buon diritto; ma finalmente Carlo II cedendo all’ impero delle circostanze, per convenzione del 7 maggio 1671 acconsenti che il Portogallo restasse nella colonia solamente come depositario, e ciò fino a tanto che non fosse risoluto il legittimo possesso dai commissari a tal uopo nominati. Questi difatti riunivansi a Badajoz, ma nulla conchiusero. Allora la Spagna fece ricorso al Papa, invocando da lui una definitiva sentenza. Il Portogallo all’ opposto non fece atto veruno in proposito, ma allegando il diritto di possesso tenne in sue mani la colonia del Sacramento; aumentò le forticazioni, e fece di quel luogo un centro di contrabbando. Nella guerra di successione avvenuta nel 1704 avendo il Portogallo parteggiato per l’imperatore d’Austria, il viceré di Lima ordinò ad Alfonso Valdez Inclan governatore del Piata di cacciare i Portoghesi dalla colonia. Era questa perfettamente fortificata e ben difesa, perciò poteva opporre vigorosa resistenza. Baldassare Garcia Ros parti da Buenos-Ayres nell’ottobre 1704, con tredici compagnie di soldati e 4 mila Guaranis, e cinse con rigoroso assedio la colonia, mettendo in posizione sei batterie. La guarnigione si difese valorosamente. Arrivò in questo tempo dal Brasile un bastimento da guerra con viveri, munizioni e uomini. Garcia Ros ordinò che contemporaneamente si desse Γ assalto per terra e per mare, e una notte mandò ad abbordare la nave nemica, ordinando nel tempo istesso che due mila Guaranis attaccassero i baluardi della fortezza. GIORNALE LIGUSTICO 2X3 La nave portoghese si difese, ma fu vinta e costretta a mettersi alla vela. Lo stesso governatore Inclan fu visto accorrere personalmente sul luogo del combattimento ove più ferveva la pugna. Da Rio Janeiro arrivò nuovamente una piccola squadra di legni leggeri onde rinforzare il presidio, nè fu possibile impedirne l’entrata in porto. Gli assediati profittarono dell’ occasione che loro si presentava per abbandonare la piazza. Messo fuoco agli edifizi, nel 1705 s’imbarcarono lasciando in potere del vincitore tutta 1’ artiglieria, e quel luogo nel quale erano dimorati ventidue anni. Dopo dieci anni questo possedimento tanto contrastato, e eh’ era costato tanto sangue, fu restituito al Portogallo pel trattato d’Utrecht avvenuto nel 1715 fra le due potenze, riservandosi la Spagna di proporre entro un anno un compenso equivalente o la permuta. In conseguenza di ciò a dì 4 novembre 1716 ne fu fatta la consegna al comandante portoghese Emanuele Gomez Barbosa, che vi si stabilì con truppa e alcune famiglie. Ma pretendendo costui di estendere i confini oltre i luoghi convenuti, il governatore Garcia Ros vi si oppose e assegnò al portoghese il territorio compreso entro il tiro del cannone. ' Fu costume dei conquistatori fino dal principio del loro arrivo, di preferire d’ innoltrarsi fino al Paraguay e alle missioni, lasciando abbandonate le rive alla foce del Piata; dipoi quando tentarono di popolare S. Giovanni e S. Salvador, non prestarono a queste popolazioni tutta 1’ attenzione che meritavano, volgendo invece preferibilmente i loro pensieri alle colonie esistenti nei luoghi molto lontani e interni. Fu questo, senza dubbio un errore, che troppo tardi fu riparato. Le sponde del territorio della Banda Orientale del fiume Piata, restarono spopolate e inermi molti anni avanti e dopo della fondazione di Buenos-Ayres; per cui più d’ una volta i corsari si mostrarono alla imboccatura di quel gran fiume, 214 GIORNALE LIGUSTICO e tentarono nei primi anni della fondazione di quella città d’impossessarsene. Dall’ anno 1587 nel quale comparve in quei mari il terribile pirata inglese Tomaso Cavendisch, fino al 1701, diversi corsari si diressero al fiume Piata, attirati dall’ interesse che cominciava a offrire il traffico d’ esportazione di alcuni prodotti animali. Questo corseggiare fatto già dagl’ Olandesi, dai Portoghesi, e da popoli di Danimarca, come da Osmat e La-Fontaine, fu cagione che la Spagna inviasse in quei mari del mezzogiorno una flotta onde estirparlo. Nel 1717 comparve il francese Stefano Moreau con quattro navi ancorandosi sulla costa di Maldonado, e ivi cominciò ad ammassare dei cuoi, favorito in ciò dagl’ indiani Gue-noas, che volentieri alimentavano quel traffico clandestino. Era il giorno undici luglio di quell’ anno, ed era appena entrato in carica di governatore del Piata il maresciallo di campo Bruno Maurizio di Zabala, il futuro fondatore di Montevideo, che avendo questi saputo dell’ arrivo di Moreau alla costa della Banda Orientale, ordinò a Blas de Leso che colle imbarcazioni armate le quali teneva a Buenos-Ayres andasse a cacciarlo. Questi adempì al suo mandato con tanto buon esito, che catturò due delle navi di Moreau, essendo fuggite le altre. Moreau comparve nuovamente nel 1720, e profittando del-1’ abbandono in cui era la costa Orientale sbarcò a Castillos alcuni dei suoi, i quali fatta amicizia coi Guenoas raccolsero nuovamente dei cuoi, nel mentre che Moreau fortificavasi a Maldonado. Informato Zabala d’ ogni cosa , mandò il capitano Giuseppe Echaurì con un distaccamento a combattere gl’ intrusi. All’ approssimarsi soltanto di costui, essi s’imbarcarono abbandonando quattro pezzi di cannone e le baracche nelle quali alloggiavano. Dopo alcuni mesi, supponendo Zabala che fossero andati GIORNALE LIGUSTICO 215 a ricoverarsi in Castillos, ordinò al capitano Antonio Pando e Patino che con cinquanta veterani, e alcuni militi e Chanàs delle Missioni di Soriano esplorasse la costa orientale e mandasse via da quella i francesi venuti con Moreau, in qualunque luogo essi fossero stabiliti. Sorpresi in Castillos, il 25 maggio, s’impegnò tosto un combattimento nel quale fu ucciso Moreau e i compagni di lui s’ arresero a discrezione ; i Guenoas fuggirono talmente in rotta che taluni di loro si cacciarono in mare, ove furono inseguiti dai valorosi Chanàs i quali ne fecero strage con le loro ben dirette freccie. Dopo questo nessun altro tentativo fu ripetuto sulla costa Orientale, fino al 1723 in cui i Portoghesi occuparono la baia di Montevideo. In conseguenza dei fatti accennati, il governo di Spagna ordinò al governatore del fiume Piata di dare le disposizioni necessarie a fine d’impedire che nè il Portogallo nè alcun’ altra nazione s’impossessasse dei porti di Maldonado e Montevideo, procurando di popolarli e fortificarli nel modo migliore che fosse possibile. Zabala per mancanza di mezzi non potè dare le disposizioni contenute nel decreto del 20 gennaio 1720. Il sistema restrittivo che pesava sul commercio delle nascenti colonie era d’ ostacolo al loro progresso , privandole degli espedienti necessari, impedendo la libera esportazione dei loro prodotti, elevando a prezzi favolosi gli oggetti consumo e fomentando in ultimo il contrabbando che facevasi dagli abitanti della colonia del Sacramento. Erano serie le difficoltà colle quali il governo di Zabala doveva lottare, per cui assai male poteva attendere alla si-cruezza della riva orientale del Piata. I Portoghesi d’altra parte malcontenti pel limitato territorio che occupavano in quella colonia, diressero le loro mire a un altro punto, e questo fu la penisola di Montevideo. Approdò in quella nel 1723 una nave portoghese di cinquanta cannoni, accompagnata da altre tre navi minori, sotto 2l6 GIORNALE LIGUSTICO il comando di Emanuele de Norona, con il maestro di campo Emanuele da Freitas Fonseca. Impossessatisi di quel luogo importante, v’ innalzarono diciotto tende per alloggiarvi, e cominciarono a fortificarlo sbarcando trecento uomini. Ivi rimasero alcuni mesi, nei quali ricevettero dal governatore della colonia del Sacramento, Antonio Pietro Vasconcellos , soccorsi di gente, di cavalli e di bestiame. Zabala ricevette la notizia di quella occupazione il giorno i.° di dicembre da uno assai pratico del fiume , e immediatamente mandò alla guardia di S. Giovanni il capitano Echauri, con lettere pel capo della Colonia, domandando ragguagli sul fatto del quale era stato informato. Prevenne anche i capitani Alfonso de Vega e Francesco Cardenas, che se al ritorno di Echauri fosse questo confermato , Vega si recasse al porto di Montevideo e chiedesse ai Portoghesi la cagione di quella novità. Il sette dicembre Vega fu al luogo indicatogli, e in pochi giorni lo raggiunsero duecento cavalli. Fece sapere al capo portoghese che non poteva permettere ch’egli dimorasse in quel luogo, e che aveva ordine di fornirgli ciò che gli abbisognava per la sua partenza. Frattanto scambia-ronsi alcune note fra il governatore Zabala, Vasconcellos e Freitas Fonseca, intorno alla occupazione, rispondendo in ultimo il comandante portoghese, che era venuto con ordine espresso del suo Sovrano a prendere possesso delle terre che credeva di suo dominio senza disputa. Allora Zabala si dispose a cacciarlo colla forza. In trenta-quattro giorni armate ed equipaggiate quattro navi di registro, fra cui una inglese, salpò il 20 gennaio 1724 da Buenos-Ayres. Il cattivo tempo che sopravvenne non permettendogli di seguire il viaggio, Zabala si fermò a S. Giovanni ; e di-sponevasi a continuare per terra il cammino, ordinando alla flotta di raggiungerlo appena il vento fosse stato favorevole e migliorato il tempo, quando ricevette da Freitas Fonseca GIORNALE LIGUSTICO 217 una lettera che lo informava della sua partenza avvenuta il 19, per non rompere la pace, diceva egli, e anche a riguardo degli apparecchi che sapeva avere fatti lui per attaccarlo. Cosi mercè alla energia ed all* attività addimostrata da Zabala nel sostenere i diritti della Corona di Spagna, ebbe termine il tentativo d’impossessamento di quel luogo ove due anni dopo gli Spagnuoli fondarono la città di Montevideo. Zabala s’ avviò verso la baia di Montevideo, accompagnato da due imbarcazioni comandate da Salvatore Garcia Posse, e si iermò ov’ era Alfonso Vega col suo distaccamento; sbarcata 1' artiglieria e alcuni uomini, s’ accinse a fortificare il luogo onde occuparlo permanentemente. E difatti vi si fermò con cinquanta cavalli, sessanta fanti e una compagnia di volontari con trenta circa Guaranis, che destinò alla cura della greggia. Sotto la direzione dell’ ingegnere Domenico Petrarca nel febbraio 1724 cominciò a costurre una batteria sulla punta della baia verso Ponente, ove attualmente è il forte S. Giuseppe, con intenzione di difendersi da ulteriori tentativi di straniere usurpazioni. Zabala aveva avviati per bene cotesti lavori, e già montati quattro pezzi, quando ebbe avviso che la notte del 23 feb-fraio era stato avvistato un naviglio il quale faceva rotta al porto di Montevideo. La domane si conobbe essere un bastimento da guerra portoghese, che gettò Γ ancora vicino alla batteria. Era questa la nave S. Caterina di 32 cannoni proveniente da Rio Janeiro, con 130 uomini di rinforzo alla guarnigione del ridotto costrutto poco innanzi da Freitas Fonseca, ignorando che i suoi 1 avessero evacuato, e assai lontano da pensare d’incontrarvi gli Spagnuoli. Dalla batteria fu sparato un colpo di cannone senza palla, e issata la bandiera bianca onde chiedere spiegazioni e protestare. La nave si avvicinò e allora le fu chiesto perchè si trovasse nel porto ; ma accostatasi di più e conosciuto nel luogo ove 2l8 GIORNALE LIGUSTICO stava Zabala, che eravi inalberato il vessillo di Spagna, ammainò subito la bandiera e si mise alla vela. Ma Zabala le mandò dietro una lancia a inseguirla, la quale arrivò a darle caccia. La nave allora cominciò a sparare con palla, ma avendo risposto la batteria con tre cannonate, cessò il fuoco. Dalla nave fu vista staccarsi una lancia con un ufficiale, il quale scese a terra a spiegare la cagione dell’ arrivo. Zabala inviò loro a bordo alcuni vitelli: il comandante del legno portoghese rispose ringraziando, e finalmente il giorno 26 partì. L infaticabile Zabala continuò la costruzione della batteria sulla quale collocò dieci pezzi, quattro del calibro di 24 e sei da 18. Il 25 di marzo arrivarono mille indiani Tapés, che aveva mandati a chiedere alle Missioni, e il giorno seguente gli stessi furono applicati al lavoro delle altre fortificazioni già tracciate. Zabala il due di aprile tornò a Buenos Ayres, lasciando 110 uomini di guarnigione coi rispettivi uffiziali e i mille indiani armati, come custodi del luogo sul quale inalberò la bandiera di Castiglia. Da questa città informò la Corte di quanto era seguito onde provvedere alla sicurezza del porto di Montevideo, facendo nota anche la necessità di ricevere dalla Spagnai nuova gente da guerra, essendo insufficiente quella che aveva onde difendere tanti posti. La conoscenza di questi fatti, il sospetto con cui la Corte di Madrid guardava lo stabilirsi dei Portoghesi nella colonia del Sacramento, e il timore che più tardi questi potessero impadronirsi dei punti importanti di Montevideo e Maldonado, decisero il governo a pensare molto seriamente a popolarli. Le disposizioni date in questa circostanza da Zabala ebbero piena approvazione dal Governo, che gliela notificò con decreto del 16 aprile 1725. Gli fu anche ordinato che per tutelare la difesa dei porti di Montevideo e Maldonado fossero GIORNALE LIGUSTICO 219 inviati colà, su apposite navi comandate da Francesco Alzay-bar, duecento uomini di cavalleria e altrettanti di fanteria; e che sulle stesse s’imbarcassero cinquanta famiglie, venticinque delle quali tolte dal regno di Gallizia e altrettante dalle isole Canarie, le quali dovevano recarsi a popolare i luoghi accennati. Al viceré del Perù e ai governatori del Chili, di Tucuman e Paraguay, furono impartiti ordini affinchè dessero a Zabala quegli aiuti dei quali poteva abbisognare, e particolarmente onde ognuno nel distretto di sua giurisdizione invitasse le famiglie ad accorrere, insieme a quelle che s’ aspettavano dalla Spagna, a popolare Montevideo e Maldonado. Eguale invito fu mandato alla città di ~ Santa Maria di Buenos-Ayres, aggiungendo essere di suo proprio interesse che si popolasse la campagna della Banda Orientale, alla quale era necessario di ricorrere per la mancanza di armenti, onde già sentivasi penuria in Buenos-Ayres. E per mandare a effetto le disposizioni suddette e ad un tempo proteggere il commercio, la Corte di Spagna stipulò un contratto con Alzaybar il 3 luglio 1725, e con decreto del 13 agosto gli conferì il titolo e la patente di capitano di mare e di terra, con facoltà di visitare e catturare tutte le navi che avrebbe incontrate in quelle acque delle Indie con oggetti d’illecito commercio. Zabala dovette recarsi per breve tempo al Perù onde assecondare gli ordini di quel viceré, cioè sottomettere Ante-quera e ristabilire Γ ordine ivi turbato. Arrivò il 29 di aprile 1725 all’Assunzione; mise in possesso del governo Martino Barrua ; reintegrò negl’ impieghi coloro eh’ erano stati destituiti da Antequera; restituì le proprietà confiscate da lui, e lasciando tutte le cose nell’ ordine primiero ritornò a Buenos-Ayres per occuparsi della fondazione di Montevideo. Era già passato Γ anno, senza che fossero arrivate dalla Spagna le famiglie che Francesco Alzaybar doveva condurre 220 GIORNALE LIGUSTICO a popolare Montevideo; ma Zabala, sperando sul loro arrivo, procedette alla fondazione della città. E a mandare ciò in effetto, incaricò Giuseppe Gomez de Melo di togliere da Bue-» nos-Ayres le prime famiglie che desideravano recarsi alla nuova città. Nei primi giorni dell’ anno 1726, diede commissione al capitano dei corazzieri Pietro Millan di costituire la nuova popolazione di Montevideo; e questi adempì al suo mandato il 20 di gennaio di quel medesimo anno; sotto i nomi protettori dei santi Filippo e Giacomo (nome il primo dell’ allora regnante‘sovrano Filippo V), collocando le primissime sette famiglie di abitatori provenienti da Buenos-A}rres, alla riva del porto, e in luogo acconcio onde ripararle dalle intemperie. Eccone i nomi, la patria e il numero dei componenti ciascuna famiglia. r. Giuseppe Gomez de Melo di Buenos-Ayres, la sua sposa Francesca Carrasco e due di famiglia. 2. Bernardo Gaytan di Buenos-Ayres, aiutante di cavalleria, la sua moglie Maria P. Carrasco e sette di famiglia. 3. Sebastiano Carrasco di Buenos-Ayres, soldato di cavalleria, sua moglie Domenica Rodriguez e due di famiglia. 4. Giorgio Burgués di Genova, sua moglie Maria Carrasco e quattro di famiglia. 5. Giovanni Antonio Artigas di Zaragoza, sua moglie Ignazia Carrasco e quattro di famiglia. 6. Gio. Battista Callo di Nantes, sua moglie Isidora Dunda e due di famiglia. 7. Gerolamo Pistolete, soldato di cavalleria, con la moglie della quale non esiste il nome. Pietro Gronardo. Dallo elenco di queste famiglie appare che un genovese, Giorgio Burgués, sia fra i primi abitatori di Montevideo; ma nella metropoli della Ligure Repubblica vi furono mai delle famiglie chiamate Burgués? Come ben si vede Burgués, come è scritto, è cognome italiano accomodato all’ indole GIORNALE LIGUSTICO 221 della lingua spagnuola, poiché la seconda sillaba gue dovendosi pronunziare ghe (i), ci dà chiaramente tradotto in italiano il cognome Borghese , o come pronunziasi in ispagnuolo Burghés. Ora questo cognome è annoverato fra le antichissime famiglie genovesi da Agostino Della Cella (2) in questo modo : « Borgesi, che Borghesi e Burgeri detti furono, et ora volgarmente Borzesi nominati sono, devon dirsi antichissimi genovesi cittadini; non so se venuti da Rapallo o pure da Genova in Rapallo trasferiti, dove trovasi assai moltiplicata detta famiglia. » 1x88. Lamberto Burgerio fu uno delli 998 consiglieri sottoscritti nella Pace Pisana. » 1682. Prete Antonio Borzese Heironymi, di Rapallo, fu prima maestro nel Seminario di Genova, indi Prefetto in quello di Tivoli, all’ ultimo Rettore in Genova di S. Vincenzo. Fu poeta et oratore insigne, e vedonsi di esso alle stampe qualche poesie, et una orazion funebre fatta in Tivoli nella morte del Cardinal Marcello Santacroce Vescovo di quella città. » 1683. G. B. Borzese avvocato, fu Vicario in Rapallo. » 1747. Bartolomeo Borzese arrolato nella Compagnia dei Capitani molto in fatti si distinse con gran valore in difesa della Patria. Fattosi poi prete di S. Filippo, visse con grande esemplarità di vita. » 1752, 53 e 57. Gio. Bernardo Borzese fu notaro attuaro in Rapallo, poi in Chiavari. « Molti altri di Borzesi furono e sono di notari, mercatanti, et ecclesiastici sotto varia condizione ». (1) Ved. Grammatica della lingua spagnuola ecc. dell’ab. D. Francesco Marin, a pag. 5; Milano, per Giovanni Silvestri, 1837; in 8.°. (2) Della Cella Agostino, Famiglie di Genova ecc., voi. 1, pag. 105-107. Manoscritto esistente nella Biblioteca Universitaria. 222 GIORNALE LIGUSTICO Il P. Amedeo Vigna (i) riporta inoltre fra le epigrafi di S. Maria di Castello la seguente : Sedem hanc cineribus suis ET SUORUM ANTE HAC A BaPTINA BuRGENTIA PREPARATAM Philippus de Burgentio eius memorie renovavit anno 1648. « È la sola lapide, scrive l’autore, rimasta finora a si#» luogo nel primo chiostro che dà adito alla chiesa. Il Giscardi nel riferirla non aggiunge altro, e noi non ne sappiamo più di lui. L’insegna gentilizia reca uno scudo intersecato da fascia in linea diagonale, con leone coronato e brandente un ferro ». Ricordando poi le sepolture proprie di alcune famiglie genovesi, esistenti nella stessa chiesa, senza iscrizioni, al numero 308 dice così: « Bernese. Di questa famiglia popolana e ignota alla storia avevamo il deposito nel primo chiostro. Lo vedo citato sotto il giorno 29 dicembre 1656, in cui Maria Caterina, moglie di Bartolomeo Borzese, era seppellita entro il presente avello; così pure Nicolò, q. Lorenzo, ai 3 gennaio 1688, e Pellegrina ai 28 novembre 1689 » (2). Confermato quanto asserisce lo storico Americano (3) che mi fu guida in questo mio scritto, intorno all’ origine genovese di Giorgio Borghese, con 1’ autorevole sentenza di due nostri benemeriti scrittori, aggiungerò che il trasportare nella lingua spagnuola il cognome italiano fu vezzo di quell’ e- (1) Vigna, Illustrazione storica, artistica, ed epigrafica dell’ antichissima chiesa di S. Maria di Castello in Genova ; Genova, 1864; pag. 30/. (2) Op. cit. j pag. 415. (3) Isidoro De Maria, Compendio de la historia de la Reptihlica Orientai del Uruguay, 3 edicion; Montevideo, 1872, vol. 1. GIORNALE LIGUSTICO 223 poca, anche perchè la Spagna essendo gelosissima che persone d altra nazione si recassero in America nelle nuove legioni conquistate per popolare le provincie della Piata, radunò famiglie dalla Lombardia e dal Napoletano ov’ essa dominava, a queste dette la cittadinanza spagnuola, e potrebbe darsi che allora talune di esse avessero accomodato nella lingua di quella nazione il cognome italiano, forse colla speranza di rendersi più benevoli i nuovi padroni. Ma tornando a bomba, dirò con lo storico suddetto (1) che Giorgio Borghese di diritto fu il primo abitatore di Montevideo, poiché fu il primo che coltivò il suo terreno e piantò in quello degli alberi ; e allora quando nel 1726 appare nel novero dei primi abitatori, consta dal libro della misurazione e riparto delle terre alla fondazione di Montevideo, che egli abitava colà fino dall’anno 1724 in una casuccia di pietra, e che al farsi le misurazioni delle quadre (2) o appezzamenti di terreno che dovevano ripartirsi nel 1726, si conobbe che quello ove egli abitava era già coltivato a orto e alberato. Stabilite queste sette famiglie come principio della nuova popolazione, Pietro Millan d’ordine di Zabala continuò i lavori di fortificazione onde aumentare le opere attorno alla batteria costrutta nel 1721, impiegando in essi i mille indiani Tapés condotti da Zabala, nel mentre che l’ingegnere Francesco Cardoso delineava alcuni rettangoli sulla riva del porto nei quali dovevano edificarsi le prime abitazioni. Quindi il 24 dicembre 1726 procedette a segnare i limiti di giurisdizione della città di Montevideo, le sezioni di terreno che dovevansi assegnare in parti eguali agli abitanti, e fis- (1) Id., pag. 81. « Jorge Burgués, en derecho, fué el primer poblador de Montevideo, el primero que cultivò su tierra y piantò en ella arboleda «. (2) La cuadra di cento vare è metri 85,900. 224 GIORNALE LIGUSTICO sare i rispettivi confini di ciascuna proprietà. E queste sezioni furono 32 quadre di cento vare (1) quadrate ciascuna, col-Γ intervallo fra loro di dodici vare di strada. Nel tempo istesso fu regolato lo scolo delle acque dalla piazza maggiore, luogo il più elevato, ora piazza della Costituzione, in direzione ai due mari, ai quali dovevano correre le strade. Nè fu obbliato di stabilire regole fìsse circa le servitù, e lasciare appositi luoghi ove edificare la chiesa parrochiale e F alloggio pei ministri del culto. Terminata la misurazione e la divisione delle quadre nelle quali dovevasi dividere la città, si passò , per estrazione a sorte, all5 assegnazione dei terreni. Il terzo ripartimento o quadra toccò intero a Giorgio Borghese, poiché per ìspeciale decreto del governatore egli abitava in quello già da tre anni, e in una casa di pietra coperta di tegole, con stanze, sotte-ranei e orto alberato. Ultimato il 15 gennaio 1727 il riparto dei terreni, Millan notò in apposito registro il nome delle famiglie in ordine di anzianità, nominò il capitano Francesco Antonio de Lemus comandante del distretto, e stabilì le feste principali da osservarsi dagli abitanti di Montevideo. Un’ altra partizione di terreni fu fatta il 18 marzo di quell anno, ai due lati del torrente Miguelete o dei Migue-leti, di 38 pezzi della misura da 200 fino alle 400 vare di fronte per una lega (2) di profondità, ad altrettanti 38 abitanti, come consta dal registro ufficiale di quel tempo. È noto del pari che in quella circostanza un Giuseppe Borghese ebbe la sua porzione di 400 vare, e penso che costui fosse figlio al nostro Giorgio. L’ incremento della popolazione fu lento il primo anno, ma qualche mese dopo altre sei famiglie giunsero dalle Ca- (1) La vara è circa cent. 86 ’/4. (2) La lega è metri 5,154,000. GIORNALE LIGUSTICO 225 narie ; ed altre ancora dipoi da Santa Fè, dal Chili, dal Paraguay. A viemaggiormente popolare la città di Montevideo, Millan inondò invito agli abitanti di Buenos-Ayres a recarsi in quella città offrendo loro il passaggio gratuito, assegnando agli stessi terreni, duecento vacche e cento pecore per ciascuno, carretti e buoi per trasportare i materiali da costruzione, semènze e istrumenti agricoli per lavorare i campi, dichiarandoli esenti dal pagamento dei diritti di dogana per quel tempo che avrebbe destinato il Re. Dipoi con decreto memorabile dichiarò costoro e i loro legittimi discendenti proprietari in perpetuo dei beni loro donati, a condizione pero, che entro tre mesi dovessero recarsi ai luoghi assegnati sotto pena di perdere ogni diritto alla proprietà. La popolazione andò mano a mano aumentando, per cui furono donati ai nuovi abitanti altri campi nel 1728 e nell’ anno seguente, in occasione che Zabala si recò a ispezionare la nuova città. Ma era ormai tempo che Montevideo avesse una magistratura, a cui fosse affidato il suo benessere morale ed economico; e Zabala provvide a riempiere questa lacuna con decreto del 29 dicembre 1729, disponendo che si procedesse alla elezione del Cabildo, incaricato del buon governo politico ed economico della città. Nel regime delle colonie, il Cabildo era un Consiglio composto di ufficiali con giurisdizione su tutti gli affari amministrativi. Esso interloquiva nel riparto dei terreni, nelle nomine dei governatori interini, nell’ amministrazione della giustizia in mancanza del tribunale della reale udienza, nella nomina ovvero nella ratifica degl’impiegati nominati dal governatore, nella polizia di ornato e assetto della città, nella conservazione dei monti e delle selve, nel-1’ aumento del prodotto dei campi, e nel fissare le tariffe od esercendo altre importanti incumbenze. Fatta la elezione, Zabala stabilì 1’ insediamento solenne del Giorx. Ligustico, Anno VI. 15 226 GIORNALE LIGUSTICO nuovo Consiglio pel i.° gennaio 1730, nel quale gli eletti prestarono giuramento di fedeltà innanzi a lui. Il Consiglio fu composto nel modo seguente. Alcalde o giudice di primo voto, Giuseppe de Vera e Perdomo; di secondo voto, Giuseppe Fer-nandez Medina; Usciere maggiore, Cristoforo Gaetano de Her-rera; Alfiere reale, Giovanni Camejo Soto; Esecutore fedele, Isidoro Perez Rojas; Depositario generale, Giorgio Borghese; Sindaco procuratore generale, Giuseppe Gomez de Melo; Giudice della santa fraternità, Giovanni Antonio Artigas. Adunque il nostro genovese Giorgio Borghese fu uno dei primi consiglieri, nel primo magistrato eletto dai cittadini. Il 18 gennaio di quel medesimo anno Zabala distribuì nuovi terreni a uso della pastorizia, ai due lati del torrente Pando, e nuovamente Giorgio Borghese ebbe la sua porzione eguale a quella degli altri, cioè tre mila vare di fronte con una lega e mezza di profondità, coll’ intervallo fra Γ un pezzo e 1’ altro di terreno di dodici vare per ciascuno ad uso di abbeveratoio comune. L’ opera sì bene incominciata da Zabala doveva avere da lui il compimento, col provvedere alla educazione morale della popolazione, indirizzandola cioè alla religione. A tal uopo egli nominò il sac. Nicola Barrales, e il popolo s’ offrì al mantenimento di lui tassandosi ognuno per dodici reali. Celebravansi i divini uffici in una modesta cappelletta; fu dato cominciamento alla costruzione della chiesa parrocchiale, ma la fabbrica della stessa procedendo lentamente, nel 1732 fu stabilito dai cittadini di sollecitarne la costruzione imponendosi ognuno di loro la tassa di dieci pezzi; ma nel 1745 non era ancora terminata. Allora Alzaybar s’ adoprò a tut-t’ uomo per ultimarla; cionondimeno passarono ancora sedici anni prima che la chiesa fosse finita. La popolazione di Montevideo attendeva pacificamente col lavoro al suo sviluppo materiale, quando un fatto gravissimo GIORNALE LIGUSTICO 227 venne a turbarne la pace. Un tal Diego Martinez uccise uno dei Minuanes, tribù la quale fu sempre buona amica dei nuovi abitatori. Costoro tosto si armano, spargonsi pei campi e mettono a morte gli uomini e il bestiame che incontrano. Zabala ordinò subito di fare testa ai rivoltosi, ma essi erano sì forti in numero, che gli spagnuoli furono obbligati a ritirarsi. Visto il pericolo che correva la nuova colonia, Zabala si avvisò di fare una spedizione militare, e mandò ordini al provinciale dei PP. Gesuiti affinchè inviasse in suo aiuto cinquecento Guaranis delle Missioni. Ma fortunatamente si ottenne » la pace per mezzo dei loro cacichi invitati appositamente a Montevideo. Non pertanto la campagna continuò a soffrire le depredazioni di uomini tristi, e specialmente degl’indiani delle missioni dei Gesuiti e dei Portoghesi dimoranti alla colonia del Sacramento. Pare che i PP. della Compagnia di Gesù non siano stati troppo felici nella conversione di quei selvaggi ; e per questa ragione, 0 forse anche perchè creduti assai ricchi, con decreto del 26 febbraio 1767 furono cacciati dal Piata e mandati in Europa su bastimenti da guerra, dai quali sbarcarono in Cadice in numero di 'trecento novantasette fra inglesi, italiani e tedeschi. Dipoi con altro decreto del 14 agosto 1768 furono incamerati 1 loro beni a favore dello Stato. Gl’ indiani furono sempre restii a qualunque tentativo d’ incivilimento fatto a loro prò’; e anche oggigiorno una decina di figli dei cacichi mandati da Buenos-Ayres a Parigi ad educarsi, dopo pochi anni tornati in patria si abbandonarono alla vita primiera, anzi sono i più temuti avversarli degli europei colà residenti. Gli importanti servigi resi da Zabala nei sei anni che governò la provincia del Piata furono apprezzati dal Governo come meritavano, ed era giusto ch’egli ne avesse premio condegno. Perciò fu promosso a tenente generale e mandato alla presidenza del Chili. Ma nel mentre recavasi ove la fiducia 228 GIORNALE LIGUSTICO del Governo lo aveva chiamato, ebbe l’ordine di trasferirsi al Paraguay a ristabilirvi l’ordine turbato per la elezione del governatore. Accomodato ogni cosa nel dicembre del 1733, si dispose a partire; ma nel viaggio lo sorprese immaturamente la morte al Paranà nel 1734. Zabala ha meritamente una bella pagina nella storia della Repubblica orientale dell’ Uruguay. Egli non fu un avventuriero qualunque, slanciatosi nel nuovo mondo trattovi dal-1’avidità dell’ oro, ma fu un uomo di precedenti onorati, un vero gentiluomo. Nacque nella città di Durongo nella signoria di Biscaglia, fu cavaliere dell’ ordine di Calatrava, e valoroso capitano nelle campagne di Fiandra, al bombardamento di Namur, all’ assedio di Gibilterra, all’ attacco di San Matteo e al-1’ assedio di Lerida ove perdè un braccio, a Saragozza e in Alcantara. Montevideo deve sapergli grado pei benefici ricevuti. Ma torniamo a Giorgio Borghese. L’avere egli fatto parte del primo Cabildo, 0 Magistrato della Città, è una nota d’ onore per lui, ma gloria maggiore gli verrà certamente dal sapere che altre volte egli entrò in quello illustre Consesso. Nello elenco cronologico degli ufficiali componenti il Cabildo, che rinnovavasi ogni anno, io leggo che Giorgio Borghese fu Sindaco Procuratore Generale nel 1733; Alcalde o Giudice di secondo voto nel 1741; Sindaco Procuratore Generale nel 1755; e finalmente nel 1771, quando furono istituiti i Giudici Deputati per vegliare e amministrare la giustizia negli otto distretti di loro domicilio in campagna, nel primo chiamato Miguelete fu nominato Giudice Giorgio Borghese. Da questa epoca non vedo più fatta menzione di lui, per cui penso che avrà pagato il tributo comune a tutti i mortali; soltanto 1’ anno 1772 un Rocco Borghese è notato come Alcalde di fraternità, e costui dev’ essere certamente un altro figlio del nostro Giorgio, non vi essendo altra famiglia che portasse quel cognome. GIORNALE LIGUSTICO 22<) Somma lode adunque e gratitudine noi dobbiamo a Giorgio Borghese, perchè fu non ultimo di quella numerosa schieia di liguri operosi, che abbandonarono il tetto natio pei legarsi al nuovo mondo; ma primo certamente a trasferii e la sua dimora nelle regioni bagnate dal Piata, dove tanti altri lo seguirono dipoi, fondando colà fiorenti colonie, le quali cogli onesti risparmi nei commerci e nell’ agricoltura api nono alla Liguria non solo, ma a tutta Italia, nuove vie di prosperità, anche oggi fonte inesausta di grandi ricchezze. Nei primi anni che succedettero alla conquista, la Spagna gelosa che altre nazioni la disturbassero ne’ suoi lucri aveva impedito severissimamente che altri colà si recassse, serbando cosi a se. sola il monopolio di tutto il traffico. In quel tempo era proibito il commercio diretto fra le colonie americane spagnuole, direttamente colla Spagna; eravi monopolio fra il Perù e la piazza privilegiata di Siviglia, i negozianti di questa città avevano ottenuto dal re la privativa assoluta di tutto il traffico mercantile col porto di Buenos-Ayres. Coloro che da questa restrizione furono danneggiati reclamarono al re, il quale, nel 1602 concedette che per anni sei potessero trasportare su navi proprie duemila faneghe di farina, 500 quintali di carne e una quantità eguale di sego, a patto però di non recarsi con questi oggetti al Brasile 0 alla costa della Guinea, e portando al ritorno solamente i generi pel loro consumo. Spirato questo termine, fu chiesta una proroga indefinita con maggiore frequenza di viaggi e pel commercio diretto colla Spagna. Offendendo ciò gl’ interessi del monopolio, i Consolati di Siviglia e di Lima fecero una violenta ed energica opposizione a questa giusta domanda. Ciononostante Γ8 settembre 1618 fu accordato agli abitanti del fiume della Piata di spedire due navi solamente, ma che però le stesse non dovessero eccedere le cento tonnellate di carico, e imponendovi altre restrizioni. A fine d’impedire l’entrata delle 230 GIORNALE LIGUSTICO merci nell’ interno del Perù, fu stabilita una dogana a Cordova del Tucuman, gravando le merci importate con una tassa del 50 °/0. E nel tempo istesso fu proibita Γ esportazione dell’ oro e dell’ argento dal Perù per Buenos Ayres. Ma più tardi un’ordinanza reale del 7 febbraio 1622 prorogò indefinitamente la concessione, restando ridotto il commercio del Piata a poca cosa, a cagione del cattivo sistema di governo delle colonie. Ma ora mediante la libertà accordata al traffico, i vapori e il telegrafo, Montevideo è diventata un centro importante per popolazione e movimento commerciale. L’ anno 1803 popolazione della città e suburbi era di circa 4,722 abitanti; nel 1829 di 9,000; nel 1872 di 127,704, 105,296 dei quali entro la città; nel 1877, 110,167, con soli 91,167 in città. La diminuzione di popolazione cominciò dal 1874, a cagione della crisi economica e finanziaria che fecesi sentire anche negli Stati Uniti per cui avvennero molte emigrazioni: crisi però che ora s’approssima alla fine. La statistica della Repubblica Orientale dell’ Uruguay, pubblicata or ora in occasione della esposizione di Parigi (1), reca a 13,600 il numero degl’ Italiani dimoranti a Montevideo, e non sono superati che dagli Spagnuoli per un migliaio. L’anno 1802 entrarono nel porto 188 navi estere d’alto bordo, delle quali cento cinquantuna spagnuole; la navigazione di piccolo cabotaggio fu rappresentata da 648 bastimenti entrati e 640 che risalirono i fiumi. Vi entrarono nel 1:836, 335 navi di tonellate 61,148; l’anno 1842, 824 navi di 158,652 tonnellate; il 1868, 2,368 navi di tonn. 783,026; (1) Apuntes estadisticos, poblacion, comercio, hacienda, para la exposicion universal di Paris, por la Direccion de estadistica generai de la Republica Orientai del Uruguay, capital Montevideo. Montevideo, 1878, Imprenta à vapor de la Tribuna, in 16.° grande. GIORNALE LIGUSTICO 1 anno 1871, 2,876 navi di tonn. 1,424,577. L’anno 1877 segna una grande diminuzione per la cagione della crisi di cui già feci cenno: le navi arrivate furono 1175, di tonellate 864,641, e partirono 817 di tonn. 726,552. Nelle statistiche degli anni 1870-71-72 l’Italia è la terza nazione pel numero dei suoi bastimenti e per la portata degli stessi; è superata dall’Inghilterra e dipoi dalla Francia; ma per l’anno 1870 è superata da quest’ultima nazione solamente pel numero delle tonnellate, non per quello delle navi. La statistica del 1877 porta altri mutamenti che riferirò, ma più sotto. Ecco ora un cenno in proposito per ciò che ci riguarda. Entrarono nel porto di Montevideo, l’anno 1870, 277 navi Italiane di tonn 87,873, e ne uscirono 287 di tonn. 91,308, quindi un totale di bastimenti 564, di tonn. 179,181 ; l’anno 1871 fra entrati e usciti furono 294 bastimenti di tonnellate I4I>353 > il 1872 non segna il numero dei bastimenti, ma bensì nota la portata delle navi italiane per tonn. 246,202. L’anno 1877 vi entrarono 1,175 navi di tonn. 864,641, ripartite in 792 a vela e 383 a vapore, i bastimenti a vela rappresentavano la portata di 291,592 tonn., quelli a vapore tonn. 573,049. Nel medesimo anno uscirono 817 navi, cioè 458 a vela della portata di tonn. 176,645, e 359 vapori di 549,907 tonn. Vediamo ora a quale nazione appartenevano coteste navi. Nel 1877 furono 162 le navi a vela inglesi di tonnellate 73,987 e 174a vapore di 312,546 tonnellate, perciò untotale di 33 6 navi con 386,533 tonn. Le navi a vela francesi furono 48 di tonn. 21,693, e 53 a vapore di 90,779 tonn.; perciò navi ior di tonn. 112,470. La Germania mandò 68 navi a vela di 20,489 tonn. e 67 a vapore di 91,585 tonn.: totale 135 bastimenti di tonnellate 112,074. L’Italia fu rappresentata da 140 navi a vela di tonn. 69,419, e 26 a vapore di tonn. 27,429: perciò 166 navi della complessiva portata di 96,848 tonnellate. Il Brasile lo 232 GIORNALE LIGUSTICO fu da 29 navi a vela di tonn. 7,449 e 60 vapori di 47,464 tonn.: quindi 89 navi di 54,913 tonn. La Spagna mandò solamente 180 navi a vela di 34,743 tonn.; gli Stati Uniti d’ America 65 navi a vela solamente di 32,887 tonn.; Svezia e Norvegia 56 navi a vela di tonn. 21,986; il Belgio solamente due vapori; il Portogallo 12 bastimenti a vela; undici l’Olanda, quattro Γ Austria; per cui il commercio con coteste nazioni riducesi a poca cosa. Nel medesimo anno uscirono da Montevideo 78 navi inglesi a vela di tonn. 47,231, e 156 vapori di tonn. 249,178; francesi a vela 45 di tonn. 10,416, a vapore 62 di tonnellate 109,280; tedesche 27 a vela di tonn. 8,354, a vapore 59 di tonn. 81,972; italiane a vela 54 di tonn. 27,826, e a vapore 23 di tonn. 25,181; brasiliane a vela 41 di tonn. 21,235, a vapore 56 di tonn. 47,738; spagnuole a vela 119, di tonn. 23,0I7 e solamente 3 a vapore di tonn. 6,558. E qui finisce la nota delle navi a vapore uscite. Aggiungerò che partirono dall’ istesso porto 3 2 navi a vela degli Stati Uniti della portata di 17,409 tonn., 34 di Svezia e Norvegia di tonn. 15,058: ometto le altre nazioni, perchè il loro movimento fu insignificante. L’Inghilterra adunque occupa il primo posto e per il numero dei bastimenti entrati in porto e per la loro portata; ha il secondo pel numero dei bastimenti l’Italia, il terzo la Germania, il quarto la Francia, il quinto la Spagna ecc.; ma pel numero delle tonnellate ha il secondo posto la Francia, il terzo la Germania, il quarto l’Italia. Pertanto noi non abbiamo progredito, anzi perdemmo il posto che avevamo. Queste note dovrebbero ben meditare ' gl’ Italiani, e fare sì che la parola progresso non sia un nome vuoto, avvisare al modo di essere più produttori, e meno politicanti. Vediamo ora l’importazione e 1’ esportazione, e la parte che v’ ebbe Γ Italia. GIORNALE LIGUSTICO Per giudicare della importanza di questo ramo di ricchezza pubblica si fece ricorso alle cifre esistenti negli uffici doganali, e calcolando soltanto le tasse riscosse sugli oggetti restati in paese per la consumazione, non su quelli di transito, o sulle mercanzie restate in deposito. Furono paragonati varii anni fra loro; p. e. il 1862, col 1868, 1872 e 1875, eh’è l’ultimo notato dalla statistica succitata (1). Nel 1862 l’importazione fu di 8,151,802 di pezzi, e 1’esportazione 8,804,443; e qui è bene accennare che il pezzo nazionale di Montevideo, in una pubblicazione officiale fatta dal Console generale dell’Uruguay in Firenze nel 1870 (2), è detto che equivale a franchi 5,55, mentre nella recente già citata è ridotto a franchi 5,36. Nel 1868 l’importazione fu di 16,102,475; l’esportazione Ι2>Γ39>720· Nel 1872 l’importazione fu di 18,859,724; e l’esportazione 15,489,532. L’anno 1871 l’importazione fu 12,421,408; l’esportazione 12,693,510. La Repubblica Orientale dell’ Uruguay non ebbe finora una statistica ufficiale ed esatta, dalla quale risulti il movimento commerciale colle diverse nazioni ; perciò fu d’ uopo ricorrere alle relazioni dei rappresentanti esteri per avere le note in proposito. A questa bisogna fu pensato or ora, e già ne vedemmo i buoni risultamenti colla pubblicazione accennata. Arrogi poi che l’Inghilterra co’ suoi numerosi battelli a vapore importa delle mercanzie le quali sembrano inglesi, ma in realtà sono di Francia, del Belgio, della Germania, della Svizzera, dell’ Italia ecc. Ciò premesso io dico, che l’Italia 1’ anno 1869 importò in quella Repubblica per 780,532 pezzi, ed esportò per 170,614; quindi un totale di pezzi 951,146; e sarebbe l’ottava in ordine di operazioni commer- (1) Apunles estadisticos ecc. (2) La Repubblica Orientale dell’ Uruguay (Montevideo); Firenze, 1870, Tipografia editrice dell’ Associazione, in 8.°; pag. 25. 234 GIORNALE LIGUSTICO ciali fatte, essendo superata dalla Francia, dall’ Inghilterra, dal Brasile, dagli Stati Uniti, dal Belgio, dalla Spagna e Cuba, dalla Germania. Il Chili è primo nello avervi trasportato cereali e farine quindi è seconda Γ Italia per 183,624 pezzi; nei commestibili è prima la Spagna, dopo la Francia e quindi Γ Italia per 221,558 pezzi; nei libri, carta e caratteri da stampare, dopo la Francia è Γ Italia che vi portò tanti di cotesti oggetti per 47>I5° pezzi. Un genere importante che esportasi dalla Repubblica dell’Uruguay sono i cuoi secchi e salati, il sego, le lane e il crine, ma l’Italia va confusa insieme colla denominazione di Marsiglia e Genova, perciò sono notate insieme le rispettive partite. Importante è anche il commercio della Repubblica Orientale dell’ Uruguay con Buenos-Ayres; e nello specchietto dell’anno 1870, l’Italia tiene il settimo posto ed è notata fra importazione ed esportazione per 2,561,216 di piastre o pezzi di Buenos-Ayres, il cui valore è un 4 °/„ di meno che quello di Montevideo. Ho desunti questi dati statistici dall’ opera La Repubblique Orientai dell' Uruguay a VExposition de Vienne par A. Vaillant (1); ma nella recentissima già citata (2) pubblicazione ufficiale della nuova Direzione di statistica, vi sono due specchietti d’importazione ed esportazione eh’ io credo cosa utile di trascrivere fedelmente. Nota però Γ autore della medesima che tutte le statistiche commerciali di provenienza e destinazione sono più 0 meno difettose, ma quelle di Montevideo esserlo più di tutte perchè mancanti d’indicazioni precise, avendo attribuito alle merci arrivate 0 partite la nazionalità delle navi sulle quali erano imbarcate, e perciò avere considerato inglese, francese, tedesca la merce arrivata su bastimenti di queste nazioni, senza (1) Montevideo, 1873, Imprimerie ì vapeur La Tribuna, in 8.°. (2) Apuntes estadisticos ecc. GIORNALE LIGUSTICO 235 indagare la vera origine della merce istessa; però a partire dal 1877 aveva corretto questo sconcio che rendeva cosi difettosa la statistica di Moiitevideo, essendo stato ordinato al Direttore delle dogane di obbligare i commercianti a scrivere sulle loro carte di spedizione il nome dei paesi della vera provenienza ovvero origine delle mercanzie che arriveranno in dogana, come anche quello dei paesi di destinazione quando trattasi d’esportazione, ma ecco gli specchietti. IMPORTAZIONE DAI PAESI DI PROVENIENZA VALORE UFFICIALE IN PEZZI DI FRANCHI 5,36. 236 GIORNALE LIGUSTICO rj- 00 00 VO SS ^ >"< ^ D C4 H h O Th VA ÇS (S ^ ST ^ ^ onco ίΛΐΛ^ τ+σ, ^ *"1 vqoo m o cì co co ίΤ ίΓ Γ2 o 00" o~ rC -Γ cT ^00^ ca^ cTcZ «? 2? ^ ^ cr* t}- cT hh kT vS' ~ ^ ÌT ^ ^ CTn * NO ^5 o c* O 9 .VTiST ^ ^ ^ 00 ^00 r^ri >λ ^ ^ μ ca 00 CO OO OCO (Λ ^ ^NO NO ry-N rr\ ο' *_Γ va «-Γ rTva' 0 cmno r^ ^ *"^°° C^O N’t «s NO ^ l-H »-( >_Γ H 00 O O ^3- coV£) rt· c^s £>. *-< 0 t~< *-i rrs cq ri ONVO VsO OO C^VO vo CS CN vo r^ vo ^ 1 rrs ia ►-* cr\ rj- (N 1 . CS *-h on NO »-« Tf OS rj- »oo q. ^ *-T cT -« oi ci OO -- 00 rrsNO c*^ , OO I>^ cr\ 't I NO ^J- 1 CO Tt- .00 00 00 rt" Th ca O ^ O ^OO rt* Tj- « Tt->-< i^^NO •s 'C 'ί ^co 00 00 00 xt- o Th r^. o ^ H ^ rivo' ca >-Γ H-T of GN Ο ΟΝ O i^OCO^O ά fS ca *"^O Xt- ca ca ci NO κ-t cs »-» *-T CA GN 00 ca rC vo Tt* c^vo Ό rrs HH (—< ^ CTs OO CO fA < M Z w M Z W > O Pi Oh OS Ut S.2 ’υ a bo Ci G Π i—( U-» ce ο - Λ C3 <Λ ■£ο 3 £ρί Î—< ο -Ρ5 Λ ►',. 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VANO ΓΛ wVO CM vO M 'S.'S )Sf Î ϊ?°θ' O |ÌN u? γΓ γΓ f^OcO OCOOO rlO VO ΠΜ CA Λ γΓ *-Γ ηΓ ηΓ Th Ό co Ο ΟΝ τ}- < a ^α NVO Π vav£) ca ca va Ci ηη Ο *-^oo r>s t^. ca ^ 'ί ΓΛ Γ^οο »-Γοο VO~ ^ η r^Tti^oo »- d tJ- Tj- rj- ca ca O co rrr Γ>* 00 "Φ OO **N H-< Tf O ^ 1 ü 1 m γτν 1 Th 1 Tt* ^ VA n V/-\ ►-* ** 00 · ^ 01 1 « I ►-< h 1 1 h 1 O ON rr\ r»~\ vo t-t 00 O ON tJ* '^h Ό »-< CA vaVO VA ri· 00 VA d fS 00 O ON ^ Μ 1 rAVC 1 On tJ- 1 1 00 1 On ►H Th O »H VA ΓΛ >-< 00 n ΓΑ00 0 Ό VA VA ΛΑ VA VA Ο n Th vavo n I>v n va ci 00 IIIIII I rA 1 ^ IIIIII 1 PA VA >-i ON CA ON VO CA PA On va 0 O NO OO O 00 ONThTj· O 0 0 M ON NO T}· m O CO CO (S N 00 S OO VA OO ON t^· CA *“< *-< CA H 1 1 1 1 rA 00 O 00 M NO^ ^00 MNP) Kf) M CA CA 00 >-H *---l >---t »-T >-< 00" N w z O ►-H M <1 z M H en 03 Q 1-4 ■*-* .i-î ΓΞ O Λ g bû 2 C r£ >—1 P-t Xi D .tiU G P ’·3 g 0) • · · c .2 • · ·*£ 3 «‘ ‘ *2 G . . Π c . 2 - <υ ? o Cio^ bC·^ i3 S *U^J ° — —. S * 5 U- d) (L) «υ bO o> > »-« Ο *Ϊλ î o I U <υ a r3 <υ -o 13 « ; g b ■ § a ’« 'Sb-ί «j 2P-2 § ag g -a .2 -a S ê N 'Ξ ’δ ° a-s S'S-S.’s ροο3οο^(ΛΛθ«23<:£^ΟαΗ(Λθ o.ïï CL, > «Λ w Λ — o N c S § D.* .S ■- D O ~ H 238 GIORNALE LIGUSTICO Ora che abbiamo visto il posto che occupa l'Italia in confronto alle altre nazioni, nel commercio d’importazione ed esportazione con Montevideo, credo necessario aggiungere un’ altra preziosa notizia che trovo pure negli Apuntes estadi-sticos, la quale riguarda il numero delle proprietà e dei proprietari per l’anno 1877 nel dipartimento di Montevideo, col rispettivo valore e nazionalità. I nazionali sono in maggior numero, essi sono 2,904 e possedono 4,982 proprietà del valore dichiarato di pezzi 40,831,785; valori in altri capitali 3,923,900: totale 44,755,681 pezzi. Quindi gl’italiani, i quali sono 2,346 e possedono 3,200 proprietà del valore di20,289,431; 84,200 pezzi in altri capitali: quindi un totale di 20,373,631. Il terzo posto è degli Spagnuoli; sono 1,572 proprietarii, hanno 2,349 proprietà del valore di 16,555,999 pezzi, altri ióo^oone hanno in altri capitali: perciò untotale di 16,716,299 pezzi. Sono 971 i proprietari Francesi, e 1,308 le loro proprietà valutate a 9,144,650 di pezzi; 55,800 in altri valori: perciò un totale di 9,200,450 pezzi. Ora le cifre si fanno ancora più modeste: 113 sono i proprietari Inglesi che hanno 251 proprietà del valore di 3,086,200 pezzi; 1,229,600 in altri capitali, quindi 4,315,800 pezzi in tutto. Sono 41 i proprietarii Brasiliani ed hanno 68 proprietà; 78 i Portoghesi con 152 proprietà; 123 gli Argentini con 256 proprietà; 65 i Tedeschi con 121 proprietà; 31 Svizzeri con 37 proprietà; 10 Africani; 4 Danesi; 7 Nord-Americani; 7 Austriaci; e 4 altri: insomma tutti i proprietari sono 8,276, posseggono in tutti 12,773 proprietà, del valore dichiarato di pezzi 97,319,200; in altri capitali per 7,967,800 pezzi; quindi un totale di valori dichiarati per 105,287,000 di pezzi. Ma ciò eh’ io credo assai interessante a sapersi ancora è 11 denaro venuto ogni anno in Italia dall’ America per mezzo dei Vaglia consolari, e che io pel primo faccio di pubblica ragione col seguente specchietto. GIORNALE LIGUSTICO 239 Comincò il servizio col i.° di Agosto. Fece il servizio dei vaglia a tutto Giugno 1877. \ 24O GIORNALE LIGUSTICO GIORNALE LIGUSTICO 24I Dallo specchietto riferito testé, che io ebbi da fonti ufficiali, risulta che nel 1875 e 76 vi fu molta diminuzione. Ciò avvenne a motivo di misure restrittive prese dal Governo, onde mettere un termine i quali onorando la patria comune per Γ incontaminata operosità occupano colà un grado elevato nella società; ma GIORNALE LIGUSTICO 243 altri ve ne hanno che acquistarono celebrità nell* esercizio delle più nobili discipline. In tempi non molto lontani Davide Emanuele Solari, nativo di Chiavari, laureato dottore in medicina in questa Facoltà genovese e morto a Lima il 27 agosto 1853, noto per dotte pubblicazioni, fu professore nella Università di quella città, non solo, ma il riordinatore di quello Ateneo; e quando al suo arrivo colà dovette sostenere un esame per Γ esercizio del suo nobile ministero, fu detto da quell’ illustre Collegio che tanta sapienza non aveva giammai solcato il Pacifico. E non più tardi dell’ anno passato, allorché con decreto del 23 maggio 1877 il Presidente di quella Repubblica, il generale don Mariano J. Prado, istituì nella Università maggiore di S. Marco di Lima una nuova cattedra di Filosofia medica e di Storia critica della medicina, egli affidò questa cattedra a colui che P aveva ideata, al cav. Giovanni Copello, pure di Chiavari, dottore in medicina dell’Ateneo genovese, dimorante a Lima da circa 32 anni, che acquistò celebrità anche in Europa per egregi lavori, e particolarmente per la Memoria stilla profilaxi tirila tisi polmonare, per gli Studi sopra la febbre gialla, e la Nuova Zoonomia ovvero la dottrina dei rapporti organici; lavoro quest’ultimo di gran lena e che gli diede un posto onorifico fra i cultori dell’ arte che Ippocrate chiamò divina. L’insegnamento di Filosofia medica fu inaugurato il 20 agosto p. p. con un elaborato discorso, che il dottor Copello pronunziò in presenza di S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione e Giustizia, dottore D. Emanuele Morales, e del ministro d’Italia comm. Gio. Battista Viviani, di molti medici e altre persone distinte, e degli alunni della Facoltà di medicina. Il giorno 22 dell’istcsso mese, il prof. Copello fece la prolusione al primo anno di corso della Istoria critica della medicina. Tanto nell’ uno quanto nell’ altro discorso il dotto professore ragionò egregiamente sulla importanza della nuova 244 GIORNALE LIGUSTICO cattedra enunciando i programmi del corso, che sarà dato in due anni. Ma ciò che torna ad onore del dott. Copello è il sapere, che i discorsi suaccennati ei programmi delle lezioni furono pubblicati in un fascicolo di pag. 103 in 8.° dalla Tipografìa dello Stato; e similmente che le stesse lezioni, giustificando la grande espettazione con cui erano attese, saranno stampate anch’ esse dalla stessa Tipografia, siccome porta un decreto del citato Ministro in data 9 ottobre 1877. L’unanime e benevola fiducia che la Facoltà medica, il Corpo Universitario, il Consiglio Superiore d’istruzione e il supremo Governo di Lima hanno addimostsato al dott. Giovanni Copello, chiamandolo a cotesta importante cattedra, che per la sua forma e pel proposito con cui il dott. Copello intende di svolgere il programma non esiste finora in nessuna Università d’ Europa, torna ad onore di chi lo chiamò, e del nostro, illustre concittadino, anzi d’Italia tutta. La fonte di ricchezza aperta al nostro paese mediante l’emigrazione potrebbe essere a noi apportatrice di più utili e fecondi benefici, se si ponesse riparo a un vuoto che, secondo il mio debole avviso, esiste nelle nostre leggi. Le condizioni agricole e commerciali in cui trovansi talune delle nostre provincie, e quelle particolarmente della nostra Liguria, il desiderio di restaurare le domestiche finanze, obbligano in ispeciale modo gli abitanti della campagna e anche quelli delle città a recarsi in America, e là con gravi stenti e privazioni una parte di essi riesce a migliorare il proprio stato, e anche a diventare doviziosa. Col tempo nasce in costoro il desiderio della patria e pensano al ritorno; ma è loro proibito dalle leggi, quelle specialmente sulla leva. E perchè non si potrebbe riempiere questa lacuna, e fare sì che a cotesti nostri connazionali fosse agevolato il rimpatrio, rendendo ad essi meno grave il rigore delle pene? Le leggi di tutti gli Stati americani dichiarano solennemente figlio del GIORNALE LIGUSTICO 245 paese chi è nato colà; le nostre invece lo vogliono assoluta-mente italiano. Che accade allora? I nati in America da’ regnicoli non ritornano e privano così il paese di utili cittadini, e di cospicui capitali che qui verrebbero con essi. Parmi che la gravità di questo fatto meriti seriamente che si avvisi al da farsi; e ancora questa volta io faccio voti, affinchè i nostri legislatori pensino a ripararvi (1). Così sarebbero resi più amichevoli e vantaggiosi i rapporti fra noi e il nuovo mondo; in quel paese divinato dalla mente eletta d’un Cristoforo Colombo, e che Giorgio Borghese forse tra i primi, se non il primissimo, additò a’ suoi concittadini quale via di prosperità, di ricchezza col lavoro e la onestà della vita. Prof. G. B. Brignardello. CONTRIBUZIONI ALLO STUDIO DELL’ EPIGRAFIA ETRUSCA per Vittorio Poggi (Continuazione da pag. 92) 8. : 2>l : flEIFDai : ΙΞΚΐ;^ : flUflO (•frana: vercnei:vecnisa:ls:). = Tannia. Verginia Vecinii uxor, Lartis (filia). Dipinta in rosso all’ intorno di olla cineraria fìttile a foggia di campana, sul corpo della quale corrono festoni alternativamente neri e rossi. (1) Ved. a pag. 38 del mio scritto: La Repubblica orientale dell’Uruguay all’ Esposizione di Vienna, ecc. Estratto dal giornale La Borsa, con correzioni. Genova, 1874, Tip. Sociale di Beretta e Molinari. 246 GIORNALE LIGUSTICO Proveniente, per quanto affermava il proprietario, da Betulla, vicino a Sinalunga, e da me trascritta nel 1876 presso il suddetto negoziante signor Pacini in Firenze. Il cognome di coniugio vecnisa arguisce un gentilizio vecni che fa qui la sua prima comparita nell’onomastico etrusco, ed è probabilmente quel desso che figura sotto le forme vecineo, vecinea su monumenti di quel piccolo ma interessante mondo falisco di cui Raffaele Garrucci fu ai giorni nostri il Colombo ad un tempo e il Borghesi (1). Il nome vercnas, vercna, femm. ver enei erasi fin qui trovato soltanto a Perugia, dove lo si incontra associato costantemente al gentilizio vip is' in un rapporto analogo a quello che nella nomenclatura romana dei tempi della Repubblica e dell’ alto Impero suole accoppiare i singoli cognomina ereditari, ossia di famiglia, quali a cagion d’ esempio Lepidus, Metellus, Messalla, ai rispettivi gentilizi Aemilius, Caecilius, Valerius. Nell’Etruria, invero, come nel Lazio, i casati di nuovo gentilizio non ebbero dapprima bisogno, per distinguersi, d’ altro appellativo ; ma allorquando cominciarono a diramarsi, si manifestò la necessità di aggiungere al gentilizio altri nomi che trasmettendosi di generazione in generazione, servirono a distinguere i rami particolari del casato, ossiano le diverse famiglie. I monumenti attestano, infatti, che 1 illustre e amplissimo casato etrusco dei Vibii, ancor fiorente in Perugia nell’ epoca imperiale, diramavasi in molte famiglie, ognuna delle quali si distingueva dalle altre mediante un particolare appellativo diacritico aggiunto al comune gentilizio. Così come a Roma i rami principali in cui si scomparte, (1) Scoperte Falische, negli Annali dell’Instituto di corrispondenza archeologica, 1860. Dissertazioni archeologiche di vario argomento, Roma 1864. Sylloge inscr. latin, aevi Rom. rei pubi., 800, 801, 803. GIORNALE LIGUSTICO 247 esempligrazia, lo stemma genealogico della gens Cornelia, sono rappresentati dai cognomi Arvina, Asina, Balbus, Biasio, Cethegus, Cossus, Dolabella, Fronto, Gallus, Lentulus, Malu-ginensis, Mammula, Merenda, Meruld, Rufinus, Rufus, Scapula, Scipio, Senecio, Sisenna, Sulla, Tacitus, Verres etc., a Perugia la gente Vibia, cui il Conestabile opina originaria non di questa soltanto, ma di più città, dividesi nei Vibii Aerii (vipis acris', C. i. i., 1320), Vibii Alfii (vipi alfa, H36 sgg·, vipis' alfas', 1473), Vibii Ancarii (vi · ancari, *5^3) (*)> Vibii Apinii (? vipia ap eina, 1435), Vibii Arcuzii (vi-ar cu tu, 1945), Vibii Aulinnii (vipi · aulni, Fiorelli, Not. degli scavi, 1878, p. 127), Vibii Caii (vipi cai, C. i. i., 1872), Vibii Camarinii (vipia s amer uni, *744)> Vibii Capenazii (vi · capenati, 1203 , c.), Vibii Casperii (vipis' caspres', 1382), Vibii Marcanii (vipi mar-cnei, 1406), Vibii Obelsii (vipi upelsi, 1443, 1450; vi-upelsi, 1444, 1447 seg.; vipis'upelsis’ 1442), Vibii Septimieni (vipial sehtmnal, 1376); Vibii Sertorii (vipi serturi, Suppl. r.°, 256), Vibii Tinii ((v)ipu tin, C.i.i., 1942), Vibii Varenii (vipi varna, 1873; vipis' varnas', 1868), Vibii Varii (vipi vari, 1474, 1477; vipis' varas', 1476), Vibii Velonii (vipi velunu, Suppl. 3.% 247); Vibii Venii (vipi· venu, C. i. i., 1871), Vibii Verii (vipi ver u, Suppl. 3°, 248), Vibii Verginii (vipi ve rena, C. i. i., 1467; vi-vercna, 2453 seg., 1465,1468; vipi vercnas', 1456, 1458; vipis' vercna, 1461; vipis' vercnas', 1455, 1459; vipi ver enei, 1472), Vibii Volunnii (vi· velim na, 1840) etc. (2). (1) Il Conestabile (Monumenti di Perugia etrusca e romana, III, p. 147) parla di Vibii Aneinii; ma non trovo nell’epigrafia etrusca menzione di detta famiglia. (2) Checché si opini in contrario, propendo a credere che il nome Vibio, di massima gentilizio, funga talvolta nell’onomastico etrusco uf- 248 GIORNALE LIGUSTICO L’unica differenza fra i due sistemi denominativi consiste in ciò che presso i Latini Γ appellativo di famiglia è costituito da un cognomen desunto dalla professione o da una qualità fisica o morale del capostipite; laddove presso gli etruschi tale appellativo è, in generale, formato da un secondo gentilicium; e dico in generale, non mancando esempi di iscrizioni nelle quali al prenome ed al gentilizio fa seguito un appellativo sullo stampo dei cognomi romani; ma queste appartengono a luoghi e a tempi in cui le usanze romane tendevano a sostituirsi alle tradizioni nazionali. Checchenessia, a giudicarne dal numero dei monumenti, fido eziandio di prenome. Vibio, infatti, etr. vi pis', vipi, vip es, vipu, vip us (femm. vipi, vipia, vipiia), ose. vi ibis, peligli, vifius, lat. Vibis, Viibius, Vibbius, Vibius, appartiene d’origine all’onomastico dei popoli antico-italici, e va compreso nel novero di quegli appellativi che giusta 1’ usanza comune ai detti popoli, vennero dapprima adoperati ugualmente come gentili e come personali o prenomi. Molti dei quali sopravvissero poi lungamente nella nomenclatura latina, alcuni nella sola qualità di gentilizi (Cerrinius, Cominius, Decius, Gellius, Herennius, Magius, Marius, Oppius, Plautius, Popidius, cet.); altri ritenendo, quali più quali meno, la primitiva duplice attribuzione (Galerius, G avius — Cavius 1= Caius, Lucius, Novius, Numerius, Ovius, Percennius, Salvius, Sergius, Statius, Stenius, Trebius, cet.). Fra questi ultimi, appunto, è Vibius, che dovrebbe perciò trovarsi anche presso gli Etruschi in funzione di prenome, come lo si ritrova presso i Latini (Garrucci, Syll., 562, 775 > > ^3^’ 847, 1529, 1614 etc.), i Falisci (ib., 802), e gli Osci (C. i. i., 2843; Mommsen, C. i. lat., I, 2451). Che se congeneri appellativi, notissimi come prenomi, es.: caie, cae, caia, velia etc., trovansi dagli Etruschi usati a volte come gentilizi (1-8·· caie, C. i. i., 485 bis c. ; aule cae, i37;arnt-cae, 550 etc. ; θ-a · caia, ii45;larS-iacaia, 1552 etc. ; frana velia, 232; fasti velia, 1501 etc.), sarà lecito sospettare che vipis e vipia abbiano un valore prenominale nelle fabrettiane 1435, 1744, 1870, 1872, e specialmente sullo specchio vulcente inscritto vipia als'inai etc. (2180), nonché nel titolo etrusco romano vibia · ptroni del Museo di Perugia (1256). GIORNALE LIGUSTICO 249 sembra che la famiglia Verginia esser dovette il principale fra i molti rami della perugina gente Vibia : laonde il Corssen leggendo il nome vercnas su di una moneta in bronzo della collezione del prelodato sig. march. C. Strozzi di Firenze, ne trasse argomento per aggiudicarla senz’ altro a Perugia (II, p. 610 sgg.); dove è a notare, peraltro, che la lezione vercnas di tale iscrizione monetaria non può dirsi abbastanza accertata; e prova ne sia che il chiar. Fabretti, il quale l’ha registrata al n. 113 del suo Suppl. i.°, preferisce trascrivere velcnas con probabile attribuzione a Vulci. In proposito a questa moneta, di cui un altro esemplare, più obliterato, conservasi nel Museo etrusco di Firenze, il Corssen accenna ad una possibile relazione fra il nome del presunto monetiere perugino vercnas inscritto sul diritto e il tipo del rovescio, consistente, a suo vedere, in una protome di pantera marina o congenere animale fantastico (1). Senonchè il Fabretti ha, coll’acume critico che gli è proprio, toccato in una monografia anteriore alla pubblicazione del Glossarium italicum, della derivazione di questo nome, il quale ha verosimilmente comune la radice con virgo, e ab antico suonò probabilmente sulle labbra etrusche vèr cena, colla seconda e muta, come Pòrsena. In quel modo, poi, che questo diventò in bocca ai Romani Porsenna, anche quello dovette per la stessa legge fonetica diventar Vercinna 0 Verginità, d’onde passando per le forme intermedie Ver-ginnaeus e Vercinius, di cui rimangono esempi in latine iscrizioni, riuscì all’ovvio Verginius. Quanto alla forma ver- ( i ) Es ist also begreiflich dass sicli auf Münien von Perusia das Mün{-bild des Seepanthers oder eines àhnlichen Phantasiethieres findet neben dem Perusinischen Namen Vercnas des Mïm^beamten. II., p. 611. Il Fabretti descrive il tipo del rovescio come la parte anteriore d’un cavallo corrente a sinistra. 250 GIORNALE LIGUSTICO enei =5 ver c(i)nei(a), ne troviamo il riscontro nell’epigrafe verginneia L · L · irena (Giornale Arcaci., XXVIII, 347). Specchio graffito in bronzo, di eccellente stile, su cui Genio femminile alato e diademato, zinfrrepus, senz’altro indumento che un leggero ίμάτιον di cui un lembo posa sulla sua spalla sinistra e il resto scende di dietro al corpo fino a terra, in atto di teneramente abbracciarsi con un giovine eroe, erus, che gli sta a destra vestito di ricca armatura, elmo, lorica e ocree, e impugnando l’asta, mentre a sinistra della donna un altro eroe galeato e loricato che l’iscrizione determina per Diomede, zimu-8-e, sta osservando la scena appoggiato colla destra all’ asta e colla sinistra allo scudo, in un atteggiamento che, secondo l’espressione tipica dell’ arte antica, non può interpretarsi altrimenti che quale manifestazione d’ un senso di disappunto. Ai piedi di costui una cerva che mangia tra i fiori; sotto alla divinità femminile una coppia di colombi amoreggiarne; più a sinistra, altra colomba. Presi appunto della rappresentanza e delle leggende di questo insigne specchio nel 1877 presso il march. C. Strozzi ? della cui collezione facea parte in quell’epoca: ora trovasi nel Museo etrusco di Firenze. Proviene dai già menzionati scavi di Telamone, donde uscì a poco intervallo di tempo anche 1’ altro fregiato di rappresentazione riferibile al mito di Medea e Giasone, colle leggende metvia heasun menrva resciai, di cui il chiarissimo dottor Helbig diede pel primo notizia sul Bullett. dell’ Inst. .di corrisp. archeol. (1878, p. 144). 9- 2VQ3 (erus) (zin-9-repus) (zimufre) ZWaQOMW aovwu GIORNALE LIGUSTICO 251 Si osserverà la forma z i m u θ· e = Διομήδης, Diomedes (1), diversa per metatesi della ben nota ziumi&e sotto cui lo stesso nome erasi fin qui presentato sui tre altri specchi etruschi che prima di questo ci aveano esibito la rappresentazione figurata del greco eroe (C. i. i., 2097 ter> 25r3’ Suppl. i.°, 448): di che avrà argomento e materia il eh. prof. W. Deecke per aggiungere una postilla alla prelodata sua monografia circa i vocaboli greci nelle iscrizioni etrusche. Quanto ai due personaggi erus e zinftrepus, dobbiamo per ora limitarci a registrarne i nomi, in attesa che ulteriori elementi di riscontro possano somministrare materia d’induzione per una plausibile determinazione delle entità mitologiche a cui rispettivamente si riferiscono. 10. A2I9AHÜO · Ι+Ι+ΙΟ^ΑΊ (larfci titi · fl· · · viarisa) = Lartia Titia Th... arii uxor. Graffita al solito posto sul lato anteriore di urna fittile. Sotto l’epigrafe basso rilievo a stampa (τύπω) coll’ ovvia rappresentazione del così detto combattimento di Echetlo, dove si vede un eroe che si fa arma d’ un aratro per pugnare da solo contro tre guerrieri, uno dei quali già è caduto con un ginocchio a terra. Presso il negoziante signor Pacini, in Firenze. L’ ultimo membro del titolo di questa Larzia Tizia, ossia (1) Per non venir meno a quella minuziosa esattezza che nelle materie archeologiche è piuttosto necessaria che utile, osserverò come la 3 iniziale delle leggende zinfrrepus e zimuS-e si presenta nell’originale rivolta in senso inverso, cioè colle alette a destra, paleografia che ricorre parimente nella leggenda ziumifre del dianzi citato specchio ceretano n. 44^ del Suppl. i.°, e che non si è potuta riprodurre nella nostra trascrizione per mancanza del corrispondente carattere tipografico. 2J2 GIORNALE LIGUSTICO il cognome matrimoniale, per Γ obliterazione di alcuni elementi grafici mal si presta ad una plausibile restituzione. II. ........VA (au........rcnalisa) Su coperchio di urna fittile , presso lo stesso. Dei due frammenti a cui è ridotto il titolo, il primo accenna al prenome maschile aule = Aulus, l’altro (larcna-lisa? verenalisa?) per la desinenza in - alisa appella ad una interessante categoria di nomi, la cui natura ed ufficio formano tuttora · oggetto di controversia fra gli etruscologi. Havvi chi opina tali nomi (a rn frali sa — trascritto a volte 1 arnfrlisa — larfralisa, larfrialisa, larisalisa, lati-nialisa, pumpnalisa, puturnalisa, tetinalisa, vetna-lisa etc.) (i), e così gli altri meno comuni con desinenza in (ι) 1 nomi di cui si tratta sono caratterizzati dall’ innesto del suffisso -isa sopra un tema matronimico o patronimico in - al; epperò non si vogliono confondere, come altri fece, con una serie di nomi finienti al par di questi in - lisa, ma destituiti della accennata caratteristica, come papaslisa, naulisa, nus'teslisa etc.: i quali spettano invece alla classe dei cognomi femminili dedotti dal matrimonio. Ecco un elenco dei nomi conosciuti di questa categoria assai più completo di quello compilato dal Corssen : aesialisa (aesialissa) C. i. 452. aS-ialisa, ib., 1034. a9·----ialisa, Suppl.3°, 140. alpuialisa, C. i. i., 317 bis. ancarialisa, Suppl. i.°, 251 ter. b, arcnalisa, C. ». t., 2623. arnô-alisa, ib., 422, 427, 494 bis g, 502, 638, 730, 785, 788, 1352 (arnS-lisa, Suppl. j.°, 141, 170; Fiorelli, Not. degli scavi d’ant., 1877, p. 141). arnfrialisa, C. i. i., 990. atainalisa, ib., 599. ateinalisa, in urna senese inedita del Museo di Firenze θ-ania : sesetnei || ateinalisa , dalle schede del eh. Gamurrini. ei-leialisa, C. i. i., 72 (eileializa, ib., 73). fu ---alisa, ib., 364 bis a. herialisa, ib., 608. herinalasa, Suppl. ).°, 210. caialisa, C. i. i., 1008. ciarfrialisa, ib., 251. lams’alisa (lez. del Corssen, Suppl. 1.0, 242). lanialisa, C. i. i., 640. Iar6-alisa, ib., 172, 240 ter a e b, 867 ter k, 922 bis, 998 bis a (lartalisa, ib., 436 bis. lafralisa, ib., 754. larfralsa, ib., 453). larò-ialisa, ib., 560 GIORNALE LIGUSTICO 2J3 -alisla (lafrisalisla, larftalis'la, lar θ-ialis'la, varna-lisla etc.) (i), altro non essere che forme diminutive sostituitesi ai rispettivi temi semplici in -al (arnftal, lardai, larìHal, larisal, latinial, pumpnal, puturnal, tetinal, varnal, vetnal etc.}; ai quali debbono perciò ritenersi equivalenti nell’ ufficio di matronimici, e più raramente, anche di patronimici. È questo il sistema propugnato ai nostri giorni dall’illustre autore del Glossarium italicum, a cui accedono il Maury (Inscriptions ant. de l’Italie nel Journal des savants, 1869, p. 435), il Conestabile (Dei monum. di Perugia etr· e rotti., IV, pgg. 26, 202,207, 358) e a^tri· Secondo questa dottrina, vel : umrana : arηθ-alisa (C. i· i., 785) equivale a Vcìius Umbranius Aruntiae (vel Aruntis) Jilius; aeles' cneves’ Ιαθ-isalisla (ib., 1901) = Aelii Gnaevii Larlid nati; lar8· nusumna puturnalisa (ib., 43 5 ter a) = Lars Nusumonius Puturnid natus ; 1 θ· : h e r i n i : 1 θ· : 11 e s n a 1 i s a ter d, 687, 1014, 1943; lar&ialis'a, ib., 2060, 2420; Suppl. j.°, 326. larisalisa, C. ». »'., 241 , 2350, 2600 (larisalis'a, Suppl. 367). la re na lisa, Bullett. dell’ Instit. di corrisp. archeol., 1877, p. 204. larstiialisa , C. i. i., 1329. latinialisa, ib. 515, 706; Suppl. 3.°, 194. les'*alisa, F iorei li, op. cit., 1877, p. 143. patacsalisa, C. i. i., 905 bis. b. peri sali sa , ib., 525 (pensali sai, ib., 520). pultusalisa, ib., 685. pumpnalisa, ib. 286. puturnalisa, ib., 435 ter a. tetina-lisa, ib., 915. tiscusnalisa, Suppl. i.°, 233. tlesnalisa, C. i. i., 499. tutnalisa (tutnalisal, Suppl. 1.°, 223). velSritialisa, C.i.i., 746. vesialisa, ib., 235. vestrnalisa, ib., 475 a (vestrnaisa, ib., 475 B. vestrnaisa, 475 d). vetnalisa, ib., 630; Suppl. /.·, 209 bis a. Ecco poi la nota dei correlativi nomi in - alisla : al fna lisle , C.i.i., 793. alhisla, ib., 1544. 1 a θ- i »a 1 i s la , ib., 190t. lar$alis'la, ib., 2335 c, Suppl. 2.0, 109. larO-ialis'la, Suppl. 427 (lard-ialisvle, C. ». »., 1915). varnalisla, C. ». »., 252. (1) Per la stessa ragione enunciata nella nota precedente riguardo agli analoghi nomi in -isa, non si vogliono comprendere in questa categoria que’ nomi in cui il suffisso - i s 1 a non si trovi innestato sopra un terna matronimico o patronimico in - al, come cuis'la, tarxisla etc. 254 GIORNALE LIGUSTICO (ib., 499) = Lartia Herennia Lartis filia, Laeniâ nata, e via dicendo. Non v’ ha. dubbio che siffatta teoria trova un valido appoggio nella bilingue di Firenze (ib., 252), in cui alla scritta etrusca arft. canzna || varnalisla corrisponde la latina c · caesìvs · c · f · varia · || nat; nonché nella congenere aretina (ib., 251) aelxe fulni aelxes || ciar&ialisa [] q.-fol-nivs · a · F · ΡΟΜ II fvscvs , ove il nome ciarftialisa occupa nel testo etrusco il posto ordinariamente assegnato al matronimico, mentre nel corrispondente testo latino venne soppresso in omaggio al costume romano di non designare la figliazione materna, e sostituito colle note della paternità susseguite dalla enunciazione del cognome, secondo le leggi, appunto, della romana nomenclatura. Tuttavia corre spontanea sulle labbra la domanda: o perchè negli addotti due titoli non si sono usate le voci varnal e ciarftial, secondo lo stile comune, invece di varnalisla e ciar&ialisa, e così, invece delle dianzi citate, le forme arn&al, lardai, larS-ial, larisal, latinial, pumpnal etc., quando i temi semplici in - a 1 hanno lo stesso valore e Γ identica portata dei composti mediante l’arrota dei suffissi - isa e - isla? E sia pure che debbasi tener conto degli usi diversi che poterono prevalere in diversi luoghi e tempi : ma che dire delle iscrizioni ove ambedue le forme vennero promiscuamente adoperate, come $ana:pulfnei:patacsalisa remznal: s'ex , (ib., 905 bis b); aules’ aulnis' arniH(a) 1 i s a · || atinal prus'aftne (ib., 990); lart : vete : ar ηθ· || al : caialisa (ib., 1008); hasti · titi · sential · tiscusna-lisa (Suppl. i.°, 233); larfri : pumpui : arn&lisa H lar-ftias : pumpual (Suppl. 3.0, 170)? E già il eh. A. Maury fin dal 1869 (op. cit.) aveva in proposito emesso il dubbio che i nomi con terminazione ili - isla e in - lisa, anziché designare semplicemente la madre, GIORNALE LIGUSTICO 255 come quelli in - al, potessero indicare l’ava materna, con che verrebbe a rendersi una miglior ragione dell’uso dei medesimi di fronte a quelli colla più semplice e comune desinenza di matronimico in - al. Ad un simile ordine di idee si accosta il Corssen, pel quale i nomi etruschi con desinenza in -alisa sono altrettanti nomi femminili di coniugio (Ehefraunamen), in ciò solo differenziantisi dai soliti in - asa, -esa, - isa, - usa, che questi sono dedotti dal gentilizio del marito, quelli, invece, dal mationimico o patronimico in - ali, - al, del medesimo (I, § 48); attalchè appellano al suocero od alla suocera della titolare, se il titolo è di donna, all’avo od all’avola paterna se virile. Cosi, secondo l'illustre autore dell’ Ueber die Spracbe der Etrusker, θ-ania: tlesneircicuniararnO-alisa s'i-nusa (C. i. i., 494 bis g) — Tania Teksinia Ciconid maire nata Aruntalis (Aruntis filii) Sinnii uxor; θ-ana : pulfnei : patacsalisa remznal : s'ex : (ib., 905 bis, b) = Tana Pulfenia Patacsalis (Patacsae filii ) uxor Remsinà matre nata coniugio ; laris : fraucni : velusa : lacinialisa (ib., 515) = Laris Fraucinius Veli Latinialis (Latiniae filii) uxore tiatus ; laris · tary nas · lari)· al isa (ib., 2357) = Laris Tarcnas Lartalis (Lartis filii) uxore natus. Non si può negare che questo sistema d’interpretazione faccia assai buona prova riguardo ad alcune iscrizioni. Esempligrazia, nella fabrettiana 11. 1352: larftia · caia · huzet-nas · arnftalisa· cafati || sec, che il Corssen traduce: Lartia Caia Husetinae uxor Aruntcilis (Aruntis filii) Cafatii coniugio nata, noi vediamo la titolare Larzia Caia enunciarsi figlia d’ una Cafazia e moglie di Usetina figlio a sua volta di Arunte (o Arunzia). Cosi l’ossuario senese con arnt· vete · ar ηθ-al isa [] caias' (ib., 422 a) ci esibisce un Arunte Vezzio figlio di una Caia moglie d’ un figlio di altro Arunte, o di una Arunzia, nel quale ultimo caso potrebbe 256 GIORNALE LIGUSTICO tradursi con forinola latina applicata alla linea femminile, 0 materna che dir si voglia, del titolare: Aruns Vettitis, Orine filius, Arruntiae nepos. Rari sono però i casi in cui la teoria del filologo berlinese si presti ad una applicazione così razionale; troppe essendo, per contro, le iscrizioni che porgono argomento e materia a dubitare della sua bontà. Strano apparisce, infatti, etniscamente parlando, che un v e 1 · he r ina · vel || a n c a r i a 1 isa (Suppl. i.°, 251 b) — Velitis Herennius Velii filius, Ancariae filii uxore natus, dopo aver enunciato il prenome paterno, si dichiari figlio della moglie del figlio di una Ancaria; in altri termini, citi il nome della madre di suo padre e non della propria; come non è men singolare dal punto di vista etrusco, che una aft : tutni : velfturus' : veltìritialisa (C. i. i., 746) =Attia Tutinia Vclturii Veltriciae filii uxor enunci sul suo titolo il nome della suocera, e non si curi menomamente di designare quello di sua madre. Le fcsposte considerazioni bastano forse a provare che in ordine a questa categoria di nomi non fu ancor pronunziata r.ultima parola. Per quanto poi concerne i nomi con desinenza in - ali - s - la, non sembra potersi altrimenti accettare la dottrina del ch. Maury (Journal des savants, 1869,1. c.), giusta la quale sarebbero identici a quelli in - a 1 i -sa, cosi trascritti per metatesi: presentandosi come molto più verosimile la supposizione che essi sieno diminutivi di questi ultimi , formati mediante 1’ arrota del suffisso -la, col quale appunto si plasmano tanti diminutivi anche in latino; di guisa che la terminazione in - s - la deriva da una più piena forma in - sa - la, per mezzo della soppressione della a muta innanzi alla /. Le voci lafrisalisla, lardalis'la, 1 arθ·ia-lis'la, varnalisla etc., son, pertanto, forme contratte di laftisalisala, larftalis'ala, larìHalis’ala, varnalisala etc.; induzione singolarmente convalidata oggidì dalla iscrizione di GIORNALE LIGUSTICO 257 Ariena: larizal : pelies : ar ηθ-alis'ala edita dal Corssen (I, p. 105) e da lui tradotta: Larisis filius Pelius Aruntalis ■ (.Aruntis filii) uxorcula natus. I2· VilLIZA · POIVIPO..... Dipinta in rosso su urna fittile fregiata, a bassorilievo, del combattimento di Hchetlo come il n. io. Era nel 1878 presso il negoziante signor Pacini, in Firenze. Quanto oscuro e ribelle ad ogni tentativo di restituzione si addimostra il secondo membro di questa iscrizione etruscoromana, tanto certa è la lezione del primo, suffragata al-Γ uopo dai riscontri v e 1 i z a (J ce 1 m n e i di tegola sepolcrale chiusimi (C. i. i., 1011 ter p), vcliza s e a n || ti di tegola fiorentina (ib., 207), SATELLIA · C · F · VELIZZA di tegola etrusco-romana di Montepulciano (ib., p. cccvn, n. xxi). La forma ve li za equivale a ve lisa, di cui si ha esempio in epigrafe VIILISA || CARTLIA di urna etrusco-romana di Montepulciano (ib., 855), da confrontarsi con VAMSA · VI IDI A di tegola della stessa categoria e provenienza (ib., 959), nonché con VILISA CARILI A ài congenere titolo sepolcrale (ib., 951). Non è nuovo, infatti, il caso che nei suffissi -isa, - usa adibiti, in un con quelli - asa, - esa, nella formazione dei cognomi femminili desunti dal coniugio, come pure talvolta per designare i prenomi paterni 0 i gentilizi materni, venga sostituito alla s la lettera i, potendosi citare in proposito le forme tiuza (C· ì. i., 726 ter a, ter c, ter d) lariza (ib., 1631), eileializa (ib. 73), per tiusa, larisa, e i 1 e i a 1 i s a etc. Non crederei siasi apposto il Corssen traducendo la veliza della fabrettiana n. 207 in Velii uxor, (I,§ 54); imperocché il nome Velio suonando in etrusco, al nominativo singolare, velu, velus', 0 vele, il cognome di coniugio verrebbe Giorni. LieutTico, Anno VI. *7 258 GIORNALE LIGUSTICO ad essere velusa, o velesa, siccome consta per molti esempi, non mai ve lis a. Sembra adunque più conforme alle leggi della etrusca epigrafia che questo nome sia derivato dal prenome paterno o dal gentilizio materno della titolare, quasi Velii filia, o Velia nata. Vero è bensì che la VELIZZA della più sopra citata etruscoromana di Montepulciano qualificandosi d[aii) F [ilia), verrebbe per ciò ad escludersi che il nome stesso derivi dal prenome paterno ; alla quale considerazione s’ inspira per avventura il eh. Fabretti, che inclina a ravvisare nella voce veliza = v e 1 i s a un diminutivo del prenome femminile velia. Ma, anzitutto, Γ uso di simili diminutivi in opera di prenomi femminili etruschi non è abbastanza comprovato da opportuni riscontri; non trovandosi esempio d.’una arn-frisa, d’una fastisa, d’ una hastisa, d’ una larfrisa o simili (1); e nettampoco potendo citarsi in proposito le note forme arnt-nisa (C. i. L, 636, 660 bis c, 759, 1018 bis c), e arnO-lisa (Suppl. β.°, 141, 170), di cui la prima è senza meno un cognome matrimoniale (Arnntinii uxor) e tale vien dichiarata dallo stesso Fabretti (Gloss. ital., col. 174, s. h. v.), mentre la seconda si manifesta per una forma contratta di arnfta-lisa, vale a dire d’ una voce che a tenore di quanto si è esposto al n. antecedente, può indicare, secondo i casi, il prenome paterno 0 materno, se non forse quello dell’ avola materna, non mai il proprio del titolare. Nulla osta d’ altra parte a credere che nella fattispecie, seguendo un uso la cui frequenza presso gli Etruschi ammessi a far parte della società romana, viene attestato dalle iscrizioni bilingui (2), il (1) Faccio eccezione per tanusa (Suppl. 3.0, 251 ter c, ni), che ha infatti tutta l’apparenza d’un diminutivo del prenome femminile frana. (2) Molti esempi esibiscono le bilingui di siffatti cambiamenti di prenome. Così il titolare della famosa aretina a είχε fulni aelxes||ciar-frialisa si enuncia latinamente Q. Folnius A. f. Poni. Fuscus (C. i. i., GIORNALE LIGUSTICO padte della titolare avesse cambiato ufficialmen-te il suo prenome etrusco velu in quello latino di Caius, pur conservando il primo nei suoi rapporti domestici e famigliari. *3- VOLCHACI A · L · F Incisa su urna di travertino senza rappresentazione, nella villa di Poggio Pini della signora contessa De Vecchi di Siena. Ho accennato altrove (i) alla strettissima parentela del latino Volcacius cogli etruschi νείχε, ve^ara, velxas, ve^aias' etc., nonché alla comunanza di radice fra detti nomi e quello dell’ antico dio italico Volcanus, o Volkanus; derivazioni che non hanno nulla di forzato, chi osservi come a velimna etrusco corrisponda appunto in latino Volumnius, del pari che a velaftri Volaterrae, a velsu Volsinium, a velne Volnius, a vel-9-urna Volturnius etc. La forma VOLCHACIA rappresenta Γ anello di congiunzione fra il nativo velxaias’ e l’ovvia VOLCACIA delle posteriori epigrafi latine. I titoli etrusco-romani possono dividersi in quattro classi 251). E dicasi lo stesso di arfr.canzna || varnalisla che si dichiara C. Caesius C. f. Varia «ai. (ib., 252), di v.leene, v [| hapirnal = C. Licini C. f. Nigri (ib., 253); di v . cazi. c. clan = C. Cassius C.f. Saturninus (ib., 460); di vl.alfni .nuvi [| cainal = C. Alfius. A. f. Cainnia natus (ib., 792); di velj: venzile : alfnalisle = C. Vensius C.f. Caius (ib., 793), di afr.unata.varnal ar = Manius Otacilius Rufus Varia natus (794); di aS·. arntni. umranal = C. Arrius C. f. Q. (Suppl. 2.0, 81); di arn . arntni. arri || arntnal == C. Arri. Arn. Arria nat. (ib., 82) etc. (1) Di un bronco piacentino con leggende etruschi, negli Atti e memorie delle Deputazioni di Storia Patria dell’Emilia; Nuova Serie, IV, 16. 26ο GIORNALE LIGUSTICO che rispondono ad altrettante fasi di quel processo di transizione dalle forme proprie alle romane a cui soggiacque ΓΕ-truria, allorquando perduta l’indipendenza politica, venne in essa estinguendosi a poco a poco quella facoltà specifica in cui risiede 1’ essenza della vita d’un popolo, dico il genio nazionale: tanto che adottando di mano in mano la scrittura, la lingua, la letteratura, le instituzioni, i costumi, i sentimenti, tutti insomma i principali elementi della civiltà romana , andò perdendo la coscienza della sua individualità storica, fino a divenire servile imitatrice, poi ad identificarsi completamente con coloro a cui era stata prima e solenne maestra in ogni ramo di civiltà. La prima classe comprende i titoli di cui il testo è etrusco e la trascrizione latina. L’ elemento latino è in siffatte iscrizioni rappresentato unicamente dalle forme alfabetiche, senza pregiudizio del genio grammaticale dell’ idioma etrusco : Λ · TETINA II LAVCINAL (Suppl. i.°, 251 ter 0) ; HA · NVMSINEI (ib., «); VEL · HERINA VEL II ANCARIALISA (ib., b): a · ANIE · NAMONIAS (Sappi. 3°. 211); VEl·· V1SN1E · VEIOS (C. i. i., 960) etc. Occupano un posto a parte in questa categoria certe iscrizioni che ancor conservano talune reliquie dell’etrusca scrittura; interessante reminiscenza che si può paragonare a quei vetustissimi frammenti architettonici cui accade di riscontrare talvolta incorporati in moderni edifici, per es.: OA ANIAINEI : CPI (Suppl. 1°, 251 ter a); LAROIA AERNEI || VETINAL (C. i- l, 856); OANIA : CE-MVNIA : FE(L)VA (ib., 283), in cui la lettera O ha il valore del etrusco, e la F quello del digamma; AR · ShEDO || THO-CERNAL U CLAN (ib., 956); LAR+I · RAVEIA || +E+IES · ARN+HEAL (Suppl. 3°, 264 bis); LA-..-ΘΙ ΑΨνΝΙ (C. i. i. 1588); FASTIA AEMILI · PRAESENTIA (Suppl. i.°, 295); dove si veggono ricomparire, sparse tavole d’ un gran naufragio, le forme grafiche ©, h, ψ, +, ultime vestigia GIORNALE LIGUSTICO 261 dell etrusco alfabeto. Una tegola di Montepulciano del Museo di Firenze (C. i. i., 953) ha un congenere titolo scritto a caratteri latini, bensì, ma con andamento etrusco, cioè da destra a sinistra. Nei titoli spettanti alla 2.a classe incomincia ad accentuarsi la prevalenza dell’ elemento romano. Il quale si limita dapprima ad imprimere ai nomi etruschi una forma più consona al vocalismo latino, usando due segni speciali per l’o e per 1’ u, e sostituendo i segni delle così dette lettere medie b, d, g, rappresentate rispettivamente in etrusco dai caratteri delle corrispondenti tenui p, t, c, come in VI II· · PI 1R-GOMSNA II CNIIVIAS (Suppl. 1°, 154); VIBIA PTRONI (C. i. L, 1256); TANIA · SVDERNIA · SADNAL (ib., 285). Così in LAR-CNAEVE (Suppl. 161); A · CNAEVE || CAINAL (ib., 159); THANIA CAIIZIRTM PONTIAS (Suppl. 2.% 27), vien sostituito il dittongo a nomi che in etrusco ne erano sprovvisti : poi nomi etruschi come il dianzi citato c n e v e cominciano a comparire in veste schiettamente latina : A · CNAEVS · A · FF II PACINNAL (Suppl. 1.°, 157). Appartengono alla terza classe i titoli in cui la nomenclatura etrusca mostrasi non pur trascritta con elementi dell’ alfabeto latino, ma espressa con latina dicitura. I nomi assumono desinenza e struttura latine: TUIA || VESCONIA (Suppl. 3.°, 95); PONTIVS II RVFVS (Suppl. 2.% 29); HA-STIA · VERATRON |] IA (Suppl. 1.°, 251 ter 1) etc. La paternità che nelle iscrizioni etrusche si designa col semplice prenome del padre al genitivo, vien qui citata alla romana, cioè mediante la nota 0 sigla del prenome stesso susseguita da quella del rapporto di figliazione: LARTHIIA CNEVIA |(. A-F (ib., ï6o); VEl· NIRGOMSNA · VEl· · F (ib., 155); A : SCRI-BON II C · F (Suppl. j.°, 102); μ · PERNA · FEl· || F (ib., 270); THANNIA · ANCHAR || IA · LAR · F (C. i. i., 2015); LARTIA · MARIN · LA · l'IL(ib., 984 bis b). 262 GIORNALE LIGUSTICO I matronimici dalla caratteristica desinenza etrusca in - .11 vendono resi latinamente con diverse formole: cioè col nome della madre sia al genitivo, sia all'ablativo, quando solo, quando accompagnato dall’ aggettivo natus, nata, o cnattis , mata, talvolta preceduto dalla voce inatre o viceversa seguito dalla indicazione di filia: VEL · SPEDO · CAESIAE (Garrucci, Syìloge, 1983); ITTI A || N || THANAE · F (Suppl. 1.% 251); TAHNIA · ANAINIA || COMLNIAI · FIA (C. i. i., 281); LAR-THIA · MARINA || CAINAI FILI A (ib., 984 bis d); A · PE-TRONIVS · L · F · SVCIAE CNAT (ib., 1255); CLANDIVS · VEL · F · VESSI A · GNATVS (ib., 2020); VEL SPEDO || THO-CERONIA II NATVS (ib., 957); L · HERENI CAPITO || MA-T(RE) H TANVSA || ΛΧΙΝΛ (Suppl. 1.% 251 ter c); AROS · VELESIVS · TLABIVIA (C. 1. i., 2021). I cognomi femminili desunti dal coniugio non vengono altrimenti conservati nella forma originale, bensì esprimesi il coniugio col nome del marito al genitivo: THANIA · ACHO-NIA · CASCELI (C. 1. »., 2006); THANNIA CAESINIA · VO-LVMNI (ib.. 2017); LARTHIA · OTANIS (ib., 857); LAR-THIA HERENNIA IOLLONIS (Suppl. ).% 115) etc.; nè manca esempio di detto genitivo coll’agiunta uxor sul tipo dei noti titoli prenestini, come COCCEI A II V SCATVNI || VXOR (Garrucci, Syll., 1958; cf. C. i. i., 867 bis a); ANNIAI · L · F || MAXIMI Il VXOR (C. i. i., p. cccvi, n. vili). La quarta classe dei titoli etrusco-romani spetta al periodo in cui il sistema denominativo degli Etruschi perde ogni carattere proprio per confondersi onninamente col romano. Una delle più caratteristiche prerogative delle donne etru-sche consistette per lungo tempo nel conservare gelosamente, a differenza delle romane (1), l’uso dell’appellativo perso- (1) Che anticamente anche le donne romane usassero il prenome è attestato nel modo più esplicito dall’ autore del libro De nomiti, ration. GIORNALE LIGUSTICO 263 naie, ossia prenome; tanto che si può dir di esse durante il periodo dell’ autonomia nazionale ciò che asseriva Orazio dei Romani degli ultimi tempi della Repubblica; i quali provavano una singolare compiacenza nel sentirsi appellare pel proprio prenome gaudint praenomine molles Auriculae (Sai., II, 5). Il prenome, il gentilizio e il matronimico per ambo i sessi, nonché per le donne maritate il cognome dedotto dal coniugio , furono per più secoli gli elementi essenziali dell’ onomastico etrusco, ai quali posteriormente si aggiunse, però in linea secondaria, il patronimico, importazione serotina delle schiatte italiche con cui F etrusca trovavasi a contatto. In ordine al cognome maritale, vedemmo come sia stato il primo a cadere in disuso, non riscontrandosene traccia, almeno nella forma etrusca, sui titoli etrusco-romani. Gli altri elementi permangono inalterati su questi per qualche tempo ; ovvie essendo le iscrizioni sul tipo delle seguenti: TANVSA || MVNATlA II LVCCILIA 0 NATA (Suppl. I.% 251 ter tn) ; L · HAERIN A II TIFILI A ■ NATVS (ib., 251 ter g) ; Ç · CAETEN-NIVS il VESINNIA · NATVS (C. i. L, 857 bis d): solamente, l’elemento avveniticcio, ossia il patronimico, rimasto infmo allora affatto secondario e d’uso assai limitato, andò in questo periodo crescendo d’importanza proporzionatamente al maggiore influsso dell’ imitazione romana. Si generalizzò, infatti, lo stile di citare nelle iscrizioni, secondo attribuito a Valerio Massimo: antiquarum mulierum in usu frequenti praenomina f aer uni; oltreché è confermato dalle iscrizioni, pogniamo che in molli casi ciò che fu creduto prenome altro non sia che il cognome della titolare preposto al gentilixio a guisa e in ufficio appunto di prenome. 264 GIORNALE LIGUSTICO il costume romano, il prenome paterno; ciò che ebbe luogo dapprima senza pregiudizio dell’ usanza nazionale circa il matronimico, come nelle epigrafi: C · VENSIVS · C · F || CAESIA NATVS (Garrucci, Sylì., 1995); TH ANI A || SVDERNIA AR - F H TA · SADNAL (C. i. L, 958); L · CASIVS · L · F · SCARPIA · NATVS (ib., 1183); C · ODIE : C · I' || LARTIA || GNATVS (ib., 1018 bis e) ; L · HIRRIVS || L * F * VOESIA NATVS (ib., 1018 bis /); C · SVLPICIS · C · F · VELTHV-RI AE · GNATVS (ib., 1313); C · GRANI A * C · F Π LVDNIAE GNATA (Conestabile, Mon. di Per., iv., 726) etc., che rappresentano il tipo più comune in fatto di titoli etrusco-romani; più tardi, però solo sporadicamente, anche coll’ esclusione di questo: L· ALFI A F (C. i. i., 857 bis £); \JEV · SARTA || GVS · VI IL · I1 (Suppl. 1.°, ter u) ; THANIA · H ARNVSTIA · LA · F (C. i. i., 2016) etc. Nè ciò fu tutto: imperocché non vigendo presso i Romani di quell’ epoca 1’ uso dei prenomi femminili, alle donne etrusche parve cosa, ridicola conservare più oltre i proprii; laonde si cominciò dal posporli ai gentilizi, relegandoli più spesso in terza linea , cioè dopo le note della paternità in modo che facessero figura e fungessero ufficio di cognomi secondo l’uso romano: ARRI A · THANA (ib , 950); SENTI A · A · F · TH ANNI A (ib., 284) ; SPVRINNIA II L ■ F · TH ANNI A || - XCI111 (Suppl. 2.°, 122) etc. Poi a poco a poco i prenomi femminili sparirono affatto dall’onomastico etrusco, e i titoli muliebri si limitarono alla enunciazione del gentilizio e del cognome propriamente detto: HERNNIA II SEQVDA (Suppl. 1°, 251 ter i)\ VILISA || CARILI A (C. i· i.} 951)5 ABVRIA · C · F · O RVFA (ib-, 2352); ACONIA · L · F · Il QVARTILLA || ANNOR · VI (Conestabile, op. cit. II, xii); ACONIA · C · L · PVMPVA (id. ib., Ili, cccxxiii); e talvolta a quella del semplice gentilizio seguito dalle note della paternità: ASICIA SEX· F (id., ib., IV, 710); BRVITIA · A · F (C. i. i., 1539); VARIA · A · F (Sup- GIORNALE LIGUSTICO 265 pi. 1.°, 251 ter x); HELVIA · L · F (Suppl. 3.% 98); BLAE-SIA · L · F (ib., 116). Per le stésse ragioni invilirono e caddero in dissuetudine i prenomi nazionali maschili arni)· (Aruns), lari)·, laris (Lar, Lars) , seθre (Setrius) 3 vele (Velius, Velus), veliHir (Velthur, Velturius). Quei prenomi erano stati portati da gloriosissimi antenati, e costituivano altrettanti simboli d’una Etruria illustre e possente, evocando il ricordo dei tempi in cui in Tuscorum iure pene omnis Italia fuerat (Catone appo Servio in Aen., XI, 517), allorché tanta opibus Etruria erat, ut iam non terras solum, sed, mare etiam per totam Italiae longitudinem, ab Alpibus ad fretum Siculum fama nominis sui im-plesset (T. Liv., I, 2). Essi aveano specialmente il torto di urtare i nervi ai superbi vincitori, riportando il loro pensiero all’ ultima dinastia che tenne lo scettro reale in Roma ; e sopratutto a quel luttuoso episodio della storia romana, quando Larte Porsenna avendo costretto Roma a capitolare, impose ai Romani come condizione di resa non solo la consegna di tutte le loro armi, ma di non servirsi quindinnanzi del ferro se non pel vomero, ne ferro nisi in agricultura uterentur (Plin., XXXIV, 39, 2). Così degli antichi prenomi non sopravissero che quelli che erano comuni agli Etruschi ed ai Romani, quali aule (Aulus), cae (Caius), tite (Titus). In luogo de’ nazionali si presero a prestito i romani; e similmente per conformarsi ai costumi di Roma si adottò Γ uso dei cognomi. Vero è bensì che anche dopo che questi vennero usu publico et observantia communi, e promiscuamente ai medesimi, in omaggio alle tradizioni nazionali si conservò per non breve lasso di tempo Γ antica pratica di affermare sui titoli sepolcrali la maternità degli estinti, es.: C · TITIVS · L · F · ARRI A · NATVS H PV-PILLVS (Suppl. 96); L · GELLIVS fl C · F ■ LONGVS [| SENTI A N (C. i. i-, p. cccvi, n. IX); L · POMPON IVS · 266 GIORNALE LIGUSTICO L · F · ARSINIAE GNATVS · PLA || VTVS (ib., 1286); C · SENTIVS · C ■ F li GRANI A · CN AT || HANNOSSA (ib., 857 bis e); C · VOLCACIVS || C · F VARVS || ANTICONAE || GNATVS (Conestabile, op. cit. IV, 704). Il fatto che questa pratica fu a gran pezza di tutte le tradizionali etrusche quella che più tenacemente si mantenne resistendo all’influsso romano, trova la sua ragione nella persistenza d’ un sentimento nobilissimo che ebbe radici profonde non meno che estese nell’ animo del popolo etrusco, ed è atto più d’ogni altro a fornire un simpatico concetto del carattere morale di questo popolo, cui la pietà verso i suoi morti, l’amore della famiglia, il rispetto e la deferenza per la donna, in genere, la sposa e la madre in particolare, hanno a buon dritto procacciato fama di pio, affettuoso e cavalleresco (1). Ma anche quest’ ultimo avanzo dell’ antico sistema onoma-tologico etrusco doveva sparire sotto 1’ azione dissolvente ad un tempo e assimilatrice del dominio romano. Alla fine di questo periodo 1’ assimilazione è ormai un fatto compiuto ; nulla si può additare nei titoli etrusco-romani del seguente stampo: k · PISENTI · C · F || AkBANI (Suppl. i.° 251 ter p); L · ARRI II ARRVNONIS (Suppl 3°, 112); L · POMPONIVS · L · F · PLOTVS (C. i. i., 1281); L · ACONIVS || L · F · ME-DICVS (Conestab. Mon. Per., II, ix) etc., che valga a distinguerli dai comuni romani dei primi tempi dell'impero. (1) Apparisce, invero, esorbitante l’asserzione del Maury che l’Etrusco attribuisse nella propria nomenclatura una speciale importanza alla citazione della sua parentela femminile per esser questa frequentemente la sola che gli fosse dato conoscere, tanto rilassati erano i costumi nella sua patria. Imperocché la coruttela dei costumi presso gli Etruschi è propria del periodo della decadenza nazionale, laddove 1’ uso del matronimico nel loro sistema denominativo è antico quanto questo, come è attestato dai monumenti epigrafici. GIORNALE LIGUSTICO 267 La Volchacia figlia di Caio, titolare della presente epigrafe, vuol essere ravvicinata alla omonima figlia di Lucio di cui in congenere titolo esumato nel 1827 e registrato dal Mommsen (C. i. Jat., I, 1369) e dal Garrucci (Syll., 1998); tanto più che le due iscrizioni spettano alla stessa classe monumentale (urnette cinerarie senza rappresentazione), accusano la stessa provenienza dall’ agro chiusino, e ostentano la stessa forma così sotto il rispetto paleografico come dal lato ortografico. *4- ALFIA · C · F GALLA incisa su urna di travertino senza rappresentazione: presso la signora Contessa De Vecchi a Poggio Pini nei dintorni di Siena, come il n. antecedente. Notissima ira le etrusche è la gente Alfia, di cui alcuni rami fiorirono in Perugia, come si evince da numerosi titoli sepolcrali. Anche il cognome Gallus, femm. Galla, è abbastanza conosciuto nella epigrafia etrusco-romana, dove però ricorre più sovente trascritto alla etrusca, cioè colla sostituzione della gutturale forte alla tenue, mancando gli Etruschi del segno di quest’ ultima, rappresentata sempre da c o da k. Così nelle iscrizioni AVLE · LARCII · CALLI (C. i. L, 955); A · VENCSI · CAkkl (Garrucci, Syll., 1993), l’ultimo membro altro non è che la forma etrusca del cognome Gallus; con buona pace del Corssen, il quale deriva i nomi etruschi cale (gen. cales, dat. cales'i), cali, calia (gen. calia s), callia etc. da uno stipite ca-lo-, bello, = gr. καλ-ο- in Κάλλ-ων, Κάλλ-ω-ç, Καλλ-ία-ς, Κάλλ-ι-ς, Καλλ-ώ, attribuendo loro un significato analogo a quello dei cognomi latini Pulcher, Lepidus (II, § 455, 506, 509, 567). La stessa ortografia si riscontra nel titolo ceretano CALLI 268 GIORNALE LIGUSTICO C. i. i., 2355), nonché sulla tegola di Cetona A · HAE-RINNA · Q · F · Il SENTIAE CAUAE (I NATVS (Suppl. i.°, 251 ter d). Della forma latina analoga a quella esibita dal presente titolo trovasi esempio in epigrafe etrusco-romana di umetta chiusina: ARVTIVS · A · F · MVRRE |] NIA · · · N · GALLVS (C. i. i. 562 ter in). In tema di epigrafia etrusco-romana, non riuscirà superfluo che io aggiunga agli ora editi i due seguenti titoli, tuttoché già compresi in altra mia silloge di recente pubblicazione (1), avendo sopratutto riguardo all’indole di questi monumenti, di cui 1’ essenza consiste nel dare e ricever luce per mezzo dei confronti. 15· VIP IACF. Intaglio in corniola di esimio lavoro, colla rappresentanza di un guerriero vestito di ricca armatura, la spada sguainata nella destra, in atto di schermirsi poggiando un ginocchio a terra e rannicchiandosi dietro il largo scudo. Le tre prime lettere dell’iscrizione sono incise nel campo, dietro la cresta dell’elmo, le altre nell’interno dello scudo; il tutto contornato da orlo così detto etrusco. Presso il sig. march. C. Strozzi in Firenze. 16. T · MESTRI. Intaglio in onice a due strati, con testa di moro. Presso il prelodato sig. march. C. Strozzi, il quale me ne comunicava testé un impronta in ceralacca. (i) V. Poggi, Iscrizioni gemmarie, 1.* serie. GIORNALE LIGUSTICO 269 È degno di nota, come già ho osservato altrove (op. cit., S> P· ri)> che questa gemma fu trovata da poco nella Val-dichiana, d’ onde appunto sembra provengano quelle monetine in bronzo d’incerta attribuzione aventi al diritto una simile testa di etiope e al rovescio un elefante; le quali passano per etnische, perchè, portano uua lettera dell’ alfabeto etrusco ai piedi del pachiderma (1). Non è la prima volta che la numismatica e la sfragistica si scambiano luce e rivelano P esistenza d’ una stretta correlazione fra le due serie monumentali. Nel caso concreto, la provenienza della gemma conferma P origine etrusca dei quadranti anzidetti, come il fatto che il possessore di questa gemma abbia desunto il tipo del proprio suggello dai conii monetali del paese ove fu rinvenuta accenna a rapporti d’ 0-rigine, di patronato 0 di clientela del titolare colla città di cui il tipo stesso era emblema. Il 1 ito Mestrio proprietario della gemma appartiene a famiglia non ignota nell’epigrafia latina (Garrucci Syll., 2249. C. i. lat., V, 2507. Wilmanns, Exx., 1441 a, etc. etc.), e nettampoco nell' etrusca, dove il presente titolo trova riscontro nel 1 arθ·i · mestri di lapide perugina (C. i. i., 1658). Altri ha rettamente avvertita la strettissima parentela che il 111 es tri etrusco da una parte e l’umbro mestru della quinta tavola eugubina dall’ altra hanno col latino magister. Si può osservare in proposito come anche oggidì nel dialetto genovese la voce corrispondente all’ italiano maestro suoni meistro, metatesi, appunto, dell’antichissimo mestrio. Considerando che una gran parte dei nomi di famiglia etru- (i) L. Sambon, Recherches sur les mon», de la presqu’île ital. p. 55, n. 76. Lanzi Saggio ecc., II, 31, 115, tav. VII, n. 12. Carelli, Ital. vet. numm., tb. XII, n. 3. Marchi e Tesseri, A es grave del Mus. Kir cher., p. 98, cl. Ili, tv. suppl. n. 5. Fabretti, C. i. i., 2461 B. GIORNALE LIGUSTICO schi, non diversamente da quanto si verifica riguardo all’ o-nomastico degli altri popoli, trae la sua origine dalle qualità fisiche o morali degli individui che pei primi li portarono, e tenuto conto del valore di me-s = lat. mag-is, si può benissimo supporre che il gentilizio etrusco me-s-tr-i, lat. Me-s-tr-in-s, abbia avuto ab origine il significato di omone, o meglio di uomo superiore ad altri sotto qualche rapporto, sia ■ fisico sia morale. 17· · fluita ■ mima · n (. · · avpnal anes'· atina ·) = ... Aupinialis (—Aupinid itala), Annii (uxor), Atinia. Dipinta su olla cineraria fittile a foggia di campana, proveniente da Chiusi e conservata a Siena. La sillaba nal del primo membro è in nesso come nelle voci alfnal, remznal, vipinal, marcnal delle iscrizioni nn. 1008, 1011 bis k, 713 bis del Corp. i. i., e n. 80 bis del Suppl. 2.0. È questa, almeno, la lezione più plausibile di cui sia suscettivo P apografo gentilmente trasmessomi dal eh. sig. A. Lisini addetto all’Archivio di Stato in Siena. Il matronimico avpnal, sebbene con diversa ortografia, conferma la lezione aupnis'a del n. 1 della presente silloge, e con essa la dubbia a u p n i della già citata iscrizione chiu-sina n. 246 del Suppl. 1°. 18. AEIfl · I2)V4 · 12)3=1 · <1ΑΊ * l+W (larti · lar · vecsi · pucsi · nisa) = Lartia Lartis (filia) Vessia, Pucinii (0 Puxinii) uxor. Dipinta in rosso sulla fronte di umetta cineraria fittile adi- GIORNALE LIGUSTICO bita ad uso di vaso da fiori a Chianciano. Copiata quivi dal eh. prof. Fumi di Siena che me ne diede comunicazione in Savona nel mese di agosto del corrente anno. Il fatto d’ un’ urna etrusca trasformata in vaso da fiori è uno dei mille episodii onde s’ingemma la storia della barbarie contemporanea, e per quanto inqualificabile, non può tuttavia recar meraviglia a chi abbia come ho io stesso e più volte veduto urne e sarcofagi etruschi servir da abbeveratoi a cavalli o da lavatoi alle fantesche, lapidi scritte, marmi figurati e altri venerandi monumenti accomodati ad usi domestici , e peggio ancora. Fino a qual punto si possa arrivare oggidì stesso in opera di profanazione e di vandalismo informi uno dei più insigni monumenti dell’ antichissima epigrafia italica, dico la lapide di Sonvico (C. i. i., 2 ter), di cui, rotta in mezzo e spianatene le parole, si adoperarono i frammenti a formare due architravi di stalla ! E troppo evidente come il punto fra pucsi e nisa sia dovuto ad imperizia del lapicida, il quale spezzò così in due un nome solo, di cui la vera lezione è pucsinisa. Non mancano, del resto, esempi di simile errata interpunzione, fra i quali mi limiterò a citare puruni:sa (C. i. i., 534, quatuor g) per purunisa; velsi-sa (ib., 1039 bis) per velsisa ; malav in · isa, mus · usa (ib., 190 , 2326) per malavinisa, mususa etc. Il gentilizio vecsi era ignoto come tale, cioè nella sua forma etrusca ; conoscendosi bensì in veste latina dall’ iscrizione etrusco-romana di Perugia CLANDIVS · VEL · F · VESSI A · GNATVS (C· ». »., 2020): del pucsini, invece, che, esser dovette il gentilizio del marito della titolare Larzia Vessia e dal quale fu dedotto il nome matrimoniale pucsinisa, già si avea sentore nel matronimico pucsinal di iscrizione chiusina (ib., 638 ter a). GIORNALE LIGUSTICO 19. IXIIXIM+O8IH4 (mi felts'i XII XI) = Sum Feltius (-ici ?) · XII ■ XI. Grafita in ciotola di bucchero trovata nella valle dell’ Orda, sotto S. Angelo in Colle, e di presente conservata presso P Accademia dei Fisiocritici in Siena. Trascrizione del prefato sig. A. Lisini. Questa epigrafe che qui esibisco unicamente perchè non ancora compresa nella Raccolta fabrettiana, non è però inedita, in quanto che trovasi inserta nella parte postuma dell’opera del Corssen (II, p. 613), al quale io stesso P avea comunicata fin dal febbraio 1875. Secondo il Corssen, è un’iscrizione dedicatoria, del genere di tante altre graffite su vasi di creta e di metallo, col significato: Me· Feltius (-ici ? ) (dedit)· XII · XI. Io crederei piuttosto che il vaso sia sepolcrale, e come tale, inscritto col nome del defunto suo possessore, a memoria del medesimo. Quanto all’essere questo nome che tien dietro al mi, al caso retto, anziché al genitivo o al dativo, ben diceva 1’ Orioli in proposito che ognuno sulle cose che gli appartengono può con la massima regolarità limitarsi a scrivere il suo nome al nominativo, per esprimere questo è mio (Album di Roma, 1855, p. 171). Le cifre XII · XI si riferiscono, secondo il Corssen, al prezzo del vaso, 0 al numero del vaso stesso nella fabbrica, 0 nella bottega dello stovigliaio. Secondo me, potrebbero indicare gli anni e i mesi del defunto o della defunta titolare. 20 : guatai : ihaiuva ofl (aft aulnani : vetanal :) = Aruntia Aulinniana Vetennialis (— Vetennià nata). Dipinta su vaso fittile a forma di campana con ornati in GIORNALE LIGUSTICO 273 veide, rosso e nero, proveniente dall’agro chiusino. Trascrizione del sig. A. Lisini. La famiglia Vetennia già era nota per le forme ve tana (C. 1. i., 1015), vetanei (ib., 1018), vetani (ib., 548), vetnal (ib., 626; Suppl. i°; 251 bis g), ve tn alisa (ib., 209 bis a, C. i. i., 630), di titoli parimenti chiusini o di territorii contermini. Il nome proprio femminile aulnani ha convenienza di forma coi noti acnani (Suppl. 1.°, 190), alinani (Suppl. }·, !2i), anani (C. i. i., 1100), auntan(i) (ib., 1011 ter /) , vetinani (ib., 1796) etc. Il correlativo maschile sta al gentilizio au Ini di urne perugine (ib., 1001 , 1585) come nell onomastico latino Aemilianus sta ad Aemilius, Octavianus ad Octavius. Non havvi dubbio, infatti, che alcuni tipi onomatologici etruschi corrispondono alla categoria dei nomi latini in -anu -s, come è del pari certo che si riscontra nell’ onomastico etrusco una formazione analoga a quella che i Romani ottennero mediante 1’ allungamento in - anu - s dei propri gentilicia. Il carattere generale di tali tipi consiste nelle desinenze in -ana-s, in -ane-s e in -ani-s (i), spesso trascritte ad imitazione (1) Ecco i principali nomi delle tre serie: al fi anas', Suppl. 2.0 , 86; alpana, ib., 51; amanas, Suppl. }.°, 297; apianas', C. i. i., 265; arianas', ib., 266; atana Suppl. i.°, 455; axinana, C. i. 860; eleivana, 2614 quat.; epana, 2404; hapana, 1604; husanas, 2589 ter a; husrnana, 2094; ftalana, 2505 bis; ìurmana, 554, sq. ; ceiana , 2038 ; ci vesana, 2031 ; cultana, 633 bis b, 726 quat. a, b ; la re an a , 501 bis d; laucana , 813 ter; marca nas', 1683, 1648; p ar-S-anas', Suppl. 3.0, 168; paxanas, Fiorelli, Not. degli scavi, 1879, p. 12; pipinanas, C. i. i., 2130; plenianas' Suppl. 408; pun-pana, ib., 90. (Il Corssen legge punpnana, I, p. 970); pupliana, C. i. i., 2614; purts'vana Suppl. 1.°, 387; rianas' Suppl. 3.0, 408; seiana, Fiorelli, Not. dagli scavi, 1877, p. 143; vetana; C. i. i., .1015; Giorn. Ligustico, xAnno VI. 18 274 GIORNALE LIGUSTICO della pronuncia volgare coll’ omissione della sibilante ; ed è allungando in siffatte desinenze i gentilizi uscenti al caso retto in -as, -es, -is, -us, che gli Etruschi, conforme al vipinanas, 2115-2117, 2119 ; umrana, 785, 787, 788, 931 bis, 932; umranas', 786; uvilana, 1563, sq. ; etc. atrane, C. i. i., 1532, 1918, 2173; Suppl. i.°, 382, sq. ; campane, C. i. i., 1631; capevanes, 1961; lacane, 1623; laucane, 646; laveanes', 1709; maricane, 655 bis a; Suppl. 1°, 287; m(u)lnanes', C. i. i., 439; mulv(i)ane, 2033 bis; Corssen, II, p. 534; nevtlane, 2525; patislane, 644, 665-668, 2568; plaicane, Suppl. 1·°, 138 5 remazane, C. i.i., 511 ; tacpane, 716 bis ; ve an e , 839 bis n ; ucr i-slane , 2574 bis ; u ti lane, 1885; uvilanes', 1138 ; etc. acnani, Suppl. 1.°, 190; alinani, Suppl. 3.0, 121 ; anani, C.i. i-, 1100; auntan(i), xcn ter Z; axlani, 1542; feiani, 1219; ficani, 1209; laani, 892; laucani, 992; klanis'’, 2608; ma cani , 652;. mani, 1681 b; maricani, 655 bis b; meiani, 2339; muranis, Suppl. 3.0, 404 ; otanis, C. i. i., 857; patislani, 663; spuranis, 1860 ; veani, 1913 ; velani, 342 ; v etani, 548; veti nani, 1796; etc. Alcuni dei citati nomi sono al genitivo ; ma questo arguisce e designa il caso retto. Spettano del pari alla categoria dei nomi etruschi corrispondente a quella dei latini in -anus le forme contratte isminfrians, C. i. t., 2094; culs'ans7, 1053; sefrlans', 459, 2492; sians', 191$; vipi-nans , 2108 ; etc. Altri nomi si possono dedurre dai matronimici (hacanal, 1203, i, velabai, 724 bis c; ceinanal, Suppl. i.°, 43^! etc.), dai coniugali (upani sa = Oppiani uxor, C. i. i., 187 etc.), come pure dai nomi femminili con desinenza in - ei =i (aletanei, Suppl. 3°, 338; etanei, C. i. i., 15 93; cura nei, 1361 ; 1 efranei, 756; su fra nei, 562 ter c; velts anei, 1517 ; vescanei, Suppl. 3.0, 241 ;'etc.). La regola che la formazicne dei riferiti nomi e congeneri corrisponda a quella dei nomi latini in - anus - ana non è tuttavia senza qualche eccezione : e ad alcuni di detti nomi sembra, infatti, meglio convenire un corrispettivo latino in -ius. Si potrebbe anche citare il nome nevtlane, il cui corrispondente latino è Neoptolemus (Νεοπτόλεμος) ; ma la lezione di questo nome graffito su specchio d’incerta origine (C. i. i., 2525) è probabilmente errata, invece di nevtlame. GIORNALE LIGUSTICO 275 genio peculiare della loro lingua, e in pari tempo mediante un processo analogo a quello onde i Romani deducevano , appunto, Aemilianus da Aemilius, Octavianus da Octavius, plasmavano i nomi a cui si accenna (1). Così da vip in as, lat. Vibinius deriva vipinanas = lat. Vibinianus, come da p 1 e n e s (P linius) si formò plenianas = Plinianus, da a ne (Annius) anani — Annianus, da liuti e (Otius) otanis = Otianus, da vetinei (Vetinia, masch. vetnas) velinari i s = Vetiniana etc. Che queste forme e le altre congeneri etnische corrispondano effettivamente a quelle in - anus, - ana dei Latini è provato dalla iscrizione etrusco-romana di Perugia L· PA PI RI VS · L· ARSI · OBELSIANVS (Conestabile , Mon. di Perug., IV, 729), dove il cognome Obelsianus formato mediante P allungamento in - anus del gentilizio Obelsius determina il valore reale della forma etrusca upelsna dedotta in modo analogo dal gentilizio upe lsis(upels(a)na). È noto che i Romani fecero dapprima uso dei nomi così formati per indicare Γ adozione. L’ adottato entrando nella famiglia dell’ adottante assumeva i nomi di quest’ ultimo, aggiungendo ai medesimi il proprio gentilizio allungato in - anus: così Emilio Paolo adottato da P. Cornelio Scipione assunse la denominazione di P. Cornelius Scipio Aemilianus. Del pari è risaputo che negli ultimi tempi della Repubblica e nei primi dell’ Impero invalse lo stile di aggiungere invece ai nomi (1) Da alcuni elementi epigrafici, come alpanu, C. i. i., 2505; arus'anu, Suppl. j.0, 290 bis; pedanti, Suppl. i.°, 1; sipianus, C. i. i., 23 (Corssen, I, 934 sg.) ; tatanus', 347; tipanu, 2505 ter; velxanu, 12; etc., altri potrebbe esser tentato di argomentare l'esistenza d’ una categoria di nomi etruschi con desinenza in - a n u - s ; ma trattasi di forme sporadiche, alcune delle quali di controversa lezione ; oltreché la maggior parte di esse appartiene all’ antichissima epigrafia dell’ Italia Superiore, la quale nulla ha per avventura di comune coll’ e-trusca propriamente detta, dai caratteri alfabetici infuori. GIORNALE LIGUSTICO dell’ adottante il cognome o 1’ agnome (i) diacritico dell’ adottato ; e la terminazione in - anus si usò più spesso a designare la famiglia materna, applicandola al gentilizio e talvolta eziandio al cognome della madre. Per tal modo il figlio di C. Salvio Liberale e di Vitellia Rufilla chiamasi C. Salvius Vitellianus (Orelli, lnscr., lat., 1171); come il figlio d’un M. Avilio e di una Flavia Scymnis si disse M. Avilius Scymnianus (ib., 2754). Talvolta ancora la stessa terminazione ebbe un valore patronimico, servendo ad allungare il cognome paterno continuato nel figlio ; come si vede, esempligrazia , nel figlio di M. Fabio Rullo, chiamato O. Fabius Rullianus : tal altra ebbe invece un carattere topico, in quanto che il cognome così terminato era derivato da nome di luogo e ne esprimeva l’etnica: Albanus (Wilmanns, Exx., 897), Baianus (ib., 1501), Caralitanus (ib., 1508), Cosanus (ib., 2083), Interamnanus (ib., 63), Lucanus (ib., 1148), Nomentanus (Garrucci, Syll., 163 etc.). Similmente trovasi tale desinenza negli appellativi che i liberti, vuoi imperiali, vuoi di provincie, di municipii, di collegii o di privati, deducevano talvolta dai nomi dei primitivi padroni, adoperandoli a guisa di secondo cognome : del che abbondano gli esempi nelle raccolte epigrafiche ; dove vediamo parecchi liberti di Augusto conservare la denominazione di Agrippiani per essere stati servi di Agrippa (Wilmanns, 373, 374, 385, 2704), e così un Epitteto liberto de!-Γ Imp. Claudio esser detto Acteanus per aver appartenuto ad Acte amica di Nerone (Orelli, 2755), un Carpo liberto imperiale chiamarsi Pallantianus perchè anteriormente al suo passaggio nella famiglia imperatoria era stato servo di Pal- (1) Borghesi, Oeuvres, I, p. 193. Cornelio Getulico figlio di Lentulo Getulico e di Apronia, essendo passato per adozione nella gente Giunia, prese il nome di D. Giunio Silano Getulico. Cf. nella serie consolare M. Terentius Varro Lucullus, Q. Marcius Rex Vatia, C. Marcius Figulus Tbermus, Q. Caecilius Metellus Pius Scipio etc. GIORNALE LIGUSTICO lante liberto di Claudio e drudo di Agrippina (C. i. lai., VI, 143 )» un Febo liberto dell’Imp. Tito continuare a portare il cognome di Othonianus a contrassegno di sua provenienza dall eredità dell’Imp. Ottone (Orelli, 2756); al modo stesso che il liberto d’ un privato L. Clodius L. I. Antiocus aggiunge a questo cognome quello di Pontianus col quale si esprime la sua anteriore dipendenza da un Ponzio (Mommsen, Inscr. Regni Neapolit., 4262); e Valeria Nama Messallaes liberta s’intitola Marcelliana, dalla storica famiglia dei Claudii Marcelli a cui aveva appartenuto prima di passare in quella non meno insigne dei Valerii Messalla (1). I servi, finalmente, che le donne andando a marito portavano secoloro in dote dalla casa paterna (2), nonché quelli che per vendita (3) o per eredità passavano da una famiglia ad un’ altra, o sotto la dipendenza d’ un sodalizio (4) 0 d’una pubblica amministra- (1) Annali dell’ Inst. di corr. arch., i8j6, p. 17, n. 76. V. altri esempi di simile secondo cognome nei liberti in Wilmanns, 202, 257, 286, 361, 390, 686, 1325, 1379-1381, 1730. (2) Nel colombario dei liberti e servi della gente Statilia scoperto di recente sull’ Esquilino i servi che una Cornelia passando per nozze nella casa degli Statilii avea portati in dote chiamansi Corneliani (Brizio, Pitt. e sepolcri scop. sull’ Es quii., nn. 113, 114). (3) In iscrizione di Cordova (Hübner, C. i. lat., II, 2229), un Trofimo, c(olonorum) c(oloniae) P(atriciae) ser(vus) , vien detto (e)viptu Gennanidnus. (4) Felix Asinianus, servo pubblico del Collegio dei Pontefici, Orelli, 1518. Helius Affinianus, id., id., degli Auguri, Wilmanns, 1334. Gemellus Memmianus, id., dei Fratelli Arvali, Henzen, Relasugli scavi nel bosco sacro dei fr. Arv., p. 65. Echion Haterianus, id., dei Sodali Augustali, Or.-Henzen, 6105. Graphicus Maecianus, id., dei Sodali Tizii, Gori, Inscr. ant. in Etr. urb. exst., III, p. 128. Magnus Publicianus, id. , dei Quindecimviri sacris faciundis, Wilm., 1335. Herodes Volusianus, id., dei Set-temviri Epuloni, K'arini, Atti e mon. de’ fr. Arv., I, p. 213. Alexander fulianus, id., del Curione Massimo, Bull, dell' Inst. di corr. arch. 1866, p. 167. V. Wilmanns, 1330, 2873, 2873 a. 278 GIORNALE LIGUSTICO zione (1), ritenevano allungato in - anus il nome della famiglia donde erano primitivamente usciti. Quanto ai gentilizi caratterizzati da questa stessa terminazione , appena è duopo accennare esser dessi assai rari nel-F onomastico latino, e la maggior parte esprimenti il luogo d’ origine del capostipite della famiglia : L. Afilanus L. f. An. Provincialis (Wilmanns, 2682); L. Norbanus Balbus (ib., 873); L. Coranus Urseolus (Mommsen, C. i. /., V, 2834); C. Lucanus Severus (ib., 523) T. Faesulanus Stator (Orelli-Henzen, 6247); L. Verulanus Severus (Orelli, 2594) etc. Non è qui fuor di luogo ricordare come i nomi di questa specie fossero ancora a nostra memoria ritenuti generalmente per cognomi cui il lungo uso avesse portati coll’ andar del tempo a far le veci di gentilizi; tanto che lo stesso sommo Borghesi si diede un gran da fare per rintracciare il gentilizio della famiglia Norbana che supponevasi smarrito, non trovandosene menzione sulle molte medaglie e lapidi, e nettampoco nei Fasti Capitolini, e ch’egli credette aver finalmente rinvenuto in Vibius. Il fatto è però che ulteriori confronti hanno posto in sodo i nomi in discorso essere veri e propri gentilizi, i quali derivano da nomi di città 0 luogo, riproducendone soltanto l’etnica. Rimane a determinarsi se o fino a qual punto la ragione dei cognomi e dei gentilizi latini in -amt-s, come fu da noi esposta, sia applicabile ai nomi etruschi in -ana-s, in -anes e in -ani-s. Nuovi studi e riscontri potranno somministrare apprezzabili dati per la soluzione del problema ; ma un essenziale differenza fra i due sistemi denominativi si può fin d’ ora constatare in ciò che mentre presso i Romani, siccome vedemmo, i gentilizi uscenti in - anus costituiscono un ecce- (1) Victor Fabianus, servo pubblico a censibus Populi Romani, Bull, dell’ Inst. di corr. arch., 1864, p. 154. Solerichus Vestricianus, id. , a Byblioth. Porticus Octaviae, Wilm. 455., Successus Valerianus, id., a sacrario divi Augusti, Orelli-Henzen, 6106, etc. GIORNALE LIGUSTICO 279 zione, nell’ onomastico etrusco, invece, le tre citate desinenze appariscono applicate di regola a gentilizi. 2I· ......(a-vels'..... = Aldus Volcius...... Incisa in coperchio di urna marmorea su cui, a tutto rilievo, figura semigiacente di personaggio virile laureato , con toga e pallio, in atto di sollevare alquanto la persona poggiando col gomito sinistro su doppio cuscino, mentre tiene colla destra un £>υτόν dall’ estremità inferiore foggiata a protome di cavallo. Sul lato anteriore dell’urna è scolpita a bassorilievo una grandiosa scena trionfale, di cui altro esemplare quasi identico esiste nel Museo etrusco di Firenze sotto il titolo di Trionfo in quadriga. Si ritiene generalmente che simili rappresentazioni non sieno altrimenti individuali, ma piuttosto generiche. Certo, a chi osservi come fra le figure onde è ricca la composizione non manchi uno dei soliti genii alati, chiaro apparisce che queste scene hanno un carattere simbolico e funebre ; il qual carattere è del pari riconoscibile nella figura recumbente sul coperchio, effigiata nell’atto di prendere parte sulla κλίνη conviviale all’ eterno simposio dei beati nell’ E-rebo : tuttavia se si tien conto del fatto che tanto la figura principale, la quale è certamente il ritratto dell’ estinto, quanto le accessorie della composizione, astrazion fatta del genio alato, sono improntate del più schietto realismo, sembra potersi accettare come molto plausibile Γ opinione, divisa anche dal Brunn, che cioè nelle rappresentazioni di questa classe il personaggio estinto sia figurato nella stessa dignità che occupò una volta fra i vivi. L’ urna trovasi in un negozio d’anticaglie a Firenze, dove la vidi anche ultimamente, in uno stato di estrema degradazione. 28ο GIORNALE LIGUSTICO Traduco vels' per Voìcius anziché per Velsius, stante l’analogia con vela-9-ri = Volaterrae, v e 1 i m n a s ' = Volumnius, ve 1$ urna = Volturnius, v e 1 îH n a = Voltinius, velu s n a = Voluscnna , v e 1 s c u = Volscus , velcacias = Volçaciae, velpnu = Volcanus, velz(na) = Volsinii etc. (v. sopra, al η. 13). Il gentilizio espresso colla forma contratta vels' è evidentemente dedotto dal nome della città a cui spetta Γ insigne aureo di controversa attribuzione inscritto velsu (C. i. i., 2093; Gloss. ital., col. 1996. Corssen I, tv. XXI, 3); sia che questa moneta, cui già il Sestini e lo Schlichtegroll aggiudicarono a Velia, il Caronni e 1’Avellino a Felsina, abbia a riferirsi a Volsinium, secondo 1’ attribuzione di O. Miiller accettata dal Vermiglioli, dal Cavedoni, dal Grote, dal Friedlàn-der, dal Mommsen etc, e più recentemente fra noi dal Fabretti e dal Gamurrini ; sia che debba, invece, restituirsi a Volcium, come ha sostenuto ultimamente il Corssen con argomenti d’ un valore incontestabile dal punto di vista filologico. Non saranno qui fuor di luogo le due seguenti epigrafi , edite bensì nella precitata mia silloge di Iscrizioni gemmarie (nn. i, 2), ma che ancor non figurano nella Raccolta fabret-tiana; tanto più che l’indole peculiare della monografia in cui furono inserite, e dove trovansi invero alquanto a disagio fra le altre latine e greche, non consente loro a gran pezza di conseguire quella pubblicità che è pur nei voti di quanti si interessano all’ incremento del corpo epigrafico etrusco , e in grazia della quale soltanto possono questi meschini materiali riuscire di alcuna utilità alla scienza. 22. (meas) Leggenda che accompagna la rappresentazione d’ un eroe nudo, clipeato, il quale lascia cader di mano 1’ asta mentre GIORNALE LIGUSTICO 281 sta per essere colpito da un grosso sasso vibratogli dall’alto. Intaglio in corniola a forma di scarabeo con doppio orlo etrusco, presso il march. C. Strozzi in Firenze. La voce me as di questo scarabeo ha comune la radice colla ben nota me an ricorrente su diversi specchi (C. i. i., 1067, 2146, 2470, 2494 bis, 2500, 2531 bis, Bull. dell’Ist., 1878, p. 84) qual nome proprio di genio o divinità femminile etrusca, intorno alla cui natura ed ufficio son tutt’ altro che all’unisono le opinioni dei dotti: imperocché havvi chi col-1’Orioli la identifica coll’italica dea Mania, madre dei Lari e dei Mani ; chi col Maury vede in essa la Μαία ellenica madre di Mercurio; alcuni, come il Gerhard, ne fanno una Τύχη; altri, fra cui il il Roulez, dal fatto che la divinità stessa è quasi sempre rappresentata in atto di porgere ad eroi corone 0 tenie (1), traggono argomento per paragonarla alla Νίκη, Victoria, della mitologia greco-romana; nè manca finalmente chi dall’ analisi della sua figura, quale apparisce grafita sull’ orlo dello specchio Campana ora nell’imperiale Ermitage di Pietroburgo (Gerhard Etr. Spieg., tv. cccxxii), dove campata in aria, come l’Iride greca, e con in mano due verdeggianti ramoscelli (2), fa riscontro all’etrusca alpan, colla quale ha comuni i caratteri estrinseci e gli attributi, nel prender parte accessoria forse ma certo non indifferente alla rappresentazione d’un mito il cui protagonista è Adone (atunis), divinità della primavera, è indotto a considerarla quale personificazione di quell’ incessante movimento della natura che si riflette nelle vicissitudini delle stagioni, qualche cosa come (1) Gerhard, Etruskische Spiegel, tvv. LXXXII, CXLI, CXLII, CXLIII, CLXXXI. Cf. id., Ueber die Gottheit. der Etr., tvv. I, 1, V, 3, 4· Mus. etr. vatic., I, tv. XXXII, 2. Monum. ined. dell’ Inst. di corr. arch., II, tv. VI. Conestabile, Dei mon. di Perugia etr. e rovi., tv. LXXVI-CII, 2. (2) Questi ramoscelli sono di palma, attributo che si addice mirabilmente anche all’ ipotesi dell’identità di mean colla Vittoria. 282 GIORNALE LIGUSTICO 1’ Ora Θαλλός dei Greci, onde si riveste di fronde il mondo delle piante e si preludia all’ apparita della primavera (Corssen, I, § 71). L’etimologia del suo nome secondo la teoria del Corssen darebbe un gran peso a quest’ultima ipotesi: egli, infatti allaccia il nome di me an al lat. me-a-re, derivando ambedue le voci dalla radice mi — andare, camminare. Senza entrare nel merito della questione, osservo qui di passata che ammessa la supposta analogia dell’etrusca me an colla greca Tallo, l’etimologia proposta dal compianto filologo di Berlino riesce plausibilissima , in quanto che l’idea di mobilità e di trasformazione che ad essa si connette sarebbe pienamente consona alla natura ed all’ ufficio di una simile divinità. Giovi ricordare in proposito che le Ore sono appellate dee celeri, veloci; e che la Dan^a delle Ore, sub-bietto che esercitò molta influenza sulle rappresentazioni figurate dell’ arte (1), s’ inspira appunto al concetto che 1’ essenza di queste divinità consiste nel moto : al che si può aggiungere che Vertumno, il quale rappresenta nella romana mitologia una parte analoga per molti rispetti a quella delle Ore o Stagioni nella greca, e il cui nome si collega evidentemente all’ annus vertens, aveva voce di possedere la mobilità di Proteo e al par di questo la proprietà di rivestire tutte le forme possibili. Ritornando alla leggenda meas dello scarabeo da me edito, tutto concorre a far riconoscere in essa un nome personale virile da aggiungersi alla serie ormai cospicua degli uscenti in -as al caso retto (2); sia che questo nome esprima il (1) Senofonte, Symp., 7, 5. Filostrato, ApolL, IV, 21. (2) Disponendo i nomi propri virili etruschi che si conoscono per mezzo degli scrittori e delle epigrafi in quattro diverse categorie, secondo le quattro principali desinenze al caso retto in - as, in - es, in - is ed in -us, si trova che le due serie più ricche sono quelle caratterizzate dall’ uscita in -es ed in - as. GIORNALE LIGUSTICO 283 gentilizio del possessore 0 dell’ incisore della gemma, sia che si riferisca invece al personaggio raffigurato sulla medesima, ossia al protagonista d’ un mito greco (1) od etrusco, di cui la tradizione siasi per avventura smarrita attraverso i secoli. Stando alla etimologia di cui sopra, potrebbe essere costituito da un aggettivo, il cui tema inchiuderebbe il concetto di andamento e di velocità per la sua derivazione dalla predetta radice mi. Ora non ignorandosi che gli dei e gli eroi presso gli Etruschi vengono spesso indicati per mezzo di nomi appellativi, secondo uno stile che fu, del resto , più o meno comune ad altri popoli, non escluso il romano , appo il quale Diana, per esempio, fu chiamata coi nomi di Delia e di Cynthia, sembra abbastanza verosimile il supporre che Γ eroe effigiato sullo scarabeo possa essere stato indicato con un nome appellativo di questo genere, il qual nome si confà a meraviglia al carattere eroico, corrispondendo infatti al noto epiteto di piè-veloce con cui Omero qualificava Achille. Sotto questo punto di vista, si può dir di questa ciò che il dotto Cavedoni asseriva riguardo ad nltra iscrizione dello stesso tipo , qualificandola « uno di que’ casi in cui bisogna riconoscere, invece de’ nomi propri, epiteti passati in nomi non già presso i Greci ma presso gli Etruschi.... ». 23. T| ΕΊΤΠ (ti elta). Incisa sulla parte piana di grosso scarabeo in agata sardonica, con orlo etrusco, a lato della seguente rappresentazione a intaglio cavo, di esimio lavoro. (1) Cf. ait as', C. i. i., 2144 (aita, Suppl. i.°, 406; eita, C. i. i. , 2033 bis D a).— "Αιδης ·aevas, 2500 (evas, 2499, 2536 bis, Suppl. 3°, 315) = Άφος · aivas, 483,2147 sg., 2346 bis b, 2461 sg., 2514 (aivas', 2151 , Suppl. i.°, 462', eivas, ib., 408) = Αίας · anjças, C. i. i., 2474 bis = Άγχίσης · itas', 2504 = Ίδας · pelias , 1069 = Πελίας ■ te rasi as' (gen.), 2144 = Τειρεσίας · vil at as , 2ΐ62=Όϊλιάδης · xalxas, 2157 = Κάλχας etc. 284 GIORNALE LIGUSTICO Giovane eroe senz’ altra veste che una pelle di fiera dalla cintura al ginocchio , seduto su masso , la destra stringente ancora la spada ma il capo e il busto inclinati come chi sta per venir meno e accasciarsi, a stento sorreggendosi colla sinistra poggiata sull’ impugnatura di nodosa clava. Dietro al medesimo, sovrastandogli di tutta la metà superiore del corpo, figura virile alata e barbata, nuda, stante, di fronte colla testa a destra, in atto di mossa, con ramoscello nella mano destra. Nel Museo di Parma. Si cercherebbe invano nella mitologia etrusca o greca un soggetto a cui possa convenire 1’ anzidetta rappresentanza, e donde possa desumersi qualche criterio per la dichiarazione dell’ iscrizione. Le ali di cui è fornita la figura principale non costituiscono in questo meglio che in altri casi un attributo abbastanza determinativo, sapendosi che nell’iconografia etrusca veggonsi assegnate non pure a molte divinità nazionali, ma perfino a personaggi di miti greci, come per esempio a Calcante e ad Adone che ricorrono alati su specchi (1). Si conoscono altre gemme etnische con rappresentazioni congeneri : due ne possiede Γ imp. Antiquario di Berlino, delle quali una con simile figura alata e barbata, ai cui piedi figura giacente di donna morta; l’altra esibente la figura stessa con donna moribonda (2) : nè è fuor di luogo ricordare come nella silloge del Ficoroni (3) veggasi riprodotto un intaglio in sardonica ad orlo etrusco con analoga rappresentazione spiegata da quell’erudito pel Tempo, dum ex linctam foeminam juniorem gremio continet! (1) Mus. etr. Vatie., I, tv. XXIX, 1; Fabretti, C. i. i., 2157, 2512; Gerhard, Etr. Spiegel, tvv. CCXXIII, CXV. (2) Tòlken, Ver^eichniss der Gemmensammlung, II kl., 90, 125. (3) Francisci Ficoronii gemmae antiquae litteratae. Romae, 1758, tv. Vili, 6. GIORNALE LIGUSTICO 285 Nella cerchia troppo ristretta in cui versano le odierne nostre cognizioni d’ intorno alla teologia e alla mitologia degli Etruschi, sembra non potersi dare a questa rappresentanza altra più plausibile interpretazione, fuorché considerando la figura principale del symplegma come una divinità della Morte, quale la concepivano gli Etruschi, secondo risulta da altre analoghe rappresentazioni ; divinità da non confondersi coll’ orrido /arun padre che fu dell’ Orcus latino; nè col malo Vedio, di cui F unica notizia pervenutaci attraverso i secoli era consegnata nella breve e paurosa menzione fattane da qualche antico scrittore (1) prima che io ne riconoscessi e segnalassi il nome etrusco nella leggenda ve tisi inscritta in bronzo di recente scoperta (2) ; e nettampoco (1) Vedium (malus divus) sicut suadebat Etruria (Marziano Capella, II, 7, 2. Cf. Varrone, De lingua lat., V, 74); Vedius, Pluto, vel Orcus, id est malus divus (Papia, Gloss. ant.). (2) V. Poggi, Di un hronio piacentino con leggende etrusche, p. 13. « Se mal non m’ appongo, è questa la prima apparita, nel campo dell’ epigrafìa , del nome etrusco di Vedio, il dio terribile della morte e dell’ a-bisso etc. ». « Non può fare ostacolo il diverso grado della dentale, sapendosi che gli Etruschi non ebbero il segno rappresentativo della dentale tenue, ma si servirono per esprimerla di quello della dentale forte e più spesso dell’ aspirata. Ho già accennato più sopra come il prenome femminile θ-ani a o frana venga tradotto in latine epigrafi quando Tbania, quando Tannia, 0 Tania, e quando Dana. Così Tydeus (Τυδεύς) in , etrusco è tute, Tuder tu ter, Adonis (Άδωνις) at un is, Όδυσσεύς, utuze ο ufruste, come Ariadna (Αριάδνη) è areafra o arafra, Admetus (Άδμητος) at mi te, Adrastus (Άδραστος) atresfre, o atrste, Diomedes (Διομήδης) ziumifre, Idas (Ίδας) itas o ite, Cassandra (Κασσάνδρα) cas'ntra, Ganymedes (Γανυμήδης) catmite, Laomedon (Λαομέδων; lamtun, Leda (Αήδα) latva, Palamedes (Παλαμήδης) palmifre etc.; e pur testé il ch. W. Deecke avvertiva la strettissima parentela che corre fra il nome maschile ufrienas di cippo orvietano da lui edito, il nome di coniugio utiesa di urna e tegola di Montepulciano e il gentilizio Odie di tegola etrusco-romana di Cetona ». 286 GIORNALE LIGUSTICO cogli ovvii Θάνατοι o Genii della Morte, così maschili come femminili, che ricorrono su tanti monumenti dell’ Etruria ; ma bensì un dio austero e imponente, dalle forme nobili e grandiose, dal volto spirante terribile maestà; forse il Mantus, che ha tanti rapporti col Dis pater dei Romani e di cui sopravvive il ricordo nel nome dell’ etrusca città di Mantova (i). Per quanto concerne l’iscrizione, leggendola da sinistra a destra, giusta 1’ avviso del Corssen, al quale pochi mesi prima della sua morte avevo comunicato un impronta in zolfo dello scarabeo, potrebbe spiegarsi il ti come sigla del-1’ ovvio prenome etrusco ti te; nel qual caso, bisognerebbe veder nell’ altra parola espresso un gentilizio di cui non mi soccorre esempio in altri monumenti scritti. Non havvi però alcun criterio abbastanza certo da cui possa desumersi se F iscrizione sia riferibile alle due figure rappresentate, od esprima piuttosto il nome dell’ artefice litoglifo o quello del proprietario dello scarabeo. (i) Mantuam autem ideo nominatam, quod etrusca lingua Mantum, Ditem patrem appellant etc. Servio ad Aen., X, 198, sgg. Oppidum constituit, quod tum Mantuam nominavit, vocatumque tusca lingua a Dite patre est nomen. Flacco, Etruscor. 1, nei Comm. vet. inter pr. in Vir gii., ed. Mai, p. 66. La memoria di Manto rivive parimente nel nome femminile manfrva-tesa proferto da tegola chiusina (C. i. i., 721 bis a), sia che questo nome sia dedotto direttamente da quello dell’ etrusca divinità come tins* da tinia (ib., 1343 sgg.), herclus e herclenia da hercle (2041, Suppl. 1°, 149), unia e unei da uni (C. i. i., 614 bis, 440 bis g), apluni da aplu (580, 1567), fufle da fufluns (6n),lasa dal genio omonimo (833), nurziu e nurziunia dalla dea Nortia adorata a Volsinio (1731) etc.; sia che derivi invece dal nome della città di Mantua, come felznal da Felsina (668), camarinei, camarinesa da Camars (508, 62$ bis a, 730), cusis', cusinei, cusna da Cosa (1656, 161, 1593), senate, senatia, senatesa da Sena (1310 sg. 1759, 159), sufrtrina da Sutrium (1782), vei, veieal da Veü (1516, 1828, 704) etc. GIORNALE LIGUSTICO 287 24· q|flVMAì (v masual) = Velius Masonià natus. Su olla cineraria fittile senese. Da apografo del sig. A. Lisini. Il nome masu esibito dalla fabrettiana n. 327 bis arguisce il corrispettivo femminile masui (1), da cui deriva il matronimico masual, come da petrui si forma petrual, da pumpui pumpual, da velui velual, da ancarqi a n c a r u a 1, etc. Una particolarità interessante di questa leggenda consiste nell’ impiego del controverso elemento grafico A col valore (1) Questa forma si è infatti ritrovata testé in urna fittile, a catino, di Perugia, inscritta vipia |[ masui (Fiorelli, Not. degli scavi, 1878, p. 125). 288 GIORNALE LIGUSTICO di W\. Noto è infatti, secondo che ho altrove dichiarato, che siffatto elemento non appartiene di massima agli alfabeti del-Γ Italia antica ; come per contro niuno ignora che il medesimo trovasi usato eccezionalmente nella quinta tavola Eugubina , e cosi in parecchi monumenti dell’ Etruria propria, nonché in alcuni dell’ Italia Superiore. Per quanto risguarda il suo significato, è fuor di dubbio che sulla quinta tavola di Gubbio la A esercita lo stesso ufficio della Hi nelle altre tavole. Cosi non può cader contestazione sull’ espressione di tale forma nei monumenti scritti dell’ alta Italia, essendo patente e da nessuno disconosciuto il suo valore di / nel ΛΛΙΛΛΊ3Α (lepalial) della stele di Sondrio (Suppl. i.°, 2), nel AVKOFO (lukovo) della lucerna di Libarna (C. i. i., 42 bis) (1) etc. Ma controverso è, invece, il suo valore sui monumenti etruschi propriamente detti ; dove il Corssen, sulle orme del Lanzi, nè senza il suffragio di altri eruditi (2), la qualifica equivalente alla liquida >J, come il lambda nella scrittura greca posteriore ad Euclide ; ripetendo la sua intrusione nella grafia etrusca da vezzo d’ imitazione per parte degli etruschi artisti, ai quali erano famigliar! gli elementi alfabetici greci mercè l’importazione dei vasi dipinti e di altre opere d’ arte di greca provenienza. Per contro, il Gamurrini dapprima, poscia il Fabretti propugnarono la formola Λ — iti essere applicabile alle epigrafi etnische non meno che alle umbre. In vero, se di regola è raro nell’ etrusca paleografia 1’ uso della lettera A, a pochissimi si riducono i casi in cui la presenza di questa lettera si dimostri atta a fornire un criterio apprezzabile per la determinazione del proprio significato. Per figura, i sepolcri della famiglia leene o Licinia di Siena citati in particolare dal (1) Il curioso cimelio qui menzionato trovasi ora presso di me. (2) Cf. Carlo Casati, Note sur la lettre A dans V alphabet étrusque. Paris, 1873. giornale ligustico 289 Corssen a sostegno della sua tesi (1), a ben esaminarli, non porgono il menomo indizio da cui possa desumersi che in essi 1 elemento grafico /\ sia stato usato a significazione della / anziché dell’ altra liquida m. Non havvi, infatti, ragione alcuna per sostenere che al vel· leene della fabret-tiana n. 402, e così all’a-leene della susseguente, debba convenire piuttosto Γ appellativo larcnial che quello di mai c ni al, nulla indicando se questi Velio e Aulo Licinii fosseio figli appunto d’una Larcania 0 non piuttosto d’ una Marcania. Da questo e dagli altri titoli dello stesso ipogeo nei quali ricorre il presunto lambda, si può anzi dedurre un argomento contro la teoria dell’ illustre Prussiano ; imperocché se questo segno equivale alla lettera l, come si spiega che promiscuamente ad esso, cioè nel titolo medesimo, anzi perfino nelle medésime voci (>|AHX|AA, ΊΑΙΚΙΟΛΑ) si trova questa liquida espressa sotto la sua propria forma etrusca di ^ ? Nè maggior peso è da attribuirsi ad altre due iscrizioni addotte altrove (2) dal Corssen in appoggio alla dottrina da essolui sostenuta, cioè VAIE di gemma con figura di Ulisse (C. i. i., 2547) e AERNEI di urna chiusina (ib., 856); trattandosi di iscrizioni etrusco-romane a grafia in parte latina e greca, come dimostrano la forma delle altre lettere e 1’ andamento da sinistra a destra delle leggende. La formola f\~YA ha , invece trovato in questi ultimi anni appoggio e Conferma nella scoperta delle urne di Pienza (3) , e di recente ancora nel più volte citato bronzo (1) Iscrizione di Trevisio, nel Bullett. dell’ Inst. di corr. arch., 1871, p. 214 sgg.). (2) Ueber die Sprache der Etrusher, I, p. 29. (3) Nel Glossarium italicum, il Fabretti avea attribuito il valore di ^ al segno A delle iscrizioni etnische nn. 402-405, 413, 1050 etc. del Corpus. Fu in seguito alla scoperta delle urne di Pienza e all’ occasione della pubblicazione delle stesse nel Primo Supplemento (nn. 120-137), Giokn. Ligustico, Anno VI. in 290 GIORNALE LIGUSTICO piacentino da me edito , dove Γ elemento iniziale delle voci mar e maris affetta la forma fi che è una variante, appunto , del controverso tipo grafico A· La forinola stessa acquista ora nuovo e peculiare credito dalla presente iscrizione , a cui si associa in tale effetto anche l’altra del n. 28. Colui che tracciò questa iscrizione sull’ olla che racchiudeva le ceneri del parente 0 dell’ amico defunto era certo di non lasciar luogo a dubbiezze circa Γ identità personale del titolare accoppiando al suo prenome velus il semplice matronimico masual, senza enunciare altrimenti il gentilizio : di che emerge una riprova della verità di quanto asserii precedentemente, che cioè nel sistema onomastico degli Etruschi il matronimico fungeva ufficio analogo a quello del cognome presso i romani. Corre, infatti, la più grande analogia fra il modo con cui questo v · m a s u a 1 = Velius Masonialis (MasoniA natus) enuncia sulla sua olla cineraria la propria nomenclatura, e quello onde Ti. Augurinus, M. Metellus, 0. Molo, M. Carbo etc., M. Lucullus, Cu. Lentulus, C. Piso etc. inscrivono la loro sulle monete della Repubblica e su tanti altri monumenti epigrafici (1). Che se presso i Romani il cognome potea dirsi l’appellativo diacritico per eccellenza, tantoché su certi titoli la nomenclatura veniva ristretta alla sola enunciazione del medesimo (2) , è lecito arguire che non diverso fosse il valore del matronimico fra gii Etruschi, avuto riguardo al fatto che non mancano nel- che egli si dichiarò convinto che quel segno avea lo stesso valore della Hi , dichiarazione che rinnovò più esplicita nelle Osservazioni paleo grafiche , p. 190. (1) Nei miei Sigilli antichi romani, p. 54, n. 106, e più recentemente nelle Iscrizioni gemmarie, 2.a serie, n. 35, ho trattato alquanto distesa-mente dello stile di enunciare il cognome congiunto al prenome senza il gentilizio. (2) Cf. V. Poggi, Sig. aut. rotn., p. 48, n. 84. IJ. Iscriζ. gemm., n. 46. GIORNALE LIGUSTICO 29I 1 epigrafia etrusca titoli in cui la denominazione del titolare si riduce al semplice matronimico, es. arnftal (C. i. 583), amenai (583 bis), larfrial turicisal (2438), PERRI-CA · GNATVS (Conestab., Mon. di Per., IV, 743) etc. 2^· <1 V13+VJ3 (entenas lar) = Lars — ius. Incisa su lastra di tufo che formava architrave alla porta d un sepolcro scoperto ad Orvieto presso le mura in luogo detto Crocefisso del tufo. Esiste presso la Fabbrica dell’ O-pera del Duomo di Orvieto. Da apografo del eh. avv. signor Angelo Pezzuoli. È probabilmente la stessa iscrizione che figura sotto il n. 2044 bis del Corpus, da confrontarsi a sua volta con quella registrata al n. 2052. Comunque, la differenza di lezione fra 1’ apografo da me posseduto e il testo delle precitate iscrizioni quale fu pubblicato dal Fabretti non riuscirà senza qualche interesse per coloro i quali si occupano di questi studi. Si osserverà la posposizione del prenome al gentilizio, del che peraltro non mancano esempi anche in monumenti orvietani, come (vel^urnas ane = Annius Volturnius (Suppl. l.°, 373). Pel confronto di altre epigrafi ove uno stesso nome ricorre sotto diverse forme, es. vestrenas' ed estrenas' (Conestabl., Mon. di Per., IV, 116, 117), e rispettivamente xvestnas ’ edestnas' (C. i. i., 1748, 1749), è lecito sospettare che il nome entenas affetti una forma aferètica, cioè priva verosimilmente di una lettera iniziale : e forse è da ravvisarsi in esso il gentilizio Sentinas , come l’entinatial di ossuario perugino (ib. , 1945) fu spiegato per s e n t i n a t i a 1 = Sentinatia natus. 292 GIORNALE LIGUSTICO 27. >|fìl'imw1 (mi apiai) = Sum Appialis (= Appià natus-a). Graffita su frammento di vaso fittile nero, di rozzissima tecnica, trovato negli scavi della necropoli Mancini in Orvieto. Questa iscrizione fu copiata inesattamente dal Dr. Korte, il quale la pubblicava, in un colle altre della suddetta necropoli, nei suoi Scavi di Orvieto (1), trasformata in minpial. Ben s’ apponeva in proposito il Deecke, dubitando della esattezza della trascrizione, ed esternando il sospetto che il terzo elemento potesse essere piuttosto un a (2). Sono ora lieto di qui constatare come il facsimile dell' iscrizione da me posseduto per gentilezza del prelodato avv. sig. Pezzuoli confermi pienamente le previsioni del eh. professore di Strasburgo, eliminando ogni dubbio circa il valore del contestato elemento grafico, che si dichiara per un a di forma arcaico-quadrata, e mettendo in sodo la lezione mi api al, con che Γ iscrizione viene a prendere il posto che le compete fra altre ben note congeneri, quali mi f-ululai (più plausibilmente mi fu lui al) di tazza volterrana (C. i. i., 354), mi -8-anχviius fulnial di specchio di incerta provenienza (Suppl. 1°, 469) etc. 28. ΛΙΜ> (mi lar) = Sum Lar. Graffita su fondo di vaso simile al precedente e di identica provenienza. Apografo dell’ avv. A. Pezzuoli. (1) Annali dell’ Instituto di corrisp. archeol., XLIX. (2) Neugefundene etrusckiscbe Inschriften, η. IX. GIORNALE LIGUSTICO 293 La prima e la terza lettera, in specie, essendo incertissime, non oserei insistere sulla proposta lezione, in favore della quale milita peraltro il duplice riscontro di epigrafe dello stesso tipo mi larus graffita in vaso ceretano della Collezione Campana (C. i. i., 2610) e ripetuta su vaso vulcente del Museo di Berlino (Corssen, I, tv. XX, 3). 29· Ίβίΐαίκι ·' wav+fo · nNan (velus · caturus : larisal) = Velius Caturius Larisialis (— Larisià natus). Incisa su cippo esumato nell’ agro volsiniese. Apografo dell’ avv. Pezzuoli. Il nome caturus si allaccia da una parte agli etruschi catus, d’onde il maritale catusa (.....etinate · ca- tusa, C. i. i., 839 bis r) , cafra (vi : tite : cafra : al-Xusnal, Supplì.0, 173 bis k. vi : tite : cafra || vi : vi-pinal, Suppl 3.°, 150), kafruniia (katuniias ' ?) (mi-tiiur s'kafruniias'ul, C. i. i., 2610 bis), e dall’altra coi latini Catius, Catus, Catulus, Cato etc, mediante la comune derivazione dall’ aggettivo catus che sappiamo da Varrone (.D. I lat.. VII, 46) aver significato acuto, perspicace presso i Sabini. Non meno palese è l’attinenza del medesimo col nome scatu inscritto su urna chiusina (ve · scatu · vels ' C. i. i, 714), una variante del quale trovasi in titolo etruscoromano della stessa provenienza letto e trascritto dal Fabretti COCCEIA=l· SCArVA [| Vi IR (ib., 857 bis a), e dal P. Garrucci COCCEI AL H L SCATVNI || VXOR (Syll, 1958). Il caturus del presente titolo sta invero ai citati scatu e sca-tunus (più probabilmente scaturus), come catrna (C. ì. i., 1270) sta a scatrnia (ib., 1275), come il cognome Cato famoso nello stemma della gente Porcia, sta a quello GIORNALE LIGUSTICO di Scalo, cui due colonne prenestine indicano proprio d’ un ramo della Magulnia (Garrucci, Syll. i486 sq). Probabile , finalmente , apparisce la sua parentela col nome della famiglia Spaturia rammentata su ossuario e su tegolo parimente chiusini (velia : spaturia : s, C. t. i-, 7*5-velia : spa I] turs', Suppl. 1°, 222 bis b), verso il qual nome ha, in sostanza, lo stesso rispetto che Γ italiano schernire col latino spernere. Oltre al citato spa turs’, si possono riscontrare col ca-turus del presente titolo, le forme fanurus (C. i. i., 2309), larftur us (1803,1807), serturus (711, 974> I773)> velfrurus’ e velfturus (746, 2116 sq., 2424 bis) etc. 30. 5ΑνΐνΨ5ΐΑ0νννΐη (amusai sxunas) = Amutaia Scunii (uxor) Incisa su pietra sepolcrale di Orvieto. Apografo del signor Pezzuoli. L’ assenza d’ogni segno d’interpretazione, la tessitura epigrafica , la forma delle lettere in generale, e in particolare il Θ col puntino al centro e la sibilante $ rivolta in un senso contrario all’ andamento retrogrado della scrittura, assegnano questa iscrizione all’interessantissimo gruppo orvietano rappresentato dai titoli della necropoli Mancini (Suppl. j.\ 293-305) e da parecchie altre dello stesso tipo (ib., 291, 292, 306, 307; C. i. i., 2047-2050; Fiorelli, Not. degli scavi, 1876, p. 136); pogniamo che manchi in questa l’iniziale mi che costituisce uno dei contrassegni più caratteristici del gruppo medesimo. Nel suo Essai de déchiffrement de quelques inscriptions étrusques (Leipzig, 1863), il ch. A. Bertani arrischia 1’opinione che la desinenza in -ai etrusca sia stata Γ origine immediata dì quella del perfetto italiano amai, andai, riposai; desinenza GIORNALE LIGUSTICO 295 che anche nel francese continua ad esprimersi graficamente (j’aimai, j’allai, je reposai), nonostante che scomparisca sotto gli effetti della pronuncia (p. 42). Vero è bensì che poco prima tale desinenza veniva da lui qualificata come caratteristica del dativo singolare (p. 5); il che non toglie che in altro luogo dello stesso libro egli mostri di credere la desinenza medesima essersi inoltre adibita dagli Etruschi, non altrimenti che presso i Greci, a formar degli avverbi (P· I9)· Non crederei che allo stato attuale delle nostre cognizioni circa le forme grammaticali dell’ idioma etrusco, le induzioni dell’ erudito parmense possano venir confortate da sufficienti prove. Certo è bensì che, per quanto risguarda i nomi propri , la desinenza in -ai è semplicemente un accorciamento del suffisso -aia terminativo di parecchi ben conosciuti nomi femminili etruschi (askaiusinaia, C. i. i., 2184 bis; helenaia, 2501; hirminaia, Suppl. 3.°, 300; kamaia, Suppl. 1.°, 234; id., 2.0, p. 28; kansinaia, C. i. i., 2184 bis; larcanaia, 501 bis f; petrixaia, Not. degli se., 1878, p. 126; rapanaia, Suppl. 2 °, 84; tartinaia, C. i. i., 2333 ter; taluni e naia, 808; etc); analogamente a quanto si ripete in ordine alle etrusche desinenze in -i per -ia, in - ei per -eia, in -ui per -uia: onde am u frai sta per la forma compiuta am u frai a, come lueini per lucinia, vi-pinei per vipineia, petrui per petruia, velxai per velxai a (1); desinenza, quest’ultima, che sopravvive fre- (1) Cf. acricais', C. i. i., 1934 bis a; alapusai, 514; alsinai, 2180; anai, 2578; anainai, 1354; anfrai, 1887 bis e; aninai, Suppl. i.°, 431; aprfrnai, ib. 416, 425 (lez. del Corssen); aps'nai, C. i. i., 1570; arpas'kamai, Suppl. 1°, 234; efrinai, ib., 399; elinai, C. i. i., 2500 etc.; erai, 2404; espiai, 2034; fulnai, 329 bis; zertnai, Suppl. 1.°, 43 5 1 huzenai, ib. , 436; θ-ipurenai, C. i. i. » 2404; frurmnai, $50; iafrnai, Suppl. 1.°, 233; inai, ib., 341; cai, 296 GIORNALE LIGUSTICO quentissima nell’ odierna lingua italiana e specialmente in Toscana. L’etimologia del nome femminile amusai a è forse da ricercarsi nello stesso ordine di idee a cui ci riporta la genesi del verbo amo, che sembra aver avuto ab origine non tanto il significato di amare quanto di onorare, rispettare (1). Sotto questo punto di vista, amusai a si collegherebbe da una parte alla famiglia delle voci onomastiche latine Amata, nome della consorte del re Latino, sorella della diva Venilia (2) , e soprannome ordinario e tradizionale delle Sacerdotesse di Vesta (3), Amulius, nome di uno dei leggendarii Reali di Alba Longa (4) etc.; e dall’ altra a quella del-1’umbro admune, epiteto di Giove padre, nella 2.a Tavola eugubina (5) ; del quale aggettivo umbro un dotto filologo ha testé additata la stretta analogia col latino amoenus, il cui C.i.i. ii44etc.; caiai, 1717 ; kalai, 2048; cavlai, 169; crucrai(?), 2385; cumlnai, 2105; lafrumiai, 344; latvai, Suppl. j.°, 308; leiviai, C. i. i., 88; lespliai, 2034; lis'iai, 2404; matunai, 2600 d, e; panzai, 2321 bis; petrnai (peifrnai?), 2568 bis a; pe-trunai, 439 ter; perisalisai, 520; rampai, 2077; semmai, 2111; serInai (secondo Corssen, svelnai), 2359 ; slaniai, 2; supnai, 339; tamai, 2327 ter J; taminai, 364 bis Z; tannai, 237$ etc.; tutnai, Suppl. 3°, 130 (lez. del Corssen); uercalai, C. i. i., 2 ; umriai, Suppl. i.0, 205; velxai, ib., 415; vetcnai, C. ». »., 1565; vis'nai, 2327 ter a; xurnai, Suppl. j.°, 225. Non ho citato cogli altri esempi le voci matinai e velai che leg-gonsi nell’ iscrizione dell’ arcaico sarcofago ceretano del Museo britannico, pubblicata dal Murray nel periodico The Academy (vol. IV, 1873, n. 71) e interpretata dal Corssen (I, p. 784. sg.), troppo calzanti sembrandomi gli argomenti onde il Fabretti ne ha testé impugnata la sincerità. (1) M. Bréal, Le Tables Eugubines. Paris, ι8η$, p. 91. (2) Virgil,, Aen., VII, IX, XII. (3) A. Gellio, Noct. Att., I, 12. (4) T. Livio, I, 3 sg. Ovidio, Fast., Ili, 67. (5) admune : iuve : patre : Tv. eugub. II h, 7. GIORNALE LIGUSTICO 297 senso primitivo fu, per quanto si può arguire, quello di piacevole, caro (1). Il nome della titolare della presente iscrizione ci porge per avventura la chiave onde decifrare e restituire alla sua vera lezione l’enigmatica amfrnia della fabrettiana n. 1552, in cui il Vermiglioli intravide una Antenia, 0 Aritmia, quando è verosimilmente a leggersi a m frai a per amufraia. Del genitivo syunas si può dire che richiama le voci s'cuna, s'cune, scunu che leggonsi nelle Tabulae. Perusinae (C. i. i., 1914), e nell’ iscrizione del grande ipogeo di Tarquinia (ib., 2279). Il Corssen che primo ha spiegato queste voci per nomi proprii, sebbene in appoggio alla sua congettura non militasse alcun esempio epigrafico, ne ha additato la parentela col gotico shauns e col tedesco schòn, bello , da compararsi coi cognomi latini Pulcher, Lepidus (2). 31· AMO delle quali alcune rinvengonsi quasi esclusivamente nella Valle d’Aosta, motivo per cui vennero dal Mommsen e dal Longpérier aggiudicate ai Salassi, altre son tuttora di incerta ubicazione il che ne rende problematica Γ attribuzione : gruppo ben determinato così dalle forme paleografiche come dalla struttura e desinenza dei vocaboli ; e che per ragioni storiche e geografiche desunte dalla provenienza in generale dei monumenti che lo costituiscono , non meno che per considerazioni d’ ordine filologico, dedotte cioè dalla fonetica delle voci e dal riscontro delle voci stesse con quelle esibite da altre iscrizioni di indubbia classificazione , dimostravo allora potersi plausibilmente denominare gallo-italico. Ed ecco ora da queste tombe di Alzate, analoghe a quella di Stabio per struttura, per forma e per gli oggetti inchiusi, uscir fuori quasi deus ex machina una moneta appunto del-1’ ultima specie indicata, foggiata sulle emidramme massaliote con leggenda per caratteri e idioma affine a quelle degli stateri d’oro cosi detti salassici, che è quanto dire di tipo gallo-italico. Chi potrà ormai più dubitare che queste tombe e le molte altre congeneri abbiano a riputarsi galliche ? Eccoli adunque finalmente trovati questi introvabili Galli di cui parlavano la tradizione e la storia ma tacevano fin qui i monumenti ; sono queste le loro tombe, oggetto di tante e sì appassionate ricerche. Il prezioso nummo di Alzate costituisce un documento irrecusabile del gallicismo di questi e così di tutti i sepolcri affini, e collima mirabilmente cogli altri indizi a ribadire le conclusioni alle quali ero pervenuto per via di induzione partendo dall’ esame dei monumenti scritti, conclusioni identiche a quelle a cui riesce il prelodato prof. Castelfranco movendo dall’ analisi degli oggetti inumati, fra cui 310 GIORNALE LIGUSTICO la caratteristica fibula così detta a doppio vermiglione da esso ripetutamente qualificata per gallica (i). Posto così in sodo il carattere gallo-italico dei vasi inscritti a graffito delle tombe di Alzate , rimaneva a indagarsi se questi monumenti dovessero tenersi in conto di niente più che un fenomeno isolato , o non potessero invece allacciarsi ad altri monumenti congeneri in una serie epigrafica fin qui inavvertita, come tale, tanto dai paletnologi quanto dai cultori dell’ antichissima epigrafia italica e i cui dispersi elementi varrebbero a somministrare un criterio abbastanza sicuro per la determinazione etnografica dei sepolcri caratterizzati dalla loro presenza. Ora, sebbene gli elementi che ho potuto qua e là desumere non sieno numerosi, essi appariscono nondimeno tali nel loro complesso da potersi fin d’ora constatare con certezza e segnalare senza peritanza l’esistenza d’ una serie di vasi fittili inscritti a graffito spettanti alla stessa categoria di quelli di Alzate, serie determinata da caratteri speciali ed esclusivamente propria d’una data regione che fu sede dei Cisalpini. I monumenti che crederei riferibili a questa categoria, sono per ora i seguenti. 40. 20ΝΛ (alios). Bicchiere di terra nera a cono rovesciato, diviso in due sezioni, inferiormente liscio e dal mezzo in su a cordoncini orizzontali. Sotto il fondo ha una croce graffita c nella sezione inferiore due daini impressi a stampo, sotto i quali la leggenda. Trovata in sepolcreto di Civiglio, a sei chilometri a levante da Como. Oggi nel Museo civico di Como. (1) P. Castelfranco, Tombe Gallo-italiche rinvenute al Soldo presso Aliate, nel Bull, di Paletnologia itaì., 1879, n. i. GIORNALE LIGUSTICO 3 11 41· · · · OVXfl ... ( · · · akur · · · ). Coccio di vaso trovato negli scavi di Rondineto, comune di Breccia a quattro chilometri da Como. Nel Museo di Como. Apografo del ch. cav. V. Barelli dotto illustratore di detti scavi, il quale mi avverte che la prima e Γ ultima lettera sono dubbie, causa la frattura della superfìcie del coccio. Infatti la forma dell’ a non corrisponde allo stile paleo-grafico della leggenda. 42. ... >MXV... ( · · · u kl k · · · ). 43· · · · 5AV · · · ( · · · uls · · ·). 44· 3SICHX (tarise). 45· ...VIX··· (•••tiu···)· 46. OSION ··· (•••lioiso). 47· · · · Ί *λΙ ··· ( — ial — ). 48. ...|)IV0··· (··-θ-uki...). Cocci del sepolcreto di Rondineto, nel Museo di Como. A differenza delle altre , la leggenda n. 46 fu impressa nel vaso prima della cottura. Da apografi del prelodato cav. can. Vincenzo Barelli. 49. DIXVKA LOi (r itukalos). Su olla trovata a Cernusco Asinario. Monsignor L. Biraghi Dottore della Biblioteca Ambrosiana ha preteso di leggervi D (is) i (nferis) XV kal · Q (juin) t (iìis) ! ! j0. IXlVÌlVlHOS (I tiusiulos). Id. Il prefato mons. Biraghi ha interpretato: Caex(flre) Iulio IV co(n)s(ule), e ne he fatto una appendice alla precedente. 3X2 GIORNALE LIGUSTICO 5r· 0+A (atθ) Su fondo di vaso trovato a Bazzano nel modenese. 52· VX3VNO» (kolivetu). Graffita dopo cottura sul venire di vasetto in terra rossa comprato nel veronese dal sig. Amilcare Ancona di Milano che lo conserva nella sua collezione. Son debitore della conoscenza di questo interessante cimelio alla gentilezza del più volte lodato sig. prof. P. Castelfranco, il quale, nel trasmettermi un disegno del vaso accompagnato da un lucido dell’iscrizione, mi informava essere intenzione del possessore di far disegnare Γ uno e 1’ altra in litografia da pubblicarsi con parecchie altre tavole di oggetti della sua collezione. Anche a questa iscrizione si possono applicare considerazioni analoghe a quelle che abbiamo svolto riguardo al titolo di Alzate. Nell’ ignoranza in cui versiamo circa la ragione etimologica degli elementi che costituiscono il materiale dell’ antichissima epigrafia dell’ Italia Superiore, elementi riferibili a parecchi e disparati idiomi, di cui le sparse e spesso incerte reliquie appena è se somministrano argomento ad alcune induzioni sull’ indole fonetica, nonché sulla diversità, affinità e mutui rapporti degli idiomi stessi ; non ci è dato , dico , riguardo a questa nuova iscrizione che racimolare alcuni dati di confronto da cui desumere approssimativamente a quale dei diversi gruppi in cui si compartono i monumenti scritti delle più antiche popolazioni dell’ Italia settentrionale debba essa venire assegnata, che è quanto dire qual posto le competa nella classificazione epigrafica di questa regione d’I-talia. GIORNALE LIGUSTICO 313 Per quanto concerne le forme grafiche, abbondano i termini di riscontro, e chiunque è in grado di rilevarli: Γ uso dei due segni speciali per Γ 0 e per Γ u ; Ve abbattuto a sinistra e ritenente ancora la configurazione dell’ arcaico epsilon greco , o meglio del primitivo he fenicio ; la gutturale rappresentata dal li anziché dal c ; 1’ assenza delle lettere medie b, d, g ; 1’ 0 a curva irregolare e socchiuso al basso ; l’u a linee staccate, il t a croce di S. Andrea, non lasciano dubbio sulla strettissima affinità dell’ iscrizione con quelle del gruppo cosi detto gallo-italico. La stessa affinità si rivela, chi ben guardi , sotto il rapporto delle forme fonetiche. La desinenza in -u, infatti, se non può dirsi straniera agli idiomi dell’ alta Italia in generale, in quanto se ne riscontrano esempi e in velxanu e pel-Xanu di bronzi tridentini (C. i. i., 12; Suppl. 1°, 1) , nel vitanu di lapide di Vadena (C. i. i., 24), nel siraku dell’elmo di Stiria (ib., 59) nel lalnku e nalu di stele bolognesi (Fiorelli, Not. degli se., 1877, p. 82) etc; è però in particolar modo famigliare al gallo italico, come ben si evince dal tisiu della pietra di Davesco (C. i. i., 2), dal minuku di quella di Stabio (ib., 2 bis a), dal karnitu del cippo di Todi (ib., 86) etc. Sembra, del resto, che tale desinenza in - u debba ritenersi come una semplice varietà ortografica di quella in - us, la quale ricorre più spesso trascritta colla perdita della sibilante, probabilmente a significazione della volgare pronuncia; secondo si può arguire dal karnitus della lapide di Briona (ib., 41 bis), che appunto risponde al karnitu della todigiana, come a questo fa riscontro la forma karnitos delle monete dei gallici Carnuti: di che è lecito arguire che questo k 0 l'i v e t u equivalga forse a kolivetus, e più probabilmente ancora akolivetos, tenuto conto dello scambio frequentissimo dell’o coII’m negli antichi idiomi, e conforme al genio peculiare del celtico, quale ci si rivela 314 GIORNALE LIGUSTICO da tante iscrizioni. La terminazione in -os, diffatto, nei temi al nominativo singolare della 2.* declinazione fu come, è notissimo, comune anche al latino fino alla metà del VI secolo di Roma ; senonchè mentre il latino, a seconda della sua indole, venne trasformando tale nativa desinenza nell’altra in -us, la cui prima apparita risale al 500 di Roma o poco prima, quella rimase forma normale e, come altri ben disse, carattere etnico dell’ idioma gallico. Quanto è, finalmente , alla struttura organica della voce kolivetu, salta all’occhio la sua rassomiglianza di famiglia, vuoi coll’a i t i k ο n e t i di lapide di Stabio (C. i. i., 2 bis), vuoi coll’e s an ek o t i della novarese, e più ancora col ve r-cobreto titolo del sommo magistrato presso gli Edui (Cesare, I, 16) inscritto su note monete di quel popolo (Die-tionn. archèol. de la Gaul., Monn. Gauloises, 78), con Agusto-retum antico nome di Limoges, Augustonemetum nome di Cler-mont, Longostaleton leggenda di moneta (Dictionn. d’archèol. celi., n. 29) e altre voci indubbiamente celtiche. 53· Viziami (lairisiu). Su frammento di scodella; dagli scavi d’Adria; nel museo Bocchi. 54· ViaVOI (louriu). Id. id. 55· νΐΐνΊΠ (tituiiu). Id. id. Da confrontarsi colle forme caliidu (Dictionn. ar-chéol. de la Gaule. Monn. Gauloises, 130), ciciidu (ib., 134) etc di monete galliche. 56· VIIMS (fasiiu). Id. id. GIORNALE LIGUSTICO 57· Id. id. MSilViO (vasaiuco). 58. SlkV · Mlk 59· STA IN Graffite sotto due piatti di argilla nera trovati entro una tomba gallo-romana di Luceria a Ciano in provincia di Reggio dell’ Emilia, oggi nel Museo di storia patria di questa città· La tomba conteneva altri oggetti di tipo prettamente gallico da me descritti in altra pubblicazione (1); i quali accennano ad una famiglia 0 tribù gallica ancor stanziata nella regione circumpadana all’ epoca romana e ritenente tuttora le pratiche religiose dei suoi maggiori. A queste si vogliono aggiungere le già registrate dal Fabretti, come )MVX3I di Milano (C. i. i. , n), }V|>IA di Bologna (ib., 47) Ι+'λ di Montemorello (Suppl. 3.°, 11) etc.; altre di Bazzano (Not. degli scavi, 1878, p. 292, 308), di Adria (ib., 1877, p. 108; 1879 p. 102 sgg.) etc. Il costume di collocare nelle tombe vasi fittili portanti inscritto a graffito il nome del defunto e eminentemente italico , e si riscontrano più o meno numerose tracce della sua pratica fra le reliquie di tutte 0 quasi le popolazioni che abitarono ab antiquo la penisola. Una classificazione di questi monumenti, da non confondersi con altri molti su cui il titolo è impresso a cavo 0 in rilievo, nel qual caso il nome è semplicemente quello del figlilo o del padrone dell officina, e nettampoco con quelli non meno ovvii sui quali la leg- (1) V. Poggi. Una visita ai Museo di Storia Patria di Reggio nell’E-milia, p. 21. 3i 6 GIORNALE LIGUSTICO genda è tracciata col pennello a color rosso o nero, poiché trattasi allora d’una categoria speciale, ossia delle olle ed urne cinerarie; una classificazione, dico, di questi monumenti secondo la loro tecnica o forma non sembra guari possibile, almen per ora : più razionale apparisce, invece, il sistema di coordinarli sotto il rapporto delle iscrizioni, o meglio dei tipi alfabetici a cui si informano le iscrizioni onde sono fregiati. Considerati dal punto di vista delle leggende, i vasi fittili inscritti a graffito si dividono nei seguenti gruppi principali. I. Nord-etrusco o dell’ Italia Superiore. È relativamente il più scarso di materiali ; come quello che era finora quasi esclusivamente rappresentato da alcuni vasi di Monselice (C. i. i., 25) e di Este (37-39) , e da pochi altri. II. Etrusco propriamente detto. È il più ricco per numero e varietà di elementi; Firenze, Cosa, Volterra, Siena, Arezzo, Chiusi, Montepulciano, Perugia, Sovana, Orvieto, Viterbo, Bomarzo, A’ulci, Corneto, Cerveiri etc. forniscono una lunga serie di esemplari, dove la leggenda si svolge dal semplice monogramma fino alla più completa espressione , cioè alla enunciazione in extenso del titolo personale del defunto, prenome, gentilizio , patronimico , matronimico , cognome , il tutto al primo 0 al secondo caso preceduto e retto dal monosillabo mi; e dove il primitivo vaso sepolcrale italico a lettere graffite si trasforma gradatamente nell’ olla cineraria dal ventre fregiato di iscrizioni dipinte in nero 0 in rosso, come questa a sua volta nell’ umetta istoriata a bassorilievi di cui abbondano specialmente le necropoli di Volterra, Chiusi e Perugia. III. Umbro, rappresentato finora da troppo incerta suppellettile. IV. Latino-arcaico, di cui son celebri le olle di S. Cesario e le tazze di Capena. V. Osco-sannitico, costituito da vasi di Capua, di Nola, dell’ agro Frentano, di S. Agata de’ Goti etc. VI. Iapigio-Messapico, coi vasi di Rusce, di Muro Leccese etc. GIORNALE LIGUSTICO Ho già accennato come il primo di questi gruppi in ordine geografico , cioè il così detto nord-etrusco, o dell’ Italia Superiore, sia relativamente il piò scarso di materiali: infatti, non tutti i vasi preromani inscritti a graffito che si rinvengono in detta regione spettano a quel gruppo; chè una parte di essi appartiene , invece , all’ etrusco propriamente detto ; del che forniscono certissimi esempi le scoperte di Reggio , di Mantova, di Bologna, di Adria e di altri paesi compresi nel raggio dell’ Etruria circumpadana. I citati vasi di Este e di Monselice erano, invero, stati riconosciuti congeneri, per quanto concerne le forme alfabetiche , ad altri monumenti epigrafici provenienti dalla stessa regione ; ma sì gli uni che gli altri mancavano in generale d’ una base ermeneutica così dal punto di vista filologico come sotto il rispetto etnografico. Il tipo alfabetico proprio di questa serie di monumenti venne denominato euganeo dal popolo che la tradizione storica afferma aver dominato in tempi remotissimi la regione ove i monumenti stessi erano stati rinvenuti ; nomenclatura, peraltro, affatto ipotetica e non accettata nel linguaggio scientifico che a titolo puramente convenzionale. Senonchè il tipo euganeo costituisce una semplice varietà dell’alfabeto nord-etrusco; come un’altra varietà di questo è appunto rappresentata dall’ insieme dei monumenti qui per la prima volta pubblicati. In materia tuttora sì buia ed incerta, ho creduto non fosse senza utilità accrescere di alcuni nuovi elementi il materiale d’ un importante, sebben poco conosciuto, gruppo epigrafico, quale è quello costituito dai vasi fittili sepolcrali dell’ Italia Superiore con leggende graffite a caratteri del tipo nord-etrusco; tracciare le prime linee di una classificazione sistematica dei diversi elementi del gruppo stesso ; coordinare una parte di detti elementi in una nuova serie, determinandone i caratteri speciali; investigare a quale idioma appartengono le iscriiioni 3 18 ' GIORNALE LIGUSTICO graffite sui vasi di questa serie e a qual popolo si possano più verosimilmente attribuire. Per quanto io non abbia potuto dare al mio tentativo uno sviluppo adeguato all’ importanza del soggetto , ostandovi sopratutto l’insufficienza del materiale, non dubito tuttavia che i fatti e le induzioni che son venuto accennando piuttosto che esponendo, abbiano a ritenersi degne di qualche considerazione per parte di coloro i quali si interessano allo studio dei grandi problemi relativi alle origini ed alle favelle delle antichissime popolazioni italiche. ANNUNZI BIBLIOGRAFICI “ * Note bibliografiche. Lettere del prof. Andrea Russo; Catania 1879. Col lodevole intendimento di far conoscere gli scritti di non pochi prestanti ingegni italiani, 1’ autore dettava qua e colà pei giornali queste note bibliografiche in forma di lettere; ed ora piacquegli raccoglierle in un volume per « far conoscere le fatiche di molti illustri scrittori.... e per mostrare che nella terra delle grandi virtù e delle antiche memorie vive tuttora uno spirito di operosità, avvi un tesoro d’ amore e di virtù e siede sommo ed ammirato il genio delle arti ». Non è lodatore continuo e manifesta non essersi contentato di leggere il frontispizio e l’indice de’ libri eh’ ei giudica ; nella critica è urbano e rifugge dalle pettegole personalità ricercando solo lo scrittore. Ed è per noi e debito e dolce ufficio il far qui ricordo d’ un libro dove troviamo meritamente lodati non pochi de’ nostri valenti, come Emanuele Celesia, Luigi Bruzza, Massimiliano Spinola, Antonio Crocco, Cornelio Desimoni, Francesco Ramognini e Pasquale Casaccia, non che il carrarese Emilio Lazzoni e quel Bernardo Pallastrelli che colle sue dotte ricerche recò tanto lume nella vita del nostro grande navigatore. L’estremo lembo d’Italia non dimentica nè ignora gli avanzamenti letterari del settentrione, e mostra luminosamente quali incontestati vantaggi derivarono dalla unità della patria. Emanuele Celesia. — Vai-Pia, passeggiate apennine. Genova 1879. Una volta si diceva che i soli francesi avevano 1’ arte di farsi leggere; questo libro mostra che anche agli italiani non manca. La storia è qui spo- t . GIORNALE LIGUSTICO 3 19 sata con felicità alla scienza ed alla immaginazione, e v’ ha un tale contemperamento , una si appropriata proporzione che conferisce a quel tutto armonico , donde deriva 1’ unità di concetto e di forma. Or se a queste doti s’ aggiunga Γ eloquio vigoroso ed eletto , si rivelerà di leggieri la ragione della bontà del libro. Può dirsi questa operetta quasi un complemento dell’ altra, interamente storica, che l’egregio autore dava fuori or sono alcuni anni, e di cui serba memoria questo giornale, volta a narrare i casi del Finale ligustico. L’ una s’ attiene solo alla ricerca delle memorie di quel marchesato , ed alla narrazione delle fortunose vicende ond’ ebbe cagione di non lievi guai, conteso, taglieggiato, sbalestrato da uno all’altro dominatore ; 1’ altra ne investiga una parte, e fa suo prò così delle notizie puramente storiche d’ogni rocca o castello, come delle tradizioni e delle leggende. Le quali sovente ricevono conforto dai ritmi antichi, come mostra ψ 1’ autore nel caso di Jacopina, tramandatoci dal celebre poeta provenzale Rambaldo di Vaquera. Nè ci riesce men curiosa quella canzone popolare che ricorda la distruzione di Castel Gaone nel 1715. De’ suoi marchesi Questo castello Era il bordello Per dir il ver : De’ finalesi Quivi 1’ onore Scorno maggiore Non potè aver. Ma i genovesi Che son zelanti, Che sono amanti Del loro onor, Mura sì infauste Spargono al vento Acciò sia spento Tal disonor. Si come ci è prova della incontentabilità e della contradizione umana 1’ altra marinaresca, in cui dopo aver enumerate tutte le fatiche ed i pericoli del navigatore, il poeta si protesta che vorrebbe farsi 320 GIORNALE LIGUSTICO • Sbirro più presto — che marinar. E la si canta in quella parte di Varigotti che siede sul lido, ed « è abitata unicamente da marinai e da pescatori, che traggono dai flutti ogni loro sostentamento ». Ma la nostra mente è chiamata a più gravi pensieri, allorquando è condotta dall’ autore attraverso le caverne, onde va ricca quella regione, nelle quali hannosi non dubbie testimonianze degli abitatori preistorici e della loro condizione , se ne inferiscono i costumi, e se ne traggono utili ammaestramenti scientifici. Ed è bello e dilettoso assistere ad una di quelle scene selvagge, che si possono argomentare avvenute tanti secoli addietro, e che 1’ autore si fa narrare da un teschio d’ alcuno di quegli uomini dell’ età quaternaria. Il che tuttavia non è senza un sentimento di disgusto, ove si pensi che esempio insigne d’ ordine, di saggezza e di buon governo è porto all’ uomo da quelle neglette bestioline alle quali volea Salomone si rifacesse il pigro, e la cui città sotterranea ci descrive il Celesia. II quale affretta il voto generoso che di tre Finali un solo ne sia fatto, smesse le insulse appellazioni di Borgo, di Marina e di Pia. Annunziamo col più vivo dolore la morte del nostro caro amico ed egregio collega SI arco. Spinola dei Conti di Tassarolo, avvenuta in Genova alle ore 8 pomeridiane del giorno 3 corrente dicembre 1879 in età d’ anni 67. Nacque il 6 marzo 1812 dall’insigne naturalista Massimiliano e da Giulia Spinola qm. Cristoforo dei Marchesi di Campo. Amò grandemente la patria ; e in modo particolare si piacque dello studio di quel periodo della storia génovese, che concerne gli ultimi tre secoli della Repubblica. I lavori che si hanno di lui negli Atti delia Società Ligure e in questo Giornale, faranno ognor fede della acutezza della sua mente, e della operosità di cui lasciò a tutti esempio degno e imitabile. La Direzione. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO DOCUMENTI RIGUARDANTI LA COSTITUZIONE DI UNA LEGA CONTRO IL TURCO NEL 1481 Nella seconda metà del secolo XV , in quell’ epoca tanto ricca di fecondi avvenimenti, mentre dall’ incomposto e tormentoso cozzo di elementi così diversi, dalla tragica lotta che accentrava il potere, costituiva gli Stati, ristorava le nazionalità, da quelle strane audacie dello spirito umano che schiudevano all’ umanità nuovi interminati orizzonti, sorgeva Γ Europa moderna, avviandosi con lenta eppure maestosa corsa verso l’incivilimento ; l’Italia che, prima a risorgere sul caduto edificio di Cesare , con nuovo organamento politico, con nuove arti, con nuova letteratura, con nuova civiltà avea precorso alle altre nazioni neolatine e pòrto fecondo esempio alle germaniche, versava ora nella condizione forse più miserevole : precoce decrepitezza dopo precoce gioventù. La libertà comunale si dibatteva tra i ceppi della signoria, la quale andava man mano cedendo il terreno alle dominazioni straniere : una politica di campanile impediva il concetto stesso dell’ unione della penisola in un solo governo, fosse pur la veneta oligarchia 0 la tirannide medicea: il Papato, fermo nella sua forse inconscia missione di abbarrare il cammino alla unità nazionale, pronto a chiamare in Italia aiuti d’oltr’Alpe; e lo straniero, cui era titolo d’imperio il ricordo dell’ antica soggezione pronto ad accondiscendere : il tutto mal palliato da smagliante raffinatezza che simulava civiltà. Da questo stato di cose dovea sorgere per l’Italia il secolo di Leone X, e servitù per trecento anni. La libertà fieramente qua e là dibattevasi, ύ leone incatenato scuotea talvolta .la temuta criniera, la memoria delle gesta Giorn. Ligustico, Anno, VI. 2Ì GIORNALE LIGUSTICO degli avi era incitamento a quei sacrifizi che avevano loro acquistato prosperità e grandezza ; ina se lo scopo era grande, inefficaci o insufficienti erano i mezzi, e quelle città che avevano coperto il mare colle loro vele per cagione di fraterne rivaliti, non sapevano che armare poche triremi per riacquistare i perduti posse.limenti, o, lanciandosi nell’aperto Oceano , correre a strappare agli stranieri il frutto di una scoperta italiana. Tutta l’ambizione e l’abilità del magnifico Lorenzo dei Medici non gli valse che a stabilire una specie di equilibrio tra i vari Stati della penisola, mentre l’assenza dello straniero afforzato avrebbe reso men difficile l’oppressione de’ tiranelli indigeni ; e mentre la morte di Maometto II, ponendo in lotta i suoi figliuoli, dava campo di ricuperare le colonie orientali. Genova tentennava nell’ armare poche galee, fidando nel Papa e nel Re di Napoli. Senonchè questa mancanza di forti risoluzioni è degna almeno di scusa, ove si consideri come la perfida politica d’allora tenesse ciascuno stato in continua apprensione. Deboli e forti erano ridotti a paventare non solo del vicino e dell’alleato, ma ben anche di que’ cittadini stessi, che quantunque in alto grado c forniti di grandi ricchezze, per libidine di potenza agognavano cose nuove; e si trovavano costretti a commettersi al più potente per minor male, e a tenere sempre in pronto le armi e le insidie a fine di potere le insidie e le armi respingere. La Repubblica Genovese avea fiaccato le sue forze dapprima nelle rivalità con Pisa e Venezia, dappoi nelle più disastrose Ione intestine; e balzata dalle mani de’ Francesi a quelle de' Visconti , logorava la sua attiviti e le sue ricchezze, mentre le invasioni dei Turchi le strappavano di mano i suoi possedimenti del mar Nero e dell* Egeo. E veramente impari troppo era la lotta che aveasi a combattere : la potenza turca era quasi al sommo della sua corsa vittoriosa. GIORNALE LIGUSTICO 323 A Maometto II era finalmente riuscito di impadronirsi di Costantinopoli, contro le cui mura era venuto ad infrangersi il fiotto delle invasioni barbariche che precipitando dagli altipiani dell’ Asia e dalle steppe della Russia, cozzavano in quell’ antemurale prima di dilagarsi nella restante Europa : sulle sue porte Oleg a capo degli Slavi avea inchiodato con un pugnale le condizioni della resa, che vennero sottoscritte da Leone VI, ma la sacra cinta non era stata varcata che da’ Greci e Latini, e il sangue che ne avea colorato le strade era sangue versato per mano di Latini e di Greci. Segni manifesti di quelle successive irruzioni erano e rimangono le già fiorenti, ora rovinate, città dell’ Asia Minore e delle coste del Ponto : la prima mal difesa dal-l’Elbrouss, dal Kassbeck, il Calvario pagano, e dai loro contrafforti Caucasei, era stata corsa e ricorsa da schiatte tra loro affini solamente nella barbarie, porgendo nuovo esempio di quella legge storica e fisiologica ad un tempo , per cui la sovrapposizione quasi meccanica di elementi etnografici tanto diversi, riesce più sterile ancora che lo svolgimento puramente isolato e individuale. L’ultima invasione tartarica capitanata da Timur Lenk aveva arrestato i progressi di Amurat ; ma i successori di lui alla morte del terribile mogollo di Samarcanda a-veano sempre progredito, finché Maometto II prese d’assalto la città di Costantino difesa da pochi Greci e Occidentali. L’ ambizione sua non si limitava al conquisto della sede moderna dei Cesari, ma si spingeva ad agognare 1’ antica, divenuta il centro del mondo Cristiano, minacciando sostituire alla croce la luna falcata sul sommo di S. Pietro, sul cui altare volea far pascere Γ avena al suo cavallo. Ma la spada di Corvino e di Scanderbeg dovea fermarne la corsa sanguinosa, e continuare la missione di quei valorosi che da Carlo Martello a Sobieski impedirono che il Corano la 324 GIORNALE LIGUSTICO potesse sul Vangelo, e la schiatta araba allagasse l’Europa. Anche i Papi e i principi occidentali aveano tentato qualche cosa ; ma era necessario che il timore di imminente invasione accompagnasse le encicliche e i brevi che la Curia non risparmiava, perchè le benedizioni e le promesse di ricompense future valessero a scuoterli e li richiamassero a pensare sulle necessità presenti, quando essi pur non coprivano colle rimbombanti parole di apparecchi per le imprese d’ O-riente mire men generose. I magnanimi disegni di Pio II non aveano sortito buon effetto. Egli avea promosso una crociata che, con più slancio di fede che preveggenza politica , disegnava di accompagnare e forse di capitanare, perocché non avesse deputato alcun capitano di qualche grido a dirigerla; ma, mentre in Ancona stava aspettando Γ armata de’ Vene-ziani, e precisamente nella notte successiva al giorno del-Γ arrivo (14 d’Agosto 1464), fu colto da morte. Il successore Paolo II poco fece e fu mal secondato ; di Sisto IV dovremo ragionare. I Genovesi all’ udir la caduta di Costantinopoli e della colonia di Calata, e le provvisioni per le quali il Mussulmano disegnava intercettare i convogli di navi che veleggiavano il Bosforo verso le colonie della Tauride, considerando l’assottigliato erario, le stremate forze militari, la scompigliata condizione 'politica della Repubblica e le urgenti necessità delle colonie, aveano proposta e pattuita la cessione di esse al Banco di San Giorgio. Fosse necessità de’ tempi, o meno assennata amministrazione de’ Protettori del Banco, o tutte e due queste cagioni insieme, le colonie caddero in mano al Turco (1475). La Repubblica era allora sotto il dominio di Galeazzo Maria Visconti, duca di Milano. All’ infausta novella venne eletto Nicolò di Brignale legato al Duca per confortarlo ad armare una GIORNALE LIGUSTICO 325 flotta pel riacquisto del perduto, proponendo la spesa fosse ripartita in modo , che metà gravasse sopra tutto lo Stato, e all’ altra metà sopperissero 300 luoghi nuovamente fondati in San Giorgio. Galeazzo mostrò accondiscendere, ma die’ segreti ordini al Governatore di Genova, acciocché riunisse con nuove opere militari il forte di Castelletto al Porto, rumando o deformando gli interposti edifizi per aprirsi una via al mare, disegnando così di volgere quei danari che Genova sacrificava alla prosperità avvenire, a ribadire più forte il giogo che la opprimeva. Lo sdegno de’ Genovesi si accese, ma non troppo validamente soccorreva il braccio al proposito ; e non fu il generoso tentativo di Gerolamo Gentile , ma 1’ uccisione di Galeazzo che valse a francar Genova del-1’onta e del danno di vergognosa dominazione. Vero è che alla duchessa Bona, vedova di Galeazzo, aiutata da Prospero Adorno venne fatto di rioccupar la città; ma lo stesso Adorno chiamati in nome della libertà i cittadini all’armi, rinchiuse i Lombardi nel Castelletto , e sostenne vittoriosamente gli assalti dell’ esercito inviato contro la città. Perduta la quale, la Duchessa volle almeno soddisfare la propria collera sull’ Adorno, ed eccitogli contro Battista Fregoso. L’ Adorno fu deposto, ed il Fregoso eletto doge nel 1480. Questo parteggiare dividea la città in tante fazioni, nelle quali ornai ciascuno non ambiva Γ utile comune, non la gloria della patria, ma all’ innalzarsi facea strumento lo strazio della città. Le riviere erano sconvolte da signori sollevati contro la metropoli, dove si stava in continua trepidazione delie ambiziose mire de’ Visconti e dei disegni della rivale Venezia. In quel mentre Maometto, mossosi all’ambiziosa impresa che tanto cuocevagli, cominciò a spazzarsi la strada verso l’Italia (23 maggio 1480) assediando Rodi, con apprestamenti pari al cimento: settantamila uomini da sbarco, navi d’ogni ragione, e 326 GIORNALE LIGUSTICO gran numero di bombarde ; e vi durò due mesi e più, con varia fortuna, finché venne fatto a’ cavalieri assediati di respingere un assalto generale e mettere in rotta il nemico, che tralasciò Γ impresa. Ma avendo il pascià Achmet raccolto alla Vallona un cento legni di varia forma e grandezza, d’improvviso e quasi inavvertito gettossi su Otranto (28 luglio), lo sprone d’Italia. Giovanni Albino lucano accagiona i Veneziani di aver confortato Maometto a soggiogare la Puglia, mostrandogli la facilità dell’ impresa, e promettendo vettovaglie e munizioni di guerra, allo scopo di rimovere Alfonso d’ Aragona, duca di Calabria, coll’esercito da Siena, temendo che questa fosse per venire in potestà del Re (1). Io non so quanto di vero si contenga in questa accusa, non trovandone riscontro che in altri scrittori della storia del Regno di Napoli (2) : un fatto tuttavia rimane incontestabile, ed è 1’ assoluta astensione della Repubblica di Venezia dagli sforzi che vennero fatti per isloggiare il Turco all’Italia, mentre, in tutto il corso della sua vita politica, non tralasciò quasi mai di cogliere 1’occasione per deprimere la potenza turca. (1) Johannis Albini, De Bello Hetrusco, pag. 20, 21. Fra gli Scrittori dell’ Istoria Generale del Regno di Napoli, vol. V; Napoli, 1769. (2) « I Veneziani per divertirlo (Maometto II) da’ loro Stati, e perchè maggiormente non li angustiasse, gl’ insinuarono che lasciata l’impresa dell’ isola di Rodi . . . , verso la Puglia nel Regno di Napoli drizzasse la sua armata, poiché invece di un’ isola avrebbe acquistato un floridissimo e vastissimo regno ». — P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, voi. VII, lib. XXVII. Il Porzio afferma intinti di tal pece i Fiorentini (Congiura dei Baroni, lib. I). Il Costanzo accagiona Lorenzo de’ Medici. Il Giannone soggiunge che essendo e Veneziani e Fiorentini concordi nell’inimicizia contro il Regno, poteano benissimo essersi trovati d’ accordo anche sul modo di nuocergli. Il Reumont non crede che Lorenzo de’ Medici abbia invitato Maometto a venire in Italia, quantunque tra lui e il Sultano vi sia stato, in occasioni antecedenti, scambio di relazioni. Ved. Edinburgh Review, January 1877. GIORNALE LIGUSTICO 327 Non venendo tatto ai Turchi di impossessarsi della terra per sorpresa, la cinsero d’assedio, e quindici giorni dopo (11 Agosto) la oppugnarono. Qual fosse il trattamento che il vincitore fece subire alla città non è mestieri descrivere : le storie dei tempi sono piene delie scelleraggini che i turchi, aizzati da tutti i motivi che possono spingere un uomo, una schiatta contro altr’ uomo ed altra schiatta, commisero nelle terre cadute nelle loro mani. Facendo anche ragione delle esagerazioni e delle favole che Γ immaginazione atterrita e la mancanza di critica nell’ accettare racconti da fonti dubbie può avere accolte, tuttavia rimane tanto da colpire ogni cuore più indurato. In fatti un brivido di terrore corse l’Italia: il Papa, scosso, lasciando gli intrighi si diè a tut-t’ uomo a chieder soccorsi, e dalla Cancelleria romana partirono a tutti i principi europei i brevi pontifìci con promesse d’ ogni ragione ; per le Romagne era tutto un rumor d’arme, si levavano soldati, si afforzavano rocche e castella, mentre i più paurosi suggerivano già al Pontefice di abbandonare la dimora della eterna città per quella più sicura di Avignone. Il re Ferdinando, come quegli che aveva il nemico in casa, fu il primo a procacciar difese, richiamò il figlio Alfonso coi tremila fanti e mille cavalli co’ quali campeggiava in Toscana, e cercò di allestire una flotta armando navi in vari porti. Le sollecitazioni del Papa accompagnate dalla voce popolare, che andava ripetendo orrori, sortivano il loro effetto ; e gli oratori de’ vari principi insieme col Collegio de’ cardinali venivano in tale concordia, convalidata con solenne stipulazione , per la quale : i.° Si tassavano i vari potentati pei soccorsi da mandarsi al-1’armata della lega e da inviarsi al Re d’ Ungheria; 2.0 Al Cristianissimo di Francia, che voleano annoverare tra le più salde colonne di tal unione, si dava facoltà di quotarsi in pecunia vel in classe per quanto gli paresse; 328 GIORNALE LIGUSTICO 3.0 Si stabiliva di sollecitare Γ Imperatore e tutti e singoli gli altri potentati di qualunque stato, grado e condizione ad accedere alla lega ; 4.° Deliberavasi che la santissima unione e concordia per la esterminazione dei nemici della Fede durasse un triennio, dal giorno della stipulazione del presente contratto; che ciascun potentato fosse tenuto a prestare i soccorsi convenuti ciascun anno, e, a domanda del Papa, a depositarli in determinato luogo ; e che tutti gli accedenti all’ unione dovessero — gli ultramontani fra tre mesi, i citramontani fra un mese — ratificare i patti convenuti, e il Re di Francia dichiarare la parte colla quale intendeva concorrere all’opera comune; 5.0 Tuttii noltre dovessero adempiere alle dette convenzioni, sotto pena di mille marchi d’ argento da devolversi metà al-l’impresa, metà agli altri potentati osservanti, obbligando ciascuno i suoi beni presenti e futuri. Le proporzioni dei soccorsi erano le seguenti : Il Papa......25 triremi e $0000 fiorini d* oro al Re d’Ungheria. Il re Ferdinando 40 . . . « 100000 ducati. 1 Genovesi (all’ anno) . . 5 » I Fiorentini.........20000. II Duca di Ferrara ... 4 » 1 Sancsi.......4 » I Lucchesi......1 » II Marchese di Mantova e del Monferrato 1 trireme. I Bolognesi ......... . 2 » (1). Il danaro che inviavasi al Re d’ Ungheria doveva aiutar questo principe ad operare un grande sforzo sui propri confini, e con questa diversione, indebolire le forze di Maometto costrette a partirsi. La Repubblica di Genova iacea però significare al Papa da (1) Dumoxt, Corps Diplomatique, vol. V, par. II, pag. 76. Taxes des princes chrétiens pour ce qu’ils doivent fournir pour la guerre contre le Tourc, et autres accords à ce sujet faits par la médiation du Pape Sixte IV, l'an 14S1. GIORNALE LIGUSTICO Raffaele di Oddone, suo oratore a Roma, come si trovasse nella impossibilità di adempiere agli obblighi onde era piaciuto ai costitutori della Lega gravarla : raccomandando tuttavia che all’ armata della Lega si preponesse un capitano di vaglia, e, ove fosse possibile, genovese. Il desiderio veniva esaudito; e la scelta cadeva su Paolo Fregoso, di recente investito della dignità cardinalizia. Nello stesso tempo il Papa chiedeva alla Repubblica pel cardinale Giambattista Savelli suo legato, la facoltà di armare a proprie spese venti galee nei domini di essa. Avuta risposta favorevole, si nominarono venti patroni di esse galee, tra i quali — il cardinal de’ Savelli da una parte e il cardinal Paolo Fregoso dall’ altra — si venne ai patti. I cardinali Savelli e Fregoso promettono di dare il giorno 15 d’ aprile a ciascuno dei patroni un corpo di galea, compreso uno schifo, e di provvederlo di quanto è necessario ; dar loro ciascun mese, per la durata del loro stipendio, 580 ducati per ogni trireme; il tempo della condotta sia di sei mesi dal dì della rassegna. Se il Papa o il Sacro Collegio vorranno mantenerli per tempo più lungo, dovranno significarlo ai patroni un mese prima del termine predetto. Ciascuna trireme sia montata da 156 remiganti e 63 soci, compresi gli uffiziali ed il patrono. Del bottino si darà a ciascuno secondo il talento del Pontefice. Quello poi che le strettezze economiche e i pericoli in cui versava la Repubblica non permettevano di fare al Doge ed agli Anziani, per privato impulso tentavasi. E di vero un frate Domenico di Ponsolo, de’ minori osservanti, proponeva di armare alcune navi per la comune impresa, e chiedeva si eleggessero ventidue persone per aiutarlo in tale bisogna; al che assentivano il Doge e il Consiglio a di 29 d’aprile, e il 28 di giugno davano al francescano facoltà coercetive contro coloro che avendo promesso aiuti e contribuzioni non si mostravano solleciti a prestarle. 330 GIORNALE LIGUSTICO La morte di Maometto II, avvenuta il 3 di maggio 1481, le querele insorte tra i suoi due figli Bajazette e Zizim e il conseguente richiamo di Achmet da Otranto, tranquillando le paure, davano speranza, specialmente ai Genovesi, di poter fiaccare la potenza mussulmana, e, riacquistando i possedimenti perduti, ristabilire sugli scali d’ Oriente il commercio italiano. Se queste speranze fossero vive, bene il mostra la prontezza colla quale il Doge e Γ Uffizio di Romania mandavano, ai 4 giugno , il segretario Bartolomeo Senarega al Pontefice, per esortarlo a consentire che la flotta delle triremi da lui assoldate, e che dirigevano allora le prore verso Roma, a vece di andarne a rinforzare Tarmata del duca di Calabria che campeggiava Otranto — la qual città priva di risorse non potea resistere a lungo — fosse provveduta di stipendio per altri tre mesi e veleggiasse alla volta degli antichi possedimenti genovesi. Offrivano in compenso di aumentare il numero delle navi a spese della Repubblica, e ponevano in rilievo la gloria che ne verrebbe al Pontefice, il lustro e Γ utile a Genova sua patria ; la quale per le angustie che la stringevano non poteva sobbarcarsi a tutte le spese, ma vi avrebbe contribuito ove venisse a ricuperare alcuno de’ suoi luoghi orientali. Che se al Papa spiacesse divertire in tal guisa dallo scopo pel quale avea armato le navi, non essendo ancora Otranto in potere di Ferdinando, piacessegli persuadere a questo re di accondiscendere a tale richiesta, mettendogli innanzi il pericolo che i Veneziani, nemici del nome Napoletano, facessero loro prò’ del mal partito cui erano ridotti i Turchi e delle dubbiezze degli alleati per occupare essi medesimi le colonie orientali : il che dovea saper ostico al re, " per la inimicizia onde li ricambiava. Eguali istruzioni avea il Senarega per 1’ Anello, regio oratore a Roma, pel conte Girolamo Riario, per varii cardinali e signori. E quasi che l’inviare un segretario non corrispondesse alla GIORNALE LIGUSTICO 33I gravità del negozio, quattro giorni appresso venia spedito il dottore in legge Luca Grimaldo, oratore alla Santità del Papa con analoghe ma più circostanziate istruzioni. Gli eventi parea volessero favorire i disegni de’ reggitori della Repubblica. Giungeva il 12 giugno ai Protettori di S. Giorgio un foglio da Mantova di Giovanni Francesco di Gazzoldo, il quale riferiva aver ricevuto da Andreolo Guasco (1) una lettera datata da Vilna, il 6 dicembre 1480 , dalla quale rileva vasi come Mengli-Gherai, imperatore de’ Tartari, offrisse al Banco di S. Giorgio le terre che già aveva possedute nella Crimea, per essere queste affatto infruttuose, ed aggiungeva che se il Banco opponesse un rifiuto, egli le avrebbe offerte al Papa, ai Veneziani, al Re d'Ungheria o al Duca di Milano. Lo stesso Andreolo Guasco, venuto a Venezia per commissione del Re di Polonia, scriveva a’ Protettori, assicurandoli del buon volere degli abitanti di Caffa, eh’ egli mantenea sempre nella speranza di tornare sotto il patrocinio cristiano. Jh con bello slancio di patria carità li esortava : « O magnifici signori, si svegli la potenza de’ Genovesi, le marinare milizie de’ Genovesi si sveglino , il nome gloriosissimo e la fama un dì preclara rinnovinsi. Non vedemmo forse a' dì nostri le navi genovesi penetrar nel Mar Nero a dispetto di quel terribilissimo Ré dei turchi? Perchè noi potranno adesso, che n’è spento il nome tremendo ?» Il Papa, tuttavia, come si pare da un suo Breve del 16 stesso giugno e dalla relazione di due udienze ottenute dal Senarega, quantunque vedesse o fingesse veder di buon occhio (1) Costui, che fa testimone oculare della caduta di Caffa (Heyd, Le colonie commerciali ecc., vol. II, pag. 157), mantenne sempre relazioni coll’imperatore de’ Tartari e cogli abitanti di Caffa, e serbò ognora vivo il fuoco di patria carità, come si rileva dalle frequenti esortazioni con che tentava persuadere ai Genovesi 1’ opportunità di vigorosi propositi pel sospirato riacquisto della loro supremazia sul Mar Nero. 332 GIORNALE LIGUSTICO Γ impresa progettata, affacciava qualche difficoltà, e dichiarava voler attendere il cardinale Savelli deputato alla flotta, per conferire con lui sulla destinazione di questa. Il conte Riario poi, sim quo nihil fit, come appone il Senarega, dava buonissime parole; ma troppo son note le sue relazioni co’ Veneziani e i suoi ambiziosi intrighi, perchè si possa credere parlasse in buona iede. Il giorno successivo il segretario genovese scriveva: aver saputo dal Papa come questi non fosse in alcun modo obbligato al re Ferdinando dopo la morte di Maometto, e come le genti d’arme pontificie andassero al confine del Regno; indizio di complicazioni poco favorevoli ad una impresa che richiedeva unione e sollecitudine. Le triremi intanto facevansi attendere, e le notizie da Otranto non erano delle migliori : i Turchi avevano fatto una sortita, e non erano stati ricacciati in città che dopo fiera strage nel campo cristiano e dopo aver ferito lo stesso duca Alfonso. Cominciando a serpeggiare la peste in città, il Consiglio de’ cinque cardinali eletto dal Papa per consultare sulla ulteriore destinazione dell’armata, decise che questa dovesse arrestarsi a Civitavecchia, dove anche il Papa e il Sacro Collegio si sarebbero recati. Ma dopo cinque giorni il Papa, mutato avviso, spediva un corriere alla flotta allora giunta a Civitavecchia, ordinandole di risalire il Tevere e venirne fino a S. Paolo. Sisto v’andò in persona, e, dopo le solennità religiose compiute nella Basilica Ostiense, tenne concistoro per l’accoglienza dei due legati di Genova. S’aggiungeva alla cerimonia, che Paolo Fregoso dovea essere ricevuto cardinale. Non fu parco il Papa di esortazioni e di lodi : passò quindi in rivista le navi allineate lungo il fiume, e le benedisse (i). La flotta parti di Roma il 4 luglio: agli 11 era nelle acque (1) Vedi la bella descrizione fattane dal P. Guglielmotti, Storia della Marina Pontificia, vol. II, pag. 455 e segg. GIORNALE LIGUSTICO 333 di Napoli, d’ onde facea via dirittamente per Otranto , ove si congiunse con altre galere armate dal Pontefice in Ancona, che già vi si trovavano. Ma non fu imitata dalle caravelle mandate dal Re di Portogallo, le quali, capitanate da don Garzia, cui piaceano meglio i festeggiamenti di corte che il calore della battaglia e le noie di un assedio, entrarono nel Tevere, donde a pena, e per espressa sollecitazione del Pontefice, si rimisero a mare, prendendo via per Napoli. Il bel seno Partenopeo le accolse, finché le nuove della resa d’Otranto e della morte del re Alfonso V le mossero a tornare là donde erano partite. Luca Grimaldi, abboccatosi con papa Sisto, tentava indurlo al desiderato consenso, ma questi stette fermo nel volere che prima fosse espugnata Otranto; solamente, dopo molte sollecitazioni, condiscese a rimettersene a quanto avrebbe consentito il re Ferdinando. Al quale il Grimaldi scriveva, esponendo 1’ opportunità di un’ impresa che, disturbando il nemico in casa sua, gli torrebbe modo di pensare a mandar soccorsi a’ rinchiusi in Otranto, a stremare i quali 1’ esercito del Duca di Calabria era sufficiente, e l’armata del Papa quasi inutile. Tra il tentennare del Papa e gli indugi derivanti dall’attendere la risposta del re, in Genova non si stava colle mani alla cintola. Nel Gran Consiglio, tenuto il 3 giugno, si erano delegati otto cittadini alle provvisioni sulle cose di Levante. Avendo essi, in virtù di questa potestà, oiferto a’ Protettori delle Compere di S. Giorgio di assumere per conto del Banco il governo dell’impresa, assegnando alle Compere tutte le città, terre e castella che fossero per riacquistarsi, fu fotta la proposta in numerosa adunanza di partecipi di esse Compere. I quali convennero nella sentenza di Giacomo Giustiniani, che sostenne si concedesse amplissimum arbitrium et facultas ai Protettori dell’anno 1481, all’Ufficio del 1444 ed agli otto deputati di accettare la proposta, e di fare, ordinare e deli- *> A GIORNALE LIGUSTICO berare quanto sarebbe stato necessario, sotto le quattro seguenti condizioni : 1. L’ arbitrio e la facoltà non dureranno che per tutto il presente anno 1481. 2. Dopo il detto tempo ogni balia ed amministrazione di tal natura sarà trasferita ai Protettori da designarsi per l’anno 1481 e pei seguenti. 3. Le spese e tutti gli altri provvedimenti si faranno in modo che alle Compere non possa incoglier danno. 4. Le spese non potranno convertirsi 0 divertirsi in qualsivoglia altro uso. Di poi avendo i tre magnifici Uffizi deliberato di armare e stipendiare alcune navi, e di prendere altri provvedimenti, essendoché gli otto deputati venissero col nuovo incarico a revestire due personalità giuridiche, a nome cioè del Comune e a nome delle Compere, questi richiesero in pubblico consiglio, tenuto a’ 18 di giugno, di rivestire di tutta la potestà del Comune il Doge, gli Anziani e 1’Uffizio di Moneta. I quali, per dare maggior cauzione alle Compere, ipotecarono solenne mente, per le spese occorrenti, un nuovo diritto generale fino all’uno per cento sulla mercatura, senza pregiudizio della facoltà già attribuita alle Compere stesse di esigere il diritto del 18 per cento. Inoltre, a fine di profittare dell’ offerta che l’Imperatore dei Tartari avea fatta per mezzo di Andreolo Guasco, e della buona disposizione d’ animo in che trovavansi gli abitanti di Caffa verso i Genovesi, i tre Uffici deputati alle provvisioni orientali, a’ di 7 luglio elessero Bartolomeo di Cam-pofregoso e Lodisio Fiesco oratori a Mengli-Gherai, careo, commettendo loro quanto segue: In tutti i loro diportamenti operassero come mercadanti ; ed a Mancreman prendessero guide poche e sicure, fino alla residenza dell’ Imperatore dei Tartari. Giunti alla presenza gToRNALE LIGUSTICO 335 del quale lo presentassero de’ doni loro consegnati, lo infor-masséro de’ provvedimenti presi, delle galee già spedite, di quattro o cinque navi grosse da partire entro quindici giorni, d altre navi e galee da allestirsi, e del procaccio di forze terrestri; chiedessero consiglio sul da farsi, stringessero patti e chiedessero giuramento. Inoltre procurassero venire a parlamento col nobile Zaccaria di Guizolfi, per intenderne 1’ avviso (i). L’un d’essi poi rimanesse presso il Tartaro, l’altro si trasferisse al Re di Polonia, chiedendo salvocondotto per ogni genovese e soldato, con facoltà di potere colà assoldare milizie, comunicandogli i patti ottenuti dall’imperatore. Un preventivo delle spese veniva calcolato dai deputati 1’ 11 luglio; e il 12 gli oratori promettevano con atto solenne di fedelmente adempiere il loro mandato. Alcuni giorni dopo partivano; e a’ 26 scriveano da Sert avalle di Como come si fossero avvisati di scegliere la via della Germania, più breve di ogni altra. A procacciarsi novelle da Venezia , sia sopra gli intendimenti di quel Governo, sia intorno agli avvenimenti e all’ armata che poneva in assetto, e sia circa gli accidenti della lotta ch’era insorta tra Bajazette e Zizim, per la frequenza delle comunicazioni le quali solevano giungere prima a Venezia che in altro luogo d’Italia, spediva la Signoria in quella città Luca Massola. Dovea costui, sotto colore di esercitarvi la mercatura, comunicare tutti i particolari al padre suo dimorante in Ge- (1) NeH’istruzione agli ambasciatori si parla di questo Zaccaria de’ Guizolfi come di nostro cittadino et figiolo ; e ciò viene a conferma dell’ induzione che fecero i signori Jurgewicz e Bruun intorno al vero nome di un Zaccaria Guigoursis principe della penisola di Taman, nel mar Nero, interpretandolo per Guisolfi. Ved. Belgrado , Rendiconto dei lavori fatti dalla Società Ligure di Storia Patria negli anni 1865-66; negli Atti della Società, vol. IV, pag. CXXVII. GIORNALE LIGUSTICI) nova, frammischiandoli colle notizie mercantili, e ne' punti più importanti ricorrendo alla cifra. Giungeva intanto la risposta del Re-di Sicilia con lettera del io luglio al Grimaldi, nella quale lodando ed approvando gli intendimenti della Repubblica, non si apriva su quanto di era richiesto, se cioè avrebbe concesso che Γ armata 0 y / papale lasciasse le acque di Otranto prima che questa città fosse espugnata. E in questo senso scriveagli di nuovo il Grimaldi in data del 15 luglio, tanto più che essendo il Senarega andato ad Imola presso il conte Girolamo, non ne aveva potuto ottenere che buone parole ed una lettera di esortazione al Papa perchè prendesse a cuore le domande dei Genovesi. Re Ferdinando però inaspettatamente dichiarò di assentire pienamente alla richiesta dei Genovesi (lettera del 21 luglio al Grimaldi), forse perchè vedeva essere il nemico allo stremo, ed ottenendo la capitolazione o F espugnazione senza 1’ aiuto dell’ armata, sperava di escludere questa dal partecipare al bottino. Ma il repentino consenso, che ammantava i segreti motivi del Re di Napoli, venne a scoprire in parte Γ animo del Papa, il quale non era si benevolo come dava a divederlo. Un Breve di lui assicurava aver egli scritto in conformità alla concessione al Cardinale Legato. Il Grimaldi ciò nulla-meno non nutriva troppa fede nelle buone intenzioni del Pontefice, perocché questi non lo avesse voluto ricevere, singolarmente dopo un colloquio coll’oratore veneto, accampando 1 soliti pretesti di infermità. I timori dell’ ambasciatore genovese non erano infondati, chè un Breve del 16 agosto informava il Doge e gli Anziani come per volontà del Collegio de’ cardinali 1’ armata non si sarebbe mossa da Otranto prima dell’ espugnazione : provvedessero intanto i Genovesi ad armar quelle navi che avevano intenzione di aggiungere alle altre pel compimento de’ loro disegni. GIORNALE LIGUSTICO 33 7 Era forse l’avidità di bottino, che ispirava questo inconseguente rifiuto del Papa? Non è verosimile; chè al bottino in seguito nè partecipò, nè chiese partecipare. Era dunque effetto di qualche intesa cogli emuli secolari di Genova ? Quanto abbiamo riferito, congiunto alle notizie di Venezia fornite dal Massola, che cioè in quell’ arsenale si era interrotto a mezzo 1’ armamento di una flotta, mentre era voce che a Costantinopoli e alla Vallona il Turco apparecchiasse una grande armata, il cui -scopo non potea essere verosimilmente che quello di portare aiuto agli assediati di Otranto, induce piuttosto a questa seconda supposizione. Egli è da credere innanzi tutto, che la flotta incominciata ad allestire nell’ arsenale di Venezia non fosse destinata ad arrestare gli ulteriori progressi delle armi turche in Europa; e in secondo luogo è da supporre, che tra’ Veneziani ed il Papa esistessero certi accordi per impedire la partenza delle navi genovesi (montate da Genovesi e da un Genovese capitanate) quantunque assoldate dal Papa medesimo, e rendere vano il disegno di riacquisto delle colonie. Nè ci parrebbe scostarci dal vero, supponendo che il conte Girolamo Riario (i), accarezzato dal Papa e soddisfatto nelle mire più ambiziose, avesse parte in questi sotterfugi politici; mercè i quali, sotto il manto dell’amicizia e del favore, si voleva impedire che lo stendardo di San Giorgio sventolasse di nuovo su Metelino, su Pera, su Caffa e sugli altri porti d’ Oriente. L’arrivo del conte in Venezia (9 settembre), le grandi, principesche feste che per la sua accoglienza vennero fatte dal Governo di quella Repubblica, non fanno che dare maggior ^i) Giovanni Albino dicedi lui: hominum inquinatissimus. Lo storico di Lorenzo de’ Medici, Alfredo di Reumont, fa di Girolamo il prototipo di Cesare Borgia, e lo chiama non indegno precursore di costui sì nella scaltrezza che nella crudeltà ed ambizione. Ved. Edinhirgh Review, Ja-nuary ι&ηη. Giorn. Ligustico Anno VI. 33S GIORNALE LIGUSTICO peso a questo sospetto. Imperocché narra il Massola che la Signoria gli andò incontro fino all’isola di San Clemente, sul Bucentoro e con magnifici apparati, adeo quod si fuisset Summus Pontifex magis non poterant facere. Si aggiunga che il re Ferdinando ambiva Γ acquisto di Caffi per conto suo ; e si vedrà quale cattiva piega dovesse prendere il negozio, che era costato tanti sforzi e spese non indifferenti, massime avuto riguardo alla condizione punto prospera della Repubblica di Genova. Non è quindi a maravigliare se i Genovesi avevano ordinato, fino dal luglio, ai patroni delle quattro navi da mandare in Oriente, di non accostarsi ad Otranto, ma di condursi dirittamente a Scio. Qui giunti, dovevano prender lingua sugli eventi, e star pronti ad operare pel riacquisto delle terre dell’Arcipelago; ovvero, se uno dei figli di Maometto avesse conseguito e il trono e la pace, trattare con lui all’amichevole. Intanto la città di Otranto resisteva agli sforzi de’ confederati cristiani. Il pascià Achmet appena impadronitosi della città avea dato opera a renderla forte, abbandonando la vecchia parte della terra, circondando l’altra di doppio fosso tramezzato da muro, e radendo la campagna all’intorno perchè il nemico non si attestasse in qualche edifizio e non trovasse riparo negli alberi al trarre delle artiglierie. Alfonso di Calabria, procacciato un esercito ed armata una flotta, trovandosi tuttavia con forze impari all’ impresa, la rimandò al prossimo anno, contentandosi di impedire le correrie che i Turchi facevano per le circostanti campagne. Le avvisaglie che succedettero non furono fortunate pei Napoletani ; ma dopo una fazione navale dove questi riuscirono vittoriosi incuoratosi Alfonso, nominato che ebbe Antonello San Severino, principe di Salerno e almirante del regno, capo della flotta, che compone\’,asi, al riferir del-l’Albino, di 40 triremi e 24 navi oltre le onerarie, ordinogli di gettar le ancore nelle acque di Otranto : egli stesso poi, GIORNALE LIGUSTICO 339 uscito coll’ esercito dai quartieri d’ inverno, cominciò Γ assedio. I Turchi, i quali, per l’avvenuto richiamo di Achmet, erano comandati da Ariadeno bali di Negroponte, resistettero del loro meglio; e ben riparati dalle difese che in allora po-teano parere maravigliose al Triulzi, protraevano l’oppugnazione e la resa con tanto maggiore animo, in quanto correa voce fondata che alla Vallona si raccoglieva una potente flotta destinata a soccorrerli. Ma, venuta a mancare questa speranza, ed essendo alle strette di vittovaglie, scesero a patti. Si rese la piazza, salvo l’onore delle armi ; le persone con quanto d’ armi, di masserizie e di metallo coniato potesse ciascuno portare indosso, dovessero essere trasportate libere nell’ Epiro. Una parte di esse vennero però assoldate dal Duca. Otranto rimase rovinata, e il viaggiatore che oggi visita la città dolente, incespica ne’ projetti di pietra, sbalestrativi dalle bombarde turche, che ornano l’entrata delle case e delle ville o servono di piuoli sulle piazze (i). Nella divisione del bottino, il Duca di Calabria avea favorito unicamente 1’ esercito e la flotta napoletana, lasciando affatto in disparte l’armata del Papa, e defraudando così i patroni di quelle navi della parte loro dovuta come partecipi ne’ travagli dell’ assedio. Questo fatto nocque ai disegni di Ferdinando, il quale aveva in mente di cogliere l’occasione favorevole per operare uno sbarco sulle rive Adriatiche dei possedimenti turchi; giacché il malumore dei capitani della flotta papale gli incagliò il progetto. Si fatti malumori scoppiarono nel convegno di Civitavecchia. Quivi sorgea sull’ancore il Fregoso colla flotta; qui vennero il Papa e un ambasciatore straordinario del Re di Napoli; e il 3 ottobre fu raunato concistoro. L’ambasciatore espose a Sisto IV come, per ritrarre qualche frutto dalla vittoria ottenuta, fosse neces- (1) Charles Yriarte, De Ravenne a Otrante. 340 GIORNALE LIGUSTICO sario di afferrare Γ occasione e andare a trovare il nemico in casa sua, mostrando la facilità dell’impresa per la straordinaria forza navale che poteva allora accozzarsi mercè le flotte del Regno, del Papa, dei Re di Portogallo e di Spagna, e per la discordia de* figli di Maometto, e rammentando eziandio che la Lega stretta fra i potentati europei dovea durare tre anni giusta il convenuto. Aggiunse che il Fregoso avendo mancato al proprio dovere, lasciando Otranto senza licenza del Re, non potrebbe altrimenti rimediare al fatto che coll’ aiutare il Re stesso ora ne’ suoi progetti. All’ udire tali cose, il Papa diessi a confortare il Fregoso all’ubbidienza; ma questi, accampando la tarda e cattiva stagione, la pestilenza, la mancanza di danaro, oscitava, senza voler opporre un riciso rifiuto. Giuliano Stella, uno de’ patroni, scorgendo che al legato rincrescea espor le cose come stavano, pigliò a parlare in vece di lui, e col vigoioso accento di chi è uso dall’ infanzia ad intendersela col mare, espose la parte precipua avuta nella resa di Otranto dalla flotta e da’ balestrieri su questa imbarcati, mostrò l’aperta ingiustizia colla quale si era loro negato d’ aver parte nel bottino, e toccò altresì dell’inumano rifiuto di un prestito chiesto altra volta per provvedere a stringenti necessità di vettovaglie. Questo il trattamento sofferto da Alfonso di Calabria. Quanto all’impresa progettata, l’oratore ripete le difficoltà enunciate dal Fregoso, aggiungendone altre prodotte dallo scontento di tutti; insinuò ancora che di fronte a queste difficoltà era inverosimile che il Re si proponesse davvero uno sbarco sulle coste dell’Albania; badasse dunque il Papa quali stromenti sarebbe per fornire alle segrete mire di un ambizioso. Sorse a rimbeccarlo l’ambasciatore, rotto com’era ai destreggia-menti della politica; ma nè le sue parole, nè le esortazioni del Pontefice valsero a far cambiare d’ opinione il Legato ed i patroni, e la Lega fu di fatto sciolta. Prima della partenza GIORNALE LIGUSTICO 34I delle galee, Sisto creò di sua mano due cavalieri dell’aurata milizia a sproni d’ oro ; gli eletti furono Maurizio Cattaneo e Giuliano Stella, cosa strana dopo la costui condotta nel convegno di Civitavecchia, ma che potrebbe essere ben più significativa di quel che a tutta prima non paia. Ed ecco che un’impresa voluta da re Ferdinando, voluta dai Genovesi, non osteggiata, almeno apertamente, dal Papa, andò in fumo per 1’ avidità del Duca di Calabria, per le invidie e i sospetti che tenevano in sospeso gli animi di tutti, quantunque combattessero l’uno a fianco dell’ altro : avidità, invidie, sospetti, che mandarono a vuoto più d’ un’ opera collettiva. Non ci resta che a vedere quale fortuna sortisse 1’ ambasceria mandata a Mengli Gherai. Bartolomeo da Campofregoso e Lodisio Fiesco, passando per Vienna e Pest, giunsero in Mancreman, il 22 di settembre 1481 , dove si proponevano di ottener lettere di passo per attraversare la Tartaria e condursi a quell’ Imperatore. Ma il Signore del luogo, dubitando della loro qualità di mercanti, volle sapere il vero motivo del loro viaggio ; e l’oratore di Mengli-Gherai, che trovavasi presso il Re di Polonia, consigliò i legati genovesi di recarsi prima alla corte di Casimiro. Rifiutandosi i nostri, perchè le istruzioni imponevano loro di recarsi prima all’ Imperatore, egli insistette nel volere che seguissero il suo consiglio ; in ultimo si deliberò di inviare Lodisio Fiesco a Vilna, lungi 60 miglia da Mancreman, mentre Bartolomeo da Campofregoso ne avrebbe aspettato il ritorno. Nel frattempo però questi inviava secretamente un famiglio al-l’Imperatore, significandogli il suo arrivo e l’impedimento incontrato, e procacciavasi informazioni intorno allo stato di Caffa e^de’ suoi cittadini; ed eragli argomento di buone speranze l’apprendere come ivi non fossero che 300 o 400 turchi e più di 6 0 7 mila cristiani, bene disposti verso gli antichi reg- 342 GIORNALE LIGUSTICO gitori. Una energica condotta da parte de’ Genovesi, coadiuvati dal Re di Polonia, dall’ Imperatore dei Tartari, da Zaccaria de’ Ghizolfi, dagli Armeni e dai Greci di Caffa, avrebbe torse ridotto la città ed il mare adiacente in potestà della Repubblica. Lodisio era ricevuto cortesemente da Casimiro; e Γ Imperatore scriveva al Campofregose, invitando ambi i legati a trasferirsi prontamente alla sua corte sotto le spoglie di semplici famigli del suo oratore presso il Re di Polonia. A questo punto s’interompono le relazioni degli oratori genovesi; però da una minuta di lettera del 20 agosto 1483 dei Protettori a Mengli-Gherai, si rileva come questi avesse accolto favorevolmente i Genovesi e dato loro buone speranze e promesse di aiuti : tutte cose pressoché inutili, dopo Γ esito infelice sortito dai disegni di Genova sull’armata del Papa. Perciò i Protettori si scusavano del loro silenzio, accampando che era stato loro riferito avere Mengli-Gherai stretta pace ed amicizia col Turco. Udito però da un Vincenzo di Domenico ciò non essere vero, confortavano l’Imperatore ad accingersi all’ impresa, assicurandogli la loro assistenza. E così tutti i baldanzosi propositi di ristorare la propria dominazione in Oriente, si riducevano ora a preparsi un amico, pel caso in cui riuscisse a scacciare i Turchi dalla Tauride. Ma anche queste speranze svanirono, e della potenza italiana in Levante non rimase che la memoria. G. Grasso. GIORNALE LIGUSTICO 343 I. Lettera della Signoria di Genova a papa Sisto IV, circa gli accordi presi col Legato Apostolico. 1481, 22 Gennaio. Archivio di Stato in Genova. Codice Litterarum anni 1481. X. 132. Reverendissimis in Christo patribus ac excellentissimis dominis colen-dissimis, dominis de Sacro Collegio Sancte Romane Ecclesie reverendissimorum dominorum cardinalium. Reverendissimi patres et excellentissimi domini collendissimi, post humilem commendationem. Recepimus reverendissimarum paternitatum vestrarum litteras datas die VII mensis presentis, per quas significaverunt nobis quas provisiones adversus communem hostem turchum instruendas statuerint ; ad quod hortantur nos ut rei huic pro parte nostra contribuere velimus ; pro quo taxaverunt nos in armamento quinque triremium. Probanda sunt semper sapientissimi summi pontificis et tam sacri Senatus consilia digna magnis patribus et causa imminenti, qua nulla pene maior offerri christianis omnibus posset. Fuimus cum reverendissimo domino apostolice sedis legato, qui apud nos est, super his et alijs que sua reverendissima paternitas in hanc causam pro parte sanctissimi domini nostri nobis exposuit: ex quo reverendissime paternitates vestre et ex nostro oratore, qui Rome est, quid fieri a nobis possit intelligent: pro quo possumus esse breviores. Parati in omnia reverendissimis paternitatibus ac dominationibus vestris semper grata. Data Janue die XXII Januarii MCCCCLXXXI. Baptista etc. Consilium etc. II. 1481, 23 Gennaio. Archivio di Stato. Cod. Diversorum Cancellarne an. 1481. X. 1056. Proposta fatta al Consiglio, di provvedere venti galee al Papa per la guerra contro il Turco. Il Consiglio, accedendo alla sentenza di Paolo D’ Oria, rimette la pratica al Doge e all’ Uffizio di Balia. III. 1481, 24 Gennaio. Arch. di Stato. Cod. Litterarum anni 1481. X. 132. La Signoria significa al re Ferdinando di Sicilia non potergli inviare le triremi richieste, avendone bisogno per difendere il mare Ligustico dai pirati. 344 GIORNALE LIGUSTICO IV. 1481, 24 Gennaio. Arch. di Stato. Cod. Litter. anni 1481. X. i}2. La Signoria invita Francesco Marchese, suo oratore in Milano, ad usare ogni diligenza per sapere ciò che si dee fare circa il Turco. V. 1481, 25 Gennaio. Ardi, di Stato. Cod. Litter. anni 1481. X. 132. Desiderando il Pontefice che la Repubblica armi a proprie spese cinque galee per concorrere alla impresa contro il Turco, la Signoria commette a Raffaello di Odone, suo oratore a Roma, di rappresentare a Sua Santità come per le ingenti spese nelle quali si trova impegnata e pei disastri subiti non si trovi in condizione di soddisfare alla richiesta. Faccia in seguito conoscere al Papa come sia di somma importanza che la flotta venga comandata da un abile capitano, e preferibilmente da un genovese. VI. 1481, 12 Febbraio. Arch. cit. Codicc Divers. Canccll. an. 1481. X. 1056. L’ Ufficio di Balia partecipa al Consiglio la proposta del Legato pontificio di provvedere al Papa venti galee per la guerra contro i Turchi, oltre cinque altre che la Repubblica armerebbe per proprio conto. Soggiunge aver risposto di non poter aderire all’invito per manco di mezzi. VII. 1481, 13 Febbraio. Arch. di Stato. Cod. Litter. an. 1481. X. 152. Al Conte Girolamo Riario. — La Signoria lo prega di mostrarlesi favorevole nella esecuzione delle convenzioni concluse in Roma dall’ambasciatore genovese. Vili. 1481, 2$ Febbraio. Arch. di Stato. Cod. Litter. an. 1481. X. 132. A Raffaele di Odone in Roma. — La Signoria si rallegra della elezione del cardinale Paolo Fregoso alla legazione universale dell’ armata pontificia, « de che qui se fa solemnità grande ». Ne ringrazi il Papa, e lo assicuri della buona volontà dei genovesi verso l’impresa. GIORNALE LIGUSTICO 345 IX. 1481, 27 Febbraio. Arch. di Stato. Cod. Litterar. a. 1481. X. 132. Lettera circolare della Signoria agli uffiziali delle due Riviere, per notificare loro l’armamento contro de’ Turchi, invasori d’Italia, fatto dal Papa; l’elezione pur da quest’ ultimo fatta del Cardinale di S. Anastasia (il Fregoso) a comandante generale, e di venti cittadini genove'si a patroni della flotta. Bandiscano però ai popoli da essi retti niuno essere tenuto per obbligo preciso, ymo omnes liberos esse.... Satis est excitare pro salute anime et corporis utilitate. Hec classis expedietur per totum mensem martii proxime futurum. X. 1481, 9 Marzo. Arch. di Stato. Cod. Litter. a. 1481. X. 132. Al re Ferdinando. — La Signoria lo avvisa avere spedito al soccorso di lui la nave di Ambrogio Capello. Un’ altra nave destinata allo stesso scopo patì naufragio in riviera. Voglia il Re lasciare che dopo tre mesi prosegua il suo corso per negozi mercantili. XI. 1481, 13 Marzo. Ardi, di Stato. Cod. Litterarum anni 1481. X. 132. Al Papa. — Duole alla Signoria non poter armare a proprie spese altre cinque galere, sì come S. S. ne la richiede anche per un Breve testé ricevuto. Impediscono un tale effetto le strettezze dell’ erario ed i nuovi torbidi ai quali sembra disposto Obbietto Fieschi in una col proprio fratello. XII. Minuta di convenzione tra i Legati pontificii e alcuni patroni di galere destinate all’ armata che si allestisce contro i Turchi. 1481, 24 Marzo. Arch. di Stato. Materie Politiche, mazzo XIV. In nomine Domini amen. Cum hoc sit verum quod Sanctissimus in Christo pater dominus Sixtus divina providentia papa quartus, et seu sacrum collegium reverendissimorum dominorum Sancte Romane Ecclesie cardinalium, misserint ad civitatem Janue reverendissimum in Christo pa- 346 GIORNALE LIGUSTICO treni dominum Joannem Baptistam tituli sancti Viti in macello dyaco-num prefate Romane Ecclesie cardinalem de Sabellis, sedis apostolice legatum, ad armandum instruendumque certum numerum triremium omnibus sumptibus suis, ad occurendum infideli hosti turcho ; ipseque sanctissimus dominus noster ellegisset patronos ipsarum triremium infrascriptos cives ianueiises, videlicet : Egidium de Carmandino Mauricium Cataneum Gentilem de Camilla Edoardum Grillum Johannem de Canobio Julianum Stellam Johannem de Auria de Onelia, nomine et vice Ceve fratris sui pro quo de rato promissit sub etc. Baptistam de Rapallo Melchionem Testam Johannem Calderam Geofredum Lomellinum Gasparem de Davania Baldassarem Lomellinum Johannem Ambrosium de Flisco Baldassarem de Blasia Gasparem Judicem de Vintimilio. Ecce quod prefatus reverendissimus in Christo pater dominus Johannes Baptista legatus supradictus, ac insuper reverendissimus' in Christo pater dominus Paulus de Campofregoso tituli S. Anastasie presbiter cardinalis ianuensis classis maritime apostolice sedis legatus, agentes nomine et vice prefati sanctissimi domini nostri Pape sacrique collegii et seu apostolice camere, pro quibus suis propriis et privatis nominibus promisserunt sibi etc. ex una parte, et prefati patroni ac quilibet eorum pro se et unus pro alio et omnes pro uno ex altera parte, pervenerunt et pervenisse sibi mutuo ac vicissim confessi fuerunt ad infrascripta pacta conventionem et transactionem solemnibus stipulationibus hinc inde intervenientibus vallata et vallatas, renuntiando exceptioni decretorum pactorum ac convencionis non sic aut aliter gestorum, doli mali metus in pactum conditioni sine causa vel ex iniuxta causa et omni alii jurium et legum auxilio; videlicet quod ex causa decretorum pactorum et conventionis prefati reverendissimi in Christo patres legati suprascripti, ac quilibet eorum tam coniunctim quam divisim prout melius expedit, nominibus quibus supra, promisserunt GIORNALE LIGUSTICO 347 ac convenerunt prefatis patronis et cuilibet eorum ibidem presentibus ac stipulantibus, ac ad cautella'm mihi notario et cancellario infrascripto stipulanti ac recipienti nomine et vice omnium quorum interest intererit et seu interesse quomodolibet poterit in futurum, infra diem quintam decimam mensis aprilis proxime futuri dare et assignari et seu dari ac assignari facere in civitate Janue aut Saone in mari dictis patronis et cuilibet eorum unum corpus triremis perfectum ac bene conditionatum cum omnibus apparatibus et armamentis accessoriis, comprehenso schiffo ad navigationem tam pro respectu quam pro necessitate, et dictos apparatos ac armamenta manutenere et de novo providere toto tempore stipendii sui secundum consuetudinem armandarum triremium. Item promiserunt ac convenerunt ut supra dare et solvere dictis patronis et cuilibet eorum, et seu dari ac solvi facere singulo mense durante eorum stipendio pro singula trireme ducatos quingentos octuaginta largos boni auri et iusti ponderis, et ultra panaticam necessariam pro toto tempore stipendii sui, et sepum consuetum pro dicto tempore. Item promiserunt ac convenerunt ut supra quod tempus conductionis ipsarum triremium censeatur et intelligatur durare et pro firmo ex nunc haberi usque ad menses sex proximos, incipiendos a die qua patroni mon-stram fecerint ut infra dicetur ; hoc pacto et conditione adiecta, quod casu quo sanctissimus dominus noster vel vacante sede, quod absit, ipsum sacrum collegium vel camera apostolica, voluerit dictas triremes pro ulteriori tempore conducere, eo casu teneatur significare patronis per unum mensem ante finitum tempus predictum ; et sic successive pro eo tempore quo contigerit suam sanctitatem vel sedem aut agentes pro eis retinere huiusmodi classem, ita quod dicti patroni cerciorati per unum mensem ante ut supra dictum est, teneantur et obligati sint servire sub dicto stipendio et modis quibus supra; et si id dictis patronis significatum non fuisset, liceat eis abire et redire domum ; et servire intelligantur sub dicto stipendio usque quo domum fuerint reversi. Ita tamen quod in tempore reversionis non possint divertere ad alia negotia. Item promisserunt et convenerunt ut supra ex nunc dare et solvere dictis patronis et cuilibet eorum ducatos quingentos, compensandos in stipendio mensium trium primorum supra scriptorum, et ex inde infra decem dies alios ducatos octingentos compensandos ut supra ; et reliquum usque ad integrum stipendium dictorum trium mensium infra duos dies facta monstra: in quo reliquatu possint prefati reverendissimi domini-legati dare dictis patronis et cuilibet eorum tantum boni frumenti mercantilis quantum capiat summam ducatorum ducentorum, si illud dederint infra dies 348 GIORNALE LIGUSTICO vigiliti ab hodie numerandos, et pro precio currenti tempore quo dabitur ipsum frumentum ; alioquin teneantur dare totum dictum reliquatum dicti stipendii dictorum primorum trium mensium in ducatis ut supra. Hoc etiam declarato quod prefati reverendissimi domini legati possint stipendium predictum ipsorum mensium trium dare dimidiam partem in pecunia numerata argentea precio in Janua currenti. Qua monstra facta in mari, ut supra dictum est, dicti patroni intelligantur servire dicto stipendio ; hoc declarato quod si offerentibus ipsis patronis se velle facere monstram, et prefati reverendissimi domini legati seu alter eorum recusaret se velle facere post dies duos a die requisitionis per ipsos patronos facte, intelligantur incipere servire stipendio suo; et tamen facere postea quandocumque fuerint requisiti mostram teneantur. Que monstra tamen non intelligatur valere aut locum habere nisi fecerint eam cum tribus quartis partibus hominum quos habere debent: qui sint et esse debeant remiges centumquinquagintasex pro singula trireme et socii se-xagintatres, computatis omnibus officialibus et ipso patrono. Nec tamen intelligantur servire, nisi pro eo numero de quo monstram fecisse videbuntur ultra supradictas tres quartas partes hominum. Et si fuerit aliquis patronus qui monstram non fecerit, saltem cum tribus quartis partibus, ut supra dictum est, non intelligatur posse servire in aliquam po..... monstram ut supra . . . . , nisi posteaquam adimpleverit numerum suum saltem pro tribus quartis partibus ut supra; et hoc casu etiam posse condemnari in eo quod videretur discrecioni ipsorum dominorum reverendissimorum dominorum legatorum. Item promisserunt ac convenerunt ut supra fieri facere dictos patronos et quemlibet eorum per excelsum commune Janue immunes et franchos a cabellis marinariorum durante dicto stipendio, et a cabella censariarum pro presenti contractu et dependentibus ab eo, et dicta occasione conservare eos indemnes. Et versa vice dicti patroni et quilibet eorum pro se et unus pro alio et omnes pro uno promisserunt ac convenerunt dictas triremes armatas habere ut supra dictum est per totum mensem aprilis proxime futurum, et cum illis bene et fideliter servire toto posse et bona fide toto tempore stipendii predicti. Et cum in promissionibus et obliga-cionibus factis vel faciendis per reverendissimum dominum cardinalem Januensem classis legatum et contractis seu contrahendis inter ipsum reverendissimum dominum legatum de Sabellis et reverendissimum ipsum dominum classis legatum expresse cautum sit quod prefatus reverendissimus dominus Januensis non ibit cum dicta classe contra christianos civitates oppida seu villas Christianorum turcho non subiectorum directe GIORNALE LIGUSTICO 349 vel indirecte aut aliquo quesito colore , et fideliter agere contra turchum potissimum in expellendum ipsum ex Ydrunto et ubique illum damnificando ; et fideliter defensabit si fuerit necessarium terras Christianorum ab ipso turcho, potissimum terras Ecclesie subiectas, ut est Marchia anconitana et cetera que sunt in lictore Romane Ecclesie et summi pontificis, et etiam terras orientales casu quo alique earum obsiderentur a turcho ; et que maiori obsidione premerentur illis magis feret présidium, demptis terris Ecclesie quibus ante omnia sucurrere teneatur. Et casu quo aliqua civitas seu terra christiana a christianis premeretur , seu in illis esset civilis et intestina dissensio, non debeat relinquere offensionem turei ad succurendum terris a christianis oppressis aut seditionem facientibus sine sanctissimi domini nostri licentia in scriptis obtenta. Durante ipso stipendio teneantur, et obligati sint dicti patroni in omnibus et per omnia obedire reverendissimo domino legato Januensi classis prefecto eiusque imperio obsequi, nisi fortasse ipse reverendissimus dominus Cardinalis Januensis legatus obligationibus suprascriptis contraveniret ; quo casu ad-veniente, quod absit, nullo pacto obediant eidem domino legato, sed potius faciant prout a sanctissimo domino nostro, vel vacante sede a reverendissimo collegio, habuerint in mandatis. Et ita iuraverunt et quilibet eorum iuravit, ac obligaverunt et unus pro alio et omnes pro uno equis portionibus, sub pena ducatorum mille omnia et singula supradicta observare ; quam voluerunt incurrere ipso facto si contrafecerint vel aliquis ipsorum contrafecerit ; ad quam penam obligaverunt se in forma camere apostolice. Item promisserunt ut supra ac convenerunt ac quilibet eorum promissit ac convenit et unus pro alio ac omnes pro uno equis portionibus in forma camere , finito eorum stipendio se restituturos realiter et cum effectu in civitate Janue vel Saone corpora ipsa triremium cum suis apparatibus talia qualia aut tales quales erunt tempore dicte restitutionis pro numero et qualitate eorum, bona fide et sine fraude, salvo semper iusto Dei maris et gentium impedimento. Item promisserunt ac convenerunt et unus pro alio et omnes alii ut supra pro contrafaciente vel contrafacientibus, casu quo non servirent pro tempore de quo stipendium habuerint, restituere illud stipendium pro quo non servisse videbuntur, et hoc etiam in forma camere: hoc etiam expresso quod nemo ex dictis patronis possit retinere aliquem violenter ad stipendium sue triremis, nisi fuerit de licentia prefati reverendissimi domini legati classis. Hoc etiam adiecto quod de omni preda quam fieri cum dicta classe 35° GIORNALE LIGUSTICO contingat in arbitrio sanctissimi domini nostri relictum sit dare eam partem dictis patronis quam sue sanctitati videbitur. Que omnia et singula suprascripta singula singulis refferendo, prefati reverendissimi patres nominibus quibus supra, ipsique patroni preservare indemnes se mutuo promisserunt et quilibet eorum ac unus pro alio ; ac iuraverunt ad sancta Dei evangelia, ipsi videlicet reverendissimi patres super pectus suum et in manus sanctissimi domini ac sacri collegii et sive camere apostolice, et ipsi patroni corporaliter manu tactis scripturis et in forma camere, perpetuo rata grata et firma habere tenere attendere et observare et in nullo contrafacere vel venire per se aut alios aliqua ratione causa vel ingenio que dici vel excogitari possit de iure aut de facto, sub pena ducatorum mille ut supra dictum est applicanda parti observanti, et solvenda pro parte contrafaciente, videlicet ducatorum mille pro singulo patrono contrafaciente, et e quibus (?) ducatorum mille solvendorum per ipsos reverendissimos dominos legatos nostros nominibus quibus supra cuilibet patrono cui fieret contrafactum. Qua soluta vel non, rata et firma semper maneant omnia et singula suprascripta et cum eadem pene commissione. Pro quibus omnibus firmiter attendendis et observandis obligaverunt se sibi mutuo ac vicissim omnia eorum bona dictis nominibus presentia et futura in forma camere. Renuntiantes etc. Volentes presens instrumentum dictare et corrigi posse ad laudem sapientis, substantia non mutata. Actum Janue in domo residentie prefati reverendissimi domini cardinalis de Sabellis legati, in domo que est viri nobilis Johannis de Auria quondam domini Dominici Bartholomei ; presentibus spectabilibus viris domino Bartholotneo Balionis decretorum doctore, auditore prefati reverendissimi domini legati, ac domino Steffano Guarnerio auximano cancellario civitatis Peruxine, qui de predictis omnibus una mecum rogatus fuit, ipsiusque reverendissimi domini legati secretario, viroque nobili Mau-ricio Cibo fratre reverendissimi domini cardinalis Melphitensis, Petroque de Rippalta notario et archiepiscopalis curie ianuensis scriba, ambobus civibus Janue, testibus ad hec habitis specialiterque vocatis et rogatis ; anno a nativitate Domini millesimo quadringentesimo octuagesimo primo, indictione decimatercia secundum Janue cursum, die vero sabbati vigesima quarta mensis Martii, hora inter vigesimam tertiam et vigesimam quartam. GIORNALE LIGUSTICO 351 XIII. 1481 , 27 Marzo. Arch. di Stato. Cod. Litter. a. 1481. X. 132. Al Papa. Paolo cardinale Fregoso ringrazia il Papa per averlo eletto al comando supremo della flotta; e lo esorta a procurare che in servizio delle triremi, che la compongono, sieno armate eziandio tre navi. XIV. 1481, 8 Aprile. Arch. di S. Giorgio. Fogliazzo intitolato: Progetto di riacquisto delle colonie. Breve di Sisto IV, il quale deplorando i progressi fatti dalle armi della spurcissima secta dei turchi su quelle della cristianità , bandisce una tregua di tre anni a cominciare dal i.° giugno, durante la quale dovrà cessare ogni ostilità tra i potentati cristiani, acciò che possano riunire le loro forze e cacciare il turco dalle terre cristiane, minacciando « indignationem omnipotentis Dei ac beatorum Petri et Pauli apostolorum eius », a chiunque infranga « hanc paginam nostre monicionis, requisitionis, observationis, praecepti, mandati, indicti, hortationis, iniunctionis , receptionis et voluntatis ». XV. Elezione di dodici cittadini, i quali insieme a frate Domenico di Ponsolo dovranno provvedere all' armamento di alcune navi contro de’ Turchi. 1481, 29 Aprile. Archivio di Stato. Codice Diversorum, a. 1481. X. 10/6. Sellectio XII virorum cum fratre Dominico pro armamento navium, f MCCCCLXXXI die XXVIIII aprilis. Illustris et excelsus dominus Baptista de Campofregoso ianuensium dux et populi defensor, et Magnificum Consilium dominorum Antianorum communis Janue in pleno numero congregati, absente solum Jeronimo Vento. Audientes multos nec parvo numero cives Janue sermone et persuasionibus venerabilis fratris Dominici de Ponsolo ordinis minorum de observantia, commotos esse ad armandum propriis sumptibus suis aliquas naves adversus infidelem hostem turchum qui christianos tanta feritate et immanitate persequitur, iamque notabilem summam pecuniarum ad hoc 352 GIORNALE LIGUSTICO pium et sanctum opus invenisse, velleque ad rei huius exequtionem procedere, si sibi adhibeantur duodecim consultores cives ianuenses quos ipse nominabit, qui una secum potestatem et auctoritatem habeant accipiendi ad huiusmodi servicia quas et quot naves ex existentibus in portu Janue voluerint, easque si opus fuerit cogendi ad hec servicia, cum ea tamen condigna mercede quam ipse cum dictis consultoribus suis et seu maiori parte ipsorum taxaverint ac declaraverint, sub hac tamen condictione expressa ut nihil in hac re agi possit nisi ipso precipue vel altero ex suis religiosis quem ipse ex suis substituerit consentiente ; quodque sufficiat ad hec omnia predicta agenda ille numerus dictorum duodecim quem ipse frater Dominicus seu substitutus ab eo pro tempore voluerit, excepto quod in tassatione ac declaratione mercedis navium in quo esse debeant due partes ipsorum duodecim cum dicto fratre Dominico seu substituto, qui debeant esse concordes, ita ut retenta omni potestate in ipso fratre Dominico vel ab eo substituto seu substituendo ad reliqua omnia, ut supra dictum est, nihil agi in hac materia possit sine suo spetiali consensu, quod ita bonis respectibus visum est ei in conficiendo huiusmodi negotio convenire. Re huismodi diligenter inter sese excussa ac considerata, verumque negotii pietate inspecta que nulla pene maior esse posset ubi pro defensione christiane fidei decertari oporteat. Statuerunt ac decreverunt fieri posse ac debere in omnibus prout ab ipso fratre Dominico ut supra conventum ac petitum est, sicque statuerunt et decreverunt ac confirmaverunt nominationem ipsorum duodecim per eum factam, quorum nomina sunt hec: Johannes Franciscus Spinula Constantinus de Auria Dominus Matheus de Flisco Philippus Lomellinus Johannes Gentilis Falamonica Ludovicus Centurionus Raphael Justinianus Arangius Gregorius Adurnus Bendinellus Sauli Christoforus de Davania Leonellus de Bracellis Boruelis Nicolaus de Brignali notarius. Non obstantibus aliquibus capitulis decretis aut regulis communis Janue quibus, quantum predictis obstarent, voluerunt spetialiter derogatum et abrogatum fore. GIORNALE LIGUSTICO 353 XVI. Istruzione data dalla Signoria a Bartolomeo Senarega, ambasciatore al Papa. 1481, 5 Giugno. Archivio di Stato. Informazioni date dalla Repubblica di Genova a’ suoi ambassadori, e raccolte da Agostino Fransone. Ms. vol. I, pag. 638. Baptista et Officium Romanie. Hec sunt que in mandatis damus vobis egregio secretario nostro Bartolomeo Senarega ituro ad Summum Pontificem, ad quem damus vobis litteras credentiales, quibus redditis Sue Sanctitati et facta pro more humili commendatione pedibus Sue Sanctitatis, verba vestra hec erunt: Causa propter quam mittimus vos super omnia exigit magnam itineris vestri celeritatem, ut ex re ipsa potestis intelligere. Ideo posteaquam Sige-strum perveneritis, curatote terra aut mari transire usque Petrasanctam, vel Pisas, illic sumptis equis ad vectroiam die ac nocte quantum possibile vobis erit Romam properate. Dicite nos primum debere summe Dei clementie gratias immensas, que nos et ceteros Christianos liberavit a manu communis hostis regis Turearum, quem omnipotentis Dei manus non vires non hominum studia interfecit, inter omnes Christianos sumus qui ex suo obitu vehementer letamur, quod non modo ab imminentibus periculis saltem propter Chium nostrum erepti sumus, sed oblata est nobis facultas recuperandi de manibus suis que a nobis eripuerat, si modo nobiscum adsit benignitas Sue Sanctitatis , que sicuti iam exercitata pro communi Christianorum commodo videbatur, ita si nunc aspicere ad suam patriam voluerit, erit ad ipsum dominum retributio tanti boni parata verum perennis apud suos Januenses memoria, cum apparebit Sixtum Pontificem quartum non modo patriam suam a sirvitute liberasse, verum restituisse eis dignitatem veterem ac dominia sua que Christianorum inimicissimus hostis illis rapuerat, quia nemo Summus Pontifex maiora patrie sue beneficia unquam contulit. Quis perenne monumentum magis in patriam adeptus est? Nemo hic certe omnes superavit. Hic est quem si dicere fas est Januensis civitas pro Deo suo potest habere. Hoc igitur casu ad consilia rei nostre excitati; cogitantes quo modo recuperandis rebus de manibus suis possemus intendere ubi filiis suis ut spes est de regno dissidentibus facilior erit aggressus, duximus a Sua Sanctitate, a Sua Clementia hec que dicemus auxilium implorare et supplices petere, ut po- Giorn. Ligustico, κΑηηο VI. 354 GIORNALE LIGUSTICO steaquam ex obitu suo ex discordia eorum successorum pro ratione creditur Idruntum vel Litium posse expugnare a serenissimo rege Ferdinando vel dedictione facturum, adeo ut causam propter quam Sua Sanctitas, si classem triremalem apud nos comparait, in nulla alia re classis ipsas vires exponi melius possit quam in recuperandis locis nostris in partibus orientalibus sitis; in quo si Sue Sanctitatis mens est hostes ipsos turchos offendere perturbare ac devastari, non aliter commodius ac facilius, ac cum maiori spe victorie certe videri potest, et eo magis quo nihil ad cuiuspiam iniuriam querimus, quod ad nos pertinet solum intendentes, dignetur concedere nobis ut hac classe pro tempore trium mensium quo primum constitutum est his casibus nostris frui possemus illa, neque exponere ad hec servitia nostra, quibus si opus fuerit et naves et alias quasdam triremes addemus nostro sumptu. Ad quod etsi sua erga patriam pietas movere Suam Sanctitatem potest, ubi pene quicquid aliud classis hec sola in hostem facere pro ratione posset que non ad predandum instructa est, sed percutienda hostis viscera, ac etiam que alie nationes surripere nobis possent loca nostra orientalia, et quod periculum ab hoste turcho illatum nobis est non minus a christianis nationibus possemus expectare, quod eo etiam maius foret quod si turchus nostra occupasset loca, non tam mercantili negotio privata in eis videbamur quo privaremur si Veneti presertim loca ipsa nostra occuparent, quod omnino opportet nos devictare ; et cum his etiam probaremus quod Sua Sanctitas cum Dominio Venetorum componat, ut nec ipsa in rebus que a nobis tutabuntur et de quibus pax etiam inter nos mentionem fieri se immiscerunt neque nos ad illis que de ipso Domino tenebantur, quomodo utraque pars rem suam curabit, nec alter alteri erit impedimento; quod si accideret non minus hoc grave esse posset, quam si a turcho oppugnaremur. Verum si recuperabimus loca nostra, erimus tureis, si aliquando convalescent, repu-crnaculum et oppositum, ne de cetero tam facile ad offensionem Christianorum transire possent, idque magno etiam sumptu nostro faciemus, quod ceteris Christianis prodesse poterit. Sanctitas Sua si hec omnino faciet, iuvabit patriam suam, extollet eam et restituet ad veterem dignitatem suam, et ad commoda ingentia, consulet paci Christianorum, quam nefas esset ex obitu hostis renovare, quod melius forsitan fuisset vivere, quam mortuum novas discordias et nova bella inter Christianos reliquisse. Satis videbitur nobis quod primis verbis possit a vobis exprimi, et ex-pectandum quid Sua Sanctitas respondebit; que si precibus vestris as-senûet quod neque differri potest, neque in suspensionem duci, curatote habere brevem ad Prefectum classis Sue Sanctitatis et ad patronos GIORNALE LIGUSTICO 355 triremium, ut mandata nostra alio in contrarium non obstante sequantur. Si diceret non posse de re hac inconsulto rege deliberare prò quo classem paravit, respondete: si Idruntum esset Sue Maiestati restitutum, sublatam esse causam subsidii, nec oportere ad regis arbitrium hoc factum relinqui ; at si Idruntum in fide hostium etiam permaneret, eo casu Sanctitas Sua posse regi persuadere ut petitioni nostre ipse etiam as-sentiat, ubi amodo nulla spes est his, qui Idruntum occupant subsidia expectandi, et in mora facilius hostes vinci posse Sua Maiestas vel una nobiscum si velit vel seorsum ad ulciscendum hostis iniuriam prosequi quo hostis a multis partibus oppressus ubique concedere facile compellatur; placereque illi Regie Maiestati magis posse quod recuperemus loca nostra, quam si illa et alia in potestatem Dominii Venetorum venirent qui cum Sua Maiestate ex quo contendunt, et nos nullam discriminis causam cum illa regia Maiestate habemus, ipsa vero multa cum Venetis qui maiores sunt ipsius dominii vires, quam nostre et ad cupiditatem dominandi maior ambitio propensiorque libido. Sine ope classis huius proficere in rebus nostris nihil confidimus, cum nulla ad presens vel pauca admodum triremium corpora habeamus, neque armandi illas tempus quod navigationi illius maris possit esse accomodatum ad quod post mensem augusti non facile solet penetrari. Inter hec, Venetos propinquitate locorum, commoditate classis quam nunc habent, posse preoccupare nos in multis, ad quod nunc videri facile potest, futurum in mora difficile. Que sunt a Sua Sanctitate permaxime consideranda, si ad rem nostram aspicere piis oculis velit, ut credimus. Si demum diceret se nihil deliberare velle sine regis consensu, respondete : hoc saltem agi cum magna celeritate oportere ubi tempus sue classis labitur quotidie, navigationis tempus etiam currit ; hoc casu volumus ut eatis ad dominum Anellum regium oratorem, ad quem damus vobis litteras credentiales, et illi exponite adventus vestri causam, et rogate eum ut Serenissimo Regi suadere velit ut Sua Maiestas petitioni nostre as-sentiat illis rationibus quas supra memoravimus ; adiecto placere nobis si ita voluerit Maiestas Sua, societatem classis sue ad hostis offensionem Idrunto recuperato, si modo possumus una simul recuperatis in Oriente aliquid facere adversus communem hostem quod Sue Maiestati gratum esse possit ; sed edocete eum non posse rem hanc differri propter commemoratas rationes, et ideo cum celeritate agendo, ut de mente Regia statim certioremur. Si vero Pontifex responderet non videri sibi honestum quod sumptus 35^ GIORNALE LIGUSTICO huius classis sit super eum vel saltem totus aut per verba his similia, dicite: si classis hec sua omnino sufficeret necessitati nostre, nos non recusaturos partecipare pro aliqua parte huius impense, et cum oporteat nos expeditionem triremium vel navium novam impensam facere, certe non possemus hoc presertim tempore tantum omnes suscipere, immo cum cito consumptus sit mensis unus istius classis, post tempus trium mensium opporteret nos providere stipendio suo pro novo tempore; sed conternabimus obligare nos ad hanc rem si, contingat ut recuperemus vel' Mittelenum vel Peram vel Capham, vel si magis placeret Sue Sanctitati ut in locis illis que recuperari a nobis contingeret errigi vexilla Ecclesie non recusabimus rem committere arbitrio Sue Sanctitatis. Post colloquium habitum cum Summo Pontifice primus sit illustris Comes, cui omnia etiam explicate, et auxilium suum ad omnia implorate ; post eum Reverendum Dominum Melphitensem et alios Reverendos Dominos Cardinales ad quos damus vobis litteras, et Magnificum Dominum Foro Juliensem ; et dicitote et explicate omnibus necessitatem nostram, ad-nitamini trahere omnes in vota et auxilium nostrum ; quo facto quicquid sit nobis per proprium tabellarium nunciatote, nec discedite donec aliud vobis scribamus. Et demum si his verbis quietus esse non vellet, petite quid vellet a nobis, et orate Suam Beatitudinem ut compatiatur laboribus nostris, consideret quod quicquid agitur erit in gloriam suam, et ad commodum patrie sue, verum quantum possit necessitas ubi privasset nos tot corporibus triremium in complacentiam Sue Sanctitatis, et supervenisset modo casum quod non necessitet Sua Sanctitas ad alia quam ad offensionem hostis, nobisque oblata facultate recuperandi res nostras, an liceret pro re generali et cuius nullus fructus sine nobis esset, potest dimittere classem hanc ad alia quam nostra negotia. Hec omnia necesse est quod Sua Sanctitas sapienter et sane consideret, et estimet rem nostram, sicuti est, esse suam, et in re nostra agi non minus de honore suo, de gloria sua, quam in alia quacumque re ; et demum cum res hec non moram patiatur neque pro Sua Sanctitate neque pro nobis, respondeat de sua mente et cogitet a nobis petere que possibilia sunt, non autem impossibilia. Bartolomee, intelligitis causam nostram indigere summa festinatione ; pro quo curatote ut in prima vel secunda audientia, omnibus replicatis ; intelligere quid agi possit a vobis ut diximus, non uno sed pluribus nuntiis significate quid egeritis, et que spes vobis esse possit in re huiusmodi componenda; quod si fieri possit, permaxime ante discessum classis, optaremus, quia omni festinatione ac velocitate opus est ut de mente Summi Pontificis certioremur. Data Janue die V Junii 1481. GIORNALE LIGUSTICO 357 XVII. I Protettori delle Compere di S. Giorgio e i Deputati alle cose orientali provvedono all' armamento di tre navi, ed a più altre occorenze; tra le quali é la spedizione di Luca Massola a Venezia come agente segreto. 1481, 7 Giugno. Ardi, di S. Giorgio. Cod. Diversorum negotiorum Officii S. Gcorgii, a· 1481-84. Millesimo quadringentesimo octuagesimo primo, die septima Junii. Magnifici et spectabiles domini Protectores Comperarum Sancti Georgii Communis Janue anni presentis et XXXXIIII, et octo dominorum deputatorum (sic) super provisionibus orientalibus in legitimis numeris congregati: habentes amplum arbitrium et potestatem super armamento et provisionibus rerum orientalium, virtute deliberationis numerosi participum comperarum concilii scripte die heri manu mei Angeli Johannis (i). Volentes inchoare et principium dare oneri ipsis imposito : habita inter eos matura disputatione et consultatione, tam super numero navium armandarum quam hominum super eis imponendorum, habitoque respectu ad conditiones temporum pro his que emergunt tam in civitate quam extra. Demum in Dei nomine et Sancti Georgii, sub calculorum iudicio, qui omnes vigintiduo albi inventi sunt, assensum significantes, statuerunt et et deliberaverunt armare et stipendio eorum conducere tres naves infra-scriptas, videlicet Cosme de Nigrono, Christofori Salvaigii qm. Salvaigii et Dominici de Flisco, cum hominibus mille, dividendis et conducendis ac regendis prout in contractu celebrando et inheundo cum patronis ipsarum navium ipsi magnifici et spectabiles domini officiales declarabunt. Declarato tamen quod patroni prenominati stipendio conducere debeant pre-dictos homines mille, pro mensibus quatuor, pro quibus mensibus quatuor deliberaverunt naves predictas conducere, approbandos tamen et revidendos per ipsos magnificos et spectabiles dominos officiales vel deputandos ab eis, sub monstris mandato eorum conficiendis: in quibus acceptare non debeant nisi illos tantummodo, quos sufficientes judicaverint : et cum declaratione quod dicti homines conducendi, exclusa plusma dumtaxat, debeant et obligati sint facere omne terrasaniam iussu capitanei et totiens quotiens ipse mandaverit. Item paulo post elegerunt iet nominaverunt ad condendam et revidendam instructionem spectabilis domini Luce de Grimaldis oratoris ad Summum (1) Il cancelliere Angelo Giovanni di Compiano. 358 GIORNALE LIGUSTICO Pontificem, viros prestantes Antonium Spinulam quondam Ambrosii, Johannem Baptistam de Grimaldis qm. Luce et Enricum de Francis Tonsum, tres ex collegis eorum. Item elegerunt et nominaverunt etiam viros prestantes duo ex se ipsis massarios ipsorum magnificorum et spectabilium officiorum, Jacobum Stellam et Franciscum Lomellinum qm. Francisci, qui habeant curam solutionis pecuniarum erogandarum, sub apodisiis subscriptis manu mei Angeli Johannis ipsis dominis massariis parte reliquorum magnificorum et spectabilium collegarum suorum dirigendis. Declarantes tamen quod cura scribendi libri eiusmodi massarie attributa et demandata sit ipsi domino Jacobo Stelle. Item elegerunt et nominaverunt eorum nuncium et mandatarium, Venerias sine mora proficiscendum, virum providum Lucam Maciolam cum mandato ipsi verbo facto ad explorandum que ibidem agantur, et significandum que intellexerit cognitione digna, per litteras genitori suo dirigendas sub forma alphabeti zifrati eidem Luce traditi. Cui fieri mandaverunt in dictos dominos massarios apodisiam ducatorum viginti quinque. XVIII. 1481, 9 Gipgno. Cod. Diversorum negot. Officii Sancti Georgii, anu. 1481-1485. I Protettori delle Compere e il Magistrato degli otto deputati a’ provvedimenti sulle cose d’ Oriente deliberano che i Protettori a nome delle Compere stesse contraggano un imprestito guarentito sulle imposte che si ricavano dai luoghi di esse. XIX. Istruzioni date dall’ Ufficio delle Compere a Luca Grimaldo, ambasciatore al Papa. 1481, 9 Giugno, f MCCCCLXXXprimo die VIIII Junii. Nos Protectores Comperarum Sancti Georgii excelsi communis Janue annorum presentis et XXXXIIII, ac Officium octo deputatorum super armamento et provisionibus rerum orientalium, committimus et in mandatis damus ea que dicentur inferius vobis insigni et claro iuris utriusque doctori, domino Luce de Grimaldis, oratori nostro ad Summum Pontificem in Dei nomine sine mora profecturo. GIORNALI- LIGUSTICO 359 Plurimum celeritatis exigit negocium et legacio vobis commissa, quam indicio nostro aspicit felix rerum eventus; ex quo, si mare et venti patientur , cum his triremibus Summi Pontificis prope diem soluturis quantum in vobis erit navigacionem prosequimini. Et quam primum, Deo duce, urbem attigeritis, erit spectabilitas vestra cum Bartholomeo de Senarega secretario nostro; quem propterea sub instructione nostra in sententia huic satis consimili, cuius copiam vobis dedimus, misimus ad conspectum Sanctitatis Domini nostri, cum ordine ut inde rebus in confectis non recedat, donec habitis ab ipso litteris eorum que' egerit aut agere spem habuerit ; deinde a nobis quid acturus sit admonitus fuerit ; si vero requisitorum compos effectus foret, statim ad nos rediret, Ab eo intelliget prudentia vestra quid egit in his , et circa ea que per instructionem nostram illi traditam demandavimus. Quibus intellectis, et his que in pre-dictis ipse egit diligentius examinatis, habitoque super inde iudicio, prudentia vestra cetera prosequetur : quam non veremur acumine ingenii sui, quem affectamus optatum finem attingere. Et tunc, nacto idoneo tempore quo animum Summi Pontificis magis quetum et vacantem magis invenire possit, ad conspectum Sanctitatis Sue accedet, et causam sibi commisse legationis exponet. Si vero Bartholomeus inde recessisset sciat ipsum pro voto obtinuisse, quia sic fuit commissio nostra ;' et si quid imperfectum dimisisset quod a civibus istic nostris intelligere poterit, supplebit spectabilitas vestra, et pro obtentis per ipsum Barthelomeum clementie Sanctitatis Sue nostro nomine gratias reddet ingentes. Quo casu, omissis aliis articulis huius instructionis per ipsum Bartholomeum adimpletis, volumus quod prudentia vestra oret Sanctitatem Suam super his que non obtinuisset Bartholomeus ipse, et presertim pro facto stipendii triremium mensium trium futurorum, post primos tres menses stipendii per eamdem Sanctitatem dictis triremibus iam soluti, et deposcat a Sanctitate Sua quantum et quemadmodum in articulo inferius scribendo continebitur. Deinde, post pedum oscula beatorum, nomine nostro dicetur Sanctitati Sue nos et universos Christi fideles debere summi Dei clementie gratias immensas, que nos et ceteros christianos eripuit a morsu sevissimi hostis catholice fidei, quem omnipotens Dei manus interemit. Eius quippe interitu pre ceteris christianis sumus ovantes, cum pro salute Chii, qui hoc presertim tempore posset esse pons et via multorum bonorum et acquirendi que a Januensibus abtulerat ferus hostis, tum pro recuperandis ceteris locis nostris orientalibus, si summa clementia benignitatis sue nobis opem tulerit, si nobiscum adderit, si scuto caritatis sue in patriam nos protexerit et foverit, si nunc ad se ipsum aspicere voluerit. Si chri- 360 GIORNALE LIGUSTICO stianorum omnium commodum, ad quem iam se exercuit, Sanctitas Sua prosequetur, erit apud ipsum Deum retributio tanti boni, et indelebilis apud suos Jatiuenses gloria, nullo evo , nulla vetustate abolenda, cum apparebit Sixtum pontificem maximum Januensium patrem et ducem non modo patriam suam a servitute liberasse, verum etiam eis veterem dignitatem ac dominia sua orientalia, que Christianorum atrox hostis illis rapuerat, recuperasse: adeo ut dici possit ipsum Summum Pontificem, Januensium patrem, patrie dignitatem et amissum orientale imperium restituisse. Hac igitur felici' occasione ad consilia publica excitati in recuperandis rebus e manibus inimicorum, et presertim cum nobis spes sit indubia quod filii ipsius Teucri descidentes de regno contendere debeant; ex quo facilior nobis erit aggressus. Et propterea statuimus a clementia Sanctitatis Sue supplices auxilia implorare, ut postquam ex tali obitu successorum discordia pro ratione creditur, Ydruntumque pro quo triremes Sanctitatis Sue parate erant, a se ipso, etiam quando vires Serenissimi Regis Fredinandi abessent, brevi excidio casurum fore, adeo ut classis ipsa triremium quam Sanctitas Sua apud nos comparavit, in nulla alia re vires melius exponere possit, nec melius ad damna teucrorum intendere quam in recuperandis locis nostris orientalibus: que si resumeremus loca, essemus in futurum tureis repugnaculum et obex oppositum veluti cautiores quam retroactis temporibus : adeo quod de cetero tam faciles ad offensionem Christianorum transire non possint; et non sine magno sumptu nostro, quod ceteris christianis multum prodesset. Propter quod, orabitis clementiam Sanctitatis Sue dignetur nobis concedere ut hac sua classe pro reliquatu horum trium mensium quibus conducta est, quorum antequam Roma recedat pars erit exacta: in his imminentibus casibus nostris frui possimus, illamque exponere ad hec urgentiora negocia patrie sue. Confidimus enim clementiam Sanctitatis Sue hanc petitionem nostram exaudituram fore. Reverendissimus enim legatus hic suus, ob iam dictas rationes et alias quas inferius dicemus, bonam spem impetrandi et assequendi que petimus nobis fecit : et presertim quod nedum tota dicta classis regia ad obsidionem Ydrunti deputata, sed pars ipsius classis sufficiens est dicte obsidioni, ex quo triremes Sanctitatis Sue frustra ad dictam obsidionem permanerent et in cassam tempus contereret. Intendentes vero ad alia damna et depopulationes teucrorum in partibus orientalibus, maiorem auxilium et favorem preberent ad ipsum \druntum obtinendum, ex quo teucros ad defensionem aliorum locorum occuparent, adeo quod ubique difficilius ipsi teucri possent occurrere. Et propterea si Süe Sanctitatis mens est fortius ipsos hostes offendere perturbare ac depopulare; non GIORNALE LIGUSTICO 361 alibi facilius ac commodius et maioris spe victorie quam ut dictum est tensiri potest et quod ad nos pertinet recuperare. Ad quod sua erga patriam pietas, clementiam Sanctitatis Sue movere potest, et maxime cum classis ipsa ut prediximus ad percutiendum hostis viscera aptissima sit ; et aptius ad gerendum bellum contra hostes suos; ac citius ad debellandum Ydrunctum si debellatum non esset, rationibus allegatis: ac etiam quod magnifacimus ut alie nationes surripere loca nostra orientalia non possint ; quod periculum ab hoste teucro nobis illatum, non minus a christianis nationibus possemus expectari, si. veneti presertim loca ipsa nostra occuparent, quod omnino opportet nos devitare. Et quia opus erit nobis classem et presertim navilium cum militibus super imponendis augere sumptibus nostris, qui exigui non erunt, immo hoc presertim tempore supra vires nostras; orabitis clementiam suam dignetur ordinare quod provideatur stipendio triremium aliorum trium mensium , quemadmodum affirmatum fuit Sanctitatem Suam iam decrevisse solutionem ipsam fieri, exactis his primis tribus mensibus, quorum pars antequam classis Roma recedat erit consumpta, et male sine renovatione dicti stipendii quiquam egregium fieri posset, immo ex tanta impensa Sanctitatis Sue et nostra exigui fructus possent expectari. Et inde expectabit prudentiam vestram responsionem suam. Que si responderet, ut credimus, se contentam esse, gratias clementie sue redetis non quantas meretur, sed quantas habemus. Si vero responderet quod nos errogaremus impensam dicti ultimi stipendii mensium trium, respondebitis quod hoc tempore nobis est impossibile: cum ut diximus armamentum navium et militum ac aliorum necessariorum tanto apparatui tam magni sumptus vires nostras excedat, adeo quod tantum oneris sustinere non possemus. Si vero descenderet ad contributionem partis dicti stipendii, ipsis et aliis rationibus etiam hoc evitare studebitis : et demum quando propter hoc rem inconfectam opus esset dimittere, tunc acceptabitis eam minorem partem dicti stipendii quam poteritis. Postremo si omnia adhibita opera et renitentia vestra, Beatitudo Sua persisteret quod nos solveremus stipendium trium ultimorum mensium, adeo quod aliter videritis facere non posse, quod licet huic patrie esset ita onerosum et tantum ponderis sustinere nequiret, acceptabitis ea que evitare et auffugere in manu vestra non erit, anteaquam propter hoc, ut diximus, requisitio nostra incomposita remaneret ; cum omnino ipsis triremibus uti nobis necessarium sit, acceptando tamen quic-quid sufragii contributionis' et auxilii, que Sanctitas Sua daret offerret et quomodocumque promitteret more comico : si non possis id quod vis, id velis quod possis. 362 GIORNALE LIGUSTICO Si Sanctitas Sua hec faciet, iuvabit patriam suam, extollet eam, et restituet ad veterem dignitatem et ad commoda ingentia ; consulet paci Christianorum. Forte vero his non compositis ex obiiu hostis renovari possent nove discordie et nova bella inter christianos , ut satius fuisset ipsum vivere quam mortem obisse. His expositis expectabit prudentia vestra quid Sanctitas Sua respondebit ; que si precibus vestris assentiet, quod neque deferri potest neque in suspensionem deduci, curabitis statini habere litteras Sanctitatis Sue ad prefectum classis et ad patronos triremium, ut mandata nostra, alio in contrarium non obstante, exequantur. Si Sanctitas Sua diceret non posse inconsulto rege super inde deliberare, pro cuius subsidio classem paravit, respondere poteritis: non op-portere si quid egregium faciendum est, ad regis arbitrium hoc factum relinqui, quandoquidem obsesso Ydrunto nulla spes amodo inclusis esse possit subsidia expeaandi, cum fame et omnium rerum inopia careant prope diem si occupati non sunt veluti pecora debellabuntur, et quod propter rationes superius memoratas classis multo magis obesse poterit celeri debellationi ipsius loci ad illidendum hostem, quam conterendo tempus incassum dicte obsidioni; et cum pro temporum mutatione mutentur consilia, potest Regia Maiestas debellato loco mittere classem suam vel nobiscum vel seorsum ad ulciscendas hostium iniurias, ut a multis partibus oppressus et ubique dilaniatus cedere cogatur; et magis utilius esse posset Maiestati Sue quod loca nostra orientalia recuperarc-mus, quam si illa et alia in potestatem dominii venetorum venirent, qui cum Sua Maiestate non satis conveniunt ; et nos nullam discriminis causam cum illa Regia Maiestate habemus; ipsa multa vero cum venetis quorum maiores sunt ipsius dcminii vires quam nostre, et ad cupiditatem dominandi maior inest ambitio propertiorque libido. Deinde committimus vobis ut annitamini quod Sanctitas Sua cum dominio venetorum componat, ut nec ipsi in rebus que a nobis tenebantur, et de quibus pax etiam inter nos mentionem facit, se immisceant, neque nos de illis que ab ipso dominio tenebantur. Quo sequetur quod utraque pars rem suam curabit: nec altera alteri erit impedimento: quod si in contrarium accideret non minus hoc grave esse posset, quam si ut dictum est a tureo oppugnarentur. Et prepterea instabit spectabilitas vestra hoc sancire et autenticis scriptis firmare cum auctoritate summi pontificis, qui pro utraque parte pro maiori cautella promittere posset. Declarando tamen in omnem casum quod Mitilenum sit mçpibrum iurisdictionis nostre et ad nos pertineat, quemadmodum pertinet ut equum est, ne postea GIORNALE LIGUSTICO 363 ea que sub dictione nostra fuerunt in dubium refricarentur et discordie exinde quas evitare cupimus exorirentur. Nihil enim confidimus, nihil enim sine ope huius classis in rebus nostris perficere possumus, cum nulla ad presens triremium corpora instructa habeamus ; neque tempus tam longe navigationi accomodatum ad maria illa oriêntalia ad que post mensem augusti facile non potest penetrari. Et interea veneti propinquitate locorum, commoditate classis, quam nunc habeant paratam, possent loca nostra occupare et in multis nos ledere. Itemque ea que nunc presenti occasione facilia sunt, si supersederetur dificilia efficerentur. Que omnia sunt a Sanctitate Sua prudentissima meditanda, si rem huius sue patrie piis oculis aspicere voluerit. Si demum Sanctitas Sua persisteret se nolle annuere nisi de regis consensu, respondete hoc agi magna celeritate opportere, quoniam tempus sue classis labitur, et quotidie navigationis tempus evolat: quo casu si prudentie vestre videbitur, cui considerata rerum condictione ac necessitate tanquam presenti et omnia intelligenti, arbitrium et facultatem relinquimus vel personaliter ad Regiam Maiestatem accedendi, quod tamen non approbamus nisi in casu magne importande et secundum quod urgens necessitas exigeret, vel aliter respondendi prout prudentie vestre videbitur, mittendi etiam et non mittendi melius convenire vel insuper mittendi Bartholomeum de Senarega secretarium nostrum a vobis instruendum, quem istic nomine nostro ut diximus invenietis una cum eo vel seorsum quem Sanctitas Sua propterea ad Regiam mitteret Maiestatem cum litteris domini Anelli regii oratoris, cum quo illas adhortationes et operam impendetis que necessaria visa fuerit, ut Regia Sua Maiestas peticioni nostre assentiat, adiciendo placere nobis si ita voluerit Maiestas Sua societatem classis sue ad hostium offensionem Ydruncto recuperato; super omnia memorando rationes quas diximus, adeo ut celeritate agendum sit ut breviter de regia mente certus efficiamini, non obticendo ipsi istic regio oratori bonam spem quam nobis dedit magnificus regius orator, hic assistens, optime mentis illius serenissime Regie Maiestatis in subeundis oneribus et maritimo auxilio nobis prestando pro ipsa locorum nostrorum orientalium recuperatione, affirmavitque in hoc regiam maiestatem nobis non defuturam. Denique si Sanctitas Sua omitteret vel non faceret responsiones supra-scriptas quas diximus, et tandem diceret sibi non videri honestum quod sumptus huius classis recidat super eum vel saltem totus vel pro aliqua parte, aut per verba his similia : dicite si classis hec sua sufficeret necessitati nostre non recusaturos partem huius impense; sed cum opporteat 364 GIORNALE LIGUSTICO nos per additionem navium et militum novam impensam facere, non possemus hac presertim tempestate tantum onus suscipere : quemadmodum seriosius superius dictum fuit. Contentabimur tamen obligare nos si contingat recuperari vel Mitilenum vel Peram vel Caffam rem impense committere arbitrio Sanctitatis Sue, vel si magis liberet in locis illis vexilla Ecclesie erigere. Que tamen Sanctitatis Sue vexilla et insignia omnino decrevimus quod in classe veluti principalia et regalia deferantur, et omnis totius classis nomen ac gloria attribuita sit Sanctitati Sue. Postremo si responsis per vos quietus non remaneret, petere poteritis quid velit a nobis Sanctitas Sua, quam orabitis ut compatiatur laboribus nostris, et consideret quod quicquid agetur cedet in decus et gloriam suam et commodum patrie sue ; que nutu Sanctitati Sue privavit se tot corporibus triremium, quibus superveniente necessitate et inopinato casu pietate patrie sue Sanctitas Sua cogi debet, nunc patrie occurrere ad eandem et maiorem hostis offensionem, ut a nobis sublata non sit facultas recuperandorum locorum nostrorum orientalium, et hanc classem ad alia quam ad propria negocia dimittere quorum nullus aut exiguus fructus expectari posset. Hec omnia necesse est quod Sua Sanctitas sapienter et pie consideret et existimet, ac magni faciat hanc rem nostram que sua est: in qua non minus agitur de honore et gloria Beatitudinis Sue, quam de alia quacumque re que duci et proponi posset. Et denique cum res hec non moram patiatur neque pro Sua Sanctitate neque pro nobis, respondeat quid agendum sit, quia aliter intelligimus quicquid fieri non posset. Omni festinatione per dies et per horas significabitis quid actum fuerit vel quid agere speratis, et maxime ante discessum classis inde, ut mentem Pontificis intelligamus et rei nostre consulere possimus. Et si quid accideret cuius scientia rebus obesse posset, scribetis nobis sub forma alphabeti zifrati quam vobis dedimus. Quantum possit et quanti momenti sit favor illustrissimi comitis Jero-nimi non elaborabimus vobis diserrere. Bartholomeus secretarius noster ob hanc causam verbis omnia explicari debuit dominationi sue, ut auxilium eiusdem imploraret, quemadmodum verbo vobis diximus. Significatum nobis fuit quod deditissimus est et proclivus ad commoda et favores venetorum. Opus est secum uti verbis premeditatis, ne infensus vobis re-deretur et viam non omittite, qua benivolentiam suam captare possitis; tamen quando ipse non aderit ad conspectum Summi Pontificis , cum ipso summo pontifice quoad rem venetorum vobis memoratam latis verbis uti poteritis. Poteritis et necessarium nobis visum est ut consulatis reverendissimum GIORNALE LIGUSTICO dominum Melphitensem ac reverendissimum dominum Urbanum episcopum 1-oroiuliensem, qui aditum habent et gratiam Summi Pontificis, ac deinde alios reverendissimos dominos cardinales de consilio ipsorum nostrorum, quos iudicabitis rei nostre posse prodesse. Ad ipsos enim dominos Melphitensem et Foroiuliensem litteras dedimus quas alligatas invenietis, et pariter ad reverendissimos nostros Raphaeli tituli Sancti Georgii et cardinali Hyeronimi Recanatensis. ' Verum quoniam ipse dominus Foroiuliensis maximo amore et diligentia multa sibi commissa in illa curia pro his comperis et comunitate executioni mandavit liberaliter et gratis, ex quibus obnoxii sibi fatemur, committimus vobis ut peracto negocio legationis vestre vel etiam ante, si talis occasio in medium eveniret, nomine nostro Sanctitati Sue ipsum dominum Foroiuliensem nosirum tamquam de patria benemeritus peculiarius commendabitis, ut tandem emergentiorem dignitatem clementia Sanctitatis Sue ei precibus nostris consequatur : quod licet toti patrie gratissimum foret, insuper nos loco beneficii et singularis gratie ascriberemus in numero beneficiorum patrie collatorum. Verum quoniam memoratum fuit quod si Sanctitas Sua consentiret impensam triremium facere in totum, vel saltem pro dimidia, requireret declarationem fieri predarum faciendarum per ipsas triremes ; eo casu damus vobis arbitrium assentiendi Sanctitati Sue usque ad partem dimidiam ipsarum predarum, videlicet rerum mobilium et captivorum, non autem terrarum et locorum orientalium acquirendorum. Et tamen si obtinebitis aliquam partem requisitionis talis impense, que vobis conveniens· videatur, eo casu pro eiusmodi prédis arbitrium vobis reliquimus partiendi prout vobis videbitur. Si Sanctitas Sua a vobis intelligere vellet numerum navium per nos armandarum, respondebitis apud nos armari naves sex grossas cum hominibus duobus millibus et provisionibus necessariis non dividendo modum sub quo armatur, sed obtacebitis formam ipsius armamenti respectu illarum quas forte armabit dominus predicator. Si vero per Sanctitatem Suam, que omnia dignoscere debet, distingueretur partem ipsarum navium armari per ipsum predicatorem, respondebitis quod idem est, quoniam pecunie etiam a nobis depromuntur et ex una archa exire debet provisio ipsius armamenti, que tenuis non erit sed ponderosa. Si postremo Sanctitas Sua diceret si vos facietis circa dictum armamentum tantam provisionem vel sic et sic, nos pariter faciemus tantundem vel sic et sic; tunc respondebitis ex quo vobis magis convenientia visa fuerint. \Tos deinde sine mora omnia nobis significabitis. 366 GIORNALE LIGUSTICO Denique si Sanctitas Sua descenderet ad electionem capitanei ipsarum triremium, respondebit prudentia vestra hoc esse magni momenti ad res bene conducendas propter plurimas rationes quas poterit Sanctitati Sue memorari, presertim quod talis capitaneus sit ianuensis, potissime projgloria Sanctitatis Sue, proque honore patrie sue, vir expertissimus regionum orientalium et maritimus ; et qui super omnia sit ad unum velle et ad unum nolle cum capitaneo navium, adeo ut unum corpus videantur et et sint in effectu; quia alioquin omnia corruerent. Ita tamen quod sub nomine ianuensium excludantur omnes saonenses, propter ea maxime que inter nos et ipsos occurrent. Si vero Beatitudo Sua totam ipsam impensam faceret, et propterea vellet ipsum capitaneum eligere, tunc memorabitis ut advertat, propter rationes iam memoratas, quod talis capitaneus per Sanctitatem Suam eligendus sit ianuensis rationibus iam memoratis. Quando demum Sanctitas Sua alium vellet eligere et non ianuensem, tunc orabitis quod eligat personam que sit nobis confidens , et tales conditiones habeat ex quibus sperati fructus assequi possint: quia ut dicitur quales sunt principes civitatum tales reliquos solere esse omnes. Ex quo in tali casu necessitas exigit quod clementia sua habeat in hoc exactissimam curam et diligentiam. Et quia forte Sanctitas Sua requirere posset restitutionem apparatuum galearum quos artagiarias vocamus, respondebitis quod apulsis galeis in Janua ad salvamentum fiet Sanctitati Sue restitutio iuxta compositionem factam per reverendissimum dominum legatum Sanctitatis Sue cum Dominatione illustris domini Ducis, ex quo Sua Sanctitas merito videtur posse contentari. XX. Giovanni Francesco di G asoldo significa ai Protettori di S. Giorgio, clic V Imperatore dei tartari è disposto a rimettere in potere dei cristiani Caffa e le altre città e colonie del Mar Nero. 1481, 12 Giugno. Archivio di S. Giorgio. Progetto di riacquisto delle colonie. {Extra) Magnificis ac potentibus dominis protectoribus Comperarum Sancti (Georgii) Genue, dominis observandissimis etc. — Genue (Intus) Magnifici et potentes domini observandissimi.— Ex litteris domini GIORNALE LIGUSTICO 367 Andrioli de Guasco, datis Vilne 6 decembris 1480 nuper mihi redditis, accepi quod per quemdam ambasciatorem Menglicherei imperatoris tartarorum est commonefactus qualiter dictus imperator una cum omnibus suis baronibus paratus est retrodari .cristianis civitatem Caphe cum omnibus pertinenciis suis; et hoc quare obolum unum non habent de illis partibus, nec de Chapha nec de Sodaya nec de Gothia tota ; et sic misit sibi dicere quod si Sanctus Georgius non voluerit attendere ad Sitiam, debet temptare Summum Pontificem aut venetos aut regem Ungarie aut ducem Mediolani; et ipse dominus Andriolus visa discordia Italie neminem temptare velle scribit, set hoc michi libenter denotare ut possim rem hanc reverendissimo domino cardinali Mantue significare et ipsius medio eam agredi si mihi videbitur. Ita formaliter cantant eius littere, quibus etiam se offert acturum quod prefatus imperator legatos in Italiam mittet hec eadem oblaturos , nec non ab imperatore Magni Lordo legatos alios in hanc sententiam venturos affirmat. Ego autem, qui Magnificentiis vestris deditus et devotus sum, et miserande illi civitati ut proprie patrie efficior, rem hanc vobis prenunciare constitui, hoc potissime acceptabili tempore quo immanissimus totius cristiane religionis hostis interiit, ut possitis, prehabita diligenti exquisitaque consultatione, provinciam hanc suscipere et ad eam tamquam vobis prius debitam, mature collectis undique viribus vos accingere. Et iam classem in portu prope expeditam habetis; quam etsi Pontificis maximi nomine ac impensa parata sit, in hanc tamen laudabilem expeditionem et Pontificis ipsius consensu et mandato, ut opinor, moveri poterit; aut forsan non classe, sed paucis admodum peditibus terrestri calle mittendis opus erit. Quod si huic rei non intendere statuetis, ad eam saltem Sanctissimum Dominum nostrum intendite, aut ut ego id agam iubete, quare prefati reverendissimi Cardinalis interventu eius Sanctitatem ad tam sanctum opus intercipiendum inducere curabo et pro viribus nitar; nam pro ipsius miserande (civitatis?) recuperatione facultates exponere, sanguinem effundere nec non proprie vite parcere, ubi opus fuerit, paratus sum et semper magnificentiis vestris servire. Que bene valeant devoti sui memores ac iubeant. Mantue 12 Junii 1481. Earumdem magnificentiarum devotissimus. Joannes Franciscus Ippolitus iuris utriusque doctor et Gazolti comes. 3 6S GIORNALE LIGUSTICO XXI. Gianoito Lomellìno supplica i Protettori delle Compere, affinchè ponderino bene il disegno di riacquisto delle colonie. 1481.......... Archivio di S. Giorgio. Progetto di riacquisto delle colonie· (Extra) Supplicato Janoti Lomelini prò rebus Caffè. (Intus) Jesus. Supplicatur parte Janoti Lomelini etc. * Magnitiei domini. Prego a le magnifìcencie vostre habiati maturo con-, silio supra le cosse per voi proposte davanti a queli convocati supra Io laete de Caffa, perchè le più fiate le cosse in questo mondo capitano bene e malie prò bene consulere et malle consulere. Et quod sic sit in Catone: cum sis incautus etc., perchè le magnificentie vostre inteiseno doe opinione, scilicet quelo de Gabriele de Prementone et ego. Perchè, prego ale magni-li centi e vostre examinate bene e intendeti li soi argumenti e mei, e poi poreti metere a executione quello che a le magnificentie vostre aparà. Perchè questo è .conseigo de nave, che casgaduno pertende ad uno fine de recuperare quello logo; la qualle recuperatione de quanta utilitae honore merito et aviamento sera date voi sententia; e massime a li poveri, perchè el sera 1’ ospitale de molti deserti, et scio quid locor et testimonium eius verum est. Rogo magnificentiis vestris si sum alliquantulum tediosus in predictis, inferatur ad afectionem et non alliter; quia patres mei ibi fuerunt mercatores et ego officialis et mercator. Ut supra habeati maturo consilio, e più tosto pecate in tempo che in sententia, quia in hoc consistit recuperationem dicti loci in bene consulere et malle consulere. Ab allia si placet alliqua vobis narabo oretenus in parvo numero ad recuperationem dicti loci, nollendo vos ad exeeutionem ponere heri vobis recordata per me, quia intendo dificultas sit in pecunia. Ego vero de brevi ut oretenus vobis dixi recessurus per me transferam in contratibus illis ; quare si ad illas aliqua postum ibi et undique non me sprameate (spanniate) usque ad ultimum teribilium etc. GIORNALE LIGUSTICO 369 XXII. Lettera di Bartolomeo Senarega alla Signoria ,· cui significa il buon esito dell’ udienza avuta dal Papa. 1481, 16 Giugno. Archivio di S. Giorgio. Progetto di riacquisto delle colonie. (Extra) Illustri et excelso principi, domino Baptiste de Campoiregoso ianuensium et cetera , et magnificis octo Officialibus Romanie comUnis Janue dominis meis colendissimis. Solvatis ducatos tres. (Intus) Illustris et excelse princeps; et magnifici domini colendissimi.— Hoc mane, fessus tandem animo et corpore, huc veni post varias itineris molestias ; nam ab ea die qua Janua discessi nunquam quievi, et nisi me comitassent XXV homines quos accepi in Pulcifera, quibus solvi aureos duos cum dimidio, incidissem in latrones qui me in rete, quia ipsis relatum fuerat me habere pecunias, expectabant. Ita mihi retulit postea quidam mulio; cuius socio eamet die fregerant brachium. Evasi Dei beneficio casui: fui Terdone, remissi alteram mulam reverendissimo domino cardinali; sed non sunt ista huius temporis. Eamet hora qua huc appuli, curavi audiri a Sanctissimo Domino nostro; impetravi; introductus exposui, nam ut percepi postea ab illustre comite Hieronimo anxius erat Sanctissimus Dominus noster intelligendi quid nos in tanto casu facere cogitaremus : factaque pro more Sanctitati Sue debita commendatione, et impetrata dicendi licentia, dixi que in mandatis habeo, que ego prius sepissime animo commiseram; que quoniam tempus brevis est, et tabellarius instat, non repetam : ad unguem omnia exposita sunt, nisi forsitam addita sint aliqua verba, ut sententias et amplificarem et confirmarem. Quibus omnibus Sanctitas Sua vultu hilari et subridenti similis, ita ut nihil a gravitate discederet, respondit placere ei ea que vestri parte Sue Sanctitati exposuerim, placere nos aliquando experrectos ex sumno; qui memores pristini vigoris dignitatem nostram recuperare velimus, excogitasse iam ubi primum innotuit ipsi mors illius immanissimi hostis quomodo rebus nostris prodesse posset, et ideo ad vos s*cripsisse mortem suam et quid ab illa civitate fieri oporteret; dixit litterarum sententiam quam non dicam; vos litteras legistis. Ad rem autem triremium dixit Sua Sanctitas nos bono animo esse, facturaque omnia que et dignitatem et commodum nostrum respiciant. Sed in hac re certius Suam Sanctitatem deliberaturam, quamprimum triremes huc pervenerint quas avide expectat, et iteravit se cu- Giobn. Ligustico, Anno VI. 24 570 GIORNALE LIGUSTICO raturum ut honori et utilitati nostre consultum sit. Hec responsio cum mihi nimis generalis videretur, nec haberet illam vint quam optabam, quia nicliil certi habebat, iteravi verba, et oravi Suam Beatitudinem ut consideraret statum in quo res nostra est, oportunitatem benefaciendi, si Sanctitas Sua nos amplexerit, meritum apud Deum, laudes apud homines. Dixi hanc rem, etsi prima fronte nostra esse videatur, tamen suam esse: gloriam omnem suam futuram: nec recusaturos nos omnes illos honores, recuperatis locis, prebere Sue Sanctitati quos ea voluerit. Ita enim mihi \ isum est hoc tempore hanc oblationem facere ; reservans mihi in aliud tempus dicere quos honores ut hac re suspensius vel facilior redderetur, \cl citius iterum me audiret. Quibus auditis, dixit Ydrontum adhuc non esse expugnatum; tamen credibile esse illum breviter in Regis protestateli! debere reverti, et ideo in hac re non posse firmam deliberationem facere. necessarium esse primo ut triremes huc veniant, deinde poterit cum reverendissimo domino cardinale nostro ordinare quomodo in hac re agendum sit, necessariumque esse etiam ut triremes eant semel Idrontum pro honore Sue Sanctitatis; deinde poterit coniuncte cum classe venetorum ire in perniciem turchorum, et recuperationem locorum et venetorum et nostrorum; quoniam si erit utraque classis coniuncta, erit potentior et si contingent recuperari loca, reddentur tunc illis quorum prius fuissent. Interea nos non oportere dormire, imo pro viribus annitere ut addamus triremibus suis eas omnes naves et galeas quas possimus. Interrogavit me an crederem debere a nobis armari naves et triremes. Respondi vos facturos omnia que a vobis fieri possint: ita enim visum est mihi respondere. Expectat avidissime illas naves que debent armari opera predicatoris et credit iam eas esse promptas, et dixit mihi ut vestris Dominationibus scribam accelerent eas quanto celerius fieri possit : preterea Sanctitatem Suam prius scripsisse venetis in tali modo, ut certi esse possimus ipsos nullo modo de nostris locis se debere impedire. His dictis, et replicatis aliquibus a me, conclusit in adventu reverendissimi domini cardinalis nostri conclusuram Suam Sanctitatem omnia. Quo facto, non bene contentus discessi ; moxque ad illustrem dominum comitem Hieronimum una cum reverendo domino Foroiuliensi, qui^ mecum voluit venire, accessi. Exposui et narravi rem ; inveni eum optime rebus nostris affectum. Dixit Sanctitatem Domini nostri cognita morte Turchi ad vos scripsisse, et excitasse vos ad aliquid faciendum in tanta temporis oportunitate, laudare propositum nostrum, et habituros nos Sanctissimum Dominum nostrum paratum ad ea que concernant utilitatem nostram; iamque cum Sanctissimo Domino nostro sermonem fecisse de his que ego petierim; Sanctis- GIORNALE LIGUSTICO 37 1 simumque Dominum nostrum adeo promptum esse ut nihil addi possit, nec dubitare Suam Sanctitatem votis et desideriis nostris satisfacturam ; modo nos nostri parte addamus aliquas naves et triremes classi sue: ipsum existimare Idrontum iam eo redactum ut resistere non possit, et regiam classem sufficientem esse per se ad expugnationem illius loci que in illis partibus est; Sanctissimum Dominum nostrum scripsisse venetis in eam sententiam quam supra dixi, nec dubitare non impetraturos pro hac causa que ipsi voluerimus. Petii ab eo ut mentem Sanctissimi Domini nostri per unum breve curaret vestris Dominationibus significare. Dixit se facturum, et die crastina ad eum redeam. Fui deinde ad reverendissimum dominum Melphitensem ; dixi necessaria : pollicitus est omnem operam patrie, ut est omnium humanissimus ; dixit Sanctissimum Dominum nostrum cognita morte Turchi deputasse quinque reverendissimos cardinales, ex quibus ipse unus est, qui consulant quid de classe fieri debeat et ad quos usus debeat diverti. Inde ad reliquos : ab omnibus imploravi auxilium. Hec sunt que hodie a me facte sunt. Rome die XV Junii. Questa matina, secundo lordine dato, andai a casa dei segnor Conte per intendere la resposta; et me disse havere pariato cum nostro Segnore, et bene, queste furono proprio le soe parole; et me dice che post disnare Soa Beatitudine mi volia parlare, et che ghe andasse ; et cossi hoi facto. Et intrato dentro, Soa Sanctità mi dice como questa matina havia pariato cura lo Conte et che ghe paria lo nostro desiderio honesto et sancto ; et che havia ordinato uno breve che se adrisasse a le Signorie et Magnifi-centie vestre, che lui volia per ogni modo haveire ^er arricomandata quella citi, et che sara contento che questa armata serve a la recuperatione de li logi nostri, et che non vole che noi per li trei meixe primi li dagiamo niente; imo che stagando più armate, volia sentire la parte soa deio c^rrigo, pcroche spera in Dio che la farà fructo ; ma che anchora noi, corno io ghe havia dicto che conscntiandone quelle galee acresseremo la armata, che lo vogliamo fare; perchè la sara più potente. Et per nostro conforto la Soa Sanctità havia dato le decime a lo Re de Portogai chi li havia armato caravelle XXX, le quale de hora in hora aspeta soto capitaneato de uno episcopo, chi tamen sarano soto la obedientia del reverendissimo cardinale nostro legato in Mantua : apresso in Anchona ar-marse alquante galee, le quale anchora servirano al nostro bizogno, et se parà utile se porrano tutte queste vele zonzere cum la armata de venetiani ad comunis hostis cladem, restituando seraper li logi che prendes- GIORNALE LIGUSTICO simo a quello Re de che in prima fosseno stati ; et se paresse de tegnirle separate dale venetiane se porrà fare : una fiata esser bizogno le galee vegnano qui, et deinde vadino ad Otranto, se mai non fessino altro se non mostrarsi, aciochè se leve occasione a gente de mormorare et parlare essendosi sempre dicto la armata andare ad Otranto. La Sanctità Soa esser de opinione Re esser bastante ad espugnarlo, per questo la nostra cossa havere bono modo. Ideo vedando nostro Signore in sì bono proposito, per confermarlo in la bona sententia, ghe disi che acadendo recuperare logi se offerirne) de levare le bandere de Soa Sanctità. Questa cosa ghe piacque molto, et me dice che scrivesse alle Signorie vestre stessino di bono animo, et che preparassino quello azonzimento voliano lare ; et che le IIII nave che se doviano armare per lo predicatore, se accelerasino, et che le avisase de quello che Soa Beatitudine mi havia dicto. Io tunc li dixi, replicando a quello' che Soa Sanctità mi havia dicto, lo faria. Inde comandò mi fosse mostrato el breve per lo secretario: lo quale non satisfece molto, nè era de tanta efficatia corno la Sanctità Soa mi havia dicto a bocha; perochè pare per quello li habio offerto, che per le Signorie vestre le farà additione; et est verum; ma casu dir che se sforzerano de fare additione, possiandose valere de le galee ad recuperationem de nostri logi. La quale cossa pare la passe al poco mfb iudicio leviter. Dixi al secretario li piacesse di ampriarlo, et havesse più efficatia , aciochè quelli citadini havuto certessa de la voluntà di nostro Signore non perdessino tempo et già incomensassino a metersi in ordine ut fosse conforme a quello Soa Sanctità mi havia dicto. Tornò dentro ipso secretario, et dice a Soa Beatitudine lo mio aricordo ; et iungette qualche parole, non però che satisfecessino alo mio desyderio. Acquievi et pigliai quello poteti. Bona dimostratione, illustre Signor et magnifici Signori, se mostra qui de ogni banda a questo nostro desyderio; el Conte est promptissimo, sine quo nichil fit. De che spero bene. Vestre Signorie haverano el breve che mando alligato, et vederano quello che dice et me rescriverano quello ho da fare. Nostro Signore mi ha dicto non mi parta fino alla venuta de le galee : perchè ordinato cum lo reverendissimo cardinale nostro quello che Soa Beatitudine vorrà, mi remanderà a vestre Signorie , a le quale mi ricomando. Datum Rome die XVI Junii hora II noctis. Al presente portatore vestre Magnificentie darano trei ducati, perochè cossi siamo restati de acordio. Sono qua in casa del reverendissimo monsignore cardinale nostro, in- giornale ligustico 373 sieme cum Nicolosio Maciola: lo quale inseme cum meco si travaglia tanto in questa cossa, che certo mi pare haverge grande obligo. Illustris Dominationis et Magnificentiarum vestrarum Devotissimus servitor Bartholomeus de Senarega. XXIII. Papa Sisto IV annuncia al Doge ed al Consiglio di Romania di avere ricevute le loro lettere e udito il segretario Bartolomeo Senarega. 1481, 16 Giugno. Archivio di S. Giorgio. Progetto citato. (Extra) Dilectis filiis, nobili viro Baptiste de Campo Fregosio Duci, et consilio Romanie communis civitatis Januensis. (Intus) Sixtus Papa IIII. Dilecti filii, salutem et apostolicam benedictionem. Litteras vestras accepimus et secretarium quem misistis audivimus. Placuit nobis vehementer propositum vestrum de additione classi nostre per vos facienda pro recuperatione rerum vestrarum e manibus infidelium: erit enim opus nedum laudabile verum etiam utile tum vobis tum rei publice christiane, quoniam quanto validior et maior classis ipsa erit, tanto uberior fructus subseque-tur. De hac re communicabimus cum dilecto filio nostro Paulo cardinali ianuensi eiusdem classis legato, quem prope diem expectamus, et cum eo ordinabimus que vobis grata futura sint, ita ut intelligatis nostram erga patriam caritatem et quam cupiamus eam in pristinam gloriam restitui. Verum cum nos hanc nostram classem ea ratione instruxerimus ut adversus perfidos Tureos iam mittatur, non videtur nostri et huius Apostolice Sedis honoris esse ut ea diutius remoretur, quia iam Hydruntum versus naviget, ne detur materia aliis aliquid suspicandi. Speramus, Deo fa vente, eam civitatem brevi e manibus hostium Tureorum liberatum iri. Quo facto oportunitas aderit longe maior prosequendi propositum nostrum , et amissa una cum additione illa vestra e manibus barbarorum recuperandi. Quare cum ipsa classe nostra mittetis illas quattuor es, quas iam paratas habetis, ut utilius et honorificentius res agatui. Intei ini 374 GIORNALE LIGUSTICO vero nullum studium pretermittatìs circa additionem illam faciendam, ut in tempore parata sint omnia, et expugnato Hydrunto, ut brevi speramus, una cum nostra classe ad ulterius progrediendum in promptu esse possit. Datum Rome apud Sanctum Petrum sub annulo Piscatoris, die XVI Junii MCCCCLXXXI. Pontificatus nostri anno decimo. L. Grifus. XXIV. il Senarega informa la Signoria che il Papa attende con impazienza l'arrivo delle galee genovesi. 1481, 17 Giugno. Arch. cit. Progetto citato. (Extra) Illustri et excelso principi domino Baptiste de Campofregoso duci Januensium et cetera, et magnificis octo Officialibus Romanie excelsi comunis Janue dominis meis colendissimis. (Intus). Illustris et magnifici domini, domini mei colendissimi.— Scripsi heri a compimento a le vostre Signorie et Magnificencie circa lo facto de le galee, e mandai lo breve de Nostro Signore adrisato a le Signorie et Magnificentie vostre, per lo quale intendereti quale sia la volontà di Nostro Signore, che pare sia avidissimo che le galee vegnano qui costi: anchora lo illustre Conte chi mostra esser molto affeetionato a questa impresa, dicando esser genoese et che lo honore et fama nostra li piace. Sono heri di nocte qua littere in li Centurioni de XI del presente, che dicono vestre Signorie havere deliberato mandare qui el spettabile messer Luca de Grimaldo, la quale deliberatione me pare utilissima: et conio le galee anchora di là non erano partite, et erano andate parte a ponente parte a levante. Al desiderio grande di Nostro Signore questo non sarà tropo grato : lo quale de pondo in poncto le aspeeta qui, et pare che nichil maius gerat in animo : quia in ogni parlare che ha facto cum meco, Soa Beatitudine non cessa di accordare queste benedicte galee. Io li ho dicto, et cossi est vero, che sono usati malissimi tempi, et cossi me dice Soa Sanctità havere inteza a Nostro Signore le nove de Re Ferando sono pocho grate, si dubita assi de guerre fra loro. Summus Pontifex manda la soa gente darme ale confine de re Ferando. Di qua se est partito lo ambas-satore di venetiani lo di inanti che intrassi qui : e in la soa partensa li est stato facto grande honore. Heri Summus Pontifex me a dicto cum GIORNALE LIGUSTICO 375 re Ferando non bavere obligo alcuno circa le galee, ymo essere finito ogni obligho che avesse cum lui morto est lo Turcho Vestre Signorie intenderano da lo portatore de la presente chi est quello chi est venuto da Scio, partito corno se dice a di XV de Mazo, chi portato ha littere a Nostro Signore: corno in Metellino non erano più cha CXX turchi. Si-chè questa cosa po dare animo a chi intende a questa sancta opera. In questo poncto lo magnifico messer Anello regio oratore ha mandato per me. Non so che si voglia; se sera cossa che importe, referiro a le Signorie vestre. Le quale prego, vegnando el spectabile messer Luca, mi vogliano dare licentia eh’ io torno. A le quale devotamenti mi ricomando. Ex urbe die XVII Junii 1481. Illustris Dominationis, Magnificentiarum vestrarum devotissimus servitor Bartholameus de Senarega. XXV. Lo stesso Senarega insiste sul desiderio del Papa, e dà notizie dell’ assedio di Otranto. 1481, 18 Gijgno. Archivio citato. Progetto citato. [Extra) Illustri et cxcelso principi et domino, Baptiste de Campofre-goso duci Januensium, et Magnificis octo Officialibus Romanie, dominis meis colendissimis. {Intus) Illustris et Magnifici Domini. Heri cum eo nuncio chiensi qui litteras Sanctissimo Domino nostro portavit, istuc venturo, scripsi Dominationibus vestris que fuerant digna cognitione vestra. Nunc quid scribam quando nihil ab eo tempore acciderit? Habeo nihil. Sanctissimus Dominus noster iussit me classis adventum expectarc, deinde me remittet ad vos: quam classem avidissime expectat, ìli ut appareat nihil maius optare. Curiales isti omnes, ubi me vident, non cessant de ea interrogare: quia Pontificis desiderium norunt, creduntque omnes cum ca venturas naves quatuor armatas opera predicatoris : quas ianidiu paratas et Summus Pontifex et ipsi putant. Ita constanter ex Genua ipsis affirmatum est : que res si vana foret, admodum Sanctissimo Domino nostro esset molesta, qui iam omnibus predicit cum classe venturas naves. Itaque curandum est toto ingenio ut effectum habeat tantum decantata res. Illustris Comes me hodie vocavit: petiit quid de classe sentirem. Dixi credere me ventos impedire navigationem, et quam primum 37^ GIORNALE LIGUSTICO per tempus liceat liuc futuras: ita enim arbitror. De Idronto, post ultimum nuncium quo cognitum est turchos facta eruptione castra Ducis multis interfectis invasisse, sed inde ab Duce in arcem coniectos fuisse, nihil hic est allatum. Heri cum domino Anello fui, qui dixit nihil novi habere. Credo hodie nuncium, qui breve et litteras portavit, Genuam appulisse: ita enim mihi pollicitus est. Quid me velitis facere scribite: expecto a vobis redeundi licentiam. Debet plurimum illa Respublica nostra reverendissimo domino cardinali Melphitensi et episcopo Foroiuliensi; nam omnem eorum operam civitati impartiuntur : seque huic rei tales curas prestiterunt quales ne meliores promptioresve optare quisquam posset. Ex urbe, dic XVIII Junii 1481. Illustris Dominationis vestrarum servitor observantissimus Bartholomeus de Senarega. Dum obsignarem litteras, quidam curialis non spernende auctoritatis dixit mihi hodie habere litteras ex Napoli, a quodam amico suo qui habet ex regiis castris litteras dierum V presentis; que narrant eruptionem tur-chorum factam die II Junii et Christianorum cedem, et reiectionem tandem turchorum in arcem et periculum vite in quo fuit Dux Calabrie. Nam prope Ducem quidam turchus furens pagium obtruncavit: et iterato icto humerum Ducis percussit incisis armis, cute tamem incolumi. Sed eundum turchum a quodam Comite Vintimiliensi postmodum obtruncatum. Narrat insuper facinus miserandum, quod retulit quidam ducalis pagius qui ex Idronto die. V presentis mensis aufugit, nam fuerat prioribus preliis captus. Eadem die turchos feminas XX Christianas, que spie ex tanto numero supererant, ligatis manibus et pedibus in fossam quandam conie-cisse: et coniecto postea igne, eas cremasse. Victualia pauca habere, sed ea maxima parsimonia salvare. Partem magnam murorum a bombardi* prostratam ; sed ab illis reparationes maximas fieri. Idem Bartholomeus. XXVI. Notitie fomite dal Massola, sulle cose di Costantinopoli c di Venezia. 1481, 18 al 25 Giugno. Archivio di S. Giorgio. Progetto citato. (.1 tergo) Egregio domino Antonio Masole. — Januam. (Intus) f In Christi nomine. MCCCCLXXXI die XVIII Junii in Venedis. Egregio domino patri. giornale ligustico 377 Egregie domine et pater mi venerande. — XI presentis ex Mediolano per tercias unius tenoris vos avizavi de meo in ipso loco, Dei grato dono, salvo apulsu a li X dicti. Idemque per hanc hoc vobis notifico. Ante heri ad mediam noctem cum celeritate, quia propter impedimentum quod datur a classe \ eneciarum in partibus Cremee, ne ut nostro Melchioni scriptum fuisset, de nuper viam Creinone Mantue et Verone magis longam unius iornate cum dimidia (sic). Non paucum displicuit invenisse noncium pro Mediolano recepsum, quam inter huc et Paduam fefellit mihi barca pro non potuisse dicta via cum ipso de me vobis novam dare; oportet patientiam habere. Pro fuisse heri die dominico, isto mane per medium amici vidi negotium certe bone et nitide raube; sed in solito alto precio se tenent ; tamen relacione dicti amici, licet sit res solita consueta, spero concludere venditam de moneta necessitando et essendo cara in ipsis partibus ; nam unde extimabam presenterei civitatem reperire in magnis trionfis et leti-ciis propter obitum magni teucri, sic non sequitur. Habuerunt istis testis Penticosti in duobus diebus gripos duos ab eorum capitaneo et per ipsos letarent et quidquam non loquantur non bona sed pessima nova, videlicet eorum galeacie in Constantinopoli a ianisaris arestate asacate, tota ihusma trucidata, et utinam in ipsa non computantur mercatores qui etiam commorantes in dicto loco Constantinopoli, quod absit; sed in tota vel in maiori parte vera sunt, pro quo sura de malo animo et paucum vendere spero; et placet non conduxisse gregetum domini Pauli de Auria et ferma-lium domini Benedicti Salvagi: tamen habebo carum tentare quo precio ipsos ’ poteritis reducere ad repentagium, quia forsitan in Mantua haberent venturam; nec falit precor, quia in meo reditu tentabo quod potero boni facere et nixi servire poterit. Et qui ianisari volebant omni modo per dominum suum primum genitum commorantem cum Zuncasano , quem atendebant cum dexiderio; et in suo loco donec atinserit posuerunt filium faciendo de fratre paucum conceptum, et quia 11011 audebat in Constantinopoli intrare; pro quo de ipso et nepote ex Mediolano scripta falsa essent. Dicitur etiam ut illi de Peyra stabant cum portis clausis de voluntate dicti nepotis, et alliqui illud non obedientes dicunt vim etiam asacati fuerunt, quod absit, similiter iudeos in dicto loco Constantinopoli, pro quo dubitatur ut atinserit dictus primus genitus omnia de facili debeat quietare, quod absit. Pius Dominus lacientibus pro christianitate providere dignetur amen. Et predicta hic non dant placerem, et intelligo moneta cara erit; pro quo spero dictum negocium ponere per operam et utinam cum bono beneficio etiam allium de quo sum in platica, pro quo forsitan erit necesse novam provixionem habere monete, tamen non sequitur nixi iudicavero 37§ GIORNALE LIGUSTICO bonum beneficum sequendum: de quo state bono animo, quia bene inteligo moneta nunc non fore implicanda nixi cum optimo lucro sequendo , et sic dicatis domino Antonio et Jacobo cum recomendatione, quod hanc scribendo fuit ad me dictus amicus dando mihi bonam spem ut supra; sed ego non intrabo nixi ut supra, maxime quia......atenduntur naves due ex Siria quas deliberavi atendere ; et hoc, si quid facere potero , ad avizum sequitura scietis, et forsitam per noncium proprium secundum concluderò vel inteligam facere posse. Eorum armata est in partibus Gr ifi galee quatraginta ; et naves due de bote mille quingentis et alie due dicte qualitatis preste recepsure; sed non credo per istam edomadam atresantur, etiam cum celeritate summa. Dictarum galearum certe nove forniuntur que in summa erunt centum quinquaginta, et alias naves duas grosas de bote duomilia quingentas in plus, quarum una presta varanda et alia non ita cito, cum dictis galeis in ordine esse non possunt per istos tres menses ad avizum: que sunt quod pro prezenti notificare posum. Pius Dominus sit mihi in omnibus adiutor consultor protectorque semper anien. Sum huc in domo domini Lazari et Johannis de Biolcho et sociis mediolanensibus, per medium Johannis Lodixii de Gradi optime tractatus, ad avizum dicitur de quadam nave in Rodo passa naufragio. Pius Dominus semper salvam fecerit Adurnam : quod rogo in vobis stet quia non velem similem novam dare. Et nec allia. Vestris mandatis paratissimus, valete. f Die XX dicti. Presentem cicius non misi pro non habuisse modum; et non essendo quidquid innovatum , alliud adiungendi rationem quam quantum supra affirmare. Etiam haberem bona nova, maxime si vera sunt. Heri cero atensit quidam Jhavonus misus a capitaneo recepsus de Con-stantinopoli a li XVIII decursi et socium cum literis ad Velonam are-statum pro Basa. Dixit horator: se potest atendere; et retulit horectenus ut a li XVII dicti dictus primus genitus in Constantinopoli intravisse cum magnis trionfis creatus dominus, et quod bonum faciebat tractamentum christianis et quod galeacie supradicte ulum habuerant dampnum, solum de ipsis vel de iurma se servivisse in certo transitu : que utinam sint vera. Dicit etiam plura allia, que credo omnia sint vana. Supradicte naves iterum non comparuerunt : quas cito conducat Dominus. Valete iterum. x Die XXIII dicti. Similem cum Petraichino bergamasco misi, cui habebitis solvere carlinos duos: quod feci ut ad illam dederit bonum re* ceptum; et duas copias habebitis viam Mediolani cum noncio isto cero re-cepsuro ex ipso loco mitendas duobus modis ut non falet unam habeat GIORNALE LIGUSTICO 379 bonum recaptum, literis vestris carendo et non essendo alliud innovatum paucum rationem adiungere. Supradicte naves miratur non comparcant: cito cum salvamento mittat ipsas Dominus ; et de negocio hucusque quidquam potui concludere. Dicta nova relata per dictum Jhavonum credo falsa sunt, maxime dictarum galeaciarum quarum non bonam habeo opinionem, potissime quia altera die exivit de darsenale galea spannata et heri desvalavit, et est presta credo recepsura infra dies tres secundum potui inteligere cum literis importande del oratore; et videtur magis verisimile, ut aliqui dicunt, isto modo recedere debeant da quindecim in vigiliti, ut illud non inteligatur et semper videatur una quod esse posset. Sed illud non credo, quia alium facerent invexendum. Verum aliam vidi ad portam dicti dar-senalis que aprestabatur, et una debebat recedere cogito cum oratore. Dabo locum in ipso darsenale intrare pro novitate: quod hucusque facere non potui, et quantum melius potero vos teneam avizatum , etiam de quantum in diem intelligero licet quidquam non sonat, de quo sum ncn cum pauca admiratione. Pro cumduxione credo dictus primus genitus creatus erit dominus, et isti pro prezenti non sunt aliter armaturi: verum ut supra se ponunt in ordine, ad quod pretendentes incitaturi inter ipsos fratres teucros guerranr, quod nunc armando inteligunt. Forsitam sequeretur contrarium. Et qui frater iunior dicitur ad Caramaniam acepserat vel acepsurus erat. Dicte naves hic stant et ad Frigidam se ponunt in ordine ; et dicta eorum armata non («i) multum bene in ordine secundum potui inteligere adavizum. Et quantum in diem sentiam non ignorabitis. Et certe desidero venire ad perfectionem, vel amplius in ipso negocio non cogitare, etiam pro intelexisse ut in Ferraria alliquid boni se debeat facere. Similiter huc sum aliquibus in platica, quam ad effectum mittat Deus amen....... -j- Die XXV dicti. Suprascriptas duas copias misi ante heri cum non-cio in Mediolano Francisco de Tonsis ut supra ex ipso loco mitendas duobus modis ; et nunc presenterei habebitis viam Clavari cum iuvene Lodixii de Brignali ut non falit ut de me semper habeatis novam : et pro non habuisse alliud novi, pro fuisse heri festum sancti Johannis Baptiste et hodie faciunt sanctum Marcum ; et ex vestris carendo, non restat alliud dicere quod quantum supra affirmare. Spero cras in dicto darsenale intrare. Vestris mandatis paratissimus. Valete iterum. Vester fillius Lucas cum humili recomendacione. 380 GIORNALE LIGUSTICO XXVII. Andreolo Guasco esorta i Protettori delle Compere di S. Giorgio, perchè vogliano attendere al riacquisto delle colonie orientali. 14S1, 21 Giugno. Archivio e Progetto citati. (Exira) Magnificis dominis Protectoribus Comperarum Sancti Georgii communis Janue, olim dominis inclite civitatis Caffè totiusque maris maioris in imperio Gazarie. Pro itinere de Roma. (Intus) Jesus Christus. Magnifici ac prestantissimi domini. Debitum et amor patrie mee astringit me ut que sentio atque que per commissiones habeo ab olim compatri ots meis denunciare Magnificentiis Vestris, non obstantibus aliis literis meis, Magnificentiis Vestris seu precessoribus scriptis de quibus nullam habui responcionem. Existimo enim quod nolueritis respondere, non videndo tunc tempus. Nunc autem afirmo quod populi vestri fidelissimi Cafenses vos die noctuque cupiunt. Platicas habuerunt mecum et habent ut sepe advisarem Magnificentias Vestras, et eis responderem de intentione vestra. Ego enim quamvis nullam responcionem habebam a Magnificentiis Vestris neque spem, tamen semper dabam eis spem firmam. Nunc vero, mortuo illo crudelissimo rege tiramno, ignoro plus qualiter longam spem dare posse, nisi omnino cogitabunt ad aliud ; et iam intellexi vigilantes in illis. Imperator M. tartarorum similiter non unam sed plures scripsit letteras mihi, de quibus litteris etiam scripsi Magnificentiis. Vestris. Scripsique nobili civi vestro Gentili de Camilla, quem dictus Imperator nimis diligit et patrem vocat ipsum et semper in suis litteris fecit mentionem. Per hanc ultimam, me excusando cum Magnificentiis Vestris, scribo quod si non atendetis et ipsi voluerint evadere a paganorum manibus, faciam pro ipsis toto meo posse quod in manibus Christianorum perveniant. Vos vero atendendo, me offero ad omnia que possum, personam , animam usque ad vitam. Pecunias quas habui posui pro salvanda illa civitate, nunc pecunias offerre non valeo, nisi vitam quam pro patria ponere non agravaretur mihi. O magnifici domini, excitetur precor potentia Januensium ! Maritimi milites Januensium excitentur deprecor ! Nomen gloriosissimum et fama olim laudata renovetur! Nonne vidimus in diebus nostris naves Januensium intrare in mare maiore, invito illo tremendissimo rege tureorum? Cur non posset nunc, quia ce- giornaie ligustico 381 savit nomen tremendum ipsius? nunc quum intendo quale lucrum, qualis gloria, qualis honor Januensium in recuperando tantas magnificas civitates, tantam provinciam, tantos populos fidelissimos? Et quid diceretur per eum quod Januenses pro recuperacione populorum usque ad periculum mortis se posuerunt? Deus omnipotens sit in consilio et auxilio vestro. Ego commoror in Polonia. Veni hic iussu serenissimi regis Polonie, et' feci que mandavit mihi et ad ipsum revertor. Si dignabuntur Magnificentie Vestre respondere mihi, dando litteras nobili Gentili, ipse bonum dabit recapitino. Parcant Magnificentie Vestre si presumpsi sic persuadendo scribere. Precor non habeatis pro presumpeione sed pro afectione maxima. Data Venetiis die XXI Junii 1481. Andreolus Guascus olim subditus Magnificentiarum Vestrarum cum humili recommendacione. XXVII. Ddibera\ioni tirile Conifere di S. Giorgio e della Signoria, circa il modi< •li trovar denaro per le spese occorrenti alla riconquista delle colonie. 1481, 22 Giugno. Archivio di Suto. Politicorum mazzo II. Archivio di S. Giorgio. Cod. Contractuum ann. 1476 in 1499, nunì· 39» fol· 35-58. In nomine Domini amen. Cum propter obitum immanissimi hostis (idei christiane regis turearum, die III iunii presentis celebratum fuisset in publico palatio magnum concilium, decreto cuius super provisionibus recuperandorum locorum nostrorum orientalium delecti sint cives octo pre-s tant es, cum ea facultate et arbitrio quam et quod habet commune Janue, ut constat solemni deliberatione scripta ipso die manu Lazari Ponzoni cancellarii. Cum deinde dicti prestantes octo ut supra deputati comparaissent coram infrascriptis magnificis dominis Protectoribus, eorumque opem et auxilium et in predictis provisionibus nomen comperarum Sancti Georgii implorassent; tandemque effectum sit ut in numeroso participum comperarum concilio sub nomine ipsarum comperarum attributa fuerit potestas et balia amplissima magnificis et spectabilibus dominis Protectoribus earundem comperarum annorum presentis et millesimi quadringentesimi quadragesimi quarti, ac ipsis prestantibus dominis octo ut supra ellectis', et in numero ipsorum duorum offitiorum coniunctim et mixtim, faciendi ordinandi et deliberandi in predictis provisionibus orientalibus et circa ea omnia que prudentiis ipsorum magnificorum et prestantium trium officiorum in dies magis necessaria et convenientia visa fuerint; ita 382 GIORNALE LIGUSTICO tamen quod in omnem casum et eventum compere conserventur indemnes et bene caute ac secure efficiantur: ut constat solemni deliberatione scripta die VI presentis mensis, manu Angeli Johannis de Compiano notarii et dictarum comperarum cancellarii, cuius tenor talis est. Cum in aula maiore palatii comperarum Sancti Georgii congregati essent magnifici domini Protectores comperarum, et preter eos cives tre-centiduo comperarum participes ex omni ordine et colore, ob infrascriptam materiam vocati; coram omnibus de mandato dictorum dominorum Protectorum lecta fuit per me Angelum Johannem propositio allata per magnificum officium dominorum octo deputatorum super provisionibus orien- Ό talibus propter mortem teucri tenoris infrascripti, videlicet: Seguoi, noi senio stati ellecti offictio ale coxe de Levante de poi la morte de lo Turcho , como voi devei havere intexo, cum balia tuta che ha lo comun de Zenoa de poei fa in questa materia quello sia necessario per recoverar li nostri logi de Levante e fare meglio se se porrà: de la quale coxa intendando la importantia, et intendando ancora la di-spositium universale de tuti li citem essere bona in questa materia, essere stati confortati da tuti fare prontamenti et valorosamenti , non ha-vemo manchado per fino a qui sera e matina de essere inseme et pensare et examinare tuto quello che se possa fare in questa materia, et za havemo mandado a temptare qualche via a questo bono eifecto. Ma la principale coxa, la quale noi intendemo essere più necessaria, è de trovare forma a denari sufficiente a tale imprexa: et examinando noi diverse forme et considerando le vie esser pure grevose, per aricordo etiam de molti cittadini, havemo intexo non essere forma la quale possa più satisfare a questa materia et alla prestixa de la quale ella bixogna assai, corno per mezzo de lo ponte de queste vostre compere. Ht per questa caxun senio comparuti davanti da voi a farve intendere non solum lo pensamento nostro, ma etiamdè lo bixogno, però che non intendemo che se possa pensare via alcuna de provisium in questa materia la quale non convegna passare per lo ponte vostro; estimando ancora che tale materia toche etiam grandementi a le compere, per lo governo de le signorie de Levante, e per lo exercicio de la mercantia de la quale le compere prendem pure lo so emolumento, e tanto più prenderian reco-verandose quelli logi et aquistandose de li altri se sepodesse. E da l’altra parte considerando noi quanto vale lo reputatiun in simile imprexa, et etiam che simile spexe se faciano per persone de che se habia bona op-pinione et chi sea più universale contentamento de la citè: n’è occorso per conforto de molti citadini de metere questa imprexa in mano vostra GIORNALE LIGUSTICO 383 et a governo vostro tuto quello che se acquistasse, e tuta la utilité a le compere , cum etiamdè fare caute le compere per tute quelle vie che seano possibile cossi per dricto corno per altre in contentamento de le compere, sì che, succeda la cosa conio se voglia, che le compere non lia-biano danno. Confortarve a questa materia non ne pare tanto necessario, perche ella è coxa che tocha universalmenti et ingualmenti a ciaschun, et quello ch’eia importa ognun de voi lo intende, per che ge consiste lo honore publico, et la grande comodità che ne seguirà recoverandose li nostri logi de li quali bixognemo assai; et tanto più che non recoveran-doli noi, porreivan pervegnire in mano de tale signoria, che ne poteria più rencrescere che se fosseno in mano de turchi, perchè porremo perdere lo exercitio de la mercantia in Levante et quello poco de segnoria che ne resta; la quale coxa quanto fosse perniciosa e dannosa ognuno de voi lo intende. Si che ne pare pure da confortarve a fare bono animo et in-terprendere questa caxum valorosamenti, perchè a le compere ne po seguire grande honore et utile, et maxime faciendo le coxe corno è dicto disopra, et in questo fare quella deliberatiun che merita farse da prudenti citem et amorosi de la patria soa, et considerare che a questa materia non se possa expectare megliore tempo per essere raxionevole, et de che se ha pur qualche adviso che tra li figioli de quello signore è per essere grandi desquerni, et ancora perchè se trova de le coxe in procinto che forse non se troverano a uno altro tempo, et la prestexa po essere grandementi utile. His igitur ita propositis, cum multi assurgere requisiti in sententiam convenirent faciendi provisiones in proposita memoratas, licet sub variis modis et formis per eos memoratas; tandem compertum est sententiam viri egregii Jacobi Justiniani quondam Jacobi ceteris prevaluisse et obtentam fuisse, inventis calculis ducentis et viginti uno albis assentientibus et octua-ginta uno nigris contradictoriis. Ipse enim Jacobus, post multas prudentissi-mas rationes et adhortationes ad utilitatem et honorem reipublice èt comperarum factas, et presertim quod si negligentia omnium ianuensium omitti et labi permitteretur presens occasio rerum orientalium, possent adhuc expectari maxima detrimenta et damna totius reipublice ianuensis , ad conclusionem veniens laudavit quod detur amplissimum arbitrium et facultas magnificis et spectabilibus dominis comperarum Protectori-bur annorum presentis et MCCCCXXXXIV ac dictis octo deputatis super provisionibus orientalibus coniunctim faciendi ommia in suprascripta propositione contenta, sub modis tamen et formis conditionibus et tempore que et quantum ac prout prudentiis ipsorum magnificorum et spectabi- 384 GIORNALE LIGUSTICO lium officiorum melius videbitur convenire ; atque insuper sub quatuor conditionibus inirascriptis. Prima est quod arbitrium et facultas dictorum magnificorum et spectabilium officiorum circa predicta non duret quam per totum presentem annum octuagesimum primum. Secunda vero quod post dictum tempus omnis eiusmodi balia et admnistratio translata sit et esse intelligatur ad magnificos dominos Protectores comperarum Sancti Georgii designandos anno proxime sequente octuagesimo secundo, in quos remaneat balia suprascripta et omnis administratio illarum rerum orientalium; et sic successive in alios magnificos dominos Protectores per tempora eorum successores, quemadmodum consuetum fuit temporibus elapsis. Tertia autem conditio est, quod in omnem casum et eventum quod omnibus his que quoquomodo in predictis provisionibus expensis et admi-nistrationibus et circa ea fieri continget, compere efficantur bene caute et bene secure, ita et taliter quod damnum ipsis comperis sequi non possit. Quarta demum et ultima conditio est, quod dicta provisio seu impensa cOn\ erti aut diverti non possit in aliquem alium usum quantumcumque urgentem aut necessarium, nisi pro eiusmodi causa rerum orientalium, de quibus in dicta propositione mentio facta fuit. Et propterea cum hec prenominati Jacobi sententia ex dicto numero calculorum ducentorum viginti unius alborum comprobata fuisset, pro solemni decreto habita est. Attento presertim quod ipsi magnifici domini 1 rotectores dictarum comperarum, subrogato prius nobili Philippo de Vi-valdis loco nobili Opicini de Vivaldis eorum college absentis, propter obi-ium fratris, sub calculorum iudicio ex quibus sex albi inventi sunt assen-tientes et duo tantummodo nigri contradictorii , declaraverunt presentem deliberationem cadere sub regula dictarum tertiarum partium calculorum alborum, et per consequens deliberationem ipsam bene obtentam fuisse. Ex quo cum ipsa magnifica et prestantia tria officia deliberaverint armare et stipendio eorum conducere aliquas naves, cum hominibus et stipendiatis super imponendis, et alias provisiones ac sumptus circa predicta facere, et iam inceperint pecunias errogare in mittenda legatione ad Summum Pontificem et aliis eorum mandatariis et nuntiis hinc inde pro dictis provisionibus; volentesque in observacionem dicte deliberationis, quod ex pecuniis quas iam expendiderint et in dies erunt errogaturi pro ipsis provisionibus factis et faciendis, comperas et cautas et bene securas fieri, adeo ut in omnem casum pro dictis provisionibus nullum damnum et nullum interesse patiantur, quemadmodum in deliberatione predicta latius continetur; verum quoniam fuit in dubio refricatum quod ipsi prestantes domini octo, ut supra electi et deputati, non possint habere duas personas in contrahendo vide- GIORNALE LIGUSTICO 385 licet nomine comperarum Sancti Georgii una parte, cum acciti fuerint in societate et numero dictorum trium officiorum ut supra, et nomine communis Janue parte altera ; et ob id ipsi prestantes domini octo deputati die XVIII presentis mensis requisiverint in magno concilio celebrato in publico palatio dare amplum arbitrium et facultatem, eam videlicet quam habet commune Janue, illustri et excelso domino Duci et magnifico consilio dominorum antianorum ac spectabili officio monete, contrahendi nomine ipsius communis et opportunas cautiones faciendi dictis tribus magnificis et spectatis officiis agentibus nomine comperarum Sancti Georgii; que facultas et arbitrium ipsis demandata et attributa fuit quemadmodum continetur in deliberatione ipsius consilii scripta dicta die manu Nicolai de Credentia cancellarii, cuius tenor talis est: MCCCCLXXXI die XVIII Junii. Cum ad conspectum illustris et excelsi domini Ducis iannensiuni etc., magnificique consilii,dominorum antianorum communis Janue, vocata fuissent spectabilia offitia Balie, Monete et Sancti Georgii, ac preter ea cives ducenti quinquaginta, eisque propositum fuisset sub his verbis: Segnoi, la caxum de la convocatiun vostra è questa. Como la più parte de voi sa, questi jorni passé fuemo ellecti in questo loco noi offitio de octo citem depute a le provisium de lo Levante, seando intervegnua la morte de lo turcho; alli que fo data tuta la balia ha lo comun de Jenoa, corno pa per la deliberatium scripta per man de Lazaro Ponson cancellere ; e habiando noi havuo recorso a lo officio de Sanzorzo, cum partecipatium tamen de lo illustre meser lo Duxe et magnifici Antiani, per bene de la imprexa et per conducere meglio le coxe, ge havemo offerto tale imprexa. Demum per consegio grande obtegnuo in Sanzorzo, è stata data balia a noi octo inseme cum lo magnifico et spectabile officio de Sanzorzo et de lo anno presente et de MCCCCXXXX1III de poei fare circa le diete provisione de Levante tutto quello para essere più conveniente e necessario a li dicti doi officii e lo nostro inseme a nome de compere. Et perciò che è necessario fare contracti et obligare pegni de comuni per la dieta caxum, per indemnité de le compere de Sanzorzo, è stato dicto che a celebrare simili contracti lo officio de noi octo electi per lo comun non possemo havere duo persone contrarie, zoè contractare a nome de comun et a nome de Sanzorzo; e per questo è necessario che per lo consegio vostro sea data balia a nome de lo comun de Genoa, videlicet tuta quella che ha dicto comun, a la illustre Signoria de meser lo Duce, magnifici Antiani et officio de Moneta, a li que in questo acto tanto de contractà a nome de comun da una de le parte, a li dicti trei officii a nome de le compere Giorn. Ligustico, %Anno VI. 25 386 GIORNALE LIGUSTICO de Sanzorzo, computaci lo nostro offictio, da l’altra parte, sea daeta piena faculté e arbitrio de potere contractare promete e obligà tuti li beni e pegni de comun per cautiun de le compere in omnibus et per omnia corno sera aregordao e ordenao per noi octo za depute da voi, e maxime de potere imponere et obligare uno dricto usque in octo prò centenario generale per questa coxa tanto, ac etiam de transferì in le compere ogni logi terre e castelle spetasse aut quomodolibet potesseno spectare al dicto comun se aquistaseno aut se rehavesseno in Levante: non obstante alcuno statuto aut decreto o vero regule in contrarium, a ciò se possa vegnì a la conclusium de quello se bavera a fare senza perdere tempo, perciò la coxa nostra conxiste tuta in la célérité. Et cum multi iussi fuissent surgere et sententiam suam in medium afferre , tandem compertum est sententiam nobilis Edoardi Grilli in quam voces triginta unam supra centum convenere. Is enim in hunc modum loqutus est : Videri sibi multum convenire quod quando alicui officio commendata est aliqua cura, serventur que ab ipso ordinata sunt ; et ob id laudare quod attribuenda sit balia amplissima, ea scilicet quam habet commune, illustrissimo domino Duci magnificis dominis Antianis et officialibus Monete, obligandi ac faciendi ea omnia que superius in themate memorata sunt. Que sententia pro decreto habita est. Idcirco ipsi illustris et excelsus dominus Baptista de Campofregoso, Dei gratia ianuensium Dux etc., et magnificum ac spectabile officia dominorum Antianorum in pleno numero et Monete, communis Janue etiam in pleno numero , quorum omnium qui interfuerunt nomina sunt hec , videlicet, etc. etc., agentes nomine et vice excelsi communis Janue una parte, et prenominata magnifica et spectabilia offitia dominorum Protectorum comperarum Sancti Georgii anni presentis et quadragesimi quarti ac octo ut supra deputatorum agentes nomine et vice dictarum comperarum et participum earum parte altera, et quorum qui interfuerunt nomina sunt hec, etc. etc. Sponte et ex certa scientia , nulloque iuris vel facti errore ducti vel modo aliquo circumventi, pervenerunt et pervenisse sibi invicem et vicissim confessi fuerunt ad infrascriptas promissiones obligationes et transactiones ac pacta, solemnibus stipulationibus utrinque intervenientibus ; renunciantes omni exceptioni rei sic ut supra et infra non geste, non sic aut aliter se habentis, doli mali metus in factum , actioni conditioni sine causa vel ex iniusta causa et omni aiii iurii et legum auxilio. Videlicet quia virtute et ex causa dictarum promissionum conventionum transactionum et pactorum, dicta tria magnifica et spectabilia offitia ut supra deputata, promisserunt et so- GIORNALE LIGUSTICO 387 lemniter convenerunt eisdem illustri domino Duci, consilio et offitio, prcsentibus et stipulantibus nomine quo supra, et mihi notario et cancellario infrasciipto, veluti persone publice officio publico stipulanti et recipienti, nomine et vice excelsi communis Janue et omnium ac singulorum quorum intei est intererit vel interesse poterit quomodolibet in futurum, quod sub cautionibus et obligationibus de quibus inferius dicetur, invenient per eas vias et formas quas pro comperis iudicaverint fore minus damnosas tot ex pecuniis ipsarum comperarum quot iudicaverint sufficere dictis provisionibus faciendis, tam in armamento navium quam aliarum provisionum pi opterea faciendarum, in quibus ultra pecunias iam per ipsa magnifica et spectabilia offitia erogatas, omnes alias provisiones et expensas pro ipsis locis orientalibus facient et pecunias ipsarum comperarum in sumptibus earumdem provisionum orientalium erogabunt, quas in dies iudicaverint fore necessarias et opportunas, sub modis formis conditionibus tempore quando et quantum ac prout ipsis magnificis et spectabilibus officiis melius visum fuerit et magis videbitur convenire, prout et quemadmodum in de-liberacione eorumdem magnificorum et spectabilium officiorum scripta die VIIII iunii presentis manu dicti Angeli Johannis latius continetur. Et versa vice prenominati illustris dominus Dux, consilium et officium , acceptantes nomine quo supra ea omnia et singula que superius dicta sunt, et volentes omnes illas cautellas facere ac ea omnia observare que in dictis deliberationibus continentur, omni via iure modo et forma quibus melius et validius potuerunt et possunt, ex omni potestate et arbitrio ipsis illustri domino Duci, consilio et officio tam coniunctim quam divisim quomodolibet attributis, volentes quod in omnem casum dictis magnificis et spectabilibus tribus officiis et comperis Sancti Georgii sufficienter cautum sit pro dictis pecuniis, ut supra iam erogatis et de cetero errogandis in dictis provisionibus orientalibus factis et faciendis ex pecuniis comperarum, adeo ut compere in omnem casum et eventum sint magis caute, ad uberiorem cautionem dictarum comperarum obligaverunt et ypothecaverunt, ac virtute huius instrumenti obligant et ypothecant dictis magnificis et spectabilibus tribus officiis et comperis et michi notario et cancellario infrascripto, presentibus et stipulantibus ut supra, ad conservandas dictas comperas indemnes occasione dictarum pecuniarum iam expensarum et pro maiori et potissima parte de cetero errogandarum in dictis provisionibus orientalibus damnorumque interesse civimentorum ac expensarum que et quas modo fieri contingeret quocumque et qualitercumque, ac quviascumque causa contingente et inopinata pro dictis provisionibus ac in dependentibus emergentibus accessoriis et connexis ab eis, novum drictum generalem 388 GIORNALE LIGUSTICO usque in unum prò centenario dumtaxat super mercaturam quem ipsa magnifica et spectabilia officia in totum vel prò ea parte quam voluerint imponere vendere vel exigere possint propria autoritate et quando ipsis videbitur et placuerit, ac eo precio et prout ipsis melius visum fuerit pro iamdicta comperarum cautione et satisfactione expensarum factarum et faciendarum in provisionibus ipsis , sine tamen aliquo preiuditio ipsarum comperarum facultatis et arbitrii quam et quod compere habent exigendi super mercaturam usque in decem et octo pro centenario, et seu usque ad eam summam pro qua habent vigore regularum et decretorum dictarum comperarum dicte compere imponendi super dictam mercaturam facultatem; de quarum expensarum summis civimentorum et interesse que quomodolibet fieri contingeret standum sit dicto ipsorum magnificorum et speetabilium trium offitiorum et cartulariis eorum sive dictarum comperarum. Item acto et expresse convento inter dictas partes quod omnia loca civitates terre et castra que in locis orientalibus acquirentur vel rehabe-rentur, que spectarent aut quomodolibet possent pertinere excelso communi Janue, ex nunc prout ex tunc transferri debeant et translata esse intelligantur in comperis Sancti Georgii iure dominii vel quasi ; non ob-stante aliquo statuto aut decreto communis Janue, et presertim regula posita sub rubrica de non alienando terras et castra communis Janue in contrarium disponentibus, quemadmodum consuetum fuit servari temporibus retroactis certorum locorum orientalium pro commune Janue in comperis translatorum ; quarum comperarum Protectoribus et eorum successoribus post tempus anni presentis de LXXXI, quo circa predicta durat balia dictorum magnificorum et spectabilium trium officiorum ut supra deputatorum , translata sit et esse intelligatur omnis administratio ac regimen et dominium locorum predictorum acquirendorum vel recuperandorum. Item acto et expresse convento inter ipsas partes, quod dicte pecunie ut supra errogande non possint expendi converti aut diverti in aliquem alium usum, quantumlibet urgentem aut necessarium, nisi solummodo et dumtaxat ad hanc solam et unicam causam dicte provisionis orientalis ad quam fuerunt deputate et decrete. Acto etiam et expresse convento inter ipsas partes, quod si aliqua lis dubitatio seu controversia de et super contentis in presenti instrumento seu aliqua eius parte, seu super dependentibus emergentibus accessoriis et connexis ab eis, domini Protectores comperarum Sancti Georgii, qui nunc sunt et pro tempore fuerint, sint et esse intelligantur super omnibus et singulis eiusmodi controversiis et omnibus ac singulis supradictis GIORNALE LIGUSTICO 389 ac aliis contentis in presenti instrumento et eius executione magistratus ac iudices competentes; et nullus alius magistratus quacumque dignitate preditus, etiam si esset in suprema dignitate constitutus, se possit de et seu in predictis quomodolibet intromittere vel aliqualiter immiscere. Que omnia et singula suprascripta partes ipse sibi invicem et vicissim promisserunt attendere et observare ac effectualiter adimplere, et contra in aliquo non facere vel venire aliqua ratione occasione vel causa que dici vel excogitari possit de iure vel de facto, etiamsi iure possent, sub pena dupli totius eius in quo seu de quo contrafieret vel ut supra non observaretur : in quam incidat pars non observans parti observanti toties quotiens fuerit contrafactum, in tantum taxata pro iusto damno et interesse partis observantis: et sub ypotheca et obbligatione omnium bonorum dictarum partium dictis nominibus presentium et futurorum. Ratis nihilominus et in omnem casum semper manentibus omnibus et singulis suprascriptis. Actum Janue in palatio, et in camera inferiori ubi yberno tempore consilia solent celebrari, presentibus viris egregiis Nicolao de Credentia et Lazaro Ponciono cancellariis communis Janue, et Angelo Johanne de Compiano cancellario comperarum Sancti Georgii, testibus ad hoc vocatis et spetialiter rogatis ; anno a nativitate Domini millesimo quadringentesimo octuagesimo primo, indictione tertiadecima secundum Janue cursum, die vero vigesima secunda mensis iunii. Gotardus Stella notarius et cancellarius. XXVIII. Bartolomeo Senarega fornisce nuovi ragguagli circa la fortuna delle armi cristiane sotto Otranto ; e dà notizia che il Collegio dei Cardinali ha deciso che il naviglio genovese debba stanziare a Civitavecchia. 1481, 22 Giugno. Archivio c Progetto citati. Illustri et excelso principi et domino, domino Baptiste de Campofre-goso duci Januensium etc., et magnificis octo officialibus Romanie dominis meis colendissiniis. Illustris, magnifici domini domini mei colendissimi.— Postquam nihil habeo quod curem, sed omnis mea cura reiecta sit in expectatione classis et litterarum vestrarum, non cesso investigare an aliqua occurrant digna cognitione vestra; et licet hic varia jactentur de rebus italicis, que referri a me possent, tamen quia ad rem nostram non pertinent, nec ausim ea vera affirmare, quia principum sunt ingenia mutabilia, potius 390 GIORNALE LIGUSTICO malo subticere quam incerta referre; unum possum dicere, signa que videntur non esse pacis. Heri Sanctissimo Domino nostro reddite sunt litere a reverendissimo domino cardinali Ungarie apostolico legato in partibus Idronti dierum XIIII presentis, affirmantes regium exercitum extructis aliquot bastitis, pajrtem murorum veterum cepisse, exercitumque muro urbis adeo apropinquasse ut ledi a bombardis turchorum non possit; eos autem qui intus sint palam fateri velle aperto campo mori, modo ipsis facultas exeundi detur, quo fit ut sperandum sit breve Idrontum expugnatum iri, quod si esset ante adventum classis vel discessum ex Civitate vetula, rei nostre melius esset consultum. Hodie habitum est consistorium reverendissimorum dominorum cardinalium, et in eo retulerunt illi quinque cardinales, in quibus est reverendissimus dominus Melphitensis, qui de classe consulere debebant, optime esse consilium ne ea hostia tiberina intret; tum quia hoc tempore malle admodum sanus sit flumen intrantibus, tum iam quia pestis cepit nunc hic serpere ; et mortui sunt aliqui et moriuntur in dies, et veriti sunt si flumen intrasset ne undique ad eam populus iste studio videndi decurisset. et facile ex colu\ione multarum gentium in aliquod periculum incidisset. Ideo laudaverunt classem debere in Civitate vetula consistere: et ob id tabellarios plures dimisserunt qui eam conveniant et iubeant ad eum locum navigare. Sanctissimus Dominus noster eo decrevit ire cum reverendissimis dominis cardinalibus, et ad evitandam contagionem decrevit ne plures ducant secum cardinales quam quinque pro singulo. Hec res non multum grata fuit cardinalibus, propter eorum vite incomoditatem ; nam ne reges quidem magis commode et delicate vivunt. Ego interea expectabo optatas litteras vestras et Sanctissimum Dominum nostrum eo contendentem sequar. Credo spectabilem dominum Lucam Grimaldum cum classe venturum ; quod si esset, tempori venisset, etsi arbitrer Sanctissimum nostrum iam dudum decrevisset quid vellit classem facere. Ibo ut dixi: videbo quid fiet cum reverendissimo domino nostro cardinale , accipiam omnium responsionem, inde expectabo quid me velitis facere. Ex urbe die XXII Junii hora XXIII. XXIX. Deliberazione dei Protettori di vendere quanti luoghi di Compere sarà necessario, per le spese occorrenti ai provvedimenti sulle cose orientali. 1481, 25 Giugno. Archivio di S. Giorgio. Cod. Diversorum Negotiorum ann. 1481-1484. GIORNALE LIGUSTICO 391 XXX. La Signoria accredita suo ambasciatore presso del Papa il chiaro dottore di leggi messer Luca Grimaldi, affinchè tratti di ciò che si appartiene al riacquisto delle colonie orientali. 1481, 26 Giugno. Arch. di Stato, Co l. Littcr. a. 1481. X. 132. XXXI. Al Conte Girolamo Riario, implorandone il favore e l’appoggio a prò’ delle trattative per le quali Luca Grimaldi è spedito al Pontefice. 1481, 26 Giugno. Archivio e Codice citati. XXXII. Il Senarega annuncia Γ arrivo delie galee genovesi nel porto di Civitavecchia. 1481, 27 Giugno. Archivio di S. Giorgio. Progetto citato. (Extra) Illustri et excelso principi et domino, domino Baptiste de Campofregoso duci Januensium etc., et magnificis octo officialibus Romanie excelsi comunis Janue, dominis mei colendissimis. (Intus) Tandem, illustre et magnifici signori, poi monti desiderii le galee sono junte heri ad hore XXII a Civitavechia, et Nostro Signore questa marina ha spachiato un correro a le diete galee che presto se ne vegnano qui, peroche ha mutato deliberatione, et che omnino ve-nardi che serà la festa di Sancto Petro, si troveno a Sancto Paulo, chi è lontano da Roma miglia tre , quia Soa Beatitudine intende de cantar mesa, et poi la mesa facto consistorio spaciare quello sarà di besogno. Dio voglia messer Luca sia cum le galee. Io juncte che sarano le galee andarò primo a parlare cum monsignor nostro reverendissimo, et avi-serò quello che per mi s’è facto et aspecterò la ferma risposta. Questo è quello che posso scrivere. Forsa cum lo presente mandarò la copia de la bolla de la balia del reverendissimo nostro monsignore, chi è monto ampia. Rome die XXVII Junii 1481. Illustris Dominationis vestrorum servitor Bartholomeus de Senarega. 392 GIORNALE LIGUSTICO XXXIII. Provvedimenti coercitivi della Signoria, per l’esazione della contribuzione destinata all’ armamento di alcune galere. 1481, 28 Giugno. Arch. di Stato. Cod. Div. Canccll. an. 1481. X. 1056. f Die XXVIII iunii (1481). Pro favore navium , que armantur contra turchum. Illustris et excelsus dominus Dux ianuensium etc. et populi defensor, et magnificum consilium dominorum Antianorum, in pleno numero congregati, audito quod venerabilis frater Dominicus de Ponzolo ordinis minorum de observantia, qui curam assumpsit armandi certas naves contra infideles hostes turchos per piam et voluntariam contributionem diversorum civium et artificum civitatis Janue, conqueritur quosdam esse artifices qui, promissione facta consulibus sue artis pro huiusmodi contributione, servare promissa contempnunt, nonnullosque etiam alios cives qui ipsi fratri Dominico promissionem de spetiali contributione fecerunt, etiam vel tepide agere vel propositum pium velle revocare, que res videretur contra religionem Christianam pro qua ad hoc opus diventum est, et mali exempli si ipse frater Dominicus frustratus hac spe desistere ab inceptis cogeretur, ubi iam non parva impensa effusa est, que sine ullo fructu , ymo et cum pudore civitatis evanesceret; volentes rei huic providere ne diferatur pium opus inceptum , statuerunt ac decreverunt quod consules artium quibus ab aliquo de sua arte promissio contributionis alicuius ad rem predictam facta videretur, possint cogere realiter et personaliter eos qui tale quid promisserunt ad persolvendum. Quibus consulibus in pre-dictis prefatus frater Dominicus et illi quatuor quos ipse sibi socios ad huiusmodi perficiendum opus fecit, teneantur et debeant ipsis consulibus iusticiam ministrare et omnes favores prebere necessarios per quos talis promissio suam sortiatur esequtionem: possintque ipse frater Dominicus et quatuor predicti cogere etiam et compellere omnibus modis, et tam rea-liter quam personaliter, quoscumque alios qui aliquid ad eam rem polliciti fuissent ipsi fratri Dominico, ad satisfactionem et exequtionem sue promissionis, procedendo in predictis summarie et de plano sine ullo strepitu et figura iuditii, visa dumtaxat facti veritate , secundum Deum et puras ipsorum conscientias. non obstantibus capitulis decretis aut aliis quibuscumque, quibus quantum premissis obstarent voluerunt spetialiter GIORNALE LIGUSTICO 393 tore et esse derogatum et abrogatum. Mandantes quibuscumque magistratibus communis Janue, qui ad predicta fuerint requisiti tam a consulibus artium quam ab ipso fratre Dominico et quatuor supradictis, quatenus omne brachium suum et auxilium ad predicta porrigant et prebeant, omni exceptione remota, sub pena sindicamenti et interesse rei. XXXIV. Il Senarega significa che la flotta si è ritirata ad Ostia, e che sovr’ essa è giunto Luca Grimaldi. 1481, 29 Giugno. Archivio di S. Giorgio. Progetto citato. (Extra) Illustri et exceiso principi et domino, domino Baptiste de Cam pofregoso duci Januensium etc., et magnificis octo officialibus Romanie, dominis meis colendissimis. (Intus) Tandem, illustris et excelse princeps et magnifici domini mei colendissimi, hoc mane classis felicibus ventis tiberina hostia intravit, et qui classem intrantem viderunt dicunt continuo illam urbi appropinquare. Sanctissimus Dominus noster cum intellexit eam esse in Civitate veteri, decreverat in ecclesia Sancti Pauli legatos ambos suscipere; nam ecclesia ista distat ab urbe milliaria tria, credens hoc mane illam illuc pervenire potuisse, et decreverat ibidem missam cantare. Nescio quid nunc statuet: dixit tamen mihi Sua Beatitudo ante heri velle omnino reverendissimum dominum cardinalem nostrum urbem intrare. Recipietur maximo honore, quo fortasse a multis annis citra cardinalis aliquis non fuit receptus : maxima est omnium expectatio. Vereor ne ista ingressio moram aliquam afferat, et nostro desiderio noceat, cum opus sit celeritate et agenda sint omnia celeriter. Heri ante lucem cum arbitrarer triremes tiberina hostia ingressas, eo contendi; et cum nihil recepissem, redii. Hac nocte ut in itinere eas inveniam et fugiam calores, ibo: referam omnia que a me gesta sunt oratori nostro, et quid sperare liceat. Rome die XXVIII1 Junii hora XXIII. Cun obsignarem literas, a magnifico oratore nostro habui literas heri scriptas ex Civitate veteri, quibus scribit ut quam primum intellexero triremes debere hostia tiberina intrare, ad eum accedam ut simul conferre possimus de his que fuerint agenda. Illustris Dominationis devotissimus servitor Bartholomeus de Senarega. 394 GIORNALE LIGUSTICO XXXV. Nuove informazioni spedite dal Massola. 1481, 30 Giugno. Archivio e Progetto citati. (Extra) Egregio domino Antonio Masole, in Janua. (Intus) f In Christi nomine. MCCCCLXXXI die XXX Junii in Ve-neciis. Egregio domino patri. Egregie domine et pater mi reverende. — Post meum hue apulsum, quatuor vobis scripsi, VI, XVIII, XX, XXIII, et non pauca quaxi unius tenoris, et per ipsas quantum hucusque potui facere vobis notificavi; primam missam per Bertolino Bergamasco , duas unius tenoris cum nuncio via Mediolani directas Francisco de Tonsis et ex ipso loco mittendas duobus modis ut non fallit unum bonum habeat recaptum , et ultimam cum iu-vene Lodixii de Brignali de Ciavaro qui promisit bonum et prestum re-i.aptum dare: quare portando a bono recapto nixi in ipsis scripta affirmare et replicabo (sic), et responsionem cum dexiderio attendo, vos avizando quod omnimode spero negocium concludere vestrum. Data est spes et uti-nam cum bono beneficio sequendo, amen. Nam benedicte naves ex Siria non comparerunt, et in ipsis secundum potui intelligere pauca seu quaxi nulla conducta sunt relacione mercatorum hic aplicatorum viam Ceprii, in quo loco ex dictis navibus descendiderunt. Pro quo delibero de dicto negocio venire ad concluxionem, si illud potero facere, secutura sicut et forsitan proponam ; pro quo ut supra responsionem atendo cum dexiderio. Certe usque valui nixi vana scribere que sonant huc, quia salvo facientibus pro ipsis non loquitur et magnum spacium et apapirum non sufficerent volendo extinguere. Adfuit ante heri gripum in diebus viginti ex Grifo, per ipsum nova hortenus de Constantinopoli de viginti octo decursi habita a quodam iuvene versus Salonicum, afirmante alios preter aliqua distintione temporis, videlicet de creatione primigeniti a li decem et novem, et usque a li vigintiunum solum in exequiis condam patris se habuit et postea in magnis largiciis et liberalitatibus tam Janisaris quam omnibus aliis se adoperavit, et multo magis Baile et oratoribus istorum ut dicitur et inferius habebitis distincte ; que omnia credo vana sunt preter naranda modo isto, et primo sacum eorum galeacie et eodem modo per alias denotato de creatione dicti primigeniti a li decem et novem in pacifico. Atinsit postea heri sero alium gripum dicti loci Gripo diebus undecim , et cum ipso solum literas dicti Baili de Constantinopoli de viginti novem afirmantes dictam creationem duplicato omnibus ianisaris GIORNALE LIGUSTICO 395 soldo et asoltos omnes debitos etiam caraiharios per annos tres, dicto Bailio datis bonis verbis inde indempnitatibus eorum viam comerchii , non faciendo dictarum galeatiarum aliam mencionem, vel illud notificare non volunt; pro quo viso, quantum supra afirmo. Frater minor ad Natoliam accepserat, vocatus ab illis de Bursia cum bona comitiva; sed ad obviam missi per dictum dominum ianisaris duomi] ia quingenti, omnes trucidati fuerunt ab illis dicti fratris mediante auxilio illorum dicti loci Bursie ; quia aliter dubitatur contrarium fuisset secutum; ipsum in dicto loco Bur-sie receperunt per dominum suum creatum, capta moneta que in seralio erat ducati centum quinquaginta milia et alii totidem ab illis dicti loci et circonstanciis in mutuo cum promisione restituere duplum; et qui non cogitabat nixi se ponere in ordine et dare magnum soldum ; que intelecta dictus primusgenitus ad eius obviam iam se poxuerat in ordine ad dictum locum Bursie accepsurus, et iam recepserat. Aliqui dicunt armata istorum est in Grifo, pro quo loco isto certe dicitur recedere debet galea denotata per alias, que presta est et usque nunc tardavit, et patronus de alia sunt dies tres poxuit bancum, et heri unus alius; sed iterum non exierunt de darsenali, quod hucusque videre non potui; et isto modo notifico recepsure sunt decem, sed non illa celeritate quod extimarem etiam naves duas annotatas per alias; sed certe ad Frigidam se posuit in ordine etiam alia Nigra omni die varanda ut dicitur ; sed de ipsa cum alia grosa que fabricatur, ut credo, per presentem annum non exient; que sunt quod notificare possum et displiciet facere ita paucum fructum. Aliud non dico quod moram hic atraere me tedeat omnia pretermisa, sed ad omnia prestum quid et quantum comitet facturum. Vendea perlarum grossarum habuit effectum , produxit CCCXLIV venetos, sed habui libras centum safrani pro ducatis CXXV; de quo spero huc vel ibi constructum retrahere, quare poteritis de ipso vestram opinionem mihi dare ; et licet erit cum alliquo damno, forsitan de ipso hic finem faciam per me ut supra de moneta valere. Etiam vendidi bilaxium pro ducatis XX ; in restantibus optatam finem mittat Dominus a me ut spero, essendo cum alliquibus in platica mediante etiam bona nova habita de Levante. Sunt dies tres hic atensit gripus de Grifo in diebus XX, rursus de ca-pitaneo et de ipso nova horetenus Constantinopoli de novem decursi via Salonic pro quodam iuvene de Canali .. . affirmantes alias. Et heri cero alter atinsit in diebus XI missus a dicto capitaneo cum tres . . . Baili dicti loci Constantinopoli, et novas dicti illud etiam affirmatur : videlicet de creatione primigeniti in ipso loco a li XIX dicti in pacifico et GIORNALE LIGUSTICO usque a li XXI ulla facta novitate, nixi ad exequias quondam patris , et postea sequenti die poxita porta triomfale, duplicato soldo omnibus iani-saris omnes debiti veteri absoluptos et caraiharii per annos tres, solum in largiciis et liberalitatibus extendebat. Et misit per dictum Baili horato-ris (sic) et capitaneum istius Dominacionis, ipsis facit magnis exeniis, vestibus auri et . . . affirmatur par ... et omni modo per matrem dictam Dominacionem habere vult licentiam dictas galeacias de brevi recepsuras satisfacere omnibus eorum dampnis cum benefìcio ; et in ipsis galeis dicitur prefacte Dominacioni mitebat oratorem. Frater minor ad Natoliam accepserat , vocatus ab illis de Bursia cum bona comitiva ; sed ad opo-xitum missi per dictum dominum ianisari duomillia quingenti, ab ipsum omnes trucidati fuerunt mediante auxilio illorum dicti loci Bursie ; quia , dicitur, nixi fuissent contrarium scriptum fuisset. Ipsum in dicto loco Bursia receperunt, qui per dominum eorum creatum , sibi traditi ducati centum quinquaginta millia qui in seralio erant, et allii totidem in mu-' tuo a diversis cum promisione restituere duplum , et quod non expecabat nixi se ponere in ordine et dare magnum soldum. Qua intelecta dictus dominus ad eius obviam se poxuerat in ordine ad dictum locum Bursie accepsurus, et iam recepserunt alliqui dicunt ; pro quo credo presentem civitatem omni d;e magis trionfare debeat ; et rogo avizare de opinione domini Pauli de Auria sui gregeti et domini Benedicti Salvaigi sui fir-malii ad representagium, quia mihi servire potest etiam pro quanto ex Mantua scripsi. Nec allia. Vestris mandatis paratissimus’, valete. Vester filius Lucas Masola cum humili recomendacione. Frater minor dicti Teucri ad Natoliam accepserat, vocatus ab illis de Bursia cum bona comitiva, sed ad opoxitum missi per dictum dominum ianisari duo millia quingenti ab ipsis omnes trucidati fuerunt mediante auxilio illorum dicti loci Bursie; quia, ut dicitur, nixi fuissent contrarium scriptum fuisset. Ipsum in dicto loco Bursie receperunt ; qui dominum eorum creatum, sibi traditi ducati centum quinquaginta qui in seralio erant et alii totidem in mutuo a diversis cum promissione restituere duplum, et quod non cogitabat nixi se ponere in ordine et dare magnum soldum. Qua intelecta, dictus dominus ad eius obviam iam se poxuerat in ordine, ad dictum locum Bursie accepsurus; et iam recepserat. Alliqui dicunt, pro quo ut supra, credo hic se triumphare debeat; pro quo extimo recordare dictum gregetum et firmalium ; sequitura denotando. Qua supra, ut per aliam dicitur, obmisi ad vobis denotare deliberamentum. Die VII Julii. GIORNALE LIGUSTICO 397 Similem misi cum correrlo, medio Francisci de Tonsis ex ipso loco vobis mitendam, et nunc habebitis cum Petraichino de Samastro ad drictu-ram, ut non falet unam semel tantum habeatis; et ex vestris carendo non restat aliud dicere quod quantum supra affirmare et responsionem cum dexiderio quantum primum atendo. Et certe sum de malo et peximo animo, quia ponderando dictum safranum ab emptore frumenti . . . mercato non se contentando, per non litigare fuit opus ab ipso detinere; e quo promitto sum in tanta malinconia quod letari non possum , quia ultra vendia debita magis displicet non posse de moneta predicta me valere respectis supradictis : oportet patientiam habere et omnia in meliori capere. Dicta galea sunt dies sex recessit et alia dicto tempore exire de darsenali aprestatur; modo affirmo recepsure sunt decem vel quindecim dicte naves, nixi fuissent vincula per vicibus tribus rupta. Heri misse sunt in aqua ; credo hodie vel lune sequetur. Atinsit ante heri cero dictus horator de Constantinopoli; et quid cum ipso habeant ignoro, et credo bona nova de brevi reversus tenent calidam (sic), et quantum potero inteligere denotabo et nova ut sonant inferius distincte habebitis. Et pius Dominus in omnibus sit mihi consultor, amen. Atinsit ante heri in cero orator istius Dominacionis cum galea subtili in recepsu de Constantinopoli a li VIII, et aliqui dicunt a li VI decursi, cum dictis galeaciis ... in Chio a li VII dicti in ipso locp demissis re-cepsuris et brevi. Itaque ebdomada ventura ipsas atendunt. Recepsit ex dicto loco Chii a li XIV; in quo loco in ipsa galea intrabunt; et credo cum presenti correrlo ibi erunt plures littere nostrorum dicti loci Chii, que quid novi distincte nos cerciorabunt. Dicte galeacie non habuerunt damnum quod extimabatur et magni valoris, cum ad avizum dicti domini frater ut supra se parabat in ordine, et primusgenitus prope dictum locum Constantinopoli habebat campum suum cum armigeris octuaginta millia : inventum tantum tesaurum quod scribere nequeo .... erat in Bursia ; in quo loco alter se ponebat in ordine cum magna comitiva. Pius Dominus intercepit febrem longam manutenere dignetur et facientibus pro Christianitate providere, amen. Valete iterum. Similem tradidi dicto Petraichino venturo ad dricturam, et hanc habetis viam Mediolani ut unam semel liberam non deficiet; et in omnibus quantum supra affirmo. Valete iterum. Inclusam pra domino patre precor bene et preste faciatis dare. Valete iterum. Item vester filius Lucas cum recomendacior.e. 398 GIORNALE LIGUSTICO Die ea. Fui postea cum amico et dedit bonam spera, et utinam sic cum effectu sequatur , amen. Scitis sequitura, licet istum novum intelexi in apulsu dicti gripi non dando fidem scribere non elapsi; sed nunc ab amico in secreto intelexi verum esse quod dominus Teucrorum cum filio de tosico clauxerunt dies suos, nam certe forte videretur posent tenere secretum et dare talem voltam. Illum tamen deliberavi vobis denotare, licet non credo, maxime pro non fuise secuta ula novitas nixi quod miserunt die sequenti Summo Pontifici noncium cum celeritate. Quantum inteligam scietis, quia intelexi .habent de novo quod tenent secretum. Dicitur etiam ut capitaneus in Candia exonerari fecerat naves duas de bote mile singula, quas ponebat in ordine icturas cum aliis que dederunt prelrum navi Giberte in partibus Cipri; pro quo loco alia de bote octingentis ponitur in ordine, recepsura infra dies quindecim, et stipendiariis tricentis. Navis nova in ordine ad solitum pro contra santum Marcum desvalavit, credo ponenda cum aliis pro contra domi Biccoli, ubi feceriint certam reparacionem. De quibus quantum supra affirmo Omnipotens et gloriosa mater sua in omnibus sit mihi protector directorque semper, amen. Sicut sequitura de vestris cum dexiderio atendo. Valete iterum. Rogo detis mihi responsionem citius poteritis , quia atenditur hic ad tardius comes Jeronimus ad festum beate et gloriose Virginis Marie, quia spero aliquid boni potero facere. Valete iterum. Idem vester fillius Lucas cum umili recomen-dacione. XXXVI. Lettere di Venezia le quali annunciano l’ entrata in Costantinopoli del figlio maggiore di Maometto II. 1481, i.° Luglio. Archivio e Progetto citati. Jesus. MCCCCLXXXI die prima Julii, in Venetiis. Copia de littere de Santo Johanne de Venetia. Di novo se ha lettere de Constantinopoli de F intrata del figliolo magiore del Turcho cum honore. Volse vedere el padre, puoi el fece sepelire cum grande honore. Se pacificò cum li Janiceri, promettandoli altri-tanto di quello gli deva el padre. Licentiò le nostre galee, vestì lo am-baxatore d’ oro, et promette restaurare li danegiati. Lo figliolo minore si è ne la Natalia cum gran favore: ha tolto Bursia, trovato ducati centocinquanta milia, et altritanto se ne ha facto prestare. Lo figliolo grande da Costantinopoli li ha mandato incontro Janiceri duomilia, et lui a Γ incontro : Questi de figliolo mazore hano morto tuti quelli gli vene- GIORNALE IGUSTICO 399 vano a lo incontro. Et quelli de Bursia sono usciti fori, et tagliati a pezi i Janiceri duomilia pochi ne campò. Si che 1' joco est in ordine. XXXVII. Elezione di .Cristoforo Cattaneo e Nicolò di Brignale a governatori e commissari delle navi da mandarsi nelle parti orientali, col salario di lire mille per ciascuno e per sei mesi. 1481, 3 Luglio. Archivio di S. Giorgio. Cod. Div. Negot., ann. 1481 in 1484. XXXVIII. L'ambasciatore genovese Luca Grimaldi dà contesa dell’ accoglienza fattagli dal Papa, e rivela alcuni segreti. 1481, 3 Luglio. Archivio di S. Giorgio. Progetto citato. Jesus. Magnifici ac prestantes domini.—Jonsemo qui cum la armata lo ultimo dì del passato; et statini venendo su per lo Tevaro, Bartolomeo de Se-nargha, al quale io havia scripto di verso Civitavechia, mi vene ad trovare: dal quale intesi quanto havia facto, et quello che lui havia scripto ad Vostre Signorie, et cussi el tenore del breve del Papa. Et in quel punto che io arrivai mi furono presentate le vostre, cum la copia de la lettera de esso Bartolomeo ad Vostre Signorie et del breve del Pontifice. De tuto preisi bono conforto et speranza, et più che come fui al conspetto del Papa per visitarlo, Sua Sanctità cum leta facie mi disse: Messer Luca bene veneritis, Nos audiemus vos cras et exaudiemus. Sichè io credia indubitanter doverve replicare la requesta integra. Mi trovai cum la reverendissima segnoria del cardinale nostro, et tuto conferimo insieme quello paria se havesse ad fare; et demum heri, che fu ad duoi del presente, hebbi audientia gratissima da la Beatitudine del Pontifice, presente el nostro reverendissimo cardinale ; al quale exposi tuto quello mi era imposto sotto la meglior forma che io sepi, mettendoli davanti tute quelle cosse che mi pariano poterlo inducere ad satisfar a la voluntà nostra iuxta formam mandatorum vestrorum, et de le bandere suso la armata, et de levarle super quello se recuperasse, et de pagar una parte de la spesa post recuperationem, et de le cose se acquisteriano ultra le nostre, et cetera. Li posi etiam ante oculos lo honore la gloria et laude et eternità che seguiteriano ad Sua Beatitudine, 400 GIORNALE LIGUSTICO et ape (sic) nostro et ape de tuto el mondo, et quanto era più utille questo partito che andare perdere tempo ad Otranto, et del periculo ne potria seguire habiando veneciani in mano una armata potente, et essere vicino al facto ; et demum non gli lassai cossa paresse potere servire al nostro proposito. Et cussi confirmò el reverendissimo monsignor nostro, et disse molte bone parole in questo proposito, et era ad tuto presente Bartho-lomeo de Senaregha, et nullo altro. Sua Santità monstrò havere gratissima Ia expositione mia, et post molte bone parole et gratiose dello amore suo verso quella cità, ne dice che lui era contento compiacerne de tuto quello che io rechedeva, et de prestarne la armata et de mandarla a la recuperatione de le cosse nostre; nè fece difficultà alcuna in lo stipendio de li trei ultimi mesi ; ma che per lo obligo havia cum la Maestà del Re Ferdinando convenia che fusse prima preiso Otranto, digando che per li pacti havia cum lui expresse continebatur eh’ el devesse tenere queste galee ad deffensionem christianorum opressorum vel oprimendorum, che altramenti gli seria tropo grande scandalo avendo armate queste galee solum per la cossa de Otranto et habiando questo divulgato nedum per tuta Italia, ma per tuto el mondo ; et che dovessi scriver se mettesse in ordine la armata nostra quanto più presto sia possibile, adeiò potesseno andare ad fare de li facti preiso Otranto, che seria presto presto. Et anchor eh’ el parlare de Sua Beatitudine fusse più longo, questa fu in effetto la conclusione. Repreisi le parole, digando che era impossibile che noi armas-semo ad questo modo, perciò che non se potria intendere quando dovesse havere fine la cossa di Otranto, et non intendandosi seria consumare li denari in vano, et maxime che la cossa potria esser tanto longa che no seria più a tempo nè se potria più andare in quelle parte per li venti contrarii, et che interim li veneciani potriano far facti di che se-guiteria che convenirla venire alle mani cum loro se se gli dovesser lassar moglie et figlioli et beni, et che forse de questo seguiteriano maiori scandali. Fu etiam per el reverendissimo monsignore et per mi misso a campo che al nome de Dio la armata de le galee andasse ad Otranto, et provasse quello se potia fare a quel loco, et che interim Vostre Signorie anderiano aparechiando la armata delle nave, et che credevano seriano preste per tuto questo mese et forse ante, et che scriveriamo se andasse drietro armando: unde Sua Beatitudine ne facesse certi che quando le nave nostre fusseno in quelle contrade le galee se partisseno da Otranto, et se iongesseno cum loro, et ne andasseno alla volta de Chio cum la instructione se gli daria ; et in questo etiam mi forsai far intendere cum verissime ragione ad Sua Beatitudine quanto era più utile de . la facenda GIORNALE LIGUSTICO 4OI che se andasse che ad stare perdere tempo ad Otranto. Studiai etiam farli intendere cum vera ragione che questo non era contravegnire al obligo che Sua Sanctità havia ad Re Ferdinando , perciò che digando el pacto che le galee se dovesseno armare ad deffensionem opressorum et oprimendorum, assai era ad deffensionem quando se mandaveno ad offendere lo inimico, per che el pacto non dicea che dovesseno star ad Otranto. Demum Sua Beatitudine per argumento ogni volta paria esser verità, pur non si volse mai discreparare dal proposito assumpto, et demum non possendo resistere, disse questa cossa : Ne par diffidile, li vol-lemo haver pensamento fin a domatina. Et cussi partimo da Sua Beatitudine. Questa matina iterum senio tornati da Sua Sanctità lo Reverendissimo Monsignore et io, et cum noi Bartholomeo de Senargha. Sua Sanctità in summa dice essa ligata per obligo cum pena et iuramento et non voiler contrafare, che tropo gli seria scandaloso debiando esser norma ad altri. Assai havemo studiato indurlo ad vota nostra, et ad voiler prendere uno termino prefixo fin al qual le galee stesseno ad Otranto. Non gli è stato remedio; dicendo esser obligato lui et lo Collegio di cardinali et non poter far niente sensa voluntà del Re. Tandem vedendo cussi, havemo requesto metta questa cossa ad Collegio, et che ne audisseno, per che non dubitavamo eh’ el Collegio diria come nuoi, per che questo non est rompere li pacti al Re, imo più tosto est servarli. Sua Sanctità non pare farlo volenteri, per che dice eh’el Collegio di cardinali postea buteria tuta la culpa in lui. Et vedendo non poter fare altramenti, habiamo preiso questo termino che Sua Sanctità scriva ad V. S. et cussi scriva io et vi dia adviso, et che interim se mande al Re ad sapere la sua intentione. Al qual Sua Sanctità scrive uno breve, cuius copiam mando ad V. S. Io edam scrivo ad Sua Maiestà, et pariter vi mando la copia .Haria mandato Bartholomeo da Senargha da Sua Maiestà, ma ella est a Barleta, che li sono miglia 400 0 più, secundo mi diceno, et seria stata tropo longa faula. Avanti chel fusse tornato, ha remo più presto risposta cum uno messo. Hodie parlerò cum lo magnifico domino Anello orator regio, et se da lui harò altro ve ne adviserò avanti che sigillé que sta, et da Iu intenderò infra che tempo posso expectare risposta. Io interim starò ad vedere; chè certe assai mi rincresce, siando li più excessivi caldi che io mai praticasse. Dio mi conserve, et cussi voi. Monsignore credo partirà domane o post domane cum la armata, et anchor lui se troverà cum la Maiestà del Re. Est veruni che habio obtenuto da la Sanctità del Nostro Segnore uno breve ad esso Reverendissimo Monsignore, che cum p ri-mum el habia licentia de lo Re de poter partirse et andar drita via in Giorn. Ligustico, Anno VI. 2 49δ GIORNALE LIGUSTICO VARIETÀ Lettera di Agostino Mascardi....... RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Francesco Maria Fiorentini ed i suoi contemporanei lucchesi, di G. Sforma.......... ANNUNZI BIBLIOGRAFICI Note bibliografiche. Lettere di A. Russo . Val Pia, Passeggiate apennine di E. Celesia . Necrologia. — Massimiliano Spinola..... Pasquale Fazio Responsabile.