GIORNALE LIGUSTICO D I ARCHEOLOGIA, STORIA E LETTERATURA FONDATO E DIRETTO DA L. T. raa sc'· col quale valore vive tuttor.i in varietà liguri, pes. a Sas-sello. Occorre anche altrove, 49, 253 e specialmente 310. dove si legge: noranta e sexe, novantasei. GIORNALE LIGUSTICO 2 5 sobacarse. Vedi le mie « Etim. Genov. » a questo vocabolo. sole, « da subter ». Non si potrà dirlo con tanta sicurezza, ove gli si metta accanto còse per cosa, quando sta pel pron. interr.: cose ti vò? cosa vuoi? Si aggiungano ancora quante per quanta e quande per quandu, i quali tutti mi persuadono che si abbia pure saie da un anteriore suttu. La ragione poi di questo indebolirsi della vocale finale sta nella posizione proclitica di queste voci, per via della quale 1 atona si vien a trovare di mezzo tra un’altra atona o quasi e di una tonica , posizione dove il genovese ama assai 1’ e. Infatti si dice sempre suletara, davanti a un sostantivo, ma la salia o salta in funzione avverbiale cioè non proclitica; e questo spiega pure Γ uso suaccennato di còse. C’ è poi sarve, di cui 1 A. nell articolo sovin accenna incidentalmente come anche per esso ponga per base saper. Qui la difficoltà mi pare anche più grave, perchè non so quanto si possa ammettere la metatesi di r finale; ad ogni modo bastano le ragioni e i riscontri addotti per sale. spega^ar. Che il genovese possedesse anche il più primitivo empegar mi persuade un esempio-assai tardo, ma perciò tanto più bello, della G. Lib. V 62: L’orbo amò no l’imbratta e no 1 impeiga. Tuttavia Giovanni da Genova nel suo C a-tholicon (finito 1 anno 1286) ci dà empega^ar (oblino, qaod valgo dicitur cmpegasare) cui il Littrè prese per una svista invece di cmpegare, Hist. Litt. de la Fr. XXII, 13 seg. slol. Nella nota a pag. 394 l’A. cerca di determinare la provenienza di quel l (che certo vale r). Io per me sarei dispostissimo a vederci una pura aggiunta del copista, nè 1’ opporre che si trova in rima con una parola nella quale il r e originario, varrebbe, poiché pes. anche al 12, 298, 299 l’infin. sacrifica rima con fa pres. Ind. 3/ singol. strac singol. 21, 12 (corr. 24, 12), « leggi straa o stra ». Non credo che ci sia bisogno di pensare ad un errore del 26 GIORNALE LIGUSTICO copista, poiché la forma strae esisteva e si usava accanto allo siraa più originario. Già in queste rime stesse lo strac del 14, 454 ha molto l’aria d’essere singolare ancor esso, nia lasciandolo pur stare, gli esempi non mancano. Msc. cit. 31, 3, 14: mina stray f. 105 recto, e poco dopo questa strae, e al f. 231 recto, unna strae. Il Foglietta stesso usa questa forma, pag. 56 dell’Ed. Pav.: ra stri dti Parelio, cosicché dubbii non ce ne possono proprio più essere. Del resto non è difficile spiegare il fenomeno : una parola monosillabica, quindi debole e poco consistente, doveva essere attratta dalla lunga serie in -de, çitde, libertde, quando questo e finale pareva quasi epitetico e si scambiava (coll’ aiuto della serie in -He vertiie, servitile) coll’e di mie, liic e tic, lie, nue, etc. (per mi, tü e ti, li, mi, mi), dove era epitetico veramente e che sono già frequentissimi in Manoscritti del quattrocento. Ciò spiega pure l’odierno fuè fata (da un anteriore fa cioè fae per fd cfr. fainti); ciò spiega pure fia per fiata che trovo in un piccolo Codicetto Genovese della Bibl. Civica, e che non era ignoto all’ antico Veneto, Muss. Beitr. 54-55. Il Mussafia spiega, a dir vero, tale forma un po’diversamente, ma della sua congetura , assai acuta, credo che non ci sia bisogno, tanto più che non potrebbe valere per gli altri casi; bastò a promuovere 1’ attrazione analogica la qualità monosillabica de nostri tre vocaboli e il non intendere più la natura dell’e di çitae etc. Cfr. pure Arch. Gl. I 432. sun, sum, sopra, su, prepos. « da su in ». — Non è molto tempo che questa preposizione cadde dall’ uso, anzi sulla bocca di qualche vecchio è forse possibile udirla ancora. Nella riviera poi è di uso generalissimo. Ora la pronunzia non è già sciiin , come si esigerebbe per congetturare su in cioè sciti in, ma sciun con u ital. Perciò mi pare sarebbe da cercare qualcos’ altro , forse in summo. szjmfrar. È probabilmente una variante ortografica di iti- GIORNALE LIGUSTICO 27 frar, o anche uno sbaglio vero di scrittura. Il senso infatti par quello di scherzare, che corrisponde bene al senso del verbo provenzale chifiar, cbuflar. tacimi. Il Flechia ha visto benissimo che questa parola, nella sua forma apparentemente strana, non poteva non aver da fare colle combinazioni dialettali, sopratutto venete, de qtii-in etc. La sua felice induzione è ben confermata da altri documenti genovesi, cioè dalla parte inedita del Codice Molfino , che ci da il dechin veneto nella sua integrità, aggiungendo luce a quello che dissi fin da principio sulla grande estensione di certi fenomeni, che a bella prima si crederebbero caratteristici d’un singolo ambiente dialettale. Ecco 1 esempio: Stagando in lo modo ineschiti — De chin che uen la soa fin VII 168-69. H tachim ora non può più essere difficile ed anche la dentale, che il Flechia non capiva, si spiegherà. Si osservi che già nelle nostre Rime si legge de fin de qui 115, 22, forma che poi è piuttosto frequente nella parte inedita di esse, de fin ke etc. 2, 46; si sa inoltre che tam firn è uno de’ modi più soliti all’ antico genovese. E naturale che il parallelo de fin, de chin promuovesse accanto a tam fin anche un tam chin, al solito senza più aver riguardo al significato etimologico dei vocaboli; tam chin che ci è conservato, sia che l’amanuense dimenticasse la lineetta sull a, sia che, considerandolo come una parola sola, tralasciasse al solito il n (cfr. covento etc.), nel curioso lochiti. tamagno. È ancora GL. XI, 67. Inoltre mi si permetta di ricordare tatuatila GL. XIII, 51: Fernoti una dre nostre ancx latitante. tenpagno. In un Vocabolarietto manoscritto , probabilmente del secolo scorso, dove accanto alle voci italiane ne ricorrono alcune genovesi, che per venir riconosciute più facilmente sono sottolineate, si legge: « Tempagni (sottol.) Asse grosse di legno, che se si rifendono divengono asse 28 GIORNALE LIGUSTICO solite ». E altrove: « Botte, composta di Doghe che sono grossi Panconi, Tempagni (sottolin.) ». Certo questa non è ancora una completa spiegazione della voce che troviam f nelle Rime, ma poiché ivi ha manifestamente il senso di « insidia, pania, tagliuola, » potremo congetturare che a costruire questa particolare specie di insidia per la caccia si servissero appunto di tavole , più o meno grosse , donde le venisse il nome. travoso. Trangugiato, in Bonvesin travond etc. Questo verbo occorre anche nella Parafr. Lomb. , ma non fu inteso e quindi fu scritto, male. C’è poi nel cit. Ms. 31, 3, 14 un altro verbo strabossar il quale ha pure il senso di trangugiare, inghiottire: pallea che lo volesse strabossar 306 r; e poi: lo dragon lo sirabossa. Quel doppio r, quantunque non sia da fidarcisi ad occhi chiusi, tuttavia potrebbe facilmente indicare la pronunzia dura del s, e in tal caso sarebbe sicura anche la pronunzia larga e prolungata dell’ 0, e, mi pare, anche 1’Etimologia. Come cioè inbôçâ è da invorsare, strabôçâ sarà da trans-vorsare, dove per la parte concettuale si può confrontar 1’aret. travòrre trans-volvere, che vuol dir esso pure inghiottire, ed è nel « Trattato di Falconeria » pubbl. nel Prop. II, P. II, 253. umbria. Si ha pure sciumbria a Bussana e altrove: cfr. frane, essombre. vaguj. Vedi envagimento. vomi. L’ipotesi dà luogo alla certezza del fatto davanti all’infìn. vomer della parte ined. del cod. Molf. VI 15. xarrar. Nonostante che l’A. accetti sen’ altro 1’ Etimologia proposta dal Diez per sciarra, io mi permetto di dubitarne e quindi di rimandare a quel che ne dissi loc. cit. 21 e seg. xentar. Oltre che ad exempt are proposto dubitativamente dall’ A. si può pensare ad absentare (bs dà x come ps da ^ sci)·, anzi questa origine par messa fuori di dubbio, quando I f GIORNALE LIGUSTICO 29 si consideri psenté apsenté dei dintorni di Alba, che ha l’identico significato, sparire, del verbo genovese, e inoltre si usa pure attivamente, far sparire, come anche nella Liguria si trova, p. es. a Savona. La congettura del Caix pel toscano sdentare distruggere, cioè ex-ente, non ha valore. xan^e. Anche il sancete delle Prose 40, 22, vale cianci ette, piuttosto però nel senso di scherzi, sollazzi. leraria. È tuttora vivo nella Riviera Genovese. percha. 49, 145, (corr. 148) « circa ». Non credo che nel passo citato dall’ A. si possa attribuire a questa voce il senso di circa, ma bensì bisogni accentarla sull’ ultima e intendere « cercare » : quell %erchando inter lo gorfo — chi mena%avam zercha lor. Nonostante tutte le difficoltà sciolte dal Flechia e nonostante quelle poche alla cui soluzione hanno forse contribuito queste mie pagine, altre ne restano nelle Rime e nelle , Prose il cui Edipo non è ancora venuto e forse non verrà mai, 0 per l’insanabile scorrezione del passo o per altri motivi d ogni genere. Chi ci dirà che cosa significano agaxe, alasgavada, baiha^a, liia, nègin, restaure, scoe, ^hantcaì E questi sono a un dipresso i problemi lessicali rimasti insoluti nel Lessico del Flechia, ma ce n’ è pure alcuni altri che esso non cito, e non meno difficili : pumui 14, 440, puiesa 80, 20, rar 86, 65 etc. Di uno però credo di poter dare la spiegazione, cioè del pogi che è al 14, 466, en picem tempo quaxi trovo — che assa pogi fan d un ovo. Certo non è altro che polli, il quale al plurale palatizzò per effetto dell’ i il doppio /, e ce lo prova anche la parte ined. del Cod. Molf. IX 84: meio e a presente ove — Ca deman pogi 0 pernixe; e pugli è poi nella Par. Lomb. 100, 12. Notevoli sono anche rendilo nell’ antico senso italiano di « fattosi frate » 127, 91 ; ritti 38, 30, it. rutti, mentre ora nella I 30 GIORNALE LIGUSTICO città si usa ròitn; e nelle Prose segue 69 10, lat. securis, dove quell’ e finale è secondo me , epitetico , sul tipo vertüe (cfr. strac')·, %ir'e giudei 6, 18, dove si avrebbe la mutazione di d in r, la quale è si può dir normale ad Oneglia. Dopo i problemi lessicali s’ intende che ci sono e non pochi, i problemi di senso, ove tutto un luogo , due, tre o più versi sono inintelligibili affatto, per la somma trascuratezza ed ignoranza dell’amanuense. Questi però in realtà sono per noi meno importanti e spesso si connettono con un problema lessicale; alcuni del resto furono bene interpretati dal Lagomaggiore, qualche altro si potrà non difficilmente spiegare; uno proviene da una svista, si può dir unica, fatta dall’ Editore stesso delle Rime nel leggere il Manoscritto. È al 2,35; il Lagomaggiore legge: pusor ma misa en prexon , mentre è da leggere sicuramente pusor uia, cioè più volte. Non meno facile è la correzione al 12, 231-235, correzione in parte già vista dal Lagomaggiore: fo car amenti amaistraa — e in ver cassa e retornaa, — en quello (non quella) moo (modo) fa pregherà — che fe (non chi fo) la noiie primera·, o più sotto al 295, dove il per veso staccato si unirà in perve[r\so, aggiungendo poi la prep. a, perverso a ogni crestiam : o al 25, 3 dove invece di lo ma faito som bisognerà scrivere li mafaito som, i malfattori sono; 0 al 36, 57, ove sarà da sostituire sognar a segnar·, e via discorrendo. Finalmente errori di stampa sono nel lavoro del Flechia: biaxo tradotto in scrittura moderna con la « chuintante » dolce, invece che con sci, e così dicasi di squaxo cioè squasciu, pag. 333; fiægno invece di fidgno pag. 313 (a meno che egli non abbia attinto, invece che dal genovese schietto, da qualche varietà ligure, nel qual caso fia gnu sarebbe esempio importante di propagginazione d’i promossa dal nesso palatino, come se n’hanno qua e là per la Li- GIORNALE LIGUSTICO il guria, viægiu viaggio, sœsciu sasso etc.) ; spoœntu invece di spuentu a pag. 391, dove Vai dovè ristringersi in e chiuso per la presenza della nasale. D: E. G. Parodi. ILLUSTRAZIONE STORICA DI ALCUNI SIGILLI ANTICHI DELLA LUNIGIANA Opera postuma del Cav. Avv. Eugenio Branchi Edita da Giovanni Sforza (Continuazione e fine, v. a. 1883, fase. XI-XII, pag. 457) Sigillo XVIII. Sopra un aquila bicipite ad ali semiaperte, coronata sulle due teste e con piccola imperiai corona tra le medesime, avvi uno scudo bipartito verticalmente avente nel destro lato un leone rampante coronato, in mezzo a due spini secchi, nel sinistro un quadrilatero oblungo sopra ciascuna delle linee del quale passeggia un leoncino, ed in mezzo sta eretto e rampante un quadrupede che non si sa se debba dirsi un ippogrifo o un leone; inoltre lo scudo stesso presenta nel centro altro scudetto ove è lo stemma notissimo della Casa d’Este, un’ aquila imperiale e i gigli francesi. È questo un sigillo che fu usato dal marchese Giovanni Malaspina di Villafranca, e che in cera rossa di Spagna si vede impresso sulla sopracarta di diverse sue lettere, e segnatamente sopra una del 7 settembre 1786 che si conserva nel tante volte citato Archivio dei Marchesi di Mulazzo, lettera nella quale egli si sottoscrive March. Giovanni Estense-Ma-laspina. Fu al padre di questo Giovanni, Marchese A zzo Federico, e allo zio Marchese Annibaie, che Rinaldo d’Este Duca di GIORNALE LIGUSTICO Modena per moto proprio del dì 3 maggio 1726 concesse facoltà di usare il cognome Estense, unirlo a quello dei Ma-laspina , e di portare Γ arme di Casa d’Este nella forma e modo che praticavasi dai Principi Estensi cadetti, e ciò in vista dell’affinità che lo legava con i medesimi (1), ed in riguardo dell’attaccamento che verso lui e suoi antenati spe cialmente detto Azzo Federico e maggiori suoi avevan sempre mostrato. Per questa ragione il Marchese Giovanni si appellava Estense, ed al proprio stemma univa quello della Casa d’Este, come nel disegno del presente sigillo si vede. Ignoro poi cui appelli Γ aggiugnimento della insegna coll’ippogrifo, poiché non conoscendosi dalla storia veruna ragione di ciò , non mi è stato dato di riscontrare , che la medesima appartenesse alla moglie, madre, ava e bisava del Marchese Giovanni, che tutt’altri segni e figure nei loro stemmi portavano. Signore il Marchese Azzo Federico di Virgoletta, Villa Ca-vanella e Stadoncelli, e della metà di Villafranca, che aveva in comune prò indiviso con gli agnati discendenti dal comune stipite Marchese Tommaso, morendo nel 1770, in virtù della primogenitura esistente nella sua famiglia, lasciò questi fondi a Giovanni che salito sul seggio marchionale paterno, non abbandonò mai le proprie castella, ed uomo onesto e alla buona, si occupò con amore dei sudditi, a vantaggio dei quali molte savie leggi e provvedimenti emanò, e penetrati anche nelle sue montagne i principi della rivoluzione francese, seppe, se non apprezzarli almeno tollerarli, dovendosi a lui, se gli uomini di Castevoli sottoposti al suo condomino di \7illa-franca Marchese Tommaso, che primi della provincia le idee (1) Il tritavo di Azzo Federico e di Annibaie, Marchese Bartolommeo, sulla fine del secolo XVI aveva avuto in moglie Donna Laura di Francesco d’Este, dalla quale eglino discendevano. GIORNALE LIGUSTICO 33 nuove accettarono, non risentirono dal loro signore quel rigore che per le loro rivolture sarebbonsi meritati. Venuto il 97> spogliato come tutti i feudatari della Lunigiana dei feudi che gli appartenevano, non abbandonò le terre native, perchè il carattere suo non avendosi procurato nemici, non temè come altri rimanersi in condizione privata ove era stato signore, e Virgoletta, Villa e Villafranca le cui rocche come allodiali agli ex feudatari erano state lasciate, continuarono ad accoglierlo nelle loro mura , avendovi dimorato fino alla morte che intorno l’anno 1809 1° colse. La onesta e rettitudine di Giovanni fu conosciuta anche fuori del suo paese; sicché nel 1789 morto il Conte di Nay Richecourt Marchese di Treschietto, la Camera Imperiai di Milano lo deputo a prendere il possesso di quel fondo, che amministio fino a che non ne fu diversamente disposto; e nel 179° 1 Imperator Giuseppe II gli delegò 1’ amministrazione del feudo di Licciana, ove si verificasse la morte di quel feudatario che era senza discendenza, la quale avvenuta sugli ultimi giorni del 1794? l’ufficio commessogli assunse; ma poco lo tenne, chè la delicatezza sua per circostanze speciali lo consigliò a risegnarlo. Ebbe moglie, ma non figliuoli; e nella scelta non fu fortunato. Maiianna Frosini di Modena per poco tempo divise con lui il letto maritale , che fuggita non onoratamente nel 1782, gli tolse la incomoda sua compagnia, tornata a molestarlo da vecchia; cosicché quando nel 1800 erano i tedeschi in Italia, il generale Ott dovè risolvere sopra· alcuni piati di lei, che ella medesima contro il marito aveva avuto il cora^- ÎD gio di presentare. Sigillo XIX. Stemma della famiglia Malaspina del ramo dello Spino fiorito, usato dal Marchese Cosimo di Castel dell’Aquila e posto Giorn. Ligustico. Amo XIII. 34 GIORNALE LIGUSTICO in fronte ad una sua Operetta italiana dettata in Vienna nel 1636 e dedicata al Pontefice Urbano Vili col titolo: Cosimo Mal as piti a di Castel dell’ Aquila — Delle considerazioni spirateli d'amore — per la Casa Malaspina — nella pasqua della natività di nostro Signore — mentre si trovava in Vienna d’Austria — che manoscritta in bella copia (torse originale perchè lussuo-samente dorata e legata in cartapecora) si conserva inedita presso il signor Dott. Lorenzo Cortesini di Bagnone. È lo stemma indicato costituito di un disco tagliato orizzontalmente in due parti eguali, la superiore di color rosso punteggiato d’oro, tutta d'oro la inferiore, ed avente eretto nel centro ed occupante ambedue le parti, lo Spino con stelo color legno e fiorellini bianchi. Detto Marchese Cosimo fu figliuolo del Marchese Giovaln-Batista, cui, morto nel 1603, successegli col fratello Alessandro nei feudi di Castel dell’Aquila, Gragnola, Cortile e Viano in Lunigiana. Nell’epoca indicata vestiva l’abito clericale, e provveduto di pingui benefizi stava a Roma, ove accudiva ai brogli di quella corte teocratica per entrare in prelatura, lasciando tutta la cura dei fondi paterni al fratello, quando passati molti anni e già vecchio, venuti meno per quanto sembra i tentativi della sua ambizione, mentre avea consentito anzi proposto a Alessandro un matrimonio per dar successione agli Stati, improvvisamente lasciata la veste talare tornò nel 1630 in Lunigiana, stornò il matrimonio del fratello, ed egli stesso si ammogliò in vece sua, ed avanzando contro il medesimo pretensioni di esclusività sulla successione feudale perchè primogenito, osò verso lui le più basse, strane e vergognose angherie da minaccie ancora di morte non scompagnate ; e spogliatolo del condominio, dovè ricorrersi all’Imperatore, che per mezzo del suo delegato Principe Andrea Doria sul principio del 1638 decise in favor di Alessandro, perchè la GIORNALE LIGUSTICO 3S dedotta primogenitura non avea sussistenza. Ricorse Cosimo da tal giudicato al trono imperiale, e si recò personalmente a Vienna per assistere questo suo interesse, quando Cesare forse per minorare le spese ai litiganti, nel 9 settembre dello stesso anno emanò rescritto, col quale confermando l’approvazione da lui data alla sentenza del Doria, ordinò che la esecuzione della medesima fosse deferita alla Ruota di Lucca rispetto al possessorio, con ingiunzione che nel tempo istesso referisse con veto sul petitorio. Questa risoluzione imperiale tece conoscere a Cosimo quale speranza potesse nutrire per il buon esito dell affare suo , e tanto ciò dolsegli che preso da tetra melanconia gravemente infermò, e sui primi di novembre dell anno ultimamente citato cessò in Vienna di vivere , chiamando per suo testamento del 23 ottobre precedente crede universale del feudale ed allodiale suo il Re di Spagna, lasciando solamente legati alla moglie e ad un servo, cui ed ai figliuoli lece dono della libertà, nulla ricordando il fratello, il suo odio verso il quale anche oltre la tomba si estese, ma che non gli valse per altro, perchè i diritti della successione leudale erano regolati dalle imperiali costituzioni e quelli dell’ allodiale da fidecommissi. In una delle sue non rade permanenze a Vienna per brigare contro il fratello, nell’anno 1636 scrisse la Operetta indicata in principio, nella quale tutt'altro da quel che era vuol dimostrarsi, e che per questo e per le particolarità che essa contiene intorno allo stato dei Marchesi Malaspina di Lunigiana nel secolo XVII, merita se ne faccia qualche parola. Propone nella medesima a tutti i Malaspina di far cessare le primogeniture (ed era a Vienna per sollecitarla a suo favore) e d’introdurre per voti la elezione del Marchese dominante sull’individuo più vecchio, per cui vorrebbe che fosse aperto un libro di anzianità in ciascuna famiglia, ove O ' 36 GIORNALE LIGUSTICO col titolo di Marchesi non dovessero essere inscritti se non coloro che a voti lo meritassero, dopo però aver fatto sei anni di studi o altra carovana presso una Corte lungi cinquanta miglia dalla Lunigiana: che si facesse un assegno o entrata fissa al Marchese dominante e al suo luogotenente in caso della sua assenza, e si determinasse pure un assegno agli assistenti del dominante: che si formasse un deposito di denaro a ciascun figliuolo della famiglia dal momento della sua nascita onde costituirgli, un peculio per educarlo : ed infine che si dovessero aprir librerie e accademie di poesia, di rettorica e di cose morali nei paesi principali e precipuamente nei capi-feudo. Di più in questo scritto si dicono molte verità, particolarmente intorno alle condizioni allora estanti della famiglia Malaspina di Lunigiana siccome sopra ho accennato, fra le quali è a notare quanto appresso : « governavasi sepa-» ratamente senza rispetto alcuno al bene del tutto cioè delle » sue parti. Questa casa è mancante d’ uomini perchè ordi-» nanamente tra i suoi componenti non prendean moglie che » i primogeniti, e fra questi e gli altri fratelli poco amor vi » regna (io dice per esperienza propria), massime quando » questi ultimi son fuori di speranza di potersi avanzare a » qualche casa onorata ». A suo tempo i Malaspina meno potenti avevano tollerato e dato asilo a banditi forestieri prossimi, talché quando vollero liberarsene si erano acquistati la loro inimicizia; e non avendo voluto o potuto disfarsene, erano andati a rischio di perdere lo Stato, Γ onore e la vita. A suo tempo i Malaspina avevano abbandonato i loro Stati per abitare città altrui sotto pretesto di farsi conoscere, di trovar mogli ricche, ecc. A suo tempo i Malaspina male educavano i loro figliuoli esortandoli « a non praticare coi loro » sudditi e a proceder con superbia e falso con esso loro, » quasi che un signore non si possa far rispettare in altra » maniera ! farebbero molto meglio a insegnarle come po- GIORNALE LIGUSTICO 37 » tessero acquistare il loro amore aggradendogli, giovandogli » e facendogli migliori ». A suo tempo i Malaspina primogeniti venivano allevati nell’alterigia, essendo corteggiati e adulati come Marchesini e signorotti , e i secondogeniti ai quali restava pochissimo « essendo disperati di poter far pro-» gresso veruno, poco curanti degli interessi dei primogeniti » se ne restano perdendosi in qualche vile amore o nel-» l’ozio ». A suo tempo finalmente « desiderando poi e vo-» lendo (sic) le cose de’ sudditi nostri mal governati e mal » trattati da noi o per il poco valor nostro o per il poco » amore gli portiamo o poco conto ne facciamo. Onde per-» ciò da quelli veniamo poi odiati o disprezzati o 1’ uno e » l’altro insieme; e per questo molti di noi hanno persolo » Stato a se stessi et alla Casa Malaspina, e molti altri han ■' corso risico di perderlo avendolo poco onoratamente man-» tenuto ». ANTONIO IVANI UMANISTA DEL SECOLO XV (Continuazione e fine, v. pag. 463). DOCUMENTI I. Istni{ione del doge Ludovico Campofregoso ad Antonio Ivani (1). 9 settembre 1461. Ludovicus Dux etc. Ser Antonio. — A voi non bisogna dir molte cose le quali a uno altro forse sereano necessarie : per che saremo più brevi in questa nostra Instructiun et maxime che voi avei primum quella Instructiun la quale li nostri a questi dì porteno a Milan, et appresso li capituli de 1’altra lega che se fece 1’ altra volta, le quale cose ve dano aviso in tuto et tanto (1) Archivio di Stato. Istruzioni c Relazioni, filza, I, dall’a. 1396 al 1464. 38 GIORNALE LIGUSTICO più corno edam vedrete alcune correctioni le quale ne parevano necessarie de fare. Voi anderete a Firenze a lo M. Cosimo, alo quale presenterete la lettera nostra di credentia, e facta la salutatione debita li direte per nostra parte che conio la Magnificentia sua sa per sue lettere a questi di ne auferta a promettere bona intelligentia cum lo Ill.mo Signore Ducha che se offerse mezo ad ogni cosa che fosse necessaria, la qual cosa ne fu singolarmente grata cossi corno per la risposta nostra podete intendere, et lo so mezo noi lo acceptamo parendone non poterne avere uno mel-gior per infiniti respecti. E benché noi per dispositione nostra et per bene nostro fossimo inclinati a quella via de quello Ill.mo Signore , non è dubbio che li consegii e conforti de la Magnificentia sua le quali metiamo sempre a grande logo ne ano etiam molto più confortadi e confermati in questo. Si che per dar principio et effecto a tale materia per parte nostra noi inseme cun li altri de caxa nostra mandamo voi de caxa nostra a visitare quello Ill.mo principe et a conferire de tale materia li quali da la sua excellentia seno stati honorevolmente veduti et recevuti e benché gli siano state alcuni giorni il che è procedudo per la malutia soa, infine ano (hanno) avudo bona odientia et inteso l’animo de la sua Signoria et la mente esser optima verso di noi. Ma pure a le specialità non se molto distexo, digando che elio viderea volentera prima che animo a lo re novo de Franza ale cose de Italia, poiché elio porevia aver 1’ a-nimo si temperado che cum pocha fadiga e spexa elio accunceria le cose nostre. Et lo porevia aver de tale natura, che bisognerea maior remedio et pensamento in le coxe nostre e soe. Ma perchè per li nostri glie fu dicto che noi podevamo male stare in questa suspensione et non intendere altramente lo facto nostro avendo Saona ale spale et li nostri innanzi, li quali intendemo sono in nove et strecte pratiche cum li franciozi, la sua Signoria a dicto che li pare remettere tutta questa materia a la Magnificentia V. a la quale elio manderà uno de li suoi et noi mandiamo uno de li nostri. Per la qual cosa seguendo lo bono proposito nostro et avendo la sua mezanità, che nessuna altra megior poreiamo avere, e considerando noi non poder stare in tempo, avemo volsudo obtemperare ala volontà sua et ali soi consegii ; siché ora resta che la sua magnificentia intexo la volontà de 1’ una parte et de P altra, intexo lo bixogno nostro eh’ avemo a le spale li inimici et li quali possono al presente sperar pocho da li nostri citadini per essere molto afflicti e noi non avere cossi habilità a strenzerli per aver Saona inimiga et li nostri forussidi aver pure qualche favore, se volga interponere senza perder tempo a venire a quelli eftecti li quali se possano. GIORNALE LIGUSTICO 39 Conio sa la M. Sua , noi ebbemo altravolta ligha inseme serchando alcune coxe et avendo advertenza al nostro bixogno che è maior che non era Γ altra volta, spetialiter finché Saona se sia recovrada , cun alcune poche correctioni et più tosto dechiaratìone per noi non mancherà venir ad ogni bono effecto , parendone sia coxa che si facia per tute le parti più che non se perda tempo in lo quale a noi non é possibile stare senza aiutorio. Voi intendrei la risposta, per la quale se voi intenderei che 1’ animo se sia de venire a tale inteligentia dovete subito venire in su le specialità et particulariter cum ogni diligentia a scangiare la minuta soto le forme e conventioni le quali avete da noi. Se voi intendessi che per sue parole o per lo effecto questa materia se menasse in lungo, strenzetello digando che a noi non è possibile stare in queste dependentie de veder quello che vogia fare lo re novo, perocché veressemo forse proveisti a tempo che non se poria che non se fasse ni per loro ni per noi. E in questo procederete per forma che ne segua una de due coxe, o che se vegna alo effecto de la ligha , o che da elio vegna de proferirve qualque sussidio in questo mezzo , la quale cosa voressemo più volentera procedesse da soa offerta che da nostra requesta. E se elio ve dixesse ben questa materia a molte cunditioni et segundo che se intenderà le cose de Franza se conveniranno cambiare conditioni et opinioni, in questo mezo ve se porea dare qualque sostegno. Voi risponderei che ne piaxe-reve molto più aver intelligentia ferma che stare in questa suspensiun, et etiam per lo Ill.mo Signore Ducha se facia levarne questo stimulo de Saona de dosso che lassarlo a tempo in lo quale elio sereva più grave e più perigoloso, perocché quello che se faria al presente cum uno ducato forse a un altro non se faria per doi : tuttavolta se ne fosse dato quello sussidio cum lo quale se podessemo mantenere, per questo non mancheria che noi non perseverassemo in le dispositioni nostre , ma bene ne paria che elio volesse essere tale cum lo quale podessemo in questo inverno attendere a le cose de Saona. Se elio ve domandasse quello che voressemo o de che bexogneressimo responderete che volendo loro che sic expectamo e che possiamo attendere al facto de Saona, ne paria che fussimo aiutati almeno de fanti millecinquecento e cento cinquanta secreti et ermeti (elmetti) da cinquanta in cento specialiter fino a lavuda de Saona, e poi se poreiva ridurre li fanti a cinquecento e cento cinquanta secreti (celate ?) senza cavali, et una galea de guardia per sexe (sic) mesi de 1’ ano. 40 GIORNALE LIGUSTICO Se elio dixesse questo essere tropo, direte che a noi è omnino necessario provedere a questa cosa de Saona, onde per Io inanello bexogne-remo de spendere cum duemila fanti et tre nave grosse et altri denari in Io paexe ducati cinque mila lo mexe,Jli quali ne serà fadiga ritrarre a questo tempo da questi cittadini, ma pure avendo quello aiutorio da loro se sforzeremo ctiam dal canto nostro. Se elio dixesse pure che basterea avessemo da sostegnirse al presente et in le cose de Saona non fare novità alcuna al presente, benché ne para cattivo consegio, poreste dire che almeno la metà di ciò che se dicto ne altramente intenderessimo stare seguri. Se elio ve dixesse bene facendone lo ducila questo voi che voreste fare a lui , direte che cum questa via non avendo intelligentia più ferma licet questa almeno voria essere per sei mesi , noi non saveres-simo fare altro che obbligarse a non prendere pacto cum alcuna Signoria del mondo fino a quello tempo che fosse con la signoria sua in alcuna cosa. Questo è quanto a noi pare poderve arcordare et instruire, et tamen quello che averete a la giornata poderete scrivere usando la ziffra onde bexogna. E noi ve rescriveremo secundo ne parà bexognare. II. Instructio Antonii de Ivanis ituri Mediolanum (i). Die V februarii 1462. Ludovicus Dux etc. Posset esse, Ser Antoni, quod ille illustrissimus princeps rediret in verba vobiscum super eo de quo alias sermo fuit inter suam Ex.am et nos de imprexia Saone. Ad que verba si rediret et a vobis postularetur quid cogitaremus in ea re quidve facere velemus quidve opus nobis esset, respondebitis nos semper cogitasse et continue cogitare nullum melius remedium ad salutem nostram fore quam si recuperationi illius loci intenderetur. Quia hoc modo precluderetur via gallicis veniendi ad offensionem nostram, et nos recuperata illa civitas desisteremus a multis expensis que nos opprimunt in facto et opinione, et maxime videri nobis tempus aptum ad illa negotia : primo quia clause sint Alpes ne ex Galia subsidium (1) Archivio di Stato. Istruzioni e Relazioni, filza I. GIORNALE LIGUSTICO 41 venire possit. Populus ille Saône est in optima erga nos voluntate, quia multis modis sensit quanta sit illorum gallorum mala gubernatio , sensit quoque quantum damni attulerit illi civitati vivere in discordia cum civitate nostra cum qua vivit et alitur, sciturque nos aperte ubi.....potentiam nostram quod populus ille arma pro nobis sumere. Nos habere triremes sex paratas que armate erunt et in ordine in kalendis maij. Si ille 111.mus Princeps manum huic rei porrigeret, satis certe habere posse spem victorie ; que res optima esset ut sepe dictum est. Nos rem ipsis agitationibus . . . quamquam a nobis solis sufficere. Si diceret quid velemus, respondebitis nescire hoc vos, sed iam audivisse sepius apud nos dici opus nobis esse ad cetera auxilia que a nobis pararentur quod ille IU.mus Princeps subveniret nobis de mille peditibus pro trimestre aut saltem pro bimestre et equitibus centum quinquaginta et ducatis tribus millibus quos restituere ei acquisita civitate promitteremus. Nos in aliis multis provisuros quoniam multa essent. Si hoc facere voluerit prout utile nobis videtur, parabimus nos ad ea agenda que huic rei conveniant, dummodo certi simus de subsidio suo de quo supra dictum est. Hec omnia a vobis dicenda non sunt nisi sermo ab eo aut a suis in huiuscemodi re renovaretur. III. Terxa Istruitone ad Antonio Ivani mandato ambasciatore al Duca di Milano (1). 5 settembre 1462. Ludovicus Dux. etc. et fficium. Hec sunt que in mandatis dami . vobis, carissimo secretario nostro ser Antonio de Ivanis ituro Mediolanum nostra parte. Curabitis ante omnia quam primum et celerius fieri possit Mediolanum vos conferre et conspectum illius Ill.mi Principis si fieri poterit adire , et si non fieri poterit, in quo honeste contendite , ut saltem celeriter quia res hec celeritatem quandam exposcit, petens ab 111.ma illa domina ducissa et Ill.mo comite Galeacio audiri. Quibus omnibus vel seiunctim vel coniunctim, prout fieri a vobis poterit, verba hec nostro nomine exponetis, (1) Archivio di Stato. Istr. cit., filza cit. 42 GIORNALE LIGUSTICO redditis litteris nostris credentialibus per quas verbis vestris fides adhiberi possit et preposita pro more commendatione nostra. Ex relatione Gotardi legati nostri (i), post conditiones et pericula ac labores nostros latissime Excellente illius principis declaratos, cum propter vulgatam famam serenissimi domini regis Franchorum qui ad res nostras animum adhibere dicebatur, tunc propter tactum Saone que in manibus gallorum multa damna multas impensas magna in re omni nostra sollecitudine afferebat, et ea a nobis superius commemorata que saluti nostre et utilitati illius III.mi Principis que cum nostro conventu est convenirent, licet plura nobis fieri posse viderentur que tunc ab excellentia sua nequaquam comprobata sunt. N o demum consiliis sue Escellentie quietos remansisse, spe nobis per suam excellentiam adhibita quod rebus nostris uti suis consuleret et provideret. Legatos quoque in Galliam misisse, a quibus magna cum celeritate mulu pernoscere confidebat que sibi nobisque ad omne consilium remedium quoque proponere possent. Quod providere duplici ratione credidimus, primum quia ex ore tanti principis huiuscemod» verba prodire videbantur, tum quia sciebamus res nostras ita es omni parte cum suis coniunctas esse ut omnis fortuna omneque consilium comune videretur, nec nos oblitos fore cum aliquando prefatus legatus noster longitudinem temporis moramque rebus nostris per maximam iacturam alTerre posse : . . . Excellentiam suam respondisse hoc ei et sue sapicntic non ignotum esse, sed talem diligentiam adhvbiturum quod intra festa natalia ita aliquid perspectum haberemus quod rebus suis nostrisque consilium datum afferret, sane esse elapsum totidem tempus, et famam esse legatos suos alio-rumque Italie nationum aliquid ad suos iam perscripsisse, nos vero omnino ad hunc diem ignaros esse quid actum sit quidve agatur. Quod certe nos in maximam curam ac solicitudinero trahit. Libi ceteras nationes italtcas in Gallia esse videmus isticquc fama omnium plura agitari que non parum ad res pertinent tempusque veris, iam instantis quo bellorum apparatus fieri solent. Et nos solos esse qui nec arte illius potentissimi regis animum pacare suademus, nec arma si expediret parare videamur. Ob id non ultra differendum fere rati, misimus vos ad cius conspectum ut intcliigamus que sint in tanta re eius consilia, quidve de mente illius regis erga nos explicatum habeat, quidve pro sua nostraque salute excogitasse videatur. Que res quemadmodum ad hunc diem dilata est et periculis immensis.... facta , ita responsum certum et sine ulla dilatione re· (i) II cj£ucUacrc Coiuià» S'.c’b. GIORNALE LIGUSTICO 43 quirit, sicque suam celsitudinem oramus ut quemadmodum latissimam spem nobis prebuit nec consilio nec auxilio nobis deesse, ita nunc efficere velit ne diutius suspensionibus et dilationibus rerum ducti in pericula sibi nobisque communia incidamus. His primis verbis arbitramur sufficere ut ille princeps inducatur vobis aliquid respondere, quod si tale esset per quod intelligeretis aliquid ab eo acti:m esse quod ad salutem vel consilium rei nostre pertineret, quodve videretur nobis prius significandum quam ad ulteriora procedendum, tunc non ultra procedite sed significate nobis velut nuntio ut eius responso cognito et his que iam acta essent novum consilium in eo quod ulterius agi oporteret capiamus. Si vero responderetur vobis nihil etiam ab eo actum esse vel perscrup-utum quod consilium afferre nobis possit, sed in dies expectare rem, vel huiuscemodi communiter verba vobis darentur, dicendum a vobis erit periculosissima nobis esse huiusmodi suspensio et res nostras nequaquam pati posse ut incerto consilio regantur, et maxime superveniente tempore quo multa provideri solent, superesse paucum tempus quod transitum in Italiam liberum facere possit, sciturus negotia nostra , ut vulgariter dicitur, in ludo esse et de periculo nostro agi nobis dormientibus, non modo quoque in huiusmodi suspensionem ingens detrimentum accidere nobis posse, sed omnes Italie nationes quam maxime improbari quod ad regem legatos non miserimus vel pacando eius animi causa vel sallcin explorandi quid vellet a nobis. Quod certe et si non fecimus fuit ne aliud consilium in rebus nostris suscipere videremur nisi quid sue Ëxccllcmie gratum et omnino.... videretur ubi maxime nichil a sua Φ celsitudine agi posse crederemus nisi quod cum salute nostra coniuncta esset. Sed nisi sua hxccllentia aliud nobis persuadeat, licet sero factum videri potuerit, mittere in Galliam demum aliquem ex nostris non aspernabimur qui . . . libertatem nostram, nos inde illius regis aliquo modo conciliet, vel saltem nos de his certos faciat quod consilium pro nostra salute afferre possit; et hac causa placere nobis eo celerius in Galliam mittere quo sua legatio istic propius ad adiuvandam rem nostram esse possit. Quid agent cum co rege legati venetorum non est nobis notum, et tamen talia agi posse que periculosa esse vel saltem perspecta minus mali afferre possent. Rogare nos Excellentiam suam ut ad hoc consilium suum nobis gratum adhybeat : displicere plurimum nobis invalitudinem suam que plurcquc in dic ne forsitan diligentius fiam sed eo nos exinde diligentius reddi ut prout in nobis est mutuo consilio suis ct nostris rebus provideamus. 44 GIORNALE LIGUSTICO His ... et verbis inteligetis aperte quid sua Excellentia sentiat an de mittendo in Galliam an non mittendo. Si de mittendo consilium tunc dicetis gratissimum nobis fore si sua Excellentia nos moneat quibus verbis quibusque modis quibusque conditionibus placanda sit illa . . . maiestas. Si vero nec mittendum nec non mittendum dicere videatur, dicetis vos ad nos reverti velle quos satis in magna expectatione reliquisse quid agatur, et capta licentia, ad nos redite, rogata tamen Excellentia sua ut quidquid prope diem a suis sentiat quod ad rem nostram pertineat significare nobis velit. Interea quo istic permanebitis curate diligentius perscruptari quanti ille princeps valeat, quid de eius egritudine speretur, quidve populus ille mediolanensis illo tempore dicere vel murmurare videatur, quomodo, contingente casu mortis illius principis.....se velle videatur, que sit in populo illo de gallis opinio, quidve de venetis an ne cum suspictione ipsorum vivatur, quidve vulgo dicatur de his que a suis legatis in Gallia gerantur, et demum quid et ab his et ubicumque de his in huiusmodi rebus perscruptari quidpiam potestis. Id agite sedulo ac diligenter ut soletis, et si quid prius scribendum erit quam veniatis id agite. Sistendi enim et redeundi pro forma omnium que superius dicta sunt damus vobis arbitrium, licet ut inteligatis decreta est habere legatio vestra ad dies quindecim. IV. Antonius Hyvanus Meduseo S. D. O ... . . . Quae de pertinacissima Nigropontis expugnatione moestis quidem et prolixioribus litteris nunciantur , succinte summatinique ad te scribere constitui , quo et tu forte iam commotus ad dolorem ob varios vulgi rumores , re melius intellecta miserandam tot orientalium Christianorum stragem ingemiscas. Septimo idus Junii anni presentis Constantinopoli solvit potentissima turchorum classis, quae triremium centum et birremium ducentarum fuisse affirmatur. Haec vi capto in insula Lembri oppido, prae-sidioque trecentorum peditum interfecto quod illic Veneti statuerant, quinto Kal. Julii Euboiam insulam invasit. Eadem die turchorum princeps cum terrestri exercitu, in quo centum millia equitum , peditum ducenta millia fuisse traduntur, iuxta Beotiae littora castra posuit. Pridie eiusdem mensis Kal. ex continenti ad Euboiam insulam Beotie oppositam navalem pon- GIORNALE LIGUSTICO 45 tem duxit longitudinis cubitorum trecentorum , latitudinis centum viginti, per quem exercitu in insulam traiecto , haud procul a Nigropontis moenibus tentoria figi iussit. Tripartita locavit castra. Vi tormentorum-et assiduo lapidum iactu moenia mirae latitudinis disiecit, ac plures domos intra ipsa moenia perfregit. Pridie nonas ejusdem mensis tria equitum millia per omnem insulam misit, a quibus populata et vastata est, ac multi populares interfecti. Inter haec iuxta ipsa urbis moenia utrinque acriter pugnabatur , et cum ingens turchorum numerus variis praeliis occubuisset, eorum cadavera simul cum interfectis equis praeparataque lignorum mole ad fossam urbis replendam aequandamque in ea iussu saevissimi principis iniecta sunt. Quae omnia igne ac sulphure urbani -delere conati non sine utriusque partis ingenti cede hostes a fossa et moenibus repulerunt. Quatuor sequentibus diebus in ipsis disiectis moenibus summis utrinque viribus pugnatum est, capta vi duo signa hostium militaria. In quibus quatuor acerbissimis proeliis occubuere ad triginta millia turchorum. Urbanorum vero ad tria millia. Dum esset res in tanto discrimine, proditio Thomae Illirici longe antea cum praesidio peditum a Venetis in Euboiam missi de urbe dedenda hosti a propria uxore detecta est. Is cum centum ex suis peditibus consciis tanti facinoris obtruncatur. Quinto autem idus Julii paulo ante lucem hostes adhibita omni classe, summo cum totius exercitus conatu adorti moenia solo aequata, post longam et ferocissimam pugnam eamdem victores urbem insignem ac opere naturaque munitam ingressi, praeter puberes , ceteros omnes utriusque sexus crudelissime trucidarunt, urbem deformarunt, templa polluerunt. Turchorum princeps, collectis omnibus copiis, ad quadraginta pugnatorum millia comperit amisisse. At ex urbanis praesidiariis peditibus et reliquis insulanis utriusque sexus ad sex-decim millia interierunt. Magnam profecto constantiam animorum ostendisse feruntur illi strenui urbis defensores. Rebus enim desperatis paulo ante quam in moenibus pellerentur, praeter arma, in foro publico quaeque alia eorum bona igne consumpserunt, ne in hostium potestatem devenirent , ingentemque per singulos vicos usque ad extremum vitae spiritum stragem de hostibus fecere. Fuit haec urbis clarae Nigropontis miseranda et lachrimabilis expugnatio, quae utinam christianos omnes ad vindictam tantae cladis acceptae commoveat. Dum haec agerentur, classem augebant Veneti, cuius terrore ac viribus obsessae urbi subvenirent. Triremes centum , naves onerarias quadraginta et alia minora navigia circiter sexaginta in armis habuere. 46 GIORNALI- LIGUSTICO Sed cclerior et efficacior luit pertinacia hostis ad urbeni opprimendam, quam omnis venetorum apparatus tam brevi potuerit expediri. Erat praefectus venetae classis haud procul ab hostibus cum triremibus quadraginta quum urbs ipsa ultimo proelio subacta est. Pars reliquae classis in Peloponneso praestolabatur, pars Venetiis accelerata, ut simul iuncta et facta robustior cum hostili classe confligeret, aut alia ratione succurreret obsessis. Vale. Vulterris XIIII Kal. Septembris MCCCCLXX. V. Auto. Hy. Bartholomeo Scala fiorentini populi secretario S. D. Accessit huc hodie profugus, ut ait, quidam ex nostris hericensibus (sic), cuius frater est noster civis et collega meus in magistratu. Apud turchorum princeps diu mansit hostiarius, et illi, ut ferebatur, gratus. Constantinopoli abiisse dicit pridie Kal. Maji et Chium venisse celeri cursu. Haec enim refert. Principem illum adversus Velacos intendisse animum et vires, ultionis avidum ob acceptam ab eis cladem , ac esse in castra profectum idibus Aprilis. Exercitum vero esse armatorum maxime equitum centum quinquaginta millium. Classem triremium ac biremium trecentarum supra navigia quedam oneraria ultra Constantino-polim decretam in Ponthum contra Velacos. Reprobat hic semestres inducias , quas Veneti expectant, cum hae illi expeditionem suam presentem reddant faciliorem. Affirmatque illum omnino statuisse sequenti anno adoriri Venetos totis viribus, cum speret hoc anno delere Velacos. Aetatem eius dicit esse robustam et praeter crura interdum podagris infecta, corpus reliquum salubre quamvis pingue. Is postquam in Peloponcsum venit, accepisse affirmat illum principem ex castris advectum esse quadriga egrotum .in Constantinopolim, et pestem exercitum classemque invasisse. Magnifico Laurentio Medici haec nota sint et aliis quibus voles, modo tuae probitati notitia eorum digna videantur. Vale. Sarzana VIII. Kal. Julias. VI. Anto. Hy. Gabrieli Ricobaldo, Bartholomeo Minucio et Sebastiano Borsello Volaterranis S. D. Turchorum princeps Mahemet, ut audivisse debuistis, claram urbem Capham, quam in Pontho Genuenses possidebant, partim suis viribus, / GIORNALE LIGUSTICO 47 partirti proditione occupavit. Sed, quod Iachrimabile est, praeter puberes interfecti sunt omnes latini, greci et Erminii qui urbem incolebant. Considerate, quaeso, quot urbium infelices exitus et quot clades a paucis annis citra supervenerunt. Chium est in summo periculo et metu. Quod si amitteretur, portus duos valde opportunos haberet Christianorum hostis, Euboiam et Chium, ad invadendum et obtinendum quicquid inter Adriaticum sinum, Siciliani et Calipolis angustias continetur. Populo suo misereatur Deus. Nihil enim accidit, nec accidere potest, nisi eo volente aut permit-tente. Est profecto numen eius ubique presens. Valete. Sarzana VIII. Kal. Octobris. VII. Antonij Hyvani Sare^anensis ad Volaterranos Epistola. Plebeius ad me rumor delatus est, quo intellexi haud bonam istic de me opinionem haberi ob alluminis concessionem factam. Sed ab his qui obloquuntur et perverse cogitant scire vellem an ignorabant vestras leges concives vestri cum illas condiderint, et an mihi non licebat sequi verba legis quae de officio cancellarij scripta comperiuntur. Si ergo non ignorabant leges vestras qui condidere, cur in consiliis publicis concessionem ipsam non reprobarunt? libere enim quisque loqui potest in consiliis pub-blicis vestre civitatis. Et haec apud vos consuetudo est ut suffragis redditis vel approbetur vel abnegetur, si quid recte vel perperam videtur obtentum. Quis autem vel reprobavit vel contradixit? Num ne a pluribus pro comuni bono et ecclesiarum utilitate laudatum est negocium ? Num ne omnes fere aiebant fodinas illas inanes fore? Si Deus igitur et civium concursus rem preciosam quamvis obscuram nobis detegi voluerunt et ad humanae vitae utilitatem conferri, cur me calumniantur etiam forte illi qui suaserunt? Certum est enim, detecta rei amplitudine, me hortatum esse conductores ut in vestram rempubblicam liberaliores essent. Quod cum offerrent se facturos, reiecta fuit eorum oblatio ab octo civibus vestris , qui cum delecti essent ad tractandam novam compositionem aliud semper visi sunt in animo habuisse. Hoc igitur argumento facile dignosci potest me et optasse et procurasse commodum et honorem vestrae civitatis. Hisdem temporibus libri et scripta omnia quae voluerunt octo illi cives ipsis a me quidem tradita sunt. Quin mansi Volaterris menses quatuor assiduus, postquam de huiusmodi re varie dici atque agitari vulgo est ceptum. Si me ulla in re tanta facinoris prava conscientia oppressisset, num ne istinc abire potuissem ? Quis prohibebat ? meo autem in discessu 48 GIORNALE LIGUSTICO -,----\- post menses illos quatuor cum uxore et sarcinis qui palam fuit, num ne reformationum liber et originalia capitula postulantibus dominis prioribus relicta sunt ? Cum denique paulo post huc me contulissem ad aliud exercitium traductus, num ne vocatus a magistratu plane ad vos redii? num ne triduo inter eos palam versatus sum? Recessi annuente preposito vestri magistratus, et in ipso quidem recessu medici vestri Pisas una me-cum proficiscentes et horam et opportunitatem sequutus sum, pollicitus verbo, litteris et relationibus plurimis vestrorum concivium me iterum istuc rediturum si opus videretur. Hac ego bonitate, liberalitate, benivo-lentia usus , pro his accepi calumnias iniustas non solum in vestra civitate , sed apud dominos meos clarissimos cives florentines , quos tamen arbitror pro sua sapientia, et intemperantiam vestrorum oratorum et innocentiam meam plane perspexisse. Arbitrati ne sunt vestri oratores falsa illis pro veris credi? An potius obliti sunt apud eos agere, qui linceos dicuntur oculos habere? fuit ne preterea hoc indicium iusticie fidei et caritatis erga hominem amicissimum vestra civitati ? Si demum testantur scripta vestra publica diligentiam et integritatem meam, cur vestri oratores impudenter contradicere conati sunt? Iudicate, quaeso, vos ipsi an hec perfidia sit aut levitas. Non erat mihi molestum si de legibus vestris disceptabatur. At quum ad me calumniandum leviter prorupistis, Florentiam scripsi quae mihi visa sunt, ad me purgandum honestatidumque, et ea scripsi moderatione verborum qua solum conarer vestrorum oratorum maledicta superare. Non profecto invenietur in scriptis meis mutata concessionis dies, quod ad rem facit plurimum , ut creditis , non variata capitulorum substantia, non auctus vel diminutus numerus lupinorum. Derogatio autem illa, quam nonnulli dissimulantes tanti facere videntur, est ne amplior ea quae in consiliis legi solet, an potius brevior ac forte remissior? Consultatio demum quae in originali quinterno scripta est, libro meo comparetur et ostendatur. Sic quidem veritas perquiri solet, sic honestum sequi possent, qui fe-diorem ad maledicentiam , quam meliorem ad equitatem et modestiam aditum inveniunt. Non enim decet bonos viros ea ostendere in eadem causa quae obesse amico arbitrantur et ea occultare quae in lucem educere veritatem possunt. Hram profecturus Florentiam hortatus ab amicis, quo melius audirem quae inique ferebantur et pro solita mea mansuetudine responderem. Sed cum accepissem iactasse vestros oratores profecturum me quo adversariorum vestrorum causam confoverem destiti, ne me alium quam amicum sibi arbitraretur vestra respublica. Hortamini ergo maledicos GIORNALE LIGUSTICO 49 et insolentes a me quondam iuste vestris legibus persequutos, quod alia ratione ulciscantur, alioque pacto perquirant commodum suae civitatis. lurpe est enim vestrae reipublicae pati virum affici conviciis quater ab ea delectum ob experientiam suae bonitatis et a quo totiens ipsa perpetuis Laudibus celebrata est. Utinam credidissent mihi nonnulli ex vestris optimatibus nimia capti quidem invidia et aviditate acquirendi. Staret res ipsa meliore loco et ego quemadmodum tristor de vestra contentione , sic letarer quod pluribus commodis et suavi quiete frueremini. Senis die XII Iuiij 1471. VIII. Sogno dell'Ivani narrato a Clemente Bonifacio d’ Areola (1). .... Tacito igitur mihi dormienti fantasia quaedam, ut vult Hypo-crates, facta est. Nam cum ex placidis undis aquarum lactei coloris velut raptus penetrassem in orbem lucidissimum , et is esset amplissimi ambitus, parietes cuius in circuitum cristallinae videbantur, in ipsius orbis medio suspexi tres pares personas eiusdem maiestatis et gloriae. Sed unam adoravi, quarum maximum splendorem sustinere non poteram. Contiguam illis inferius pari prope gradu virgo aderat plena omni decore atque ornatu, cuius oculi lucem quandam puram, ut stellarum radios, mittere videbantur. Aurea undique sedilia et quidem innumerabilia gradatim per circuitum apparebant. Plura ex his plena erant laeta gente, quae assidua contemplatione intenta in divinam maiestatem pari iocunditate, sed dispari gloria exultabant. Occupandi locum ex tot sedilibus vacuis voluntas incesserat. Sed armoniarum suavissimo sonitu retardabar. Cum denique discurrerem , locus non dabatur. Nam , ut appropinquabam , alius praeoccupaverat. Dolere caepi mecum ac prope indignari. Tum virgo subridens fronte sereno piaque voce: abi, inquit, amice ; nondum advenit hora tua. His auditis, nulla interiecta mora, evolavi per fenestram trium columnarum smeraldini coloris lucentibus, ornatam gemmis, deorsumque gradatim rapiebar per stellarum admirabiles globos et varios orbes, qui velut rotae quaedam velocissimo impulsu circumferebantur. Iam redieram in hanc terrenam aerumnarum molem. Suppressit me somnus moesticia quadam relictae beatitudinis. Cum vero viderer haec in foro nostro pubblico amicis enarrare, supplicatio, quam processionem vocamus, in somniis, a templo (1) Ometto la prima parte della lettera, in cui parla di alcuni famosi sogni antichi. Giorx. Ligustico. Anno XIII. 50 GIORNALE LIGUSTICO Divae Mariae virginis apparatu solemni adveniebat. Processi obvius meque ceteris aequalibus aggregavi. Dum iuxta templum divi Andreae venissemus in precedenti clero subortus est pavidus rumor. Acceleravi conspecturus quidnam id esset. Apparuerat enim sacerdos antea defunctus. Is a pedibus usque ad humeros consuetum corporis habitum gerebat. Collum vero et ' caput habebat equinum. Cum varie interrogaretur a pluribus et rauca voce pauca responderet, me per dexteram apprehendit et relicta in vico turba, gravi quidem incessu duxit in proximum diverticulum. Stetimus ambo. Stupore ego territus conticebam. Tum ille: Veni ad te praesertim, quem dilexi docilitate ingenii qua vales, et ut me sequaris: precor. Ad haec factus mente constantior ita respondi : Meminisse me mutuae dilectionis. At monstruosam illam suam figuram admirari, optareque, ut priusquam progrederemur, accessionis locum declararet. Amice , inquit, dum in se-culo fui, publice incedebam elato fronte ac grandi supercilio. Existimabam me sapientem, cum essem insipiens, et humana quam divina pluris faciebam. Cum vero tne religioni dicassem puris actibus exercendae, ad corporis nimias declinabam voluptates, quae quam sacris contrariae sint, non sine summo animi dolore tibi enarrarem. Heu me miserum , hac tacita recordatione sprete dignitatis ingemisco. Placuit igitur aeterno ac sapientissimo iudici, ut figuram hanc feralem geram mihi sane gravem et molestam quoad purgatae insolentiae curiositatisque humanae tempus advenerit. Tu vero me tibi amicum sequere, nec scisciteris ulterius. Perducam te incolumem, ubi et regionem stupendam et horrentiora iudicia videre poteris. Pergebamus itaque per declivem locum ac sane atrum. Tandem ad amplum foramen caliginosae lucis pervenimus. Apparebat hinc subiecta regio fumosis collibus, per quam vasta et praerupta flumina supra naturalem discursum rapacissimo impetu ferebantur. Altissimae vero rupes, clamoribus resonantes, regioni undique imminebant. Horrui primum et convolutus redire properabam. Noli, inquit sacerdos, abvertere, cum tibi haec nocere non possunt. Ut per hanc rupem descendamus necesse est, et ostendam tibi quali afficiuntur poena , qui dum in vita erant, libidinose spectari ac spectare voluerunt, nulli operi bono intenti. Sed sic molliter, ocioseque viventes, ut nec patriae, nec parentibus, nec amicis, nec religioni utiles frustra nati viderentur. Similis precipitio descensus erat, et cum recusarem, ascende, inquit ille, humeros meos, cri-nesque strictis manibus apprehende. Quod cum fecissem , me summa celeritate ad antrum tulit rectum quidem et oblongum nimis. Cacumen eius curvum erat. Ab utraque latere foramina innumerabilia cernebantur. GIORNALE LIGUSTICO r 51 In ipso curvi dorso planum iter et rectum, refertumque nudis umbris utriusque sexus iuvenilis aetatis. Hae, quo magis appropinquabamus, eo se celerius, ut ranae in paludem, per foramina in antrum praecipitabant. Et cum illis terga verteremus, in ipso rursus cacumine videbantur. Quidnam id sibi vellet, accuratius interrogavi. Tum sacerdos: Hae quidem umbrae cuiusquam aspectum pati non possunt et quod saepe accidit, huiusmodi traniugio affliguntur, ut in quo dissolute peccarunt, coacte puniantur. Sed responde, inquam, o pater. In antro hae quid agunt? aut quo modo agitantur ? Est ne aeterna punitio haec ? In antro, inquit, sunt moerores et luctus: verum purgatio haec est, quam punitionem dicimus. Interea horrendi sonitus ad instar tonitrui audiebantur, et per fumosos colles umbrarum agmina spectabamus. Satis, inquam, vidisse puto ; manifesta haec recte vivendi exempla sunt. Redeamus quaeso in orbem, unde me eduxisti, et adiutor esto, ut hanc rupem conscendam: boni ducis et veri quippe amici officium feceris. Apparuit tunc nobis tortuosum iter et sane angustum. Ille porrecta dextera me ad foramen reduxit, et simul in vicum redivimus in quo primum se ostenderat. Egi sibi gratias: abiit ipse moestus, ut erat equino capite, in propinquum divi Andreae templum. Ego autem somno experrectus meo in lectulo iacebam. IX. Antonius Ivanus Petro Puritati S. (1). Scripsissem ‘ad te jampridem, Puritas, aliquid litterarum mearum tum benevolentia, tum familiaritate nostra, ne alium me putares, quam antea cognoveris ; sed cum novi nihil acciderit, praeterquam morbo quodam gravabar , obmittendum constitui, ne plus amaritudinis tibi litterae , quam jucunditatis attulissent. Recta modo valetudine, Deo favente, restituta, satisfaciendum decrevi, sed longe magis, quam antea. Nam pro egritudine valetudinem, pro verborum penuria novum accipies opusculum, id que non perornatum, ut tua meretur praestantia, neque sententiarum gravitate compositum , ut hujusmodi negotio conveniret, cum nulla sit (1) Codice membranaceo 95, esistente nell* Archivio della Cattedrale di Novara. Io mi val<*o della copia procurata dal Bertoloni (Ms. I, p. 277) e da lui pubblicata con qualche inesattezza nella sua Antonii Ivani Vita cit. p. 22 e segg. 52 GIORNALE LIGUSTICO in me vis ingenii, nulla memoranda facultas, sed rei summa paucis attinges. Quid hoc sit, nunc intelliges, ne longiore te sermone detineam. Cum his diebus liber quidam historiarum vulgaris , auctorem cujus aiunt Leonardum fuisse Patavinum , ad manus venisset, ipsumque propter quandam verborum gravitatem , et ordinem rithmorum libenti studio lectitarem , historiam excidii Lunae fato quodam adinveni. Quamobrem existimans omnem illius urbis memoriam (si quam retinebamus) cum caeteris rebus flamina periisse eam sane historiam ex vulgaribus rithmis tum gratia tui, tum patriae , cui plurimum debemus, in latinum studio meo conversam ad te mitto , ne illius omnino memoria careamus , ex qua non originem modo patria, sed spiritualis etiam dignitatis heareditatem traxit. Eam igitur legas velim, praestantissime vir, et nisi indigna tibi videatur , caeteris legendi copiam facias. Vale. Sequitur narratio de excidio Lunae per Leonardum Patavinum. Fuerunt quidem ea tempestate, qua Romani diu jam libertatem, et imperii magnitudinem amiserant, in occidente populi Danenses appellati sine lege , sine moribus , inculti, pravique, vita quorum magis latrocinio, quam bonis artibus ducebatur. Nam quamprimum a Romanis Imperatoribus defecere, sive rege, sive imperio cujusquam regebantur. Sparsi, vagantes, aperte modo spoliare peregrinos, modo finitimos ex occulto praedare. Suam quisque voluntatem pro lege statuebat, neque turpem famam, neque Deum timere. Sed ubi ex pessimorum frequentia rapinae, caedes, bella intestina , tamquam perniciosa pestis, invasere, brevi magna pars eorum loca natura munita, caeteri vero alia loca propinquiora litoribus occupavere. Illi quidem, quam ut antea habebant, ad eamdem vitam iisdem pene moribus finitimos nitebantur. Hi autem, quibus id studium propter locorum importunitatem defuerat, statuerunt alio modo fortunam tentare. Cum igitur et planitiem quamdam (licet aridam), et litora propinqua possiderent, agriculturam pariter , et classem piraticam decrevere, quibus vitam, quacumque possent arte, substentarent. Nam multis jam annis a commerciis desueti, quo et fidem, et opinionem bonitatis apud exteras nationes amiserant, ad ea quadam necessitate cogebantur animadvertentes nequaquam absque praefectis agi posse propter varias tot mortalium opiniones. Duos ex callidioribus viris elegere, Her videlicet, ac Divi-smarch viros audaces, et subdolos, quorum ingenio commodius utrumque negotium procederet. Deinde post paucos menses comparata classe, numero GIORNALE LIGUSTICO 53 biremium , et alius generis navigiorum copiosa , quae sorte Divismarch obvenerat, ac ex validioribus viris integra legione delecta, secundantibus ventis, dux in altum contendit. Nonnullis itaque diebus errantes flagitiosissimi viri non multum ad navigationem experti, Normandiae tandem fines ob diutinam pacem opulentissimos applicuerunt. Ubi duobus oppidis, quibus armorum nullum munimentum erat, manu ex improviso captis , praedas ex proximioribus locis agere, singulis diebus incendio, et clade omnia miscere. Tanta enim erat in eis atrocitas , tanta vis cupiditatis, ut nihil humani, nihil omnino pudoris haberent, et nisi adversus eos propere Normandi comparassent exercitum , profecto depopulationibus incommodis, cladibus longe majoribus, et incendiis provinciae reliquum dévastassent. Collecits igitur quae manu rapuerant, ad litus hostium metu se se recipiunt, ibique laetari, gloriari , alius alium appellare , sua quisque facta ad caelum ferre. Dux autem alium modo , modo alium laudare , hortari , ac ne desisterent a caepto jam facinore, maiora polliceri. Qua-mobrem est inter eos orta contentio, cum alii ad lares redeundum, aliis, quos cupiditas maior invaserat, facinus prosequendum censerent. Sed quoniam ex ea contentione seditio vehemens oriebatur, Astench, unus ex primatibus , vir maximae ambitionis , et litteris admodum eruditus , qui apud Siculos aetatem ab ineunte adolescentia usque ad exactam ferme juventutem consumpserat, advocata concione , ut res postulabat, hujuscemodi orationem habuit: « Admiror equidem, socii, vehementer admiror nonnullorum sententiam, qui ab inceptis revocandam classem adhortantur, ac si divitias adepti essent, maximosque honores consecuti. Sed respondeant quaeso, ubi haec sunt, quam adhuc urbem subegimus, quam reportavimus famosam victoriae laudem? Vix mensis elapsus est, quod inopes hanc fortunam tentamus, et jam velle videmini secundis rebus finem facere. Non est consilium, socii; nam quanto minus a classibus adversamur, tanto maiori studio nitendum est ; animi nobis vigent, valet aetas , fortuna secundat. Quid reliquum est, nisi ut ingenia nostra , viresqne experiamur ? Renovate animos , et communem hanc urbis fortunam capessite, ne semper in aerumnis degamus pro vestris uxoribus , liberis , et piis matribus, quae forte vos ita monuerunt, divitias, gloriam , et honores amplexamini, quibus et ipsae aliquando gratulentur, et demum vitam nobiscum felicius agant. Classem construximus amplam, et validissimis virorum corporibus illam munivimus, non ut ex miserrimis illico miserrimi rediremus, sed aut moriremur, aut ne frustra tantum videremur opus composuisse. Sed per Deum immortalem nequaquam est verendum; nam et maria nunc admodum tuta sunt, et multae nationes 54 GIORNALE LIGUSTICO incautae, quo facilius invadendi, tandemque, si opus esset, evadendi viae patebunt. Quare censeo ducis opinionem caeteris rebus anteferendam, ut hac videlicet nostra classe Romam petamus urbem magnam, et opulentam. Nam cum ejus maxima pars (ut accepimus) iam deserta sit, ingenio quidem nostro facile superandam existimo. Sin hoc autem commode fieri nequiret , aderunt aliae urbes non procul ab oris maritimis conditae, quas forte pigebit nostrarum calamitatum commiserationem habuisse , si relinquamus. Itaque litus hoc nobis infestum , secundamque fortunam prosequamur , ne ex dissidiis fortasse vestris indignationem concipiat, et mutata, vos poeniteat eam contempsisse ». Postquam Astench loquendi finem fecit, alius alium increpare, movere, hortari, omnes propterea sententiam ejus approbare , crebris tandem clamoribus in classem reversi. Paulo post versus orientem iter maturant, qui ubi nocte quadam prope Lunam in Tusciae finibus ab occidente conditam , urbem satis amplam, et candidis admodum marmoribus exornatam attigere , statim ab exploratoribus duarum biremium , quas ex consuetudine singulis noctibus praemittebant, accipiunt se Romam perventos , arbitrantes eam non ultra quatuor stadia a mari distare, ut ex inepta quadam navigandi doctrina perceperant. Quambrorem non inconsulte, sine strepitu, sine clamore biremes in flumen urbi vicinum, licet ob sirtes in ostio perangustum, inducunt. Caetera vero navigia, quae longe minus tumidis jam fluctibus quassabantur, demissis anchoris prope litus adligant ; sed cum ea nocte in urbis majori templo vigiliis, ac devotione pro Salvatoris nativitate celebraretur, ibique cives complurimi (ut assolet) convenissent, hujusmodi verba quidam ado-lescentulus canens Epistolam pronunciavit : Adverte , Luna , classis adventae periculum, animadverte. Quibus auditis, intueri iussit Episcopus, an ita scriptum esset, quod minime scriptum accipiens non sine stupore quodam adolescentulum objurgari fecit ; at ille prosequens iterum et eadem verba pronunciabat. Confestim cives tum prodigio , tum repentino metu perculsi discedunt , qui adventante diluculo classem ante faciem urbis animadvertentes arma capiunt, vigilias circum imponunt, alii tumultum faciunt, nihil aliud quam sciscitandi causa diem expectare. Interea Dani, etsi postquam descenderant, iliam Romanam urbem non esse cognovissent , constituere tamen invadendi viam tentare; nam, adversantibus ventis, necessario moram trahebant·. Igitur Astench summo mane cum paucis ad civitatem missus, qui simulando veniam oraret, quoniam libere litus petiverant j nocti culpam, et tempestati daret miserando salutem non infestae classis, atque rerum venalium copiam deposceret; item polii- GIORNALE LIGUSTICO 55 ceretur, eam, pacatis fluctibus, abituram., retulit, Episcopum praefec-tosque populi benigne singulis annuisse. Tunc ad urbem multi proficiscuntur , quorum alii res novas, et inusitatas’ vendere , alii emendi gratia cum civibus ingredi, nonnulli cum civili juventute jocari, ac luctandi, raculandique (sic) ludos agitare, quosdam ad castra ducere, ac deinde cum eis reverti. Tanta fides, tanta brevi familiaritas afluit, ut a Lunensibus omnis pene suspectus adimeretur. Sed illi quidem infestos animos callide occultantes die noctuque nihil aliud quam praedam , et incendium excogitabant. Erat urbs .... armis , atque divitiis opulenta , neque factionibus ullis, neque seditionibus animi civium vexabantur. Quamobrem manu timentes viri scelestissimi tantum facinus aggredi, ne , si tentassent frustra, sibi ipsis perniciem attulissent, dolis id exequendum constituere. Divulgarunt igitur, eorum ducem , quem , ut rectius loquamur, archipiratam possumus appellare, quodam aegritudinis morbo gravari ; quapropter moestitiae multum simulabant. Deinde post quintum diem ab excubiis moenium audiuntur vociferationes crebrae media nocte per litus emissae, praeterea crebris cum facibus plerique vagari videbantur. Excubiae civibus hoc referunt, ac statini perspectum reddunt. Quid illud significaret, recte nemo intelligebat. Postero vero solis ortu Danensium oratores ducem simulate nunciant ea nocte morbo, quo gravabatur, assumptum, locisque religioni dedicatis ex testamento magnum argenti pondus reliquisse , deposcentes ob digniorem viri jam singularis venerationem sepulcri locum in templo, quod supra memoravimus , concedi. Quod ubi facile obtentum est, ad castra revertuntur , funeralia parant, legionis tertiam partem secreto (ut ordinaverat) armari iubent, armaque clamidibus tegi, ne quo pacto cerni possent. Ducem quoque armatum prosternunt in feretro, ipsumque funeralibus ornamentis operiunt. Interea Praefecti urbis , centuriones , togatorumque maxima pars obvii procedunt. Illi quidem armatos instructe, lentoque passu, ne arma concuterent, subsequi feretrum edocentes urbem simul cum civibus ingrediuntur, Astench in castris cum reliqua parte legionis relicto , qui , signo dato , propere subsidio foret. Ubi vero feretrum ante maius altare deposuerunt, ac ordinata proditorum manus convenit, dum funus exequeretur, dictus, quem mortuum, simulaverant, dato signo, confestim insurgens, Episcopum novitate rei trepidantem femç)(aggreditur, vulnerat, suisque demum lictoribus obtruncandum relinquens armatqs ad cladem caeterorum magna voce compellit. Lunenses autem, inexpectata proditione perculsi, mox in eos impetum faciunt, sed gladii compressi cadunt, alii fugam arripiunt exire conantes, ut arma caperent, universumque populum ad· vipdictam tanti 5 6 GIORNALE LIGUSTICO sceleris provocarent, verum a Danensibus impediti, qui limina templi jam jam obsederant, inique trucidantur. Astench interea , praemissis vi-ginti delectis, qui portam claudi prohiberent, eam magna manu sequente invadit, interfectisque custodibus, qui oppugnando se probe gesserant, ingreditur. Ex civibus tunc alii fugiunt, alii arma capiunt. Commota omni civitate tum hoc, tum primo insultu , praelium incipitur; multi ex utraque parte laniati cadunt. Cives enim, adolescentulis, atque mulieribus ex alto juvantibus, lignis, igne, lapidibus, hostes fundunt, fugantque ; sed illico subvenientibus, qui parum antea cladem fecerant, suos a fuga revocant , ac simul in cives maxima vi concurrunt. Ibi fortiter undique certabatur. Tela partim volare , partim quominus emissa vulnerabant. Quisque Lunensium praefectus omni studio curare suos , hortari, ac ibi maxima pars trucidatur. Caeteri vero, quibus aliquantulum carior vita fuit, relictis uxoribus , et propriis liberis ad montes propinquos confugerunt , ex quibus impigre circumjacentes populos ad succurrendam urbem sollicitabant. Danenses autem , postquam eam defensoribus privatam, ac se tutos viderunt, in adolescentulis , infantibusque, quos in abditis locis reperiebant, ac mulieribus nonnullis depopulationem nectentes miserandam stragem fecere. Demum post quatuor dies, quibus intenti praedae fuerant, intelligentes confluere magnam armatorum frequentiam in locum urbi vicinum , ammissis praelio multis, Lunam tabefactam , funestam , corruentem , et incensam reliquerunt; sed anteaquam locum attingerent, unde primum discesserant, capti a Normandis, qui propter acceptam injuriam ipsos famosa classe prosequebantur, condignas tantae sevitiae poenas luere. DELLA VITA E DEGLI SCRITTI DEL cav. avv. EUGENIO BRANCHI. La famiglia Branchi, che ne’ primi del secento si ridusse ad abitare a Castelfiorentino, è benemerita degli studi, per aver dato nel secolo scorso all’ Università di Pisa Niccolao Antonio, che per il primo, e non senza lode, vi tenne cattedra di chimica, e dopo di averla insegnata per ben quarantaquattro GIORNALE LIGUSTICO 57 anni, lasciò un successore nel figlio Giuseppe, il quale anche più del padre si rese chiaro in quella scienza. L’avv. Lorenzo, pronipote appunto del vecchio chimico, ebbe il nostro Eugenio da Oliva Gamberai; e nacque il 7 gennaio del 1807 alla Sambuca, alpestre borgata della montagna pistoiese, dove Lorenzo, che poi fu Consigliere d’Appello, era allora Giusdicente. Eugenio consegui la laurea dell’ Università di Pisa il 23 giugno del 1827, e sebbene si consacrasse alla giurisprudenza, nella quale, tra gli altri, ebbe a maestri il Carmignani e il Del Rosso, frequentò anche le lezioni di fisica di Ranieri Gerbi e quelle di chimica del suo congiunto Giuseppe Branchi. Poi, fatte le pratiche nell’ avvocatura, di ventisei anni venne nominato Auditore militare a Portoferraio, con decreto del 31 luglio 1833. L’attitudine alle ricerche storiche, che il Branchi aveva sortito dalla natura, cominciò a manifestarsi in lui appunto negli anni che dimorò a Portoferraio. È frutto degli studi fatti colà la Corografia dell’isola dell’ Elba, scritta nel 1839, della quale Attilio Zuccagni-Orlandini abbellì la sua Corogra-grafia fisica, storica e statistica dell’ Italia; ma senza che sapesse trovare nemmeno una parola, non che d’elogio, di gratitudine per il Branchi, di cui tace perfino il nome. Il soverchio lavoro e il clima poco adatto per lui, stremarono le forze del giovane Auditore, che fu costretto a recarsi a Firenze a rinfrancare la pericolante salute; ma appena guarito, eccolo a Pontremoli, secondo Auditore del Tribunale di Prima Istanza, per decreto del 30 novembre 1840. Alla vista della Lunigiana, così pittoresca nella maschia bellezza delle sue montagne, popolata da una infinità di castelli, che tutti hanno una serie di vicende, di tradizioni, di avventure, il Branchi sentì dentro di sè un fascino irresistibile. Amante, com’era, del disegno, prese a ritrarre a penna e a 58 GIORNALE LIGUSTICO matita gli avanzi de’ monumenti feudali; con infaticabile ardore si dette a rovistare gli archivi pubblici e domestici, a bussare ad ogni porta in traccia di ricordi, di memorie storiche e di documenti. Fermò tosto il disegno di scrivere la Storia de’ feudi imperiali della Lunigiana, e vi mise mano, e v’ ha consacrato la vita. Abbattutosi in un sigillo di Moroello di Franceschino Malaspina di Mulazzo, ne mandò un calco al conte Pompeo Litta, che più anni avanti aveva cercato notizie in Lunigiana su quella potente famiglia, per scriverne la genealogia. Fu questo il principio di un lungo carteggio (i), che riuscì di (i) Interessante è il carteggio corso fra il Branchi ed il Litta. « Io ho » messo quasi da parte » , gli scriveva il genealogista milanese il 15 febbraio del 1844, « le carte Malaspina, disperando di poter pubblicare questa » famiglia in modo conveniente, giacché di molte diramazioni mi man-» cano i materiali. Me ne occupai per lungo tempo quando vivea l’abate * Emanuele Gerini; poi mancando costì di corrispondenze, mi lasciai distrarre » in altri lavori. Se Ella si occupa di studi storici, potrei mandarle alcuni » fogli stampati de’ Malaspina', e stampati non per pubblicarsi, ma per » essere distribuiti, onde sieno corretti ; e chi sa che Ella possa far ri-» nascere in me le speranze di pubblicare una famiglia che tutti mi ri-» cercano! Costì dovrebbero aver cognizione particolarmente del ramo » di Mulazzo , del quale io conobbi 1’ Alessandro , che ebbe i guai in » Spagna ; tenuto ivi prigione cinque anni alla Corogna dal Principe » della Pace. Io non cerco , nell’ opera che pubblico, che storia, e non » araldica. Ho un bellissimo stemma Malaspina, cavato da un marmo del » Museo lapidario di Verona ». Eugenio gli chiese le tavole, offrendosi pronto ad essergli largo del suo aiuto; e il Litta gli rispondeva 1’ 11 d’ aprile : « Per mezzo del conte Simonetta di Parma le farò avere varie » tavole stampate de’ Malaspina .... Le dirò in quest’ occasione; che » ira le tavole stampate non troverà quelle del ramo di Mulazzo, a pro-» posito del quale Le domanderei una notizia. Gli ultimi di Mulazzo sono » tre fratelli. Il primo , Marchese Azzo-Giacinto, fu deportato dagli Au-» straci, siccome partigiano di repubblica, a Sebenico nel 1799· Sono in-» certo sulla di lui fine. A me pare che fosse tradotto in Venezia, rin- GIORNALE LIGUSTICO 59 vantaggio grande al Litta; il quale mandò al Branchi gli abbozzi delle tavole malaspiniane, acciò gliele rivedesse; e lo fece con diligenza amorosa, e molte furono le correzioni e » chiuso in S. Giorgio in Alga, e che calatosi con una fune per fuggire· » annegasse. Però non sono certo. Comunque sia, amerei di verificare la » sua morte, e mi pare che in Pontremoli si possa, più facilmente che irr » qualunque altro luogo, conseguire. Io preparerò anche le tavole de » Malaspina di Mulazzo, e appena avrò un ritaglio di tempo, tutte le altre. » L’impegno della pubblicazione della Casa di Savoia, che ho per le » mani, ora mi tiene molto vincolato. Un’altra cosa, se fosse possibile, mi » piacerebbe di avere. Trovo molti Malaspina che sono stati Abati dell’Aulla.. » Io non so se per caso si possa trovare la serie degli Abati dell’Aulla. » A me servirebbe , se non altro , per le date delle nomine e delle » morti. ». Il Branchi gl’ inviò le notizie desiderate intorno ad Azzo-Giacinto, e il Litta il 23 di settembre gli spediva finalmente le tavole Malaspiniane,. dicendogli: « Ella vedrà che non sono che alcuni rami, stampati alla » rinfusa : mancano donne , epoche , fatti , ed io farò quello che mi » sarà possibile. Intanto metterò insieme 1’ intera diramazione di Mu-» lazzo, la stamperò e la manderò, ed egualmente farò pel ramo de’ » Malaspina che esiste a Verona ». In questo frattempo il Branchi fece un viaggio per 1' alta Italia , ma a Milano non ebbe la buona ventura di trovare il Litta, il quale, 1’ 8 di novembre, gli tornava a scrivere : « Sono * stato afflittissimo di non averla potuta vedere nel di Lei passaggio per » Milano ; che se ne fossi stato avvertito, mi sarei data tutta la premura » di venire dalla campagna per il gran piacere di conoscerla personal-» mente. Tengo a calcolo il ritratto del Malaspina il navigatore; anzi » vedrò entro l’inverno di stampare il ramo di Mulazzo ; ben inteso » stampa privata e preparatoria al lavoro da pubblicarsi a suo tempo de’' » Malaspina .... Metterò insieme il ramo di Verona, giacché non mi » è difficile di poterlo fare. Due personaggi che a me interessano per la » storia contemporanea sono i due ultimi fratelli di Mulazzo , ma veggo » che entrando nelle particolarità della loro vita, talvolta si trovano dif-» ficoltà a verificare circostanze importanti. Comunque sia , a me basta » che Ella conosca il mio desiderio di avere particolarità sulle cose re-» centi ». Il Branchi fece del suo meglio per correggere e impinguare le 6o GIORNALE LIGUSTICO aggiunte, di cui le andò corredando, molte poi le notizie che a mano a mano continuò a fornirgli. Promosso, da secondo, a primo Auditore del Tribunale tavole avute ; ma il Litta , a quanto sembra, vi lavorava svogliatamente e a sbalzi. Ecco che cosa gli scriveva il 3 febbraio del 1845 : « Io avrei » bisogno di uno schiarimento. Nell’ esame che ho fatto di tante carte » de’ Pallavicino, quando pubblicai questa famiglia, trovai una circostanza » quasi da per tutto, che meriterebbe qualche considerazione, ed è che i » Consigli Generali, o Deputati, o Sindaci, o Priori erano quelli che fa- » cevano la consegna della terra e della rocca al feudatario, che veniva » a prenderne possesso, e quest’ occasione nasceva o quando il figlio » succedeva al padre, o quando un Pallavicino succedeva a terra o ca- j> stello che per estinzione di linea ad esso toccava. Dirò però che questi » atti, da me letti in copie autentiche, e anche originali, non sono molto » antichi, perchè del principio del secolo XVI, e anche della fine del » secolo XV. Però tale circostanza mi farebbe credere che non fossero i » Pallavicini nelle loro terre padroni assoluti di diritto. Questa riverenza, » almeno nelle forme, del feudatario co’ vassalli doveva però essere an- » tica, mentre non posso credere che i feudatari volessero da loro me- » desimi assoggettarsi spogliandosi dell’ autorità assoluta, se anticamente » la avevano. Coi Pallavicino rimonto all’ investitura di Federico I Bar- » barossa del 1164, che eguale e in egual tempo fu data ai Malaspina e » ai Marchesi di Monferrato. Avrebbe Ella qualche dato, ne’ feudi della » Lunigiana, che i vassalli avessero il diritto di metter in possesso il » feudatario Malaspina? Se vi era questo diritto, certamente vi dovevano » essere reciproche convenzioni , cosicché io ardirei di dire , che tutti i » feudi italiani fossero costituzionali, il che dico, non per seguire la » moda , ma per verità storica, o per ricerca di verità. E se i fatti dei ® Pallavicino sono recenti, questa circostanza mi persuaderebbe che le » investiture imperiali non potevano portar pregiudizio ai diritti dei terzi. » Io ho pubblicato una famiglia Ferreri di Biella, che possedeva Masse- » rano, feudo ecclesiastico, e nel secolo XVII la trovai sempre in lotta » col Consiglio Generale, per cui posso dire che a Masserano v’ era in- » fallibilmente un patto fra il feudatario e il vassallo. Il mio desiderio * sarebbe di poter conoscere per quale antico titolo i feudatari erano ob- » bligati a chinare il capo verso i loro vassalli, quando prendevano il GIORNALE LIGUSTICO pontremolese il 4 giugno del 1841, venne trasferito a Rocca S. Casciano il 13 ottobre del 1846. Il lasciare la Lunigiana fu per il Branchi un dispiacere » possesso, e di scoprire se tra i Malaspina a di Lei cognizione vi è caso » consimile. Il Masserano di cui faccio cenno , era de’ Fieschi , prima » de’ Ferreri , e donato a’ Fieschi dalla chiesa di Vercelli, ove più » vescovi sedevano di casa-Fieschi ». Soddisfacendo poi ad alcune dimande rivoltegli dal Branchi, proseguiva: « Posso servirla riguardo » ai Castelbarco eredi de’ Freganeschi pe’ feudi di Malgrate , ma de’ » Freganeschi nulla ho potuto sapere. Riguardo ai Centurioni nulla » so. Questi padroni dell’ Aulla si chiamavano Marchesi di Stepa, e sono » finiti; e gli attuali principi Centurioni di Genova non sono Centurioni, » ma Scotto. Riguardo ai Doria e ai Fieschi per Calice non mi è riuscito » di scoprire traccia alcuna, mentre gli alberi delle due famiglie sono ster-» minati. I Fieschi ora peraltro terminano ». Veniva poi a dirgli: « Il » Marchese Luigi Montecuccoli mi scrive che Ella in favor mio gli » cercava notizie dei Malaspina. In que’ Montecuccoli sono entrate nello » scorso secolo due donne Malaspina di linee finite, cioè Podenzana, che » Ella per mio mezzo possédé stampata, e Licciana , che a momenti » stampo con Mulazzo per mandare a Lei; anzi il Marchese mi disse se » doveva mandarmi le carte in argomento Malaspina Licciana, che aveva » adunato, oppure rimetterle a Lei , e gli ho risposto che me le mandi » pure, che io in seguito le passerò tutte a Lei. Se non ho ancora man-» dato altri alberi Malaspina, la cagione è stato il freddo , giacché gli » studi delle mie tavole esigono camere grandi, che negli scorsi due mesi » non ho potuto abitare. Ora abbiamo primavera , la quale non durerà, » ma poco importa, perchè il giorno si allunga. Fra poco Le scriverò ». Se mantenesse la promessa, lo ignoro. Il 19 giugno del 1846 gli mandava il biglietto, che segue : « Ho ricevuto in questi giorni il di Lei fo-» glio 12 scorso, non che le tavole Malaspina. Le sono gratissimo de’ » replicati favori. A giorni spero di dar passo , dopo non pochi fastidi, » alla Casa di Savoia, e quindi ho gli Orsini, e poscia li Farnesi. In » quanto a’ Malaspina non ho ancora corredo di fatti, che mi sembri op-» portuna la pubblicazione; e poiché coloro stavano molto tra le loro mon-» tagne, non ci sarebbero che fatti domestici, i quali non meno servono » a caratterizzare il modo di vivere dei feudatari di quel tempo. A me 6 2 GIORNALE LIGUSTICO grandissimo. Se ne distaccò di mala voglia, e le serbò poi sempre un largo posto nel cuore ; seguitò a vivere tra quei monti ospitali col pensiero e cogli studi; i quali nel grande » non basta nascite, matrimoni e morti. Che i fatti sieno buoni o cattivi » poco importa; ond’Ella, se può raccogliermene , Le sarei molto grato, » particolarmente del ramo di Mulazzo, che può essere tra’ primi ad es-■> sere pubblicato ». Per vari anni il carteggio de’ due eruditi fu interrotto. Lo riaprì il Litta il gennaio del 1850, scrivendogli: « Salvatomi » miracolosamente da tutte le vicende politiche, a traverso a mille peri-» coli, sono ritornato in solitudine fra i miei studi. Circa due anni fa 7> spedii a Molini, libraio, le carte Malaspina, particolarmente il ramo di » Mulazzo. D’allora in poi vennero i guai, e nulla so più ». Il Branchi si rimise ad aiutare il genealogista lombardo, al quale fece capo , di lì a poco, per aver notizie intorno alla famiglia Doria. Il Litta gli mandò una parte dell’albero di essa 1’ 8 d’ aprile ; un’ altra parte il 13 di maggio; nel qual giorno gli spedì anche un brano di quello de’ Fieschi, dicendogli: « Ella si serva quando Le pare della mia persona , che sono sempre 5> pronto a servirla. Per mezzo del Molini ho ricevuto le carte Malaspina, » e le sono molto grato ». Il Branchi fornì al Litta anche un albero de’ Farnesi, che gli era venuto alle mani. Se ne fa parola nella seguente lettera del 21 luglio 1851, che è l’ultima del carteggio: « Pareva che l’al-» bero Farnese, che mi ha favorito, dovesse essermi pressoché inutile, » ma non fu così. Vi ho trovate novità, e fra queste un Ignazio fratello ^ dell’ultima Elisabetta Farnese, che non mi era noto. I gesuiti gli hanno » dato il nome. In quanto ai Malaspina, se non le cronache, almeno le » tradizioni diranno qualche cosa ; mentre , salvo gli ultimi di Mulazzo , » non trovo gran che nei tempi anteriori. Del resto prendo le cose adagio, » perchè sono occupatissimo e sopraccaricato di lavori ». Mentre il no--stro Eugenio, che aveva proseguito con gagliardo amore a raccogliere materiali per la sua La Storia de’ feudi imperiali in Lunigiana , si preparava a far parte al Litta della messe adunata , questo valentuomo cessò di vivere il 17 agosto del 1852. Sarebbe stato ottimo consiglio di affidare al Branchi la cura di correggere e dar Γ ultima mano alla genealogia de’ Malaspina, eh’ era appena sbozzata , e piena di lacune , e irta d’ errori ; invece se ne fece editore il compianto Federico Odorici di Brescia, che la « pubblicò tal quale, perchè » (sono sue parole) « i profondi pensamenti GIORNALE LIGUSTICO 63 amore per essa trovarono un gagliardissimo eccitamento, un continuo stimolo, una pertinace perseveranza. Promosso Auditore a Pistoia il 5 aprile del 1848, in quel medesimo anno perdette la madre, e fu per lui un colpo dei più tremendi. Bisognoso d’affetto, s’ammogliò nel 1851 ; ma di li a poco, i mali che già lo avevano travagliato nella sua giovinezza, quando era di stanza a Portoferraio, tornarono ad insidiarlo, e per colmo poi di sciagura la sua povera moglie perdette affatto la vista. Si ritirò allora a Firenze, e chiese e ottenne la sua giubilazione. Datosi tutto agli studi, trovò in essi conforto alle afflizioni della vita, e la Storia dei fendi imperiali della Lunigiana, già prediletta occupazione negli anni felici della virilità, diventò per lui un dolce sollievo nell’addolorata vecchiaia. Nella quale l’operosità sua, che fu sempre grandissima, ebbe anche a impiegarsi a vantaggio del pubblico, essendogli stata dal Comune di Firenze affidata la presidenza della Commissione per 1 imposta della Tassa di famiglia; ufficio che tenne per lunghi anni con zelo scrupoloso, e n’ ebbe lode. Ascritto de’ primi all’Ateneo Italiano, e uno degli anziani della Società Colombaria di Firenze, fu anche socio corrispondente della R. Deputazione modenese di storia patria per la sottosezione che ha sede in Massa di Lunigiana. E di questa nomina se ne compiacque, e ci teneva, riguardandola quasi » del Litta, la inimitabile velocità, le forme caratteristiche, originali del » suo dettato non dovevano esser tocche ». L’Odorici non ha reso un buon servigio alla memoria del benemerito milanese, e la genealogia de Malaspina è un lavoro da rifarsi addirittura. Ho voluto dilungarmi su questi particolari per scagionare il Litta da una colpa non sua, e restituire la responsabilità di quella infelice pubblicazione al suo male accorto editore. GIORNALE LIGUSTICO una ricompensa al lungo amore, alle tante fatiche durate nel-Γ illustrare la parte più caratteristica della storia lunigianese. Stretta amicizia con Pietro Fraticelli, tanto benemerito degli studi danteschi, il Branchi gli scrisse tre lettere, tra il 1857 e il 1861 ; e videro tutte e tre la luce, e tutte e tre hanno per soggetto la dimora dell’Alighieri in Lunigiana e le relazioni di lui coi Malaspina. Nella prima discorre di frate Ilario del Corvo e della sua epistola a Uguccione della Faggiuola ; nella seconda indaga chi de’ tre Moroelli Malaspina vissuti a’ tempi di Dante ne fosse l’amico e ospite, e si schiera a favore di Moroello Signore di Val di Trebbia. Il Fraticelli, che opinava invece fosse Moroello di Villafranca, prese a ribattere gli argomenti del Branchi; il quale, con una terza lettera, scese di nuovo in campo a difesa del signore di Val di Trebbia. In occasione del centenario dantesco ristampò insieme riunite queste tre lettere, e vi pose a corredo uno strumento inedito, di molto interesse, che non era sfuggito alle indagini diligenti del Manni e del Pelli, ma che si riteneva smarrito: l’inventario de’ beni del Marchese Opizzone di Federico Malaspina, fatto compilare dalla vedova di lui, Tobia Spinola, il 22 giugno del 1301 (1). (1) Ne offrì un esemplare a Niccolò Tommaseo,, che il 15 d’aprile del 65 gli scriveva questa lettera, la quale è inedita, e oltre tornare a lode del Branchi, reca nuova luce in una controversia importante. « Con eru-» dizione arguta e parca (così il Tommaseo) mi paiono dettate le » Lettere sue, con chiarezza elegante , rara in somiglianti lavori. L aver » Lei scoperto che Agostiniani non erano, ma Benedettini , i Monaci di » S. Croce del Corvo ; che Vicario de’ Benedettini ne’ monasteri del » Trivio e di Camaldoli era Uguccione della Faggiuola, che monaco del » Trivio dal 1306 era un fratello di lui; dichiara perchè Dante ad un del » Corvo affidasse parte del suo poema da recarsi a Uguccione, e lo sperasse » diverso dal corvo dell’Arca ; tanto più se frate Ilario fosse un Malaspina, GIORNALE LIGUSTICO 65 Intorno all’epistola di frate Ilario molto e da molti è stato scritto, e molto si seguiterà a scrivere, sebbene sia ormai da ritenerla senza ombra di dubbio una falsificazione, con- » anzi Bernabò, fratello di Franceschinot coni’Ella viene congetturando, » ma non ardisce asserire. Comprovata l’autenticità della lettera, non ne » consegue che Uguccione'sia il Veltro; il quale onore sarebbe da tutte le ^ circostanze storiche aggiudicato piuttosto a Moroello signore di Bobbio, fi- » gliuolo d’Alberto. Che se il Moroello onorato da Dante non possa essere nè » il Marchese di Giovagallo capitano de’ guelfi (nel quale tanto meno e’ poteva » porre fidanza d’ aiuti politici, quanto più ne avrà pregiato il valore e la » costante fedeltà alla sua parte) , nè il Moroello fìgliuol d’Opizone e ne- » potè al ghibellino Moroello figliuolo d’ Alberto , perchè giovanissimo » ancora nel tempo che fu scritta la lettera, a me pare evidente dai do- » cumenti eh’ Ella reca, e dal notare che il figliuolo d’Alberto era quasi » coetaneo al poeta. Se questi nel 1306 trattò pace col Vescovo di Luni » per mandato dell’altro Malaspina, Franceschino di nome: da ciò non » segue che e’ non potesse essere ospite a Moroello d’ Alberto, il quale » aveva in que’ luoghi condominio co’ suoi congiunti cioè mezzo il feudo » di Villafranca, ancorché da Villafranca prendesse il titolo un altro ramo » della famiglia. Se il Boccaccio lo fa ospite di Moroello ; se quella che * la tradizione addita come la casa di Dante è in Mulazzo e non in V il- » lafranca; non credo sia lecito trasandare queste orme del vero per la .» sola ragione che 1’ autore delle cento novelle talvolta anche nella vita di > Dante pare che romanzeggi : giacché il porre un nome per 1’ altro non » aggiunga punto al suo dire vaghezza. E che non nelle case da’ Marchesi » del luogo abitate, ma in altra più modesta e più libera posseduta ap- » punto da quel Malaspina che lì non era propriamente signore, fosse ·» ospite Dante , me lo persuade anche questo , che non nel palagio di » que’ da Polenta egli stette il tempo ultimo di sua vita e morì, ma in » un’ altra casa non tanto vicino alla chiesa ove furono con pompa portate » le spoglie di lui; come appare da quel che scrive ingegnosamente di ciò » il conte Cappi. Io credo inventate le novellette di certi sgarbi da Dante » patiti in Corte di Can della Scala, eh’ e’ non avrebbe certamente sof- » ferti, seguitando pur a onorarlo e lodarlo altamente; e fossero pur veri » in quanto venuti da alcuni di que’ giullari eh erano gli arnesi comuni » delle piccole corti d’ allora , non però più abietti di certi ciamberlani Giorn. Ligustico. Anno XIII. 5 GIORNALE LIGUSTIGO dotta probabilmente sul racconto del Boccaccio. Anche ai giorni nostri la controversia ferve calda e animosa tra i letterati. Lo Scheffer-Boichorst ne sostiene 1’ autenticità, senza » delle corti di poi; è da pensare che Cane, addatosene, avrà ben sa- » puto, nel modo debito, rimediare. Ma l’aver lui chiamato in Verona » Pietro il figliuolo, fa credere che la sua abitazione in corte non » fosse ; e il riguardo usatogli in Ravenna da ultimo fa pensare che si- » milmente i Malaspina, tutti d’ accordo , 1’ avranno lasciato vivere in » pace agli studi e libero del suo tempo nel luogo appartenente a quello » di loro col quale egli più conveniva. Non mi pare , per vero , abba- » stanza provato che Moroello d’Alberto abitasse in Firenze lungamente ; » ma questo non è necessario all’assunto di Lei: basta bene eh’e’ fosse s nel 1311 il Vicario d’Arrigo in quella città di Brescia, che, allora, t come poi, ebbe nelle cose d’Italia tanta importanza ; basta che innanzi » la morte sua si sposasse a Corradino , suo primogenito, Giovanna , la » figliuola di Nino conte di Gallura, ed essa e Nino ricordati dal poeta » così piamente, lì presso a dove sono le lodi della famiglia Malaspina. Se » Moroello d’Alberto moriva innanzi al 1314; se Uguccione, quand’anco » paresse prima degno della fiducia di Dante, via via la veniva derneri- > tando ; tanto è più da credere che nello Scaligero si raccogliessero le > sue speranze , e che a lui s’intendano virtualmente indirizzate le lodi » che ad altri già 1’ esule destinava. Quanto alla lettera da Dante scritta » a un Moroello, ben dice Ella non potere essere altro che il figlio d’Al-» berto; e mi pare che ponga la data tra il 1309 e il 131 o ; giacché del » 1311 è quell’ altra ad Arrigo , così passionata e cosi veemente. In questa » seconda non c’ è velo di simboli ; ma gli accenni figurativi non man-» cano, eh’ erano secondo il vezzo de’ tempi. Io non direi che in quella » al Malaspina volesse Dante cansare il pericolo del veder traditi i pro: » pri segreti, se il foglio capitasse in mano nemica o infedele: giacché » gli intendimenti di Dante e della parte erano troppo palesi. Egli è un » sogno di Gabriele Rossetti, che l’amore di donna è, in tutti i poeti » italiani di più e più secoli, velo a intenti politici e religiosi ; ma certo » è che talvolta , per modo figurato di dire, anziché per gergo di con-» giura e per cifera, la donna.amata significa la patria, la libertà civile, » al modo che allora intendevasi la libertà, 1’ anima umana, la grazia di » Dio. E Dante canta: La Grafia che donnea Con la tua mente — La menti GIORNALE LIGUSTICO 67 però niente aggiungere di nuovo agli argomenti recati in campo dal Troya, dal Ciampi, dal Repetti, dal Balbo, dal Marchetti , dal Muzzi, dal Fraticelli e in fine dal nostro Branchi; autenticità combattuta con molto acume e con argomenti di grave peso dal Bartoli, che nel ritenerla apocrifa ha per compagni il Venturi, il Centofanti, il Missirini e il Witte. Ingegnoso è senza dubbio ciò che scrisse il Branchi per mettere in sodo che l’ospite di Dante fu Moroello di Val di Trebbia; non riesce però a chiarire la cosa in modo da troncare per sempre la controversia; il dubbio resta, e i tre Moroelli di Villafranca, di Giovagallo e di Val di Trebbia seguiteranno a contendersi l’onore di avere ospitato 1’ Alighieri, fin che non si scriva una volta (ed è proprio tempo e i materiali non mancano) la storia de’ Malaspina, tenendo per sola guida i documenti. Dall amore che il Branchi portava alla Lunigiana ebbe ispirazione anche 1 altro suo scritto: le Tavole genealogiche, della famiglia Bonaparte, per quello particolarmente che riguarda la sua origine toscana. È noto che Francesco di Giovanni Bonaparte, nato a Sar-zana, dove da più secoli fioriva la sua famiglia, datosi al mestiere delle armi, si recò in Corsica al soldo dei Genovesi, e vi lasciò Tossa verso il 1528. Nell’isola prese stanza il figlio Gabriele; e ad Aiaccio seguitarono a vivere i discendenti di lui, un de’ quali, Carlo di Giuseppe, fu padre di Napoleone I. Avverte a buon dritto il Branchi non essere » innamorata che donnea Con la mia donna sempre ; c la Povertà coti lunga » allegoria rappresentasi come sposa a Francesco, tanto che per tener » dietro alla figura, si valica nello sconveniente , e gli altri irati si scal-» zano e vanno dietro allo sposo; sì la sposa piace. Ma l’immagine dello » sposo è pur nel Vangelo ; senza rammentare la Cantica. Cotesta dunque » non era cifera che i nemici non intendessero cosi bene come gli amici ». 68 GIORNALE LIGUSTICO « nè mezzanamente, nè quanto basta provato » che i Bonaparte di Treviso e di Siena appartengano al ceppo napoleonico. E in questo dà prova di critica fine ed accorta; non così peraltro, neU’affermare, senza neppure mettervi un’ombra di dubbio, che il ceppo stesso ha la sua radice ne’ Cadolingi, Conti di Fucecchio e di Settimo , che spogliati da’ Comuni vicini delle avite castella, ripararono a Firenze, e sbanditi poi come ghibellini, si sparsero per la Toscana. Il fatto del discendere i Napoleonidi da’ Cadolingi non è punto chiaro, nè dimostrato; anzi gli stessi documenti con cui il Branchi, (il quale non è il primo, nè il solo a sostenere siffatta opinione) si sforza di metterlo in evidenza, a giudizio mio, provano il contrario. Prese anche a illustrare alcuni sigilli lunigianesi, ne’ quali si era abbattuto nelle sue lunghe e perseveranti ricerche ; e per saggio, il 1869 pubblicò a Firenze nel Periodico, di numismatica e. sfragistica per la storia d’Italia un sigillo del Marchese Moroello di Franceschino Malaspina di Mulazzo, e nel 1871 quello del Marchese Spinetta di Federico Malaspina di Villafranca, e quello del Collegio de’ Notai di Pontremoli. Nello stesso Periodico inserì poi il 1872 un’illustrazione Della Croce vermiglia in campo bianco, arme del Popolo fiorentino, divenuta insegna dei Cavalieri di Popolo. Anche al proprio sangue volle pagare un debito d’affetto, tessendo la genealogia della sua famiglia; lavoro di lunga lena, che si conserva manoscritto presso gli eredi. L’ultimo suo pensiero fu per Dante, e ne illustrò il sepolcro e il ritratto che si'trova a Ravenna, senza però niente aggiungere a quanto già era noto. L’ opera maggiore del Branchi, e quella che raccomanda il suo nome al nostro affetto riconoscente, è la sua Storia de’ feudi imperiali in Lunigiana, compresa in tre grossi volumi di fittissimo carattere, e divisa in ire parti. La prima, che tratta del governo feudale in Italia e dei primi dominatori GIORNALE LIGUSTICO 69 della Lunigiana, è spartita in due libri; nel primo de’ quali discorre dell’ origine dei feudi in Italia e della loro politica costituzione; nel secondo de’ più antichi feudatari della Lunigiana. Sette libri abbraccia la seconda parte, e in essa illustra i feudi del lato destro della Magra, signoreggiati dai Malaspina dello spino secco. Di cinque libri si compone la terza parte, la quale ha per soggetto i feudi del lato destro della Magra, dominati dai Malaspina dello spino fiorito. « Racconto » fatti veri e non favole », confessa con ingenua schiettezza nel proemio, « non frottole, che abbiano il principio nella » verità, il mezzo e il fine nelle astruserie e nei concetti, » come che siano, dello scrittore. Io non volli divertire, alle-grare o attristare le menti, pervertirle, o ingannarle; non » intesi farmi largo colla venustà dello stile, coll’altezza dei » concetti, colla novità e particolarità delli avvenimenti; ebbi » in mira la narrazione di cose successe tali quali esse fu-» rono, qualunque si fossero le cause, non sempre ben note, » che le produssero, e come nei documenti e scritture con-» temporanee vennero espresse o indicate. Se nel mio lavoro » non saranno, siccome non ponno essere, nè oro, nè gemme » (che la lunga fatica e il tedio delle ricerche e più le mie » forze non mi detter queste materie poterlevi recar dentro) » l’insieme dell’edifizio non sarà neppur cementato di sem-» plice arena; rozzo, ma reale e solido, potrà servire di » fondamento e di base a un migliore e più fortunato, non » però meno audace, architetto; e questo è tutto quanto » posso forse senza illusione augurarmi ». Il Branchi non ha risparmiato nè fatica nè tempo per colorire, quanto era da lui, il vasto disegno. È però a dolersi che in fatto di critica non sempre sia acuto ; che abbia troppo poco sfruttato l’Archivio domestico dei Malaspina di Fosdi-novo, e non si sia preso cura alcuna di rovistare quello notarile di Aulla, fonte fino a qui inesplorata e ricchissima 70 GIORNALE LIGUSTICO per la storia della Lunigiana; nè quello comunale di Piacenza, in cui si trova un vero tesoro di documenti sui Malaspina. Per conseguenza il suo lavoro riesce in molte paiti monco e difettoso : tutto il suo nerbo, la sua parte nuova e migliore, consiste nelle ricerche fatte nell’Archivio di Stato in Firenze, che per lunghi e lunghi anni ha rovistato con persistente diligenza. Non servirà dunque nè « di fondamento », nè « di base » a chi vorrà scrivere la storia della Lunigiana feudale, ma soltanto di utile guida; specialmente nella parte genealogica; non in quella antica però, dove il critico, più volte, non si troverà d’ accordo con lui. Era soprattutto un genealogista; e questa sua passione ed istinto l’ha fatto fermare di soverchio sopra notizie, utilissime, anzi indispensabili, ad un albero ragionato dei Malaspina; ma afflitto estranee alla storia dei loro feudi; la quale non s’illustra facendo le singole biografìe di quanti figli, maschi e femmine, legittimi e bastardi, ha avuto quella potente famiglia; ma sviscerandone la qualità del governo e la condizione de’ sudditi, gli usi, i costumi, le virtù ed i vizi, i traffichi e 1 industrie. Il Branchi cessò di vivere a S. Piero a Varlungò il 6 d’ottobre del 1882. Gentile e affabile ne’modi ; di carattere franco, aperto, leale; integerrimo magistrato; cittadino operosissimo ; lascia di sè memoria onorata; e la Lunigiana, alla cui illustrazione storica consacrò gran parte della vita, serberà sempre riconoscenza di lui, che ha legato in modo indissolubile il proprio nome a quella pittoresca regione. Giovanni Sforza. Serie cronologia degli scritti del cav. aw. Eugenio Branchi. I. Corografia dell’ isola dell’Elba. Sta a pag. 6-154 del vol. XII della Corografia fisica, slorica e statistica dell’ Italia e delle sue isole , corredata di un atlante, di mappe geografiche e topografiche e di altre tavole illustrative, GIORNALE LIGUSTICO 71 di Attilio Zuccagni - Orlandini. Firenze, Tipografia e Calcografia all’insegna di Chio, 1842; in 8.° II. Album della Lunigiana ; ms. lungo centimetri 21 , largo centimetri 9 e '/i 1 ed alto centimetri 1 e '/3. di carte no, parte di color bianco e parte di color ceruleo, posseduto dagli eredi dell’Autore. Contiene : i. Un cenno storico della famiglia Malaspina, desunto dalle Memorie storiche d' illustri scrittori e di uomini insigni dell’ antica e moderna Lunigiana, per l’abate Emanuele Gerini, annotato e corretto, in molte parti, dal Branchi. — 2. N. 537 fac-simili di firme autografe di varii Marchesi Malaspina e di altri feudatari lunigianesi, d’imperatori, Principi e illustri personaggi, delucidate dagli originali. — 3. Vedute e disegni, parte a penna, parte a matita e parte all’ acquarello, de’ castelli di Pontremoli, Malgrate, Mulazzo, Grondola, Monteregio, Madrignano, Calice, Treschietto, Lusuolo, Bibola, Castiglione del Terziere, Virgoletta (dal lato di mezzogiorno e da quello di tramontana), Villafranca, Terrarossa, Giovagallo, Suvero (dalla parte di tramontana e da quella di mezzogiorno), Cavanella, Tresana, Villa, Castevoli e Bagnone , della chiesa e convento de’ Cappuccini di Pontremoli, della torre di Dante a Mulazzo, del palazzo marchionale di Castagnetoli, del castello e chiesa della Rocca Sigilline, della Fortezza di Aulla detta La Brunella, della casa dove fu ospitato Dante a Mulazzo, e del palazzo marchionale di Groppoli. — 4. Disegno di un sigillo di Moroello di Franceschino Malaspina Marchese di Mulazzo. — 5. Disegni di varii costumi lunigianesi, cioè contadine del pontremolese, terrazzane del sarzanese ecc. III. Sulla lettera di frate Ilario del Corvo a Uguccione della Faggiola, lettera a Pietro Fraticelli; nel periodico fiorentino II Poliziano, studi di letteratura, vol. I, n. 5 (maggio 1859), pag. 286 e segg. Fu ristampata a pag. 359-363 della Storia della vita di Dante Alighieri, compilala da Pietro Fraticelli sui documenti in parte raccolti da Giuseppe Pelli, in parte inediti. Firenze, Barbera, 1861 ; in 16. IV. Sul vero Morello Malaspina ospite e amico di Dante, lettera a Pietro Fraticelli; nel periodico fiorentino 11 Piovano Arlotto, ann. Ili, pag. 511 e segg. \. Ultime parole sul vero Morello Malaspina, ospite e amico di Dante, lettera a Pietro Fraticelli; nel periodico stesso, ann. IH, pag. 582-590. VI. Reliquie della casa di Dante a pie' dell’ alta torre a Mulaxjo; nel periodico stesso, ann. Ili, pag. 591. È un1 incisione in legno , accompagnata dalle seguenti parole : « Alla 72 GIORNALE LIGUSTICO » pagina 521 di questo periodico, ann. Ili, fu parlato della casa di Dante » a Mulazzo;. ... fu avvertito che presso il sig. avv. Branchi se ne con-» servava un disegno, da lui medesimo fatto sul luogo nel 1844. Siccome » i pochi avanzi di quell’ edifizio, che fin d’ allora minacciava rovina, se » per avventura non sono ancora presentemente distrutti , ben possono » sparire tra breve, domandammo al sig. Branchi il prefato disegno ; ed » ottenutolo .... ne abbiam qui fedelmente riportata la copia ». VII. Tavole genealogiche della imperiale famiglia Bonaparte, per quello particolarmente riguarda la sua toscana origine, compilale nel 1S60 per cura di Eugenio Branchi. Firenze, Tipografia di F. Bendili. 1861 ; in 8.° di pag. 34. Estratte dal periodico suddetto, ann. III, n. 10, 11 e 12. Precede un’ar-verten\a; segue la Ταυ. I (discendenza del Conte Tedicio), poi Illustrazioni alla Tavola prima (pag. 5-9); la Tav. II (discendenza di Guglielmo soprannominato Bonaparte) e le Illustrazioni alla Tavola seconda (pag. 10-18); la Tav. Ili (discendenza di Giovanni Bonaparte) e le Illustrazioni alla Tavola terza (pag. 10-25); la Tav. IV (discendenza di Guido) e le Illustrazioni alla tavola quarta. Viene da ultimo una nota de’ Personaggi appartenenti ai Bonaparte e dei quali non si conoscono i nessi coi discendenti dei Cadolingi (pag. 32-34). Vili. Sopra alcune particolarità della vita di Dante, lettere di Eugenio Branchi a Pietro Fraticelli, seguite da un documento inedito dell’anno ijoi. Firenze, Tipografia all’insegna di S. Antonino, 1865 ; in 8.° di pag. 50. Son le tre Lettere precedenti, alle quali sta innanzi una breve avvertenza, scritta a Firenze il 23 gennaio 1865. IX. Sigillo di Moroello Malaspina·, nel Periodico di numismatica e sfragistica per la storia d’Italia diretto dal March. Carlo Strozzi· Firenze, Tipografia di M. Ricci e C., 1869; vol. II, pag. 244-247. X. I Feudi imperiali della Lunigiana, ovvero Storia della Lunigiana feudale, compilata per cura di Eugenio Branchi. Tre grossi voi. infoi, manoscritti presso gli eredi dell’ Autore. XI. Sigillo di Spinetta Malaspina; nel Periodico di numismatica e sfragistica per la storia d'Italia diretto dal March. Carlo Strozzi· Firenze, Tipografia di M. Ricci e C., 1871, vol. Ili, pag. 47-48. XII. Sigillo del Collegio de’ Notai di Pontremoli ; nel Periodico stesso , vol. Ili, pag. 216-220. XIII. Della Croce vermiglia in campo bianco, arme del Popolo fiorentino divenuta insegna dei Cavalieri di Popolo ; nel Periodico stesso, vol. IV (1872), pag. 78-95. GIORNALE LIGUSTICO 73 XIV. Del Sepolcro di Dante e del suo ritratto a Ravenna; nel periodico fiorentino La Rassegna nazionale; voi. VII, ann. III (1881), pag. 665-680. Se ne hanno alcuni esemplari tirati a parte col ritratto di Dante in fotografia. VARIETÀ Il « MASSA MUTINO » DEL « CONTRASTO ». Leggo nel Propugnatore una Memoria del Ch. Di Giovanni , in cui a proposito del contrasto di Ciullo d’ Alcamo (o checché altro si chiami), si disputa del senso del verso seguente: Donna mi son di perperi d’auro massa mutino. L’autore non si mostra contento di quello che ne hanno detto altri , e cerca una migliore interpretazione. Crede potersi spiegare le parole massa motino , come volessero dire a monti o a bi^efie. Donna (o ricca) io sono di perperi d oro in grande quantità. Vi è però un’ obbiezione a fargli: i perperi (moneta bizantina a que’ tempi) erano d oro e non d argento nè d’altro metallo; inutile quindi e superflua quella giunta d’ oro. Il sig. Di Giovanni non dissimula 1 obbiezione, ma non gli pare sia di tal forza da viziare la sua interpretazione. Probabilmente anche al Ch. Prof. D’Ancona si è presentata la medesima difficoltà; perciò egli separò con una virgola le due parole, come estranee 1’ una all’ altra e lesse così: Donna mi son di perperi, d’ auro massa mutino ; egregiamente per mio avviso, restava soltanto a diciferare quel massa mutino che dovrebbe essere Γ aggettivo di auro. 74 GIORNALE LIGUSTICO Facciasi di due parole una sola, ed ecco fatto il becco al-1' oca. Che cosa è Γ oro massamutino ? Fioriva nel secolo XII in Africa e in Ispagna la dinastia musulmana dagli Almoadi, ai quali essendo appoggio principale la tribù dei Masmuda o Massimuti, que’ sovrani furono anche detti Re dei Massimuti semplicemente. Per non caricare questa nota oltre al bisogno in cosa tanto chiara, mi contenterò di citare Caffaro e i continuatori agli anni 1154 e 1210 (x). Ma non sarà male addurre ancora un esempio del trovatore Guglielmo Ademar (2) : Si ’l reys N Anfos cui dopton li Masmut. Questa dinastia, come giovane e trionfatrice, fece coniare monete d’ oro fino, o quasi, di peso e qualità fra le migliori del tempo; d’onde esse guadagnarono gran pregio anche nel secolo seguente e presso i cristiani, specie i marittimi, e furono chiamate massamotini, massimutini o simile. Ne abbiamo anche notizia in un contratto genovese del 20 settembre 1161 (3), e se ne possono trovare esempi senza fine in Ducange, in Zanetti, in Cartier, in Garampi, Muratori ecc. Ricorderemo soltanto una lettera d’Innocenzo III (4), perchè ivi si contiene il taglio della moneta a 100 in una marca; il che secondo le diverse marche può dare il peso digrammi 2,33 a 2, 38 per massimutino. Tale rapporto combina con quello che si può trarre dal valore del celebre fiorino di Firenze (5), (1) Mon. Germati., XVIII, 22, 129. (2) Raynouard, Choix, III, 197. (3) Mon. Hist. Pair., Chartarum, II, 779. (4) Le Blanc, Monnaies de France, p. 181. Ducange, v. Masmodina da lettera d’Onorio III. (5) Zanetti, Monete d’Italia, III, 370. GIORNALE LIGUSTICO 75 prova che il massimutino correva in commercio come eguale a due terzi di fiorino : ora siccome si sa che un fiorino d’oro fino pesava gr. 3,536, così due terzi di fiorino tornano a gr. 2,358 o rotondo 2, 36. Ma un breve d’Onorio Ili del 10 aprile 1222 (1) , distingue i massimutini in doppi e semplici, e ciò è concorde con più altri documenti citati dal Cartier e da altri. Difatti l’illustre Amari, come il sig. Cherrier, dal peso effettivo di tali monete nel Medagliere della Nazionale Parigina ne dedussero la media di grammi 4,73 (2); sono questi adunque i massimutini doppi, e combaciano quasi matematicamente col valore di due semplici sovra additato. Il fiorino, si sa, conteneva oro per lire italiane 12 in cifra rotonda, così il massimutino semplice varrebbe L. 8 e il doppio L. 16. C. Desimoni. Ancora di S. Caterina da Siena a Varazze. La prima parte della Relazione riguardante il passaggio di S. Caterina a Varazze, che fu stampata a pag. 465-67 del tomo precedente, era stata già ricavata dello stesso ms. della Comunale di Siena F. III. 7, e pubblicata con altri documenti relativi al medesimo fatto dall’anonimo autore (3) di una piccola Vita di S. Caterina da Siena seguita da documenti e note Varatine (Varazze, D. Botta, 1875, pag. 80 in 16.°). (1) Archivio di Stato. Magistri Salomonis Notarii a. 1222, c. 43 v. (2) Amari, Diplomi arabi delTArchiv. fiorent., pp. 255-398. — Cherrier, Lotta dei Papi cogli Imperatori. Palermo, 1861, I, 34. (3) Il can. G. B. Fazio. — Il libro è rimasto sconosciuto alla contessa di Flavigny. 7 6 GIORNALE LIGUSTICO Dalla lettura comparata di questo libretto e di quello del Pelazza, risulta che il Ms. sanese è le sola traccia rimasta del racconto contemporaneo di Simone Maffeo. La Dissertazione sul passaggio ecc., che fa seguito alla Storia cronologica del Priorato dei Domenicani di Furale, ms. in quel convento, venne bensì compilata sulla scorta del detto racconto, ma non lo riprodusse testualmente ; anzi il compilatore vi frammischiò delle considerazioni proprie. Sembra del resto che il racconto originale del Maffeo in pergamena, sia andato perduto : in ogni caso non trovasi a Varazze. P. SPIGOLATURE L’ erudito prof. Antonio Favaro ci comunica per mezzo del nostro egregio collaboratore avv. Desimoni, il brano di una lettera scritta dal P. Antonio Baldigiani gesuita, professore di matematica nel Collegio Romano, il 25 gennaio 1693 da Roma a Vincenzo Viviani , nel quale si fa l’elogio di un nostro genovese. La lettera si conserva nella Biblioteca Nazionale di Firenze, fra i rnss. Galileiani (Div. IV, Tom. CXLVII, Car. 116). Eccone il tenore: « Io sono il primo italiano che dal Grassi in qua habbia tenuta questa Cattedra [di Matematica nel Collegio Romano] , havendo ad essa supplito altri Italiani per uno o due anni e non più , e vien talmente gradito il mio poco servizio e applicazione , che ho scuola piena ogni anno sopra cento, il che non s' è veduto per il passato. Fra questi ce ne sono ogni anno titolati e nobili che s’ affezionino a questi studi e gli accreditano , et ogni anno mi riesce di ricavarne una dozzina di buoni Geometri. I nostri Padri ancora applicano più, e gli tengono in maggiore stima assai. Fra questi ne ho uno quest’ anno, che riesce veramente d’ingegno mostruoso, e da non credersi : si chiama il P. Pantaleo Balbi Genovese della nota famiglia de’ Marchesi di Pioverà. Questo 1’ autunno passato al tempo delle vacanze mi domandò che l’istradassi anticipata-mente alle Matematiche. Gli posi in mano l’Euclide ristampato in Bo- GIORNALE LIGUSTICO 77 logna, e gli spiegai il primo libro. Egli lo comprese tutto con somma facilità, e poi tirando innanzi, nello spazio di 15 giorni stese in carta di sua mano tutti i sei primi libri portati in perfetta forma sillogistica, con tal chiarezza e brevità, che non penso che in istampa abbiamo Euclide migliore. Il P. Generale lo seppe e lo chiamò a sè e in sua presenza lo fece esaminare dal P. Estrix, e trovatolo habilissimo, lo consigliò ad applicarsi di proposito a questi studii. Di presente essendo scolare di Filosofia , poco potrà applicare, e solo alla sfuggita. Con tutto ciò nelle vacanze del Natale mi passò in due sere 1’ undecimo e 12.0 d’ Euclide e poi nelle susseguenti i sferici di Teodosio. In questi dieci giorni di Carnevale penso che passerà 1’ Archimede del Maurolico di cui s’ è provveduto , e ci si è impegnato , sebben bisognerà che lasci quelle parti che suppongono la dottrina delle sezioni coniche, alle quali mi dice volersi applicare nelle vacanze della settimana santa. Se cammina a proporzione si troverà presto Maestro, prima che si sia saputo scolaro.-Mi creda che è cosa tanto singolare che mi fa stupire, e ne ho provata tale consolazione che non ho potuto a meno di partecipargliela ». * * * Nell’ indice de Le carte strofinile che viene pubblicando la Soprainten-denza dell’ Archivio di Firenze, troviamo (pag. 143) un « Lodo pronunziato il 12 novembre 1625 in Livorno da Fra Girolamo Boccucci da Massa de’ Minori Conventuali Vicario del Santo Uffizio in Livorno e il Capitano Simone Endimione Ricci francese ingegnere in Livorno , come arbitri fra il Guardiano del Cannine di Livorno e maestro Antonio di Stefano Gonnelli della Spezia intagliatore, in causa del risarcimento del ciborio della Chiesa del Carmine ». * * * Il Liebermann (Neues archiv der gesellscliaft fùr àttere deutsche geschi-chtskunde, 1885, f. 3) dà alcuni estratti di cataloghi de’ manoscritti, fra quali è compreso quello della Biblioteca di Giacomo Filippo Durazzo di Genova (Cfr. Giorn. Lig. a. 1881). * * * Per la bibliografia colombina notiamo: Roger, Eloge historique de Christophe Colomb, Orleans, Herlusion, 1885 —Vattemare, Christophe Colomb. Livre de lecture, Paris, Hachette, 1885. — De Lorenzo y Leal. Chri-stobal Colon el heroe del catolicismo. Leyenda historica, Madrid, 1885. * * 7s GIORNALE LIGUSTICO Nell' Historisches Iahrbuch, Iahrg. VII, Heft i, è stato pubblicato uno studio intorno a G. M. Giberti (genovese e non di Verona), alla sua vita ed alle sue opere. Ne è autore Dietrich che si occupa della storia della Riforma cattolica. t * * Il prof. P. Paganini col titolo : Amori sacrileghi di uno studente pisano dei sec. XVI, ha pubblicato nella Rivista critica delta Letteratura italiana (Anno III, η. i, pag. 27) alcune curiose notizie intorno ad un processo fatto a carico di « Agostino Borelli del contado di Genova », reo di amoreggiare con una monaca, per la quale aveva scritto ben 48 componimenti poetici. Sono riferiti quattro sonetti che si trovano uniti agli atti criminali. t * * Leggiamo nella stessa Rivista critica: « C. Chabaneau , continuando nella Revue des langues romaines le sue ricerche sulla storia degli studi provenzali, parla lungamente di un’ opera, in gran parte perduta, sui trovatori, composta alla fine del secolo XVII da Pietro de Chasteuil-Gallup : di quest’ opera sopravvissero cinque capitoli, uno dei quali tratta di due trovatori italiani, Percivalle e Simone Doria (Révue , 3· ser. , t. Χ\ I, pag. 72-78) »· * * * Continuando i suoi studi intorno ai poeti provenzali O. Schultz pubblica un nuovo articolo : Zìi den genuesischen Ti obadoi s , nel quale ricorda un luogo dell’ Histoire et chronique de Provence di Cesare de Nostre-dame , dove è detto che alla stipulazione di certo trattato fra Carlo d’Angiò e la repubblica di Genova furono presenti, 1’8 agosto 1262, Luchetto Gattilusio, Luca Grimaldi, Percivalle Doria , Simone Doria e Giacomo Grillo, tutti trovatori genovesi. Soggiunge quindi alcune note cronologiche intorno ad essi (Zeitschrift fùr romanische Philologie, vol IX, 1885; fase. 2-3). t * * Rodolfo Renier pubblicando nel Giornale storico della Letteratura Italiana (VI, 230 e segg.) un Saggio di Rime inedite di Galeotto del Carretto , ha dato un notevole contributo alla biografia del poeta ed allo studio delle sue opere. Sappiamo che egli si occupa altresì di Antoniotto Fregoso, di Corrado di Sofia e di Paolo Girolamo Fiesco rimatori genovesi del sec. XV. - GIORNALE LIGUSTICO 79 Nell’ Liguria Occidentale (1886, n. 25) si è asserito che il prof. Girolamo Bertolotto ha scoperto nella Biblioteca della R. Università di Genova, un frammento autografo di poema inedito sconosciuto di Gabriello Chiabrera con disegni originali a penna del pittore Bernardo Castello. Ora è bene mettere in so.do che la pretesa scoperta si riduce a questo. Alla domanda cioè del ms. fatta alla Biblioteca dal sig. Bertolotto, il quale aveva scoperto nel Catalogo il frammento Chiabreresco. Vogliamo poi supporre che egli non ignorasse come quel ms. fosse già citato nelle Relazioni a stampa della Biblioteca stessa edite ben due volte per cura del prof. Celesia, e se ne toccasse , ancora riproducendone alcuni versi, dal prof. Niccolò Giuliani nelle sue Notizie della tipografia ligure inserite negli Atti della Società Ligure di Storia Patria (vol. IX, pag. 278). La stessa notizia veniva data testé dalla Nuova Cronaca Artistica (n. 1) , aggiungendo che il dott. Bertolotto intende pubblicare quel frammento. E noi desideriamo che sia presto. * * * Nel resoconto della seduta 5 febbraio corrente dell’ Académie des inscriptions et belles lettres di Parigi troviamo : « M. l’abbé Giorgi envoie à 1 Academie la copie d’une pièce en vers latins, retrouvée dans les papiers d une famille corse, et que la tradition attribue à Christophe Colomb. M. Gaston Paris , après avoir examiné ce texte, ne peut y reconnaître qu une pièce fabriquée pour appuyer la prétention insoutenable de quelques Corses, qui ont voulu faire croire que la Corse était la patrie de Colomb ». (Révue Critique, 1886 , n. 7). Del resto, a proposito di questa pretesa patria di Colombo, fino dal 1882 il Cortambert dava la baia con molto spirito, e sana logica all’Ab. Casanova (Révue de Géographie, Dèe. 1882, pag. 453 e segg.), e concludeva consigliando 1 les historiens et les géographes à le maintenir encore Génois , puisqu’il prétendait lui-même être un des enfants de cette cité ». E quindi, secondo suo parere a questo proposito, « rien de changé en France : il n’y a qu’une statue de plus! ». Toccando poi dei pretesi ritratti dell’eroe, e della mistificazione del Martinez per quello che si pretendeva scoperto a Madrid, con fina ironia metteva fine alla sua rassegna con queste parole : « Allons, felicitez-vous, messieurs de Calvi et de Madrid , de tous côtés vous nous paraissez faire de la bonne besogne. Désormais, grâce à vous , plus de doute sur la naissance du grand navigateur, plus d’incertitude à l’égard de ses traits. Tout est dit, — n’en parlons plus ». So GIORNALE LIGUSTICO Scritti storici e letterari nei periodici politici liguri. — La patria di Cristoforo Colombo nella Liguria Occidentale di Savona numeri 36, 37. 38, 43, 44, 46, 47 (in questi due numeri è inserita una notevole lettera del cav. Ab. Angelo Sanguineti), 48, 49. Caffaro. — Rerum Italicarum scriptores (Giovanni Scriba) n. 1. — Leonardo Fea in Birmania, n. 12 (supp.). — L'Abate Luigi Boselli, n. iq. — L’ultima delle code (XXX) n. 2 5 (supp.). — Il mondo ignoto (XXX) n. 27 (supp.). — La conquista dell' Africa (G. B. Licata) n. 28, 29, 30 (supp.). — Il sale (XXX) n. 33 (supp.). — L’Africa preistorica e storica (Pietro Porro) n. 38 (supp.). — Le sette religiose in Russia (XXX) n. 43 (supp.). — La patria di C. Colombo (Giovanni Scriba) n. 51, 52. — Nicolò Ceba (») n. 57, 58, 60. — Gli uomini —fenomeni (XXX) n. 59 (supp.).— Il Marchese di Seignelay a Genova (Giovanni Scriba) n. 71. — L’origine della vita e Γ organizzazione della materia (XXX) n. 72 (supp.). Il Cittadino. Scorribande Archeologiche : Il Gennaio dell' antica Roma (Orobius) n. 1. — Il Febbraio nell’ antica Roma (Orobius) n. 32. — Le Famiglie Liguri (L. A. C.) n. 3, 7, 8, 13, 17, 19, 20, 21, 24,25, 26,27, 29, 30, 32, 33, 34, 36, 38,39,42,43,41, 45, 47, 48, 55. 5Ó, 57. 59. 6l> 64, 65, 71, 72. La festa dell’ Epifania (L. A. C.) n. 6. — S. Fruttuoso di Capodimonte (L. A. C.) n. 10. — A proposito dell' ordine di Cristo (Augusto) n. 12. — Bibliografia (P. C. R.) n. 37. — L’arte dei giardini (D.) 11. 39. Il Movimento. Il Canto Carnescialesco (Mario Mariani) n. 67, 68, 7l> 73· Nuovi giornali. — Da Foligno si annunzia la pubblicazione della Miscellanea Francescana di storia, di lettere, di arti diretta da Don Michele Faloci Pulignani (Un fase, di 32 pagine ogni bimestre, L. 6. Tipografìa Campitelli). — L’editore S. Lapi di Città di Castello assume la pubblicazione del Giornale d’ erudizione artistica diretto dal prof. Adamo Rossi; periodico che riprende nuova vita (Un fase, al mese di 22 pagine, L. 15). — L’ egregio ed erudito archivista Iodoco del Badia ha incominciato a mandar fuori in Firenze la Miscellanea Fiorentina di erudizione e di storia (Un fase, al mese di 16 pagine, L. 7). Ecco il sommario del i.° Fase. — Due parole di programma — Memorie. 11 Corridore dal Palazzo Vecchio al Palazzo de’ Pitti. I. Del Badia — Documenti illustrati. Petizione di M. Niccolosa di Ventura Mereiaio alla signoria del 1377. A. Gherardi — Appunti e notizie. Libri con falsa data di stampa. I. D. B.— Prezzi di vettovaglie. Gh. — Genealogia (Acciaiuoli) G. B. Ristori. Supplementi al Repetti (Falgano) I. D. B. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO Si MAGGIO, MAJO [Nome del quinto mese dell’ anno volgare, nel quale la Primavera mette in mostra la promessa di tutti i suoi doni, ne' paesi meridionali ed insulari chiamato più generalmente Maju o Majo. Da cui prese il nome la Cannone, cantata ordinariamente per Calen di Maggio a lode di questo mese, detta eziandio Maggiolata, ed in alcuni luoghi delle due Riviere Liguri Cantegua, Cantigola e Cantarella ; ed il Dramma eseguito da’ contadini, spesso d’argomento eroico o religioso, recitato nel mese stesso, che nel Senese ed Amiatese si noma Bruscello, nel Pistoiese Giostra , nel Bresciano Giuoco; e l’Albero o Ramo fronzuto posto il predetto giorno alle case per amore o riverenza, in Corsica Macchiu, nel Padovano Mado , nell’Emilia Maglio, e spessissimo nel Toscano e nel Milanese Majo; od il Μαζζο de’ fiori scambio dell’albero o ramo, detto in alcune parti della Sicilia Maju o Majo; e quel Ramo d’albero verdeggiante o piccola Antenna adorna, portata in mano a modo di bandiera da uno de’ Mag-giaiuoli nell’andare a cantar Maggio, o Bandiera di Mawio o O ' òò ^ anch’essa in Toscana nominata Majo e nell’ Emilia Maglio (se non è nel caso presente e in quel di sopra un idiotismo letterato') ] '-redo non esserci stato popolo grande o piccolo ne’ paesi un poco favoriti dalla natura, che non abbia sentito il bisogno di celebrare in qualunque maniera il ringiovanire dell’ anno ; massime i campagnuoli, a cui lo splendido fatto promettitore d’ ogni bene che le stagioni possono recare, dopo la mestizia e i patimenti del verno, circonda ed agita tutta la vita; e però da loro deve esser nato quel costume. Del quale per altro le più antiche memorie appartengono alla città che 82 GIORNALE LIGUSTICO aveva scrittori da tramandarne la notizia. E cadono nel tredicesimo secolo, quando Firenze beata di concordia fra’ grandi e popolani, incominciò per festeggiare il ritorno della primavera , ad eleggere in calen di Maggio il Re dell’ amore (che allora ben si poteva chiamare tale), con drappelli di popolani e cavalieri vestiti ad una divisa, non intesi se non in sollazzi , in giuochi, in conviti, in balli pubblici mescolati di giovani delle due classi dopo poco funestamente nemiche; cosi continuando fino al giorno dedicato a San Giovanni, nel quale l’esultanza saliva al colmo (i). Ancora dopo la divisione civile, venuta tutta la città alle mani degli Artefici, eglino non vollero in quella festa mostrarsi da meno separati da’ Grandi; e forse largheggiarono più che non fecero congiunti, in ogni maniera di magnificenza e diletti per un mese intero ; particolarmente nell’ ossequio al loro Re condotto trionfalmente per le vie colla corona in testa da più brigate di giovani inghirlandati di fiori, che gli tenevano un drappo ad oro sopra il capo e danza-vangli attorno al suono di parecchi istrumenti; oltracciò al continuo era corte bandita a chichessia (2). Il quale Re artigiano de’ Fiorentini ricorda il Rettore del Collegio de’ Fab-bri bolognesi, portante egli pure nelle processioni toga di broccato e corona (3) ; e ricorda anche più le popolane Regine e Contesse di Maggio dell’ Emilia ; Contesse e Regine in Bologna, Regine in Modena ed in Ferrara, donde l’antico proverbio Signor di Maggio per dire Signor da hurla. Or queste Regine e Contesse si riscontrano la prima volta, (1) Villani G., VII, 89 ; Vili, 39. D’Ancona, La Poesia popolare italiana, p. 37; Livorno, 1878. (2) Villani G., X, 216. (3) Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria dell’ Emilia, N. S., II, 100. GIORNALE LIGUSTICO 83 come il Re fiorentino, nel secolo decimoterzo. Ad una delle quali mentre in Bologna, l’anno 1268, sedeva nell’atto della sua dignità sotto un portico nella contrada di Saragozza, venne involata, senza alcun rispetto, la bellissima borsa che teneva alla cintura; del che, incolpati alcuni giovani, Pietro di Massimilla , padre della Contessa , gli affrontò e ne ferì uno (1). O Contesse 0 Regine, ogni quartiere, porta o cinquantina della città aveva la sua ; eletta in Modena ed in Bologna il primo di Maggio, in Ferrara il giorno dell’Ascen-sione, da’ giovani popolani o fanti (fanti, perchè in guerra i popolani andavano a piè), la più bella e meglio costumata fanciulla del quartiere, regnante ogni festa di quel mese fino a Pasqua Rosata. Sotto un portico de’ più spaziosi o in una porta della città sotto l’ampia volta della torre che la muniva, ergevasi un palco, adorno di arazzi di Fiandra, di pitture e di festoni di verzura, nel cui mezzo sopra alto seggio sedeva la fortunata fanciulla vestita e incoronata regalmente. Ella aveva a lato donzelle gentili a corteggiarla e servirla , ed altre inghirlandate danzavano davanti a lei e cantavano la canzone cominciarne Ben venga Maggio (2), facendo cerchio cortese a’ passanti, a’ quali offrivano mazzolini di fiori ricevendone una mancerella non mai negata (1) De Grifonibus, Memor. Hi st., A. 1268, Apud Murat, R. I. S., XVIII. (2) Carlo Borghi (11 Maggio, pag. 57, 58: Modena, 1848) avendo letto nel Diario Ferrarese MS. di Marcantonio Guarini, che le fanciulle ferraresi dinanzi alla Regina di Maggio cantavano una canzone con quel primo verso, suppose che essa fosse l’attribuita a Lorenzo il Magnifico. Lasciando stare che il Ben venga Maggio od altri versi di seguito appartengono ad una Ballata di Guido Cavalcanti, colla quale il Magnifico o il Poliziano che sia, intrecciò a fidanza la sua can- 84 GIORNALE LIGUSTICO senza nota di villania e di vergogna. La Contessa o Regina di Maggio sedeva quasi tutta la giornata da nona a vespro , e la calca degli ammiratori e de’ curiosi spesso impediva il passaggio delle persone che in que’ giorni festivi si recavano agli uffici divini. Il perchè un Governatore di Modena nel 1546 volle provarsi di proibire quello spettacolo ; ma due giorni dopo , avverandosi un’ altra volta zone, quel verso non è che un bel salutare a chi arriva, così naturale e comune che non si richiede di copiarsi Γ un 1’ altro per farlo. Un’ antica Maggiolata romagnola reca Ben vegna Maz (Placucci, Usi e Pregiudizi dei contadini detta Romagna, pag. 107: Palermo 1885). — Una sarda: Maju, Maju, beni venga = (De Gubernatis. Storia comparata degli usi nuziali, pag. 63. Milano 1869). Io posso allegare Maggiolate liguri di paesi a cui pur troppo non approdò mai la luce del Poliziano o del Magnifico. Fra queste si trova il predetto verso nella Maggiolata di Falcinello, ripetutovi come intercalare alla fine d’ogni strofa. In quelle di Biassa e di Canapiglia similmente: Mazo ben vegna. In quella di Bolano si dice : Ben venuto il nostro Maggio. In quella di Sestri di Levante : Sia ben venuto Maggio. (Belgrano, Il Maggio, pag. 13: Genova, 1873). Anche Camillo Scaligeri, cioè il P. Adriano Banchieri, autore del Cacasenno, compose una Ballata boschereccia, le cui strofe hanno per primo verso : Ben venga Maggio. (Di Sulpizia Romana trionfante. Trattenimenti cinque di Camillo Scaligeri dalla Fratta, pag. 43 e seg. : Bologna, 1668). / GIORNALE LIGUSTICO 85 che Le cride modenesi — Durano trenta dì meno d’ un mese dovette ritrattarsi, solo raccorciandone la durata. Si comprende facilmente che le fanciulle cavassero non piccolo utile da quella festa, oltre all’onore, che poteva anch’esso diventare utile. Tuttavia per alcuni accenni pare che i Modenesi benestanti non portassero gran devozione a quelle fiorite Regine, se è vero che quando esse si facevano, per fuggirle , eglino se n’ andassero fuori alle loro possessioni ; e comunque sia, le Regine di Maggio dell’Emilia scomparvero verso la fine del secolo diciottesimo, per altro dopo più secoli di sopravvivenza al Re fiorentino loro contemporaneo (1). Toccai sopra de’ balli a cielo aperto usati decorosamente in Firenze nelle feste maggiaiuole, e molti ancora se ne potrebbero addurre ; ma nessuno più tristamente famoso di quello di calen di Maggio del 1300. Nella sera del quale giorno alcuni giovani e seguaci de’ Donati, dopo cenato insieme , andavano per la città a cavallo armati a vedere le feste e i balli che si facevano ; fra le quali distinguevasi quella della contrada di Santa Trinità, molto pomposa, dove le più belle giovani di Firenze si erano ragunate a ballare. Quivi eglino si abbatterono nella brigata de’ Cerchi, circa trenta uomini a cavallo per banda, con seguito di masnadieri e servitori a piè; e vi era per lo stesso diletto assai popolo. Sicché tra per la gran gente in piazza non vasta, e più pel cattivo animo che nutrivano fra loro que’ giovani, non volendo nessuno in quella stretta dare un po’ di luogo all’altro, ed urtandosi necessariamente co’ cavalli, incominciarono a sdegnare, ed in breve, sguainate le spade, appiccarono una grande zuffa; nella quale a Ricovero, figliuolo di Ricovero de’ Cerchi, per (1) Bianchi T., Cron. Modan., Ili, 437; V, 471; Vili, 193, 194. Borghi, Il Maggio cit. cap. 2- 86 GIORNALE LIGUSTICO disavventura fu tagliato il naso da un masnadiere de’ Donati cioè da uno di quelli che le Repubbliche popolari con ma-ravigliosa imprudenza permettevano a’ Grandi di tenersi dattorno, guardiani e sgherri; di che crebbe a tanto il rancore che la città tutta se ne divise, e le sette de’ Bianchi e de’ Neri, sorte allora di poco da seme pistoiese, presero subito grande corpo e vigore (i). Il fatto che più coceva era il tagliamento del naso; veramente atroce offesa, indelebile; questa volta disgraziatamente eseguita, e un’altra volta sol minacciata ma uou meno funesta di conseguenze che l’eseguita: anco il naso ha i suoi fasti nella storia. Dico della contesa fra Giano della Bella e Berto Frescobaldi, Cavaliere de’ Grandi, che nel 1293 voleva occupare a Giano certe sue ragioni per forza e Giano repugnava; onde il Frescobaldi alla resistenza di lui inaspettata, montò in tanta superbia, che, posta la mano sul naso a Giano, gli disse che glielo mozzerebbe, se ardisse cozzare seco ; al quale oltraggio Giano rispose rivoltando lo stato della città contro l’insolenza de’ Grandi (2). Medesimamente in Perugia parti e feste maggiaiuole si mescolarono insieme e s’insanguinarono. Questo avvenne il 6 maggio 1456, giorno dell’Ascensione, in cui per antichissimo costume i Ferraresi eleggevano le Regine di Maggio; nel quale giorno uscirono in piazza a ballare cento giovani amici e seguaci degli Oddi, tutti armati con le spade alla cintura, gridando Oddi, Oddi, e poi lo stesso sotto le case di quelli della Corgnia loro avversari nel reggimento civile ; i quali stimandosene ingiuriati e provocati, saltarono fuori e ferirono molti; e novità di grande importanza sarebbe nata se gli ufficiali supremi (1) Villani G., Vili, 39. Compagni, Cron. Fior., lib. I. Ammirato, Stor. Fior. lib. IV. (2) Ammirato, loc. cit. GIORNALE LIGUSTICO 8? ed altri buoni cittadini non si fosseso interposti (1). Questo per le strade e per le piazze della città. Ma da ciò non si inferisca che anche privatamente non si facessero feste a salutare 1 entrante Primavera. Basti la rinomata di Folco Porti-nari , per la quale avendo egli in quel di raccolto nella sua casa i circostanti vicini, compresovi l’Alighieri, questi, quasi alla fine del suo nono anno di età, vide colà prima volta la Bice, di forse otto anni, figliuola del festeggiarne , vestita colore sanguigno (di fiamma viva, nel Purgatorio) , cinta ed ornata alla guisa che alla sua giovanissima età si conveniva ; e da quel punto amore signoreggiò l’anima sua grande per tutta la vita (2). La bella costumanza dell’ inframmescolarsi le moltitudini di città intere ne’ balli all’aria libera, attesta-trice di educazione e vita pubblica a noi maravigliosa, dalle liete feste di maggio, trapassò a tutte le altre che richiedevano manifestazione solenne e sfarzosa di generale allegrezza. Si trasportò alle feste religiose, più cordialmente popolari di tutte. Come quella per San Mercuriale di Forlì, nella quale si ballava popolarmente con vari strumenti sotto alle case degli amici e de’ parenti (3). Come le friulane, nelle quali Bertrando, Patriarca d’Aquileja, ordinò danze su i sagrati dinanzi alle chiese, anche per favorire i matrimoni; costume mantenuto tuttavia da contadini di Udine, che nella Pasqua di Rose vengono in città a ballare sotto una loggia (4). Come le genovesi moltissime, fra le altre quelle di Sant’Anna, di San (1) Antonio di Andrea di ser Angioli dei Veghi di P. S. Angelo nella pag. 630 della Parte I. delle Cronache di Perugia; Firenze, 1850. Guarini, Diar. Ferrar., nella pag. 17 del Maggio cit. del Borghi. (2) Dante, Vita nuova, § 11. Div. Commedia, Purgat. XXX. Boccaccio, Vita di Dante Alighieri, pag. 17; Venezia, 1825. (3) CoBELLi, Cronaca Forlivese, Proem. pag. XV : Firenze, 1874. (4) Marcotti, Donne e Monache, pag. 382: Firenze 1884. 88 GIORNALE LIGUSTICO Pantaleo e di Sant’Eusebio (i) ; e fuori di città, più frequentata di tutte e più nota, quella di Sant’Oberto di Sestri a ponente, dove concorrevano popolari, patrizi e mirabil numero di donne vestite suntuosamente, e vi si ballava in tre piazze grandiose per soddisfare a tutti gli ordini della gente, sotto tende , con largai distribuzione di rinfreschi ; ciò pure nelle calamità della guerra coll’Austria l’anno 1748, anzi allora più vivacemente che mai per la presenza alla festa di tutti gli Ufficiali alleati Francesi e Spagnuoli, intanto che mille-cinquecento Francesi del Reggimento Reai Borgogna facevano esercizi a fuoco e gazzarre sulla riva del mare (2). Si ballava a popolo nelle gioie domestiche de’ Principi amati, quale fu per buon tempo Cecco III degli Ordelaffi Signore di Forlì, a cui essendo nato un fìgliuol maschio desiderato, per allegrarsene seco convennero in piazza tutti i dottori, i cavalieri, i gentiluomini colle loro mogli, e cittadini e contadini ad un ballo comune, e vi ballò anche il Signore (3). E si ballava pubblicamente per onorare la presenza de’ Principi stranieri, in Firenze col concorso delle più belle fanciulle e maritate e giovani di grandi famiglie, ora a piè della ringhiera della Signoria entro uno spazio circondato di panche o steccato, ora in Mercato Nuovo coperto di rovesci (4). In Siena per la venuta della Duchessa di Calabria si fece un ballo sotto il palazzo de’ Signori, dove si raccolsero quante giovani da bene e fanciulle ed uomini danzatori avesse la città; e vi era una lupa grande di legno, tutta dorata, dalla (1) Sen. Gen. Decret. 21, 29 julii 1604; 23 julii 1640: MSS. Arch. Gen. (2) Belgrano (Giovanni Scriba), nel Caffaro degli 11 luglio 1860. — Neri, Costumante e soliari, pag. 77 e seg.; Genova 1883. (3) Cobelli, Cronaca Forliv. cit., 238. (4) Cambi, Stor. Fior., I., 326, 370 (Deliz. Erud. Tose.). Ricordi di Firenze del 1459, ne^ vo'· H Rer. Ital. Script, ex Florent. Cod. pag. 739. GIORNALE LIGUSTICO S9 quale, aprendosi ella a un dato punto nel ventre come il cavallo troiano, scese giù una moresca di dodici persone ed una vestita a monaca, e ballarono a una canzone che diceva: Non voglio esser più monica, Arsa gli sia la tonica Chi se la veste più (1); parole, che se opportune, lo giudichi il lettore. Adunque per Calen di Maggio , balli, canti e suoni e corse di cavalli in quasi tutte le città; in Roma e luminarie ed alberi di cuccagna, di cui parlerò fra poco ; in Ferrara corse di cavalli, d’asini e d’ uomini (2). De’ giuochi ferraresi e della lieta stagione cantò Tito Stroza latinamente, come taluni sapevano, quando la luce tedesca non aveva ancora illuminato le scuole : Candida lux aderat maijs vicina Calendis, Quam festam veteres instituistis Avi: Quam pia solemni celebrat Ferraria culta, Aureas cum admissis proemia ponit equis ; Cumque frequens tardos populus spectator asellos Increpat, et plausum turba jocosa ciet: Cum rapido certat juvenum manus aemula cursu, Vitta retro flexam cum premit alba comam. Tempore quo zephirus viridanteis evocat herbas, Et vario pictam flore colorat humum. Purpureo cum vere novus reddit annus, et ales Plurima frondosis garrit in arboribus Hic dum sollicito spectantem lumine cursus Ante mea arcitenens constitit ora puer (3). (1) Allegretti, Diario Senese, col 772 (R. I. S. XXIII). (2) Manzi, Discorso sopra gli Spettacoli, le Feste ed il Lusso degli Italiani del Secolo XIV, pag. 26: Roma, 1818. (3) Strozæ T., Elegia in Carmina Illustrium Poetarum Italorum, tom. IX, pag., 972; Florentiae, 1722. 90 GIORNALE LIGUSTICO A5 quali giuochi si frammettevano in giudizioso temperamento gli esercizi che ingagliardiscono la persona e Γ addestrano alle armi; giuochi, che sebbene severi e taluni pericolosi, nientemeno al modo romano i nostri antichi li chiamarono giuochi, insegnandoci esser diletto quanto può conferire alla difesa ed all* onore della patria. Però alcune città ordinarono in quel mese i giuochi de’ sassi e delle pugna, particolarmente pe’ popolani (i); ed i giuochi delle armi per le classi più fortunate. E gli armeggiatoti, elettissimi giovani, riccamente addobbati ed armati, o giostravano svariatamente e torneavano colle spade e lance spuntate, o sopra cavalli corridori forniti di numerosi sonagli le testiere e i pettorali e di rose e fiori, scorrevano per la città bigordando e giocando co’ cavalli; massime sotto alcune finestre; donde le belle donne facevano piovere ghirlande sopra di loro, ed eglino con gara ardente le ricambiavano a melarance (2). Sendochò questo giuoco del fare agli aranci fosse in que’ di uno de’ mille spe-dienti che gli innamorati mettevano in opera, sì come oggidì nelle pubbliche mascherate essi lanciano alle finestre delle belle preziosi sacchetti o cartocci di confetti, o mazzi di fiori per salutarle ed acquistarne la grazia (3). In Napoli nelle stesse armeggerie, onde quella città appariva splendidissima ed esempio alle altre, le giovani donne inghirlandate di novelle fronde guardando lietamente i cavalieri amatori che passavano sotto il oro balconi, con audacia amorosa, quale con nuovo dotto e quale con sembiante e quale con parole confortava il suo del suo amore (4). Ma tutto ciò per bello e grande che fosse, non poneva alle feste cittadinesche del Maggio il suggello (1) Vedi Giuoco delle pugna e de’ sassi. (2) Folgore da San Gemigkano. Rime, pag. 13: Bologna, 1880. (3) Giannotti, Op, II, 215. Firenze, 1850. (4) Boccaccio, Fiammetta, lib. IV e VI. : Firenze, 17-3* GIORNALE LIGUSTICO 91 della autenticità, non imprimeva loro il carattere, per dirlo co I eologi, e bisognava quel suggello cercarlo fuori delle mura. Ecco pertanto che in Toscana, nell* Emilia, e in altre parti fino al secolo diciassettesimo e più giù, in Sicilia tuttora (di lei parlerò poi particolarmente) la mattina prima di Maggio frotte di garzoni e fanciulle andavano cantando alle ville ed alla sera ne portavano verdi rami di alberi (i Maj) che mettevano alle finestre delle loro case in augurio di buona fortuna, 0 li regalavano per le altrui in pegno di affetto (1). Il quale ornamento in tutte le Calende, non che in queste, usavano già i Milanesi coll’alloro, prima che San Carlo Borromeo desse la caccia agli avanzi di gentilità così numerosi nella sua Diocesi (2). Nella stessa guisa il primo giovedì, non il primo giorno di maggio, nel Friuli i giovani nobili uscivano la mattina a’ campi con pompa di trombetti e sonatori; facevano raccolta di Maj, e ritornati traversavano la tei ra co cavalli verdeggianti di fronde sotto gli occhi delle ansiose fanciulle affacciate alle finestre; nel far la qual cosa, di mano in mano alcuno, dove il cuore lo guidava, deponeva un Majo sulla cara soglia, che valeva amore costante e nozze deliberate; e spiegava i mazzolini di garofani bianchi trovati sul davanzale dopo le mattinate misteriose (3). In Perugia, oltre al già notato dell’Emilia in generale, i cittadini allo stesso effetto formavano compagnie, una per contrada, con ufficiali particolari o festaioli, e ciascuna il primo di maggio piantava un Majo (forse albero, non ramo) (1) Βυτι, Coinin. Purg., XXVIII. Salvini, Annotazioni alla Tancia, Pag· 558· 1 irenze, 1726. Polidoro \irgilio, Degli inventori delle cose, lib. V, cap. 2: Firenze, 1587. Alunno, Fabbrica del Mondo, art. 1165. (2) Castiglioni, Sentimenti di S. Carlo Borromeo intorno agli Spettacoli, p. 184.: Bergamo, 1759. (3) Margotti, Domi, e Mon. cit., pag. 383. 92 GIORNALE LIGUSTICO nella sua contrada e gli ballavano attorno, terminando la festa con una cena fraterna, nella quale si creavano gli ufficiali per l’anno vegnente (i). Qui la conformità dell’atto mi fa ricordare che sulla fine dell’ultimo secolo, nelle maggiori piazze delle città nostre , intorno ad un albero che si diceva della libertà, rizzato per impulso straniero da mani italiane, con bandiere a’ lati e con un berretto rosso nella cima , con musiche e canti pur essi non italiani, uomini e donne di tutte le mene trescavano, come in antico ballavano sotto i Maj i Perugini ed altri nostri fratelli ; ma questi per diletto innocente o per soddisfare ad affetti soavi, e quelli compiendo inconsapevoli la servitù della patria. Gli stessi Principi Estensi la mattina del Calen di Maggio con festevole brigata intervenivano alla cerimonia popolare; col popolo andavano fuori a torre i Maj, e tornati correvano la piazza colle frasche in mano spingendosi piacevolmente l’uno incontro all’altro, come a rallegrarsi insieme della dolce stagione ed augurarsela fortunata (2). Ercole d’Este, poi detto I, mentre non ancora Signore governava Modena, quivi innamoratosi di Madonna Bartolomea Ferrari bellissima ed onoratissima, alla vigilia di San Giacomo fece piantare alla porta di lei un bel Maio carico di drappi svariati e simili galanterie (3). Altra usanza in Forti, presso la metà del secolo quindicesimo; quella che il di primo di maggio, al suono della campana del popolo, il Signore trionfalmente vestito ed armato, a cavallo, con dintorno capitani, dottori e cittadini, ciascuno munito d’un Maio, andava alle case dei Gonfalonieri popolari, fatti il giorno innanzi nella (1) Andrea dei Veghi, Cron. Perug. cit., pag. 642. (2) Ferrarini, Cronaca di Ferrara, MS. allegata dal Borghi, nel suo Maggio cit. pag, 7. Frizzi, Storia Ferrar. V. 97: ed. 2 a. (3) Bianchi T., Cron. Mod. cit., VI, 219. GIORNALE LIGUSTICO 93 festa di S. Mercuriale, e trovava tutte le contrade per dove passava ammalate, e nella via sotto alle case de’ Gonfalonieri, tavole apparecchiate di molte vivande pel suo seguito ed in casa, per lui e pe’ cavalieri, una nobile e ricca credenza di tutte gentilezze di confezioni e di paste, e fino a sera si ballava e si cantava; la quale consuetudine, dice un cronista, cessò presto coll’insorgere delle sette (i). Ma a Firenze non cessò, non ostante le parti, non ostante la servitù, la quale anzi favoriva quelle feste ed altre ne inventava, non così costumate e decorose, e, per ammollire gli animi e distaccarli dalla patria. Sicché nella maggiorìa di Lorenzo il Magnifico , maestro a’ suoi nell’ opera parricida, le Calende di Maggio continuarono colà a riscaldare le fantasie, se non i cuori, di tutti, d’ogni età, condizione e sesso, non potendosi reputare a pretta fantasia ciò che ne scrisse della bella città, Michele Marnilo allo spartano Manlio Rallo nel seguente epigramma, degno di venire appresso ai versi dello Stroza : Non vides verno variata flore Tecta? non postes viola rcvindos? Stat coronatis viridis juventus Mixta puellis. Concinunt majas pueri kalendas, Concinunt senes bene feriati; Omnis exultât locus, omnis aetas Lœta renidet. Ipse rejectis humero capillis Candet in palla crocea Cupido, Acer et plena jaculis pharetra, Acer et arcu. (i) Cobelli, Croit. Forliv. cit., Proem. XVI. GIORNALE LIGUSTICO Et modo huc circumvolitans et illue Ncctit optatas juvenum choreas, Artibus notis alimenta primo Dum parat igni. Nunc puellaris medius caterva Illius flavum caput, illiusque Comit et vultus, oculisque Letum Addit honorem. Mitte vasanos, bone Rhalle, questus Iam sat indultum patria ruina est. Nunc vocat lusus, positisque citris Blanda voluptas. Quid dies omnis miseri querendo Perdimus dati breve tempus avi? Sat mala laeti quaque sorte, ccelum hoc Hausimus olim. Profer huc cadum, puer Hyle, trimum Cedat et moeror procul et dolores. Tota nimirum Genio, mihique Fulxerit haec lux (i). Similmente nel secolo diciassettesimo alla entrata del maggio, le ragazze della plebe e del contado, una delle quali con in mano un Majo o ramo d’albero adorno di fiori, giravano insieme per Firenze cantando, al suono d’un cembalo, le allegrie di quel mese (2). In Roma le avranno cantate come altrove; impossibile agli italiani di non cantare negli affetti potenti. Certo è che molto anticamente i giovani romani, la mattina (1) Marulli Costantinopolitani, Epigrammata et Hymni, pag. 17: Parisiis, apud Iacobum Dupuis, 1561. (2) Minucci, Note al Malwantile, cant. VI. st. 35. GIORNALE LIGUSTICO 95 del primo di maggio portavano in città, dalla campagna, un altissimo faggio o quercia che innalzavano in Campidoglio, tutta sbucciata e concia, se non un po’ di chioma, donde penzolava un fragdlante palio di uccellami e altre ghiottornie, le quali non senza contrasto e stento arrampicandosi su per quella antenna e giù sgusciando or questi or quegli, si sforzavano molti di giungere ad abbrancarle (i). Maggio dissero questo misero spettacolo i Romani (2); ma piuttosto era albero innalzato in Calen di Maggio, per festa o giuoco popolare, che noi chiamiamo Albero della cuccagna·, quello che da’ Fiorentini antichi stile de’ paperi, perchè in cima vi legavano de’ paperi, giuoco da loro usitato il giorno di S. Romolo, quelli di Santa Margherita e di Santa Maria Maddalena e quello di Ferragosto (3). In progresso di tempo laddove prima di questi alberi per Calen di Maggio se ne piantava in Roma uno solo, in Campidoglio, venne il costume di piantarne un’altro nel cortile del Vaticano, alla Podestà che là risiede; ma nel 1652 anche quella festa si sospese e di mano in mano mancò affatto (4). Durava in Genova nel predetto secolo diciassettesimo, coll’in-nabarsi la notte del primo di Maggio, dinnanzi alle case dei nobili, un Maio, fregiato dell’arme loro, al suono di guerrieri strumenti ; quantunque due Gride de’ Serenissimi Collegi dei 18 febbraio 1617 e 31 gennaio 1618 avessero proibito per due anni le musiche solite farsi la notte di quel giorno per la città; (1) Alciati, Cod. tit. de Majuma. Galganetto, De Iure publico, tit. 44, num. 12, citati dal Manni, nel Discorso II Maggio, nel tom. Vili, pag. 119 delle Veglie piacevoli: Firenze 1816. Peresio, Il Maggio Romanesco, capi-tolo i, 7 e 8: citato dal D’Ancona, Origini del Teatro in Italia, 11, 332: Firenze 1877. (2) Peresio, Il Magg. Rom. cit. cant. 1, ott. 8. (3) Manni, Il Maggio, cit. pag. 19. (4) Gigli, Diario Romano, MS., maggio 1652, citato dal Ciampi, Vita d’Innocenxp Pamfili, pag. 219: Roma 1878. 96 GIORNALE LIGUSTICO ____ —:--1_ proibizioni temporarie che si confermarono e non si osservarono (1); collo stesso effetto che nel secolo tredicesimo e ne’ seguenti si proibirono in Firenze, Bologna, Pisa ed altrove le mattinate (2). Ben vediamo in Modena condursi prigione un giovane, per avere piantato un Maio la notte del primo maggio 1542, contro il bando delle mattinate; il che vuol dire che egli non pure piantò, ma cantò e sonò (3). Ma io mi penso che questo gran zelo, non fosse perchè avrebbe dovuto essere in ogni tempo, ma sì per la carestia, che allora desolava la città, nella quale una festa rumorosa, quasi schernitrice de’ mali pubblici, poteva irritare il popolo addolorato; ed anche nel 1540 per la stessa ragione in Modena non si permisero le Regine di Maggio, sotto la pena di venti soldi per ciascuna e di essere spogliate (4). In Siena non può dubitarsi che fino agli ultimi del secolo sedicesimo nella città si cantasse, e per avventura anco da signori il Maggio nella forma lirica prima (5). S cantava nel secolo diciasettesimo entro Bari, da’ contadini che conducevano seco una bella coppia di buoi e portavano in mano un ramo fronzuto, abbellito di nastri e sonagli, augurando abbondanza e letizia alla gente (6). Tra le grandi città rimaste più devote al Maggio, trovo nel secolo diciottesimo Milano, in più siti piantata di Maj (chè Maj si dicevano da’ Milanesi , non che Maggi), con suoni, canti, e conviti; ma non senza disordini (1) Carmeli, Storia divari costumi sacri e profani, lib. Ili, cap. 7: Padova 1750. Belgrano, Il Maggio, pag. 8 e 9: Genova, 1873. (2) Rondoni, Constituto Fiorentino, pag. 52: Firenze 1882. Ordinamenta facta per D. Mattheum de Corrigio Potestatem Bononia (1261-1266), cap. 13. Breve Pisani Comunis (1286) III, 48. (3) Bianchi T., Cron. Mod., cit., VII, 243, 244. (4) Id. VI, 327. (5) Mazzi, La Congrega dei Ro\\i di Siena, I, 315: Firenze 1883. (6) Gimma, Trattato dei Poemi d’Italia, presso il Manni, Il Magg. cit., pag. 126. GIORNALE LIGUSTICO 97 dall’arbitrio quasi generale, e generalmente tollerato, ma non là, di tagliare gli alberi de’ Maj in qualsiasi padronato, anche di Chiesa e per forza, bisognando, dal che inimicizie e risse, e talora uccisioni (i). In Bologna spente le antiche feste popolari, entrò l’uso nel secolo diciassettesimo che la mattina di Calen di Maggio i cavalli leggieri ed i soldati svizzeri andassero a prendere i Maj e ne portassero uno in palazzo al Rappresentante del Governo, ed uno al Gonfaloniere Capo del Municipio ; e scambio delle Regine o Contesse del Maggio, i ragazzi del popolo presero a fare altarini per le vie coll immagine di un Santo adórna di fiori, accattando dai passanti (2), la quale costumanza si conserva in Pistoia, nel resto della Toscana, in Roma e altri luoghi. I ragazzi di Roma chiamano altarino qualunque seggiola messa fuori dell uscio da via con una Madonnina sovr’essa, inghirlandata. Ed agli uomini dicono : Belli belli giovanotti Che mangiate pasticiotti E bevete del buon vino , Un quattrin sull’ altarino. alle donne : Bella bella donna, Un baiocco alla Madonna ; ad una fanciulla: Bella bella ragazza, Un quattrin per la pupazza (3). Fortunatamente qualche cosa del Maggio antico e degli antichi costumi paesani vive sempre, anco in alcune piccole terre della Sicilia e vi si lascia vivere; laddove in altre del (1) Castiglioni, Sentimenti, cit., pag. 183. (2) Masini, Bologna illustrata, I, 299 : 1666. (3) Tigri, Canti popolari Toscatii, Prefazione, pag. LIV. Muller, Romaneschi e Romanesche, citato nella pag. 734, tom. X del Propugnatore. Giork. Ligustico. Anno XII. η GIORNALE LIGUSTICO continente e pure in certe viilate, quelle feste ricordanti le primo gioie del genere umano, che il Governo assoluto non impediva (per consueto senza alcun male) il Governo libero tolse in ossequio agli sguaiati, ed agli incivili , che per fare allegrezza si scoltellano. Per altro quello che dell’antico sopravive in Sicilia è grandemente diverso dal detto di Antonio Veneziano (i), il cui racconto non si vuol riferire a costumanze dell’isola, come egli scrive, ma più presto a riminiscenze del continente, dove egli stanziò gesuita più anni: secondo ne stimano uomini assai letterati e delle cose della patria loro investigatori solleciti e valorosi. Ond’è che non essendoci altro di noto per cercare che se ne facesse con grande amore, io disperavo al tutto che la patria di Teocrito avesse luogo nel mio umile discorso per onorarlo. Quando la cortesia e Γ affetto amichevole che fanno miracoli nel mondo, fecero anche questo, di scoprire più e belle reliquie del Maggio siculo finora ignote alla generalità, le quali io reputo a mia gran ventura di mettere in luce (2). Ognuno sa che nel secolo quindicesimo, dopo la morte di Giorgio Skanderbeg, caduta tutta l’Albania nelle branche del Turco, molti Albanesi, sdegnosi della servitù barbarica, fuggirono a più riprese nelle terre venete e circa centomila fra nella Sicilia, nelle Calabrie e nelle Puglie, sparsi in assai paesi, dove gran parte custodirono illibate le memorie e le virtù della loro stirpe ed il dolce idioma; non altrimenti che i secento Greci di Maina riparati in Corsica due secoli dopo (3)· (1) Opere, Epist. dedicat, pag. XXV: Palermo 1859. (2) Il fortunato scopritore e conceditore generoso fu il prof. Ugo An-touio Amico, uno degli esempi di antica bontà e dottrina, oggi ciascuna rara per se, congiunte rarissime. (3) Tommaseo, Proemio alle Lettere di Pasquale de’ Paoli, pagina XC\I; Firenze 1846. Cecchetti, Stabilimenti politici della Repubblica Veneta nell'Albania·, nel vo!. Ili, serie IV degli Atti del R. Istituto Venete di Scienze, Lettere ed Arti. GIORNALE LIGUSTICO 99 Ora nella piccola città siciliana di Palazzo Adriano, una di quelle abitate od originate da loro, insieme con altre tre (Contessa, Piana de’Greci e Mezzojuso), le famiglie che vi hanno stanza usano recarsi la notte dell’ultimo di aprile alla campagna ad ammazzolare fiori. Ed accompagnano P opera al canto giocondo di alcune poesie in lor linguaggio; una delle quali è questa resa italiana dal Giuseppe Crispi vescovo di Lampsaco, egregio di greca sapienza (r): La cara madre mandommi a corre de’ fiori, E con un virgulto di molti ne intrecciai. Corsi i monti e le valli, E tutte le pianure, E tutti i viottoli ballando; Poi ne feci de’ fiori un mazzetto: Passò Cola Reale, E tutto mi disperse quel mazzetto di fiori; Vorrei maledirlo e noi vorrei: Oh che gli crepi il bambino nella cuna ! Io bella dunque contessi (contessei?) Mazzetti di variopinti fiori, E ne mandai a tutti i parenti, E ne divisi a tutti i vicini, Ed anche a te ne dónai, gentile sposa, Cui niun’altra strada piacque In fuori di quella di S. Nicolò (2). Rientrate in città, di tutti i fiori colti quelle famiglie formano un gran mazzo, che li scusa il Maio, od albero di Maggio del continente: e lo pongono alla vista pubblica sul davanzale della finestra, ravvolto il fusto in nastro co’ capi lunghissimi e svolaz- (1) Vigo, Raccolta amplissima di Canti popolari Siciliani, XIII degli Albanesi : Catania 1876. (2) San Nicolò è patrono di Palazzo Adriano, di Mezzojtìso e di Contessa ; della Piana dei Greci è San Giorgio. 100 GIORNALE LIGUSTICO zanti, per allegrezza della primavera ritornata. La quale pratica gli Albanesi di Palazzo Adriano serbarono infino a qui, forse anco per contrarietà verso i latini che non l’hanno, dopo circa quattro secoli di convivenza sempre fra di loro distinti in tutte e quattro le terre greche questi due popoli; fuorché in Mezzojuso, che s’incominciò a latinizzare, facendo rifiuto, non magnanimo e certamente non comandato, del tesoro della lingua materna. I fiori colti o falciati in quell'occasione si domandano da’ siciliani Ciuri di Main, o Fiori di Maggio, come margaritine, tutto gialle, che vestono e dipingono allora i poggi ed i prati. E d’essi fiori gli Ericini, fra gli altri, pochi anni sono, continuavano di andare in cerca la notte del 30 aprile, e ne formavano corone , aggiungendovi de’ rosolacci per dare più risalto alla vista e significare col vivo incarnato l’ardenza del cuore; se per ciò non sia fiore troppo caduco. Alla prima alba di Maggio la gaia comitiva ritornava e cantava questi versi : Vinni Maju, vinni Amuri ’N cumpagnia di rosi e duri ; Bedda mia, cunsulatinni ; che valgono: Venne Maggio, venne Amore In compagnia di rose e fiori ; Bella mia, consolatene. Variante: Vinni Maju, vinni Amuri Cu l’irvuzzi, cu’ li ciuri; ( l’irvuzzi ( li ciuri Maiu vinni ; Bedda mia, consulatinni. Cioè: Venne Maggio, venne Amore Con ( l’erbetta ( i fiori Maggio venne ; Bella mia, consolatene. GIORNALE LIGUSTICO ΙΟΙ Dove è da osservare che il terzo verso porta V irvu^i e i ciuri, perchè lascia una parola ad una parte del coro ed una all’altra, come fossero que’ versi intercalari di canzone perduta. Giunti i maggiaiuoli alla Loggia, centro della città, partivansi d’insieme. Intanto le collane capitavano alle fanciulle ed ognuna, che era promessa od alebat vulnus tacitum vetiis, faceva ad una bambina strecciare una margherita dalla collana e subito si dava a levarne i petali ad uno ad uno ripetendo un si ed un no ad ogni fogliolina staccata dalla chioma del fiore; tale che se Γultima rispondeva al si, lietissima ella promettevasi nozze vicinissime; se al no, lacrimava di grande amarezza il giorno sospirato, lontano ancora chi sa quanto. Questo, detto comunemente da noi Liguri e Toscani indovinello, del voler bene il damo, o così così, o punto, si fa in ogni giorno e stagione e con qualunque fiore, benché sempre preferita la margheritina, in tutta Italia ; se non che del gittare la sorte per iscroprire il destino degli amori, l’opera si compie dalle fanciulle greche e veneziane e d'altre parti, la notte della vigilia di San Giovanni, Santo molto adoperato in queste bisogne (i). Le pedate interrotte degli Ericini sono seguite dal popolo di Castelvetrano. Esso, in brigatelle, la mattina di Calen di Maggio va per fiori; e ciascuno ne ammaia le stanze; ma spesso, non senza trepidazione; perchè se molti dei suoi fiori, e l’apprensione può farli parer molti, prima delPordi-nario avvizziscono, questo, lo avvisa che la mala ventura non tarderà a visitare la sua casa. Il poveretto già si tiene infelice ed è. Nondimeno i popolani vanno tutti ammalati colà; anco gli asini de’mugnai, che nel ridursi in quel giorno alla città, si conducono cinti di fiori al canto per tutta Sicilia noto: La primavera vinni. (i) Tommaseo, Canti popolari Greci, pag. no: Venezia 1842. De Gubernatis, Op. cit. I, III. 102 GIORNALE LIGUSTICO A questi giuochi solitari del tentare la sorte in Calen di Maggio, vuoisi aggiungere, per legare insieme le notizie congeneri, quello di Ozieri di Sardegna che si fa in pubblica compagnia, come parte della festa maggiaiuola; non altrimenti che un tempo nelle grandi città le armeggerie ed i palj. In quel dì i giovani d’Ozieri d’ambo i sessi siedono a cerchio dinnanzi alla casa d’uno di loro, si cuoprono d’un lenzuolo e mettono in mezzo un canestro, dove ciascuno della compagnia pone nascostamente alcuna cosa sua ; appresso chiamano una bambina a farne l’estrazione. E la bambina si dispone coprendo il canestro. Ma prima una fanciulla intuona la strofa seguente : Maju maju beni vènga Cun totu su sole e amore Cum s’arma e cum su fiore E cum sa- margaritina. Succede a questa un ’altra strofa di felici auguri e la bambina estrae un oggetto, al cui padrone s’intendono assegnati quei voti. Poi la cantatrice ripete la strofa primiera ed altra aggiunge di presagi funesti, che si debbono similmente accettare dalla persona il cui oggetto venne allora estratto ; infine votato il canestro, una metà dei giovani sono dalla sorte favoriti, gli altri maltrattati (2). I modi più singolari e graziosi della Sicilia ci sono forniti dalla terricciuola di San Carlo, sul confine del palermitano e dell’ agrigentino. Nelle ultime ore della notte entrante il Maggio vanno alla campagna; colgono o falciano grossi fasci di fiori di maggio; ne cuoprono il pavimento delle stanze, le masserizie, ogni cosa; ne adornano i balconi e le porte; ma presto presto, chè la prima spera di maggio trovi la casa tutta infrondata (2) De Gubernatis, Op. cit. 1, IV. GIORNALE LIGUSTICO IO5 e fiorita. Ancora perchè all’alba entrano i parenti, entrano gli amici, i vicini, le comari, e l’un l’altro si abbracciano e si fanno carezze ed auguri affettuosi. Fra’ quali due principalissimi; che l’anno sia fecondo; che le formiche non infestino le aie. La giornata s’impiega tutta ad infilzare i più grossi fiori e farne ghirlandelle e collane a’ fanciulli, i quali così infiorati il petto o le tempia girano a frotte le vie canticchiando : Paci ’n si trova mai tra chiddi casi Unni lu ciuri di Maiu non trasì: versi olezzanti di greco (1). Simile previsione contro alle formiche fatta quel giorno dai Siciliani tra il verde ed i fiori, corrisponde coll’osservanza de’ contadini Romagnoli, quando sessantanni addietro, nello stesso giorno, a preservare le messi da quegli insetti, appiccavano al tetto delie loro casupole molti rami di betulla (2); ed ora ficcano frasche verdi, le meglio fiorite, in mezzo a’ campi ed agli angoli; e le con-tadinelle ne adornano le loro finestrette (3). Degli augurj maggiolini la Sicilia offre altro esempio dalla predetta terra di San Carlo, appropriato ai promessi sposi, in forma di scherzo o giuoco; là detto spmtari la χιία, in italiano spe-gnare la sposa, che io reco anche per grazia di varietà. Ed è che lo sposo, accompagnato da’ parenti, il primo di maggio va in casa la sposa a complire con lei. E frattanto egli (1) Saffo (trad. del Perticati) : Un fior leggiadro acquista grazia in cielo; Ed a chi nega ai nudi crini un fiore Niegano-i santi Numi il lor favore. (2) Placucci, Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, pag. 149: Palermo 1885. (3) lettera del canonico Luigi Balduzzi di Bagnacavallo. 104 GIORNALE LIGUSTICO adocchia delle cose sue quel che possa rapirle, pezzuola, ditale, agoraio, forbice od altro, ed ella sottrargli tutto ; nondimeno il giovane facilmente ha il giuoco vinto, bastandogli, alla peggio, pur uno de’ tanti fioretti onde è seminata la stanza. Egli sei porta seco e dopo pochi giorni, dicendole averlo cavato di pegno glielo restituisce coH’avvantaggio di un regalo, che va dalle orerie a pochi confetti , secondo il suo potere. Quindi tutti insieme a desinare alla campagna, sposi, parenti, amici; e tutti insieme ritornare la sera cantando allegramente La primavera vinni. Abbiamo questi esempi freschi siciliani di felici auguri , quelli de’ contadini di Bari, quegli de’ Principi Estensi e simili, offerti in Calen di Maggio, chiarissimi e certissimi. Ed io tuttavia, per amore del nome, vorrei proporne uno verosimile desunto dal sonetto delle Due Rose del Petrarca: Due rose fresche e colte in Paradiso L’altr’ier nascendo il dì primo di maggio , Bel dono e d’un amante antiquo e saggio , Fra duo minori equalmente diviso. La più parte de’ commentatori spiegano V amante antiquo e saggio pel re Roberto, e i due amanti (minori) per Laura e Petrarca. I quali essendo il Re in Avigone andarono, io stimo, a visitarlo la mattina del dì primo di Maggio di buon ora, per fargli gli auguri di felicità allora usitati in quella solenne ricorrenza. E perchè così presto? Perchè questo é il rito già descritto, sì del cogliere i fiori e sì del fare e ricevere gli augurj e gli altri offici di amorevolezza nella festa del Maggio, tutto assai per tempo, quale si faceva e si fa tuttora da’ Siciliani. Del che il Principe si rallegrò e stretto ad ambedue le mani (e stringendo ambedue), atto non solo di affetto ma di ringra- GIORNALE LIGUSTICO IO5 ziamento, regalò ciascuno degli amanti minori d’una rosa, il più bel simbolo della stagione nuova e deH’amore, come si richiedeva dalle circostanze. Sarò degli interpreti di questo sonetto, non facile, il più malaccorto , e mi rassegno : Ma non v’è chi s’apponga già di molto. Della città e delle borgate basta. Passiamo a’ villaggi, a respirare l’aria viva de’ campi che fa bene all’anima ed al corpo, dove Maggio ha il suo trono e i suoi cortigiani più sviscerati. Più su ebbi l’occasione di toccare l’usanza delle fanciulle del contado fiorentino di cantare il Maggio per la città al suono del cembalo. Questa usanza del secolo diciassettesimo, o meglio viva ancora in quel secolo, si conserva sempre dalle contadinelle Pisane, le quali colle testoline ammalate vanno alle porte di alcune case e quivi disposte in cerchio con in mezzo una di loro sonante il cembalo, cantano, come sul cembalo cantavano le altre contadine toscane, le lodi di Maggio e quelle del padrone di casa, da cui sperano buona mancia e terminano con un ballo tondo (1). Il ballo tondo si faceva e fa tenendosi tutti per mano, in segno di unione fraterna e movendosi circolarmente; il Bal-locchio o la Ridda antica; il Trescone che si ballava poc’anzi nella Liguria e nella Lunigiana, e si balla tuttora nelle montagne pistoiesi (2); il Rigodon de’ Francesi, se non erro. Quel circolo medesimo delle cantatrici pisane, per provare la somiglianza delle consuetudini fra un paese e l’altro, appare" nella incisione fiorentina delle Rime del Poliziano stampate nel 1568; eccetto che nel mezzo a vece della fanciulla pisana dal cembalo (1) D’Ancona, Op. cit. II, 335. (2) Fucini, II Bruscello della Serra: nella Domenica del Fracassa del ro maggio 1885. ιο6 GIORNALE LIGUSTICO ce n’è una inghirlandata che porta il Majo, intorno alla quale, altrove intorno all’albero fisso del Maggio, quasi asse di ruota, s’aggirano le fanciullette e danzando cantano. Di che le Ballate, Ballatene o Danzette in Calen di Maggio , più che in altra stagione si costumava cantarle, allorché dinnanzi all’uscio delle fanciulle amate gli amanti, per assicurarle palesemente dell’a-mor loro, appiccavano o piantavano il Majo (i). Tanto poi usato quel ballo animato dal canto , che il Savonarola fra tutte le feste carnevalesche a quel solo perdonò, facendolo eseguire nella piazza di S. Marco di Firenze da’ suoi devoti più fervorosi e da’ Frati suoi, colla strana canzone di Gerolamo Benivieni che principia : Non fu mài più bel sollazzo Più giocondo, nè maggiore Di Gesù diventar pazzo (2). Un’ altra incisione , quella del frontispizio di una edizione, senz’ anno, del Batecchio, Commedia senese di Maggio, rappresenta due donne precedute da un ragazzino col Maio; dove si vede che le fanciulle del contado senese andavano veramente a cantare Maggio; e questo fecero almeno insino agli ultimi del secolo diciassettesimo, se noi fanno sempre al pari delle Pisane (3). Lo facevano anco gli uomini del contado stesso in questi tempi, otto o dieci per brigata, vestiti dei meglio panni, con fiocchi di nastro al cappello, al giubbino a’ calzoni corti, alle scarpe e con fiori, ne’ di festivi di Maggio, sonando e cantando dialoghi, che Francesco Palermo giudicò poco onesti (4). Ma non erano invenzione dell’età del (1) Crescimbeni, Volg. Poes. I, 2. (2) Pignotti, Stor. Tose., V, 2. (3) Gigli, Vocabolario Cateriniano, I. 225: Firenze 1866. Mazzi, Congrega Roft. cit. II, 127. (4) Palermo, MSS. Palatini, li, 577. GIORNALE LIGUSTICO Palermo quei dialoghi, si di tempi più remoti che non si stima, e non pure del contado, ma e della città; e il disonesto e lo sconciamente ambiguo, peggio del disonesto, più proprio della città che del contado. Ed in vero forse che avevano miglior sapore gli aulici Canti Carnascialeschi e le cittadine commedie del secolo sedicesimo ? Gli è mal generale codesto, e la Mandragora ammirata da Leone X e la Calandra eminentissima informino. Dovechè oggi coi drammi, o si rispetta il pudore di fuori e si corrompe quello di dentro, o colle nuove operette musicali si corrompe Γ uno e l’altro , seguendo scuole non nostre, ma che noi pretendiamo far nostre, diminuendone l’arte, accrescendone il veleno (i): quale peggio? Un canto senese simile al predetto, ambedue chiamati Brus cello, egloga in ottava, si faceva dai campagnuoli senesi nel carnevale, intorno ad un albero adorno, cioè ad un Maio, progenitore di tutti gli alberi allegorici, e parlava ora di caccia, ora di pesca, ora di amore, con motti arguti e frizzi che solleticavano l’udienza (2). In altri paesi della Toscana e nel Perugino i contadini in Calen di maggio vanno addrappellati alle case delle loro dame, i pistoiesi recando un di loro il Majo fiorito, ed un altro un paniere con altri fiori; via via salutano le dame del loro cuore coi fiori e col canto, ed elleno contraccambiano i dami con berlingozzi di rossi fiocchi guarniti, ed agli altri maggianti danno uova e da bere (3). Lo stesso, i vicini Pratesi. De’ fiorentini questo so che non è gran tempo il primo di iMaggio dodici garzoni e dodici fanciulle di S. Romolo di Settimo si ratinavano sotto un padiglione a cantare il mese dei fiori, e che quelli d’altri siti andavano per ciò girando colla piva e con un ramo d’al- (1) D’Arcais, L’ Opinione del 22 dicembre 1885. (2) Bianciardi, citato dal Tommaseo, Scintille, pag, 205 ; Venezia 1842, . (3) Tigri, Pref. cit. pag. LV. ioS GIORNALE LIGUSTICO loro per Maio, e vanno ancora, se mi si dice il vero (r). Lo cantavano i contadini romagnoli ; ed oltre agli uomini, anco le giovinette cantavano alle case e raccoglievano fronde e fiori per farne festoni alle porte ed alle fineste de’ loro abituri, dicendo per questo di aver piantato Maggio; segnale che quando che sia si piantava realmente (2). Ma oggi queste usanze nella Romagna sono cadute sì dagli uomini e sì dalle donne; e se le campagnuole vi continuano ad ammalare in quel dì le finestre, ciò è per diversa ragione da questa e che già notai. Quanto alle particolarità del Maio nominato più volte, esso si porta in mano, si appicca, attacca, appoggia o pianta; si porta in mano una frasca con ornamenti od una frasca semplice, specialmente d’alloro; in Liguria talvolta è una piccola pertica vestita di fronde e di fiori, e da pochi anni in qua colla bandiera nazionale in cima; questa è l’insegna propria della compagnia maggiaiuola e della festa. Si appicca, attacca od appoggia alle porte ed alle finestre poco alte da terra; e necessariamente egli è un ramo d’albero od un arboscello a cui sono legati doni svariati, bericuocoli, ciambelle, confortini, melarance, tutto pieno di nastri gai, di fiori, d’orpello, sifattamente che persona tutta fronzoli , gli antichi dicevano che pareva un Maio (3). E piantasi d’ordinario, non un ramo, ma un albero e cogli stessi doni. In qualunque modo, ciò non si faceva un tempo in poco meno che tutti i luoghi e adesso in molti se non alle dame desiderate; dal che la frase Appiccare. il Maio ad ogni uscio, per Innamorarsi da per tutto. Onde fra’ contadini meno noti, che a questi io guardo di più, i padovani tolgono un bel alberuccio di chiunque sia (1) Cecchi, Commedie, pag. 50: ed 1869. De Gubernatis, Op. cit. 1, IV. (2) Placucci, Op. cit. pag. 107. (3) Folgore, Rim., cit. pag. 49. Salvini, loc. cit. Allegri, Rime e Lettere, I, 160. Tigri, Pref. cit. pag. LIV. GIORNALE LIGUSTICO IO9 (qui il diritto di proprietà tace), e preferibilmente la vetta di un’ abete, la caricano di doni, frutta, dolci e cose di più valore, e a notte piena in gran silenzio la innalzano alla porta della bella, forse origliante e veggente tra le imposte; la quale festa e Γ alberetto quei contadini chiamano Mado 0 Majo, siccome io intendo (1). Alla stessa maniera s’incomincia, ma si finisce con diversa, nell’ alta Polcevera. Quivi Γ alberello coi doni sulla vetta non s’innalza alla porta, ma tacitamente se ne appoggia la cima alla finestra della fanciulla, ed il giovane tutta la notte gli fa la guardia col fucile. Alla mattina ella vede pendenti sul davanzale i doni immaginati, vede il giovane non ignoto al suo cuore e tutta lieta e confusa, quasi non sappia quel che si faccia, spicca un garofano dal suo vaso e facendone trastullo, come disavveduta, sei lascia cadere nella via. Quel fiore raccolto è trionfo al giovane che se ne incoraggia a parlare. — Marietta mi dareste un po’ di fuoco per la pipa? — Acqua e fuoco in quei monti non si rifiutano a persona, anco nemica. Tosto ella scende con un tizzo, a cui il giovane s’avvicina colla pipa; e piegatosi inverso di lei, tra lo sbuffare e tossire eccitato dal fumo del tizzo, la richiede d’amore; ed ella con verginale ritegno rispondegli, ne parli alla madre. Ma la pipa non si accende ancora, e altre dolci parole corrono che il rituale non registra ; intanto che la madre chiama a sè la figliuola, e per finirla, impazientita viene giù, la prende per un braccio e la riconduce mortificata in casa; il damo, con quanto ne ha in gola, gioioso, intuona una canzone di lode alla bella e se ne va. In Corsica poi si costuma quello che forse in nessun paese; non solo in Calen di Maggio, ma in ogni più grande solennità dell’ anno il Macchiu 0 Majo là portasi a mostra pel villaggio e piantasi alle case delle amorose con suoni e canti (1) Da lettera cortese del senatore Conte Pietro Manfrin. I IO GIORNALE LIGUSTICO senza fine (i). Quel che sono per dire concerne più principalmente gli ultimi paesi della mia Liguria orientale (2) , e dei lunigianesi contermini, e scoprirà meglio la natura di questa materia. In ogni Parrocchia una brigata da dieci a ventiquattro Maggiaiuoli, Maggianti o Cantamaggi fanno borsa di due lire 1’ uno 0 più per le spese della festa e conducono strumenti a corda, a fiato od organi ni o nessuno. Non conducono cornamuse, un tempo degne delle Corti de’ Principi al pari delle viole e de’ liuti (3) , ed alla mia memoria ammesse in alcune chiese lunigianesi la notte di Natale a sonare la Pastorella (4), mentre il popolo la cantava; ora sono confinate nelle regioni alpestri. Chi di loro va innanzi porta il Majo sopradescritto, che per qualche letterato si chiama emblema, loro insegna; un’altro, un canestro, e vanno in giro a cantare il Maggio casa per casa, riscuotendone caciuole, uova, dirado monete. Nel villaggio che ha una brigata di Mangiamoli non lice ad altra venirvi a cantare·; ne sorgerebbero contese e baruffe, che ne godrebbe il medico e lo speziale, se non anche il prete; se le due brigate si scontrano a’ confini, ognuna si pianta nel suo e fanno a chi vocia e strepita più forte : Voci alte e fioche e suon di man con elle. (1) Provenzali, Usi nuziali Corsi, appresso il De Gubernatis, Op. cit., pag. 273. (2) Per le cose liguri sono debitore d’infinita gratitudine all’egregio professore Giovanni Bonifacini della Spezia, clie m’aiutò con efficacia e con grande affetto. (3) Stor. Roman. Framm. (Muratori A. M. Æ. Ili) col. 291. (4) La Pastorella cominciava con questi versi: Fra l’orrido rigor di stagion cruda Nascesti, o mio Gesù, nella capanna. GIORNALE LIGUSTICO I I I Mai le nostre fanciulle , nè sole , nè accompagnate presero parte alla festa col cantare, come altrove, anco per non chieder mance c^e possono scottare la mano; di che acquisterebbero cattivo nome. Nè il Majo è un ramo, ma un albero formato e grande, che si pianta davanti la casa a cui è offerto, e la signoreggia ; simile a quello del Poeta francese: Voici le joli mois de Mai Que les amants plantent leur mai, J’en planterai un à ma mie Plus haut il sera que sa chaumine (i). Nè sempre in tutti i luoghi si costuma il Majo, non istret-tamente neccessario se non il canto. Questo in generale. Ma ci sono varianze rilevate di modi da paese a paese, delle quali deve giovare un cenno. In Areola i Maggiaiuoli sono sempre scapoli; onorano del Majo, oltre al pubblico, le loro amate soltanto. La sera precedente alla prima domenica di Maggio cantano sotto a ciascuna fino alle nove o alle dieci di sera; poi vanno per gli alberi, pini, al consueto; dei quali uno con la sua scabra corteccia e ricca chioma (solo recisi i rami sottostanti) rizzano sulla piazza del paese; ed altri nei punti dove mettono le case di più innamorate; altrimenti, essendo discoste, uno per una. Compiuta l’opera mangiano, bevono e ritornano a cantare alle innamorate e girano per il paese, non chiedendo e non accettando donativi. L’ultimo di Maschio il Majo della piazza, s’imbandiera, vi si canta sotto, e balla e tiinea, infine si atteiia, s arrocchia ed ogni Maghiamolo se ne porta a casa il suo pezzo. In Pittelli, vogliono qualche strumento, e quasi sempre un organino basta. La sera innanzi al Celen di Maggio, verso le nove, alla sordina piantano in piazza il Majo, come quelli d’Arcola. Cominciano allora suoni (i) Haupt, presso il D’Ancona, Op. cit., II, 329. 112 GIORNALE LIGUSTICO e canti, non balli; e cantando e sonando, procedono di fuoco in fuoco tre notti. (Avrai notato, o lettore, che in Arcola si canta i dì festivi, in Pittelli la notte, per non scioperarsi). In quello spazio non accettano doni. Li pigliano dopo la terza notte, cioè la mattina di Santa Croce, mandando lor commissari a riceverli; le solite uova, caciuole, fiaschi di vino e qualche moneta. Verso le quattro di sera festino pubblico da ballo, al suono dell’organino, in sala od aia. Λ ino non manca e glorioso; non mancano leggiadre fanciulle, e con queste due cose, né rivalità, nè dispettucci ; 1 allegria a volte finisce in alterchi e zuffe; ma i rancori d 01 dinario si annegano in altro vino. Prima si piantava il Majo all uscio della dama, e quante dame, tanti Maj; alla spesa suppli\ano i dami particolarmente; ma questa pratica si dismise presto pei che i babbi non la vedevano di buon occhio. Fra gli altri paeselli che debbo toccare è Riomaggiore, la più grossa delle Cinque Terre, come si dicono, le quali mostrano quanto può l’uomo alle prese colla natura più fieramente nemica, cavando da rocce stagliate sul mare vino famoso nel medio evo. Quivi la· festosa brigata, con più violini, partesi in due drappelli; quale si fa dall’un capo del villaggio, quale dall’altro. Dopo la stampita sono chiamati su quasi da tutti, pel rianfresco, sempre vino. Alla domane due Maggiaiuoli deputati, passano a raccogliere le cousuete derrate. Si canta il Maggio ai principali del paese, Parroco, Sindaco, Consiglieri, Medico, e da loro nulla si accetta. I Maj non si piantano che alle innamorate, nella notte che precede al Calen di Maggio, senza far zitto alcuno, nel che pongono gran cura, affinché la gentilezza non preveduta (se possibile e) appaia più grande ; poscia spuntato il dì canti e suoni che vanno alle stelle tutto il giorno e la notte appresso; ma non si balla. La pure il Majo rozzo ed altis-tissimo, con tutto il suo guarnimento di fiori, nastri e bandiere è provveduto dal damo, il quale oltre a ciò ricompensa GIORNALE LIGUSTICO II3 la compagnia cantante, di cui non fa mai parte. Dopo tre giorni si svelle dal suolo e si consegna all’innamorata. 11 vil-lagio di Biassa pare appiccato come nido d’aquila sotto il comignolo d’una montagna, ora traforata dalla via ferrata, donde egli guarda la Spezia. Fu di Parte Ghibellina costantemente e ne diè segno fino a5 tempi nostri, se non altro per l’avversione stizzosa al color verde de’ panni, usato da’ Guelfi. Si vanta ancora, come popolo grande, di aver sempre mantenuta propria e sincera la sua schiatta, e i suoi costami particolari. Il più notevole è che quando un di loro si ammala, un altro della famiglia (o non essendocene , il più stretto parente) per meglio assisterlo ne’ suoi bisogni, giace notte e dì nello stesso letto a fianco dell’ ammalato, e se muore, noi veglia soltanto, ma giace col morto, finché il prete non venga per lui. (Prima di ridere si consideri che i poveri quanto hanno di buono e di più caro al mondo è la famiglia). Questi uomini così tenaci della loro specialità, pure nella faccenda del Maggio osservano una, sto per dire, prammatica da gran tempo stabilita ed invariata, alla quale non lice contravvenire a nessuno. Per essa la brigata mag-giaiuola deve comporsi di venti, e non più di ventiquattro persone, tre o quattro violini e spesso un sistro (trepesina) per giunta. C’entrano scapoli, ammogliati, giovani e vecchi, purché ben costumati, non accattabrighe 0 sussurroni. La brigata ha un Massaio che chiamano Presidente, il quale colla borsa comune fa le spese del vino e del resto occorrente. Maggiaiuolo che rompesse la concordia subito cacciato dalla compagnia. Fanno di sè tre squadre per compiere il giro più presto, ciascuna sotto un Caposquadra. Il sonare e cantare principia dopo il mezzodì dell’ultimo di aprile ; e se un Maggiaiuolo non risponde alla chiamata 0 scompare senza la permissione del suo Capo, è punito in lire cinque. Per Majo, il pino, conforme agli altri; lo piantano ad una ventina de5 più Giorx. Ligustico. Anno XIII. fi 114 agiati o meno disagiati, colla chioma intera e colla corteccia, D D · come si costuma generalmente : sospendono alla chioma una cesta, entrovi legato un gallo ben bargigliuto vivo, che là ed in Campiglia è volatile in moltissima stima, e Majo e gallo ricadono al maggiorente onorato. Pressando il tempo, cominciano a piantare i Maj qualche giorno prima dell’ultimo di aprile. Vanno attorno a bandiera spiegata; portano al cappello per nappa ciocche fiorite di ciliegio; sostano di porta in porta, salutano col canto e col suono tutta la gente della famiglia. Prima cantano al Parroco, poi, secondo lor qualità, agli altri di inano in mano, e dei fuochi non lasciano ad- O ' dietro nessuno. Però la sera in sull’avemmaria ragazzi volonterosi, per pane e vino subentrano a’ Maggiaiuoli, che riposino e piglino lena. Finita la cerimonia, i più vecchi con un violino girano per le mance e si balla ad ogni casa, al che specialmente intendono le vecchie massaie, dalle quali non caveresti uno spillo, se non le fai ballare ; e come si rin-galluzzano ! A ragazze in Biassa non si offrono Maj. Di sopra nominai Campiglia, lontana da Biassa circa un miglio e mezzo; e pare sua colonia. Gli stessi corpi, la parlata, i costumi, compresovi quello del giacere cogli ammalati e co’ morti. Vi si piantano dagli otto ai dieci Maj, la metà che in Biassa. La mancia pel Majo, tassata. Senza gallo vivo, cinque lire, col gallo dalle dieci alle quindici. Ai meno agiati, Maj più piccoli, e scambio del gallo bargigliuto un pollastrino od una gallina vecchia e mancia proporzionata. I Maj si pigliano dove si trovano e nessuno fiata. Nulla si rifiuta, necci, focacette di formentone, patate, agli, cipolle, lana; ma più comunente si ricevono uova e caciuole. Se alla chiamata del canto qualche famiglia fa la sorda, si arrampicano alla finestra ed entrati in casa, tra per burla e per davvero si danno a staccar i salami e mortadelle dal solaio, ed il padrone a volte ridendo si oppone, più spesso lascia fitte rimettendosi alla discrezione GIORNALE LIGUSTICO che è il miglior partito, ma senza scottature non se n’ esce mai. Scendendo dal monte e passando la Vara troviamo Albiano, dove i Maggiaiuoli non vanno in giro alle case. Cantano e piantano il Majo ora a due, ora a tre maggiorenti. I Maj portano in capo salami, polli, capretti, e tutto si presenta al maggiorente che sei prende subito, eccetto il Majo spogliato che resta in piè fino al giugno. Dappoi passano nell’atrio del festeggiato e vi trovano a ristorarsi damigiane, e fiaschi di quel buono, e bicchieri, ciottole e boccali. Di più egli dà lor desinare, ed alla fine del pasto stringe la mano a tutti, lasciando in quella del loro capo quaranta o cinquanta lire, quanta può essere stata la spesa del fargli onore; quindi ballo pubblico. Ma per liberalità e gentilezza i Vezza-nesi, che seggono nella ripa opposta del fiume, vincono tutti a gran pezza. Essi piantano il Majo e bellissimo alla persona più ragguardevole; alla innamorata del giovane più grazioso al paese, nè il damo sottostà a spesa alcuna; alla fanciulla più bella e virtuosa, abbia o non amori. Il pianta-mento si fa tra l’aprile ed il maggio; dopo cantano la maggiolata, senza strumenti nè schiamazzi. Non cantano a fuochi, non raccattano doni. Ho lasciato ultimo Zeri, villata sulla montagna pontremolese, per dove non si passa senza fermarsi a pensare al sanguinoso mucchio di Franceschi che vi fece la guerra il 26 maggio 1799; taciuto dalla storia che nota i fatti grandi, ed i piccoli, mossi dalla stessa origine e condotti colla stessa virtù, talvolta maggiore, trascura. In quel giorno memorando, due colonne di Francesi, provenienti, l’una dal Borghetto di Vara e l’altra dalle Cento Croci, circa trecento comandati da un Graziani Corso, penetrarono nel territorio di Zeri, dove diretti non si sa bene. Ella è pur dubbia la causa prossima del movimento popolare contro di loro. Alcuni vogliono che i Francesi facessero larga rapina di bestiame, come in terra nemica; alcuni che oltraggiassero le donne. In GIORNALE LIGUSTICO coscienza si può creder l’uno e l’altro I Francesi ruberieno coll’alito, scrisse il Machiavello che li conosceva (i); e l’insolenza loro verso le donne è storica. Se c’entrò l’amore di parte, secondo il motto informatore della vita civile e religiosa dei Zeraschi e degli altri montanari liguri: Un solo Dio, un soio Papa, un solo Imperatore: questo che fa? Le Parti che spazzano pure un lembo del sacro suolo della patria, in quell’atto non sono Parti, ma Nazione, e siano benedette. Fatto è che alla notizia deH’avanzàrsi dei Francesi, quanti in Zeri avevano esperienza d’armi, od erano capaci di menar le mani e comunque d’aiutare i combattenti, corsero ad incontrarli sui monti che cingono la loro valle. I Francesi procedevano sparsi, non sospettanti che un branco di villani e male armati osassero contrastare ai primi soldati del mondo; ancora erano incerti delle vie, non conoscenti dei luoghi. Di ciò trassero lor vantaggio i nostri montanari ; ed al suono,della campana a martello, guidati da un umile sacerdote, Giovanni Monali, gli affrontarono. Combatterono con veggente coraggio, divisi in piccole squadre, come vuole la guerra della montagna, senza esserne stati insegnati (il cuore è maestro a chi l’ha), sempre appostati alla proda di una fossa, ad uno scheggione di monte, ad un ciglione o qualsiasi riparo, aspettanti chetamante il nemico all'aguato; quindi saltar fuori impovvisi, terribili, una o due scariche di fucilate e qualunque altro capitasse alle mani, a colpo sicuro, e via ad appostarsi di nuovo. Assaliti i Francesi in questa forma, di fronte, a tergo ed a’ fianchi, invece di fare una testa grossa sul centro del paese, per difendersi tutti e da tutti, si sparpagliarono e indebolirono di più. Ornai pericolavano palesemente. Più volte alzarono segno di resa e di pace; ma o non inteso, o non voluto intendere, i Zera- (i) Ritratti delle cose della Francia. GIORNALE LIGUSTICO II? schi continuavano a fulminarli con furia crescente. Se il Prete •capitano aggiungeva al valore il senno guerriero, de’ Francesi non ne scampava uno. Laonde riusciti vani i loro sforzi di aprirsi un varco in quelle strette mortali e proseguire alla loro via, messi alla disperazione dovettero contentarsi di poter retrocedere. E stremati e franti risalirono il mal disceso apennino, e calarono pel passo della Foce grande su Borgo-taro. De’ Francesi, caduti nel combattimento molti, oltre agli sbandati trovati pe’ boschi il giorno dopo e trucidati anch’essi, forse feriti, forse preganti pietà, certo innocui ; e ciò umilia l’affetto e strazia l’anima. De’ Zeraschi, morti non più che sette, compresovi un prete, Domenico Giuseppe Filippelli cappellano di ottantadue anni, ed una donna, Caterina Rossi di trentacinque, ferita a morte col figliuolo delle sue viscere in braccio; il che fa credere che oltre i sacerdoti, pur cosi vecchi come il Filippelli, anco le donne avessero parte alla nobiltà del pericolo. Il bambino poi strappato dal freddo seno materno fu gittato da’ Francesi in uno spineto. Ma fortunato sopravvisse alla rabbia straniera, tanto che morì da pochi anni. Una sola famiglia, quella del Filipelli, diede tre morti alla patria; sia lode al suo nome (1). Ai Zeraschi della gloriosa vittoria, restarono trofeo molte armi nemiche, delle quali con- (1) Non lasciarono ricordo di questo fatto i contemporanei , paghi di esserne gli autori. Dimanierachè quello ch’io ne scrissi è quanto da persona per doppi vincoli strettamente cara e molto esperta del paese ed onorevole, fu potuto raccogliere di sopravvissuto all’ azione del tempo : per altro senza entrare mallevadore che alcuni particolari, come i panni passati fra molte mani, così quelli passando per molte bocche non abbiano patito alterazione ed altri non siano iti perduti. Ma la sostanza dell’avvenimento è indubitabile sulla generale tradizione; ed indubitabile per documento, il giorno del fatto, il numero delle colonne francesi, il numero e la qualità dei Zeraschi uccisi da questi, tutte cose attestate dai libri parrocchiali. i iS GIORNALE LIGUSTICO servavano ancora buon numero ultimamente (i) ; restò il modesto compiacimento nell’ opera forte ed il plauso de’ fralelli ; e restò a me 1’ onore di rinfrescarne la fama. Ma (i) Le armi francesi tenute rimpiattate, furono da’ Zeraschi rimesse alla luce e forbite nel 1847, quando il loro Comune pel trattato di Firenze del 1844 venne ceduto in baratto con altri dal Governo della Toscana a quello di Parma. Eglino non potevano acconciarsi nell'animo che i pastori de’ popoli si arrogassero gli stessi diritti de’ pastori delle greggi, che le tosano, vendono, battono e mangiano a lor talento. E volevano protestare meglio che in parole della loro offesa dignità d’uomini. Se non che il Governo Toscano, partecipe principale del negozio, si prese anche l’incarico di addormentare gli opponenti di lassù, e addormentatili un bel giorno si trovarono nel dolce amplesso del novello padrone, Delle generose disposizioni de’ Zeraschi, Lorenzo Costa, il cui nome non mi esce mai dalle labbra senza un sospiro di affetto e di venerazione, compose un inno guerresco, stampato prima nel Filomato, giornale della Spezia poco divulgato, ed ultimamente nella Rassegna Nazionale, con gravi errori. Io credo pertanto di fare un regalo al lettore riproducendolo corretto: Fra il Magra ed il Verde pel giogo apuano, Dal rapido Zeri all’ irto Rossano Un volgo concorde repente si desta All’ armi gridando con suon di tempesta, Che assorda le valli, che abbrivida i cor. Sono esse le voci de’ nostri fratelli, Traditi, venduti quai pecore imbelli ; È il mugghio supremo dell’ ira, che affretta Sul capo a’ tiranni la giusta vendetta, Dell’ aspra ferita che sanguina ancor. Tremate, o leoni vestiti da volpi ! Tremate la scossa de’ liberi colpi, Non regge gli assalti con gente di ferro Nè il lurco Tedesco, nè l’italo sgherro Usato alle imprese di atroce viltà. GIORNALE LIGUSTICO 1 '9 ritorniamo al tema, da cui spero mi perdonerà il lettore Tessermi dilungato di troppo. Anche questi montanari festeggiano il ritorno della primavera che viene a rallegrare le loro campagne, rattristate dal verno. Ma festa molto semplice è la loro; consistente nell’innalzare la notte di Calen di Maggio sul piazzale della chiesa, un’altissima antenna, affinchè il mattino tutti la veggano; la quale spesso si converte in Per balze selvaggie, per toschi burroni Le ruote non ponno salir de’ cannoni, Incespica l’unghia de’ forti cavalli Fra i massi e le spine, fra i ruvidi calli Del monte superbo che varco non ha. Corriamo di sdegno magnanimo accesi, Portando gli schioppi rapiti a’ Francesi ; Se il fiero nemico dal monte minaccia Si stringa sovr’ esso la subita caccia, Dinnanzi, da tergo, di fianco a ferir. Piuttosto gli orrori del verno e la fame, Clie il becco e gli artigli dell’ acquila infame ; Piuttosto che il peso del giogo straniero, Che i tetri colori del giallo e del nero, Piuttosto vogliamo di laccio morir. L’italica lega, montani Giganti, Dal petto selvoso, dai tacchi sonanti, Vi stende le braccia d’ amore e conforta, L’Italica Lega vi grida : La porta Guardate, o Giganti, del vostro Appennin. Saremo la pietra del Santo Balilla Lanciata al Colosso che ha base d’ argilla ; Saremo la punta d’ elvetica freccia , Di Micca la fiamma che rompe la breccia , Saremo alla notte d’ Italia mattin I 20 GIORNALE LIGUSTICO albero di cuccagna, ed allora porta in su la cima con bandiere e fiori una bella forma di cacio , qualche salame, un fazzoletto ed altro che possa stare senza guastarsi all’aperto, poiché l’antenna resta là ritta fino al giugno a tutte voglie di chi si propone tentarne la salita. L’ albero deve essere de’ più alti e meglio formati. Nella notte è tagliato da’ Maggiauoli, indettatisi segretamente dove prenderlo; scoronato, sbucciato e levigato in sul luogo, e per lo spazio di due o tre chilometri trascinato a braccia, travalicando burroni profondi, dirupi, frane, torrenti rapidi e scoscesi, senza una parola; e allo schiarire del giorno, eccolo superbo nella piazza all’ ammirazione di tutti. Guai al padrone dell’albero che si andasse a lagnare, chè al danno aggiungerebbe le beife, e sarebbe certo di ripagare il tributo l’anno, appresso; conviene ch’ei ne rida cogli altri , contrariamente a quello che in Casino Polceverasco, i cui Maggiaiuoli sovente, se vogliono salvare il furto dalle mani del padrone sempre querelante e minacciante, bisogna che lo mettano in tortezza sul campanile (i). In questa festa i Zeraschi non cantano, nè ballano, nè accattano; il premio del giuoco va al vincitore, la trave alla Chiesa : più severi degli altri popoli pontremolesi, che cantano e ballano e vanno alla cerca colla classica piva. Il Majo, albero intero o ramoscello, essendo personale, significa amore più o meno intenso, abbandono, scherno, dispregio; ciò scritto nella qualità della pianta (2). Nessuna superiore al lauro, Arbore vittoriosa e trionfale, per la bellezza della sua forma e pel verde continuo delle (1) Belgkano, Il Magg. loc cit. (2) Cittadella L. N., Notizie di Ferrara, pag. 152: Ferrara, 1864. GIORNALE LIGUSTICO 121 sue fronde. Onde Mentre eh’ io pianto innanzi all* uscio il lauro Al mio bel sole Vidi fulgenti rai Col suon di tai parole: Fortunato per me tosto sarai (i). Grato similmente il pino: Se tu vo’ appiccare un Majo A qualcuna che tu ami, Quanto è bello e fresco è gaio Appiccare un pin co’ rami (2). Nelle montagne padovane il Majo assolutamente non che verde alla buona stagione, deve essere sempre verde e chiomante, Che per freddo e stagion foglia non perde ; chè questo accenna amore costante, non passeggiero. Però Talberella, tanto cara per lode di amorosa bellezza alle con-tadinelle liguri, spiacerebbe alle padovane. Delle piante accette a questo servigio non ho mai trovato il cipresso, che è pur bello e sempre verde, forse perchè mesto od atro, come lo dice Virgilio (3), dall’adombrare la terra de’ morti; ma ne’ canti popolari greci, il cipresso, il più in onore fra gli alberi, è ricco di liete immagini, rappresenta la personcina alta, snella e diritta di avvenente fanciulla, è la fanciulla stessa ed il suo soprannome gentile (4). Fra le encomiastiche e le dispregiative, sta in quel mezzo il ciliegio, che a noi liguri dice leg- (1) Doni, I Marmi, Par. 1, Ragionam. 7. (2) Medici L. Cani. 26, 4. (3) Aeneid., III. (4) Tommaseo, Cani. Grec., cit. pag. 123. 122 GIORNALE LIGUSTICO giadria sfavillante, ma insieme cuor facile ad accendersi e spegnersi, amore senza affetto, vanità più che amore. Peggio l’ontano in Braccelli, Borghetto di Vara, Brugnato e Padi-varma; pianta che si delizia de’ pantani. E pessimo ne’ predetti paesi il cerro, a cui nè il fulmine s’accosta (i); che fruttifica raro e scarso e la sua ghianda è triste ed orrida (2). Nè vo dire delle antenne nude, specie di forche, con insegne ed emblemi ingiuriosi e plebei, delle quali non fo caso alcuno. Dove il Majo, albero, non ha luogo, siccome in alcune campagne padovane, il primo di Maggio si fa recapitare alle mani della bella, per Maio vero, un gran mazzo di fiori con entrovi un foglietto scritto di qualche strofa amorosa metastasiana (3) ; un che di simigliarne in Sicilia , fuori che la strofa. In quella vece , nelle campagne friulane si spargono fiori e fronde davanti alle soglie della diletta, e l’opera gentile si chiama Sterilita dal latino ciceroniano sternere flores (4) ; ed Infiorata nelle campagne velletrane e meridionali. (5) Da principio l’infiorata velletrana, si faceva in Calen di Maggio, oggi in qualunque giorno di quel mese; ed allora non solo di rose spicciolate ed altri bei fiori distesi e ben disposti, con erbucce odorifere sullo spazzo davanti all’uscio della fanciulla, ma e di limoni di verde perenne, e di fiori rari in vasi verniciati, e caraffine di rosolio e cartocci e scatole di confetti ed altre gentilezze : il quale apparato si componeva la notte, senza canti nè suoni, all’usato per indurre sorpresa la mattina, (1) In Braccelli, accennandosi a cosa stimata impossibile, ma pure avveratasi, si usa dire: Questo é un fulmine su di un cerro. (2) Plinio, Hist, 4, 8: Glans optima in quercu; cerro tristis orrida. (3) Dalla lettera del Senatore iManfrin. (4) Marcotti, Donn. Mon. loc. cit. (5) Le notizie velletrane mi furono gentilmente fornite dal commendatore Novelli, bibliotecario dell’Angelica di Roma. GIORNALE LIGUSTICO 12 3 come se alcuno di casa non se ne dovesse accorgere ; ed una schiera d’ uomini lo custodiva per passarlo intatto alla bella. Questa Γ Infiorata (che mi piace più della toscana Fiorita) amorosa; diversa dalla dispettosa pel genere delle erbe e de’ fiori adoperati al modo che de’ Maj, per la qualità degli alberi. Nella dispettosa, non rose , non viole, non limoni e simili; ma spine, fior di ginestra, di ruta, di malva, di felci, di mortella sparnicciate. Perchè V amenissima mortella, come la dice l’Ariosto (i), di che spesso in iscam-bio dell’alloro, od una con esso s’intrecciano festoni alle porte delle chiese e se ne cuopre il sacro suolo nelle maggiori festività ; e perchè la ginestra tanto gentile E d’afflitte fortune ognor compagna (2) abbiano senso odioso da crucciare i cuori delicati io noi so. So della ruta che vale agli amanti sdegno e dispregio ed ai nasi schifezza, onde i contadini toscani la mandano , come lettera, per disdire Γ amore (3) ; ancorché se ne faccia ben altro conto in quel dì Avellino, Potenza e circostanze, dove quest erba, come stimata rimedio universale e contraria alle Iatture ed agli spiriti, si tiene per ciò ne’ vasi alle finestre , e le fanciulle ne portano ciocche fra le trecce , e di essere chiamate Fiore di ruta ne canti d’amore si compiacciono (4). E so della felce, della quale gli stessi contadini toscani compongono la frase di Dar le felci per Cannonare , Congedare, rendendo vana l’opera altrui (5); a cagione della sterilità (1) Ariosto, Ori. Fur. 6, 31. (2) Leopardi, Cani. La Ginestra. (3) Tigri, Cant. Pop. Tose. cit. pag. 280. (4) Imbriani, Canti Popolari in dialetto titano, pag. 346. Id. Canti Popolari di Avellino e circostanze, pag. 172 (Propugnatore, toni. VI e VII). (5) Tigri, Cant. Pop. Tose. 208. 124 GIORNALE LIGUSTICO che ha in sè quella pianta e che trasmette al terreno dove alligna (i); imperocché la sterilità, come sventura, è ingiuria ed imprecazione agli agricoltori, a cui gli assai figliuoli che coronano la povera mensa sono ricchezza, allegria, benedizione di Dio. Dopo le infiorate, i balli, i suoni e i canti per festeggiare Maggio viene la volta della Poesia cantata, che in antico si diceva Ballata, perchè cantandola si ballava; oggi Maggiolata, ma da’ letterati, non dal popolo che preferisce nominarla Maggio ,. parola abbracciarne più idee affini, che Γ una scoppia dell’ altra ; quando egli non istampi qualche sua parola speciale , si come nella Polcevera, chiamandovi Cantegua questa Canzone (2), ed in Biassa Cantarella quasi sempre nel numero dei più. Il Maggio Biassese canta: Sento un pè che me formigoa, E l’altro sen vuole andae; Queste Cantarelle le volem lasciae. Ma il paese di Riomaggiore, che ha le Cantarelle aneli’esso e le chiama talvolta Canti gole, fa differenza fra quelle e la Maggiolata od il Maggio, per non confonderci. Quivi le Cantarelle sono di pochi versi e spesso distici, contenenti un saluto cortese a ciascuno d’ogni famiglia, e si cantano la sera dell’ ultimo d’ aprile, di fuoco in fuoco, quando la Maggiolata che ha una cotal forma di canzone, se così posso dirla, cantasi la sera di Calen di Maggio a’ soli principali del luogo ed alle donne innamorate. Ometto quanto s’appartiene alle Maggiolate toscane, ormai ammirate a tutta Italia; colle quali, ben conoscendo, la loro smisurata inferiorità sarebbersi peritate di accompagnarsi le liguri. E francamente mi accosto a queste mie paesane sgraziate ed oscure ; (1) Columella, De Re rust. II, 2. (2) Belgrano, Il Magg. cit. pag. 10. GIORNALE LIGUSTICO I25 dico alle poche trovate della stampa vecchia popolare o che le si avvicina, alle quali, considerate come documenti morali, se non per altro, può venire, io credo, qualche onore dalla luce discreta ; e così ancora sarà condotta più innanzi la parte dedicata alla Liguria. Il ritmo di queste Canzoni è diverso fra loro, diversa la forma e la favella. Alcune adoprano il verso sessenario, il settenario , Γ ottonario e Γ endecassillabo, qualche volta in terzine, in quartine, sovente in distici. Altre raccolgono in uno due sessenarì 0 settenari; ed altre non hanno metro che si possa dire; solo la rima o l’assonanza sfrenatissima avvisa che si presume a poesia. Parlano dialetto schietto (migliori sempre queste), o con terminazioni italiane, o dialetto ed italiano misti. Le più incominciano coll’arrivo del Maggio, preceduto graziosamente in quella di Castagnola dall’usignuolo e dalla rondine suoi messaggeri: U ruscigneu che u canta notte e giorno, Mazo u Γ è chi d’ intorno ; E a rondinella che a va tanto volando, Mazo a va chi cantando. E molte a questo esordio aggiungono l’avvertenza della Maggiolata di Falcinello, la quale è: Se non credete che Maggio sia venuto, Fatevi alla finestra, guardate monte e piano; E fiorito lo lino e spigato lo grano: ripetuta in Riomaggiore: Se non credete Maggio sia venuto, Alla finestra verso il monte e ’l piano, Chè vederete fiorita l’uva e spigato lo grano. Alla finestra verso lo giardino Chè vedrete Fiorito il lino e fogliata la vigna ; ¥ 126 GIORNALE LIGUSTICO (Si avverta che in Riomaggiore per San Giovanni molto spesso portano in processione pendente dal Crocifisso un grappolo d’uva matura): — ed in Castagnola: Se non credete che Mazo sia arrivato, Affacciatevi alla finestra E vederete lo grano spighito E tutti gli alberi fioriti. Nè ciò solo nelle Maggiolate nostrane, facilmente Γ una calcata sull* altra, ma ed in qualche estranea, come in quella antica de’ contadini romagnoli, la quale diceva : Ben vegna e vegna Maz : Che Maz i l’è arrivea : E se pu an cardi che sia arrivea, Fasiv qua fura, cuj è la majea (i). Cioè : Ben venga e venga Maggio; Chè maggio è giunto : E se non credete che sia giunto, Fatevi fuori e vedrete l’ammalata (2). Per contrario le Maggiolate di Biassa e Campiglia, due paeselli e specialmente il primo de’ più antichi e ritegnenti dell’ antico, muovono dalla invocazione al Signore, che chiamano col dolce aggiunto di buono, ed alla Vergine col titolo novissimo di Donna reale: Den prima en prima (3) dovemo noi cantae Der bon Signoe e della Donna riale. (1) Placucci, Op. cit., pag. 108. (2) Ammaiata. S’intende la campagna ammalata, cioè vestita di fronde e di fiori. Rammenta i freschi Maj di Dante. (3) D’in prima in prima. GIORNALE LIGUSTICO 127 Poi viene : Santa Maia sarvi ve mantegna: Mazo ben vegna : due versi che formano il ritornello frammezzante le strofe. A questo principio secondano gli augurj , le lodi; in talune i consigli e gli ammaestramenti appropriati a ciascuno della famiglia salutata ; de’ quali uffici cortesi, di consueto assai brevi, si aveva ed ha come dire una selva, dove trascegliere i più convenienti, senz’altro che cambiare i nomi; oltre a casi straordinari che richiedessero componimenti nuovi. E da questi saluti, quasi sempre nominativi, niuno si lascia fuori, nè i fanciulli, nè i bambini, nè i lattanti. La Maggiolata di Pittelli nè le lastre del tetto, nè gli scalini della scala, nè le fondamenta della casa : Saluto fin e ciape der teccio Saluto fin i scain da scàa , E a bella figia che fa monta e càa; E saluto anche i fondamenti E tutti quei che stan attenti ; come un Canto di Mercogliano Avellinese (1): Prima r’arrivi a’sse scale, Saluto primmo li vostri scalini Saluto chi ci seenne e chi ce ’nghian’a (sale). Onde mai questa corrispondenza fra paesi tanto lontani e senza commet ci fra loro ? Ed in ciò la cortesia non iscarseggia davvero: chè la Maggiolata di Campiglia da del nobile a’ pizzicagnoli, a’ fornai, agli scalpellini; da dell onorevole e del riguardevole a tutti la Maggiolata di Castagnola ; e quella di Pitelli augura ad un sarto d esser fatto Marchese. Non meno generosi crii O ÌD (1) Imbriani, Canti Popolari di Mercogliano, nel Propugnatore, tom. IV. Pag· 3 39· 128 GIORNALE LIGUSTICO augurj cantati da’ Greci pel Capo d’Anno in Cefalonia al maggiore della casa; altro che Marchese! là egli si gonfia a Bailo (rimembranza veneta); si gonfia a Re, e tutti inchinino la Maestà sua; pur di cavarne buona mancia (i). I nostri Capifamiglia sono lodati di estimazione pubblica e di gravità; la moglie dormiente in lenzuoli che diconsi fioriti (un Canto di Zante, ricamati) (2), ha lode di bontà, santità, masserizia, e, se giovane ancora, le si prega un figliuolo maschio, in Castagnola che dica presto Messa, e un altro maschio di seguito che paia Conte e Barone , fede e nobiltà insieme; alle figlie si fa veder per aria un bel marito, e si dà vanto di bellezza specialmente di trecce, in alcuni villaggi del Golfo della Spezia usate di portarsi a corona intorno alla testa, ravvolte in nastro di filo bianco accappiato sopra un orecchio, nastro D’in cielo in terra (3), tanto sono lunghe; a’ figli maschi, da Voccio der falcon (4) si augura buon avviamento. De’ consigli mi viene innanzi quello della Maggiolata di Falcinello al Capofamiglia : A voi, Antonio, come Capo di casa, Bacchetta in mano da costumar la brigada. Cosi negli augurj di Cefalonia sovraccitati, si ragiona del maestro che picchia i fanciulli della sua scuola con mazzet-tine di basilico per assennarli (5), non diversamente che la Maggiolata Falcinellese, per costumarli; ambedue i Canti ac- (1) Tommaseo, Cant. Grec. cit. 273. (2) Id. Op. cit. pag. 13. (3) Maggiolata di Biassa. (4) Maggiolata di Campiglia. (5) Tommaseo, Op. cit. pag. 276. GIORNALE LIGUSTICO 129 cennando al gastigo inspirato dall’affetto, non abbrutito dal-l’ira, gastigo piuttosto morale che materiale. Nelle Cantarelle o Cantigole di Riomaggiore si mostra la padrona di casa andare alla chiesa in atto di santa colla coronetta in mano, fornita del segnale d’oro (1) : E chi la vedesse andare alla chiesa Pare una santa donna: E dove ne sia (specie se abbia) la coronetta in mano Con lo segnale d’ oro. Il Canto di Cefalonia descrive esso pure una padrona di casa in quell’andata; ma non con tanta onestà e semplicità, quanta i versi liguri. La donna ligure portava in quel momento gli occhi bassi ed il rosario in mano come una santa; la greca lasciava che si potesse paragonare lo splendore del suo viso al sole e quello del seno alla luna (2) ; la prima è cristiana, la seconda pagana, ο Γ una poveretta e l’altra ricca. Per altro, quella semplicità alla nostra vista abbarbagliata sembra fuggire la misura, massime nella Maggiolata di Biassa, nella quale si illustra la Maddalena, prima figlia d’un padrone di casa, perchè oltre a tagliare e cucire i panni, ella sappia mettere lo stoppino alla lucerna, certamente per non essere allora punto comuni le lucerne in quel villaggio solitario : E te sai mette lo bambaso àa lumea. Vero è che soggiunge subito : E arrecamae de calunche mainea. (1) Crocifisso o Medaglia. (2) Tommaseo, Op. cit. pag. 275: .... Quando vuoi alla chiesa ire Per adorare Iddio, per far la preghiera Fai sole il viso e luna il seno. Giorn. Ligustico. Anno XII 130 GIORNALE LIGUSTICO Ma dopo Γ encomio dello stoppino, non si può pretendere da quella fanciulla finezza di ricamò, almeno più di quelli grossolani a colori ed in bianco, lavorati tuttavia dalle contadine romanesche ed abbruzzesi, ed ora dalle liguri presso Genova. Gente a cui si poteva parlare così con verità di lode, come in Castagnola descrivere e chiamar savia la padrona di casa, ella , bella e gentil madonna, affaccendata nel fare il pane alla sua famiglia, quantunque Megiu ne stareiva con l’agugetta in mano ; e dirle di levarsi su presto alla mattina e andare colla secchia alla fonte ; e vestire una sottile stoppassa o gonnella sottile di stoppa, mentre la prevessa (spiegano, grosso grillo primaverile) canta su la rama de la ginestra. Quadrettucci di vita povera e severa, dipinti ne’ tempi che il padrone di casa, anch’ egli dello stesso stato e degno di migliore, andando per via Megiu ne stareiva cun la sua spada cinta, E con lo puntai de 1’ oro, al costume de’ gentiluomini d’allora. Più squisitamente della Lena è salutata in Biassa la Maria, seconda figlia del padrone: E Maia bella 1’ è a stella Diana; L’è chella eh’a se leva alla mattina: Se a stella Diana a se perdesse En petto a Maia bella se arretroèva. Ma questa stella per vederla bisognava cercarla; la Maria non era delle sfacciate donne flagellate da Dante (i). La Maggiolata di Riomaggiore a’ principali del paese, dopo cantata in pochi versi la primavera, salta di tratto a cosa (i) Purg.. XXIII. GIORNALE LIGUSTICO 13 1 storica e ne forma la parte sua più notabile. Annunzia in vista tre navi veleggiatiti. Vanno a riconoscerle: Son le navi signore genovesi ; Li mercadanti sono fiorentini, Li marinari sono genovesi. Vanno in Levante per lo guadagnae. Prega San Zorzo che ghe manda bon venti, Bon venti freschi e grego a tramontana, Che li condusan in Genova soprana. I genovesi avevano legni e marinai e danari e balestrieri e pensato ardimento per sè, contro sè e per gli altri. Dall’ esempio rimastoci della Maggiolata amatoria di Riomaggiore, si apprende che Γ amatore modesto festeggiando la sua vaga in Calen di Maggio non cantava co’ Maggiaiuoli, ma da loro si faceva raccomandare nel canto: O Licressina (Lucreqina), che non fescio errore, Quello che canta non è il vostro amore ; Gi è chi presente chi ne ga mena, E Meneghin gi è il vostro innamora; Gi ha misso tutto o sè in meso del vostro (1) ; E questo gi è partido da par vostro ; Gi ha misso tutto o sè in meso der mae (2), E questo i n’ è partido da lasciae. A spunta un fior di giglio en tramontana, Questo gi è Meneghin, si ne m’ingana. E in sor Mesco (3) a ghe spunta na latina (4), Chi ghe comanda su 1’ è Licressina. A spara o tiro (5) ar Mesco, e’ (6) fa partenza E Licressina a ghe fa riverenza. (1) Ha messo tutto il suo in comune col vostro, in compagnia di traffico con voi. (2) In negozi marittimi. (3) Promontorio delle Cinque Terre. (4) Grosso legno da pesca e da più lunghi viaggi. (5) Colpo di fucile, annunziante la partenza de’ legni pescarecci (6) Egli, Menichino. 132 GIORNALE LIGUSTICO Ma questo in addietro. Adesso nuovi tempi: Γamante che ordina a sue spese la festa, oggi in Riomaggiore sen va difilato in casa Γ amica, e con lei alla finestra godesi trionfante l’opera della sua borsa e quel dolce Canto all’orecchio de’ miglior, la lode. Due frammenti dell’ antica Maggiolata di Braccelli, vivi ancora nella memoria d’ un buon vecchio di colà, fanno lamentare la perdita degli altri ; bastando essi due soli a lodare la gentilezza d’una generazione, che dello spettacolo della natura lieta e del canto festoso fa documento in correggere le umane fragilità, addolcire le amarezze, informare i cuori a virtù. Uno è per donna separatasi dal marito: Tortoella (1) che torna d’en Zoria, Ensegna a retornà a Pin, che l’ama, A fìgia de Checchin, Ana Maia. Luntan da quella stanzia eh’a fè mae, Letizia a ne peò avè, chè 1’ è peccato, E un peccato eh’ en fa de tutte fae. Retorna, Ana Maia, ai santi amoi. Te vedi? A tortoella a torna au nido, Retorna 1’ erba ai posi, ai pradi i fioi. Che in italiano letterale dice: Tortor ella che torna d’in Soria Insegna a ritornare a Pino, che l’ama, La figlia di Cecchino, Anna Maria. Lontana da quella stanca che la fe’ madre, Letizia non può aver perche r- peccato (la lontananza) E peccato che ne fa fare di tutte. (1) Io credo che piuttosto dicesse Rondanina, cioè Rondinella., pel suo viaggio popolarmente orientale, per l’antico culto a quell'uccello, e per la sua famigliarità cogli uomini. GIORNALE LIGUSTICO I33 Ritorna, Anna Maria, ai santi amori. Vedi? La tortorella torna al nido, Ritorna V erba ai poggi, i fiori ai prati. L’altro frammento bracelliano concerne due sposi novelli non troppo caldi, a quel che pare: A natua l’è tutta en festa e amoe; Se fiorisce la pianua, se veste u monte ; Manco le bestie d’ amasse 11’ an rossoe. Voi autri e sì, Marina e Baciccetta Fé festa e amève da novelli spusi E Dio ve manda presto una figetta, Ch’ a sia bionda e bella come a mae, Ch’ a sia de chèe e brava come a nona, E che giudizio 1’ aggia come u pae. Traduzione letterale: La natura 'e tutta in festa ed amore, Si fiorisce la pianura, si veste il monte, Manco le bestie si vergognano d’amarsi. Voi altri alsì, Marina e Battistino Fate festa ed amatevi da sposi novelli: E Dio vi mandi presto una figlietta, Che sia bionda e bella come la madre, Che sia di cuove e buona come la nonna, E che abbia il giudizio del padre. Le Maggiolate di Giovagallo e di Bolano osservano il precetto virgiliano amant alterna Camenae; in questo, ch’io sappia, singolari dalle altre, se non dalle senesi che da più secoli si composero a dialogo. L’ esordio del Canto Giova-gallese si fa da tutta la brigata. Dopo pochi versi laudativi τ34 GIORNALE LIGUSTICO del mese, canta uno solo e dice alla fanciulla della casa: Ecco qua una bella rosa Che la irriga e allatta (i) Maggio Ancor io ho buon coraggio (2), La rigalo a questa sposa. Ora a’ contadini il dono d’una rosa, come in Grecia il getto di qualunque fiore in seno ad una fanciulla, vale chiesta d’ amore ; e vale condiscendenza d’ amore quando lo stesso dono si ricambia dalla fanciulla. Un Rispetto toscano in proposito del ricamo d’ un fazzoletto regalato dalla fanciulla al sonatore che le fa la serenata, dice : E se del mezzo ci fosse una rosa, D’ avanti al sonator c’ è la sua sposa (3). Questo senso pure in antico alla rosa, dall’ essere ella Facta Cypris de cruore, deque Amoris osculis , Deque gemmis, deque flammis, deque solis purpuris (4); (1) D’ Alattare o Lattare appropriato alle piante si potrebbe agli esempi della Crusca aggiunger questo, di Giulio Dati, Poesie: Celebrato valor, quasi arboscello, Dolce lattato di rugiada e d’onda. Un distico popolare greco (Tommaseo, Canti Greci, pag. 285: ed. cit.): Affacciati alla finestra, vedi il tuo garofalo E annafial sovente del latte del seno tuo. (2) Dante: E tanto buon ardir al cor mi corse. Giustiniani Lion.: Poesie, pag. 36. Bologna, 1883: To’ via de bon corazo El passador del legno. (3) Tigri, Canti Toscani, pag. 100 : Firenze, 1860. (4) Pervigilium Veneris, vers. XXIV: Pisauri, 1766. GIORNALE LIGUSTICO r35 che il mio Ugo Antonio Amico traduce bravamente: Nata (la rosa) dal sangue di Ciprigna, Amore La nudrio de’ suoi baci, e d'ostri e d’auree Gemme pinsela il sole. Però la contadinella giovagallese non aveva bisogno che le si dilavasse il concetto con quest’altra strofa: Fanciulletta innamorata Vi rigalo questa rosa, Presto sarete sposa. Ella risponde al giovane : Compatite , o giovanetto , Se non prendo questa rosa, La mia mamma è un po’ noisa , Ma a voi io porto affetto. Nella quale risposta non ci sarebbe che dire, tranne il titolo poco rispettoso dato dalla figlia alla madre, titolo che la Maggiolata di Bolano, meglio inspirata, scambia in gelosa, parola di affetto ardente, e spesso adoprata dagli amanti verso le loro madri (i). Nella Maggiolata giovagallese , al rifiuto della fanciulla, il discorso ripiglia la forma collettiva e finisce (i) Giustiniani L., Op. cit. pag. 38: Se pur tu vuoi intrare. Amante, zura presto di partire, La mia zelosa mare Suole in quest’ bora in mio camin venire. Tommaseo, Canti Toscani, pag. 358: Venezia, 1841: Quando ti vedo alla finestra stare Colla tua cara madre in compagnia Ti prego, bella, gli occhi d’abbassare, Che la tua madre ’n prenda gelosia. 136 GIORNALE LIGUSTIGO il dialogo; il quale prosegue nella Maggiolata bolanese. In essa si vede la fanciulla non rassegnarsi punto alla difficoltà, ma raccomandarsi alla madre di lasciarle pigliare il giovane amato; ed egli consigliare la fanciulla di non dar mente alla madre sua, sì a lui se vuole essergli sposa. Quindi ardito, si rivolge alla mamma: Che ne dite, vecchiarella? Di non darmi vostra figlia? Poiché Iddio me la consiglia, Me la prendo, perchè è bella. Lo stesso pensiero in un distico greco : Tempo è, occhio mio, gli è tempo: lascia star l’ago, Andiam eh’ io ti sposi, e combatta pure la madre tua (i). Ma la madre lunigianese non se ne sta, e rintuzza altera Γ insolenza del garzone : Giovanetto, non parlare, Non aver tanta arroganza, La mia figlia è d’importanza, E a te non la vo’ dare, Giovanetto, non parlare. Ed in questo termina il dialogo. Per gli uomini qualificati, nelle campagne primo il Parroco, alcuni paesi hanno Maggiolate particolari, oltre che per le innamorate. Fra le quali quella al Parroco di Falcinello, che nel licenziarsi da lui gli canta : Bona notte, signor Rettore, Lo lasciamo in pace col Signore E pure in pace colla Madonna, Se ne andemo a letto colle nostre donne. (i) Tommaseo, Cant. Grec. cit. pag. 112. GIORNALE LIGUSTICO I37 Quella di Biassa : A lè, Siò Arsipreve, nobile studiente , Cando la parla con 0 Spirito Santo A Nunziada (1) a lo possa agiutae. E quella di Pitelli: E voi, Rettoe, Parco der paese, Dene un fiasco de vin , A vigniem aa messa tutto er mese. » Versi questi ultimi che hanno sembianza di celia in materia che non la comporta , e paiono cosa tutta moderna , forse appiccicata dopo. Sul finire, come la predica viene alla elemosina, così il Canto Maggiaiuolo alla mancia, che in Riomaggiore ha pur significato di elemosina, dicendosi nel domandarla : E lo ben — vien da lo sen De! Paradiso Santo. Mancia specificata e più comunemente usitata a cacio ed uova; quale in Grecia pe’ Canti di casa in casa fatti da fanciulli e fanciulle il primo di marzo, salutanti quel mese col ritorno della rondine dal bianco mare (2) o la primavera vicina, e noi il primo di maggio o la primavera giunta ed insediata. Ma in Romagna salutanti il Marzo altresì, con questa differenza che in Grecia ciò si fa da fanciulli e fanciulle cantanti il ritorno della rondine, e nella Romagna da fanciulli abbrucianti ne’ primi tre giorni di quel mese (1) Μ. V. dell’Annunziazione. (2) Tommaseo, Op. cit. pag. 278. i3S GIORNALE LIGUSTICO sull’ imbrunire deludi, presso alla casa, mucchi di paglia e cantanti : Lemna lemna d’ Merz (i), Una spiga faza un berch ; Un berch un barcarol ; Una spiga un quartarol; Un berch una barchetta ; Una spiga una moietta (2). Donde Illuminare Mar%o ο Far lume a Mar%o ; costumanza proibita in antico per superstiziosa ed idolatrica, segnatamente in Rimini da Carlo Malatesta colla pena di un anno di carcere , e sempre viva in Romagna, dove l’altra del Maggio dello stesso spirito, e ch’io sappia, non vietata mai, si estinse da sè (3). A premio dell’ anzidetta mancia richiesta dai nostri Maggiaiuoli, essi augurano alle galline ed alle pecore la salvezza dai loro naturali nemici. In Campiglia : Deme di oeve di la vostra gaina, Dio ve la guarda de la bellurina (4), Deme der formalo de la vostra pegoa, Dio ve la guarda dar lovo e dalla bocca negra. In Biassa : S’a me desso ’n’ oevo daa vostra gaina, Dio ve la guarda daa faina ; S’ a me desso na formajetta de la vostra pegoa, Dio ve la guarda daa bocca negra (5). (1) Cioè: Lume a Mar\o, lume a Marino. (2) Placucci, Us. Preg. Rom. cit., pag. 103. (3) Atti e Memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna, Sez. Ili, vol. III, pag. 77, 81. (4) Bellora, in genovese, Donnola. (5) Lupo· GIORNALE LIGUSTICO I39 Il Poeta letterato del Canto di Moneglia non volle abbassarsi a domandare la mancia, e lasciò questo compito ad un Poeta popolare, alle cui rozze parole si deve l’unico fiore gentile che profuma il Canto : Dio ve ne sarve a voi (1) Se ne volete dare Le ove de le vostre galline , Se ne volete dare Il formaggio de le vostre pecore. E se non ne giovàe (2) Se n’ andremo noi Davanti a la vostra casa, Vivete in pace con Dio E con la vostra masnata (3). Imperocché non così modesti e gentili tutti i Maggiauoli ; non cosi i Calicesi, i quali al padrone taccagno cantano una strofa detta Maggio de’ ballotti che Γ onestà non permette di riferire; e peggio i Campigliesi, come vedemmo. Il Canto chiudesi col domandare perdono degli errori commessi nel cantare. La Maggiolata di Giovagallo : Compatite, voi Signori, Se abbiam fatto degli errori E con feste, suoni e balli Copriremo i nostri falli. Quella al Parroco di Pitelli : Questo Maggio ha qualche errore, Ci perdoni, signor Rettore , Si canta come si sa, Il Ministro di Dio ci perdonerà. (1) Dio ne serbi a voi. (2) E se non ci gioverete. (3) Belgrano, Il Magg. cit. pag. 19. 140 GIORNALE LIGUSTICO Le quali per poco sono le parole stesse delle Licenze dei Drammi Maggiaiuoli, di cui dirò poi un motto. Onde nel-Γ Artaserse: li bel Maggio è terminato, Nobilissimi Signori, Scuseranno i nostri errori Se si fosse mal cantato ; nel Re Trieste: Se inesperti stati siamo Compatite i nostri errori; nella Cleopatra: Perdonateci, Signori, Se commesso abbiamo errori ; e nel Cleonte: Escusateci, Signori, Se abbiam fatto degli errori. Ad ultimo i Maggianti gridano tutti Viva Maggio e battono le mani in alto, ed ognuno se ne va per la sua via, ο, come dicono i Genovesi con frase marinaresca, pe’ suoi venti. La Maggiolata di Pitelli: E adesso ce n’ andiamo Ognuno pe’ suoi venti. Del raccolto delle cantate, fra in cacio, uova ed altre derrate ed in moneta, i Maggiaiuoli Pistoiesi fanno elemosina a prò delle Anime Purganti (1); i Pratesi ne fanno merenda, e l’avanzo, se ce n’è, danno al Prete per l’Esposizione del Sacramento; i Liguri ed i Lunigianesi ne gozzovigliano. Ec- (1) Tigri, Canti Toscani, Pref. pag. LVI : ed. cit. GIORNALE LIGUSTICO I4I cetto che in Riomaggiore, dove i danari se li dividono fra loro i Maggiaiuoli e solo le altre cose godono in compagnia; ed eccetto che in Zeri, dove, finita la festa, mettono all’incanto il Majo, e ne convertono il ritratto al suffragio di quelle Anime. Anche nel Senese io credo che le mance si spendano da’ Maggiaiuoli e dalle Maggiaiuole al medesimo modo che nelle altre provincie toscane. Anzi per tutto il secolo diciassettesimo in quel paese si usò che queste brigate cantanti per accrescere la loro offerta alla Chiesa, o per mettere insieme la dote ad una fanciulla Maggiaiuola, non senza che da’ Pievani vi fossero confortate, sul finire del Maggio si raunavano nella piazza del Pievano, che quasi da per tutto è quella della Chiesa, e là celebravano una solenne danza, a un prezzo fermo per ballo; cosa che durò finché l’Arcivescovo Marsili, non piacendogli quel ballare a tassa per causa pia, lo proibì (1). Ne’ Drammi Maggiaiuoli della Toscana, fuorché nella Versilia, similmente si continua a far questua di offerte per le Anime del Purgatorio o per altra cagione sacra (2). Al quale oggetto i Piemontesi avevano un modo proprio e degno di loro; eglino non balli, non canti, non suoni, non rappresentazioni sceniche ; ma il Giuoco dell’ archibugio, tanto lodevole ed avvantaggioso al mantenimento dello Stato, diceva il Principe nel 1677; pel quale la Commissione del suffragio delle Anime Purganti essa medesima costituiva i premj a’ meglio tiratori; e quello che si raccoglieva dalla tassa de’ tiri si volgeva a benefizio di quelle Anime (3) : la Patria si abbracciava colla Religione, donde la forza, quella che salvò assai più che lo Stato Piemontese; non se lo dimentichino gli Italiani se vogliono meritarsi la loro sorte, non (1) Gigli, Vocal·. Cater. loc. cit. (2) D’Ancona, Teatr. liai. cit. II, 387, 388. (3) Angelucci,11 Tiro al segno in Italia, doc. LXIV, LXVI: Torino, 1863. 142 GIORNALE LIGUSTICO perderla. Altre Maggiolate ho in pronto; ma non della stessa natura delle vere e comuni: qui il maggio non entra che di straforo, e scambio di costituire egli e signoreggiare Γ argomento , lo serve; però le ho tenute in disparte, per riferirne da sè. Due sono auliche o cortigiane; una, claustrale ; ed una, politica. Delle auliche la prima è opera di un cotai G. Kasperger, e fu cantata a Pitti in lode della Serenissima Arciduchessa Maddalena, Granduchessa, l’anno 1612 (1). A tanta impresa il buon tedesco invoca Clio, Hor che il Maggio il mondo infiora, a prender la cetra ed alzare la voce : Fa sonar l’aria serena Del gran Cosmo al chiaro nome, Dì degli occhi e delle chiome Dell’ augusta Maddalena. Ma in Corte erano altre due Principesse, sorelle di Cosimo II, e non si potevano trascurare. Per ciò Non tacer gli alteri pregi Di Leonora e Caterina, Coppia angelica e divina, Bel desio d’ eccelsi Regi. Sfortunatamente gli eccelsi Regi non si videro mai; destinata 1’Eleonora a Filippo III Re di Spagna, questi l’andò tanto temporeggiando che la povera Principessa morì nell’aspettazione del trono, all’età di ventisei anni; la Caterina sposò il Duca di Mantova (2). Il Poeta continua gli incensamenti (1) Questo Maggio fu pubblicato in Firenze coi tipi del Marescotti. (2) Litta, Famiglie celebri, fam. Medici. GIORNALE LIGUSTICO I43 al gran Cosmo ed alla Maddalena sua moglie , dicendo a Clio questa cosellina: Da gli Esperì a’ lidi Eoi Spiega pur le penne a volo Che dal freddo all’ arso polo Non vedrai sì grandi eroi. Quindi per cantare più sicuramente della Granduchessa, a cui era la festa, prega Clio di scendere giù presto dal suo monte e venirsene per un poco a Firenze ; vedrebbe allora cogli occhi suoi e potrebbe celebrare a pieno le glorie della Diva di Loreno : Vera beltade, Vera honestade, Celesti rai Qui mirerai ; Vienne veloce, Sciogli la voce, Dì che mai videsi Beltà sì nobile, Nò rai sì splendidi Vedransi più. E tutte queste adulazioni scioccamente temerarie, presente la Corte, si gittarono in faccia al Granduca ed alla Granduchessa; e buon per loro se ne arrossirono. Di Cosimo II nacque il Principe Mattia il 9 magggio 1613; e nel 1649 con una Maggiolata cantata a Pitti si celebrò il trentesimo-sesto anno della sua nascita (1). Queste le prime strofe: Ecco Maggio ed ecco il giorno Che il mio Sir già diede al mondo; Maggio lieto e dì giocondo Sol di raggi e gioie adorno. Torna Maggio e il giorno riede Che ’l mio Sir al mondo diede. (1) Maggio cantato in musica nel Natale del Serenissimo signor Principe Mattias in Firenze, 1649: Bibl. Naz. Fior, e Cod. VII, 9, 647, car. 81. ï44 GIORNALE LIGUSTICO Del piacer 1’ eterno rio Con la terra il mare inonda, Ride il prato e ride Γ onda Ch’ oggi nasce il Signor mio. Torna Maggio ecc. Oggi ogni alma il duolo oblia, Oggi fugono le noie, Oggi regnano le gioie Ch’ oggi nasce il gran Messia. Torna Maggio ecc. Si vegga quest’altra: Sudan balsamo le piante Stillan nettare le stelle, E d’ ambrosia aure procelle Versa in terra il cielo amante. Torna Maggio ecc. H questa ancora : La virtù, le grazie, e’I riso Fanno al mondo oggi ritorno: Si trasforma in questo giorno Tutto il mondo in Paradiso. Torna Maggio ecc. Ά tanta bassezza erano caduti gli animi sotto la Signoria Medicea ! Poi : Di pallor tinti i suoi argenti Piange sol la Tracia Luna, Lo splendor della tua cuna D’ una luna, i lumi ha spenti. Torna Maggio ecc. Donde il fervido Poeta prognostica di Mattia l’opera liberatrice del Sepolcro di Cristo. Il Principe Mattia fu uomo valoroso, e lo dimostrò nella guerra de’trent’anni, dove militò GIORNALE LIGUSTICO lungamente a’ servigi di Casa d’Austria (r). Ma egli non fece mai impallidire la Tracia Luna e il Sepolcro di Cristo rimase sempre quale era (2). La Maggiolata claustrale (3) è dì quarantasette strofe, e fu cantata lo stesso secolo diciassettesimo in un monastero, secondo pare, di Firenze. L’esordio del canto si prolunga noiosamente, massime sulla descrizione di quasi tutti i fiori del creato; prima la rosa: Par d’ amor la rosa avvampi, Bella Venere del prato, De’ giardin sole adorato , Cuor de’ fior, occhio de’ campi. Siamo proprio nel secento a gola. Il meglio viene quando il Poeta (forse Confessore o Cappellano del Convento) dopo un saluto generale alle Suore , mette mano a’ saluti ed agli augurj particolari a tutte le Ufficialesse (per dirle così) del Monastero, Badessa, Priora, Portinaie, Camarlinghe, Depositarie, Dispensiere, Vinaiole, Panattiere, Coraie, Infermiere, Tovagliaie, Maestra del Canto, Madre delle educande, oltre a’ Servigiali ed alle Servigiale. Tra gli altri mi paiono osservàbili i complimenti (1) Litta, Op. e loc. cit. (2) A queste due Maggiolate antiche si possono aggiungere quelle di vario genere cantate in Malta ad onore del serenissimo Gran Maestro della sacra Religione Gerosolomitana, delle quali pubblicò una nota bibliografica Ferdinando Hellwald nella sua Bibliographie méthodique de VOrdre souv. de 5.' Jean de Jérusalem: Rome 1885, pag. 84-87. (3) Maggio sopra l’aria di Ruggero, Bib. Naz. di Firenze, Mss. Targioni, N. 165, vol. II, car. 221. — Quest’ aria (così detta dal musico che la compose) che sia quella già usata dai montagnuoli pistoiesi nel-bàlio da loro chiamato Ruggeri? (Cfr. Tigri, op. cit., pref.); o quella del canto popolare siciliano dello stesso nome ? Giorn. Ligustico. Anno XII. io 146 GIORNALE LIGUSTICO Alle Portinaie Ancor voi cui dato è in sorte Di guardar l’ingresso al chiostro, Accrescete il gioir nostro, O Custodi delle porte; Vostro vago ornato ciglio Spieghi un’ iride festiva £ con voce alta e giuliva Dell’ aprii si canti il figlio. Alle Dispensiere Quinci a voi, vaghe e cortesi Dispensiere, il dir volghiamo, E a star liete vi preghiamo, Con desir caldi ed accesi. Alle Vinaiole Voi che a mensa dar solete Pretto vin dolce e piccante, Sii mescete il più brillante Per temprar l’ardente sete. A TUTTE Con un modo accorto e saggio Rida ognun in questo giorno, E suonar s’ oda d’intorno , Godiam, Suore, è Maggio è Maggio. Questa è la Maggiolata politica; composta da un Cappuccino, dicono, certo P. Clemente da Pistoia, di famiglia alla Spezia, musicata dal maestro Stefano Bruni; cantata solennemente in quella città l’anno 1848; non più cantata dopo. Il solo GIORNALE LIGUSTICO Μ? nome dell’anno eternamente memorabile, dice gli alti concetti animatori del Canto , che principia così : Se cantammo allor che Italia Era avvinta alla catena E il suo cuor premea Di pena D' una lunga servitù: Or che il Mese a noi ritorna Delle grazie e degli amori, Coroniamola di fiori, Perchè serva non è più. Su cantiam, cantiam, fratelli, La Canzone dell’ amor E a Pio IX e Carlo Alberto Consacriamo braccia e cuor. Quest’ ultima strofa si ripete ad ogni due. Lasciamo stare che nel 48 se Γ Italia era libera nel cuore de’ suoi Popoli e di due o d’ un solo de’ suoi Principi, era pur serva realmente col Tedesco sul collo. Ma e non mancano in quel Canto gli errori e le ignoranze volgari a cui il Cappuccino inchinò miseramente: Per la fame lo straniero Da per tutto egli pilucca, Di Radeschi la parrucca Fra non molto venderà. Ed allor senza parrucca, Senza spada e senza croce In Italia l’uom feroce Nella gabbia si vedrà. Prima di scrivere queste due strofe incivilissime ed indegnissime, che guastano tutto, il Poeta doveva pensare, che non temere il nemico è salute, ma spregiarlo prepara onta e ruina; e noi lo provammo amaramente. Lo provammo esultando 148 GIORNALE LIGUSTICO all* invocato aiuto della spada francese, cui si accenna da Carlomagno nella Licenza del Dramma Maggiaiuolo il Rinaldo : Via il pallore dalla guancia, Chè gli sforzi sarìan vani Mentre sta con voi,Italiani Il Monarca della Francia. Anzi il Franco Sir vi mostra Dei riscatto il gran desio, E già libera vuol Dio La diletta Italia vostra. Ed al vero autore di questo aiuto invocato Γ audacia parti— giana e la pazienza che la sostiene, a lui, caduto e spento, contendono nobilmente il debito onore; che, pure non resogli da noi, gli renderà tanto più largamente la storia imperturbabile. Ma il lettore finalmente mi dirà: più volte tu menzionasti i Drammi Maggiaiuoli ; credi trattarne di proposito? Di proposito, no. Questo venne fatto da Alessandro d’Ancona, e, per la parte senese, da Curzio Mazzi nelle opere più volte citate; ed io non ho voglia di portar legna alla selva che ne ha assai. Qualche tocco per la storia dei Maggi, qualche giunterella e null’altro. I Drammi di cui ragiono, secondo i luoghi ebbero, come nella definizione, nomi differenti. I Bruscelli, che sono i Drammi Maggiaiuoli senesi, furono da principio componimenti lirici, siccome le canzoni Maggiaiuole comuni, cantate anche in città pubblicamente fino agli ultimi del secolo XVI ; poi presero qualità di Dialogo che apri la via al Dramma; poi di Dramma, o di componimento che ha del drammatico. Ma la trasformazione passò dalla città al contado, o dal contado venne alla città? A questo le notizie mancano, poiché nessuno quando era tempo si tolse la briga di lasciare un vero e proprio cenno della usanza del cantar Maggio, e della trasformazione segui- GIORNALE LIGUSTICO I49 tane, e ciò che se ne va dicendo non è che il portato di deduzioni più o meno ingegnose ma non sempre sicure. Tut-tavolta mi pare che se la forma drammatica può essere per certe naturali cagioni natia della città , per altre simili nulla poteva impedire che fosse del contado, ed ambedue l’avessero. Quale prima, lascerò che il D’Ancona, il quale può farlo a sua posta, opini, che il dramma religioso ed eroico (e Γ Egloga, io aggiungo) esistente tuttora nel contado Senese, fosse già fin d’antico fra le consuetudini campagnuole di colà , quando i poeti cittadini si diedero a mettere in ridicolo i costumi e la parlata contadinesca usurpando anche il nome degli spettacoli villerecci (1). Imperocché il Dramma Maggiaiuolo cittadinesco, che divenne il Bruscello della Congrega de’ Rozzi, fu costantemente rusticale, di Ninfe e Pastori, simile all’antica e comune Egloga (2), aggiuntivi i Villani per istraziarli, con bella civiltà, di scherni e di busse ; i quali personaggi, e specialmente i primi, al mezzo od al fine dell’ azione cantavano le lodi del Maggio (3). Il Bruscello adesso non è solo de’ Senesi, ma e si rappresenta qualche volta negli Apennini pistoiesi, quando o non si può raccogliere il danaro per la spesa della Giostra, o quando la più parte de’ giovani si trovano ancora nelle maremme a lavorare: cotnmediola burlesca, sovente co’ bastoni in aria , come nelle Egloghe e Commedie de’ Rozzi ; (1) D’Ancona, Op. cit. II, 328. (2) Nel 1549 Don Ferrante Gonzaga, Governatore di Milano, mandò stia moglie Isabella di Capua, per cagione di salute, a viaggiare nel Regno, dove giunta in Bari fu albergata suntuosamente presso il P. Abate di San Benedetto, il quale per ricreare l’illustre viaggiatrice fece recitare a lei dinanzi un’ Egloga che conteneva tre sorte d’inganni fatti a tre Pastori da tre Ninfe (Contile, Lettere neH’.-irc/;. Ven. Ili, 99). (3) Mazzi, Op. cit. I, 312. 150 GIORNALE LIGUSTICO in ottava rima ; cantarellata sul violino dagli attori mentre che ballano attorno ad un giovinotto che tiene in mano un grosso ramo fronzuto d’alloro, o Majo, ornato come il Majo suole, ancora che non sia Maggio. Ma quell’emblema, proprio di tutti i popoli che hanno il culto del Maggio, dice l’origine dello spettacolo. Commediola, secondo stima chi l’udì, somigliante all’antico Bruscello de’ predetti accademici (i), non ad un altro Bruscello che si costumava nella maremma senese. Perchè questo, veduto molti anni addietro da’ nostri vecchi , consisteva nell’ andare la sera per le case una comitiva di amici mascherati a declamare, cantare, e far ballo da ultimo, ma senza l’albero o Majo, senza il balletto congiunto al canto e senza il movimento drammatico de’ Pistoiesi (2). E nè somigliante al Bruscello delle montagne senesi che già narrai, Egloga 0 Dialogo e specie di Dramma, se il poeta popolare riesce ad innestarvi qualche fatto religioso, storico 0 cavalleresco (3). Quasi tutti i Drammi campagnuoli della Toscana trattano questi argomenti, messi in versi ottonari e cantati con musica monotona dal principio al fine, senza accompagnatura d’istrumenti, salvo che nella Versilia, dove un controbasso od un violino secondano il canto (4). E qual ne sia l’argomento, se i Drammi si recitano di Maggio, allora incominciano colle lodi della fiorente stagione (5). Il D’Ancona scrive che essi Drammi non jono pure della Toscana, e ne reca esempi del Trentino, del Bresciano, del Canavese (6). Sulle porte della Toscana io posso indicare (1) Fucini, loc. cit. (2) Da lettera del citato signor Fucini. (3) Bianciardi, presso il Tommaseo, Op. e loc. cit. (4) D’Ancona, Op. cit. II, 339-342. (5) Tigri, Pref. cit. pag. LVI. (6) D’Ancona, Op. cit. II, 324. GIORNALE LIGUSTICO la campagna pietrasantina, dove si costumano da gran tempo. Una volta pare che là avessero solo in mira di carezzare soverchio qualche bella e pungere qualcun’ altra. La cosa non poteva durare, e per cansare dispiaceri e disordini si presero i soggetti religiosi e cavallereschi della Toscana che non possono dar noia a nessuno. Nel Dramma la Passione di Nostro Signore quivi recitato o cantato (non so come dire) pochi anni fa, la Madonna , la Maddalena e le Marie non erano all’ usato uomini sbarbati e sgarbati in gonna, ma vere e belle donne consentite dai babbi e da’ mariti alla riverenza de’ Personaggi rappresentati ; e questa innovazione , applaudita a furore, fruttò di bei soldi agli attori. Molti Drammi sono colà dettati da un contadino senza lettera, ma non senza scintilla poetica; il quale trae suo guadagno dal farli rappresentare fuori ; ed allora si riserva di esser lui il Capo e Direttore de’ recitanti o cantanti. Quasi le medesime cose nel Serravezzese, nel Montignosino e, più lungi, nel Garfagnino. In Quercetta, tra Pietrasanta e Massa, circa quarantanni passati , la dolce consorte della mia vita assistette alla rappresentazione di Flavia Imperatrice eseguita in un’ aia , sotto la finestra d’ una graziosa fanciulla , per la quale si faceva. La esecuzione, quale in loscana; eccetto che il damo presentò alla sua vaga un mazzo di fiori, e fatto un’allegro ballo fra loro due soli principiò la festa. Tutta la gente accorsa dalle vicinanze inteneriva agli affanni della moglie fida iniquamente vituperata. Ma le poche signore spettatrici, use alle pungenti salse francesi, se la ridevano sotto la pezzuola tenuta alla bocca per non farsi scorgere ; ridevano non so se degli attori o di Flavia. Sèguita la Lunigiana, particolarmente Nicola, Casano e Caniparola, ne’ quali paesi si fanno i Drammi sacri; ma sempre dinanzi o presso ad un’osteria; e l’ostiere a ricompensa dello spaccio maggiore della merce in quel di, deve dar bere gratuitamente a tutti gli artisti, dal cantare i GIORNALE LIGUSTICO versi drammatici ad alta voce come il popolo richiede, spesso bisognevoli d’inumidire il gorguzzole. Riferisco con piacere pei- Γ altrui benevolenza alcuni costumi de’ paeselli monta-gnini, quali Miscoso, Montemiscoso, Colagna, Succiso, Cerreto, in quel di Reggio d’Emilia; Lugagnano, Nirone, Rigoso, Trefìumi, in quel di Parma. Nel verno vi si formano briga-telle di giovani da’ dodici a’ vent’ anni, che i Reggiani chiamano Maganti e i Parmigiani Magarmi, Maggianli i Lunigianesi e Liguri. Eglino si danno con ardore a studiare la loro parte nelle stalle , al cui tepore convengono altresì le forosette a trarre alla rocca la chioma, sotto un fioco lumicino pendente dall’ alto ; e nelle stalle fanno ancora le prove, sfoggiando lor valentìa alle innamorate, di cui gradiscono le lodi ed i consigli. L’ ultima domenica di aprile cominciano le rappresentazioni nel villaggio proprio ; poi ogni festa lino alle due prime domeniche di giugno ne’ paeselli vicini; quivi invitati colla offerta d’ una mancia non maggiore di dieci lire, oltre il desinare. Vanno da un paese all’altro dietro bandiera, secondo credono, appropriata alla rappresentanza che sono per fare; portano ne’ drammi eroici elmi di cartone splendenti di carta dorata od argentata; daghe di legno colorate, vesti e manti foggiati da loro alla meglio, o presi a nolo nelle città vicine da’ mercanti di abiti da mascherate. Come d’altri luoghi, le donne non entrano nella brigata; gli uomini fanno per esse, travestiti da donne. Per solito lo spettacolo si fa in un prato, sotto l’immensa volta del cielo e coll’apparato scenico della campagna e de’ prospetti soggiacenti, che è il più sublime de’teatri ; può durare tre ore. La cantilena de’ Toscani corre rapida e si avvicina alla recitazione, al paragone di quella de’ contadini parmigiani e reggiani che si strascica, simile al canto fermo, e termina le quartine con nota allungata di molto; onde, per abbreviare, ne saltano parecchie. Alcune quartine, pure d’un sol personaggio, sono GIORNALE LIGUSTICO ISS cantate in coro, secondo mi contano, per conferire all’armonia. Ad esempio, nel Maggio La Liberazione di Gerusalemme (è curioso che non siasi voluto intitolare La Gerusalemme liberata), stampato dalla tipografia Sborgi di Volterra (miniera di tutti questi Drammi) nel 1884, sono cantate da più insieme, le quartine 4, 7, 21, 45, 139, 182, 184, 187, 190, 192, 193, 200, 204, 268, 269, 270, 302, 303, 324, 366, 3^7> 370, 37j. Il Buffone, più grato in forma di diavolo, sia o non portato dal componimento, si vuole ad ogni modo ; onde se la poesia lo trascura egli dovrà improvvisare o comporre di suo capo la parte, cantando e recitando, dacché egli vi ha a fare l’uno e Γ altro. Personaggio necessario, non tanto per rompere la severità del canto e spesso la mestizia del racconto, a somiglianza degli inframmessi nelle antiche Commedie, quanto per guidare la rappresentazione; talmente che se egli s’ ammala , o se ne cerca un altro , o a dirittura lo spettacolo si manda ad altro tempo. Egli colle corna sta di fronte alla platea; gli attori a’ lati in due file; lo spazio di mezzo vacuo, che è la scena, assegnata a ciascuno per recitare o cantare, poi ritornando al suo posto. Frattanto un di loro gira col bossolo tra li spettatori, e del riscosso una porzione , pagate le spese, si riserba alle Anime del Purgatorio. Si vede in tutto che, trapiantati o natii, i Drammi Maggiaiuoli di quelle montagne remote dal commercio civile, differiscono ben poco da’ toscani pure nell’azione. De’ Drammi maggiaiuoli ed eroici che in quest’ ultimo secolo erano in Malta e forse sono, dalle consuetudini auliche scesi alle popolari, basti l’annunzio (1). Ora, voltando carta, dopo le note gioconde scorriamo le meste, che sono più utili a sapersi, per affinare il giudizio ed appianare la vanagloria. Dico adunque, non senza maraviglia e dolore, che, per credenza (1) Hellwald, loc. cit. *54 GIORNALE LIGUSTICO radicata tra’ volgari delle nobili Province di Girgenti e di Caltanisetta , e non potuta vincere finora dalla istruzione e dalla educazione progredite, ma, dubito, non concordi nell’opera, oggi tuttavia il di primo di Maggio sbucano dall’Inferno torme di genj malefici e vengono a tormentare di spaventi e sciagure infinite gli uomini tutta quella giornata. Generalmente chi è preso da quelle angoscie quel giorno non va a caccia, quando appunto la recente arrivata delle quaglie mezzo morte dalla fatica del viaggio affricano la promette più crudelmente facile e più copiosa; e non va alle taverne: temendo l’arcano lavoro delle influenze maligne a suscitare il peggio che può capitare nelle cacce e nelle bische. Fra gli altri molto guardinghi sono i popolari di Canicatti, dove le mamme alla prima aura di Maggio in tutto il giorno non mandano a spasso i loro bambini ; dove pochissimi vanno pe’ fatti loro anche più importanti alla campagna; e dove alla fantesca, rompendo stoviglie o facendo qualsivoglia danno, non gliene va altro che incolparne il diavolo, che forse dirà ancora di aver veduto, ed il padrone china il capo. A Canicatti, a Sciacca, a Santa Margherita ed altre parti del terreno agrigentino , alla nascita del giorno nefasto si danno a scongiurare i diavoli venuti teste dall’Inferno. Al quale uopo eglino premuniscono la loro casa il meglio che possono tappando studiosamente le fessure delle porte e delle finestre, che non sigillano bene, con strisce di carta stampata d’immagini sacre, incollatavi sopra, e simile ogni altro accesso che non ne trapeli filo d’aria se non benedetta; e s’armano il corpo ravvolgendosi per la bocca medagline di Santi e turandosi con Santini gli orecchi, affinchè secondo la stima di que’ semplici, i perversi non abbiano modo d’invasare i Cristiani, al loro costume, e costringerli a patti di perdizione. Eglino pertanto, come si sviano e confondono le nienti semplici, e massime le più immaginose, agli assalti della passione, GIORNALE LIGUSTICO 155 non si palesano così fidenti ne’ sussidj religiosi che non adoperino largamente insieme i materiali; sebbene nè meno con questo aiuto acquistino sicurezza perfetta. Un secolo fa, se non più dappresso, i morti di Milazzo alla viglia notturna della loro festa solevano, non so se tutti, sgombrare le sepolture, e, vestitosi un sacco bianco, andavano in giro per la terra a far visite : contro alle quali era niente il chiuder le porte, che eglino entravano in casa tuttavia convertiti in formiche, ed in un attimo ritornavano scheletri vestiti (i): lo stesso e meglio potrebbero i diavoli. Onde que’ miseri combattuti e smarriti ne’ loro stessi provvedimenti, misurano con grande ansia il corso della giornata calamitosa, pregando, digiunando pane ed acqua, e stando sempre all’oscuro, per iscorgere più facilmente al vapore di luce rossigna la presenza de’ nemici, se alcuno penetrasse in casa. In quella vece i meno timidi di Sciacca si confortano alzando contra di loro sull’ architrave della porta da via una Μ, Maria, intrecciata co’ fiori del Majo. Rispetto alla Provincia di Caltanisetta, i popolari di Terranova, più fortunati degli altri, hanno saputo, e, si dice, provato per molte esperienze, che le ore più terribili per tutto quello che i diavoli possono a’ nostri danni, sono dalle dodici meridiane alle venti, cioè alle quattro prima dell’ avemmaria. Di che restringono a quel tempo i loro argomenti per salvarsi dal pericolo, stando, mentre che dura , raccolti insieme a pregare e recitare ogni famiglia il Rosario della Santissima Croce, che è la preghiera più potente in tali bisogne. È questa. Una donna, come Sacerdotessa, che amministra la cerimonia, intuona e fa dire mille volte alla brigata la seguente orazione: Jèsu, Jèsu, ìèsu, Quanto è beddu lu nomu di Jèsu ; (i) Piaggia, Memorie della città di Milazzo, pag. 285. Palermo, 1846. i56 GIORNALE LIGUSTICO cioè : Gesù, Gesù, Gesù, Quanto è bello il nome ili Gesù. Ad ogni dieci volte che Γ orazione è ripetuta, la Sacerdotessa, che porta nel grembiale cento fave numerate, ne pone una da parte. E finisce così : Sutta un arvulu di aulivetu ci sta un fausu nimicu. Fausu nimicu vattinni ddà , Gesù Cristu vattiatu m’ ha ; che vale : Sotto un albero d’olivo ci sta un falso nemico. Falso nemico, vattene lontano , Gesù Cristo mi ha baMenato. Parimente nelle campagne si tengono chiuse le finestre e le porte delle case, ma scoperchiate le giare (ciò sono grandi vasi di terra cotta per serbarvi l’acqua all’aperto), se forse qualche diavolo abbattendosi là avesse sete ; o sopra la giara coperchiata pongono allo stesso servigio boccale o pentola piena d’ acqua. E quello che i diavoli non fanno, in Raffadali fanno le Streghe , loro aiutanti e ministre. Da tutto questo, e dal molto maggiore che io non so o andò perduto , si dedusse da lontani tempi il proverbio volgare: Megghiu essiri sutta terra, oca agghiurnari la prima di Maju. In italiano : Meglio essere sotto terra che veder giorno il primo di Maggio. Proverbio che giunse creduto e sentito amaramente insino a noi. Questo immane terrore di moltitudini intere, poiché le idee affini chiamansi fra loro, mi rammenta i Lemuri romani. Eglino varcavano lo Stige alla notte e lo rivarcavano all’alba; dove i diavoli siciliani fanno maggiormente provare la loro comparsa nel mondo nostro dalla mezzanotte, quando il primo di Maggio incomincia, fino a quasi tutta la giornata. GIORNALE LIGUSTICO IS? Donde i Lemuri chiamati notturni costantemente , notturne le feste loro (nocturna Lemuria'), notturne le imprese, e quelle più fiere operate col concorso delle Furie figlie della Notte: Nocturnus occurram furor (1). Diversamente le opere de’ Diavoli siciliani notturne e diurne ed assiduo lo spavento, da fare invidiare i sepolti. Que’ Diavoli pigliano a martoriare le fantasie siciliane nel giubileo del primo di Maggio; ed il 9 Maggio incominciavano le feste espiatorie consacrate a’ Lemuri. In queste, che come tutte le cose di loro avevano luogo nelle tenebre, i pietosi gittavansi dopo le spalle fave nere, credendo che le ombre inosservate lor venissero dietro a raccattarle e mangiarsele ; più anticamente offrivano loro altresì pane inzuppato nel vino pretto (2). E in Terranova di Caltanisetta troviamo che la donna regolatrice dello scongiuro avverso a’ Diavoli, per tener conto delle giaculatorie recitate adopera, come i Cattolici per le avemarie la sacra corona del Rosario della Vergine, certo numero di fave che ella tiene in grembo ; direi, se potessi, antica reminiscenza di ben altro rito, di cui oggi quelle fave mistiche o mitiche non sono che il segno divenuto incompreso; e reminiscenza dello stesso rito le fave e gli altri legumi che nella Liguria e nel Piemonte si dispensano a poveri il dì de’ Morti in lor suffragio, dacché i nostri morti non appatiscono che preghiere (3). Troviamo ancora nelle ville di Terranova posti alla campagna vasi, non colmi di vino, .... Non avidos Styx habet ima Deos, (1) Orat., Epod. od. V. Epist. II, 2. (2) Ovid., Fast. II, V. (3) De Gubernatis, Usi Funebri, pag. 100. Milano, 1878. i5S GIORNALE LIGUSTICO ma d’acqua, per dissetare i Diavoli che passassero; pietà che verso Spiriti da Dio maledetti dovrebbe esser morta, e non si potrebbe spiegare se non che in età fresca tuttavia delle credenze pagane essi fossero reputati anime di trapassati separate dal corpo, come si stimavano i Lemuri (i). Le feste de’ Lemuri od i Lemurj, incominciati il 9 Maggio, occupavano tre giorni discontinui, 9, 11, 13: Sed tamen haec tria sunt sub eodem tempore festa Inter se nullo continuata die (2). In quello spazio chiusi i templi, non incenso nè fuoco sulle are, tutto silenzio lugubre , come ne' giorni ferali (3). La vedovella o la vergine aspettassero giorni più puri per le nozze; chè la facella d’imeneo non conveniva con quelle de’ sepolcri (4). Del quale ammaestramento 0 consiglio il volgo s’impadronì; lo allargò a tutto il mese; ed alla sposa che offendesse con matrimonio intempestivo la Religione dei Morti, impose, come Dio, pena la brevità della vita, spacciando che donna sposata quel mese non diuturna fuit (5). Già i notturni Lemuri, i Mani ed i regni sotterranei erano diventati materia di riso, e fra le ruine delle vecchie credenze già trionfava eterno il nuovo ordine promesso, salvatore del mondo (6). Non pertanto, caduti i Lemuri e mancata ogni ragione di essere all’antico dettato, poiché essi non caddero affatto dalle menti volgari, anco la sentenza crudele contro (1) Ovid., Fast. V. Apuleii, De Deo Socratis. (2) Ovid., loc. cit. (3) Id. IL (4) Id. loc. cit. (5) Id. loc. cit. (6) Orat. , Epist. II, 2. Lucil. , Fragni. Satyr. Lib. XX. Juven. , Lib. I, sat. II. GIORNALE LIGUSTICO T59 le nozze del Maggio rimase. Anzi nel trapassare dall’un luogo all’altro si afforzò, principalmente in Sicilia, dove fu rinnovata in veste siciliana: Spusa majulina non si godi la cartina; lo stesso che Sposa maggiolina non si godrà a lungo il letto geniale, fasciato all’intorno dalla cortina; morrà presto. Ed in tutta la Sicilia, a canto de’ Diavoli, se non de’ Lemuri, nella Sicilia tanto ingegnosa e generosa, questa sentenza vive sempre osservata e sicura come nella patria prima. In altri paesi essa ebbe sèguito ma variata di forma, pur sempre maligna; quale fra i contadini della Romagna, dove se agli sposi di Maggio non si tronca la vita , si predice la perdita del senno, più amara che morte (i). E l’errore dagli stessi contadini si spande sulle bestie, non allevando eglino sotto l’influenza calunniata del Maggio vitelli nè agnelli perchè impazzirebbero anch’ essi (2). Finalmente in più luoghi la sposa maggiolina si lascia vivere del corpo e del senno , ma se ne ferisce il pudore con frecce intinte nel fango ; tanto che non tutte le fanciulle, e massimamente le campagnuole liguri, ardiscono affrontarle, a causa degli amori troppo clamorosi di certi animali in questo mese; onde esso già salutato universalmente Mese de’ fiori e de’ dolci pensieri, di sopraggiunta agli altri obbrobi, venne a nominarsi Mese degli Asini, e per le unioni matrimoniali diventò ridicolo. Giulio Rezasco. (1) Placucci, Op. cit. tit. X, cap. Vili. (2) Id. Op. cit. tit. X, cap. XIII. ι6ο GIORNALE LIGUSTICO VARIETÀ IL DUCA DI MANTOVA A SAN PIER D’ARENA. Correva l’anno 1607 e ^ duca Vincenzo sui primi di maggio si era condotto a diporto sul lago di Garda, donde si restituì a Mantova « molto risentito del dolore al ginocchio » ; il che però non gli impedì di andarsene nel giugno successivo a cacciare in marina sul ferrarese alle Casette. A fine di curare più efficacemente i dolori e le enfiaggioni alla gamba, triste retaggio di vecchio e pervicace mal venereo, aveva in animo di recarsi alle acque di Spà in Fiandra, ma ne smise poi il pensiero, indottovi anche da « la sopravenienza di alcuni gravi affari », e deliberò di farsi portare l’acqua a Mantova, « con proposito che » gli dovesse « tornare il medesimo a prenderle » quivi « con maggior comodo et con minor spesa »(1). Cionondimeno o non risentisse dalla cura il vantaggio che sperava, o seguisse in ciò l’animo suo desideroso di spasso, oppure il consiglio de’ medici, fatto è che fece risoluzione di venirsene a San Pier d’ Arena a fine di prendere i bagni di mare. Parti dunque con numeroso seguito al cadere di giugno, e dopo essersi trattenuto alcuni giorni a Casale proseguì la sua via e giunse il 6 luglio a San Pier D Arena ospitato nel palazzo Grimaldi, oggi Scasso, opera non indegna dell’Alessi, di che il segretario Annibaie Iberti dava notizia al Principe due giorni dopo in questa guisa: « Gionse S. A. qui venerdì sera con ottima salute, Dio lodato, ma con una pioggia così importuna che ci bagnò tutti ben bene. Fu incontrata 1 A. S. dalla (1) Fonti: Arch. Gonzaga, documenti forniti dal ch. Stefano Dovani. Arch. di Genova, Cerimoniali, ras. I, 323. — Chiabrera. Lett. a B. Castello, Genova 1837, pag. 192, GIORNALE LIGUSTICO I 6 I maggior parte di questa nobiltà sino a Pontedesmo, otto miglia di qua, ed il resto venne hieri a complire, non essendo restato pur uno che non habbia mostrato segni de straordinaria allegrezza, per questa venuta e per la domestichezza con che S. A. è entrata a trattar con tutti all’ uso di queste conversationi. Il S.r Cardinale Doria stette hieri un pezzo con 1’A. S., et al primo ingresso han contratto un’amicitia cosi famigliare come se fossero molti anni che si conoscessero, ma questa dolcezza è cagionata apunto dal domestico tratto della villa. Il Senato col duce ancor non è venuto nè ha mandato a visitar S. A., se ben ha procurato per mezzo del S.r Geronimo Serra marchese di Streve di saper quello che sarà di più gusto dell’ A. S , pretendendo di non metterla in soggetione di visite se non quando parerà a lei, e cosi gli ha fatto sapere S. A. che havrà a caro si sospendano questi complimenti sin alla partita per poter godere di questa libertà senz obbligo d andar alla città per tal occasione. Il trattenimento di S. A. in quésto principio è dopo il desinare a pi-chetto per due o tre hore, et la sera si gode la riviera dove han cominciato a concorrere molte dame per vedere et per essere vedute, sebben ancor non si e venuto a stringer conversatione con loro, il che non passarà però d’hoggi con l’occasione d’una festa e sagra che si fa a Sestri, dove andarà la maggior parte di questa nobiltà e S. A. ancora con le galere della repubblica che sono a carico del S.r Francesco Marini, il quale intendo che apparecchia una splendidissima collatione. Altro gioco non si farà che pichetto o primiera, essendosi dato bando al resto per poter godere con più quiete , d animo la dolcezza di questo modo di villeggiare. È però in guadagno S. A. di mille scudi d’oro del primo giorno che si provò la mano a los buettos, ma dipoi ha mutato come ho detto forma di gioco ». Il luogo, che prima di trasformarsi in città industre e ma- Gio»*. Ligustico. Anno XIII. IÓ2 GIORNALE LIGUSTICO nifatturiera, era sontuoso albergo di patrizi genovesi i quali v’ aveano erette splendide dimore, la stagione, e la singolare opportunità d’accogliere un principe amante dei passatempi e della vita gioiosa, consigliavano a trascorrere i giorni quanto più si poteva lieti e contenti. Onde, pur pensando qualche volta la mattina ai « negotii del Monferrato et qualche altri delle Corti » , il duca passava il suo tempo « in bonissima conversatione di Cavalieri e Dame », alternando « comedie », e « musica alla spiaggia e banchettini privati, ma lauti alla fontana Pavese con intervento di belle ninfe » , dove Carlo Rossi, famigliare del duca, generale e poeta a tempo perso , componeva versi « come innamorato », e s’innamorava « come portoghese »; mentre il celebre cantante Francesco Rasi dilettava col canto, e faceva « miracoli » , specie ricercando luoghi dove « echo » potesse rispondergli « naturalmente ». In somma tutto era « gusto e delitia ». Un « solennissimo banchetto » fu dato dal Cardinal Doria nel « suo· delitioso palaggio di Pegi ; dopo pranzo si « giocò una primiera in quarto con tanta grandezza d’animo » da parte del Doria, « e sprezzatura del denaro che in poco tempo vi lasciò 1700 scudi d’oro, la metà dei quali toccavano » al duca. Pochi giorni dopo Nicolò Pallavicini appresto un « festino di dame » pienamente riuscito. La salute del duca risentiva intanto assai vantaggio dai bagni, quantunque il malore delle gambe si mostrasse restio ad ogni ragione di cura, e gli si fosse « scoperta qualche arenella », che non fu « cosa di rilievo ». Ma in mezzo a quel vivere lieto avrebbe pur desiderato, se crediamo a’ cortigiani, la compagnia della moglie, ed è curioso il vedere come riberti s’affrettasse a render conto alla duchessa di un brindisi in sua lode detto in pubblico dal duca; ecco le sue parole: « Forza di verità e di divoto affetto mi fan dir a V. A. che oggi con Γ occasione di un brindisi fatto dal GIORNALE LIGUSTICO Sig. Duca mio signore per la buona salute dell’ A. V., ha in buon proposito alla presenza di molti di questi cavalieri che erano convitati, affermato quasi con eccesso d’amore e con un solenne giuramento, che nissuna cosa stima nè desidera più a questo mondo che la vita di V. A., al pari non solo della propria e dei figliuoli, ma della salvatione, per modo di dire, aggiungendo che pregava Dio come Giulio Cavriano di sua moglie con la qual era vissuto in grand’ amore sin all’ età di 76 anni, che non gli lasciasse vedere la morte sua, come successe a quei felici consorti che morirono in un dì senza saper 1 un dall’altro. Non ha bisogno V. A. del testimonio d’un servitore, ma ben son tenuto dirle che maggior affetto non si può mostrare, di quello che in ragionamenti privati e pubblici mostra ben spesso il Sig. Duca verso V. A., a cui mi persuado che non saran discare queste zizanie che semino tra marito e moglie ». Frattanto volgendo al suo fine Γ Agosto deliberò il duca di restituirsi alla patria, desideroso di far seguire alle delizie dei bagni i piaceri della caccia, avendo « sentito con molto gusto » come vi fossero « buone brigate di faggianotti per godere al suo ritorno ». Partì infatti il 24 di quel mese, onorato dalla nobiltà che lo aveva accolto e trattenuto con tanta festa per tutto il tempo delle bagnature; avendo ricevuto altresì la visita di parecchi altri patrizi rimasti in città; quantunque desideroso di starsene a suo agio e in tutta libertà si sottraesse con bel modo a qualsivoglia visita ufficiale. Ma se gli onori ricevuti dai privatigli riuscirono certamente graditi, noi fu meno Torneggio che volle rendergli Gabriele Chiabrera, il quale a questo fine si mosse appositamente da Savona, e fatta « riverenza » al duca se ne tornò « subito a casa », poiché « 1 estremo caldo » non lo « lasciò dimorare fuor delle comodità della patria ». ^ 164 GIORNALE LIGUSTICO Un privilegio a Bernardo Buontalenti. La memoria di questo insigne artista fiorentino è rimasta viva e celebrata nelle istorie, tante e così molteplici furono le opere, ond’ebbe a testimoniare il suo valore. Ingegno vario e multiforme potrebbe dirsi che, in certa guisa, si trasfuse in lui nel fatto dell’ arte 1’ animo del gran Buonarroti ; anch’egli pittore, scultore, architetto; ingegnere civile e militare ; inventore ed operatore d’istrumenti e di macchine vuoi a pubblica utilità, siccome per divertimenti e spettacoli diversi. Ed a ragione le lodi ed i meriti suoi toccati, lui vivo dal Vasari e dal Borghini (1) , vennero appresso la sua morte ampiamente discorsi ■ dal Baldinucci; il quale gli da \anto, fra le altre cose, d’ essere riuscito « maraviglioso in trovare instrumenti da muovere, ed alzar pesi, far salir acque » (2), di che mi occorre una testimonianza nella domanda da lui fatta l’anno 1578 alla Repubblica di Genova, a fine di ottenere privilegio per alcune sue nuove invenzioni (3). Eccone il tenore : Ill.mi et Ecc.mi Sig.n Bernardo Buontalenti cittadin fiorentino Pittore et Architetto del Serenissimo Gran Duca di Toscana, humilissimo Ser.re di λ.' S. Ill.mc ha trovato, per gratia di Dio, con 1’ arte et industria sua, una nuo\a et utilissima invenzione all’ uso humano d’instrumenti da ser\ irsene a mulini e a qual si voglia sorte di edifitii ad acqua et senza, che si muovon con tanta facilità, et con si poca spesa, che metterà conto a levar quasi tutti gli altri fatti da gli uomini infino a qui, et servirsi de questi. De quali havendo non solo fatto i disegni, et modegli, ma per accertarsene interamente fattone ancora ultimamente la pruova reale in tre instrumenti grandi et opere perfette, et macinato con essi il grano , et tirato in alto (1) Vasari, Vite ecc. (ed. Le Monnier), XIII, 178. — Borghini, II Riposo, Firenze, Marescotti, 1584, p. 609. (2) Baldinucci, Notìzie dei prof. d. dis. ecc. Firenze 1688, p. 91 · (3) R. Archivio di Genova, Senato, Fil. 213. GIORNALE LIGUSTICO 165 l'acqua morta da terra, di maniera che non ci resta più alcun dubio. Però non volendo più tenere occulta cosi rara et utile inventione, anzi per commodo et beneficio de gli huomini communicarla a ogn’ uno che se ne vorrà servire, è venuto alle S.ie V.« IU.ne supplicandole humilmente che gli voglino concedere gratia et privilegio, a lui, et a’ suoi legitimi heredi, et singulari successori per trenta anni, che per tutti gli Stati di mare et di terra di V.e S.rie Ill.me nessuno di qual si voglia stato, grado o conditione, salvo che decto Bernardo et suoi legitimi heredi, et singulari successori, possa fare, o far fare, nè usare detti suoi instrumenti trovati da lui, nè servirsene non solo in tutto, ma nè di alcuna parte di essi, nè applicargli in qual si voglia altri instrumenti da cavare o alzar acqua in mulini, fabriche e edifitii o altri movimenti di ruote, senza espressa licenza in scritto di detto Bernardo o da chi havesse autorità da lui, 0 mancando, dalli suoi legitimi heredi. Et chi contrafacesse perda gli instrumenti fatti senza licenza, et inoltre caschi in pena di cento ducati d’ oro di camera da applicarsi la terza parte all' accusatore, 1’ altra al detto Bernardo o suoi successori, et la terza al comune di Genova. P.° si offera di fare su 1’ acqua sia corrente o morta, di palude, pozzo o mare, mulino da macinar grano, o altro, che muoveranno con tanta, facilità et poca spesa come si sia mai fatto in alcuno instrumento infino a qui. 2. Metterà in opera un altro mulino a secco per macinar grano, facile a fare, a muoversi et a mantenersi, il qual mulino è differente da tutti gli altri che si sono fatti fino a hoggi. Oltre che è di maniera, che si può applicare facilmeute a ogni sorta di edifitii. Et la spesa di questo mulino non arriva alla somma di cento scudi. 3. Promette di fare uno instrumento da alzar 1’ acqua dal suo piano cento o 200 passi sia corrente o morta, cosa reale et semplice, che non ha bisogno di canne, trombe, nè animelle, nè dell’aiuto del maestro a tutte 1’ hore come gli altri instrumenti, ma opera da se stesso alzando continuamente gran quantità d’ acqua, il quale instrumento si può fare di legno e tutto senza alcuni ferramenti, et volendo sia eterno si può fare ancora di rame. Questi tre instrumenti sopradetti si sono messi in opera perfetta qui in Fiorenza, cioè in forma gtande come hanno da essere, et macinato con essi il grano, et fatto salire in alto l’acqua morta in gran quantità, si come ha visto il Serenissimo Gran Duca di Toscana, et l’IlLmo S. Mario Sforza Conte di Santafiora. Onde visto questa sperienza et consi- GIORNALE LIGUSTICO derato il gran benefitio che gli huomini posson cavar da questi mara-vigliosi instrumenti, il Prefato Serenissimo Gran Duca ha concesso Privilegio al detto Bernardo che per 30 anni nessuno possa usare detti instrumenti nelli stati suoi di Toscana senza licenza di quello, sì come per l’alligato stesso privilegio si vede. Per il che il medesimo Bernardo su-plica humilmente le Signorie \’ostre Illustrissime a volergli confermare questo Privilegio per gli Stati loro di mare et di terra, sì come spera che habbino da fare acciò che i popoli loro possino quanto prima godere di questo singular benefitio: promettendo inoltre in termine di mesi sei di farne veder 1’ opera nelli stati di V. S. Ill.ms dal di che li sarà concesso il privilegio da loro. Le quali prega Dio che felicissime conservi. Il privilegio del Granduca, al quale accenna il Buontalenti, consiste in una domanda consimile alla riferita, sotto alla quale si leggono queste parole : « S. Alt. è contenta però si concede come di sopra. Gio. b.a Con. 8 Lug. ’78 ». Ma il governo della Repubblica, secondo il suo costume, emanò un apposito decreto, che è il seguente : Dux et Gubernatores Reipublicae Genuensis Visa et coram nobis lecta supplicatione porrecta nomine et prò parte Bernardi Buontalenti Civis fiorentini tenoris infrascripti (Qui cade il testo della domanda). Ipsaque eadem supplicatione diligenter considerata et habita relatione III. DD. Thobiae Pallavicini et Francisci Lercarii colleg. nostr. quibus huiusmodi negocium examinandum demandatum fuit, et re pro eius qualitate satis discussa et considerata, et sub calculorum judicio deducta, harum nostrarum tenore omni meliori modo concedimus et largimur dicto Bernardo Buontalenti eiusque legitimis heredibus, et singularibus successoribus Privilegium petitum et de quo in preinserta supplicatione fit mentio quantum sit pro annis quindecim tantum, quibus durantibus nulli hominum cuiusvis status gradus aut conditionis existât liceat nec licitum sit eo instrumento uti nec conficere aut conficiendum curare, nec in toto nec in aliqua eius parte ad formam et in omnibus iuxta supplicata, sine expressa licentia in scriptis dicti Bernardi seu eius legitimorum heredum vel successorum singularium. Si quis autem contra-fecerit, non solum instrumentum seu instrumenta ipsa amittet, sed etiam Ducatos Centum auri poene nomine persolvet toties quoties contrafecerit, GIORNALE LIGUSTICO quam poenam ex nunc pro ut ex tunc applicamus et applicata esse volumus ad formam supplicationis superius insertae. Bernardum vero ipsum teneri volumus ad conficiendum instrumentum praedictum illudque in actum ponendum intra menses octo proxime venturos, aliter hoc nostrum privilegium evanescat et pro infecto habeatur. Nolumus autem per pre-sentem concessionem prejudicium afferre aliis quibusvis quibus hactenus privilegium aliquod concessum sit. In quorum fide has nostras fieri et sigillo nostro obsignari mandamus. Datae in nostro Ducali palatio die xxvij augusti mdIxxviij. Se il Buontalenti abbia messo mai in opera nel dominio della Repubblica, entro il tempo prescritto, questi suoi nuovi ingegnosi trovati io non so, ben rilevo la ragione per cui il governo faceva le riserve in ordine a consimili privilegi già prima ad altri concessi; poiché veramente alcuni se ne riscontrano negli anni antecedenti a benefìcio di chi appunto si proponeva introdurre una nuova invenzione di mulini; quello in ispecie dato e confermato poi a favore di Antonio Roccatagliata, scrittore, tipografo, editore, mercadante e cancelliere, per molte ragioni benemerito della sua patria. A. N. Data di fondazione della chiesa di S. Agostino. È noto che ai romitani di S. Tecla del Bisagno non riuscì agevole lo stabilirsi entro il circuito murale di Genova. Le monache clarisse di S. Caterina di Luccoli ottennero nel I255> da papa Alessandro IV, di farli sloggiare da certe case dei Fornari, poste in quella contrada ; e fu solamente del 1260 che essi, venendo a patti col rettore della chiesa di S. Salvatore in Sarzano, poterono ivi presso gettare le fondamenta dell’ insigne loro tempio e dell’annesso convento. La data ci è conservata da un inventaro della sagrestia di S. Salvatore, compilato Γ8 luglio 1477 dal notaro Andrea de 168 GIORNALE LIGUSTICO Cario, ed allegato originalmente da Nicolò Perasso nelle sue Chiese di Genova (i). Imperocché il citato inventario, fra più altre cose, registra : Item quoddam privilegium in carta antiqua mentionem faciens de constructione et primario lapide impositione (sic) ecclesie et monasterii fratrum heremitarum lamie, sine pre-iuditio parrochialii ecclesie; videlicet transumtum factum de mandato domini Gualterii archiepiscopi ianuensis, ad instantiam presbiteri En-rici ministri ecclesie predicte sancti Salvatoris de lamia MCCLXIII die XXIII aprilis, de dicto privilegio seu instrumemto facto anno dominice nativitatis MCCLX die III ianuarii. Non sembrerebbe però che l’opera progredisse sollecita ne’ suoi principi, qualora dovessimo stare alla lettera di queste espressioni, che si leggono in un rogito del 22 febbraio 1264, laddove si ta un legato di denaro, fratribus sancte Tede, e si vuole che expendatur in opere constructionis ecclesie quam de novo intendunt construere (2). L. T. B. Lettere di Andrea e di Antonio D’ Oria Allorquando sul mezzo del 1542 il re di Francia dava 0-pera a grandi apprestamenti per combattere il possente rivale, scosso più che sgominato dall’infelice riuscita dell’impresa d’Algeri, Andrea D’Oria ritrattosi in patria a riposo de’ disagi e a rimettere in assetto lo scomposto naviglio, non cessava dallo scrutare diligentemte le mosse del nemico. Onde non appena s’accorse che alcune galere francesi a-vevano attraversato veloci il mare ligustico, veleggiando verso (1) Vol. I, 279 ; ms. dell’Arch. di Stato in Torino. (2) Genova — Arch. Not. di Stato. Pandette Richeriane, fogliazzo 11, f. 13, c. 3. GIORNALE LIGUSTICO 169 il levante, s’affrettò a renderne consapevole Ferrante Gonzaga (1): 111.»10 Ss* Per due altre mie bavera inteso V. S. Ill.ma P andata delle galere francese in levante, et poi che si è chiarito non siano salvo tre quelle che son partite, et che dall’ altro canto si vedde li apparati di guerra che vano multipliando, si come V. S. Ill.ma sarà stata avisata di tutto dal S.r Marchese del Vasto, non si può giudicar siano andate per altro salvo per solicitar la venuta dell’armata del Turco a danni di S. M.li, et per certificarlo che dal canto loro già stano ad ordine, et rotta la guerra conforme a quello che tra epsi si ha da credere fosse prima concertato, la qual cosa son stato fin qui di oppinione non dovesse haver effetto, cioè che stante il contrapeso delle gagliarde provisione fatte in Allemagna per Ungaria, il Turco potesse cossi facilmente soccorrer li francesi et abandonar le cose proprie per quelle d’ altri, et per conseguente non mi pareva tampoco ragionevole che francesi senza tal ajuto dovessero lor soli rompere la guerra a S. M.tA , havendo già conosciuto per molte esperientie che sul fine ne riportano vergogna et danno. Però li mottivi che se ne vedono in contrario (non obstante tutte queste ragione) mi fano ben restar maravigliato , ma non già perder la speranza del sucesso (come ho detto). Perchè se non vengano più Galere Turclie-sche di quelle che avisa Don Diego di Mendoza, come ragionevolmente si ha da pensare per li respetti sopradetti, non mi pare che bastino a dar tanto travaglio che le forze di S. M.li non siano sufficiente per resistere a loro per mare, che almanco non potranno interprendere cosa di momento, et alli francesi per terra con le provisione che si anderanno crescendo, oltra li presidij che già tiene il Sig. Marchese dii Vasto ni li lochi più importanti del Piemonte, e li quali mi persuado non debiano cussi facilmente poter expugnare. Hora fratanto che S. M.li sarà avisata di tutto et che potrà comandar et proveder a quello che più giudicarà convenir al suo servitio, ho scritto al S.r vicere di Napoli che se non ha inviate quelle Galere in Messina (si come penso haverà già fatto), le facci expedir subito acciò che insieme con quelle di Sicilia et della religione possono occorrer et reparar in tempo alli danni et insulti dell’ armata Turchesca, la quale se per sorte passasse di qua dal farro per venir in (1) Questa e le lettere seguenti esistono nella Rib. Naz. di Firenze, Collez· Gonnelìi, Carte Gonzaga. 170 GIORNALE LIGUSTICO questi mari, potrieno seguitarla et come più expedite et agile causarli sempre alcuna interditione et forsi anche danno. E di più ho avisato S. S.ria ancora che in tal caso daria gran favor a tutte le cose di S. M.tà in queste bande et timore alli inimici, voltando parte di quelle fanterie del Regno alla volta di Toscana, con ordine procedessero poi più oltra secondo che di là si vedesse mancare il sospetto della detta Armata, et farsi di qua il bisogno maggiore, che a questo modo con una medesma spesa si suplirià a due effetti. Et perchè con l’antecedente scrissi a V. S. 111.”' saria stato bene usar diligentia per prevenir le dette tre Galere francese ad alcun passo, hora come cosa più longa et incerta, parmi sia manco male obmetterlo ed attendere al reparro delle cose di quel Regno, et passando di qua la detta Armata che V. S. 111.”* fosse contenta lei medesma per servitio di S. Μ.*ά, et perchè lo saprà far meglio de tutti, seguitarla con quelle Galere le quale potria renforzar delle infanterie che tiene, et fra tanto attendere ad expedirme dell’ armamento delle sei , che si fano fare in Barcelona, senza le quale non posso partirme, et per questo effetto mi ha bisognato mandar le altre Galere a Napoli, che altramente a quest’ hora mi sarei partito per venire a servire (come desidero) a V. S. IH.“a alla quale basando le mani prego n. s. concedi la salute et prosperità che desidera. Da Genova alli ij di Giugno MDxlij. Di V. S. 111.™· Servitor Andrea Doria. Il viaggio delle galere francesi era una conseguenza degli accordi fermati, per mezzo del Polin, da re Francesco con il Turco; ma questi, secondo ben giudicava il D’Oria, non mostrava soverchia premura d’ « abbandonare le cose proprie per quelle d’altri», nè come ognuno sa, s’indusse a far muovere la sua armata, se non quando gli parve dover essere sicuro delle cose d’ Ungheria, e vide condotto il re di Francia tanto innanzi nell’impresa da non potersene più ritrarre in alcun modo. I consigli di Andrea in questa opportunità erano assai utili e quali richiedeva la condizione delle cose, ma per allora non ci fu bisogno di mandarli ad effetto. Ben importava sollecitare l’armamento di quelle ga- GIORNALE LIGUSTICO I7I lere che s’andavano mettendo in ordine a Barcellona, delle quali e per Γ impresa di Perpignano, e poi per quella di Nizza si chiari il bisogno e l’efficacia (r). * * # La seconda lettera è una commendatizia pur diretta al Gonzaga in favore di Stefano DOria, signore di Dolceacqua, parente d’Andrea, che ebbe parte alla impresa di Montobbio dopo la congiura del Fieschi : ///.«» et Ecc.m° S.rc Per la servitu qual ho con V. S. Ill.ma, mi è parso prender questa si-curità con quella, de intratener qui, come ho fatto, Stefano Doria mio parente questi pocchi mesi, et massime nella occasione et impresa di Montoio, persuadendomi confidentemente che V. S. Ill.m* ne debba restar non manco satisfatta, come se fusse di continuo stato appresso della persona sua medesma, essendo pur tutto servicio dell’ Imperatore N. S.r- A-desso fa ritorno da quella per basciargli principalmente le mani, et in appresso suplicarla che del credito che ha con quella Cesarea camera, come da lui intenderà a bocca, resti servita porgerli del suo caldo ajuto acciò che ne habbi a restar satisfatto, che cossi prego V. S. 111.™* quanto più posso si degni haverlo per molto raccomandato et favorirlo in questa tanto honesta petitione, poi che non si domanda salvo cosa ragionevole et degna d’ esser aiutata, che di tutto ne receverò io particolarmente singoiar gratia di V. S. 111.™*, la quale volendosi poi anche servire del detto Stefano per servicio di S. M.'% mi sarà tanto più caro quanto che son certo la si troverà in ogni conto un affett.™° et fidel servitore, come li effetti soi ne farano maggior fede et testimonio di quello chio saprei dir a V. S. Ill.ma, alla quale basando le mani prego N. S. li concedi la salute et prosperità che desidera. Genova li xxiij di Giugno 1547. V. S. mi farà singulare gratia averlo ricomandato come el sinzero bon servitor et he persona chi merita per sue bone conditione. (1) Cfr. De Leva, Storia doc. di Carlo V, Venezia 1867, III, cap. VII e Vili — Capelloni Vita di A. Doria, Genova 1867, pag. 108 e segg. — Zeller, La diplomatie française vers le milieu du XVI siècle, Paris, 1881, pag. 286 e segg. GIORNALE LIGUSTICO Stefano, uomo assai reputato, militava al servizio imperiale, sotto gli ordini di Ferrante Gonzaga; e non andò molto che Andrea stesso nuovamente richiedeva gli fosse concesso di tornare a Genova « almanco per un mese con qualche pochi fanti », a fine di prestargli valida guarentigia nelle mutazioni eh’ ei disegnava alla costituzione della Repubblica (i). Questa lettera non ha firma, ma le ultime righe a guisa di proscritto, sono autografe. * * * Appartiene finalmente la terza ad Antonio D’Oria capitano e scrittore : 111."'° et Ecc. S.r mio Oss.’"° Per una altra mia avisai V. Ecc.a de 1’ arrivata nostra da qua e come havea data la sua litera al S.r V. R. e parlatoli da sua parte quanto V. Ecc.za mi comandò, il quale trovai molto ben disposto a servir V. Ecc.za in ogni occasione, e desiderozo de restringere e confirmare sempre più l’amicitia con V. Ecc.za> e a benché io sapi nulla intermision mia esservi bisogno, pure come quel servo che sono de V. Ecc.za e desiderozo che tutto il mondo ce lo sia similmente per giornata, dove accaderà mi opererò per che se conservino con bona amicitia insieme, parendomi questo essere servizio di S. M.li e uttille de ambi doi. De le cose di qua V. Ecc.za ne è da ogn’ hora raguagliata a pieno per che io non me intermeterò a dirgliene alchuna cosa; queste galere e le Ciciliane credo non haveremo licentia de partirsi che queste cose non restino ben quiete, in tanto Dragut va in volta; per ciò che scrive il S.r ferrante de lo fredo da lechie si era congiùnto con Sala rais Cap.° de la guardia de lo arcipelago et altri corsari da lepanto, e la vellona, et erano in tutti trentasei vasselli et haveano sbarcati al capo de Otranto mille turchi e asaltato un casale murato, il quale non haveano potuto prendere e si ritirorno con poco danno de quelli di dentro e morte de alchuni turchi. — Questo avizo è contrario de ciò che mi scrivono da paiermo che in questo medesimo tempo il detto Dragut lussi a la licata con (i) Cfr. Docum. ispano-genovesi dell’ Arch. di Simancas in Atti Soc. Lig. St. Pat., Vili, 182. — Rossi, Storia di Dolceacqua, Oneglia 1862, pag. 125. e segg. GIORNALE LIGUSTICO *73 vinti doi vasselli: noi siamo qui con ventitré galere de S. M.ta e sonno doi dì che vi erano le quattro de rodo, e tutte insieme sariamo bastevole ad andare sicuramente ad incontrare il numero che scrive il de lo fredo, ma non possiando fare altrimenti per il magior servitio de S. M.,a bisogna havere pacientia; altro non ho per hora che avizare V. Ecc.za se non suplicarla che mi tenghi in sua bona grazia e basinrli reverentemente le mani e cossi le de mia S.ra la principessa. De napoli a di vmj de Giulio 1547. Havendo scritta la presente sono state litere del S. fabritio pignatello chi aviza come il Dragut co xxviij vasselli era comparso in lo Gorfo de taranto, et havendo poste le Gente in terra le mandò a prendere uno loco dove esso si trovava lontano sei miglia da la marina, le quale vi arrivorno tanto a P imprevista che a pena esso si potè retirar in uno Castello con parte della gente del loco, il quale fu depredato da detti turchi, li quali ritirandosi carichi de preda e de prigioni, e considerando il detto S.r Fabritio posserli danificare ad un passo dove haveano da pa-sare, vi andò con circa trenta homini, e asaltandoli impediti e dizordinati ne hano morto da circa sessanta, feritene molti altri, levato loro tutta la preda de li prigioni e robe, e fatto loro lassare a quasi tutti le armi- si sono salvati fugendo, esso è rimasto ferito de doi ferite, benché spera non sarano mortale, de dove si vede che quando è lor mostro la faccia non sono tanto inviti come molti la tengono, di V. Extia afecionat.”10 Ser.rc che li basa le mani Antonio Doria. Si trovava Antonio in Genova quando avvenne la congiura fieschina, e forse egli stesso ne doveva esser vittima, se dob-biam credere che i sicari partiti da Napoli per ucciderlo, ne avessero avuto P ordine da Gian Luigi. Doveva nell’ aprile recarsi a Napoli a fine di condurre a Genova sopra una galera di Andrea buona mano di soldati, dando voce nell’ imbarcarli d’andare in cerca di Dragut; ma per allora non si mosse stando per maritare una sua figliuola. Nè sembra mettesse ad effetto il disegno, come pareva deciso da prima, dopo la Pasqua, poiché gli venne proposto di prendersi il !74 GIORNALE LIGUSTICO carico della impresa di Montobbio, alla quale pur allora sì attendeva, ed egli se ne scusò dicendo come glielo impedisse il trovarsi a’ servigi dell’ Imperatore. Ben corse più tardi a Napoli per ordine di Ferrante con gran numero di spagnuoli, allorquando avvennero le gravi turbolenze mosse dal tentativo del viceré don Pietro di Toledo, d’introdurre in quella città l’inquisizione spagnuola. A questo tempo si riferisce la lettera, con la quale rendeva conto al Gonzaga della commissione affidatagli, e delle scorrerie eh’ andavano facendo i turchi in quei mari (i). A. N. SPIGOLATURE E NOTIZIE Anticaglie Lunensi — L’ispettore sig. Paolo Podestà riferì, che demolendosi un vecchio muro in una villa del marchese Giacomo Gropallo, situata nell’ estremità sud-est del circuito interno dell’antica Luni, si rinvenne un’ epigrafe latina scolpita su lastra marmorea, la quale era stata adoperata come materiale di costruzione. La lapide misura m. o, 26 X 0,27 X o, 07, ed appartiene alla gente Tettici, ricordata in altre epigrafi lunensi (cfr. Promis, Antichità di Luni n. 3, 36, 41). î T E T T I O ') E Μ O S THE NI YIC · DECVRIONES }LONIQ-LVNENSES NOREM · AVGVSTA ATVITVM · PRIMVM jEDERVNT * * * Lo stesso chiar.mo cav. Podestà ha la cortesia di communicarci la notizia di alcune altre scoperte epigrafiche lunensi, da lui inviata alla (1) Cfr. Docum. ispano-genovesi dell’Arch. di Simancas in Atti Soc. Ltg. St. Pat., Vili, 119, 146. — Bonfadio, Annali, Genova 1871, pag. 163. — De Leva, op. cit., IV, 344. GIORNALE LIGUSTICO Ï75 Direzione delle Antichità, e noi rendendo grazie all’egregio uomo siamo ben lieti di farle conoscere ai nostri lettori. « Il sig. Marchese Gropallo mi ha fatto vedere altre due inscrizioni marmoree rinvenute nell’anno decorso in Luni, nella stessa sua villa in cui fu scoperta la Tettio della quale detti notizia). » La più ragguardevole è scolpita sul lato d’ un paralellepipeto le cui dimensioni sono: lunghezza cent. 27, larghezza 18, spessore 13, ed ha per contorno da ogni lato, fuorché dal superiore, una cornice composta di due linee paralelle ; gli angoli del paralellepipeto sono smussati, evidentemente dal martello di tempi barbari per uso muratorio. » Nel centro dell’altro lato, superiormente alla iscrizione, è praticato un foro quadrato del lato di mill. 57 con mill. 18 di profondità, provveduto nel fondo di quindici forellini irregolari e d’ altre scabrosità, destinate certamente a tenervi infitta col piombo una grappa di ferro atta a sostenere un busto marmoreo, al quale serviva di base il paralellepipeto. L’inscrizione scolpita con caratteri di buona forma spetta alla classe delle imperatorie. » Eccone il testo : I CLAVDIO DRVSI F CAESARI AVGVSTO GERMANICO PONTIF MASSIMO » L’ altra, 0 per dir meglio il frammento delle altre due, pare spetti ai tempi cristiani, e probabilmente faceva parte di una gradinata di altare o del cornicione del presbitero della chiesa di S. Marco, che sorgeva in quella località, e della quale anche a giorni nostri restava qualche rudere. t) Il frammento consta di un lastrone massimo di marmo bianco, e misura in lunghezza cent. 35, larghezza cent. 25, spessore cent. 10. » Dal lato superiore è levigato a pulimento, l’inferiore porta una zona , rilevata per mill. 15 sul piano della lastra, larga in tutta la sua lunghezza cent. 7. » Le iscrizioni sono scolpite 1’ una sul lato dello spessore, l’altra sulla zona rilevata. In tal modo, essendo collocato il lastrone colla faccia levigata in alto, si legge di fronte la prima iscrizione, e di basso in alto, o sotto in su, la seconda. » I caratteri son grossolani propri dei tempi della decadenza. N. i. E MARIE N. 2. O STOLIGOAD 176 GIORNALE LIGUSTICO » Queste tre iscrizioni coll’ altra Tettio e le due scoperte a Carrara, precedentemente pure da me pubblicate , sono da aggiungersi al Corpo epigrafico lunese ». * * * Da una relazione dei 27 febbraio 1808 di Giulio Cesare Tassoni, ministro residente in Toscana del Regno Italico, al Testi ministro degli affari esteri a Milano, ricaviamo un breve giudizio intorno a due genovesi professori nella Università di Pisa: « Abate Marcello Del Mare, genovese, professore di Sacra Scrittura, uomo di pochissima riputazione. È autore di una risposta alle Annotazioni Pacifiche, e di un primo tomo di un tal Quadro filosofico del secolo XVIII, competentemente cattivo. Fa adesso il predicatore alle monache. Fu impiegato dal granduca Leopoldo, perchè era addetto al partito Giansensitico, senza avere però i talenti necessari ad un professore. — Abate Vincenzo Palmieri, emerito genovese, uomo di altissimi talenti, di prodigiosa memoria , autore di varie cose stampate nel tempo del Giansenismo , che, se peccavano un poco dal lato del partito, mostravano un grande ingegno. Ha pubblicato vari anni fa un libro intitolato : La Libertà e la Legge, ove ha cercato di mostrare a chi non lo sapeva, quello che in tempi torbidi si fingeva d’ignorare anco da chi n’ era istruito, e che 1 una è 1 appoggio dell altra, O e che 1’ una e Γ altra producono quella eguaglianza di diritti fra i cittadini che il gran Leopoldo aveva stabilito in Toscana » (Cantù, Corrisp. di Diplomatici ecc., I, 604 e seg.). * ♦ * Nell’ asta libraria Franchi e C. di Firenze era messo in vendita il 27 febbraio scorso un cod. cart. in quarto della seconda metà del sec. XVI, di carte 86 col titolo : Sappia Onorio da San Romulo Liguro (sic), Rime, Parte prima. Si rileva da questo ms. che il Sappia , poeta di S. Remo ignoto ai bibliografi ed agli storici letterari liguri, ebbe amicizia con i più distinti letterati dei suoi tempi. Verso la fine c’ è un sonetto a Benedetto Varchi, e la risposta del Varchi che incomincia: Tre speranza e timor mia mente pende. Finisce il cod. con una novella molto libera, della quale il Sappia aveva incominciato la versione in giambi. Il volume apparteneva alla collezione dei Codici dei Principi Carata, duchi di Maddaloni. Come sarebbe stato bene in una delle nostre biblioteche ! GIORNALE LIGUSTICO I77 Fra i libri acquistati sulla fine del 1885 dalla Biblioteca Nazionale di Parigi si annoverano « trente pièces en prose et en vers se rapportant à divers événements du commencement du XVI siècle » gran parte dei quali riguardano l’Italia, e sono rarissimi. Vi troviamo: « Andrelin Fausta — P. Fausti de regia in Genuenses victoria libri tres, in quibus de polytico statu, de regis claementia et in urbem Genuensem ingressu , multa scitu dignissima comperias, praemisso excultissimo Germani de Ganay epigrammate — (A la fin). Ex aedibus Ascensianis, ad nonas julias M.D.IX. (Paris, 1509, in 4.0 de 16 feuillets) ». Il conte Riant che ci è sempre liberale e cortese di notizie e di aiuti, ci promette di procurarcene copia. Per mala ventura all’ esemplare mancano 2 carte della segnatura a, essendovi ripetute le corrispondenti della segnatura b. Noi conoscevamo questo libretto solamente per la citazione che ne reca il Brunet. Vi è ancora il Carmen de expugnatione Genuensi di Valarandus de Varanis, edito a Parigi nel 1507, del quale la nostra Biblioteca Universitaria possiede un bell’ esemplare. Abbiamo tolte queste notizie dal Bulletin mensuel de la Bibliotéque Nationale, alla Partie relative aux livres anciens; utile pubblicazione dimenticata affatto, secondo 1’eccellente concetto della francese, nel nuovo regolamento per le biblioteche italiane, che in compenso contiene parecchie.... amenità. * * * Ë uscita nella Gazzetta Numismatica (Como, 1885, n. 6) una importante e diligente monografia del cav. G. Ruggero intorno ai Danari minuti del Cardinale Paolo Campofregoso. * * * Nella Illustrazione Italiana (1886, n. 13) è comparso il ritratto della Simonetta Cattaneo moglie di Marco Vespucci, nota per le poesie del Poliziano, rilevato dal quadro attribuito al Poliamolo, ma più probabilmente di Piero di Cosimo, esistente nella insigne raccolta del Duca d’Au-male a Parigi. Vi è unito uno scritto illustrativo di A. Neri. A proposito di questa donna ci è occorso testé un epitaffio in morte di lei dettato da Michele Marullo Tiircagnota e che qui riferiamo (.Hymni et Epigrammata, Florentiae, 1497, c. 8 v.): Si Jacbrymis decoranda nonis generosa puella est, Haec una est lacrymis condecoranda nonis. Sin deflere nefas tam rarae funera uitae, Haec eadem siccis una adeunda genis. * * * Giorn. Ligustico. Anno Xll ι?8 GIORNALE LIGUSTICO La signora A. C. Dethick ci manda la seguente nota : « Roccatagliata Sebastiano, fils de Bartolomeo , né à Genova; elevé à l’école de Genova dans sa jeunesse, « et deinde in Aula Archiepiscopali », jusqu’à l’age de 22 ans; plus tard, membre de l’Université de Cambridge (Angleterre); en 1562 il fût âgé, disait-il, de 33 ans ». E noi la riproduciamo perché si tratta di un genovese del quale non abbiamo sortito trovar notizia, e perchè se alcuno de’ nostri lettori ne sapesse qualche cosa voglia essere cortese di communicarcela. * * * Col titolo Barbaricae res il cav. Vittorio Poggi ha pubblicato nell 'Arte e Storia (n. 11-12, 28 marzo) un vivace articolo nel quale giustamente stigmatizza le deturpazioni onde venne guasto poco fa il santuario di N. S. della Misericordia di Savona. Egli ricorda « di passata che il tempio è opera monumentale della prima metà del Cinquecento ; che alla successiva sua ricostruzione fino al compimento avvenuto nei primordi del secolo XVII, presero parte i più distinti architetti e scultori che lavorarono in Liguria nel decorso di quel periodo, Taddeo Carlone di Rovio (Lugano) e suo fratello Giuseppe, Pietro Orsolino, Gio. Battista Orsolino e suo figlio Giovanni, lombardi, Pace Antonio Sormano di Como, ecc ; che Γ interno è istoriato da nobilissimi affreschi di mano di Bernardo Castello amico del Chiabrera , il quale di essi cantava con entusiasmo ed affetto Oggi repente Tutte quelle adornar povere mura Veggo nobii pittura, Parto del tuo pennello , Tutte addolcir le ciglia O mio gentil Castello; che molte e di gran pregio son le opere d’ arte in esso contenute, tele del prelodato Bernardo Castello , del Tintoretto, del Domenichino , di Orazio Bongiovanni, del Paggi, di Girolamo Brusco, ecc.; statue e basso-rilievi, fra i quali basti citare la meravigliosa Visitazione di Lorenzo Bernini che passa a buon diritto pel suo capolavoro, siccome quella che aduna in sè tutti i pregi senza alcuna delle mende caratteristiche di quel grande artista ; cimelii di oreficeria e gioielleria, suppellettili ed arredi esimii per la preziosità della materia e più ancora per la squisitezza del-1’artifìcio ». E dopo aver rilevato come la condizione del luogo armonizzasse stupendamente con le linee dell’edificio, al quale dava certa singolare com- / GIORNALE LIGUSTICO 179 postezza di tono la patina giallognola della facciata , e le piante secolari che ne adornavano il piazzale , deplora che queste siano scomparse per dar luogo « ad alcune file di tisiche pianticelle tutte allineate e rim-pettite come coscritti sull’ attenti in piazza d’ armi » , e quella abbia subito « parecchie mani di calce a diverse gradazioni di tinte » , riuscendo così « tutta rimodernata , anzi rimessa a nuovo , fresca , attillata, fiammante come una pupattola di Nurimberga ». E non basta, chè le due statue che Γ adornano hanno ricevuto notabile offesa dalla raspa inconsulta dello scalpellino. Nè a coloro di poco senno, privi d’ogni senso estetico e della suprema religione de’ monumenti , i quali hanno dato mano a tanto strazio, è tornata alla mente l’importanza artistica della facciata « opera egregia di quel Taddeo Carlone architetto, ad un tempo , scultore e pittore , che sebben nato a Rovio, occupa tuttavia un seggio cospicuo nel novero dei più insigni rappresentanti dell’ arte ligure sullo scorcio del secojo XVI , essendo venuto fin dal 1560, che è quanto dire ancora adolescente , in Liguria , dove stette e lavorò oltre a 50 anni. È ricca di eleganti ornati e di figure, il tutto in marmo, fra cui tre statue di mano dello stesso Taddeo Carlone, quella della Vergine sopra la porta di mezzo e due laterali dei santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista. Questa « nobile e magnifica facciata », come la qualifica il pittore Carlo Giuseppe Ratti nelle sue annotazioni alle Vite del Soprani, fu costrutta per cura e a spese del patrizio Franco Borsotto, il quale non permise che in alcuna parte di essa venisse apposto il suo stemma gentilizio, nè tampoco il suo nome; facendo soltanto incidere a piè della statua della Vergine questa epigrafe: omnibus, ignotvs || dvm. tibi. notvs ». * * * Nel secondo fascicolo (testo) della Relazione del canonico prof. Isidoro Carini su gli archivi e le biblioteche di Spagna, troviamo nuove e pregevoli indicazioni di cose genovesi (1). Per esempio, in un codice della Nazionale di Madrid, « scrittura del secolo XVI, legatura del tempo», si legge una Informacion y peticion del Abiurante de las Indias sobre los privilégies dados à Cristóbal Colon (pag. 203). Un altro contiene: Los 12 articulos que el Principe (non ancora tale) Andrea de Oria pidiò ά la Magéstad del Emperador ecc., cioè la famosa convenzione di Barcellona (pag. 106); e un terzo descrive i succesos pertenecientes al Cardinal Doria stendo arçobispo (1) Del fascicolo I si dic’ conto l’anno passato, pag. i$i e segg. ι8ο GIORNALE LIGUSTICO de Meçina (pag. 276). Parimente nella citata Biblioteca si hanno questi documenti : 1673, i.° dicembre. — Istruzione a Sancio di Padilla, ambasciatore ordinario di Filippo II a Genova (pag. 171). 1594. — Scritture concernenti le galere del principe Gio. Andrea D’ Oria al servigio del Re Cattolico (pag. 171-72). Aggiungiamo, come esistenti nella Biblioteca del Duca di Ossuna: una lettera del su mentovato Padilla al Re « su quel che è successo a Genova per 1’ elezione del doge Giacomo Durazzo Grimaldi » (avvenuta nel-Γ ottobre 1573); ed un Memoriale del 1594, per la conservazione degli Stati d’Italia, in cui si parla del pascià Cigala, noto rinnegato genovese. Utili informazioni sul soggiorno a Simancas e sul suo celebre Archivio troveranno poi gli studiosi a pag. 276 e segg. Per conto nostro, segnaliamo le carte di Stato riguardanti Genova dal 1631 al 99, tra le quali si annovera « la sentenza della Signoria contro Giaiìnettino Doria pel suo stare al servizio di Spagna » (pag. 323); nonché i fogliazzi 5422-5667, che riguardano del pari Genova, e corrono dal 1706 al 1788 (pag. ^06). * * * Nella Revue Critique (a. [886, n. 17) leggesi una recensione di alcune pubblicazioni di A. Neri riguardanti la storia genovese. * * * È uscita, in opuscolo a parte, con una lettera indiritta all Harrisse e alcune annotazioni, la risposta dell’ab. Angelo Sanguineti a Pietro Giffard. A propos d’un aritele du Journal « Le Figaro » sur la patrie de Christophe Colomb (Gênes, Sourds-Muets). * * * Il 20 dicembre 1885 è morto a Bruxelles Luigi Prospero Gachard archivista generale del Belgio. Nelle sue numerose pubblicazioni si è occupato sovente di cose italiane o concernenti Γ Italia, dove egli si è alcuna volta recato per istudiarne la storia e i documenti. Anche Genova ebbe 1’ onore di una sua visita, di che ci ha lasciato ricordo in uno scritto importante intitolato : Les Bibliothèques de Gênes — Relation sur Philippe IV et la Cour de Madrid, fait en 1622 par l’ambassadeur génois Giulio Della Torre (Bullet. de l’Acad. Roy. de Belgique, 2.m° ser., XXVII, a. 1869). Egli rende conto delle biblioteche pubbliche , riferendone i cenni storici, e tocca di alcune cose vedute nella Universitaria e nella Civica. GIORNALE LIGUSTICO l8l In quest’ ultima fermò la sua attenzione la relazione di Giulio Della Torre, tornato dalla sua ambasciata di Spagna compiuta insieme con Costantino Pinello nel 1621. Ne dà un largo sunto rilevandone 1’ importanza, e giudica il Della Torre « un politique intelligent, un observateur sagace et un diplomate qui avait bien employé les quelques semaines qu’il venait de passer à la Cour d’Espagne ». Il Gachard passò pochi giorni a Genova dove « les archives réclamaient la plus grande partie de son temps ». * * * Scritti storici e letterari nei periodici politici liguri — Caffaro. — La datila (XXX), n. 74 (supp.). — Briciole d’araldica (Carmandino), n. 77. — Biagio Assereto (Giovanni Scriba), n. 79. — Aurelia Comica (»), n. 87. — Incoronaiione di Cesare Gentile (»), n. 94. — I misteri del fumo (XXX), n. 108 (supp.). — Il Giovedì Santo a Genova (Giovanni Scriba), n. 112. Paolo Fregoso (Giovanni Scriba), n. 115. — Chiacchiere Pasquali (Fioretto), n. 1x5 (supp). Il Lavoro (Spezia). — Le feste degli antichi romani (D. Gardella), n. 7, 8, 9, 14, 15, 16. Il Cittadino. — Le famiglie liguri (L. A. C.), n. 76, 79, 82, 84, 87, 91, 93, 94, 96, 98, 102, 104, 106, 107, 110, 112, 118. — Il Santuario di Savona. (L. A. C.), n. 77. — Feste a Savona (L. A. C.), n. 80. La Liguria Occidentale (Savona). — La patria di Cristoforo Colombo (si riproduce una lettera di Luigi Ambiveri in risposta al cav. Sangui-neti), n. 70. — Studi Chiabrereschi (O. Varaldo). BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Emilio Penco, Storia della Letteratura italiana — Firenze, Barbera, 1886. Sebbene 1 A. non dica chiaramente se si è proposto di scrivere per i giovani delle scuole o per gli eruditi ; noi gli diremo francamente che gli uni e gli altri avranno assai a dolersi dell’ insufficienza che nel- 1 opera appare troppo palese. Difatti intitolare il primo volume, che ora ha veduto la luce, dalle Origini, e nelle origini porre tutta la schiera dei trecentisti minori dal Cavalca a Santa Caterina da Siena, e poi Dino Compagni ed i Villani, dimostra che dei confini della materia, dell’ economia dell’opera, l’A. non aveva un esatto concetto. Eppure l’autore eh’ egli segue molto da vicino, da farsene persino plagiario, pur turban- i82 GIORNALE LIGUSTICO done alcuna volta il diritto sentenziare, il Bartoli infine (i), gli doveva suggerire la razionale partizione fra le origini e lo svolgimento ; anzi a quest’uopo poteva benissimo rifarsi anche al Finzi, che pur ha tenuto dinnanzi. Veniamo alla contenenza del libro. Il Penco si schiera tra coloro che credono la lingua italiana originata dai dialetti italici preesistenti alla lingua latina. È un’opinione anche questa, ma che desiderava il contributo di qualche prova, di qualche ragionamento per lo meno. Noi siamo stanchi di sentirci scaraventare al capo per unico e inoppugnabile argomento l’autorità di Tizio o di Caio. Ma l’A. non fa punto) di più, e trova che il Bartoli insulta i fautori de’ dialetti, perchè in una pagina di ottima sintesi enumera le ragioni che rendono cotesta causa de’ dialetti italici molto spallata. Veramente possono col tempo uscir fuori studi, i quali mettendo in sodo fatti ben certi la risolvano in modo favorevole per questi scrittori, ecc. Di questo nessuno dubitava. Ma l’avvenire è in grembo a Giove; frattanto le persone dottissime che 1’ egregio Penco conosce continuano nelle loro ricerche, mentre il Diez, il Du Meril e gli altri hanno già fornito i risultati delle loro. Non dica inoltre 1 A. che un lembo del velo che copre i prischi Itali fu già aliato dal Canta : il Cantù avrebbe ragione di offendersene. Il Cantù parla sempre in forma congetturale (legga più attentamente Γ A. la nota che egli pone a pag. accennando all’ Osco usa un modesto e remissivo forse e dell’ oscura Iside non pretende sollevar nuila, proprio nulla. E d’altra parte veda 1’ A. di mettersi d’accordo con se stesso. A pag. i, affermato che la lingua « si formò dai dialetti dei primi abitatori della penisola », i quali rimasero vivi nel popolo anche sotto la potenza latina, soggiunge come « in molte iscrizioni persino del IV secolo, si vedono i volgari d’allora spuntare d’ogni parte di sotto alle forme latine, rialzare il capo arditamente » ecc. ecc. Più innanzi a pag. 9 ci scopre che queste « forme volgari » sono ad esempio, mesis per mensibus, septe per septem, con per cum, visse per vixit; ma queste forme non ci presentano esse il sermo urbanus e il senno rusticus dei latini ? Appartengono sifatti vocaboli ai dialetti preromani ? Le inconseguenze, effetto probabilmente di studi affrettati e tumultuari, non sono rare in questo libro. A pag. 12 asserisce (su quale fondamento?) che il contrasto di Ciullo d’Alcamo ( « il più antico dei poeti » dice lui), risonò in un baleno ad ogni convito, echeggiò sulle bocche dei cavalieri e delle castellane ; a pag. 15 ci avverte per contro che il canto è improntalo (1) È curioso riconoscere che l’A. mentre tiene a sua guida il Bartoli, non crede alla importanza che ha avuto 1’ opera sna nella letteratura (p. 7). GIORNALE LIGUSTICO 183 del carattere popolare, libero degli artificiosi concetti. L’A. si troverebbe ben imbarazzato, credo, se dovesse conciliare due affermazioni tanto opposte. E il peccato originale dell’ opera appare evidente nelle due o tre misere paginette colle quali il Penco si sbriga di questo componimento. Ecco un gruppo di formidabili questioni che diedero a scrivere molto al Caix, al Monaci, al D’Ovidio, al D’Ancona e daranno, se Dio vuole, a scrivere dell’ altro , le quali l’A. sembra ignorare completamente, o di cui per lo meno lascia nella più profonda ignoranza il suo lettore. Ma per chi scrive dunque il Penco? Ed è più ammissibile o tollerabile die si scrivano storie letterarie in questo modo? Che egli non conosca il libro del D’Ancona: Studi sulla letteratura italiana de’ primi secoli, una buona metà del quale è dedicata al Contrasto del Siciliano, non starei in dubbio ad affermarlo: primo , perché tra un seminio di citazioni non si trova ricordato solo una volta, secondo perchè i suoi giudizi sul Tudertino lasciano pur troppo vedere a molte miglia di distanza, che egli dello studio capitale del D’Ancona su Jacopone non ha notizia. Se non fosse così non continuerebbe a citare, senza un’osservazione, come del Tudertino i ben noti versi : Di Maria dolce con quanto disio ecc. Legga l’A. la sdegnosa nota con cui il D'Ancona ha accompagnato il suo studio a proposito di questi versi, e veda che si ha da pensare di certe preparazioni molto, troppo incomplete. Ritornando al Contrasto, fa, confessiamolo, un curioso effetto il trovar riportati versi, come per esempio, :1 seguente: « Una defensa mettoci di duemila agostari 1 senza una nota, o una dichiarazione, 0 il più piccolo commento. E pensare che il povero Vigo ruppe molte lancie su questa sgraziata defensa, recando ne’ suoi assalti anche molta amenità. Io non seguirò passo passo la trattazione dell’A.: ciò mi condurrebbe troppo per le lunghe. Rilevo brevemente qua e là alcune inesattezze o insufficienze, che sgraziatamente si presentano ad apertura di libro. A pagina 42 il Penco tratta di S. Francesco d’Assisi, l’inno al Sole per lui è affascinante poesia, è scaturito dal suo cuore in un’ estasi sublime e così di seguito ; ma infine il valore di quella lirica non ci è dato, nè, pare, si giova menomamente della monografia del Bonghi e degli altri studi nostrani o forestieri su questo argomento. A pag. 57 ci incontriamo con somma ma- 184 GIORNALE LIGUSTICO raviglia nell.i vecchia e ormai sfatata fola di una Nina siciliana che fa struggere d’amore il fumoso Dante da Mutano. A pag. 76 si trova che il discorso messo dal Barberino in bocca al re nel descrivere la camera e la notte nuziale è pieno di affetto: eppure è il solito convenzionalissimo linguaggio, sono i soliti convenzionalissimi tipi ereditati dalla poesia provenzale , nè la descrizione può avere altra importanza che per il costume. A pag. 93 parlandosi delle pastorelle del Cavalcanti, un cenno su quelle dei poeti provenzali, onde fu importata la forma tra noi, e sulle modificazioni che il popolano grasso di Firenze vi introdusse era più che opportuno. A pag. 97 il Penco volgendo uno sguardo sintetico sul cammino fatto, dice che la lingua italiana vagì sulla bocca di Ciullo d’Alcamo, di Federico e di tutti i poeti siciliani. Ora può essere che io non arrivi a capir bene il valore e l’estensione del vagire, ma per me almeno è fuor di questione che vagire in lingua italiana, non è parlare in dialetto della Sicilia, e l’A. ra’ ha avvertito a pag. 27 che i poeti della scuola sicula poetavano in vernacolo. A pag. 100 finalmente, l’A. vinto da un accesso di orgoglio italianissimo nazionale commisera le altre letterature che non produccvano se non poesie amorose e cronache versificate, quando la nostra toccava in un baleno l'apice della grandaga. Eh finiamola di grazia con cotesta boria da autocatoni ! E vediamo di essere anche più giusti. La Francia è il nobile paese delle epopee, la Spagna nella sua infanzia ci ha dato il poema del Cid, qualche cosa più che delle cronache versificate. Dappertutto poi l’abuso della vecchia o rifritta retorica, da per tutto uno scialacquo veramente eccessivo dei soliti vocaboli ammirativi. Una strofe di re Enzo, nè migliore nè peggiore di tante altre della scuola siculo-provenzale, è giudicata stupenda ; un’ altra di Jacoponc sul giudizio universale di andamento lirico e grandioso addirittura. E i giudizi, al solito, stanno campati in aria senza il più piccolo e modesto appoggio di una ragione. Non diciamo nulla dei brani altrui inseriti nel testo, citazioni che sono senza modo nè misura : se si levassero via, per un momento, che cosa resterebbe del libro del Penco? E se questo vale per la prima parte, che svolge in 100 paginette tutto quanto riguarda la poesia, assai più potrà dirsi della seconda, cioè della prosa, poiché le 61 pagine diventano addirittura 30, ove si tolgano tutti gli esempli degli scrittori, additati alla ingenua ammirazione di chi legge. A noi duole di essere stati tanto severi nella recensione di questo volume: ma abbiamo creduto di non apporci male, stimando il giovine A. GIORNALE LIGUSTICO 185 degno di sentire la verità, anche quando per un istante possa suonare amara. Il Penco sta preparando un altro volume. Si persuada con noi che la via da lui tenuta nel primo è sbagliata, che procedendo in questo modo egli non farà nulla di serio, non potrà conseguire nessuno degli copi che per avventura si propone. L. A. Michelangeli. Gl' Inni di Proclo. — Bologna, Zanichelli, 1885. L’ elegante volumetto è preceduto da una dotta e geniale prefazione in cui è data notizia del filosofo poeta. Volgevano i malinconici giorni che segnano i grandi rivolgimenti umani ; i vecchi Dei avevano irremissibilmente perduta la battaglia. Che tristezza mette nell’ animo del lettore F ultima disperata resistenza della scuola d’Atene ! — « Erano i don Chisciotti del vecchio mondo » , osserva giustamente 1’ A. ma erano anche i generosi che non sapevano separare la loro causa da quella degli sconfìtti, e combattevano col presentimento che F opera indefessa di un’ intera vita era vana, che essi galvanizzavano un cadavere. Proclo fu il più insigne tra i pugnaci della esigua schiera. Non è di molti rimaner fedeli ad un alta sventura. Quando le tre mila Occanine, dice il Gautier, vennero a consolare Prometeo sulla croce del Caucaso, se ne ritornarono la sera. Ed a ragione. Proclo invece rimase e per trent’ anni non curò fatiche nè pericoli. Moriva verso il 487, pochi anni prima che la scuola d’ Atene tacesse per sempre. Spirito alessandrino, egli mirava a tutto comprendere, tutto conciliare. E con intendimento filosofico erano dettati cotesti inni. Forse è perciò che mancano affatto di rappresentazione plastica, e il lettore può bensì trovare in essi le vestigia di un nobile ideale che svincolandosi dalla terra tendeva a salire più alto più alto, come una bianca visione, ma i contorni sono troppo fluttuanti, ma la visione non ha corpo. La distanza che, per un esempio, passa tra questi inni e gli omerici è grandissima, e parmi che non stia solo nella condotta dell’ inno che in Proclo è costantemente distinta in due parti: la lode del Nume e la supplica. E direi anche poco esatto il divario che 1’ A. pone tra questi e in generale gli inni lirici. « Differiscono per l’uniformità e la regolarità della condotta, e per la quasi mancanza de’tocchi descrittivi e rappresentazioni plastiche ». Sembra a me che la rappresentazione plastica del fantasma poetico non sia qualità esclusis'amente propria della lirica, ma anche dell’ epica; la differenza che dall’ A. è ristretta agli inni lirici, dovrebbe quindi di ra- iS6 GIORNALE LIGUSTICO gione estenderla anche agli epici prima nominati. La traduzione fa sentire il lodato traduttore di Anacreonte ; è elegante e fedele, senza vincolarsi pedissequamente al testo. E lo studio che vi è premesso finisce con un’ accurata bibliografia e una buona critica degli inni. Il Sacco di Volterra nel MCDLXXU, a cura di Lodovico Frati — Bologna, Ditta Gaetano Romagnoli, 1886. L’egregio Dott. Frati ha raccolto un’importante serie di scritture finora inedite ad illustrazione del luttuoso avvenimento. Per la lodevole diligenza di lui, il Commentario dell’ Ivani, 1’ unica scrittura sincrona che trattasse ex professo e con qualche estensione del fatto, viene quindi ad essere chiarito ed in alcune parti completato da cotesti nuovi documenti : un buon numero di poesie contemporanee e il Commentario di Biagio Lisci Volterrano. L’Ivani nel suo epistolario aveva ricordato il lavoro del Lisci che ora 1’ egregio Frati ha tratto da un codice Vaticano-Urbinate, e ne aveva sentito lettura dallo stesso autore quando, dopo il terribile sacco, i due amici si scontrarono in Firenze: ma non perciò l’Ivani depose il pensiero di scrivere il suo Commentario, che egli sperava di stendere con più brevità e con più gravi sentenze. È appunto il divario che passa tra il racconto dell’uno e quello dell’altro. Nell’Ivani al disopra dello storico, tu senti il letterato che si preoccupa di raggruppare con arte i fatti, esporgli sotto quella luce che deve fare più colpo sull’ animo del lettore: più sincero (e intendo sincerità d’arte), ma anche più inesperto e prolisso il racconto del Lisci. Una cosa importa qui rilevare: che la narrazione dell’uno concorda nelle linee essenziali con quella dell’altro e colle notizie forniteci dalle poesie sincrone; sicché per la nuova pubblicazione del Frati i dubbii levati da parecchi storici sulla veridicità del-l’Ivani sono dissipati non solo, ma questo avvenimento può dirsi noto in tutti i suoi particolari. È di somma importanza cotesta letteratura che presenta Li storia, se è permesso dir cosi, come in uno spaccato rilevandoci le impressioni, gli affetti, i sentimenti che i fatti hanno suscitato nell’animo dei contemporanei. E notevolissimo pare a me, fra gli altri, il Lamento che nel libro viene per secondo, scritto da un Giovanni d’ Antonio di Scarlatto alcuni mesi dopo il saccheggio. Qui non più piacenterie cortigiane, ma un uomo del popolo, o che del popolo aveva la coscienza, il quale non sa piegarsi codardamente supplì chevole dinanzi all’enormità dei mali e freme di nobile ira, e se non GIORNALE LIGUSTICO 187 basta ricorda all’ oppressore che gli potrebbe toccare la sorte stessa degli oppressi : Sta paziente a ciò che vien di sopra eh’ a nessun modo non si può fuggire , o vuo’ pacie 0 vuoi martire vien per nostri peccati o per merzede. Ma spero ben che vedrai simil prede più d’una volta dentro all’altrui porte, perchè spesso le sorte chaggiono là dove la fortuna piace. L’Ivani, il Cantalicio e gli altri che dedicano i loro versi o le loro prose al Magnifico, o a Federico da Montefeltro, possono accarezzare quelli che, dando voce di volerne il bene, avevano rovinato Volterra: il poeta popolare, dopo una viva descrizione del sacco messa in bocca alla desolata città, non dubita di assalire il leone che 1’ ha morsa e che ora non si saziava per tutta Toscana : perchè il lion(e) m’ a morso chon pena resto e non posso morire. O suore mie, punte da tal martire da chostui che noi sazia la toschana parte di lunigiana serrate intorno dalla lombardia. Sotto il marzocco c’ era Firenze e particolarmente Lorenzo de’ Medici che per sue mire ambiziose aveva spinto le cose al peggio. E secondo quest’ interpretazione che mi pare ragionevole, io modificherei leggermente il verso seguente, scrivendo invece di : fall' ò star al quia, il verbo avere riferito a costui, ossia al leone: Romagna in parte fatt’ à stare al quia, e il senso, se non m’ inganno, verrebbe chiaro. Del resto la lezione dei documenti messi ora , per la prima volta , in luce, ha avuto tutte le cure del ch. dott. Frati che nelle erudite note messe in fine di ciascuno ha sempre cura di segnare gli opportuni cambiamenti recati alla grafia del codice. Ciò non di meno alcune poche i SS GIORNALE LIGUSTICO correzioni si potrebbero forse ancor fare con vantaggio dell’ interpretazione. Così a p. 46, v. 146 in cambio di fatto vivo, correggerei, fato divo, ossia fato, destino ordinato dalla divinità. A p. 151, Commentario del Lisci, la lezione eadein morte, è evidentemente sbagliata : correggerei, senza dubitare, così: « Eodem motti, Gabriel Malaspina haud magno interposito intervallo etc. ». Di fatti si parla in questo passo di un moto inopinato nella città, non della morte di alcuno. La lezione a p. 3, nei primi tre versi della seconda ottava, ha lasciato dubbioso anche l’egregio editore di questo poemetto. E rabberciare il passo molto sconciato sarà difficile: per altro una correzione può farsi nel primo verso, sciogliendo vi’apendi che non dà senso veruno, in ma’ pendi: O tu vera giustizia che ma’ pendi dall' una parte ecc. Il dott. Frati ha mandato innanzi al volume una erudita prefazione in cui fornisce importanti notizie sul fatto di Volterra e sugli autori dei documenti ora pubblicati. Giovandosi di essi e degli storici contemporanei egli stabilisce la verità, parmi ormai senza contestazione, sopra un punto molto oscuro di questo avvenimento, voglio dire la prima origine del sacco. Dalla concorde testimonianza di cotesti scrittori, il Frati conclude che « Volterra fu saccheggiata per il tradimento di un Veneziano che era stato posto dai Volterrani alla guardia delle mura » — così che gli sembra ingiusto il chiamarne in colpa il Conte d’ Urbino, come fece Flaminio dal Borgo nelle note alla storia del Cecina. Il Frati fino ad un certo segno ha ragione : è fatto però che il capitano dovrà sempre rispondere in parte almeno del mal operato dell’ esercito a cui comanda, che Volterra fu saccheggiata, mettiamo pure nolente il Conte d’ Urbino, per un giorno intero, e che malgrado P ordine dato di lasciar le robe non ancor portate fuori, le vie verso Lombardia, per testimonianza dell’ Ivani in una sua lettera, erano ingombre delle spoglie rapite a Volterra. Acuta e convincente è per contro la difesa che brevemente egli imprende di Lorenzo de’ Medici, contro 1’ accusa mossagli dallo Zacchi e ripetuta da molti altri che il Magnifico fosse giudice e parte nell’ affare delle allumine. Concludendo, la raccolta di curiosità letterarie diretta dal-l’illustre F. Zambrini si è arricchita per opera del Frati di una nuova piegievolissima pubblicazione. B. GIORNALE LIGUSTICO 189 I Girolamo Rossi. Lo stipite dei Chiabrera di Savona. — Firenze , 1886 (8.°, p. 11). Estratto. In questa breve monografia 1’ A. con la scorta di due documenti e delle schede lasciate da Tommaso Belloro, cultore di memorie savonesi, si fa ad indagare quando fu che uno della famiglia de Zabreriis, poiché in questa forma si denominarono da prima, venisse ad abitare in Savona, dando origine alla discendenza del poeta. E rileva che fra i componenti la corte di Antonio de Sismondi nativo di Ponte d’ Acqui , venuto nel 1418 ad occupare la sede vescovile di Albenga , era un Corrado de Za-brcriis, il cui nome comparisce la prima volta in una iscrizione, esistente nella chiesa parrocchiale di Bussana, dove si fa memoria di certa sentenza emanata dal ricordato vescovo nel 1427 scripta manu di Corrado civis acqtunsis ; il quale, mi sembra comparisca qui come notaro, anziché in « ufficio di attuario » secondo afferma Γ A., del che abbiamo sicura prova e dalla formula cancelleresca, scripta manti, e meglio dal documento del successivo anno 1428, dove egli è detto publicus imperiali auctoritate notarius. Venuto poi a morte il vescovo nel 1429, crede il R. abbia Corrado abbandonato Albenga, e sia andato a stabilirsi in Savona « intorno al 1450 » a conforto di ciò afferma trovarsi « negli atti notarili di questa città » la memoria della sua morte, avvenuta nel 1476 in età di anni 71, lasciando tre figli Iacopo, Gabriele e Giovanni. Ora io confesso candidamente che quella vaga citazione degli « atti notarili », senza il sussidio d’ alcuna nota con l’indicazione del testo, o almeno della fonte precisa, non mi persuade, tanto più vedendo come 1’ A. quando ha in mano il documento o lo pubblica , o ne discorre con sicurezza. Infatti ci dà notizia certa del testamento di Gabriele figlio di Corrado, rogato il 6 luglio 1503 da Nicolò Corsaro, con il quale lascia erede dei suoi beni di Savona i nipoti per parte del fratello Iacopo , e di quelli che possedeva in Acqui i figli dell’ altro fratello Giovanni, e questo documento, secondo me, è proprio il caposaldo donde muove la famiglia stanziatasi in Savona; poiché Gabriele, stando ai documenti noti fino a qui, è il primo che si trova davvero abitante colà e quello che, non avendo prole da Grimalda Lercari, chiama in sua compagnia i nipoti, e nel 1493 elegge per se e per loro la sepoltura in S. Giacomo di Savona , dove sulla iscrizione era notato soltanto il suo nome e quello del nipote Domenico figlio di Iacopo, forse il primo nato, e forse il solo che abitasse allora con lui. Se 1’ A. non si fosse contentato di consultare la vita del poeta pre- 190 GIORNALE LIGUSTICO messa dallo Spotorno alla ristampa dell’ Amedeide (1836), o le illustrazioni di lui alla nota autobiografia mandata innanzi alle Lettere al Castello (1858), ma avesse anche aperta un tratto la Storia letteraria della Liguria, là dove lo stesso Spotorno ragiona assai lungamente del Chiabrera (1), gli sarebbe stato agevole rilevare Γ indicazione di una fonte, la quale non è invero da trascurarsi. Intendo accennare a quella cronichetta, o libretto di ricordi della famiglia Chiabrera, pubblicato dal Moriondo nei Monumenta Aquensia (2), appartenuto ad un canonico Gabriele Chiabrera d’Acqui, e che muovendo dal 1.176 arriva al 1706, lavoro di più mani e di più generazioni, nel quale i ricordi degli avvenimenti politici e della famiglia abbondano fino al mezzo del secolo XVI, e procedono poi assai poveri e privi d’importanza. Lasciando stare che da questa cronica si possono rilevare parecchie notizie atte ad accrescere 1’ albero genealogico, credo utile fermarmi intorno ad alcune , le quali fiancheggiano 1’ opinione da me esposta qui sopra. Corrado notaro muore il 18 giugno 1476 di anni 71 , mentre già il figlio Iacopo era sceso nel sepolcro fino dal 1 giugno 1471 (non nel 1493 secondo afferma il R.), nò viene avvertito, come sempre , che la loro morte accadesse fuori di Acqui. Invece, di Gabriele figlio di Corrado, sappiamo che nel 1476 andò in Catalogna, donde era ritornato quattro anni dopo e avea fermata sua dimora in Savona, poiché il fratello Giovanni, scrittore delle memorie di famiglia fino al 1498 in cui mori, gli manda suo figlio Antonio affinchè 10 avvìi alla volta di Pisa a studiare; del 1493 appresta la sepoltura di famiglia, come ho accennato·; fa testamento nel 1503, e v’aggiunge un codicillo dieci anni più tardi, a’ 6 maggio in atti dello stesso notaro (e questo non è avvertito dal R.) (3); finalmente muore il 21 agosto 1521, ed è sepolto in S. Giacomo di Savona. Ora poiché, secondo ha rilevato 11 R. dal testamento, egli lasciò eredi delle sostanze sue savonesi gli orfani di suo fratello Iacopo, mi pare ovvio ritenere come cosa sicura che appunto fra il 1480 e il 1521 venissero questi a stabilirsi in Savona, dove Corrado II, o, per seguir le citate Memorie, Corradino, seguitò la famiglia ; la quale dunque elesse stanza in questa città ben 70 anni più tardi di quello che vorrebbe 1’ A. Che poi la discendenza di Giovanni , (1) Tom. IV, 94. (2) Tom. II, 259 e segg. (3) Nelle Memorie si attribuisce il testamento al 1513 6 giugno, e si storpia il cognome del notaro; ma sono evidenti errori di trascizione, nè i soli. GIORNALE LIGUSTICO data dal R. nell’ albero come appartenente ai Chiabrera di Savona, non si movesse da Acqui, salvo alcuni anni che egli con la famiglia dimorò in Mondovì, non solo si rileva dalle Memorie, ma altresì da alcune carte dell’ Archivio genovese dalle quali apparisce come nel 1623 vivesse in Acqui un Gabriele Chiabrera del fu Scipione (1). Del resto senza che altro aggiunga consultando le Memorie edite dal Moriondo potrà agevolmente il R. correggere ed accrescere la genealogia da lui prodotta. Osserva poi il R. che il cognome de Zabreriis si trova modificato in De Chabreriis in un cartellino che « leggevasi in fondo » alla tavola del Brea, oggi nella cattedrale, eseguita nel 1495 per la cappella di quella casata; or noto che il cartellino esiste tuttavia, e, secondo afferma 1’ Ali-zeri, che mostra averlo veduto, vi si legge de Zabreriis (2). A questo proposito, dirò qui a titolo di curiosità come sul frontispizio delle opere di Demostene e di Isocrate, stampate a Basilea nel 1582, si trovi scritto di pugno del poeta: « Del sig. Gabriele Ciabrera ». E poiché ho toccato di quésti due libri appartenuti al poeta , passati poi nella libreria del Convento di S. Giacomo di Savona , e finalmente nella Universitaria di Genova, non dispiaccia eh’ io vi spenda intorno alcune altre parole. Le opere dei due oratori greci sono prodotte nella interpretazione del Volfio, autore condannato come eretico , perciò nella guardia dell’Isocrate si leggono queste avvertenze autografe: « Gli argomenti e le postille in margine si reputano una cosa stessa con la tradu-tione, e però si possono leggere; così hammi detto il P. Lamberti della compagnia di Jesù. — Di più io ne parlai in Genova al Rettore di San Turpé, al quale mi rimise il P. Vicario dell’ Inquisitore , Egli mi disse che guardassi se vi era cosa di turbare homini boni, e cassassile, per altro io leggessi; non per tanto ho cassato gli argomenti fatti dal Volfio, le annotationi 11011 so di chi siano , ma holle corse e non hanno niun ueneno ». La quale seconda annotazione si trova anche nella guardia del Demostene in questo tenore : « Gli argomenti fatti dal Volfio bolli cassati a cautela , benché il Rettore di S. Turpé in Genova mi commise a cassare se vi fosse cosa da turbare il lettor cristiano, e per altro io le leggessi, Le postille marginali non so di chi siano; Holle corse tutte e non hanno cosa che offenda ». E quel che dice ha fatto ; anzi di più , poiché alcune carte le ha tagliate via addirittura , altre tenacemente at- (1) Sei.ato, a. 1623, Fil. $. (2) Notiz· dei Prof, di disegn., li, 311. 192 GIORNALE LIGUSTICO taccate : come si vede voleva mettersi in regola con la coscienza, e specialmente con Γ Inquisitore ; nè c’ era invero da scherzare. Ma venutimi a mano questi volumi ho ripensato agli studi degli scrittori greci fatti dal savonese, dei quali egli ragiona nella autobiografia, e, dico il vero, vedendo come ei leggesse Demostene ed Isocrate nelle traduzioni, ho dubitato se veramente conoscesse la lingua originale. Bisogna confessare però che egli non lo dice aperto , ma volge il discorso in guisa da farlo credere (1) ; ben parmi lo credesse il Salvini, e lo Spotorno poi lo afferma reciso (2). Ora il dubbio mosso nell’ animo mio da quelle due traduzioni, viene avvalorato dalle lettere inedite da lui scritte a Roberto Titi (5). Il 27 dicembre 1594 gli faceva questa domanda: « Se si può senza suo disagio, desidererei un Appolonio Rodio tradotto ad verbum, se non, comunque sia; credo haverlo ricercato per tutta Italia, nè mai ne ho veduto, salvo uno in Roma; ma perchè il signor Baldo Cataneo, il quale n’ era signore, componeva 1’Argonautica, io non volli accettarlo ; forse costì si troverà)). E nel febbraio successivo: « Ringratio V. S. del dono a me carissimo; ma prego V. S. che se mai a caso gli capita in mano tradotto ad verbum lo tenga, e me ne dia aviso; intanto goderò questo ». Avendo poi il Titi trovato fra’ suoi libri la traduzione desiderata la offrì all’ amico, che rispondeva (18 marzo 1S95)· * ^on faccia per niente questo torto alla sua libraria, di torre da lei il suo Appolonio, non voglio il mio commodo con suo sconcio, non certamente , ben le debbo gratie per la offerta. Io desidero il testo ad verbum per essere securo del sentimento di quel poeta, tuttavia farò alla migliore; nè spetialmente il desidero leggere salvo per gli amori di Medea, i quali sono predicati come cosa bella , e per quanto ne discerno nella tradut-tione mandatami sono vermente tali ». Giudichi adesso 1’ accorto lettore. A. N. (1) Cfr. Autobiografia in Lettere di G. C. a Bernardo Castello, Genova, Ponthenier, 1838, pag. 4 e segg. (2) Storia Leti. cit., IV, 29, 102. (3) Bib. Nazionale di Firenze, Palatina, Autografi. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 193 STUDI ETRUSCHI Dopoché in questo medesimo giornale chi scrive pubblicò una interpetrazione del cippo perugino , alcuno osservò che confrontando le voci etrusche con altre di ogni lingua si può far loro dire ciò che si vuole. Senza discutere tal sentenza accettiamola come buona, ma è tale il metodo in quello scritto seguito? — Quando una voce etrusca non aveva confronti nelle vecchie lingue italiche, quando era Ostica, come dice il cav. Poggi, la paragonammo ad altra simile della lingua più antica fra le ariane — la sanscrita, — poi negl’idiomi fièli> Pure ariani, cercammo parole di suono come di significato simili e fra loro, e al sanscrito e all' etrusco. Con ciò anziché prendere a caso voci da ogni lingua si giunge invece a mostrare l’origine e la discendenza, ossia è fare l’albero genealogico delle parole , le quali perchè vengono da fonte unica 0 dai suoi rami, se concordano, meglio che mai provano la verita della traduzione e si avvalorano vicendevolmente. Continuando percio a seguire le norme medesime, ci sia pei messo di offrirne un nuovo saggio nelle quattro iscrizioni seguenti, le quali per la loro brevità meglio si prestano all’ esame dei critici. !s!MMYA:fllHflO '"OlAOfl NHDMKII. MOJflM / in alfabeto comune : — Th a p n a 1 ù s'n i — l ins’cuil athlic — s’althn. — Traduzione / letterale: — Questa che arde e dà luce _ I incatenata, fu difficile lavoro — dedicato \ al nume, (esaltato) — Giorx. Ligustico. Anno XIII. J3 194 GIORNALE LIGUSTICO L’ iscrizione era in una lamina affissa a un lampadario trovato a Cortona. Fabretti la cita al N. 1050 della sua raccolta, e il P.e Tarquini nel Voi. 15, p. 69 dell’Accademia Pontificia Archeologica la tradusse con paragoni al tutto presi· dall’ebraico, i quali, appunto perchè farebbero della lingua etrusca un dialetto semitico, non vennero approvati. Eccone una interpetrazione ariana. Thapna viene dalla voce sanscrita Tap, che è radice di ardere, esser caldo e tormentare, onde Tapa, tapana: scaldante, bruciante, fuoco, sole, e tormentante. Da tal fonte deriva il Thapso greco: ardo, cremo e seppellisco, ma Pictet, (orig. d. civil. i.°, 425) dalla suddetta radice Tap-cruciare e Tapana-tormento, deduce il Tabanus latino, Tafano italico, insetto, quasi tormentatore. Agius de Soldanis cita Thapa maltese — fumare, — che ci riporta all’arsione, onde si vede che in più lingue tal voce esprime fuoco e tormento, ma siccome gli antichi, talvolta ardevano i vivi, più spesso cremavano i morti, la voce in discorso oltre arsione e tormento espresse ancora funerale o seppellire come nel Thapso greco. Qui però Thapna è una lampada, dunque essa è una pira, ossia è Γ ardente: è quella che arde, appunto come in sanscrito Tapana bruciante. Lus'ni. — Corssen interpreta questa parola: lucerna, candelabro e luna : Fabretti-lume , forse perchè anche in greco Luchnos vale lucerna. Alle voci lucaire e lucmev etrusche noi pure si mostrò che vi era il significato di luce e splendore, con derivazione dalla radice etrusca luc-lucere. Qui veramente si ha la forma lus, ma lue e lus sono equivalenti, giacché il sanscrito ha Loc, e Las, Laç quali radici di -splendere, l’irlandese ha: Lasaim per bruciare, onde il latino luceo e l’etrusco lusnì tornano alle dette radici : loc, (lue) e las, laç, quindi a ragione Fabretti traduce Losna-luna e folgore, talché lus'ni etrusco deve spiegarsi : lucido , fulgido , che dà luce, lucens. m GIORNALE LIGUSTICO 195 Ins' cuil, (o ins cail). — L’inglese in, come il tedesco ins valgono — nel, in —· e così il latino, lo spagnuolo e l’italico nel prefisso in mantennero simili significati, cioè lo usarono quale privativo di certi composti come: in-cautus, e quale intensitivo di altri come : in-aurans, anche per gl’ italici: in-doratore, e si noti qui tal forma, perchè nel caso attuale, restò agli italiani per derivazione meglio etrusca che latina. Essa però viene dal sanscrito a, la quale diventa an dinanzi a vocale e corrisponde al latino in : nell’ etrusco : ins, o in-Cuil, secondo il Tarquini — op. cit., p. 91, — può leggersi Cail, e lo paragona a Qfil maltese, il quale significa — legame, catena, — ed egli ha ragione, non tanto pel confronto or detto il quale da solo è povera cosa, quanto perchè la radice Cui o Cai, ha confronto nell’antico verbo rammentato da Plauto, cioè — Caio — raffreno, comprimo : ora Cail, o Cuil, etrusco deve essere forma di quello, come lo è Chain inglese , Chaîne francese — catena, — modi i quali diventano verbo nell’ inglese Shackle — incatenare, e si annettono a Gal persiano , Gala sanscrito : — filo e cosa che scorre, da cui Caill irlandese: calle, sentiero (che scorre). Quindi ins-cail etrusco vale in-catenato , raffrenato, avvinto, che scorre giù. A t h 1 i c. — Questa voce ha una finale di attenenza che restò in diverse lingue ariane nelle forme: ic, ich, co, ceo, eus. Cosi dal latino Heros si fa Heroicus, dall’ inglese civil-cìvile si fa civic-civico, lo spagnuolo ha fame, e famèlico, Γ italico rosa e rosaceo, finali di attenenza uguali all’ etrusco ic. Quanto alla radice della parola athl, essa si trova nella voce greca Athl-os: — lotta, fatica, combattimento, incarico: di qui venne il latino-greco Athlon, athloni, ossia premio ai vincitori della lotta, e Alhleta che, secondo osserva Varrone, non solo vale lottatore ma anche uomo eccellente in che-chesia. — E ciò è logico semprechè nella forma athl, althlos GIORNALE LIGUSTICO si ha non solo la lotta ma anche la fatica e Γ incarico, perciò Athlic etrusco corrisponde al latino Athl (et) ic (us), che appunto ha in se Athlic, e vale pertinenza di Atleta come l’inglese ο Γ italico — Athletic, atletico: — la radicale torse è in ad sanscrito sformarsi: (etrusço at). Or dunque la lampada atletica non è adesso robusta, nè lottatrice , ma come sopra si disse — faticosa, di arduo lavoro, difficile, eccellente, che era incarico atletico il farla. Salthn. — Il Corssen (2, p. 191) dedusse e tradusse questa voce dal latino salute e salutare interpetrandola sacro, santificato. Veramente pochi sono i confronti di altre lingue con la radice Sai, Salt, e questi indicherebbero il salto o anche il salutevole, forse perchè la radice sanscrita Çal, che propriamente è muoversi 0 vacillare, nel greco salasso significa — muovo, scuoto, e nei balli dei sacerdoti Salii conserva pure il significato di scuotere e muoversi, ma nella speciale forma di ballo 0 salto , perchè con questo rito essi onoravano il nume, dunque per essi saltare era onorare, ma alcuni dotti delle lingue indiche attribuiscono a Çal, oltre il significato di muoversi, anche quello di salutare , onorare o santificare, ecco perchè in questo caso come pei romani, saltare e santificare equivalgono. Così salto latino è saltare o ballare cantando nenie sacre, salad ebreo esprime esaltò, e nelle voci e-xalta-cion spagnuolo, e-xalta-tion inglese, (e)-salt-(azio)-n-(e) italico si ha interfisso il salthn etrusco, il quale perciò può interpetrarsi — porre in alto , esaltare , santificare, dedicare od onorare il nume — e simili. — 2 a MB b y a vi ma>a in a K3>m m i w in alfabeto comune:— mi ma lena larthia ) puru.henas. — j letterale: — Io sono la baccante Larcia con \ molti lasciva. — GIORNALE LIGUSTICO 197 In uno specchio era rappresentata una donna in atto di danzare e dietro quella un uomo, sotto il quale era scritto — 3lt3+ = (Tezio), abbracciavala per sorpresa. - (Fabret, voi. 3, iscr., n.° 81). Mi ma lena. — Corssen e Gamurrini traducono mi ma — io sono — e il primo di questi scrittori domanda se iena equivalga al latino iena ossia mezzana. Si può rispondere negativamente, giacché in etrusco si hanno i nomi: Leene, Leine, Lenias, Lenache, anzi quest’ultimo è tenuto per nome di Baccante dal Lanzi (indice i.°), ma anche Fabretti cita Lenei come nome di donna che non traduce, e il Poggi interpreta Lenias. come nome al genitivo. Lena etrusco è dunque probabilmente il nome proprio Lena, e se qui si preferì la versione del Lanzi fu perché essa meglio concorda col resto dell’ iscrizione. Larthia puru. — Larthia è nome tanto noto da rendere inutili i commenti : — punì ha un esatto confronto in puru sanscrito che vale — pieno, molto, abondante, — al quale corrisponde pur ebreo — pieno, molto, — uniformità, di significati la quale addita una parola della lingua anteriore agli ariani e ai semiti, la quale in pur dovè esprimere P abon-danza, il pieno, i molti , e di fatto puru sanscrito significa ancora, i molti, le genti, come il plures latino è molteplicità e il pleres greco è il pieno. Henas è voce la quale ha pochi confronti ma che può paragonarsi al vocabolo eguale sanscrito Enas, cioè: peccato, e viene da in, pure sanscrito, che è il tirare a se, stringere ec, perciò in greco enares vale impuro , delittuoso, colpevole. Veramente la voce etrusca in discorso ha una lettera tì prefissa, ma oguuno comprende che questa è una semplice aspirazione da trascurarsi, giacché nelle stesse iscrizioni etru-sche si trova: Herkle-Ercle, Herina-Erina, Helia-Elial, Hera-Era, Hece-ece, e altre molte voci scritte nei due modi 198 GIORNALE LIGUSTICO suddetti. Il De Soldanis cita dal punico-maltese una voce simile a Hetras, cioè Kemas e la traduce — saltazione e lascivia. — Qui abbiamo effigiata una saltatrice o baccante e si sa che queste non erano vestali, ma a torre ogni dubbio vi è Tezio il quale l’abbraccia, pare dunque che gli atti delle figure concordino coi significati erotici già dati alla voce henas, la quale varrà allora — lascivia, impurità, peccato, (il tirare a se), quindi la intera frase — puru henas — può tradursi: con molti lasciva; coi pili, cogli uomini peccatrice — henasa — (voluttuosa). V>2flO 2ΑΦ9Α M2\02IT : flO Ι0ΚΊ33 : 13 A(\ I : I0H>I33 U+V+ mn23>i+ I in alfabeto comune: — Tas cu — arch as i — tha tiscusn = ei — velnthi = al 1 — velnthi itu = tn — tlesnia. — Traduzione / letterale: — Deposero — nell’arca sua — l la signora dei Tisconi — nata Velnazia 1 — i Velneti — venuti al funerale — \ cogli Esnii. — In un tegolo sepolcrale di Chiusi era la iscrizione suddetta, che il Fabretti accolse nel Voi. 1, n. 2573 (c). Thas cu. — Dhà sanscrito è — porre, collocare: da esso vengono il latino do, das e l’italico dare, donare come pure il greco Tasso — stabilisco, colloco, nel quale la prefissa D. è mutata in T, forma che diveniva necessaria agli GIORNALE LIGUSTICO I99 etruschi mancando il loro alfabeto della lettera D. — perciò Dhas o Thas è il verbo: dare, porre, collocare, del quale Tbase sarebbe la terza persona indicativo pres. sing.e — Thases, o forse Tbasen, la stessa plurale, ma nessuno seppe dare finora le coniugazioni etrusche, talché senza fermarci a difendere le forme verbali or proposte basti osservare , che sovente gli etruschi scrivevano il verbo solo nell’ infinito o radice, talché Thas, sia abbreviazione o radice, vuole esprimere — danno, pongono, collocano, o forse dettero, posero collocarono. — Cu. In etrusco e nelle lingne affini: cu, chu, com, kti, suffissi (talora prefissi) esprimevano la preposizione con. Altrove si commentarono le voci : Ku-sen, Ceri-chu, e altre, ma anche il Fabret. traduce Asaku : cum ara , onde qui la intera frase Thascu vale : con-locarono , com-posero , deposero. Arch as. — Alle iscrizioni 318 e 327 supp. 3. Fabr. si trova la voce Arce, che il Corssen traduce Arca, Cassa, con deduzione dal latino Arca, qui tanto evidente da rendere inutili i commenti. La finale as secondo alcuno è un genitivo, ma forse in questo caso la s finale è il sa esprimente coniugio — insieme, di quello, onde arcba sa : nell' arca sua, nella sua cassa, nel sarcofago destinato a lei. Tha Tiscusnei. — Tha è abbreviazione nota di Thana — Diva, dama, signora, l’altro è un casato: Tiscusneia, cioè, dei 1 isconi, di casa Tisconia, famiglia la quale era fino ad ora ignota. Cosi la voce che segue: Velnthial è la gente da cui nacque 1’ estinta, la quale fu una \Mnaziale, ossia dei Velneti, stirpe nota per altri sepolcri. Velnthi è lo stesso casato — i Velneti. Itutn parola da nessuno tradotta merita considerazione. Dal sanscrito i, che è radice di andare, viene itvara — vagabondo (che va) , e tal voce ha già Γ itv o ita del testo etrusco. Di qui nasce il greco ithuo — mi spingo, mi avanzo 200 GIORNALE LIGUSTICO con impeto; e il latino andare ito, itilo, l’andata, l’andamento, la partita: itio, itum, iltis; or questi confronti valgano per itu , ma la voce in discorso ha un altro membro — tn, — abbreviazione per quanto sembra di 2 un. In sanscrito Tund vale commuoversi, ma commuoversi per un morto è farne il lutto o il funerale, quindi benché non bene si sappia se itutun sia una voce unica che coniugata esprima — andarono , vennero, — oppure due voci itu : iti sono, andata fecero: tini a commuoversi, al funerale , tuttavia è certo che questi due o il primo almeno sono i significati espressi dalla voce in discorso. Tlesnia è gentilizio notissimo registrato da Lanzi, Valeriani, Conestabile, Maggi, Gamurrini, Poggi. Alcuni lo traducono Telesina, altri Lesnia o Esnia separandone il Tl prefisso quasi articolo ; ed ambedue le opinioni essendo ammissibili non sarà necessario discutere su cosa di cosi poco momento. IMH30 NAI233 : 33 : MN3+3W : lM3>IVfl 3HIH3+: nIMUAE : 3)E+: M3q3v|$ : Κ3) Μ)Ν32ΙΨ : M3K1IOV+ in alfabeto comune: — Aules'i metelis' ve vesial ciens'i — cen fiere ni tece sans'l tenine tuthines' chisulics'. letterale: — Aulesio Metellio Vesio figlio a Vesia fu glorioso oratore — Questa statua pose a celebrar lui le decuria urbana dei cittadini. Nella base della celebre statua detta — 1’ arringatore — che si conserva nel Museo di Firenze è questa iscrizione, la quale studiata da molti e interpetrata in modi diversi contribuì a gettare la diffidenza sulle traduzioni etnische. Questo è dun- Traduzione GIORNALE LIGUSTICO 201 que il momento opportuno per fermarci a svolgere due parole di critica sulle versioni in discorso. Enumeriamone alcune , premettendo che quanto al modo di interpetrare i propri nomi dell’arringatore quasi tutti i traduttori furono concordi. Secondo Ianelli la statua — fu eretta dai duumviri al costante oratore nella fiducia di pace t riconciliazione.— Tarquini vuole che — Vdio mentre arringava titubasse, perche un grosso serpente, con occhi di fuoco, gui^ò nel passaggio del Tribunale. Conestabile, Orioli, Vermiglioli e Fabretti traducendo tutta Γ iscrizione o alcune voci di essa, quasi sono concordi nel-l’interpètrarla come — un voto fatto a Metello, sancendo la decuria di tutta la città, o la magistratura di essa. — Corssen infine varia anche Γ intelligenza dei nomi propri sui quali gli altri erano concordi : per esso non è ad Aulesio Metello che si dedicò la statua , ma fu — Aulesia moglie di Metello, che consacrò V opera fatta da Tenino Tutino scultore — !! Fermiamoci adesso un istante per esaminare questi metodi. Lo Ianelli e il Tarquini non paghi di trovare qualche parola ebrea nell’ etrusco vollero che semitica fosse tutta la lingua, e per interpetrarla ne spezzarono le parole in sillabe, poi con quei frammenti arricchiti da vocali aggiunte, composero parole ebree facendo dire alle iscrizioni ciò che è noto , ma quando invece di studiare Γ etrusco com’ è se ne crea uno ideale, non fa meraviglia che questo metodo porti i suoi seguaci a mete diverse. Corssen poi, malgrado l’amore e il lungo studio delle cose etnische, volle interpetrare come nomi propri molte voci, il significato delle quali non riusciva ad intendere, talché nelle sue versioni non solo Γ onomastica diventa monomania, ma, come premessa, sovente sforza a una falsa interpetrazione anche altre parole. Invece Orioli, Conestabile, Vermiglioli ed altri, studiando Γ etrusco con metodi semplici e sani, dettero versioni che nella sostanza con- 202 GIORNALE LIGUSTICO cordano, dimostrando così come questa antica lingua italica non sia poi tanto inesplicabile quanto da alcuno si crede. Chi detta questo commento ha F onore di accostarsi ai valentuomini da ultimo nominati e però offre una traduzione, la quale sebbene abbia deduzioni nuove, nel significato generale concorda con quelle poc’ anzi lodate. Aules'i Metelis' Ve Vesial, sono i nomi dell’oratore: significano — Aulesio Metellio Vesio prole a Vesia — e ciò vale quanto dire, che F arringatore ebbe nome Aulesio Vesio, nato da una Vesia maritata in casa dei Metelli. Clens'i. — Commentando la linea io.a dell’iscrizione perugina si disse che questa stessa voce può leggersi : eie nasi e tradurla illustre capo , preside , primate , da nasi semitico capo, preside, o da nas, neas, neach celtico, alto, elevato, nobile. Si osservò pure che la radice de corrisponde a Cleos, greco, gloria, clu, cliu, irlandese: celebrità e gloria, clen di Bardetti — chiaro, — cle-mentis, latino, quasi chiara-mente, ma che la parola clens'i, senza perdere il suo significato, può anche riguardarsi come unica quasi clenasio, cioè uomo dalla gloria, celebre, e di fatto in tal caso avrebbe analogia coll’ inglese Cle-arness — chiarezza. Forcellini cita Cledo nome romano in significato di buona fama, clueo essere nominato, stimato, celebre, cluis illustre, Cleander uomo glorioso. Clens'i esprime dunque illustre capo, chiaro preside, o semplicemente: illustre, glorioso, famoso; però in ambedue i casi bisogna aggiungere a tale epiteto la qualifica di — Oratore. — Azeramente la iscrizione non ha voce che esprima cotale qualità, ma senza cercarne 1’ omissione nella usuale brevità etrusca, è manifesto, che per coloro i quali avevano sott’occhio la statua in atto di arringare, altro non occorreva per comprendere coire la sottoposta iscrizione alludesse a un oratore ; noi che del monumento mostriamo le sole parole abbiamo la necessità di aggiungere una voce, la quale indichi F atto GIORNALE LIGUSTICO 203 della figura e perciò tradurremo Clens'i — illustre arringa-tore, glorioso oratore. Cen flerem. — Corssen, i-p. 461, traduce cen-hic. Fabr. glossa — hoc, — Conest. 176 — questo. Di fatto in etrusco vi sono mille esempi dai quali si deduce che Ce, Ceti sono pronomi, e anche di ciò si parlò a linea 7 dell’ iscrizione perugina. Flerem, Fleres', da Valeriani e Labus letto anche Pleres, e da Vermiglioli e Lanzi Phlere, Phleres' , è, secondo questi scrittori, la cosa votiva o sacrata. Passeri Par. 76-81, Conesta. 175, Fabr. Glossa del pari interpetrano flerem quasi Sacro, per dono votivo, oblazione, cosa consacrata e simili, talché tanta uniformità di opinioni ci assicura che cen flerem vale letteralmente : questa consacrazione, questa cosa votiva , e ciò a ragione perchè la statua di un uomo ne è Γ apoteosi, la semi-deificazione o consacrazione. La sua fonte è forse in plev. sanscrito onorare, coltivare, servire. Intanto però, sia perchè nelle traduzioni non sempre (stando alla lettera) si serba la chiarezza, sia perchè di certo qui la con-sacrazioue o la cosa votiva è una statua non tradurremo cen flerem — questo sacro dono, — ma sì questa statua. Tece sans'l. — Pel Fabretti Tece significa pose, ma anche Lanzi, Conestabile, Vermiglioli, Corssen, Labus videro in questa voce una terza persona del passato esprimente i verbi sinonimi — diè, pose, collocò, dedicò. — Si può ancora ossei vare che il latino dedi, dedit — letto senza F) all’etrusca è: teti, onde non ha torto il Corssen ponendo — Te _ come radice di dare, donare. Sans'-l, voce che si trova anche nell’iscrizione 1053 Fabret., è colà scritto Manu, e ciò prova che la L finale non fa parte integrante della parola , la quale ha un esatto confronto nel sanscrito Çans — celebrare — e in San — dare, onorare, — onde Sati — dono. Però tal voce ha larghi significati, giacché Sans (Çans), oltre celebrare e lodare vai pure: dire, desiderare, bramare 204 GIORNALE LIGUSTICO di ottenere. Quanto alla finale L, fu già segnalata in molte altre iscrizioni, e anche nella perugina a linea 20 lato minore. Essa esprime il pronome assai spesso, sebbene non sempre, onde Valeriani, 2, p. 231 tradusse Tbisians'i-l: sacrificando egli, perciò sebbene il Conestabile (176) interpetrasse scinsi — sanando, approvando — più correttamente potrà tradursi: celebrar lui, onorarlo. Tenine, non significa grosso serpe come vuole il Tarquini (che più esattamente suonerebbe gran pesce) e neppure una deità: Tinta, proposta da Vermiglioli, giacché Tenine è la facile voce numerale Diecina. Agevole era il dedurre questo dal latino Deni (etrusco teni) , Dieci, a Dieci, tanto più che Corssen 2, p. 470 e Fabr. Glos. registrarono, Teim due, Tei due, tenine, da Deni, dieci e decuria, onde il Conestabile, p. 176, tradusse tal voce — Decuria o Decurioni — e ciò a ragione perchè la Diecina qui altro non è che la antica magistratura municipale di dieci persone, ossia i decurioni. Tu t hi n es. — Questa voce per alcuno esprime — tutti, ognuno — per altri — tutela e città, ma forse nella sua radice vi sono ambedue i significati, giacché Γ italico ha tutto e tutore: il latino totus e tutor (tuto arcaico). Rosa, 2, p. 341, dice che tota umbro vale Gente, toticu osco pubblico. Corss. e Fabret. traducono tuta città, municipio, difatto nel tutto vi è il comune e quindi il municipio , onde sarà inutile insistere su questo tema e tuthines etrusco deve essere un plurale che indica i tutti, i comunali, gli urbani tenine cioè : i dieci della città, i Decurioni urbani. Chisulics. — Nel testo etrusco la prima lettera di questa parola (Ÿ) ha la base un poco allungata, ciò bastò per fuorviare alcuni scrittori, anzi il fertile Vermiglioli ricorse aL Ps greco per tradurla Pilulanesi. Invece le analogie fra l’osco e l’etrusco hanno qui un’altra riprova, e la coda allungata del Ch, come le sue braccia un poco aperte, sono nulla più GIORNALE LIGUSTICO 205 che una variante calligrafica della quale altri esempi si hanno in iscrizioni di Corneto. Kiiyi osco (disse il Lanzi ind. 2.“) vale — cittadini: — nell’ iscrizione osca di Bantia si ha Cevs — cittadini. Fabret. Glossa cita il sannito cevs — civico; cittadino, voci tutte annesse al latino Civis. Dunque: Chii, Kii, Civ, Cev, sono radici esprimenti Y uomo di città in osco — etrusco: Chisul è una pertinenza simile al nostro Civile'. Chisulics è la stessa resa plurale e intensitiva dal finale icei (ics), quasi: Civilicei, ossia della città, cittadini; perciò iu-thines chisulics (tenine) sono la Decuria urbana dei cittadini, ossia il magistrato civico municipale. A. Borromei. NOTA. II traduttore di queste iscrizioni seguendo le norme interpetrative delle quali superiormente dette nuovi esempi aveva composto un lessico di lingua etrusca, che voleva sottoporre all’ esame di coloro i quali dirigono gli studi in Italia, ma essi , con frase la quale potrà chiamarsi autoritaria vollero in massima dichiarare, — senza vedere il lavoro, — che — un vocabolario etrusco non merita approvazione ne incoraggiamento — Se questa decisione istruttiva è venuta alla luce affinchè mani audaci sognando di squarciare veli rispettati non giungano invece a impedire di vivere uniche e senza prole alle opere di qualche benemerito lo scrivente nulla ha da replicare, ma se alcuno per avventura approvasse per se stessa cotale sentenza, sappia che non sólo si può con probabilità di buon esito interpetrare l’etrusco e farne un lessico, ma che si può ancora scrivere in questa lingua di nuovo. Certo raccogliendo le voci di tutti i monumenti finora scoperti non si ha una messe di parole capaci a esprimere tutto, nondimeno molto si può dire, e supplendo alcune poche voci, le quali fossero per ora ignote, con quelle di lingue affini (come a causa di esempio la osca) agevolmente verrà fatto di comporre un discorso in lingua etrusca. Cotesta affermazione che alcuno chiamerà stolta audacia, eccola dimostrata col fatto: ecco un discorso etrusco scritto in caratteri comuni per agevolarne la stampa. 20 6 GIORNALE LIGUSTICO VachreM cecha machapapas vesticatu heathlic ah rehte resa hu esethce iaMka paam ranch nikasi culas av sacuan senas selas pan itu metiucu ta anice ekkutn urcuscu tekkviarim cei minethu sacual svae ekas tatar curichunthe tetens tuta echi apaM. Apasht saceM cunsunei supreM farces mucet apaMtu cini itu thucenai erec pukkapit hecineal Mupens macha apaetru avt cecu acil eruku ere? huhs pitpit vetars sacual. Tatr ceiresc iute flezna erscen sutanM ichna heses suveis tutanM itutn svesisaviai skule eincu cepeitu? tisit maisve mane fac thuavils raMne. Adesso coloro i quali si dilettano ad attraversare la via di chi come sa e può si adopera a rendere intelligibile la lingua etrusca, sono pregati a rovesciare le traduzioni sopra dettate mostrando con esempi migliori e maggiori qual’ è la vera interpetrazione da darsi alle medesime ; sono pregati altresì a tradurre, o anche a correggere, il facile e breve discorso etrusco qui preposto. Se queste cose faranno sanamente e vittoriosamente chi scrive pel primo s’inchinerà alla loro sentenza, diversamente gli sarà lecito dire, che qualche nube può velare la competenza di chi presiede agli studi etruschi. ANTICAGLIE Girolamo Tiraboschi ha osservato come il primo nodo dell’ amicizia onde si strinsero Cola da Rienzo e Francesco Petrarca stia riposto, per avventura, nello spirito d’ investigazione delle antichità che ebbero entrambi comune. Di Cola scrive infatti l’anonimo autore della Vita di lui (i), che tutta la die si speculava negl’ intagli di marmo li quali giacciono intorno a Roma; e di messer Francesco sappiamo che fu il primo a radunare un medagliere imperiale romano (2). Ma dal Petrarca e dal Rienzo 1’ amore delle antichità non tardò molto a diffondersi, per un concorso di favorevoli con- (1) Capitolo I. (2) Tiraboschi, Stor. Letter.; Modena, 1789 segg.; vol. V, p. 123,400. GIORNALE LIGUSTICO 207 dizioni, negli italiani. E di vero, chi ripensi all’entusiasmo con cui gli eruditi nostrani del secolo XIV, e molto più del XV, andavano in traccia de’ codici greci e latini, o si votavano allo studio dei medesimi, non tarda a convincersi che la ricerca degli antichi monumenti rappresentava il complemento necessario delle loro indagini e dei loro lavori. Così accadde che ai viaggi sino allora intrapresi per ispi-rito di religione 0 di commercio , si associassero le peregrinazioni scientifiche ; e per buona parte del secolo XV le provincie del vecchio Orbis terrarum fossero indefessamente visitate da uomini intesi a cercarne i templi , i sepolcri, le statue, le iscrizioni, le medaglie, ecc., con animo di trasportare o disegnare tutti cotesti avanzi, secondo che la natura dei medesimi, i mezzi ed altre ragioni venivano consigliando. Ciriaco d Ancona, del quale io studio le molteplici relazioni coi genovesi, può riguardarsi come il primo de’ viaggiatori-archeologi. Istruito nel disegno e nella pittura, « dimostrò gran curioistà d’ ingenio (scrive Leandro Alberti) a trascorrere quasi per tutta Europa con parte dell’ Asia e dell’Africa, per vedere l’antichità et degne opere che l’aveva ritrovate. Et quelle ritrovate, non solamente le scrivea , ma altresì con li veri et certi lineamenti le effingeva et disegna™..... Et essendo interrogato della cagione per la quale tanto s affaticava , rispondeva : Per far risuscitare i morti ». Certamente risposta di tant’uomo degna (1). Da somiglianti viaggi originarono gli scavi, i gabinetti, le gallerie ; e di tal guisa gli italiani, tornati in pos- (1) Alberti, Descriitione di tutta V Italia; Venezia, 15 51 ; p. 133, E prima dell’Alberti, Flavio Biondo nell’Italia illustrata (Basilea, 1531 ; p. 339): Monumenta investigando vetustissima, mortuos, ut dicebat, vivorum memoriae restituebat. 20S GIORNALE LIGUSTICO sesso di tanta parte dell’ antica coltura , diventarono ben presto, come osserva il Burckardt, « la nazione più avanzata del mondo ». L’ antichità dominò tutti i sentimenti, e diede le forme per le quali essi si manifestano : Eugenio IV e Nicolò V fecero poi salire Γ archeologia sul trono dei papi ; ed il secondo specialmente, gloria nostra, vi accese quello spirito monumentale, che è una fra le più spiccate caratteristiche del suo tempo (i). Appunto un grande amico di Ciriaco Anconitano occorre primo nella serie dei genovesi collettori di antichità : dico Andreolo Giustiniani, dei maonesi di Scio. Di già Francesco Scalamonti lo chiamava doctus et diligentissimus vetustatum cultor (2) ; e più tardi il nipote di lui Agostino Giustiniani così ne scriveva al celebre vescovo di Brugnato, Filippo Sauli: Avtts meus paternus.... vir fuit praeditus plurimis, cum · fortunae, tum animi bonis atque virtutibus. Sed non esi dictu facile quantopere hospitalitate venerandus senex delectaretur. Et cum amicos omnis generis humaniter lauteque acciperet, in primis tamen litteratissimos quosque complectebatur. Qtitn vero Ambrosius Camaldulensis monachus.... rediens e peregrinatione Constati-tinopolitana quam, literarum gratia graecarum, cum Guarino et Philelpho obierat, forte fortuna in insulam nostram Chium divertisset, exceptus honorifice apud avum, non prius ab eo discessit, quam illi libellum pulcherrimum, de animorum immortalitate, de graeco xn nostrum verterit sermonem. Ratus, ut arbitror, eo munere tanto amico referre gratiam , quod sciret illum omnium bonarum artium studiosissimum, in cuius nimirum bibliotheca ad duo milia librorum volumina habebantur. Numerus certe in domo (1) Burckardt, La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia ; Firenze, 1876; vol. I, p. 243 segg. (2) Vita Kyriaci Anconitani; presso il CoLUCCl, Antichità Picene, voi. Χλ, p. LXXVII. GIORNALE LIGUSTICO 209 privati civis non contemnendus, eo tempore, quo libri non stamneis characteribus uti nostra aetate, sed manu magna quidem impensa scribebantur (1). Lo stesso Ambrogio Camaldolese, scrivendo a Nicolò Niccoli, dottissimo e munificentissimo fiorentino, il quale avea la casa piena di statue e di altri cimeli, rammenta nummos aureos vetustissimos ed altre varie preziose reliquie del vecchio tempo, raccolte del pari da Andreolo Giustiniani (2). Il quale di una parte di essi, come è palese per una lettera indirizzatagli da Poggio Bracciolini, avea poi fatto omaggio a papa Eugenio ; Dona tua pontifici, me intermedio, sunt reddita , quae ille grato animo cepit: dispensationem pro filia tua nubenda ego solus procuravi, etc. (3). Anzi a udire Jacopo Bracelli, che gli scriveva il 2 luglio del 1440, bisognerebbe credere che Andreolo di quelle sue anticaglie si fosse poco men che spogliato. Perocché il latinissimo cancelliere della repubblica ge- (5) -Ene.e Platonici grata christianissimi, De immortalitate animorum, deque corporum resurrectione aureus libellus, cui titulus est Theophrastus (s. 1. a.). Ivi dedica : Aug. Justinianus genuensis praedicat or ii ordinis Philippo Saulo Brugiuitensi Episcopo, con data: Bononia, Calend. Aug. M' D- XIII. Intorno al dialogo si vedano le Epistolae Ambrosii Camaldulensis, lib. XXIII. 2 , e lib. XXV. 34. Il Mehus , nella Vita di esso Ambrogio (pag. 391) cita della versione del Camaldolese più esemplari mss. in Firenze; questo Ira gli altri, in fine del quale si legge: Aeneae Sophistae viri clarissimi Dialogus finit, scriptus manu Nicolai Ugolini in insula et civitate Chii MCCCCLXXII1. Ed a proposito dello scrittore, aggiunge Io stesso Mehus : Quamplures enim auctores tam veteres quam recentes tum « in insula et civitate Chii », tum n in castro seu civitate Galatae, alias Perae », excripserat eodem anno Nicolaus Ugolinus, eorumque codicem Ugolini manu scriptum Gaddiorum adservabat Bibliotheca. (2) Ambr. Camald. Epistolae, lib. VIII. 35. (3) Poggii Florentini Opera; Basileae, 1538; p. 329. Data: Ferrariae die 1/ mensis maij (1440). Chi fosse Ia filia nubenda, fra sette che ne ebbe Andreolo, mi rimane incerto. Gio**. Ligustico. Anno XIII. .. 210 GIORNALE LIGUSTICO novese cosi gli parla: Piget me, quod dclitias tuas marmorea signa petierim; inopem enim te , quod ignorabam , earum rerum liberalitas fecit. Itaque oro te, desinas statuam ad me mittere: si quis vero casus effecerit, ut eiusmodi statuarum copia tibi sit , tunc patiar, ut electo aliquo Phidiaco vel Polycletico opere, meas aedes, quae tuae sunt, exornes (i). Non sia cagione di meraviglia questo accenno così risoluto ai due grandi maestri dell’ arte greca. L’ entusiastica ammirazione del bello antico rendea corrivi nell’ attribuire alle opere, che i viaggi o gli scavi rimetteano in aperto, una paternità rispettata, acciò valesse ancora ad aumentarne il culto, si come può vedersi , ad esempio, dalle lettere di Poggio al Niccoli. Appunto in una di queste il Bracciolini spiega il suo giubilo, perchè trate Francesco da Pistoia, mandato in Grecia da Eugenio IV, gli scriveva di avere acquistate per lui tre teste in marmo di Giunone, Minerva e Bacco, scolpite da Policleto e Prassitele. Sebbene Poggio mostravasi restio ad accattargli fede: De nominibus sculptorum nescio quid dicam: graeculi, ut nosti, sunt verbosiores, et forsan ad vendendum carius haec finxerunt nomina (2). Se non che il frate era in questo caso più mendace e traditore di tutti i grecu^i; come è da vedere nella lettera del Bracciolini al Giustiniani poco avanti citata (3). (1) Æneæ Platonici De immortalitate etc.; Genuae, apud Jo. Mariam Farronum, MDCXLV; p. 89. — Noto in questa ristampa il ritratto di Andreolo, a guisa di cammeo, posto in capo alla dedica di Ambrogio Camaldolese : mezzo busto, seminudo, a sinistra, con berretto ; e intorno : hic ■ d * ANDREOLi * IVSTINIANI. Sconosciuto all’Avignone, Medaglie dei Liguri, ecc. (2) Poggii Epistolae, editas collegit etc. Th. de Tonellis·, Florentiae, 1832; lib. IV. 12. Ma ved. anche lib. cit., ep. 15 e 18. (3) Poggii Flor. Opera; Basil. 1538; p. 329. GIORNALE LIGUSTICO 21 I Ma a proposito di scavi, come potremmo tacere di quelli che in servizio dell’ archeologia, e più a satisfazione di private cupidigie, furono impresi nel secolo XV, ο forse anche prima, sul confine orientale della signoria di Genova, nel territorio della distrutta Luni? Un breve ragguaglio datone dal prof. Neri ci informa che i capitani mandati a governare la città di Sarzana sullo scorcio del detto secolo, nel quale essa fu soggetta ai fiorentini, aveano da Lorenzo il Magnifico speciale istruzione di comperare per lui tutte le anticaglie che si trovavano a Luni ; e che nell’ opera li giovò molto Antonio Ivani, umanista assai maggiore di sua fama , e di Lorenzo amicissimo. Il quale Ivani, scrivendo nel marzo del 1474 a Donato Acciaioli come un tale scultore di marmi, per nome Matteo, avesse poc’ anzi acquistato da un rustico scopritore un Ercole in bronzo dell’ altezza di mezzo cubito, ed una corniola esprimente una testa virile con lineamenti onde non si erano mai veduti i più vivaci, porge giusto argomento all’amico mio di domandare se in cotesto statuario non sia per avventura da riconoscere il celebre Matteo Ci-vitali (1). I cronisti sarzanesi dànno al cardinale Filippo Calandrini, nipote di Nicolò V, la mala voce di avere spogliato di marmi Γ anfiteatro lunese in servizio del suo duomo di Sarzana. Ma veramente la memoria del porporato , va scagionata da buona pezza di questo gravame; imperocché già Carlo Promis ha dimostrato che 1’ anfiteatro era costrutto con grosse scaglie della bruna arenaria del Corvo , nè aveva ornamenti (1) Neri, Anticaglie di Luni; in Giornale Ligustico, a. 1882, p. 425.— Braggio, Antonio Ivani; in Giorn. cit., a. 1885 , p. 562-65. L’Ivani, già beneviso a papa Nicolò V, aveva per commissione di lui nel 1450 portata la rosa d’oro al doge Lodovico Fregoso. Ved Raynaldus, Annal. Eccles., ad ann., § XIX. 212 GIORNALE LIGUSTICO marmorei ; e di recente il Neri ha allegate a rincalzo nuove ragioni (i). Piuttosto sia lecito il chiedere, se fra le spogliazioni onde videsi incolpato il Calandrini, si debba rassegnare la statua in marmo di un Tritone, la quale essendo stata trovata appunto in ruinis Lunae, venne stimata degna di custodia nella cattedrale di Sarzana; dove poi fu rubata circa il 15io, sì come recita un atto di quegli anziani, passando a Lucca in potere di Nicola Tegrimi. A me la risposta affermativa sembra molto probabile (2). Nè alcuno pensi alla profanazione, se la statua si volle custodita entro le mura del santuario; perocché qui non è da vedere che un portato naturale del Risorgimento. Ciriaco d’Ancona , certo il più castigato fra gli eruditi del suo tempo , chiamava Diana la Madonna; Donato Benti popolava di Nereidi la tazza battesimale di Pietrasanta, e nella cantoria del nostro S. Stefano figurava la storia d’Orfeo; il Cosini ed li Montorsoli decoravano di mostri marini la cantoria di S. Matteo, e vi fingeano Giove fulminatore. Di altri due genovesi, collettori 0 studiosi d’ antichità, abbiamo pur notizia pel secolo XV : Cipriano De Mari ed Eliano Spinola. Il primo, segnalatosi del 1435 sotto il comando di Biagio Assereto nella famosa battaglia di Ponza, andò nel 1443 a Tunisi, console dei mercanti genovesi in quel regno , donde tornò sui principi del 48, in cui venne sostituito da Giannotto Saivago (3). Ora Cipriano, che Ci- (1) Promis, Ment, di Luni, p. 93 , 96-97. Meri, Del Palalo del Comune di Sarzana ecc., in Giorn. Lig. a. 1875, p. 230. — Sul Calandrini ed il suo palazzo in Roma, oggi Fiano, ved. un articolo di Alfr. Reumont nel Repertorium fur Kunstwissenschaffen, a. 1885, fase. 2. (2) Neri, Anticaglie, loc. cit. (3) Ach. di Stato in Genova. — Cod. Litterarum num. 12, sotto il 9 novembre 1443 ; e Cod. Litter. num. il, sotto il 27 marzo 1448. GIORNALE LIGUSTICO 213 riaco d’Ancona , per occasione della battaglia sovra detta, ci rappresenta si come vir maritimarum rerum nautnachiarumve experientia doctissimus (1), non doveva esserlo meno nella conoscenza degli antichi monumenti. Perchè il Bracelli, scrivendo da Genova al De Mari il 28 dicembre 1447 (r44^ ? secondo lo stile comune, usando i genovesi principiar 1’ anno dal Natale), dopo di averlo salutato « generoso e dottissimo ' uomo » , lo ringrazia della bella descrizione che gli avea mandata delle antichità africane da lui con diligenza visitate; e si rallegra di aver così acquistata la certezza, che tuttavia durino i resti di molte opere altamente celebrate nei classici (2). Eliano di Carroccio Spinola, del ramo di Luccoli, lodatissimo per le ambascerie sostenute e per la carità verso la patria (di che ci ammonisce la statua scolpita da Alessandro Scala ad onore di lui nel salone di S. Giorgio), ebbe molta dimestichezza con Giacomo Ammannati dei Piccolomini, (1) Kyriaci Anconitani, De Pontiano Tarraconensium Regis conflictu navali Commentarium; presso il CoLUCCi, Antichità Picene, XV, p. CIV. — Due De Mari per nome Cipriano furono contemporanei, cioè: Cipriano qm. Giuliano e Cipriano qm. Cipriano. Ma il primo nel 1435 era già avanzato in età, trovandosi rammentato fino dal 1384 nel testamento paterno ricevuto addì 23 gennaio del detto anno dal notaro Teramo di Maggiolo ; epperò è probabile che egli sia una medesima persona con Cipriano De Mari, che il 2 agosto 1435, cioè soli tre giorni avanti la battaglia di Ponza se ne stava tuttavia in Pera nell’ufficio di podestà della colonia. L’altro di certo era più giovine : e comparisce in atti del 28 gennaio 1428, erede dei beni lasciati da Argenta sua madre insieme ai fratelli Bartolomeo e Cipriano. — Archivio di Stato : Pandette Richeriane, fo-gliazzo 5, foglio 34 col. 6, e foglio 45 col. 8. Ved. anche Atti della Soc. Lig. di St. Pair., vol. XIII, p. 203. (2) Jacopo Bracelli , Lettere, MS. sec. XV della Civico-Beriana, fol. 125. 214 GIORNALE LlGilSTICO più noto pel titolo di cardinale di Pavia, e per mezzo di questi coi pontefici Pio II e Paolo II, delle antichità amantissimi. Ce ne attestano appunto le Epistolae del cardinale, . miste alle quali ne vanno alcune di esso Eliano , dettate in una latinità forbitissima e certamente uscite dalla penna del Bracelli, si come potrà riconoscere chiunque esamini il codice, per gran parte inedito, delle lettere di quest’ultimo, in cui varie mostrano la firma dello Spinola (i). Aveva Eliano un figliuolo, per nome Domenico (non unico però , come afferma il Deza ; chè di lui era nato pur Giorgio, autore di una insigne cappella, or demolita, nella Certosa di Rivarolo), il quale, lusingato da’ frati predicatori, si era chiuso nel loro convento con animo di professarne la regola. Ego, si ea erit voluntas Dei (scriveva lo Spinola da Genova al Piccolomini in Roma, addi 26 novembre del 1464), nec velini, nec ausirn obsistere. Sed quoniam huic filio meo insunt praeclarae quaedam virtutes, quae si regulae praedi-catoriae is se addicat, segnes et inutiles fiant...., statui hanc curam in humeros Dominationis tuae reiicere, orans quo maiore possum studio, dignetur cum Pontifice maximo ea de re sermonem conferre , et orare ut dignetur hunc filium meum ad se litteris evocare, et cum in Sanctitatis Suae conspectu fuerit de vita sua id statuent quod Deo gratius et Ecclesiae utilius putaretur (2). La risposta del cardinale è un piccolo capolavoro di finezza e d’ accorgimento. Paolo II ha inteso il desiderio di Eliano ; e perchè di sua natura è misericordioso, compatisce al caso dell’ afflitto genitore , di cui vorrebbe consolare la mesta vecchiaia. A questo scopo gli manda due intimazioni : 1’ una pel figlio, 1’ altra pel superiore del convento in cui si asconde, citandoli a Roma. Qui poi si scruteranno i cuori ; e dove (1) MS. cit., fol. 27 e 42. (2) Jacobi Piccolominei Epistolae etc.; Mediolani, 1506; fol. 43. GIORNALE LIGUSTICO 215 trattisi di leggerezza giovanile, i voti paterni rimarranno soddisfatti. Sed audi (prosegue il cardinale) quae interloquendum secuta sunt : « Helianum hunc, inquit, agnosco. Vir est insignis et nobilis. Ducitur autem ea voluptate qua nos, eruditos oculos habens ad cernenda quae praeclari sunt operis. Multa conquisivit undique ex Graecia et Asia et aliis gentibus. Satisfacere solus sine suo damno nobis posset, si vellet, et hoc in uno rem omnium gratissimam facere. Donari nobis non petimus aliquod. . . . Emere mos noster est et fuit semper quae nobis desyderio sunt, ac pro re placita liberaliter pendere : optamus, operante te, hanc voluptatem nobis animi praestet, ut praecium capiens det ipse quae habet ». Videns ego quanta charitate de filio luo responderat, et quam impense peteret haec, curam impositam suscepi ut debui. Rogans vero quae qualiave essent quae esse'apud te sciret, et mitti ad se vellet, unum aliquid non designavit. Generatim autem recensuit haec : imagines sanctorum operis antiqui ex Graecia allatas, quas illi iconas vocant; aulea item, fexura acuve picta, indidem advecta. Si quid insuper vetustae picturae sculturaeve apud te esset. Vascula quoque cuiusque modi cari lapidis. Insignia porro ; torreumata et numismata ex auro et argento, ac reliqua huiusmodi quae vos vetustatis amatores melius inter vos esse in praecio scitis. N011 ignoro, Heliane carissime, amanti haec durum esse haec dare... Dices fortasse mihi : « Quid suades ut faciam ? preciosa habeo complura. Pontifici petenti rubor est vendere, damnosum donare ». Censeo, Heliane, tibi et illi una opera consulas. Elige ex his quae habes elegans aliquid quod illi des dono. Neque enim aliter sine suspicione rusticitatis potes. Reliqua ad com-mercatores tuos tibi fidos huc mitte. Omnia praesententur Pontifici, et qui offert addat : « Hoc tibi Helianus Spinula dono dat. De reliquis permittit libere ut statuas quod vis ». Exploratum mihi est nihil illum dono accepturum. Praecia cuiusque rei requiret et ex his eligens quae fuerint placita, pecuniam pendet, perinde gratias.agens ac si dono data essent omnia. Ab experimento loquor : non a prudentia. 21 6 GIORNALE LIGUSTICO Tu qui sapientis simus es, de hiis quae acturus sis sanius indica. Ego tibi obsequium filii in desyderiis tuis semper praestabo. Braevia quae accipies cum presentibus gratis concessa sunt nobis. Bene vale (i). Io mi immagino l’animo del vecchio padre combattuto da due affetti; perchè anche questo dell’antichità è un affetto vivo e vero , e profondamente sentito ; e mi domando : avrà lo Spinola seguito i consigli del cardinale, o scelta una via di mezzo, facendo semplicemente ricapitare al pontefice alcun dono ? Questa seconda mi sembra invero la risoluzione più ovvia ; e penso che papa Paolo ne sia ad ogni modo rimasto contento. Lo deduco da una nuova lettera del Piccolomini, la quale attesta il sollecito ritorno del figlio alla casa paterna, e tocca altresì di un raro contrassegno d’onore inviato ad Eliano. — Pontefex Paulus, a quo filium iam recepisti, munere ad te mittit hunc agnum Dei circunclusum auro et unionibus tredecim. Sacratus est manibus suis, et ex ilio numero sumptus, ex quo munerari reges est solitus. ... Age Pontifici gratias pro reddito filio, et pro hoc dono... Gratulor tantum redditum tibi stcstentaculum senii. Veniet quam-primum filius et tecum erit, coniugium repetens quod tam dure ante dimiserat.... Deus ex reditu suo consoletur te et illum et virginem sponsam (2). Domenico Spinola, infatti, sposò Teodora di Leonardo Lomellini; e del loro matrimonio nacque Giovanni, padre di quello Stefano che l’anno 1522, nell’avito palazzo posto sull’erta contrada dei Piccapietra ospitò Adriano VI, sbarcato di Spagna e diretto a Roma. E forse fu in cotesta dimora, che il pontefice agli autori principali del sacco inflitto poc’anzi (1) Fol. 44. Senza data. (2) Fol. 44. s. d. GIORNALE LIGUSTICO alla nostra città, chiedenti di essere perdonati, diede la celebre risposta: Nec possum, nec debeo, nec volo. L’anno 1506 rammenta un grande acquisto per la scienza dell’ antichità, cioè il fortuito rinvenimento a Isosecco della famosa Tavola di Polcevera. Ma poco mancò che l’insigne monumento, appena ricomparso alla luce, per ignoranza andasse distrutto. Il merito di avercelo conservato vuoisi dividere fra Benedetto del Porto (famiglia, originaria di Sturla) e Marino Betullio da Vercelli : cancelliere il primo della Signoria, e pubblico professore di grammatica in Genova l’altro. Furono essi infatti che ragguagliarono il Comune dell’importanza di cotesto bronzo; e dell’opera sua il Betullio fu anche rimunerato col dono di un luogo delle Compere di S. Giorgio (1). — Benedetto del Porto è l’autore di una descrizione della venuta in Genova di Luigi XII re di Francia l’anno 1502, testé ripubblicata dal Neri (2) ; suo padre, a nome Girolamo, aveva esercitata 1’ arte del tintore ; ed entrambi si trovano rammentati in una nota allegata al codicillo di Cristoforo Colombo (19 maggio 1506), dove è scritto un legato di venti ducati à los heredes de Gèronimo del Puerto, padre de Benito del Puerto, chanceler en Genova (3). Negli esordi del secolo XVI cominciarono pure, in Francia ed in Italia, ad istituirsi gli orti botanici; ed uno de’ primi, giusta la sincrona testimonianza del famosissimo Brassavola, allegata dal De Haller, fu quello inaugurato in Genova da Sinibaldo Fieschi in contiguità del magnifico palazzo di Vialata, da lui singolarmente abbellito (4). Ma io noto (1) Ved. Atti ecc., XI. 17. (2) Id., XIII. 907 segg. (3) Navarrete, Cohccion etc., vol. II, p. 315. (4) De Haller, Bibliotb. Botanica; Tiguri, 1771 ; vol. I, p. 265-66. Tiraboschi, Storia Letter., VII. 716. 2l8 GIORNALE LIGUSTICO questo di passata, e soltanto per avvertire che il Fieschi dovette raccogliere nell’ orto suo vari cimeli, sì come ne correva l’usanza: se non che tutto ebbe a trovarsi involto nella furibonda distruzione della gran casa, ordinata subito dopo la congiura del 1547 (1). Solamente nel 1871, per cagione di certi scavi, riapparvero in luce due iscrizioncelle marmoree, probabilmente del terzo secolo, poste a liberti, le quali ora si custodiscono dalVAccademia Ligustica, aspettando di passare in quel Museo patrio-archeologico, che, se bastassero le parole, sarebbe fatto da pezzo e già emulerebbe i più riputati (2). Nel tempo medesimo, o poco più tardi, due altri genovesi illustri, si davano a raccogliere ed a studiare le antiche medaglie; ma non pensino i lettori di trovarne altro che scarse notizie. Di Federigo Fregoso, arcivescovo di Salerno, cui per la gloriosa impresa di Biserta (a. 1516) toccò l’onore di tre ottave ne\Y Orlando Furioso (canto 42), ci informa Pietro Bembo nelle Lettere volgari. — « Ho ricevuto i doni vostri volentieri (così da Padova il 20 luglio del 1532), come debbo e come soglio, chè oggimai è cosa molto antica 1 essere da Voi donato: dico le medaglie d’argento, belle assai, come che io abbia delle altre medaglie che Voi donate mi (1) Dai Cartolari della Repubblica per gli anni 1547-48 (Arch. di Stato) risulta che la demolizione del palazzo di via Lata fu eseguita dal capo d’opera Domenico Ponzello, il quale, a spedirsene meglio usò le mine. Ma l’area, dopo novantanni, non era per anco sgombra del tutto dalle macerie, leggendosi nel Manuale dei decreti del Senato pel 1637, sotto il 9 di marzo: Praestantis simi Patres Communis possint, si ita eis videbitur, ni. et r. Paulo Flisco impartire licentiam, tollendi rudera ac coetnenta , per eum petitam, circa ruinam palatii diruti prope ecclesiam S. Mariae in via Lata, eaque versus Cavam vel Rochetam in mare proiciendi (Arch. cit.). (2) Atti, XI. 3-4. GIORNALE LIGUSTICO 219 avete.... Non vorrei che Voi pigliaste cura di donarmi più cosa alcuna con vostra gravezza; chè m’avete donato cotanto per lo addietro » (1). E se il Bembo dicea le medaglie « belle assai », metto pegno che tali doveano essere veramente; perch’egli di coteste anticaglie mostravasi intendentissimo; e ne era poi così appassionato, come si può vedere per la lettera a Flaminio Tomarozzo (23 agosto 1542), che comincia : « Io non posso più oltre portare il desiderio che 10 ho di rivedere le mie medaglie » ecc. (2). L’altro genovese è Raffaele Saivago, cavaliere gerosolimitano, segnalatosi nella difesa di Malta contro i turchi Tanno 1565 ; e del quale, se gli fosse bastata la vita, avremmo pure la Storia di quella religione, che fu poscia composta dal Bosio, giovatosi (non so fin dove) delle schede dal Saivago lasciate. L’ Oldoini aggiunge che Raffaele scrisse anche parecchie memorie intorno gli antichi nummi, ed afferma di averle egli stesso vedute in Roma presso Francesco Angeloni, 11 noto autore della Storia Augusta illustrata colle medaglie (3). Era il Saivago in molta dimestichezza con Annibai Caro; e pero questi, che dall ordine di S. Giovanni godeva pingue commenda, scriveva appunto al nostro (di Roma, il 24 aprile dell’anno testé citato) scusandosi del non tenere l’invito fattogli di accorrere anche lui alle difese. — « Mando a V. S. procura in persona sua...., con autentico istromento a pro-vàre la inabilita mia a comparire. V. S. durerà poca fatica a far che la scusa sia accettata ; perchè lo stato mio non solo è scusabile, ma compassionevole, essendo ormai sessagenario (1) Bembo, Lettere volgari; Venezia, 1729; vol. Ili, p. 41. (2) Op. e vol. cit., p. 266. (3) Soprani, Scrittori Liguri, p. 248. Oldoinus, Athenaeum Ligusticum, p. 485. 220 GIORNALE LIGUSTICO e con tant’ altri difetti, che non solo basterebbero a farmi cacciar di costà, quando io vi fossi, non che a tollerar che io non ci venga. Pensate quel che io posso far contro i turchi; che non ho pur un dente da morderli, nè occhi da vederli, nè piedi in seguitarli; e pur mentre scrivo questa, mi trovo con la podagra, Dio grazia » (i). Già con lettera del i.° luglio 1563, aveva il Caro spedite al Saivago diligenti istruzioni intorno al modo di discernere le medaglie antiche e riconoscere le moderne contraffazioni (2); ma si direbbe che proprio fra gli ardori guerreschi si svegliasse vieppiù nell’animo di Raffaele l’amore della scienza numimastica. Riscrivendogli adunque Annibaie, il 18 giugno del 1565, dopo avergli data lode perchè « si porti valorosamente, e con grande onor suo venga adoperato e riesca in cose di tanto affare », prosegue: « Quanto alle medaglie, dopo quelli ringraziamenti che io ve ne debbo, mi rallegro con voi del profitto ch’avete cominciato a fare in questa professione, nella quale vi è piaciuto di avermi per maestro; perchè sono state la maggior parte buone, nel genere loro, ma di quelle d’argento ce ne sono state fino a tre che mi sono sommamente care, perch’ io non l’avea, e non so chi altri se l’abbia.... Del resto io desidero e voglio che diventiate antiquario e medaglista ancor voi. E per voi tesaurizzo, con animo di farvi in poco tempo, per un principiante, assai ricco » (3). Anche la costruzione dei grandiosi palazzi, cui special-mente si diè mano nei secoli XVI e XVII, addusse il desiderio o la moda (chè sono spesso una cosa sola) di adornare i cortili, gli scaloni, i loggiati, con istatue di deità mitolo- (1) Caro, Lettere; Como, 1825; vol. II, p. 216. (2) Vol. Ili, p. 150. (3) Vol II, p. 204. GIORNALE LIGUSTICO 221 giche, di eroi ecc., o busti di Cesari e d’imperatrici, dei quali oggi ancora ci rimane qualche saggio. Non poche erano semplici ed anche rozze imitazioni d’arte antica; ma altre erano proprio torsi o frammenti di vecchie sculture, reintegrate da pratici ristauratori, o sole teste sovrapposte a grandi busti, ne’ quali la svariata ricchezza de’ marmi parea vendicarsi talvolta della scarsa perizia di artefici dozzinali. Non mi è noto se siasi chiesto per l’addietro donde mai tanta dovizia di anticaglie. La spiegazione è stata fornita ai dì nostri, grazie ad unq spoglio eseguito nei registri del Camerlengato di Roma dall’ operoso cav. Bertolotti (i). Ma in Roma stessa un patrizio genovese raccolse pure una insigne galleria di marmi antichi, onde oggi ancora nel palazzo architettato da Giovanni Fontana, in prossimità di San Luigi dei Francesi, si possono vedere le imponenti reliquie. La fondò Vincenzo Giustiniani, marchese di Bassano, e provvide altresì ad illustrarla con isplendide incisioni adunate in due volumi atlantici, oggi rarissimi. ·— In un codicillo al proprio testamento, il fondatore dichiarava di aver « messa e raccolta insieme la Galleria... con spesa continuata più che mediocre, non solamente pel costo delle statue, ma anco nell’ intaglio dei rami » ; e questi raccomandava al nipote Camillo Massimi, affinchè « restino nella famiglia Giustiniana di Genova », alla quale lasciava la facoltà di farli, in determinate circostanze, riprodurre colle stampe (2). (1) Giorn. Lig., a. 1876, p. 113 segg. (2) Michele Giustiniani, Lettere memorabili, num. XIV e XV. Vedasi il ritratto nella Galleria Giustiniana colla leggenda : Vincentius Justinianus Josephi f.; e la breve notizia di lui nel Athen. Lig. dell’Oldoini, p. 525. Gian Pietro Bellori, pubblicando nel 1685 in Roma la Storia Augusta dell’ Angeloni, fece pure onorata menzione del Giustiniani, affermando nella Prefazione che l’Autore era stato spesso « da non pochi stimolato, e 222 GIORNALE LIGUSTICO Rifacendoci a Genova, troviamo che Raffaele Soprani, si proponeva di pubblicare un Trattato delle antiche medaglie (i). — Bernardo Castelletti è spesso ricordato nei manoscritti del Federici, come raccoglitore d’epigrafi e d’altri cimeli (2) ; de’ quali il Federici medesimo fu a sua volta appassionato e indefesso ricercatore. Ce ne rendono testimonianza , per non dir altro, il suo testamento registrato negli atti di Francesco Castellino sotto la data delTn febbraio 1645, e il codicillo iscritto ne’ rogiti di Filippo Camere addi 26 gennaio del 1646. Col primo, oltre di legare alla repubblica un’eletta di codici e pergamene, il Federici lasciava al figlio Gian Carlo « un quadro dipinto in tavola di Raffaele Urbino, entrovi un Christo in grembo alla Madre e S. Giovanni; e più un Crocefisso di avorio in quadro d'ebano, per mano di Michel’Angelo ; e più il quadro dove è dipinta l’investitura di Martorano fatta dal re Alfonso I aH’illustrissimo Giovanni Federici attavo di detto magnifico testatore (3); e più il ritratto di detto magnifico Federico con T habito senatorio, et una Savona ad olio in quadro grande; e più un cucchiaro d’argento, che, per la memoria di detto conte di Martorano, di cui era, deve essere stimatissimo, come pur sono detti quadri per l’eccellenza delli autori che li rendono di prezzo quasi inestimabili. Di più esso magnifico testatore lascia al magnifico Gian Carlo... particolarmente dal marchese Vincenzo Giustiniani, a donar al pubblico » le medaglie raccolte, « col mezzo degl’intagli e della stampa, conforme questo generoso signore con regia magnificenza faceva incidere i disegni de' marmi e delle statue del suo palagio in due gran libri ». (1) Soprani, Scrittori Liguri, p. 248. (2) Atti, IX. 146. (3) Martorano piccola città della Calabria. — Alfonso I di Sicilia regnò dal 1416 al 1458, ma il diploma di investitura deve essere stato conceduto al Federici nel 1443. GIORNALE LIGUSTICO 223 tutte le medaglie di qualsivoglia sorte...., comprese stampe, figure e disegni...». Nel codicillo poi, rammentando il Federici « d’haver in casa una lapide marmorea di veneranda antichità romana, nella quale essendo nominata Genoa prima della natività di Christo, con indubitato argomento che fusse colonia de’ romani; per legato espresso lassa e dona detta lapide... al Serenissimo Senato..., mettendoli in consideratione, che opportuno luogo sarebbe de farla con architettura collocare sopra la porta della sala grande per di dentro, che servirebbe per architrave..., ma con molta architettura e disegno ». Accettò la Signoria questo legato, nonché l’altro delle pergamene e de’ codici; e se ne diede anche sollecito pensiero. Perchè essendo il Federici morto non, prima dell’11 marzo 1647, a’ *8 dello stesso mese uscì decreto che comandava di far subito « portare le scritture insieme col lapide nelle stanze d’uno degli Eccellentissimi di Palazzo » (1). Della epigrafe però si cercherebbe invano il testo nei documenti citati; sibbene dalle Collettame manoscritte dello stesso Federici veniamo a conoscere come essa debba identificarsi con quel marmo, che fu trovato in Tortona ed ivi stette alcun ' tempo nelle case dei nobili Cavalchini. Nè il testatore si era ingannato circa l’importanza del monumento; affermandosi essa bastantemente pel nome di Caio Mario Eliano, decurione di Genova, e forse procuratore de’ Marii e de’ Giulii nei territori di questa città, di Tortona e di Vercelli, dove, probabilmente col loro favore, ottenne uffizi e dignità muni-pali (2). Certo la lapide andò perduta nell’ incendio , che (1) Arch. di Stato. — Politicorum, mazzo IX. — Scritture della famiglia Fransona, MS. della Civico-Beriana. (2) Atti, XI. 13. 224 GIORNALE LIGUSTICO distrusse buona parte del pubblico Palazzo, e notabilmente il salone, Tanno 1777. Un’altra iscrizione romana, dove sotto un busto muliebre stanno incisi i nomi di due liberti della famiglia Sergia e di Sergio Sergiano loro figlio, trovavasi pure nell’antico palazzo dei Baliani (poi Serra) in Canneto , di fronte all’arco che tuttavia piglia nome da quella famiglia (1). Ma la casa che nell’ autore De pondere gravium diede un degno emulo a Galileo, si onorava pure di un monumento a gran pezza celebratissimo ; e niuno, amante del patrio splendore, ha per fermo potuto ancora dimenticare quel basso-rilievo di greco scarpello, esprimente la battaglia delle Amazzoni, che dai Baliani passò per dritto di successione nei Serra, e che, mentre visse Gian Carlo Di Negro, fu insigne ornamento della sua Villetta. Se non che , morto T egregio patrizio, il quale del prezioso marmo era stato solamente depositario , venne questo in possesso di men gelosi custodi ; e presto varcò i mari, nuovo trionfo conseguito dall’onnipotenza delle sterline. Lo Spon che visitò Genova intorno al 1675, rammenta il canonico Ferro che gli fece vedere « avec beaucoup de civilité son Cabinet de médaillés, de gravures et d’autres bijoux antiques ». Ma l’iscrizione che egli riferisce di un supposto maestro di musica di Tolomeo, e le altre derivate nel Muratori dalla stessa raccolta, dimostrano chiaramente nel canonico genovese uno di que’ collettori di buona pasta e di scarsa dottrina, de’ quali il Goldoni ci lasciò poi nell Antiquario il comicissimo tipo (2). (1) Atti, III. 13. (2) Spon, Voyage d'Italie.... fait en \(>Ί$ et /767; Lyon, 1678; vol. I, p. 34, e vol. 111, p. 55-36. Atti, III. 15, 342-43· Mommsen, Corpus Inscr. Lat., V. 86*. GIORNALE LIGUSTICO 225 Certo non fu della medesima lega il cardinale Giambattista Costaguta, di nobile famiglia chiavarese; del quale sappiamo dal Guarnaci che eruditioni maxime intentus numisma-tibus antiquisque fragmentis delectabatur, et Museum comparavit conspicuum. Rariores, quos quaesiverat, nummos dono dedit Petro cardinali Ottobono pronepoti Creatoris sui (1). Ad un altro cardinale genovese , Nicolò Maria Lercari , Francesco Ficoroni intitolava nel 1734 Γ opera Dei tali ed altri strumenti lusorì degli antichi romani ; e nella epistola dedicatoria rammentava Gian Tommaso, padre del porporato, così scrivendo : « Soleva egli spesso, per suo diporto, essere a vedere le poche curiosità che conservo ; siccome io ammiravo nel di lui palazzo le pregevolissime opere di scultura e pittura possedute dai suoi antenati » (2). Altrove lo stesso Ficoroni ricorda Γ acquisto da lui fatto dello « Studio di medaglie dei signori Miconi di Genova; e si compiace di avervi trovati gli elementi per convincere di errore il Vignoli, il quale avea rigettata siccome falsa una medaglia prodotta dal Seguino, esprimente nel rovescio la colonna Traiana liscia con suvvi una civetta (3). Similmente pregevole doveva essere lo « Studio di medaglie » dell’ abate Persico ; sebbene non ne rimanga (eh’ io sappia) altra memoria , da quella infuori che si trova nella (1) Il Costaguta, creato da Alessandro Vili cardinale prete del titolo di S. Bernardo nel 1690, morì in Roma l’8 marzo 1704, e fu sepolto in S. Carlo ai Catinari. Guarnacci, Vitae Ponti/., I. 351. (2) Da cotesta raccolta, passata dipoi ne’ marchesi Donghi, pervennero al R. Palazzo di Torino due bei forzieri, da me descritti nella Vita privata dei genovesi, p. 88. Spettavano anche alla medesima quei 398 cammei, disposti in otto quadri, che si accennano nel Catalogo dell’ Esposizione (genovese) artistico-arcbeologico-industrialc del 1S6S, p. 112, num. 33-40. (ì) Seguinus , Selecta Numismata antiqua; Lut. Parisior., 1665; p. 128. Ficoroni, Piombi antichi·, Roma, 1740; p. 7. Giorn. Ligustico. Anno XIII. ., 226 GIORNALE LIGUSTICO Lettera dell’ Oderico al Marini sopra una medaglia inedita di Carausio, comparsa per la prima volta nel Giornale dei Letterati di Pisa, l’anno 1782 (1). — « La scoperta di questa medaglia (scrive Γ Oderico) mi è stata un dolce compenso dell’ increscioso travaglio che esser suade Γ esaminar medaglie, logore in gran parte e mal conservate.... Di questa io vi mando il disegno, che mi ha permesso di farne il signor abate Persico, rettore di questa chiesa di S. Pancrazio, possessore dell’ originale. Questo degno e rispettabile ecclesiastico.... non lascia di amare lo studio delle antiche monete, e quante più può ne raccoglie e si tien care ». — Nessun dubbio sulla buona fede di quell’ eminente uomo che fu 1’ Oderico. Però, la medaglia, da lui reputata inedita e forse unica, era già stata pubblicata a Londra dal celebre antiquario Guglielmo Stukeley, nella Storia metallica di Carausio uscita in luce fra il 1757 e il 1759 (2). Nelle due edizioni dell’ Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova, fatte dal Ratti nel 1766 e 1780, occorrono gli accenni di più altri collettori ed amatori. — « Se cercherete, egli dice al forestiere cui si fa guida, dell’ abitazione del signor Gregorio Romairone (nei pressi di S. Matteo) , potrete ivi ricreare la vista di nobili e preziosi carnei, monete antichissime, e particolarmente delle principali consolari famiglie romane, corniole, statue , idoletti, e cose simili molto preziose e rare » (3). Giusto nell’anno 1766 Gregorio Innocenzo Romairone, figlio di Lazzaro Stefano, essendo in età d’anni 47, era ascritto alla nobiltà genovese (4) (1) Vol. XLV, p. 205-31. (2) Riprodotta anche dal Cohen, Médailles Imperiales, V. 539. (3) Ed. 1766, p. 288. (4) Della Cella, Famiglie di Genova, MS. della Blbl. Univ. Ili p. 115. GIORNALE LIGUSTICO 227 Il patrizio Giacomo Gentile, abitante nelle vicinanze di S. Luca , possedeva , oltre una « linda libreria, ... la serie di tutte le medaglie uscite nel regno di Luigi XIV, che sono trecentoventi »(1). Carlo di Gaetano Cambiaso, « signore pieno di propensione per le arti e le lettere », adunava nell’ avito palazzo di Strada nuova « libri, pitture e statue ; ed anche una ultimamente ne ha rinvenuto di rarissimo greco scalpello » (2). Marcello Durazzo, nella sua residenza di Via Balbi (ora palazzo del Re) conservava, fra 1’ altro , « due rarità che giustamente interessano la curiosità dei virtuosi amatori delle arti » : il quadro di Paolo esprimente la Maddalena in casa del Fariseo, e la testa di Vitellio (3). Oggidì la tela insigne del Veronese abbellisce la regia pinacoteca di Torino; il Vitellio, capolavoro dell’ arte romana, cresce gran pregio alla suppellettile dell’ Accademia Ligustica. Finalmente, e sempre secondo il Ratti, anche i padri Sco-lopi avevano « un museo ricco di medaglie, idoletti ed altri monumenti, utili molto all’intelligenza delle storie antiche » (4). Nè a me par dubbia l’identità sua con quello adunato da un loro confratello, il P. Pier Maria de’ Ferrari, di cui ab-biam notizia per una Dissertazione del Paciaudi sopra un titolo di Cresto Germanico, o Getulo, che appunto serbavasi in quello « eletto museo ». Anzi il Paciaudi ci rappresenta il Ferrari come <( uno degli uomini più bene intesi in ogni genere di antichità, e d ogni vetusto monumento ricercatore diligentissimo » (5). (1) Ratti, Istruì., ed. 1780, I. 132. (2) Ed. cit., I. 267. (3) Ed. cit., I. 212. (4) Ed. cit., I. 115. (5) Paciaudi, Dissertaiione intorno a una antica iscrizione. — Sta nella Raccolta del Calogerà, vol. XLII; Venezia, 1750; p. 341 segg. 228 GIORNALE LIGUSTICO Terminerò con un cenno della celebre collezione di stampe formata dal conte Jacopo Durazzo, ambasciatore cesareo presso la repubblica di Venezia. Per la Descrizione fattane da Bartolomeo Benincasa, e pubblicata in Parma coi tipi Bodoniani nel 1784, sappiamo che i primi eccitamenti a cotesta raccolta vennero al Durazzo dalla commissione datagli nel 1774 dal principe Alberto di Sassonia, di completare una ragguardevole collezione che questi già possedeva. Riuscì al nobile uomo di satisfare , nello spazio di due anni, alle richieste del principe; se non che (racconta il Benincasa) « dall’ amor preso a sì dilettevole studio, dalle tante cognizioni in lui cresciute per la lettura e per T osservazione, e da alcune stampe rimastegli... si determinò facilmente il conte Durazzo a rialzare nuovo edilìzio sullo stesso disegno; e una seconda raccolta con maggior tempo e con maggiore difficoltà, ma non con minore felicità della prima, per proprio uso compose » (1). Nè bastò all’ intelligente patrizio che la raccolta si mostrasse ricca di opere peregrine, quasi ad appagare la vanità: egli ebbe invece il nobile divisamento di « mettere, con un gran numero di belle stampe , praticamente sott’ occhio degli studiosi la storia universale della pittura e dei pittori. Questo è lo spirito, il fine principale della raccolta.... Con questo spirito ne immaginò egli il piano, ne stese Γ ordine , e cor-redolla di scritti eruditi e di letterarie ricerche ». Del che pure il Benincasa rende partitamente ragione ; non dimenticando da ultimo gli encomi dovuti anche ad una ricca disposizione materiale , e al « bellissimo aspetto in cui tutta presentasi, sotto vari colori secondo le diverse scuole, la (1) Benincasa , Descrizione della raccolta di stampe di S. E. il signor Conte Iacopo Duralo, p. 6. GIORNALE LIGUSTICO 229 serie d’incirca mille e quattrocento maestri e di trenta e più mila stampe » (1). Una medaglia coniata in onore del Durazzo rappresenta nel diritto il busto di lui, e mostra nel rovescio Apollo in un tempio, tenendo la cetra e porgendo alle tre arti i simboli onde ciascuna si annuncia, colla leggenda: Favor omnibvs idem (2). La figura di cotesta deità mitologica nella medaglia, e la cetra che sovrapposta ad alcuni fogli di musica adorna il ritratto del Durazzo, inciso dal David e perfezionato dal Vitalba (3) , mi persuadono che il munifico patrizio dovette pure nudrire affettuoso e intelligente il culto per Γ arte delle divine armonie, e che a lui medesimo è da attribuire altresì una preziosa raccolta di composizioni musicali dei più celebri cinquecentisti. Serbossi questa fino ai dì nostri in Genova, e forse tuttavia qui si conserva: le stampe da non molto hanno esulato in Germania. Del resto le spogliazioni artistiche del nostro paese si seguono e si rassomigliano; e sarà sempre così, fino a tanto che non sorga un museo patrio-archelogico, la cui istituzione cominciò ad essere invocata nei principi del nostro secolo. Ma il secolo già tramonta; e noi, pur troppo, siamo ancora alle invocazioni. L. T. Belgrano. VARIETÀ Giovanni Bologna a Genova. Dopo che Luca Grimaldi ebbe ordinata la costruzione di una cappella dedicata al Crocifisso nella chiesa di S. Francesco di Castelletto, per vetusta insigne e per splendore di monu- (1) Op. dt., p. 8, 47. (2) Atti ecc., Vili. 545, num. 222. (3) Il ritratto sta in capo alla Descri^one del Benincasa. 230 GIORNALE LIGUSTICO menti, volle adornarla con quanto di meglio potea procacciare l’arte a quei di; onde vinto dal grido che avevano levato le opere di Giovan Bologna, delle quali a gara e principi grandi, e privati opulenti cercavano di procurarsi un qualche esempio, deliberò pur egli cercar modo d’ aver a se il valoroso scultore per affidargli i disegnati adornamenti. Il gruppo delle Sabine, tanto e si giustamente ammirato, e i più recenti lavori per l’altare della Libertà nel Duomo di Lucca, quantunque a giudizio degli esperti non eccellenti (r), avevano forse meglio colpito 1’ animo del Grimaldi, e mosso in lui il desiderio di far onore a sè e a Genova sua di una qualche opera uscita dalle mani di quell’artefice. Ma come ottenere, egli privato, che il maestro, tenuto con tanta sollecitudine agli stipendi del Granduca di Toscana, venisse a suo uopo? Gli anziani di Lucca, cui avevano ricorso gli operai di S. Martino, volenterosi s’erano rivolti a Francesco affinchè loro lo concedesse per alquanti giorni, ed ei consenti (2). Or dunque non restava al Grimaldi se non seguire la via medesima. Cittadino autorevole, e parte egli stesso del governo come membro del Grande e del Minor Consiglio, salito più tardi all’ onore supremo del Dogato, agevolmente potè interporre la pubblica autorità per appagare il suo desiderio. E il 20 aprile veniva scritto al Granduca nel seguente tenore (3) : Serenissimo Signor Si bisogneria in questa città dell’industria et della presenza di Gio. Bologna scultore et architetto di Vostra Altezza per qualche pochi giorni, et perchè sappiamo per esperienza quanto la sia inclinata a fauorirci, non habbiamo uoluto manchare di significarglielo, et però la preghiamo a farci gratia di dar licenza al detto Gio. che possi venire qua per quindici (1) Ridolfi, V arte in Lucca studiala nella sua Cattedrale, Lucca 1882, pag. 164 e segg. — Varni, Ricordi di alcuni fonditori in bronco, Genova 1879, Pag· 34· (2) Ridolfi, op. cit., pag. 53. (3) Questo e i seguenti documenti furono tratti dal R. Archivio di Genova. Lettere a Principi, Minute, Mazzo 1. Lettere di Principi, mazzo 19. GIORNALE LIGUSTICO 17, l giorni, non douendoli essere molto discomodo poscia che come s’intende ha da uenire a luca, et noi sentendone molto obligo l’aggiongeremo a 1’altri, et le bacciamo le mani. Di Genoua XX di aprile 1579. A’ servigi di V. A. Alla qual lettera un mese dopo era risposto così : Illustrissimi et Eccellentissimi Signori o Giouan Bologna mio scultore et architetto ha fra mano alcune cose mie, le quali però douerà hauer finite fra pochi giorni, et all’ ora per compiacerne 1’ Eccellenze Vostre , con il mio solito desiderio di gratificarle, et far loro seruitio douunque io possa , gli concederò il venir da loro, et il seruirle per quindici giorni, che poi è necessario che torni stando 1’ opera sua del continuo impiegata in miei lauori et occorrenze : con questo m’ offero et raccomando ben di cuore all’ Eccellenze Vostre e desidero loro ogni prosperità. Da Fiorenza alli 26 di Maggio 1579. Per sentir VV. Ecc.\e El Gran Duca di Toscana. Giovanni tuttavia non si mosse che verso la metà del giugno successivo, secondo ci avverte questa commendatizia: Illustrissimi et Eccellentissimi Signori M.i'o Gio. Bologna se ne viene per seruire 1’ eccellenze Vostre conforme al loro desiderio per quei quindici giorni, et oltre a quello che farebbe per se stesso, tiene anco comandamento da me di seruirle con ogni affettione, et diligentia maggiore, et mi prometto che le habbino da restar satisfatte dell’ opera, et della vita sua. Egli ha seco un Baldassare Mornile Fiammingo suo compatriotta, che desidererebbe, in una sua causa costà, ^iu-stitia sommaria, et espedita, però lo raccomando strettamente all’ Eccellenze \^ostre, et voglio saper loro grado molto accetto d’ogni fauore, et giusto aiuto, che gli faranno porgere per la sua speditione, et raccomandandomi nella benevolentia loro con molto affetto, le desidero ogni felicità. Da Fiorenza el dì X di Giugno 1579. Per seruir VV. Ecc.xe El Gran Duca di Toscana. Giunse dunque a Genova il maestro con tutto il buon desiderio di spacciarsi entro il termine fissato; ma F esame del i 232 GIORNALE LIGUSTICO luogo dove avevano a mettersi le opere sue, e i vari ragionari a fine di render contento il desiderio del Grimaldi, coordinandolo alle esigenze dell’arte, protrassero la sua dimora in Genova d’alquanti di; chè gli accordi stabiliti per contratto ebbero sanzione il 23 di luglio (1). Per ciò alla fine spacciatosi incontanente ebbe provveduto al ritorno , procacciandosi una lettera che ne giustificasse il ritardo presso il suo Signore; e ne è questo il tenore : Serenissimo Signor Gio. Bologna scultore di cui li giorni passati V. A. ci fece gratia uenne et ha sodisfatto benissimo a quello che si desideraua, ma sopra-uenendo il bisogno dell’ industria et giudicio suo sopra certe capelle che si fabricano, si è trattenuto un poco più di quello che si credeua ; ancora che 1’ opera ricercaria per qualche tempo di più la sua presenza per certi adornamenti o figure di bronzo che ui bisognano, hora egli se ne ritorna; et però ringratiando V. Al. del fauore, la preghiamo ad hauere per iscu-sato il suddetto Gio. del tempo trascorso, et insieme concedergli che possi comandare o dare ordine a quelle figure o adornamenti di bronzo che si hanno da fare per compimento delle capelle, e con questo fine si raccomandiamo all’ Al. V. et le preghiamo felicità. Di Genoua a 27 di luglio 1579- È superfluo aggiungere che que’ gitti insigni eseguiti in Firenze, diruta la Chiesa e traversate altre vicende, ogg s’accolgono ad ornamento, non in tutto proprio, dell’aula maggiore del nostro Ateneo. A. N. Iscrizione sepolcrale di G. B. Centurione. Il ch. D. Angelo Remondini ha diretta al Prof. Belgrano la seguente : Marassi, 26 maggio 1886. Stimatissimo Signore, Coll’acclusa copia d’epigrafe, ho il piacere di comunicarle la lapide sepolcrale di Mons. G. B. Centurione, non conosciuta (1) Alizeri, Notizie dei professori del disegno in Liguria, VI, 387. GIORNALE LIGUSTICO 233 per quanto mi pare dai nostri raccoglitori (1), e che trovai a caso li 11 del corrente a Sestri (S. MariaJ, via Garibaldi num. 59, ove serve di pavimento nel portico. La S. V. sa che di questo Vescovo parlano il Casoni al 1571, e’I Simidei e’I Semeria tra i Vescovi di Mariana, e poi di Savona. Egli per manco di salute rinunciò la sede, nè più si seppe ove e quando finisse la vita; ora a ciò supplisce il marmo, il quale dicesi che già fosse in S. Francesco. La S. V. naturalmente comprende la importanza di questo marmo, e la convenienza perciò di pubblicarlo nel Giornale Ligustico anziché in altri di troppo breve durata. V. S. vede che con questa scoperta viene riempiuta una lacuna storica, ed accresciuto un documento di qualche importanza. Nella lusinga che vorrà appagare il mio desiderio, non mi resta che ringraziarla anticipatamente, e professarmi Della S. V. Devotissimo Angelo Remondini. Ecco ora 1’ epigrafe : D. Ο. M. ΙΟΑΝΝΙ BAPTISTAE CENTVRIONO DOMINICI ANNOR. XXVlI OB SINGVLAREM VITAE INTEGRITATEM A PIO V. PONT. MAX. EPO CON TRA VOLVNTATEM CREATO, CVM POST MARIANENSEM EXINDEQ.· SAVONENSEM EPIS COPATVM EX VALETVDINE DEPOSITOS, VITAM PRIVATAM DVCERET SESTRII TANDEM EXTINCTO PER STEPH. ET GEORG. FRATRES AMANTISS. EX EIVS TESTAMENTO POSITA. VIXIT ANNOS XX XXVI. OBIIT DIE XXIII MAH ANNO DNI M. DLXXXVIlI (1) La riporta il Verzellino nelle Memorie Storiche di Savona, ms. della Beriana, pag. 428; ma senza divisione di linee, e con gravi inesattezze di lezione. Il Giscardi,. Famiglie ecc., ms. ivi, II. 486, conferma poi che la lapide stava in S. Francesco, anzi « nel coro », ed aggiunge che del Centurione vi era pure la « effigie ». — L. T. B. 234 GIORNALE LIGUSTICO SPIGOLATURE E NOTIZIE Serafino Gavazzi e Bartolomeo da Comazzo ingegneri lodigiani prestano Γ opera loro fra il 1471 e il 1476 alla Spezia, a Genova ed a Savona (Arch. Stor. di Lodi, a. V. pag. 160). * * * Nel Fanfulla della Domenica (25 aprile) è comparso un articolo di Federico Donaver intitolato: La leggenda del Balilla, nel quale s’intende ristabilire la verità, spogliandola di quanto v' ha di non storicamente provato. * * * È stato pubblicato da A. Neri nell’ Archivio Lombardo (a. XIII, p. 113) uno scritto intorno alla venuta del Duca di Mantova a Genova nel J^92· * ♦ * In una seria di notizie e documenti editi di recente da Cesare Foucard (Documenti storici spettanti alla medicina, chirurgia e farmaceutica , Modena, 1885) troviamo che Battista da Genova fu lettore artista nella Università di Ferrara dal 1467 al 1469 con lo stipendio di L. 60, e dal 1469 al 1470 con L. 80. Così occorre il nome di un medico ignoto , Cisone da Genova, il quale ne 1466, 14 aprile, viene regalato dal Duca di fiorini 10 d’ oro. Assai più ci vien detto a proposito di Giovanni da Genova , appena noto di nome ; ed ecco quanto lo riguarda : « 1422, 2 luglio — Ordine della marchesana Parisina Malatesta di pagare a Rodolfo Rodolfi la spesa per andare e tornare da Padova, con otto persone ed otto cavalli, ad accompagnarvi il di Lei medico m.ro Giovanni da Genova. — 1422, 4 agosto — Alla di lei moglie la marchesana manda in dono a Padova bra\a trentatre e ιφ de cetanin aveludà negro. — 1422, 15 ottobre — Ordine della Cancelleria ai fattori d’inscriverlo a bolletta fra i salariati dal i.° agosto p. p. « Vos generales factores illustris domini nostri poni et scribi facite ad proli visionem illustris domini marchionis, egregium arcium et medicine docto-» rem magistrum lohannem de Ianua ducatorum quinquaginta auri, omni » mense, incipiendo terminum provisionis prefate in kalendis augusti preteriti » proxime. Item facite predicto m.ro Iohanni fulciri incontinenti domum suam i> pane, vino, lignis, biado ab equis et stramine, pro uno anno proxime fu-» turo, pro octo buchis et 11II equis , quos prefatus magister Iohannes tenet » in stabulo. GIORNALE LIGUSTICO 235 » Ugo de Maxpìatìs cancellarius prefati domini scripsit ». I423i 23 gennaio — 11 marchese fa anticipare all’ undici giugno p. p. l’inscrizione di m.ro Giovanni da Genova fra i provvisionati. — 1423, i.° aprile — Va a Rimini con quattro cavalli e tre famigli. — 1423, 25 ottobre — La Camera marchionale fa comprare due pelle nostrane fine, del prezzo di lire una, soldi quattro, per maestro Giovanni. — 1424, 15 gennaio — Non ottiene 1’ esenzione dalla tassa annua che dovevano pagare i provvisionati. — 1424, 13 giugno — Causa la peste, parte da Ferrara colla famiglia e va a Padova : « Parisina Marchionisa Estensis etc. « Carissimi nostri. Loè deliberado m.° Zohane da Zenoa de andare ad K Padoa cum la soa famiglia, per cagione de la peste, et nui siamo contenta; » per tanto volemo che vui li fasiati fare le bollette libere di condurre lae » decta famiglia, cum tute soe massarie, ledi, pani, el ogni altra cossa del » suo, et fasitige dare quello chel resta ad bavere da la camera nostra de le » soe provisione et dadige questo spa\amento. » Quartesane 13 junij 1424. » post scripta. Volemo che non glie fa^adi retentione dalcuna de le soe » page et dasatige quella del mexe de dexembre prossimo passato. » Factoribus nostris generalibus carissimis ». * * * Sebbene non sia pervenuta al nostro giornale, quantunque mandata ai giornali politici della città, pur abbiamo veduta la seguente importante pubblicazione: Statuto dei Padri del Comune della Repubblica Genovese pubblicato per cura del Municipio. Illustrato dall’ avv. Cornelio Desimoni. Genova, Tip. Pagano. * * * Il Bastia-Journal, nel nel suo numero del 26 maggio, contiene un articolo in cui risponde alla domanda : « Cristophe Colomb est-il né à Gênes, à Savone, ou à Calvi? » Riassume 1’ articolo di Sejus da noi già accennato (a. 1885, p. 477; e dirigendosi all’ab. Casanova, conclude: « M. Harrisse n’est pas génois, il est américain, il n’a pas plus d’intérêt à dire que Colomb est originaire de Calvi que de Gênes, il se prononce pour Gênes d’après de serieux documents. Faisons comme lui, monsieur l’abbé, et disons: Ah! c était un beau rêve (la nascita di Colombo in Calvi), mais ce n’était qu’un rêve ». 236 GIORNALE LIGUSTIGO BOLLETTINO BIBLIOGRAGICO Cornelio Desimoni. — II Libro del Barone Carutti: Umberto Bianca-mano. — Genova, Sordo-muti, 1886. È la rassegna di un libro profondamente pensato, comparso nel 1884 (Roma, Loescher) ; ma per la dottrina particolare del recensente nella materia, assume il carattere e Γ importanza di una monografia. Difatti il Desimoni non si appaga di riferire le risultanze alle quali il barone Carutti è venuto, sebbene siano notabilissime; perocché se prima di questi lo stipite della Casa di Savoia « era parso poco più che un’ ombra o di contorni incerti, egli ha saputo formarne come una persona in carne ed ossa » (p. 15). Ma accenna dove dissenta dall’ illustre autore, addu-cendone le ragioni ; inoltre aggiunge talune indicazioni di fonti, e produce dalle carte del nostro monastero di S. Stefano un inedito documento, che giova assai a confermare la vigorosa argomentazione del Carutti per sostenere, contro l’opinione del Provana e del De Sonnaz, l’identità di Adelaide moglie del duca Ermanno di Svevia con Adelaide che fu sposa del marchese Enrico di Monferrato e poi del conte Oddone di Savoia. Segnaliamo anche le cose sapientemente osservate dal Desi-moni rispetto alla primogenitura e ai diritti delle femmine nella signoria della Marca e del feudo; e raccogliendo infine dal suo scritto, secondo è nostro costume, quanto più da presso tocca alla Storia Ligustica, riferiamo qui colle sue stesse parole 1’ accenno che egli fa alle tradizioni sa-raceniche. Le quali « parvero attraenti anche a noi, quando fanciulli nei nostri monti le udivamo dalla bocca di fanciulli, e* si collegavano con una leggenda sulla costruzione della nostra chiesa maggiore. Fatti adulti, addentrandoci nella storia, meravigliammo al vedere assegnata appunto a que’ tempi l’architettura di quella chiesa , al veder questa stessa consacrata a S. Giacomo, il cavaliere leggendario contro i saraceni di Spagna. Meravigliammo anche più, trovando venerato nella nostra valle (di Gavi) S. Bovone, l'altro cavaliere leggendario contro i saraceni delle Alpi e degli Apennini ; venerato.... in armi e a cavallo, specie ad una fiera annua intitolata al suo nome, evidente resto dello accorrervi dei pellegrini riconoscenti. Ci fece sorpresa altresi leggere nel cronista Giacomo d’Acqui moltiplicate leggende saraceniche sulla Scrivia, ai pressi del paese che ci vide nascere (v. 13) ». GIORNALE LIGUSTICO 237 Henry Harrisse. — Grandeur el decadence de la Colombine, 2.* édition; Paris, 1885; ottavo, pp. 52. — La Colombine et Clément Marot, 2.° édition; Paris, 1886; ottavo pp. 38: cheζ tous les Marchands de nouveautés. Sventura gravissima percosse di fresco la Biblioteca di Ferdinando Colombo in Siviglia; è questo il soggetto de’ due opuscoli di cui diamo sopra il titolo. Il figlio minore di Cristoforo , oltre ai più noti suoi meriti di pio , di cosmografo e di dotto, fu, come ben dice Harrisse, il più grande bibliofilo del suo tempo, forse anche di tutti i tempi. Dopo aver navigato coll’Ani -miraglio alla scoperta America, ed in mezzo ai servizi che rendeva alla Spagna colla sua dottrina geografica, si diede a viaggiare pel continente; in Francia, in Germania, ne’ Paesi Bassi, in Inghilterra e in Italia, dal 1510 al 1537: ivi acquistò libri d'ogni sorta, e ne compose una Biblioteca che calcoli moderati stimano a circa 15,000 volumi; preziosa per numero e per rarità di stampe, delle quali non è sempre facile trovar nota nella storia della tipografia. Non solamente volumi di peso, come Aristotile, Isidoro, Alberto Magno, libri di diritto canonico e di filosofia scolastica, ma e specialmente una peregrina collezione di poesie, storie, romanzi di cavalleria, strambotti, canzoni in musica e per organo, ecc. (1); tali insomma di cui è ghiotto il nostro secolo, e non in tutto a torto , perchè se ne illustrano i costumi, le passioni, i momenti psicologici o drammatici, troppo soliti ad esser velati nella storia, come allor si voleva, togata e compassata. Don Fernando inoltre, da buon massaio, registrava a catalogo i libri comprati; all alto del primo e al basso dell’ultimo loro foglio apponeva il luogo e la data dell’ acquisto e il costo nelle varie monete, sempre ragguagliate al ducato d’oro che era la misura comune d’ allora ; e compreso del valore del suo tesoro, cercava farlo crescere anche dopo morte e perpetuarlo a pubblico vantaggio: donde incaricò della custodia, dopo i propri eredi, il Capitolo della Cattedrale di Siviglia, ove appunto si trova quella Bibblioteca, nota ora comunemente col titolo di Colombina. Dal novembre del 1884 in poi fece mostra sui soliti mercati dei Quais parigini una folla di libretti, che non tardò a destar meraviglia nei fini conoscitori e pel numero e per la rarità bibliografica e pel prezzo umile (1) Tra queste stampe rare sono da segnalare le due seguenti: Uno diuolo fsalmo... . composto per Madona Julia. Savona, Giuseppe de Barueri 1521 8.° got. di carte 8 con silografia. El via^o de andare in Jérusalem. Venezia, Bindoni 1522, S.° got. di carte S con 5 silografie: ignoto a lobler, Rohricht, ecc. — Una delle silografie è resa a facsimile nell’Harrisse, Grandeur ecc. 238 GIORNALE LIGUSTICO a cui si poteano comprare, infine per raschiature, guasti ed alterazioni sul primo e nell’ultimo foglio. Fu allora che il signor Harrisse, celebre per costanti, acuti e poderosi studi colombiani, si diede a scoprire la natura ed origine di quella merce ; e fattosi volontariamente buon fiscale a servizio della Repubblica letteraria, condusse un processo in tutta regola. Egli fa la storia delle vicende della Colombina, del primo suo fiore, della decadenza e del rifiorimento suo per mezzo di doni regii e principeschi ; nota i cataloghi formatine da quello incompleto di Fernando in poi, ed il buon riordinamento fattone nel presente secolo da Jose Maria Fernandez : per cui le piccole stampe e i Varia furono ristretti a 30 o 40 per volume, e alle registrazioni di Fernando sul libro fu aggiunto lo stemma della Giralda, la famosa torre moresca della Cattedrale (1). Accenna l’Autore come egli visitò la Biblioteca insieme all’antica dimora del figlio deH’Ammiraglio, aggirandosi fra i platani e i cedri che ne abbellivano il giardino (2), ed estraendone ricordi de’ quali mi fece parte in Parigi. Allora egli ottenne che tre codici più frequentemente letti ed annotati di mano di Cristoforo, venissero accomodati entro un nobile stipo costrutto a spese dell’Autore. Nè è sua colpa, se tutti i libri venuti direttamente dall’eredità Fernandina non sono ora custoditi in mobili più ricchi offerti da lui stesso. L’inchiesta sul sospettato saccheggio, malgrado gli ostacoli e le difficoltà che naturalmente s’incontrano in simili casi, pervenne ad un risultato pur troppo positivo : si scopersero sulle od attraverso alle raschiature frammenti di parole di carattere di Fernando e del noto suo stile : parole non potute far sparire del tutto, oppure obbliate tra un foglio e 1’ altro nella fretta del lavoro. Lo stemma pure della Giralda, di cui abbiamo parlato, non fu saputo cancellare dappertutto. Seguitando le ricerche, l’Harrisse potè constatare come il corpo di reato venisse appunto di Siviglia, servendo di cuscinetto a superbe tappezzerie mandate in casse a vendere a Parigi. Venendogli veduta parte delle stampe, paragonandola coi cataloghi della Colombina e colle note prese da lui stesso colà, potè descrivere nel suo primo opuscolo un centotrenta circa di quei Varia gittati nell’ indegno mercato; tutte cose del più alto pregio, ma cedute ad un prezzo relativamente vile, mostrandovisi la mala fede congiunta colla più crassa igno- (1) Lo stemma della Giralda è impresso sulla pagina del frontispizio in entrambi gli opuscoli. (2) Una stampa sincrona rappresentante la biblioteca e la dimora di Fernando a Siviglia dal i S11 al 1539 è a facsimile nel titolo dell’Harrisse : La Colombine. GIORNALE LIGUSTICO ranza. Un lotto venduto per L. 350 comprendeva un libro, un cui esemplare altra volta era salito a L. 4000: un libro avuto per L. 200, già aveva fruttato L. 5000, e così discorrendo con più altri esempi. Frattanto un altro catalogo della Colombina non finora noto, fatto bene e in buoni tempi, fortunatamente giunse alle mani dell’Autore e gli fornì agio di confermare non solo il primo giudizio, ma anche di rafforzarlo con nuovi fatti di brutte depredazioni. Così egli potè pure descrivere con maggiore esattezza i libri di quella Biblioteca, e ci prepara per una prossima stampa il catalogo di quattrocento cinquanta edizioni che colà si serbavano e non sono ancora conosciute dai bibliofili (1). Ma non alle sole stampe si limitò il guasto. Harrisse descrive quindici manoscritti rarissimi che vennero a Parigi allo stesso modo, tolti di là, colà veduti e constatati da parecchi dotti e dall’Harrisse stesso in anni recenti e fino al 1880. Questi felicemente hanno ora nobile riposo nella Biblioteca Nazionale di Francia. L’eminente suo Prefetto, il signor Delisle, con lodevole esempio offriva restituirli ai prezzi moderati che costavano; ma al Capitolo di Siviglia non parve accettare 1’ offerta. Nè bastava ancora: furono barbaramente lacerati i Messali, i Pontificali, i Salterii, per strapparne le miniature, le iniziali, i titoli : mandati anch’essi per servir di cuscinetto a merci viaggianti ed essere poi venduti sui Quais. Sono fogli di valore inestimabile, di un’ arte e scuola di cui si è perduto il magistero. L Autore ci versa sopra la sua vasta erudizione e la cognizióne più riposta del soggetto trattato; illustrando di note bibliografiche i volumi e le edizioni descritte. Cito, come speciale esempio di acuta critica, le sue ricerche sui casi e sulle edizioni di Clemente Marot. Egli continua svelando sempre meglio i segreti meandri del mestiere da luj flagellato, i ripieghi per far sparire le tracce dei guasti e delle scritture accusatrici. Sorse poi nella mente degli intermediari il desiderio di far rivivere la memoria dell origine del libro per crescerne il valore, ma senza esporsi al pericolo di guai ; onde si pensò ad un segno simbolico : Il était un petit navire Qui n’avait ja... ja... jamais navigué (1) Excerpta Colombiniana; Bibliographie de 4/0 pièces gothiques françaises, italiennes et latines du XVI siècle (i/oo-ij 59) non décrites presqu'ici soit comme texte, soit comme édition ; fort vol. in ottavo. 240 GIORNALE LIGUSTICO - Ciò che più spicca in questi opuscoli dell’Harrisse si è il brio, consueto in lui bensì, ma qui innalzato all.» più alta potenza dall’insolito avvenimento. Il suo rammarico prende un’ aria quasi lirica e si sfoga in un mordente terribile, di cui non potremmo dare che una pallida immagine. Con Benvenuto da Imola evoca lo sdegno di Dante alla vista dei codici mutili e deturpati di un monastero; e crescendo l’ira col crescere delle scoperte, intitola il nuovo scritto colla epigrafe in antico francese : Nvl repos povr le meschant. In alcune regioni della Spagna il coleoptero del tabacco entra come ladro notturno nei sigari , e vi depone 1’ uovo : questo diventerà larva e mangerà l’interno, lasciando intatto l’involucro. Non altrimenti un bibliotecario impudente oserà ritorcere l’accusa, esclamando: ecco iì volume che si vuol far credere rubato. Frattanto agiterà fra le dita un opuscolo che naviga fra le gonfie guardie della coperta : unico dei trenta o quaranta che già vi si contenevano. Pur troppo in tempi antichi la noncuranza, la polvere ed i topi fecero di grandi guasti nelle biblioteche ; Fernando stesso presentiva il pericolo per la sua, tristamente dicendo che non basterebbero cento catenacci a salvarla. Abbiamo difatti esempi storici anche noi di libri a catena mancati più o prima di altri : quasi biricchini, che educazione troppo stretta invogliò a sferrarsi e pigliare il volo. Ma i danni a tempi nostri minacciano divenire ancora più gravi e radicali. Il segreto degli archivi, l’ignoranza, la noncuranza specie di certe parti letterarie salvavano da forti tentazioni; i libri si cercavano e servivano per chi leggeva. Ora invece sono divenuti oggetti di speciale ricerca, da accogliersi solo appunto perchè singolarità, come i cavalli o altre cose che non torna nominare. Lo stesso dicasi delle monete e delle opere d’arte. Davanti alla smania di ricchi sfondolati, non che il privato, le biblioteche ed i musei pubblici, anzi anche i più grandi Instituti, sono costretti a cedere il campo. I segugi son sempre alla caccia; come l’ebreo errante, fiutano dovunque, scovano il tesoro e ne impoveriscono le intere provincie; e Dio non voglia che facciano rubare a bella posta da custodi infedeli. Con voce, che si sforzano a non far comparire tremula, dibattono i patti e vincono sempre. Ma i modesti, i scrii, che desiderano leggere il libro venuto fuori, possono morire tranquilli a digiuno: essi non violeranno colle loro dita le tranches marbrées sous l’or, e le pagine che una pasta leggera e la sopraffina eleganza parigina ricostituì immacolate. I! volume resterà invisibile, finché la collezione non sia matura per l’asta pubblica. Allora echeggieranno di liete voci le sale dell’Hòtel Drouot ; le grida del banditore si faranno sempre più alte e rapide al crescere delle offerte, e i suoni delle sterline a migliaia batteranno sul desco del commissario alla vendita. C. Desimoni. Pasquale Fazio Responsabile. 24J ESAME CRITICO DI ALCUNI DOCUMENTI RIGUARDANTI l’ ORIGINE DEL CULTO DI N. S. DEL SOCCORSO IN GENOVA (*) Persuaso che l’appurare un punto di nostra storia, qualunque sia la sua natura e il grado di importanza che possa avere, è pienamente conforme agli intendimenti del nostro Istituto; convinto che la correzione di un errore qualsiasi è sempre un tanto di guadagnato, secondo che più volte udii dalle labbra del nostro socio l’ottimo signor Cornelio Desi-moni, il cui giudizio sapete quanto pesi sulle bilance della nostra Società, mi faccio animo questa sera di mettervi a parte di un mio esame che feci sopra le origini attribuite da un pezzo in qua al culto nella nostra chiesa metropolitana dell’ immagine di Nostra Signora che oggi va sotto il titolo della Pietà e del Soccorso, — Direte: ma voi qui non siete nel vostro campo. È vero, o signori. Qui non si tratta di iscrizioni medioevali, ma il fatto intorno a cui v* invito a discutere, ma alcuni documenti su cui si appoggerebbe son bene del medio evo ; e poi anch’ io colla stampa portai già nel 1865 il mio sassolino al consolidamento di un’opinione che al presente reputo meritare riforma, aggiungendo in allora di mio qualche inesattezza alle inesattezze altrui. E non vi pare che per questo, se non per altro, quasi mi corra un obbligo di svelare io medesimo gli abbagli da me presi e forse fatti prendere così anche da altri che scrissero dopo di me? Io dunque il farò. Il farò senza voler attentare menomamente all’aureola di venerabilità che circonda quella Santa (*) Lettura fatta alla Società Ligure di Storia Patria, nella tornata del 6 febbraio 1885. Giorm. Ligustico. Anno XIIJ. Λ 2_|2 GIORNALE LIGUSTICO Immagine di Maria, aureola che io penso non dipenda per nulla dall’ aver più una che un' altra origine : il farò anzi colla speranza di giovarle , dacché il granellino benché minimo di verità parmi che sia sempre più utile e quindi da preferirsi ai paradossi anche più appariscenti : il tarò finalmente colla fiducia di non riuscire a voi e a quanti come voi amano il vero, nè presuntuoso, nè sgradito. Dunque, per entrar subito in materia, ecco che si pensa oggi intorno alla origine del culto che ha nella chiesa di S Lorenzo Nostra Signora della Pietà e del Soccorso. Si pensa e si scrisse che Essa vi è venerata con questo titolo sin dal 1399 (1). Si pensa e si scrisse che questa Immagine fin da quell’anno fu esposta la prima volta all’altare che è presso la porta laterale detta appunto del Soccorso da essa, ove al presente si venera l’immagine di Gesù Nazareno ; e ciò per opera di un canonico della Metropolitana medesima per nome Giovanni da Santo Stefano. Questi sarebbe stato in ciò come a dire l’esecutore di quanto avrebbe ordinato in testamento fin dal 1390 un altro canonico, per nome Lanfranco di Ottone. — Si pensa e si scrisse che questo canonico Lanfranco di Ottone abbia del suo peculio creato una cappellania perpetua, per l’esposizione e il culto di detta Immagine., con dote di luoghi diversi di Compere. L’altare stesso ove si dice fosse esposta l’Immagine a principio, e dove stette fino al 1808, si vuole fondato dal Lanfranco di Ottone (2) ed eretto dal canonico Giovanni da S. Stefano in esecuzione degli ordini del suo collega. Il primo a dar credito e diffusione a coteste cose mediante la stampa, per quanto mi consta, fu il canonico Carmine Cor-diviola, poi Vescovo di Albenga, in una brevissima prefazione stampata nel 1808 in capo a un libriccino intitolato : Divota Novena in onore di N. Signora del Soccorso e della GIORNALE LIGUSTICO 243 Pietà che si venera nella chiesa metropolitana di S. Lorenzo. — Ecco le testuali sue parole: « Egli è fin dall’anno 1390 che » in questa chiesa metropolitana ebbe culto ed altare proprio » Maria Santissima del Soccorso e della Pietà ; avendo ap-» punto in tal anno a 3 dicembre Lanfranco d’Ottone, altro » de' canonici di questa chiesa, ordinato con istrumento pub-» blico di fondazione fatto esso vivente per atto del Notaro » Nicolò de Telia di Riparolo, che alla Regina del Cielo » sotto il titolo di Madre della Pietà e del Soccorso si eri-» gesse una cappella , per la quale fondava egli inoltre una » perpetua cappellania con dote di luoghi diversi nella Banca » di S. Giorgio (*) affinchè fosse meglio uffiziata. Il pio di-» segno del Canonico fondatore non tardò molto ad essere » eseguito. Il Canonico di Santo Stefano diede nel 1399 prin-» cipio all’opera: e la divozione del popolo alla B. Vergine » sotto questi titoli d’allora in poi crebbe e si dilatò sempre » viemaggiormente ». Pero il Cordiviola si può dire che altro non abbia fatto se non che produrre quanto dodici anni innanzi, cioè nel 1796, in termini più brevi avea scritto un altro canonico di San Lorenzo, Tommaso Negrotto, in un suo lavoro intitolato Notizie istoriche della chiesa Metropolitana di San Lorenzo, del qual lavoro inedito è una copia nella Biblioteca della nostra Università e un’ altra nell’ Archivio di Stato a Palaz-zetto ; e sentitene il testo che sta bene : « La cappella, dice » 1 autore a pag. 23, la cappella del Soccorso, sotto il vo-» cabolo di Nostra Signora del Soccorso e della pietà è » propria della chiesa. L’ ordinò il canonico Lanfranco d’ Ot-» tone, come da testamento de’ 3 dicembre 1390 in Notaro » Nicolò de Telia di Rapallo (sic') e vi eresse una perpetua (*) L’ atto non può avere questo sproposito. La Banca di S. Giorgio fu fondata nel 1407. 244 GIORNALE LIGUSTICO » cappellania. Il canonico Giovanni di S. Stefano la esegui » nell’anno 1599; e quindi cominciò e crebbe la divozione » della B. Vergine del Soccorso, di cui vi è Γ immagine » all’ altare ». In questo narrato due personaggi sono posti in vista : il canonico Lanfranco di Ottone come fondatore della cappella e di una cappellania in suo servigio, e il canonico Giovanni da S. Stefano quale esecutore dell’ una cosa e dell’ altra. E con quali prove? Per il Lanfranco si cita un documento dal Cordiviola chiamato istrumento di fondazione, dal Negrotto testamento. E per il Giovanni da S. Stefano? Nessuna; almeno che apparisca. Sarebbe mica che qui il Negrotto abbia copiato o quasi, da altri? Perchè è a sapere, o signori, che un altro canonico ebbe ad occuparsi e a scrivere di Nostra Signora del Soccorso un cento quattordici anni prima di lui, e ne lasciò qualche traccia. È questi Marco Antonio Marana. Quando nel 1682 fu fatta la domanda al Capitolo Vaticano per la incoronazione della Madonna del Soccorso , il nostro Arcivescovo di allora dovette inviare a Roma una relazione intorno alla Immagine incoronanda e porgere una prova di sua antichità. Ad estendere questa relazione l’Arcivescovo incaricò il canonico Marana: è il canonico stesso che lo dice, scrivendo queste parole nel 2° dei due volumi MS. da lui redatti in forma di annali da servire per la storia, che si conservano nell’ Archivio capitolare di San Lorenzo: 16S} Seguì la coronazione di Nostra Signora del Soccorso...... essendo stala dichiarata miracolosa dal Capitolo di San Pietro di Roma che n ebbe la relazione che per ordine dell’Arcivescovo Giulio Vincenzo Gentile li scrissi e lui approvò e sottoscrisse. Più : è anche a sapere che per prova della antichità del culto della Nostra Madonna là nel 1682, fu inviata a Roma GIORNALE LIGUSTICO 245 una memoria di poche righe, cavata da un antico libro in pergamena, in cui si diceva che nel 1406 mori il canonico da S. Stefano, il quale fuit initium devotionis Beata Maria Virginis de Succursu. Ciò si venne a conoscere Tanno 1883 nelToccasione in cui volendo scrivere qualche cosa di analogo alla ricorrenza del secondo centenario della incoronazione di quella venerata Effigie che stava per festeggiarsi, l’autore dell’operetta intitolata Cenni storici della Immagine di Nostra Signora della Pietà e del Soccorso pubblicata per cura della Commissione, P. Luigi Persoglio, fece fare indagini a Roma; e di là per la gentilezza del Rev.m0 Pietro Wengel, sotto archivista del Capitolo Vaticano, ebbe in risposta che nel 1682 fu inviata a Roma una Relazione e l’anzidetta memoria ; che la relazione non si trova più nell’Archivio del Capitolo Vaticano, ma l’anzidetta memoria trovarsi riferita nel tomo III pag. 132 del Libro delle Madonne coronate, nonché a pag. 11 del manoscritto di Raffaele Sindone intitolato Le Sacre Immagini di Maria Vergine coronale dal Rev. Capitolo di S. Pietro in Vaticano in varie'parti d’Italia ed altrove. Libro e MS. esistenti in detto Archivio; e questa memoria essere 1’ unica che sia stata presentata a Roma a provare 1’ antichità della Immagine da coronarsi. Ora, con queste due notizie argomenterò male se dirò che probabilissimamente avrà inviato a Roma la memoria riguardante il canonico da S. Stefano colui che fu incaricato ad estendere ed inviare la relazione sottoscritta dall’Arcivescovo detta pocanzi, cioè il canonico Marana? E se fu il Marana che per prova dell’ antichità dell’ Immagine sacra scelse e inviò a Roma questa memoria del canonico da S. Stefano, non mi apporrò forse al vero dicendo che il da S. Stefano deve figurare altresì nella relazione messa insieme dallo stesso Marana con tutte quelle maggiori notizie che gli sarà venuto 2 46 GIORNALE LIGUSTICO __L fatto di raccogliere in favore della sua tesi ? E che percio forse è nella relazione del Marana, che attinsero le loro narrazioni il Negrotto e il Cordiviola fidandosi del narrato da lui ? — A me pare di no. La relazione del Marana, che oggi non si trova più nè in terra nè in cielo, voglio dire nè a Genova nè a Roma, noi non la possiamo esplorare; ma possono bene averne veduto qualche copia i detti canonici Cordiviola e Negrotto. Per la qual cosa io conchiuderò questa prima parte, quasi proemio all’esame dei documenti che ci resta da fare, con dire che le asserzioni dei canonici suindicati e di quanti seguirono costoro in questa materia, a venir fino al nostro compianto socio sig. Antonio Pitto nel volume ultimamente mandato alle stampe dopo sua morte, riposano tutte sul fatto e detto dal Marana. E se questi avesse messo il piede in fallo?..... \ ediamolo tosto, esaminando que’ documenti che ci è dato di poter esaminare. Questi sono due. La memoria riflettente il canonico Giovanni da S. Stefano stata.inviata a Roma per provare l’antichità della Immagine del Soccorso , e una copia abbastanza antica dell’ atto di costituzione della cappellania ricordata in questa memoria; i quali documenti si conservano nell’Ar-chivio del Capitolo di S. Lorenzo. Cominciamo dalla prima. In un volume manoscritto in pergamena, il quale contiene i nomi dei benefattori e gli obblighi degli anniversari, dal Marana detto Diario, e dal conte Riant per un’appendice di orazioni che ha in calce chiamato Orazionario (3), alla data 3 maggio ha quanto segue in caratteri teutonici: « M CCCC VI die III madii obiit Dominus Johannes de » Sancto Stephano canonicus et frater noster qui fuit prin-» cipium devotionis beate Marie Virginis in ista ecclesia et » constituit suam capellaniam ad altare beate Marie Virginis » et multa bona fecit huic ecclesie tam in paramentis quam GIORNALE LIGUSTICO 247 » in aliis rebus et pro cujus anima fiat unum anniversarium » in die obitus sui per sacristain qui est vel prò tempore » fuerit » (4). Queste sono nò più nè meno le parole testuali che si riferiscono al canonico da S. Stefano. Ora, o signori, cominciate a fare una osservazione. In questo tratto dove è mai la parola de Succursu? Questa parola è nella copia mandata a Roma, ma nell’originale che è a Genova non c’è. Essa fu innestata nella copia forse a modo di spiegazione, o in margine, o in nota, o nel testo _tra parentesi , credendo che vi avesse luogo , ma è e sarà sempre una aggiunta fatta quasi tre secoli dopo. Poi la parola devotionis, che dal tutto insieme si vede che fu intesa per culto, non ha qui questo significato, sibbene uno che usavasi a que’ tempi : significa compagnia, congregazione. In prova abbiatevi il seguente brano di una convenzione tra la Compagnia di San Gio. Battista e i canonici, fatta nel 1387 (a’ tempi proprio del canonico Giovanni da S. Stefano) in atti di Antonio Foglietta, della qual convenzione si trova copia nel MS. del Negrotto alla tavola 83.“ ove si dice essere nell’ Archivio di S. Lorenzo a carte 220 del Libro segnato B. C. « In nomine Domini amen. Cum temporibus retroactis » multæ et diversae quantitates pecuniæ per homines devo-» tionis seu congregationis Beati Johannis Baptistæ... erogatæ » fuerint et omni die erogentur per dictos homines dictæ » devotionis: Idcirco Canonici.... donaverunt Prioribus et ho-» minibus dictæ congregationis seu devotionis præsentibus et » futuris etc. ». Proverò più avanti come propriamente in questo senso si lia da prendere la parola devotionis della nostra memoria, intanto ora ammettetelo per un momento : e ammessolo, ecco che il periodo qui fuit principium devotionis beate Marie 24S GIORNALE LIGUSTICO Virginis in ista ecclesia si avrebbe a spiegare non già che diede principio al culto della B. Vergine del Soccorso , ma sibbene come segue : il quale diede principio alla Congregazione dilla B. Vergine in questa, chiesa. E intese e spiegate cosi queste due righe, qual relazione vedete più voi tra questa memoria e il culto della Madonna del Soccorso in S. Lorenzo ? Per sè medesime queste parole non ne mostrano più alcuna. E se non vengono in aiuto altre circostanze, testimonianze, spiegazioni e rincalzi, per sè medesime non diranno mai altro da questo in fuori, che un canonico per nome Giovanni da S. Stefano iniziò in S. Lorenzo una pia congregazione ad onore e sotto il patrocinio della Madonna. La quale Madonna potea benissimo avere qualsiasi altro titolo, che non è quello della Pietà e del Soccorso; Madonna il cui culto potea ben avere altre origini ed altra storia, che non quella del Soccorso che noi veneriamo e della quale cerchiamo. Ma questi nuovi aiuti non si affacciano. Si affaccia invece, a rincalzare quel che vado dicendo, Γ atto costitutivo della cappellania ricordata nella suddetta memoria, come notai testé, in data del i.° ottobre dell’anno 1400. — Non è l’atto originale, ma una copia abbastanza antica, come vi dissi; avrà un tre secoli e più. In esso si fa menzione dell’ altare della Madonna, della immagine posta sull’altare dal canonico da S. Stefano, della divozione che ebbe da lui gli inizi. Da questo si vengono a sapere gli arredi sacri ch’egli donò alla chiesa di S. Lorenzo a decoro della sua prediletta cappella di Nostra Signora, ed altre notizie ne emergono utilissime al nostro scopo. È questo un documento che si lega proprio in oro colla succitata memoria, vi risponde a capello e la compie e la spiega. — Io ne delibo ciò che fa al mio proposito (5). Dopo un esordio, a cui daremo un’occhiata più tardi, l’atto comincia con dire: « Ad laudem gloriam et honorem omni- GIORNALE LIGUSTICO 249 » potentis Dei creatoris et Salvatoris nostri Christi Jesu ac » Virginis gloriose Marie matris ejus totiusque Curie celestis, » et pro redemptione animarum ipsius parentum et bene-» factorum suorum in dicta ecclesia januensi ad altare dicte » Virginis gloriose, cujus capellam et truinam depingi et » connam seu majestatem supra dictum altare poni fecit » unam capellaniam in titulum perpetui beneficii constituit » et ordinavit in hunc modum : videlicet » etc. Giovanni da S. Stefano , canonico ecclesie januensis , cioè della Metropolitana di S. Lorenzo costituisce a titolo di perpetuo beneficio una cappellania in detta Metropolitana all’ altare della Beata Vergine la cui cappella et iruinam fece dipingere. Fermiamoci. Prima di tutto qui come nella memoria non occorre per niente il titolo del Soccorso. La Beata Vergine nominata qui due volte non ha titolo , o a parlar più precisamente vien detta gloriosa e niente più. Poi non si dice qui che il canonico abbia fatto costrurre questa cappella, ma soltanto che la fece dipingere. Se la fece dipingere vuol dire che la cappella esisteva già, e se l’atto nota qui la pittura che vi fece eseguire il da S. Stefano, quanto più ne avrebbe notata la costruzione se 1 avesse egli fatta costrurre. Dunque non la lece egli costrurre, ma soltanto dipingere. E quale è questa cappella di tante che ce ne ha in S. Lorenzo? È forse quella segnata dal Negrotto (e forse anche dal Marana) ove al presente è il quadro di Gesù Nazareno, dove al dire di lui e di quasi tutti fu posta a principio l’immagine di Nostra Signora del Soccorso, e vi fu lasciata fino al 1808? Cioè la quinta a destra entrando , presso la porta detta ancor oggi del Soccorso? Non penso. Senza ora dir nulla sul nome cappella, il quale sembrami non si adatti punto all’altare del Nazareno , come quello che non ha e non potè mai avere un po di sfondato ed è e fu sempre un semplice altare ad- 250 giornali: ligustico dossato al muro della chiesa, il quale corre in linea retta su quel fianco del Duomo infino al fondo, dov’ è qui quella truina che nell’ atto si dice essere stata dipinta insieme alla cappella? Truina, spiega il Padre Spotorno in una nota al Giustiniani (6), vuol dire vòlta; e generalmente, parlando di chiese, si tiene essere quel mezzo catino che copre l’abside. Dove è qui quest’abside e questo catino? Non c’è e non ci potè essere mai. Non è dunque questa. Cappella con truina non può essere nella costruzione, specialmente antica, di San Lorenzo che una delle tre in capo alle navi. Altra osservazione. All’altare della Madonna entro la cappella con truina fatta dipingere dal canonico da S. Steiano, questo canonico istituì la cappellania che è l’oggetto precipuo del documento in discorso. Cappellania in tutta torma, con ordine di eleggersi un cappellano che oltre la quotidiana celebrazione a quell’ altare debba aver cura di detta cappella ed assistere a tutti i divini uffizi della chiesa cattedrale, annoverato tra i suoi preti or si direbbe della Massa, con dotazione di luoghi scritti in capo all’ istitutore nelle compere nuove e vecchie di San Paolo, dette anche queste ultime compera magna Venetorum. Cappellania che viene rammentata dalla memoria sopra citata inviata a Roma colle parole et constituit suam cappellaniam ad altare Beata Maria I irginis. Il Nesrotto ed il Cordiviola dicono altresi che la cappella di Nostra Signora del Soccorso, fondata secondo essi dal canonico Lanfranco d’Ottone mediante l’opera di Giovanni da Santo Stefano, fu dal Lanfranco dotata di una cappellania che sembrerebbe essere stata mandata ad effetto, come tutto il resto, dal da S. Stefano quale esecutore del primo. Ma queste cap-pellanie all’ altare del Soccorso esistettero mai ? Una relazione latta dal Capitolo di San Lorenzo all Arcivescovo Cardinale Lorenzo Fiesco nel 1706 in occasione della sacra visita , della qual relazione si ha quasi una copia GIORNALE LIGUSTICO 251 o largo sunto che dir si voglia nell’ Archivio di Stato, all’articolo Altari e Cappelìanie, dice: « Cappella duode-» cima. Nostra Signora del Soccorso , propria della chiesa. » Non ha reddito alcuno. I signori Saporiti vi hanno se-*» poltura e dicono di sua pertinenza anche l’altare ». Notaste? N011 ha reddito alcuno. E la cappellania, sia o no del Lanfranco ? E la indubitata del da S. Stefano descritta nel documento che stiamo delibando? Nel 1706 la Banca di San Giorgio, alla quale furono incorporate le antiche Compere di S. Paolo ed altre molte, era in tutto il suo fiore. Le accennate cappelìanie pertanto dovevano esistere: come mai dunque il Capitolo, informando l’Arcivescovo, dice che l’altare di Nostra Signora del Soccorso non ha reddito alcuno ? Perchè , direi io, queste cappelìanie non le appartenevano ; e se ce ne ha ancora qualche resto oggidì non le appartiene. Erano e sono aderenti ad altro altare, ad altra cappella, ad altra immagine della Madonna. Ma qual immagine, dirassi, se non quella che si dice dall istitutore stesso della cappellania essere stata fatta da lui mettere sull altare e nella cappella da lui fatta dipingere: connam seti majestatem supra dictum altare poni fecit? Appunto, o signori ; ma qual titolo essa portava questa canna sen majestas ? Ne discorreremo tra poco : ma ritenete che non era la Madonna del Soccorso, della quale si disse e ancor oggi si assicura che non ebbe sinora alcun legato per un quotidiano divino servigio (7). Innanzi. — Sul finire dell’atto, dopo aver detto che il cappellano avea da tener conto della cappella e curarne la mondezza, viene soggiunto « et quantum commode et ho-» neste poterit illis de devotione Nostræ Dominae nuper ad » dictum altare instituta debeat gratificari ». Parole che da noi, i quali sappiamo che nel linguaggio del medio evo devotio sta per congregatio, sono da tradursi così: « e per quanto » comodamente ed onestamente potrà debba (il cappellano) GIORNALE LIGUSTICO » rendersi gradevole ai componenti la congregazione di No-» stra Signora istituita da poco tempo in qua al detto al-» tare ». Si potrebbe questo volgarizzamento cambiare >.on altro? Ed eccovi qui, per prima cosa, quella che io non dubito chiamare la prova del doversi spiegare per congregatone o compagnia la parola devotionis della memoria inviata a Roma. Quella memoria, si vede, e si vedrà sempre meglio in seguito, fu formolata su questo documento , sia che si abbia tenuto l’occhio propriamente al suo tenore, sia che solo alla sostanza di esso. La divozione dunque accennata in quella si riferisce alla divozione dichiarata in questo, e l una e l’altra espressione si dee pigliare nel medesimo senso. Ora in questo documento la parola devotio non può spiegarsi altrimenti che per compagnia o congregazione: dunque an^he in quella memoria. Poi, che congregazione o compagnia è cotesta? Potrebbe essere quella del Soccorso per 1 armamento contro i barbareschi? Mai più. La compagnia di N. S. del Soccorso, istituita allo scopo di purgare il mare dai corsari, nacque molto più tardi: nel 1741 a’ tempi del papa Benedetto XIV. Qui si parla invece di un consorzio che nell’ ottobre del 1400 , data dell istituzione della cappellania, era già formato. Però da poco tempo: nuper instituta; vuol dire dunque formato nel corso di quell anno o tutto al più nell’anno antecedente, che sarebbe stato il 1399· Questa data viene molto opportunamente a combinare con quella che i suindicati storici di Nostra Signora del Soccorso assegnano al lavorio del canonico da S. Stefano per il collocamento della Immagine del Soccorso in S. Lorenzo. Dico opportunamente, perchè dove è una confusione non è mai che non si trovi qualche po' di vero, e questo non salti fuori a certi punti di contatto ; e questo po’ di vero giova a provare la confusione medesima. GIORNALE LIGUSTICO 253 Ora, signori, consultiamo Giorgio Stella all’anno 1399. Egli dopo averci descritto a lungo lo straordinario commovimento avvenuto in Genova di quasi tutto il popolo, che vestito di cappe di tela girava processionalmente cantando lo Stabat water, invocando misericordia e facendo riconciliazioni e paci, ne attesta che in quell’anno 1399 nella chiesa maggiore di Genova, per riverenza a Dio e all’ alma sua Madre, fu stabilita una divota congregazione dalla quale in ogni primo sabato di ciascun mese si canta messa solennemente all’ altare della Beata Vergine di quella chiesa , e si predica ai medesimi congregati. Il suo regolamento porta tra 1’ altre cose , che in ognuna delle quattro feste della Madonna gli uomini e le donne di questo consorzio, radunati e vestiti di tela, debbono visitare cantando nel modo consueto le chiese di Genova che sono dedicate alla gloriosa Madre di Dio. Se amate sentire le proprie sue parole, eccole : « In majori Ec-» desia Januensi fuit in Dei reverentiam et ejus almæ Ge-» nitricis statutum devotionis consortium , quo omni primo » die sabbati cujusque mensis ad altare Beatae Mariae ejus » Ecclesiæ missa solemnis cantatur, illisque de ipso prædi-» catur consortio, inter quos constitutiones aliquae factae sunt, » ex quibus inter coetera est: quod omni festo ex quatuor » Dei Genitricis viri et mulieres ejusdem consortii ad in-» vicem congregati, indutique linteo, debent cantantes modo » sueto templa visitare gloriosae Genitricis Dei de janua ». E questa è la congregazione che, testimonio l’annalista Schiaffino scrittore del 1640, si diceva a’ suoi di la Divozione di Maria Vergine dell’abito bianco , e anche si disse Sancta Maria in vestibus albis. Giunti a questo punto parmi, o colleghi, che cominci a tarsi una bella luce per dipanare cosi intricata matassa. La già citata relazione del Capitolo all’Arcivescovo Lorenzo Fiesco del 1706 ci fa sapere che la cappella di Santa 254 GIORNALE LIGUSTICO Maria in vestibus albis è quella in S. Lorenzo che sta in capo alla nave in cornu evangelii dell’ aitar maggiore, fin d’ allora chiamata volgarmente del Santissimo Sacramento. Dunque è li, in quella cappella ai nostri giorni totalmente al Santissimo Sacramento dedicata, che era la truina fatta dipingere dal canonico Giovanni da S. Stefano, lì all’ altare di quella cappella che il canonico dava impulso nel 1399 alla pia congregazione dei bianco vestiti, facendosi qui principium devotionis Beate Marie Virginis. È sull’ altare di quella cappella che egli faceva porre connam seu majestatem, e ve la ponea probabilmente in servigio della congregazione da lui fondata ; la quale immagine con tutta probabilità ancora pigliò dalla compagnia medesima il soprannome di Madonna bianca o in vestibus albis. Ed è a prò di questa cappella, altare, Madonna e congregazione, che egli istituì la cappellania nel 1400. A proposito della quale cappellania ancora una cosa. Se voi leggeste da capo a fondo l’atto di sua istituzione, voi vedreste come essa è tutta cosa del canonico Giovanni da S. Stefano. Il canonico Lanfranco d’Ottone non è neppur nominato. La dotazione è fatta dal da S. Stefano con beni di sua esclusiva proprietà, come si evince fin dal primo esordire di esso atto costitutivo per le parole volensque (il detto canonico Giovanni) Deo et Christo Jesu illam facere portionem bonorum que sibi sua pietate donavit : e da tutto il contesto è chiarissimamente confermato, trovandosi in esso atto fatte riserve e ritenuti diritti non soliti ad accordarsi se non a chi fonda di proprio, ordinato un funebre anniversario per l’anima di detto Giovanni e non d’ altri, ed altre cose somiglianti. Per le quali resterebbe affatto eliminata l’idea troppo comune ch’egli, il canonico Giovanni da S. Stefano, abbia operato in sostituzione di un altro suo collega, sia stato esecutore di una ordinazione altrui, abbia infine fatto ogni cosa per adem- GIORNALE LIGUSTICO 25 5 piere al testamento del canonico Lanfranco d’Ottone. Questo atto finisce con un elenco di arredi sacri lasciati dal detto canonico Giovanni a decoro ed uso della medesima cappella, che è una delizia a leggersi. Un calice e un Crocifisso d’ argento cum. armis Gentilium Faiamonicarum et Spinularum. Un Missale collo stemma proprio et cum clavaturis IIII unciarum de argento. Una pianeta di velluto rosso cum fusto uno beate Marie cum liliis et aalU ò aureis fodrata etc. E poi drammatiche, conT è scritto là, e tu-nicelle, piviali e paramenti da vivi e da morti toti fumiti cum gramocis, cum osmadis e le armi de’ Squarciafico e poi càmisa fulata, e poi toagie e toaielte, et banchale et banchine de mis sali, et mandileta recamata, e via su questo tono altre cose non poche. Ma voi direte: a che scopo tutta quest’ultima tiritera? A che scopo? A far sempre più toccar con mano, che la memoria inviata a Roma, nella quale la cappellania è detta sua cioè del canonico da S. Stefano, suam cappellaniam, e si dà merito a questi di aver donato arredi sacri alla chiesa di S. Lorenzo, ha intima relazione con questo documento e questo con quella; e tutto affinchè non venga a nessuno il ticchio di volermi mettere questo documento in disparte, quasi possa essere estraneo alla nostra quistione. Ciò dichiarato, veniamo a conchiudere qualche cosa da tutto il già detto. 1: da conchiudere: i.° ^1C *n S· Lorenzo prima del 1399» e non dubito anche dire fino da' suoi inizi, era benissimo un altare e una cappella dedicata alla Madonna : e fu un mio errore l’avere stampato che forse non ce n’ era. 2.0 Che questo altare e questa cappella era là ove presentemente è la cappella del Santissimo Sacramento. 3." Che la Immagine venerata a questo altare e in questa cappella, comunemente indicata col solo nome Beata Mariæ 256 GIORNALE LIGUSTICO Virmiis dovea avere il titolo dell’Assunta. Me ne è indizio 6 * Γ indicazione di un testamento trovata in un inventario di carte appartenenti alla chiesa di San Lorenzo, che conservasi nell’Archivio di Stato, ed è in questi termini: ijoo: Testamentum Domini Francisci de Ambrosiis inserviens pro altare Assumptionis B. Maria Virginis. Me lo conferma la pittura che anche oggi si vede nel.semicatino o truina, per dirla all’ antica, dell’abside di detto altare fattavi eseguire dai signori Lercari dopo che, assuntone il patronato nel 1559, la ricostrussero tutta e Γadornarono senza certo ripudiarne F antico titolo, e parmi venga anche indicato nel documento del 1400 tanto a lungo già da noi esaminato nella parola gloriosae , che è annessa per due volte al nome di Maria, dicendo : ac Virginis gloriose Marie matris ejus, e poco dopo ad altare dicte Virginis gloriose; giacche mi sembra che qui il gloriose non sia un semplice addiettivo d’onore, ma si tenga luogo di titolo, come a dire Vergine in gloria, Vergine Assunta nella gloria celeste (8). 4.0 Che il canonico Giovanni da S. Stefano fece dipingere le pareti e la vòlta di questa cappella, prima che la si rinnovasse dai Lercari, e fece porre dentro di essa un quadro con una nuova immagine della Madonna. 5.0 Che nel 1399 il medesimo canonico iniziò a questo altare, in questa cappella, la confraternita (devotionem) de’ bianco vestiti; e probabilmente da questa confraternita venne il nome di Madonna in vestibus albis all’ immagine di Maria suindicata. Il qual titolo, col tempo, fece quasi dimenticare il più antico dell’Assunta. 6° Che nel 1400 il medesimo canonico istituì del suo una cappellania perpetua, da adempiersi da un sacerdote che dovea essere annoverato tra i preti del Duomo, a quell’ altare e in quella cappella, e forse a comodo di quei congregati con i quali raccomandò al cappellano di andare possibilmente d’accordo. GIORNALE LIGUSTICO 257 7.0 Che, venuto a morte nel 1406 detto canonico, i suoi colleghi in vista di questa congregazione da lui iniziata, della cappellania da lui fondata, e degli arredi lasciati alla chiesa ed altre cose, inserirono nel diario degli anniversari F onorevole memoria di lui che vedemmo inviata a Roma nel 1682. 8.° Finalmente, che la cappella già di Nostra Signora Assunta, poi di Nostra Signora in vestibus albis, rifatta dai Lercari dopo il 1559, venendo giù per centinaia di anni, atteso il custodir che si facea nel suo altare il Santissimo Sacramento, da questo pigliò il nome presso il volgo, come attestano nel 1706 a monsignor Arcivescovo Lorenzo Fiesco i canonici stessi della Cattedrale, finché nel 1821 fu al Santissimo Sacramento definitivamente dedicata. H Nostra Signora del Soccorso? Nostra Signora del Soccorso non ha nulla che fare con questo altare e cappella; nulla col canonico Giovanni da S. Stefano, nè coi documenti che lo riguardano; e F invio a Roma nel 1682 della memoria riguardante il canonico da Santo Stefano, ricavata dal Diario degli anniversari, fu uno svarione commesso da chi, distante centinaia di anni dai fatti cui intendeva provare con quella produzione, equivocò, togliendo una cosa per F altra e forzando con aggiunte importune quella memoria a dire quello che non diceva e non dice. Ma forse a questa ultima conclusione non vorreste ancora venire, 0 signori, senza aver anche esaminato il testamento del canonico Lanfranco di Ottone citato con tanta precisione dal Cordiviola e dal Negrotto. E cosi lo potessimo esaminare ! Io non dubito che ci darebbe un forte rincalzo a quanto abbiamo detto finora, e al pari degli atti del da S. Stefano si mostrerebbe affatto estraneo a Nostra Signora del Soccorso. Se è vero quel che dicono coloro che lo citano , non può essere altrimenti. Non ci vien ricantato da tutti che il suo contenuto fu mandato ad effetto da Giovanni da S. Stefano? Giorn. Ligustico..Anno XIII. 258 GIORNALE LIGUSTICO Dunque esso contenea cose analoghe a quanto fece questo suo esecutore a dirla con loro. Ma vedemmo che il fatto dal canonico Giovanni non si attiene punto alla Madonna del Soccorso : dunque nemmeno Lanfranco col suo testamento. Ma esso è irreperibile. Ogni ricerca fatta da me e da altri riuscì vana ; e credo che manchi da un pezzo. Il Cordiviola e il Negrotto, benché lo citino, non lo debbono aver veduto nemmeno essi. Se il Negrotto lo avesse veduto, mi pare che non avrebbe tralasciato di porne una copia in riga coi molti allegati dei quali sotto nome di tavole arricchì il suo manoscritto. In un fascicolo intitolato Repertorio di presso che tutte ìe scritture esistenti nell’ Archivio Capitolare di S. Lorenzo (9) , compilato un cento anni fa, capitatomi alle mani rovistando carte nell’Archivio di Stato, non figura punto. E nel 1682 credete che, se fosse esistito, se fosse stato conosciuto e fosse stato a proposito, non avrebbe avuto la preferenza per essere mandato a Roma in luogo di quella scarsa, vaga e interpolata notizia tolta dal Diario in pergamena ? Del resto non ci incresca di esso se noi possiamo avere , giacché in esso, per dirne un’altra, non potremmo assoluta-mente trovar nulla che riguardasse un’immagine la quale tardò ancora quasi due secoli a pigliar sede in San Lorenzo. Ma dunque, direte, a voi è nota un’altra origine ? Sì, 0 signori, però senza alcun merito mio. Il merito è tutto del signor Pitto il quale, dopo avere, come tutti i suoi antecessori , riportata qual origine del Santuario di Nostra Signora del Soccorso quella che ora a me sembra errata, dice di aver trovato nello Archivio Capitolare di S. Lorenzo un’altra notizia cui afferma di riferire colle stesse parole nei termini seguenti (10): « Miracolosa Immagine, così denominata non tanto per le » tante grazie compartite ai suoi divoti che ne frequentavano GIORNALE LIGUSTICO 259 » la venerazione ne’ loro bisogni, ma altresì per la costante » tradizione che fosse questa Immagine levata da un mona-» stero quasi abbandonato nella contrada di Molcento deno-» minato di S. Maria del Soccorso, restato desolato per causa » della pestilenza ; ed era vicino ad altro di S. Defendente ; » onde rimastevi sole due monache con la loro abbadessa » Luchesina de’ Micheli, estinte queste, come in notaro » Baldassarre de Coronato , restarono incorporati i loro siti » al monastero di S. Andrea; e la miracolosa Immagine fu » trasferita dai divoti in la Metropolitana ». Da questa notizia però il signor Pitto si contenta di tirar soltanto la conseguenza di una antichità per la sacra Effige al di là della immaginata fin qui, dicendo : « Dalla qual cosa » ci sia lecito dedurre come innanzi assai che non in Duomo » Ella riscuotesse pubblica venerazione ». Quasi voglia dire che questa Immagine stata posta, secondo lui e chi scrisse prima di lui dai canonici Lanfranco e Giovanni in Duomo là nel 1399, prima di questa data fosse venerata in Morcento da chi sa quanti anni , e di là la togliessero detti canonici per stabilirla nella Metropolitana. Ma io non la veggo così, e ne traggo ben altra conseguenza. Dispostissimo a concedergli che questa Immagine di Nostra Signora possa aver avuto in Morcento venerazione per lunghissimi anni al di là anche di ogni suo desiderio, io dico e dirò sempre che di là non la disagiarono menomamente i due prefati canonici nel 1399. Dirò di più, che da questa stessa notizia da lui rinvenuta si capisce che la Madonna del Soccorso venne collocata in San Lorenzo non prima del secolo decimosesto. Non è detto in essa notizia che « la miracolosa Immagine fu trasferita, in la Metropolitana » quando i « siti » dei due monasteri di Morcento furono incorporati al monastero di S. Andrea? Non vien citato in questa notizia il notaro Baldassare de Coronato? Or bene il de Coronato rogava dal 1475 al 1523, e GIORNALE LIGUSTICO si sa che la incorporazione dei due citati monasteri a quello di S. Andrea avvenne precisamente dopo il 1500, in forza della riforma dei chiostri femminili che appunto allora alacremente si promoveva nel ligure Dominio da entrambe le autorità civile ed ecclesiastica in pieno accordo tra loro. In un manoscritto, che ho ragion di credere essere del Pe-rasso (11), leggo che le ripentite· di San Defendente, le quali aveano anche la chiesa di S. Maria Annunziata e del Soccorso, furono soppresse e il loro monastero fu unito a S. Andrea : che gli atti relativi cominciarono il 22 ottobre 1502 in notaro Baldassarre de Coronato e finirono il 21 agosto 1515 in notaro Vincenzo Molfino. La chiesa per altro non fu chiusa così subito. Monsignor Bossio, visitatore apostolico, la vide ancora nel 1582, e la nomina e la dice chiesa semplice , ossia Oratorium Dominœ Maria de Succursu. Con questo, ecco la nuova derivazione tanto onorifica per la Nostra Madonna del Soccorso quanto e più di quella tenuta fino al. giorno presente per la sola vera. La Effigie sacra di N. S. del Soccorso sarebbe stata per lunghissimi anni nella chiesa del Soccorso in Morcento, donde pigliò il nome; là per grazie e tante e singolari si avrebbe acquistata una bella fama di miracolosa, e tanto grande e bella da fare che venuto il tempo di dover lasciare quella sua antica sede, i divoti non patirono che rimanesse senza culto; e perchè l’avesse giudicarono di trasportarla nulla meno che nella chiesa principale della città ed archidiocesi, forse ritenendo che ogni altra sede potesse riuscire al di sotto dei meriti suoi. Venuta così essa intorno al 1590 o 1600 nella Metropolitana con già una bella aureola di venerabilità e preso posto all’altare dei Saporiti, eccola continuare e forse crescere i favori celesti in modo da attirare a sè son per dire tutte le anime pie. Dopo quasi un secolo di sua dimora nella Cattedrale, ecco GIORNALE LIGUSTICO 261 giungere il 1682. Essa merita le corone del Capitolo Vaticano, e se ne fa dimanda. Peccato che a cento anni di distanza la memoria dell’uomo fallisca, e a provare l’antichità del culto a questa Immagine non si siano sapute produrre da chi ne ebbe Γ incarico che poche righe estratte da un Calendario, righe che non hanno che fare con essa e per giunta dovute interpolare perchè avessero corso. Se non che, mi è venuto un pensiero che io vi comunicherò per vedere se si possono conciliare le cose, ben inteso però che , salvi i punti che sono giustificati storici, tutto il resto ora dovete avere quale una mia induzione e nulla più. Il pensiero è che forse nel tratto di tempo che passò tra 1590 circa, epoca in cui l’immagine del Soccorso entrò in San Lorenzo, e il 1682 epoca in cui furono chieste al Capitolo Vaticano le corone del Legato Sforza, tra le due immagini, quella di S. Maria in vestibus albis e quella del Soccorso, per ciò che spetta al culto loro, sia avvenuta come a dire una fusione , non legale ma di fatto : di modo che agli occhi del Marana questa Immagine del Soccorso dovesse comparire come subentrata a quella in vestibus albis, ed egli si credesse di poterla tenere come una continuazione di quella. Delle trasformazioni al loro riguardo ne sono avvenute. Vediamo un po’ come potrebbe essere andata la cosa. Là dove al presente in San Lorenzo è la cappella del Sacramento era ab immemorabili la cappella di Nostra Signora Assunta. Questo è sicuro. Vogliamo ammettere che nel 1390 il canonico Lanfranco di Ottone abbia avuto il pensiero di erigere in questa cappella una pia congregazione e fondare una cappellania, ed abbia perciò in testamento disposto quanto occorreva ; supponiamo per altro ancora che questo testamento, qualunque ne sia stata la causa, rimanesse lettera morta, e per questo motivo se ne sia perduta la traccia (12). ( 2Ê2 GIORNALE LIGUSTICO Nel 1399 il canonico Giovanni da S. Stefano, non già perchè fosse designato dal Lanfranco esecutore della sua ultima volontà, ma per islancio di sua propria divozione, fa sue le idee del defunto collega, se pur ciò si può dire, e col proprio denaro ristora la cappella, dà impulso alla congregazione de’ bianco vestiti, colloca sull’altare un quadro della Madonna, istituisce la cappellania e tutto il resto che già vedemmo. Il quadro della Madonna qual titolo avrà avuto? Quello di S. Maria in vestibus albis l’ebbe dopo e in grazia del pio consorzio col quale aveva relazione; fu un soprannome; ma il nome e il titolo primitivo e vero? Io non lo so. Però, considerando che era posto a infervorare una compagnia di flagellanti, i quali ivano per le vie cantando lo Stabat Mater e invocando misericordia e pietà ; di più, sapendo che questo quadro formato a diversi compartimenti portava nel mediano e principale di questi rappresentato il Crocifìsso con appiè della croce la Vergine addolorata, rappresentanza che in altri luoghi e tempi si dice e si diceva una Pietà , m’immagino che esso quadro lo si designasse appunto con questo nome e quindi probabilmente il suo titolo fosse la Pietà o Nostra Signora della Pietà (13). Per un pezzo è grande la divozione a questa Immagine sostenuta dallo zelo della pia congregazione; ma nel corso di cento cinquantanni la congregazione scade dal primo fervore e la divozione all’ Immagine si affievolisce. Nel 1559 i signori Lercari hanno l’antica cappella dell’As-sunta, cui mettono a nuovo nel 1570. In questi lavori vien rimosso il quadro della Pietà, detto della Madonna in vestibus albis, e forse più non si rimette. Il nome di cappella di Nostra Signora in vestibus albis in forza dell’ abitudine resta ancora, perchè i nomi sono gli ultimi a scomparire; resta la cappellania; resta anche, benché languente, il consorzio, il quale anzi in questa occasione facendosi vivo chiede ed ot- GIORNALE LIGUSTICO 263 tiene dai Lercari di poter nella cappella far certe sue ufficiature (14). Ma il quadro è scomparso, e con esso se ne è ita la divozione del popolo a quella Immagine. Se non che in San Lorenzo intorno al 1590 vien collocato all’altare dei Saporiti il quadro di Nostra Signora che era nella chiesuola φ del Soccorso in Morcento. Madonna la quale, dice il Marana che a’ suoi dì si venerava sotto il titolo della Presentazione. Il popolo la chiama del Soccorso , perchè proveniente dalla soppressa chiesa di questo nome. Qualche divoto , memore dell’ antica e scomparsa Madonna in vestibus albis, che forse come dissi avea nome di Madonna della Pietà , accoppia il titolo dell’antica al volgar soprannome della nuova e comincia a chiamare la nuova Immagine col nome di Madonna del Soccorso e della Pietà. Trovandosi che questi due titoli se la dicono così bene insieme, torcendo però alquanto il senso del secondo, cioè dai dolori della Vergine alla bontà del suo cuore compassionevole, il novello intitolamento piace. Un lo dice, l’altro lo ripete, e il nuovo titolo passando di bocca iu bocca si diffonde e si rassoda. Ed ecco fusa insieme alla nuova la memoria dell’ antica, ecco la Madonna della Presentazione detta del Soccorso fatta diremmo erede della Madonna della Pietà detta in vestibus albis. Ed ecco agli occhi del Marana nel 1682 la Madonna del Soccorso essere come una sola cosa colla Madonna in vestibus albis, e quindi attribuire all’ ultima venuta ciò che propriamente è della prima. Intanto anche il nome di S. Maria in vestibus albis si dilegua affatto dalla memoria e dalla mente del popolo, e subentrato a quello si radica invece il nome di S. Maria del Soccorso e della Pietà, che col venire degli anni a noi più vicini si racconcia e si riordina nell’ altro di Nostra Signora della Pietà e del Soccorso. Che ve ne pare, o signori? Quando realmente fosse avvenuto tutto questo, al Marana , al Negrotto e al Cordiviola 264 GIORNALI- LIGUSTICO non avremmo certo da menar buoni i loro anacronismi per giunta buttati là senza nemmeno avvertircene; ma sembrami che ne vorremmo loro men male, e a noi riuscirebbe più facile il tollerarceli in pace senza però lasciare di riordinarne la storia mettendo ciascuna cosa al suo posto. Pr. Marcello Remondini. NOTE E DOCUMENTI (1) P. Luigi Persoglio della C. di G. — Cenni storici sull’ Immagine di N. S. della Pietà e del Soccorso che si venera nella chiesa Metropolitana di Genova scritti in occasione del secondo Centenario della sua Incoronazione — pubblicati per cura della Commissione.— Genova, 1883. Cav. Antonio Pitto. — La Liguria Mariana — I Santuari di Genova. Opera postuma. — Genova, 1884. Oltre gli anteriori storici e scrittori. (2) Canonico Francesco Negrotto, MS. — Giuseppe Banchero — Il Duomo di Genova illustrato e descritto. (3) Giornale Ligustico di Archeologia, Storia e Letteratura. Vol. XI, pag·. 132. Anno 1884. (4) Il documento continua ancora cosi: « Et prò anima domini Thome » de Riulario canonici similiter quando mori contigerit. Et propter hoc » anniversarium dictus dominus Thomas emit unum locum mutuorum » veterum de bonis domini Johannis supradicti et ipsius domini Thome » distribuendos inter fratres et capellanos de proventibus ipsius qui in-» terfuerint ipsius anniversarii » (forse anniversariis). (5) Istituzione di cappellania fitta da Giovanni da Santo Stefano canonico di San Lorenzo in Genova l’anno 1400, secondo che si legge in un foglio manoscritto che si conserva nell’Archivio del Capitolo di detta chiesa metropolitana intestato sul dosso: « Testamentum can.cl Johannis de S. Stephano ». In nomine Domini amen. Dominus Johannes de S.° Stephano, canonicus Ecclesie Januensis, diligenter considerans quod inter cetera animarum giornale ligustico 265 suffragia illud habetur potissimum quod per celebrationem missarum et divina officia pro animarum salute Altissimo exhibetur, et quod ipse semper ad retributionis eterne premium sue mentis aciem direxit, illius Apostoli non immemor verbi per quod dicitur qui parce seminat parce et metet et qui seminat in benedictionibus de benedictionibus metet vitam eternam ; et cupiens terrena in celestia et transitoria in eterna felici commercio commutare, volensque omnipotenti Deo creatori et Salvatori nostro Christo Jhesu illam facere portionem bonorum que sibi sua pietate donavit , et que sibi sit grata et ipsius dni Johannis ac parentum et benefactorum suorum ad uberiorem salutem proficiat animarum, quod diu in voto gessit producens in actum constituit, in presentia venerabilium virorum dominorum Benedicti Adurni prepositi, Petri de Illionibus magistri scholarum, Johannis de Godiliasso, Ludovici Rodini, Marchi de Cario, Georgii de Si-gestro et Thome de Haliarco canonicorum et Capituli dicte Ecclesie Ja-nuensis insimul capitulariter pro infrascriptis peragendis sono campanule more solito congregatorum, solum actu in dicta Ecclesia residentium. Ad laudem gloriam et honorem Omnipotentis Dei creatoris et Salvatoris nostri Christi Jesu ac Virginis gloriose Marie matris ejus totiusque Curie celestis , et pro redemptione animarum ipsius parentum et benefactorum suorum, in dicta ecclesia Januensi ad altare dicte Virginis gloriose cujus capellam et truinam depingi et connam seu majestatem supra dictum altare poni fecit·, unatn capellaniam in titulum perpetui beneficii constituit et ordinavit in hunc modum: videlicet quod in ea perpetuo unus sacerdos singulis diebus ad dictum altare teneatur et debeat missam celebrare, et in dicta ecclesia interesse aliis divinis officiis diurnis et nocturnis prout et sicut alii capellani dicte ecclesie tenentur et facere consueverunt. Insuper dictus dominus Johannes prefatis dominis canonicis et Capitulo, stipulantibus et recipientibus nomine et vice capellani presentandi et instituendi ad dictam capellaniam, donavit et assignavit et pro donatis et assignatis de cetero in perpetuum haberi voluit in dotem et pro dote dicte capellanie loca quinque scripta super ipsum dominum Johannem in comperis novis Sancti Pauli quorum singulus reddit seu reddere debet an-nuatim libras octo januinorum. Item loca duo scripta super ipsum in com-peris veteribus Sancti Pauli, in compera scilicet magna Venetorum, quorum singulus reddit seu reddere debet annuatim libras decem januinorum ; et ex nunc prout ex tunc transtulit et donavit omnem proprietatem et dominium predictorum locorum septem ad utilitatem et usumfructum dicti capellani et pro dote et in dote ejusdem ; que loca perpetuo stare et remanere voluit scripta super ipsum et ejus collumpnam, et quod nulla ratione vel 266 GIORNALE LIGUSTICO causa, seu quovis colore quesito, describi vel removeri possint seu quoquo alio modo in alium vel alios transferri vel ad alium usum preter pre-dictum aliqualiter deputari, retenta tamen sibi et reservata omnimoda potestate in vita sua tantum habendi percipiendi utendi et fruendi omnes fructus redditus et proventus predictorum locorum prout et sicut sibi placuerit et melius videbitur expedire, quandocumque videlicet in vita sua capellanum non duxerit presentandum. Reservata etiam sibi potestate in vita sua vendendi dicta loca seu partem eorum et per actum inde redigendum convertendi in emptione possessionum seu terraticorum loco ipsorum locorum pro dote capellanie predicte si sibi melius videbitur expedire. Et quia tam de jure quam de consuetudine in constructione sive dota-tione ecclesie vel capelle consueverunt et possunt a patronis jura aliqua retineri et reservari, que et qualia sibi retinuit et reservavit duxit pre-sentibus particulariter et per ordinem exprimenda. Et primo sibi retinuit et reservavit idem dominus Johannes in vita sua jus patronatus in predicta capellania, cum omnimoda potestate presen-tandi instituendi ponendi et ordinandi presbiterum in capellania predicta si et quando ei placuerit et ei melius videbitur expedire. Post vero vitam suam retinet et reservat jus patronatus dicte capellanie, cum potestate presentandi dictum presbiterum in capellania predicta, pro domino Dominico de Flisco archidiacono dicte ecclesie et domino Francisco Calvo Bancherio si eidem supervixerint; sin autem, retinet et reservat dictum jus patronatus cum potestate predicta pro major; de Capitulo dicte ecclesie Januensis, seu qui pro majori habeatur, hoc modo : videlicet pro preposito dicte ecclesie, et ipso absente pro archidiacono, et archidiacono absente pro magistro scolarum , et ipsis tribus absentibus pro antiquiori in etate canonico in presbiteratus ordinibus constituto, seu cujus prebenda presbiterum requirat, et in dicta ecclesia residente, et pro majori natu ex filiis dicti domini Francisci, ita quod dictum jus patronatus perveniat in perpetuum ad majorem de Capitulo modo quo supra et ad majorem natu filiorum dicti domini Francisci, et ipsius filiis deficientibus ad majorem natu descendentium ex filiis dicti domini Francisci de recta linea et masculina, et de legitimo matrimonio in perpetuum. Item retinuit et reservavit quod perpetuo capellanus dicte capellanie, qui pro tempore fuerit, teneatur dare singulis annis dicto domino Francisco Calvo in vita sua, et post ejus vitam majori natu ex filiis suis et deinde majori natu ex descendentibus a filiis suis, libras decem candelarum parvarum combustarum. GIORNALE LIGUSTICO 267 Item retinuit et reservavit quod perpetuo dictus capellanus teneatur singulis annis quater, scilicet de mensibus maij augusti novembris et februarii, celebrare facere anniversarium unum solemne in cantu et in nota pro anima dicti domini Johannis in dicta ecclesia ad dictum altare; et canonicis intervenientibus dicto singulo anniversario dare debeat soldos viginti, et totidem capellanis dicte ecclesie; intendens prefatus dominus Johannes emere unum locum in altera dictarum comperarum super eo scribendum , qui reddat singulis annis libras octo que pro dicto anniversario errogentur. Item retinuit et reservavit quod dictus capellanus in vita ipsius domini Johannis teneatur et debeat ad mandatum et voluntatem dicti domini Johannis ei adesse et assistere ac servire in suis oportunitatibus, eumque associare quocumque voluerit, et ire ad ecclesiam Sancti Pancratii Ja-nuensis cujus ipse dominus Johannes prior est, et ibidem celebrare et moram trahere si dicto domino Johanni placuerit et videbitur, iusto Dei impedimento cessante. Item voluit statuit et ordinavit quod si dictus capellanus defecerit suo defectu aut negligentia in dicta ecclesia ad dictum altare celebrare, et aliis horis canonicis que in dicta ecclesia decantantur non intererit, pro missa quam non celebraverit perdat soldum unum , et pro singula hora tantumdem ; que pecunia per Capitulum de proventibus hujusmodi exigetur et dicto Capitulo applicetur. Item voluit et ordinavit quod dicti patroni teneantur et debeant presentare dictum presbiterum Capitulo dicte ecclesie infra unum mensem a die vacationis in antea computandum, ad quod Capitulum institutio et admissio ac repulsio dicti capellani debeat pertinere, qui Capitulum teneantur et debeant presbiterum eis presentandum sine contradictione vel difficultate quacumque recipere et admittere in capellanum dicte capellanie, et illum ad omnia benefitia et honores dicte ecclesie tractare prout faciunt et facere consueverunt alios capellanos ecclesie predicte, dummodo ydoneus fuerit, alias ipsum repellere quousque ydoneus presentetur. Item voluit et ordinavit quod si dicti patroni infra dictum mensem capellanum non presentaverint, quod tunc et pro ea vice defectum et negli-gentiam ipsorum patronorum in presentando capellanum suppleant Capitulum antedictum, salvo semper jure patronatus predictis patronis in vacationibus secuturis. Voluit etiam et ordinavit quod omnis correctio visitatio et reformatio capellani predicti spectet et spectare debeat ad Capitulum dicte ecclesie, prout et sicut aliorum capellanorum dicte ecclesie spectat et spectare consuevit. 268 GIORNALE LIGUSTICO Preterea cupiens prefatus dominus Johannes quod dictus capellanus non habeat defectum ad celebrationem misse ad altare predictum, donavit dictis dominis canonicis et Capitulo , recipientibus nomine et vice dicti capellani, ornamenta res et bona infrascripta, volens quod hujusmodi ornamenta pro altari sint et solum deputentur ad ornatum dicti altaris, et ornamenta pro induendo presbiterum celebraturum sint et deputentur tam ad usum canonicorum et dicti capellani quam etiam aliorum capellanorum solum ad dictum altare debentium celebrare, et quod dicta ornamenta res et bona perpetuo conserventur in sacristia dicte ecclesie in infrascripto bancali, in quo fiant due clavature et due claves quarum unam teneat dictus capellanus et aliam sacrista dicte ecclesie. Item voluit quod dictus capellanus dictam capellam quantum mundam teneat et de ea diligentiam et curam habeat ; et quantum comode et honeste poterit illis de devotione Nostre Domine nuper ad dictum altare instituta debeat gratificari. Versavice dicti domini canonici et Capitulum volentes dicte ecclesie meliora prospicere, et quod in ipsa ecclesia cultus divini numinis augeatur, acceptantes predicta omnia et singula et ipsis consentientes, promiserunt et convenerunt dicto domino Johanni stipulanti semper dicto capellano in canonica dicte ecclesie iuxta morem ipsius ecclesie unam cameram assignare ubi comode poterit commorari, et ipsum capellanum ad honores et beneficia dicte ecclesie admittere et tractare prout ceteros capellanos dicte ecclesie tractant et tractare consueverunt. Insuper dicto domino Johanni stipulanti et confitenti dicta bona infrascripta penes se habere, qui habet curam sacristie dicte ecclesie, res et bona hujusmodi infrascripta ut supra donata in custodiam assignarunt. Que omnia etc. — Sub etc. — Ratis etc. etc. Que quidem res et ornamenta sunt hec. Primo, calix unus argenti cum armis Gentilium Falamonicarum et Spinularum cum Crucifixo unciarum XXIII. Item missale unum completum secundum usum romane curie, cum armis dicti domini Johannis et cum clavaturis IIII unciarum de argento. Item pianeta una veluti rubei cum fusto uno ad istoriam beate Marie cum liliis et galis aureis fodrata cendato trezenello rubro. Item dramatica et tunicella zeytoni celestini cum gramoci< octo camo-cati vermilii laborata cum gaüs et liliis aureis. Item puviale unum panni aureati de damasco cum fusto trino aureo et cum duobus osmadis et cum sex pomis perlatis ad arma dicti domini Johannis. GIORNALE LIGUSTICO 269 Item paramentum unum pro mortuis totum furnitum. Item aliud pro mortuis totum furnitum cum uno fusto rubeo. Item unum aliud paramentum album cum armis de Gentilibus et Squar-zaficis cum uno Agnus Dei. Item camisa.tria fulata cum stolis et manipolis cordonis et amictis et cum gramocis de dezurio deaurato. Item manipulus unus et stolla una de camocato cum galis et liliis aureis. Item unum camisum fulatum, cum stolla manipulo et amicto et cordono cum gramocis bisantati. Item cossini duo veluti et alius arzurus cum armis de Spinolis et Gentilibus et Falamonicis. Item toagie due. Item toaiette XIIII. Item toaiotta una magna. Item palium unum listatimi cum armis de Spinolis et Falamonicis. Item tapetum unum longum palmis XX et latum VIIII. Item banchine due cum figuris in campo viridi. Item alia banchina de viridi cum armis dicti domini Johannis. Item banchale unum de uno misali. Item aliud bandiate cum (loco) ponendi candellas dicte capelle. Item una capsa de nuce. Item toaiocete due de seta quarum una listata est de auro. Item alia mandileta recamata. Item cordoni duo de seta vermilia cum duobus pomis de auro. 00 Actum etc. M CCCC die primo Octobris. (6) Annali, all’anno 1278. Volume 1°. pagine 455. — Anzi truina forse significa tutta la parte rotonda dell’ abside, secondo una bella induzione che sentii dalle labbra del signor Cornelio Desimoni. Si sa che le basiliche cristiane sì foggiarono sulle antiche romane in cui i gentili tenevano tribunale. I giudici in quelle risiedevano nella parte fatta a semicerchio, che corrisponde al presbiterio e coro delle nostre chiese. Di qui il nome di tribunal a questa parte delle basiliche. Da tribunal viene tribuna, da tribuna soppresso il B venne triuna in bocca al volgo, e da triuna truina, invertita la postura delle lettere I ed U. Esempio di questa inversione si ha nel nome Luitprando, che in antico si diceva Liutprando secondo che si ritrae da monumenti sincroni a quel Re. (7) Canonico Stefano Parodi. — Il secondo Centenario dell’ incoronazione dell’ Immagine di Maria SS. della Pietà e del Soccorso — Rela- 270 GIORNALE LIGUSTICO zione fatta por incarico del Capitolo Metropolitano. — Genova , 1884, pag. 29 — Nota. (8) « Anticamente a vece del moderno Assumptae usavasi il vocabolo Gloriosae ». Cosi il P. Vigna a pag. 77 in nota del Volumt Illustrazione di S. Maria di Castello. E a Venezia ancora oggidì P insigne tempio di Nostra Signora Assunta si chiama di Nostra Signora Gloriosa. (9) Fascicolo segnato sul dosso L. 2. (10) Liguria Mariana — I Santuari di Genova. Opera postuma, pag. 50. (Genova, Tip. delle Letture Cattoliche, 1884). (11) Perasso. — Frammenti storici intorno alle chiese di Genova. MS. presso il sig. Antonio Arduino in Genova. In conferma sempre maggiore di quanto è detto nel testo, credo opportuno di aggiungere qui quanto il mio egregio amico Cav. L. Tommaso Belgrano, trovandosi a Torino e sapendo del presente mio studio e lavoro, volle estrarre al proposito mio dai volumi del Perasso riguardanti le chiese di Genova, i quali, come è noto, si trovano in quell’Archivio di Stato. VoL lì, pag. 2)f, a verso 236. Sotto l’articolo · Annunziata delle ri-» pentite, o S. Deiendente ». « Contiguo al detto monastero delle ripentite, o sia di S. Deiendente, » era stato ab antiquo costrutto un altro monastero sotto l’invocazione » di N. S. del Soccorso, dell’ ordine.....di S. Benedetto....... quale » propter pestem quae annis præteritis viguit in civitatem Janux, ridotto » nell’ anno 1506 a due sole monache........ non potendo queste più » uffiziare.....e perciò.....dovendosene venire alla riforma ; il V icario » arcivescovile e gli uffiziali deputati dalla Repubblica sui monasteri de-» cretarono di unire et incorporare lo stesso monastero del Soccorso con » tutti gli suoi beni al detto monastero...... di S. Deiendente ». E di ciò vi è atto 16 luglio 1506 in notaro Baldassarre de Coronato. Con atto del 25 aprile 1515 il monastero di S. Deiendente fu a sua volta incorporato ed unito a quello di S. Andrea. Rogò 1' atto il notaro Vincenzo Molfino. Tuttavia le monache di S. Deiendente seguitarono ad abitare in esso monastero fino al 1520. Anzi di quest’anno « dovendosi, » per ampliare i dormitorii del detto monastero di S. Andrea, atterrare » esso monastero di S. Defendente, ricusorno esse monache superstiti di » rilasciarlo, onde.....furono necessitati i.....Protettori del monastero » di S. Andrea scacciarle con violenza, ed in loro prospettiva dar prin-» cipio all’ atterramento del medesimo monastero, che incorporato poi » nella circonferenza della clausura di.....S. Andrea assieme con quello » del Soccorso, appena adesso piü se ne vedono i vestigi in una piccola GIORNALE LIGUSTICO 27I » chiesa detta di S. Defendente, che serve d’ oratorio all’ arte de’ ciabat- » tini.....Si fa menzione del detto atterramento ed espulsione in atti » del detto notajo Baldassarre de Coronato ». (12) Il P. Raimondo Amedeo Vigna nella sua Illustrazione storica artistica ed epigrafica della chiesa di Santa Maria di Castello in Genova, a pag. 207, afferma che il canonico Lanfranco di Ottone fondò in questa chiesa di Castello la cappella della Santissima Trinità il giorno 3 dicembre 1390. E in nota dice che una copia autentica del testamento con cui il pio Lanfranco fondò la cappella della SS. Trinità è custodita nel-P archivio di Castello. Nell’altro volume poi da lui scritto e intitolato L'antica Collegiata di Santa Maria di Castello reca un documento stampato in quella sua opera sotto il numero 46, dal quale consta che il detto canonico Lanfranco costituì ed ordinò per la chiesa pure di Castello una cappellania in atti del notaio Michele de Telia il giorno 3 dicembre 1390. Dunque il can. Lanfranco d’Ottone ai 3 dicembre 1390 in atti del notaio de Telia istituì per la chiesa di Castello una cappella e una cappellania. E questo è provato. Parlando di questa istituzione a Castello, il medesimo P. Vigna non lascia di accennare, sulla fede del Negrotto e del Banchcro cui cita in nota a pagina 131 del Volume L'antica Collegiata, alla simile voluta da questi autori in S. Lorenzo, attestando per altro che nella copia del testamento che si conserva a Castello non si fa parola di quest* altra istituzione in Duomo. Da tutto ciò ci viene sospetto che il Negrotto, o chi primo mise fuori questa fondazione in S. Lorenzo , scambiasse colla fondazione fatta dal Lanfranco per la chiesa di Castello· Combina troppo bene ogni cosa. Istituzioni, data, notaio, fondatore, il quale per confondere meglio era ad un tempo medesimo canonico di Santa Maria di Castello e canonico della Metropolitana di S. Lorenzo. La sola differenza del nome del notaio, che altri dice Michele ed altri Nicolò, può essere effetto di mala lettura , come il dirlo di Rapallo o di Rivarolo che fanno il Negrotto e il Cordiviola. Di guisa che ora ci sentiamo trascinati a pensare che il voluto testamento di Lanfranco a prò’ della chiesa di S. Lorenzo non deve mai essere esistito. (13) Sotto il Crocifisso, in un altro partimento, era effigiata la Madonna in atto di accogliere sotto il suo manto una moltitudine di gente. Questa Madonna nel contratto che si mette qui appresso è detta della Misericordia, e forse sarà stata questa che ebbe nome di Santa Maria in vestibus albis. Ciò per altro 11011 toglie che si potesse chiamare Pietà la 272 GIORNALE LIGUSTICO rappresentanza principale di quel quadro, cioè il Crocifìsso piesente la Vergine colle altre Marie da un lato, e un drapello di soldati dall’altro. La Madonna di Misericordia dipinta sotto, come Gesù all’orto da una parte e Gesù con tre apostoli dall’ altra, non erano che partimenti secondari. Ora ecco il relativo documento che si trova negli atti del notaro Antonio Foglietta, vol. II, 1389-1402, e che fu pubblicato dal prof. Federico Alizeri nella sua opera intitolata Notizie dei Professori del Disegno in Liguria dulie origini al secolo XVI (Vol. I, Pittura, pag. 222 in nota). MCCCC indict. VII. In nomine Domini amen. Doni. Johannes de Sancto Stephano canonicus januensis ex una parte : et Augustinus dictus Sarrinus siculus de civitate Messana pictor Janue commorans ex alia parte : pervenerunt et pervenisse ad invicem sibi confessi fuerunt ad infrascripta pacta conventiones et promissiones. Renunciantes etc. Videlicet quia dictus Augustinus promisit dicto dom. Johanni stipulanti facere unam Connam ligneam ponendam intra cratem Capelle Sancte Marie in Ecclesìa Januensi in parte sinistra intrando dictam cratem latitudinis parmorum quinque et dimidii et altitudinis parmorum novem et in ea depingere Crucifixum cum duobus angelis a quolibet ipsius latere: et a latere dextero cum nostra Domina et tribus Mariis ac Sancto Johanne et duobus aliis dominabus: et a sinistro cum octo figuris hominum armatorum ; et a latere dextro cum ymagine Domini Nostri Jhesu Christi orantis cum tribus Apostolis dormientibus et cum Angelo apparente: et a latere sinistro cum ymagine Domini Nostri et trium Apostolorum. Infra in inferiori parte ymaginem Domine Nostre de Misericordia cum populis ab utroque latere: et desuper cum angelis coronantibus eam et mantellum tenentibus: et prædicta omnia facere de bonis et optimis coloribus et de auro fino et arzurio fino cuius uncia singula valeat duos florenos : et cum duobus cormcibus et suis traversis in medio: et predictam Connam complere et perficere et sistere ad dictam cratem infra festum S. Laurentii proxime venturum. Versa vice dictus dom. Johannes promisit dicto Augustino stipulanti sibi dare et solvere pro dicto opere perficiendo et complendo florenos viginti quatuor auri boni et justi ponderis, de quibus dictus Augustinus confessus fuit dicto dom. Johanni presenti habuisse et rece pisse florenos octo. Reliquos vero florenos sexdecim promisit dic.o Augustino stipulanti sibi dare et tradere completa dicta Conna et posita et fixa in dicta capella. — Et hoc sub pena florenorum sex auri pro damno et interesse dictarum partium ex nunc in tanta quantitate de voluntate partium taxata. GIORNALE LIGUSTICO 273 Actum Janue in dieta Ecclesia in dicta Capella anno et indictione quibus supra die XVII Maij : presentibus testibus presbiteris Johanne de Neapoli et Nicolao Pareto Leodiensis Dieacesis capellanis diete Ecclesie Januensis. (14) « Al fianco destro dell’altare maggiore vi è la capella di Maria » Vergine detta in vestibus albis che dai signori Fabbricieri della chiesa » l’anno 1559 fu conceduta a Francesco Lercari il quale la fregiò di or-» namenti, come può leggervisi in una lapide: e la cessione fu in atti » di Gio. Giacomo Peirano. Questo accordò alla Società della B. V. Maria » sotto il detto titolo di far recitare le litanie in ogni sabbato, una Messa » in canto nel primo sabbato di ogni mese, ed a ciaschedun giovidì una .» Messa da morti ». Così il canonico Negrotto. BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE A STAMPA DI GABRIELLO CH1ABRERA Il desiderio d’una compiuta bibliografia delle opere di Gabriello Chiabrera è stato sinora vano. Quelli che si sono posti all opera, non hanno raccolto che notizie scarse, e non sempre attendibili. Primo il Giustiniani accompagnò al cenno biografico del Chiabrera, dettato pe' suoi Scrittori liguri (1), una nota delle edizioni del Poeta. L’Ol-doini, più tardi, nel suo Athenaeum ligusticum (2), certo senza intendimenti bibliografici, compilò pure una simile nota. Taccio del Crasso (3) e del Soprani (4), meno com- (1) Giustiniani, Gli scrittori liguri. In Roma, appresso di Nicol’Angelo Timassi, MDCLXVII. (2) Athenaeum ligusticum seu syllabus scriptorum ligurum ab Augustino Oldoino collectus. Perusiae ex typographia episcopali, MDCLXXX. (3) Crasso , Degli elogi degli huomini letterati. In Venetia, MDCLXVI, per Combi. (4) Soprani, Li Scrittori della Liguria. In Genova, MDCLXVII, per Pietro Giovanni Calenzani. Gio**. Ligustico. Anno XIII. . 274 GIORNALE LIGUSTICO pinti ed esatti degli altri due. Questi i bibliografi del Chiabrera, se cosi possono chiamarsi, per tutto il XVII secolo. Dei quali maggior fortuna sorti il Giustiniani, la cui nota ebbe, immeritamente, ì’ onore di parecchie ristampe. Sul principio del secolo XVIII il Giornale dei Letterati (i), quasi come appendice ad una recensione critica dell’ edizione delle opere, curata dal Paolucci (Roma, 1718), accrebbe utilmente il catalogo del Giustiniani, giovandosi, all’uopo, della raccolta di PiercaterinoZeno, e tenendo contp specialmente delle edizioni stampate su fogli volanti, difficili più d’ ogni altre a rinvenirsi. Nello stesso secolo, sullo scorcio però, un savonese, Tommaso Belloro, che ebbe grande la stima dei dotti suoi contemporanei, ma che non lasciò alla patria che pochi monumenti del suo ingegno, s’ accinse pure a descrivere le edizioni chiabreresche. La sua bibliografia , andata perduta, dovea forse servire di guida per quell’ edizione critica delle opere del nostro Poeta, eh egli avea disegnata insieme a Celestino Mas sue co, traduttore non infelice d’ Orazio, e per la quale avea speso lunghi anni d’incredibili cure ; ma che restò sventuratamente , per colpa della fortuna, quando meno lo si aspettava, nuli altro che un desiderio. Nondimeno sembra che anche.il Belloro, se al Ber teloni devesi fede, non rifiutasse aggiunte e correzioni. Ho nominato il Berto lo ni (2), e con lui vogliono essere ricordati ad un tempo il Poggiali (3) ed il Gamba (4), che (1) Giornale de' Letterati d’Italia. Tomo trentesimottavo , parte prima, anni 1726-1727. Venezia, 1727, presso Gabriello Hertz. (2)· Bertolonì, Nuova serie dei testi di lingua, Bologna, Sassi, 1846. (3) Poggiali, Serie dei testi di lingua. Livorno, Masi 1813. (4) Gamba , Serie dei testi di lingua. Venezia, coi tipi del Gondoliere, 1839; del Gamba ho tenuto anche presente l’edizione del 1828 (Venezia, Alvisopoli). GIORNALE LIGUSTICO 275 nel descrivere le edizioni delle quali fecero uso gli Accademici della Crusca, parecchie n’accennarono del Chiabrera. Fra i tre è da tributare maggior lode al Poggiali, scevro al tutto d’errori (1), laddove il Bertoloni e il Gamba, per inavvertenza, vuol credersi , incorrono in parecchi. Ma nè il Gamba, nè il Poggiali, nè il Bertoloni vollero di proposito essere i bibliografi del Chiabrera, sebbene il primo facesse anche stampare a parte la sua nota delle edizioni chiabreresche. Questo compito volle, finalmente, assumersi Andrea Bertolotto (2), e a meglio raggiungerlo scrisse alle principali biblioteche pubbliche d’Italia. Senonchè, ignaro affatto di bibliografia, costretto a starsene alle notizie che gli venivano fornite, non conoscendo quelle raccolte innanzi a lui, senza aver veduta co’ propri occhi pur una sola edizione del Chiabrera, die’ fuori sulla Liguria Occidentale di Savona da prima, pei tipi del Ricci dipoi, una bibliografia che se per la copia delle notizie sembra, a tutta prima, più .compiuta delle altre, da tutte poi è vinta nel pregio, eh’è massimo in lavori siffatti, della esattezza spinta sino allo scrupolo. * * * La bibliografìa delle opere d’ un autore , massime quando questi ha acquistato fama, non deve essere fine a sè stessa; ma, invece, deve servire a indicare lo svolgersi del suo ingegno. Nè a questo solo deve intendere, ma eziandio a rm> : (1) Uno· solo, e lieve, ne ho notato. Il mio giudizio del resto si riferisce a quelle edizioni che ho potuto confrontare colla descrizione del Poggiali. (2) Bertolotto , Nota delle edizioni totali 0 parziali di Gabriello Chiabrera. Savona, Ricci, 1882. Le edizioni notate dal Bertolotto (notate , badisi, non già descritte) sommano ad ottanta. E le notò segnando in alr trettante colonne il titolo del libro, 1’ anno in cui uscì, il nome del tipografo, la. città , quasi come se si trattasse d’ una statistica e niente più. ιηβ GIORNALE LIGUSTICO strare, colla maggiore o minor frequenza delle edizioni, la fortuna che Γ autore stesso ha avuta. Errerebbe però chi credesse che i primi versi del Chiabrera siano le canzoni edite dal Bartoli nel 1586, o, peggio ancora, il poema del-l’Italia liberata, pubblicato nell’ 82. Io mi sto ora occupando intorno alla gioventù poetica di Gabriello, tema affatto nuovo, com’ è nuova, del resto, ogni ricerca intorno al Poeta savonese , trascurato troppo sin qui dagli storici della nostra letteratura; e le conclusioni, alle quali mi sembra di poter giungere, sono diverse. Badiamo, innanzi tutto, a quanto racconta di sè Gabriello nell’ autobiografia. Vissuto, ci dice, sino a vent’anni in Roma (non importa, allo scopo nostro, tener conto dei primi nove anni trascorsi a Savona), e tornatovi dopo pochi mesi d’assenza, seguitò a rimanervi per tutto il 1576 all’incirca, nel qual anno la vendetta ch’egli prese d’un gentiluomo romano, che Γ avea offeso , lo costrinse, per non aver peggio, a esiliarsi. Qual fu la via dell’esiglio ? Certo s’indirizzò subito a Savona. Quivi, sciolto dagli impacci della vita cortigiana, coll’ intiera signoria di sè medesimo, stette, in sulle prime, oziando. Ma Γ ingegno temprato per natura alla poesia — egli stesso cantò che le Muse non lo lattarono come ignoto al suo nascere — e Γ ampia coltura di che si forni in Roma, non gli consentirono lungo riposo. E però si volse sollecito agli studi, i poetici sovra gli altri prediligendo. Ciò fu nondimeno , dapprima, senz’ alcuna intenzione seria, e quasi per trastullo. Male prime mosse erano date ; e a Gabriello fu impossibile l’arrestarsi. Discorso già, storicamente, col Mu-reto il campo della letteratura greca, col Manuzio quello della latina, e collo Speroni quello dell’ italiana, potè intraprendere un largo lavoro di comparazione, che radicò in lui il convincimento doversi lasciare i vieti sentieri di Parnaso, e temprare invece quind’ innanzi i canti su greca lira. GIORNALE LIGUSTICO 277 A Savona, abbiamo detto, prese a soggiornare il Poeta dopo la contesa avuta in Roma. Su questo punto, importante per stabilire la durata dell’educazione poetica di Gabriello, non sono concordi i pochi che hanno scritto di lui. Se apri, ad esempio, lo Spotorno t’avviene di leggervi che si ridusse a Savona poco prima del 1580 (1); mentre il Castelli t’apprende che vi si ridusse dopo quell’anno (2). Nessuno dei due ha ragione; poiché, quand’anco non fosse certo per indubbie prove, avrebbero potuto vedere essere inconciliabile cosa che al Chiabrera due anni potessero bastare per avviarsi alla poesia ; e ordire ad un tempo istesso la tela d’ un lungo poema, licenziandolo , per giunta, alle stampe. Ma intanto l’amore aveva acceso colle sue fiamme il cuore del giovane poeta. E come poteva egli, per natura sensibilissimo alla bellezza, dalla quale Γ amore raggia come da proprio fuoco, non essere ferito dagli strali amorosi ? Con troppo zelo la perseguiva dovunque, perchè non dovesse alfine rimanerne cattivo. S’odano questi versi: Allor che in gioventute D’ una fresca virtute Fioriano i miei ginocchi, E mi splendea negli occhi Un grazioso lume, Era di mio costume Spiare ove più belle Schiere di damigelle Guidassero carole A bel suon di viole (}). (1) Spotorno, Storia htleraria della Liguria. Genova, Ferrando, 1846, tomo IV. (2) Castelli , La lirica e l'epopea di Gabriello Chiabrera. Savona, Ricci, 1878, pag. VII. (3) Canzone XLIV delle Vendemmie di Parnaso. 278 GIORNALE LIGUSTICO E chissà che dall’ amore non abbia avuto i primi stimoli al poetare; chissà che la gentile savonese, la damigella tutta bella, della quale cantò nel 91: Di mia Diva Se si scriva II' bel nome, è con sei note (1), non abbia svegliato in lui gli spiriti poetici fino allora sopiti, aprendogli così il cammino della gloria. Certo i suoi primi versi furono d’ amore; lo confessò alla sua cetra: Già per la prima etate Cantasti in forme nove I/ acerba d’ una dea vaga beltate (2). E alla sua cetra pure confessò che, fatte le prime prove nelle rime amorose, si volse dipoi a lavoro di maggior lena, togliendo a cantare dell’ Italia liberata per gli aiuti greci dal-1’ oppressione dei Goti : Indi tra ’l sangue delle schiere armate Vittoriose prove, Quando temprava alle stagion più liete Dell’ alta Roma i danni, E i Gotici tiranni Dieder le braccia e ’l collo al gran Narsete, E per Italia allegra Tonò Vitellio come Giove in Fiegra (3). Sebbene, perchè all’ autobiografia non manchi la debita considerazione, deve credersi che, come già sulle orme di Anacreonte e di Saffo, sia corso eziandio su quelle di Pin- (1) Canzone XLII delle Vendemmie citale. (2) Canzone alla Serenissima Gran duchessa di Toscana. È la prima del tomo i.° dell’ edizione di Roma, 1718. (3) Canzone citata. GIORNALE LIGUSTICO 279 darò , innanzi di ripetere 1’ ardito tentativo del T r i s s i η o di dare alla letteratura ,Un poema regolare , giusta i canoni stabiliti nella Poetica d’ Aristotele. Un parallelo tra i due poemi è più che mai necessario, a mostrare com’ appunto cospirino tutt’ e due ad un medesimo fine. *· * * La mia bibliografìa novera più che duecento edizioni, tenuto conto di quanto del Chiabrera è stato stampato insieme-alle opere d’altri autori, e di quello che è stato pubblicato in raccolte ed antologie che vogliano dirsi (1). Tutta la diligenza che per me si poteva ho usata·dolènte d’aver dovuto troppe notizie accattare da altri (2). Ma qual bibliografo; sarà mai cosi fortunato d’avere innanzi le numerosissime edizioni del Chiabrera, molte delle quali non sono, poiché-cosi volle il Poeta, di più che cento esemplari? Impossibile, malgrado ogni cura, che nessuna sfugga ; nè a me certo poche saranno sfuggite; Nondimeno ho coscienza d’ avere della bibliografìa chiabreresca saldamente gittate le basi. Il tempo farà scomparire le imperfezioni che potranno no-tarvisi; d un tratto i lavori di questa natura non assurgono a perfezione. Ed io prometto d* adoperare maggiori cure per (1) Soltanto ho escluso le antologie per le scuole. (2) Anche d’altre fonti, oltre quelle citate, mi sono giovatole cioè: Allacci , Drammaturgia. In Venezia , presso Giambattista Pasquali , MDCCLV; Cinelli, Biblioteca volante. Venèzia, presso Giambattista Al-brizzi, 1725; Bravetti, Indice dei libri a stampa, Verona, Merlo, 1798; Haym, Biblioteca italiana, ecc. In Milano , appresso Giuseppe "GaTéazzTT-177I_1773 j Catalogo delle commedie italiane (possedute dal Farsetti). Venezia, Fenzo, 1776; Catalogo di libri italiani (del Farsetti), Venezia, Fenzo,; 1785; Volpi, La libreria dei Volpi, Padova, Cornino, 1756; Fontanili, Biblioteca delT eloquenza italiana, Parma, Mussi, 1803-1804 ecc. GIORNALE LIGUSTICO una ristampa, non molto lontana, del mio lavoro, nella quale le edizioni disporrò con ordine più razionale, cronologicamente cioè dapprima, e divise in appositi capitoli, giusta le opere insieme raccolte e le ristampe, dappoi; porgendo inoltre dei manoscritti, quanto più sarà possibile, notizia compiuta e diligente. Una speranza infine, mi sia lecito manifestare : la speranza che questa bibliografia valga a darci quell’edizione critica delle opere di Gabriello Chiabrera che è sempre stata ed è tuttavia nei voti degli studiosi del grande Poeta. Savona, mi sembra , dovrebbe accingersi all’ impresa , per soddisfare , in qualche modo , la colpa d’aver lasciato contaminare le ossa di chi la consolò della sua gloria nei giorni tristi dell’ abiezione (1). S’abbiano, intanto, vivissime grazie i sigg. Prof. Achille Neri, Maggiore Avv. Cav. Vittorio Poggi, Cav. A. G. Spinelli, che mi fornirono preziose notizie. Il favore di questi egregi m’ affida che il mio lavoro sarà con benevolenza giudicato, nè si vorrà stimarne immeritevole chi fa le prime prove sulla via degli studi. Genova, 15 Luglio 1886. Ottavio Varaldo. i. — Delle Gverre / de’ Goti / canti qvindici / del / signor Gabriele Chiabrera. / al Serenissimo / Carlo Emanvel / Duca di Savoia. / Con privilegio. / In Venetia, / Appresso Giovachino Bro-gnolo / M D LXXXII. In 12.° [« Edizione originale, rara. Questo Poema è in ottava rima, senza Argomenti, nè altre illustrazioni ». — Poggiali, Op. cit. t. 2. p. 27]. Il (1) Il mio egregio amico Agostino Bruno in una sua breve memoria La tomba di Chiabrera (Savona, Miralta, 1883) sostiene che la tomba del Poeta sia durata intatta sino ai giorni nostri. Ma egli vorrà scusarmi se non sono niente affatto persuaso delle ragioni che adduce per sostenere la sua tesi. GIORNALE LIGUSTICO Giustiniani (i), parlando di questa edizione, scrive che gli argomenti del poema furono scritti da Scipione Ponzio, dottore di leggi. Ma qui v’ ha abbaglio con l’edizione di Napoli del 1604. Debbo alla cortesia dell’avvocato Alessandro Rigobon, di Venezia, una più ampia illustrazione di quest’importante edizione: «La insegna centrale del frontespizio rappresenta una porta ad arco chiuso da uno stemma con un albero fra due lettere, se non ho mal visto R f S. Dalla porta esce una figura di guerriero romano, recante sulla spalla destra una tavola , ove stanno scritte le parole: libertatem meam, ed un’altra tavola sotto il braccio sinistro colle parole: mecum porto. La data è del 1584. Le ultime cifre II sono un poco sotto la riga delle precedenti e la loro impronta è sporca, però non le crederei aggiunte dopo, trovando tutto il numero come è composto in bella mezzaria sotto le parole appresso Giovachino Brognolo. Dopo il frontispizio segue una carta bianca, ed alla pagina 3 incomincia : DELLE GVERRE DE’ GOTI Vignetta relativa Canto Primo. Musa, dimmi il valor ecc...... Questa intestatura è uniforme in tutti i canti, la vignetta è sempre diversa ed allusiva. Le pagine non sono numerate che sul recto ed il libro quindi consta di 108 mezzi foglietti numerati. I caratteri mi paiono corsivi come gli elzeviri. Ogni canto è seguito dalle parole : Il fine del Primo Canto.....; l’ultimo a pagina 108 tergo è seguito dalla parola: Il Fine. Non esiste indice ». Come risulta da questa descrizione il Rigobon appropria all’edizione originale delle Guerre de' Goti la data del 1584, data che nell’esemplare della Marciana di Venezia (segnato L. 210) da lui consultato non si scorge così bene da togliere ogni dubbio. Io credo di dovermi su questo punto attenere ai bibliografi del Chiabrera, che stabi- (1) Giustiniani, op. cit. pag. 25$. 202. GIORNALE LIGUSTICO liscono concordi la data del 1582. Di questo poema ha scritto con retto, critèrio il sig.. Umberto Ronca nel pregevole studio: La secchia rapita di Alessandro Tassoni (Catalnisetta, 1884). . . ' ;; 2. — Delle / Cannoni / del Signor / Gabriele / Chiabrera / Libro ' I. / Al Sig. Ambrosio Salinero·/ In Genova, / Appresso Girolamo. Bartoli, 1586. In 4.0 j V’ha in principio una lettera di dedica del Chiabrera al sig. Ambrosio Salinero, senz’ alcuna data. In essa il Chiabrera dice che « la primiera volta » che lesse Pindaro sospirò « sopra la ventura di molti huomini nostri » ; e pensò che "se i principi di Grecia « meritarono divine lodi da quello eccellentissimo ingegno , i cavallieri d’Italia per le maggiori prove ne i pericoli della guerra maggiormente le avevano meritate». Di ciò « per avventura nè sarà stata cagione lo essempio de i Rimatori antichi » ; ma il Chiabrera non teme di uscire « di strada calpestata » , specialmente quando abbia a farlo « per 1’honore e per la riverenza della virtù ». Ond’egli supplirà agli scrittori i quali dei cavalieri d Italia hanno « solamente detta nelle historié la verità », e non hanno « adoperato la virtù della poesia a fare meravigliose le loro anioni ». Le canzoni sono dodici, e i cavalieri encomiati : Francesco Maria della Rovere, Alfonso I da Este, Emanuele Filiberto, Enrico Dandolo, Giovanni de Medici, Antonio Colonna, Nicola Orsino , Gian Giacomo Trivulzio , Francesco Gonzaga, Bartolomeo Liviano, Francesco Sforza. L edizione, che il Gamia (1) dice « rara, originale e pregevole », è di carte 30 non numerate ; segnature A 2 — H ; in un bel carattere corsivo, e adorna di fregi squisiti. ..... 3. — Delle Cannoni / del Signor / Gabriele / Chiabrera ] Libro secondo I Al Signor Cesare Pavese / In Genova / appresso Gie-, ronimo Bartoli, MDLXXXVII. In 4.0. V’ ha una lettera di dedica del Chiabrera al sig. Cesare Pavese, anche questa senz’alcuna data particolare, do.v’egli, mostra come questo secondo libro partecipi agli stessi intendimenti del primo. « Io per accompagnare quel solo libretto, ho voluto tentare un’altra via di lodare; onde ho messo insieme alcune canzoni sopra la morte di alcuni huomini illustri, et ho lacrimato la loro ventura ; e questo si fatto pensiero (1) Gamba, op. cit., pag. no. GIORNALE LIGUSTICO 283 mio non può stimarsi diviso dalla loro gloria ». I cavalieri encomiati' sono. Latino Orsino, Fabrizio Colonna, Ercole Pio, Agostino Barbarico, ed Astorre Baglione. V’ha iti ultimo una canzone intitolata : Piange la. città di Famagosta ecc. — L’ edizione è di carte 16 non numerate, e in carattere corsivo. 4· Delle / Cannoni / del S. Gabriele / Chiabrera / libro III / al inolio ili. et reverend.mo / Monsignor Francesco Panicarola / Vescovo d Aste / In Genova. / Appresso Girolamo Battoli, 1588. In 4.0 V ha in principio una lettera di dedica del Chiabrera al Panicarola , pure senza data, che mostra come questo terzo libro si colleghi stretta-mente agli altri due. « Tutto, che la poesia paia cosa leggiera, io la ho però sempre stimata spetialmente per quelli scrittori, che honorando la virtù hanno imitato i migliori ; i quali seguitando io celebrai le attioni di alcuni huomini, e di alcuni altri piansi la morte, ma sopra questo pensando a me pareva di commettere errore, se cantando de’ buoni, io ha-vessi taciuto degli ottimi ; mi sono adunque adoperato in venerare quanto ho potuto alcuni santi ». I santi esaltati sono : San Francesco, Santo Stefano, San Sebastiano , Santa Maria Maddalena e Santa Lucia. — L’ edizione è di carte 14 non numerate, segnature A2 — D e in carattere corsivo. 5. — Parte prima / delle Rime / del Sig. / Don Angelo / Grillo / nvovamente date in Ivce / con licenza de Superiori../-In Bergamo CID ID XIC. / Appresso Cornino Ventura. V’ha un’ode di quattro strofe del Chiabrera ad Angelo Grillo, che ^comincia : Ond’ è l'inclito suon, che sì repente. 6· Canzonette / del Signor / Gabriele / Chiabrera. / In Genova./Con licentia de’ Superiori, 1591. In 4.0 Sono divise in due libri : il primo dedicato al sig. Ambrosio Salinero, il secondo al Sig. Gio. Battista Ferrerò. Nel libro primo sono riprodotte alcune delle canzoni dell edizione del 1586, e una ve n’ è aggiunta per Cristoforo Colombo ; le canzoni del secondo libro sono affatto nuove, e sono per Alessandro Farnese, Giovanni de’ Medici , Carlo di Savoia e 284 GIORNALE LIGUSTICO Carlo di Lorena. Erra pertanto il Giornale· dei letterati (1) nell’ affermare, senz’ altro, che queste canzonette sono « le stesse » dell’ edizioni antecedenti. — Edizione in carattere corsivo, ornata di bei fregi.È senza nome di stampatore. Il Giuliani (2) congettura, e mi sembra con ragione, che sia stata impressa dal Bartoli. 7. — Scelta di rime / di diversi / moderni avtori / non stampate. / Parte prima ecc. In Genova. / Appresso gli Heredi di Gieronimo Bartoli. / Con licentia de’ Superiori. 1591. In 8.° A pag. 31 v’ha un sonetto del Chiabrera al Castello che incomincia : Quale infra V aure candide succinta. Il Giuliani (3) afferma che in questa raccolta è anche compreso un sonetto a Cesare Corte ; ma a me non è stato dato di trovarlo. V’ ha abbaglio evidentemente. 8. — Poemetti / di / Gabriello Chiabrera. / Alla Serenissima / Mad. Cristiana di Loreno / Gran Dvchessa di Toscana / In Fiorenza. / Per Filippo Givnti. / M.D.IIC. / Con licenza de Superiori, e Privilegio. In 4.0 È senza alcuna prefazione. A pag. 3 comincia subito il poemetto La disfida di Golia, al quale ne seguono altri quattro: La liberazione di s. Pietro, Il Leone di David, Il diluvio, La conversione di s. Maddalena. Erroneamente il Gamba (4) scrive esser quattro i poemetti. Il Poggiali (5) la dice « edizione originale, bella, assai corretta, e rara ». 9. — Le I maniere I de’versi I toscani I del Signor Gabriello / Chiabrera / In Genova / Appreso Giuseppe Pavoni / MDXCIC / Con licenza de’ Superiori. In 24.0 V’ ha in principio una lettera di dedica di Lorenzo Fabri a Gio. Battista Doria dei signori del Sassello, colla data del 27 febbraio , dov è detto : « Queste Canzonette furono fatte dal S. Chiabrera a richiesta di Musici ; Poi per farne piacere à me s’ è contentato che si stampino , e (1) Giorn. dei Leti. vol. XXXVIII, tom. t, pag. 149. (2) Ani Soc. Lig. vol. IX, pag. 225. (3) Atti Soc. Lig. vol. IX, pag. 227. (4) Ediζ. cit. p. 526. (5) Op. cit. p. 28. GIORNALE LIGUSTICO 285 eli’io ne disponghi à mia voglia ». Segue un cenno dello stesso Fabri sui vari metri usati dal Chiabrera. Il Giuliani (1) scrive, per errore, che l’edizione fu impressa da Gioanni Pavoni. È anche da far parola d’un altro abbaglio del Giuliani, il quale, leggendo nel Gamba (2) che la seconda edizione delie Rime del Chiabrera fu pubblicata in Genova dal Pavoni nel 1599, e trovando pure accennata dal Giustiniani (3) un’edizione delle Rime del 1600 volle conciliare le due date, argomentando che la data del 1599 dovevasi leggere in principio e quella del 1600 in fine al volume (4). La congettura è per altri esempi, ragionevole. Senonchè il Giuliani volle che questa edizione unica da lui cercata fosse appunto questa delle Maniere de’ versi toscani, che ha in fatto la data del 1599. Ma in fine non ha la supposta data del 1600: la congettura pertanto non regge. E a scalzarla interamente concorre la descrizione dell’ edizione seguente, riferita dal Poggiali, che al Giuliani nemmeno fu dato vedere. Di quest’ abbaglio del Giuliani ho toccato più diffusamente in un mio articolo : D’ un edizione del Chiabrera inserito nella « Liguria Occidentale » di Savona del 10 giugno 1886. io. — Rime raccolte per Giuseppe Pavoni. Genova, appresso Giuseppe Pavoni 1599, in 8.°. [« Elegante edizione dedicata dallo Stampatore a Marcantonio Grillo con sua lettera del primo dicembre 1599. principio vi sono le suddette Canzonette (quelle pubblicate nel 1591) divise in due libri. Indi seguono gli scherzi divisi in tre libri ; e le Canzonette morali pubblicate da Lorenzo Fabri, che le dedica al sig. Jacopo Doria del sig. Agostino con sua lettera del 25 settembre 1599, dipoi seguono le Maniere de’ Versi Toscani, e le Canzonette dedicate dal Fabri a Gio. Battista Doria dei Signori del Sassello con sua lettera de’ 27 febbraio. In fine vi sono V. poemetti in versi sciolti, i quali cominciano con nuova segnatura e numerazione » — V. Poggiali, Op. cit. tom. 2.0, p. 20]. Pare a me di scorgere, in questa descrizione del Poggiali, accennata confusamente alcuna edizione del Chiabrera ignorata. (1) Atti Soc. Lig. vol. IX, p. 548. (2) Ediz. c*t· P* 110· (3) Of. cit. p. 256. (4) Atti Soc. Lig. vol. IX, p. 256 c $48. 286 GIORNALE LIGUSTICO 11. — Il Rapimento di Cefalo rappresentalo nelle Noççe della Cristianiss. Regina di Francia e di Navarra, Maria Medici. In Firenze, appresso Giorgio Marescotti, 1600. In 4.0 Dramma musicale, diviso in cinque brevi atti in versi di vario metro. Edizione in caratteri rotondi (1). Trovansi anche esemplari in carta grande. ■Scrive a proposito di queste Dramma il Fétis: «Les choeurs furent écrits par Stefano Ventori del Nibbio, Pierre Strozzi et par le chanoine Luca Bati, maître de la chapelle de la cathedrale de Florence et de la cour ■dés Médicis. Il Rapimento di Cefalo, donné le 6 octobre, fut le premier opéra représenté sur un théâtre public » (2). 12. — Il Rapimento di Cefalo ecc. Firenze appresso Giorgio Marescotti 1600, in 4.0 [« Edizione sicuramente diversa dalla suddetta, poiché quella è impressa in caratteri tondi, e questa in corsivi». — Cfr. Poggiali , Op. cit. tom. 2.0, p. 30]. 13. — Le nuove Musiche di Giulio Caccini, detto Romano. Firenze, Marescotti, 1601, in -folio. Consta di 40 pagine. In fine v’ha la data del 1602. Si conoscono edizioni posteriori di Venezia, 1607; Firenze, 1614; Venezia, 1615 (3). A carte 19 v’ha l’ultimo coro del Rapimento di Cefalo, messo in musica dal Caccini, e consertato, tra voci e strumenti, da settantacinque persone. .Inoltre a carte 29 e 36 v’ ha la musica di due canzonette del Chiabrera : Arde il mio petto misero. Belle rose porporine. [Gamba, Op. cit. p'. $28 ; e Giorn. dei Lett. t. i.°, p. 160]. 14. — Rime. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1600. Quest’ edizione è citata dal Giustiniani (4), che, a sua volta, cita la Biblioteca Classense. (1) Gamba, op. cit. p. $28. (2) Op. cit. tom. 2.0, pag. 141. (3) Biographie universelle des musiciens. Paris, Didot. 1866, vol. 2.0, pag. 14c). (4) Op. cit. p. 256. , GIORNALE LIGUSTICO 287 15· — Rime l d’Isabella Andreini / Padovana / Comica / Gelosa ecc./ In Milano / Appresso Girolamo Bordone e Pietro-.martire Locami compagni. MDCI. A pag. 200 v’ ha un sonetto del Chiabrera' all’ Andreini che comincia : , « Nel giorno, che sublime in bassi manti ». V’ hanno inoltre in questo .libro sette poesie indirizzate dall’ Andreini al Chiabrera. 16. —. Rime / del Signor / Gabriello / Chiabrera / raccolte /per Giuseppe / Pavoni / In Padoa / Apreso francesco bolzetta / 1601. In 12.0 Delle canzonette, libro primo e secondo; degli scherzi, libri tre; canzonette morali. Contiene inoltre le maniere dei versi toscani, e i poemetti : la disfida di Golia, la liberazione di S. Pietro, il leone di David il diluvio, la .conversione di S. Maddalena. Ai poemetti seguono alcune liriche. 17· — Rime. In Genova per Giuseppe Pavoni, 1601, t. III, tin 8.° Edizione citata dal Fontanini (1). 18. — Narrazione della morte di S. Giovanili Battista, poemetto di Gabriello Chiabrera al Serenis. Granduca di Toscana suo Signore. In Firenze nella Stamperia de’ Giunti, 1602, in 4.0 [« E in ottava rima. Dicendosi in ultimo: fine del primo libro, indica che l’Autore aveva in animo di proseguire questo Poemetto, come dipoi fece ». Poggiali, op cit., tom. 2.", p. 28. Cfr. Cinelli, op. cit., toni. 2. p. 139. Haym, op. cit. tom. i.°, pag. 193]. I9· Alcuni scher^i di Gabriello Chiabrera. In Mondovì per Henrietto de’ Rossi, 1603, in 4.0 (1) Op, cit., tom. 11, p. 86. 288 GIORNALE LIGUSTICO Edizione citata dal Cinelli (i) e dal Grassi (2). 20. — Geìopca, favola boschereccia del Signor Gabriello Chiabrera, al Sig. Gio. Paolo Torriglia. In Mondovì, per Hen-rietto de’ Rossi, 1603. Il Cinelli (3) dopo aver citato gli scherzi del Chiabrera, pubblicati, come appare dal n. 19, in Mondovi eziandio pel Rossi scrive: « In questo medesimo tempo, e luogo fu stampata la Gelopèa del medesimo Chiabrera, che fu poi ristampata in Venezia quattr’anni dopo ». Sebbene il Cinelli non dichiari espressamente l’anno dell’edizione, è impossibile intendere che non sia quello del 1603. E a stabilire questa data concorre il fatto che nel 1607 usci appunto in Venezia, pel Combi, una nuova edizione della Gelopca. L’Haym (4), lasciando le perifrasi, cita senz altro il 1603. — È taciuto dal Cinelli e dall 'Haym il formato dell’edizione. 21. — Gelopea, favola boschereccia, al Sig. Gio. Paolo Torriglia. In Mondovi, per Henrietto de’ Rossi, 1604, in 4.0 Quest’edizione è citata dal Giornale dei Lett. (5), dal Gamba (6) e dal Bertolotto (7). Io sono tuttavia poco propenso a credere che si abbiano due edizioni della Gelopea pel Rossi. Il Grassi (op. cit. pag. XLIX) cita un’edizione della Gelopea; ma la sua citazione non ha molto valore, perchè tolta dal Gamia. 22. — Italia liberata, overo delle guerre de’ Goti, poema eroico. Con gli argomenti di Scipione Ponzio. Napoli per Enrico Bacco, 1604, in 4.0 (1) Op. cit., tom. II, p. 139. Cfr. Giornali dii leu., tom. XXXVIII, p. ».*, P- >5°> Haym, op. cit., tom. I, p. 247. (2) Della tipografia iu Mondivi, Disertazione. Mondovi, Rossi, 1804, pag- XLIX. A pag. ci dà una particolarità di quest’ edizione scrivendo che 1’ insegna del de Rossi era « un leone rampante con cornucopia, il caduceo ed il motto Requie, haec certa laborum » ; e che questa impresa si scorge nella « rara edizione » di questi scherzi. (3) Op. cit., tom. II, p. 139. (4) Op. cit. , tom. I, p. 5:1. (5) Tom. XXXVIII, p. I.·, p. 146. (é) Op. cit., p. 528. (7) Noia cit., n. 10. GIORNALE LIGUSTICO 289 [« Edizione assai rara e stimata. È una esatta ristampa di quella del 1582, con variazione di titolo, essendo però il Poema stato in più luoghi corretto, e fattivi alcuni leggeri cambiamenti, specialmente nella terza stanza, ove è mutato il nome del Mecenate. Oltre agli Argomenti del Ponzio, in ottava rima, evvi in principio una dedicatoria di Marc’Antonio Ponzio fratello di Scipione a Flavio Cotogno barone d’Acrimonte, un Avviso dello Stampatore ai Lettori, e nove Sonetti di vari Poeti. Inoltre le stanze de’ respettivi canti sono in questa edizione numerate x>. — Poggiali, op. cit., tom. 2.0, p. 27]. 23. — Rime sacre, raccolte per Pier Gerolamo Gentile. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1604, in 12.0 Ouest’edizione è citata dal Giornate de’ Letterati (1); ed è pure citata dal Bertolotto, il quale però non accenna la tipografìa. 24. — Rime sacre, raccolte per Pier Gerolamo Gentile. Padova , appresso Francesco Bolzetta, 1604. in 12° [«A Marcantonio Grosso sono dedicate dal Gentile queste pregevoli Rime, con sua lettera di Genova de’ 25 Marzo 1604 ». — Poggiali, op. cit., tom. 2.“, p. 21]. Nel Bollettino periodico, n. 15 pel 1882 del Loescher è citata un’ edizione, che non m’ è stato dato di rinvenire, delle « Rime » del Chiabrera a raccolte per G. Pavoni » e pubblicate a Padova nel 1604, m 12.0 I cataloghi dei librai, si sa, non sono un modello di esattezza; e io mi permetto supporre che quest’ edizione sia la stessa descritta dal Poggiali. ( Continua). VARIETÀ L’origine di Cristoforo Colombo. Le dispute su 1 origine di Cristoforo Colombo si sono da qualche tempo riaccese, per modo che sembrano tornati i (0 Tom. XXXVIII parte I.*, pag. 150. Giorn. Ligustico. Anno XIII. »9 290 GIORNALE LIGUSTICO tempi dello Spotorno, del Belloro, dell’Isnardi, ecc. Anzi la lista delle terre che già in passato si contesero 1’ onore di aver dati i natali all’Eroe, si è recentemente arricchita di nuovi nomi; nè scarseggiano gli avvocati, i quali si assumono di trattarne la causa, studiandosi di far valere autorità ed argomenti che non erano mai stati presi sul serio. La cosa può parere strana, qualora si pensi, come oggi, a confermare Colombo per genovese, siano pure intervenuti irrecusabili documenti; se non che l’approssimarsi di una data memoranda, ci fornisce sino ad un certo punto la spiegazione. Difatti per la ricorrenza del quarto centenario della scoperta dell’America, tutti vorrebbero poter proclamare loro concittadino il Sommo Navigatore. Naturalmente uno degli uffici che si propongono gli avversari, è quello di impugnare 1’ identità di Domenico Colombo padre di Cristoforo con Domenico Colombo figlio di Giovanni da Quinto al mare. Se non che questa risulta luminosamente provata dall’ illustre Harrisse, mercè un largo corredo di atti, de’ quali è stata poi fatta una eccellente sintesi in un brillante articolo della Revue Historique da noi altra volta annunciato. Ora però crediamo opportuno di riferire distesamente dallo stesso articolo così il detto sunto come le sue conclusioni (1). La Direzione. (i) L’origine de Chr. Colomb, Démonstration critique et documentane par Sejus. — Extr. de la Revue Historique, t. XXIX, 1885, pp. 7-12, et pp. 25-27. GIORNALE LIGUSTICO 29I Un dossier de tribunal, composé exclusivement d’actes authentiques provenant des archives de Savone (1), établit les faits suivants: Titius (2), créancier par héritage, se présente devant le magistrat de Savone, le 8 avril 1500, à l’effet de se faire autoriser à assigner comme témoins les voisins d’un débiteur de feu Sejus, père de Titius (3). Ledit débiteur se nomme Domenico Colombo, et sa dette a pour origine le prix impayé d’une petite terre vendue à Domenico par Sejus. La raison pour laquelle Titius demande à assigner les voisins de Domenico , c est que ce dernier est mort et que ses héritiers ont quitté le pays depuis longtemps. Ces héritieis sont trois fils de Domenico, appelés, l’aîné, Cristoforo, le puîné, Bartolommeo , le cadet, Giacomo: Cristo-fori, Bartolomei et Jacobi de Columbis quondam Dominici, et ipsius heredum (4)... Le 26 Janvier 1501 , Titius renouvelle ses diligences , et des voisins de Domenico viennent déclarer sous serment, comme fait notoire, que ces trois fils de Domenico ne vivent plus à Savone depuis longtemps, et qu’ils habitent une certaine partie de l’Espagne: dictus Cristophorum, Bartolomeum et Jacobum de Columbis, Filios et heredes dicti quondam Dominici eorum patris, iam diu fore a civitate et posse Saonia absentes, ultra Pisas et Niciam de Provencia, et in partibus Hispania commorantes, ut notorium fuit (5). Voici donc un Domenico Colombo, débiteur pour un bien rural acheté de Sejus, à Savone, avant l’an 1500. 11 est père de trois fils, dont l’aîné s appelle Cristoforo , le puîné Bartolommeo et le cadet Giacomo. Ces trois fils ont vécu à Savone, mais en l’année 1501 ils se trouvent depuis longtemps en Espagne. Une autre circonstance, rare et digne d’être notée, c’est que le plus jeune des fils de Domenico a traduit en espagnol son nom génois. Il ne s’appelle plus Giacomo, mais bien Diego: Jacobum dictum Diegum (6). Ces faits sont désormais acquis. (1) H. Harrisse, Christoph' Colomb, ion origtne, la vie, su voyages, sa famille et ses descendants, d'apris de, document, inédits tirés des archives de Gènes, de Savone, de Séville, de Madrid, de Simancas el de Modene; appendice A , doc. XXXIX-XLI , t. II, pp. 445-448. (2) Pseudonyme ficta nomina dignis de causis, selon une coutume fréquente dans le tabellionat ligurien au XV· siècle , mais dont Salinerius nous a dévoilé la provenance. Sejus est Corrado de Cuneo et Titius, Sebastiano, fiU de ce dernier, tous deux Savonésiens. (3) In not. Moneglia , doc. XXXIX. Toutes 110s références i des actes notariés se rapportent aux actes publiés in extenso dans 1’ appendice A du Christophe Colomb de M. Harrisse. (4) Doc. XLI , p. 447, ligne 25. (5) Doc. XLII, p. 448, lignes 22-25. (6) Doc. XL, p. 447 , ligne 1. 292 GIORNALE LIGUSTICO Cherchons maintenant le contrat originel, cause première de cette procédure. Nous y relèverons sans doute de nouveaux indices. Un acte de vente du 19 août 1474, consenti par Sejus en faveur de Domenico Colombo et exécuté à Savone (1), porte sur l’aliénation d’un petit bien rural. Ce pseudonyme unique et bizarre de Sejus (2), l’acquéreur nommé Dominicus Columius, le fait qu’il s’agit d’une terre acquise par acte passé à. Savone même montrent bien que nous sommes ici en présence de l’origine de la dette signalée dans les poursuites de 1500-1501. Ce contrat, ainsi qu’on était fondé à le présumer, nous donne des rensei-gnementes supplémentaires. Le père de Domenico Colombo s’appelait Giovanni et était originaire de Quinto : Dominico de Columbo [quondam Giovanni (3)] de Quinto. Quant à Domenico, c’est un tisserand de profession : lanerio. Il habite Savone, mais vient de Gênes: Janua, habitatori Saonœ. Continuons nos recherches dans les archives savonésiennes. Le 25 mai 1471, une nommée Susanna Fontanarossa, habitant Savone, approuve , par-devant notaire , la vente que son mari vient de faire d’une propriété. Cet époux se nomme Domenico Colombo et il est tisserand de laine : Dominicus de Columbo , textor pannorum lane (4) Le 7 août 1473 , encore à Savone, cette même Susanna: Sorana filia quondam Jacobi de Fontanarubea de Bisogno et uxor Dominici de Columbo de Janua (5), ratifie la vente que ce dernier vient de faire d’une maison située à Gênes. Enfin, le 24 janvier 1477, toujours à Savone, la susdite Susanna: Superna filia quondam Jacobi de Fontanarubea et uxor Dominici de Columbo (6), approuve la promesse que son mari a faite d’aliéner une maison qu il possède à Gênes. Voici donc une Susanna Fontanarossa, épouse d’un Domenico Colombo, lequel est originaire de Gênes , et y possède une maison , quoique demeu- (1) Doc. XXVIII, p, 430. (2) Sejus civis Saonae (Ibidem , ligne il , et doc. XXVII, p. 429 , lignes 2 et 3). Nous ne saurions dire s’il s'agit ici de Cuneo, gentilhomme, ou Λ’ un Cuneo, tisserand savonôsien, qui figure dan. le doc. XI. (3) Salincrius omet les mots : quondam Johanuis , mais on les retrouve dans la Revista critica de Belloro, p. 59. D’ailleurs , l’acte savonôsien du 2 mars 1470 porte : Dominicus de Columbo civis Januae quondam Johannis de Quinto, (4) In not. Camogli , doc. XII , p. 416 , ligne 23. (s) In not. Corsaro, doc. XXII, p. 424, ligne 13. (6) In not. (iallo, doc. XXXII, p. 434, ligne 5. GIORNALE LIGUSTICO 293 rant à Savone, avec sa femme, au moins de 1471 à 1477 , et qui exerce la profession de tisserand. Nous ne tarderons pas à voir que cette Susanna est 1 épouse véritable de Domenico Colombo et la mère du grand Christophe. Cette concordance avec les faites relevés dans les autres actes notariés et se rapportant à Domenico Colombo , tisserand, demeurant à Savone quoique originaire de Gênes , et acquéreur trois ans auparavant d’un bien rural, est déjà digne d’être notée. En effet, on ne voit pas tous les jours en même temps, fût-ce dans la terre promise de Γ homonymie , deux individus appelés l’un et l'autre Domenico Colombo, l’un et l’autre fils d’un père appelé Giovanni, l’un et l’autre habitant Savone, quoique venant l’un et l’autre de la ville de Gênes, l’un et l’autre propriétaires dans cette dernière cité, et l’un et l’autre tisserands de drap. Cependant, comme nous n’avons pas encore prouvé que ce dernier Domenico fût le père de trois fils, ni que le Domenico premièrement mentionné ait eu pour femme une nommée Susanna Fontanarossa, nous allons serrer nos facteurs de plus près. L’acte ratifié par Susanna Fontanarossa, le 23 janvier 1477 , renferme une description de l’immeuble que son mari a promis de vendre. C’est une maison dans le faubourg Saint-Etienne, de Gênes: in burgo sancti Slephani, sur la voie Saint-André : in contracta Sancti Andree. Or, le 21 juillet 1489, un Domenico Colombo transfère une maison située à Gênes. Il est veuf d’une femme appelée Susanna : Susana olim uxores dicti Dominici, et père de trois fils, dont l’ainé se nomme Cristo-foro , le puiné Bartolommeo , le cadet Giacomo : Christopbori, Bartliohmœi et Jacoli, filiorum ipsius Dominici. Quant à la maison, elle est située à l’endroit même où se trouve celle dont Susanna Fontanarossa a ratifié la promesse de vente en 1477 : positis Janua in contracta porta Sancti Andrea. On relève également sur cet acte une indication nouvelle et qui aura son importance plus tard : Domenico a eu de Susanna une fille mariée au bénéficiaire de la transaction, lequel se nomme Giacomo Bavarello et est marchand de fromages : Jacobus Bavarelus formaijarius... Dominico Columbo ejus socero (1). Que manque-t-il encore? La profession de ce Domenico et le nom de son père. Les voici : le loyer de cette maison était resté impayé. Au 23 août 1490, on le solde à Domenico Colombo; sa quittance décrit l’im- (1) In not. Coït» , doc. XXXVI, p. 459 , ligne 4 , et p. 440 . ligne 14. 294 GIORNALE LIGUSTICO meuble comme ci-dessus : in burgo Sancti Stephani, in contrada porte Sancti Andree , et désigne le propriétaire en ces termes : Dominicus Columbus textor pannorum lane quondam Johannis (i). Que peut-on demander de plus? Le lecteur notera que M. Harrisse a publié dans son Christophe Colomb quarante autres documents notariés concernant un Domenico Colombo, fils de Giovanni, tisserand de laine , vivant à Gênes et à Savone , de 1439 à 1494, et qui est, à n’en pas douter, le Domenico Colombo dont nous venons de retracer la vie de 1471 à 1490. Cependant, le critique américain (c’ est son genre de coquetterie) n’emploie ici que les actes visiblement rivés l’un à l’autre, et, on peut le dire d’ores et déjà, formant un faisceau inséparable et indestructible. Nous devons donc considérer les faits suivants comme prouvés documentairement : Vers la fin du XV* siècle, il y avait à Savone un tisserand de laine appelé Domenico Colombo. Il était fils de Giovanni, venait de Gênes, mais tirait son origine de Quinto. Sa femme se nommait Susanna Fontanarossa; elle était originaire du Bisagno, et, de son mariage avec Domenico Colombo , naquirent au moins trois fils et une fille. Ces trois fils s’appelaient, l’aîné Cristoforo , le puîné Bartolommeo , le cadet Giacomo, et tous trois vécurent à Savone. En l’année 1501 , ils étaient depuis longtemps en Espagne, où le plus jeune avait adopté le nom de Diego. Il ne faut plus maintenant que de l’impartialité, un peu de jugement et une idée adéquate du milieu et de l’époque, pour tirer logiquement de cet ensemble de faits si serré ce que l’on sait avec certitude, d autre part, de la famille et de la jeunesse du Christophe Colomb qui découvrit l’Amérique. Nous allons le démontrer. Au XV* siècle , à Gênes , celui qui était fils d’un tisserand-cabaretier (2) et beau-frère d'un marchand de fromages ou de charcuterie (3), passait, généralement, pour être de condition modeste. Or que dit Antonio Gallo, annaliste officiel de la république de Gènes , compatriote et contemporain de Christophe Colomb, dans sa description de la découverte que ce dernier venait d’accomplir? Christophorus et Bartholomaus Columbi Fratres , natione Ligures, ac Genua plebeis orti parentibus (4). L’évêquc Giustiniani , (i) In not. Parri&ola, doc. XXXVI bit, p. 44* t ligne $. (i) Dominici, d, Columbo civi, Janua, q. Johanni, dc Quinto textor pannorum it tabirnariu,. In not. Gallo, doc. VIII, p. 413, ligne 4. (3) Jacopo di Bavarello pizzicagnolo (in Genova diilo formaggtaro'). Spotorno, Della Origine etc., Genova, 1819, in-8® , p. 17a, 173. (4) De Navigatione Columbi, dan* Muratori , t. XX11I, col. 301- GIORNALE LIGUSTICO 295 autre concitoyen du grand navigateur , est plus explicite encore : vilibus ortus parentibus (1). N’est-il pas aussi avéré que le père du célèbre navigateur se nommait Domenico? Dominico Colom su padre (2), lisons-nous dans Y-Histoire des Indes rédigée par Oviedo, chroniqueur attitré, qui connut personnellement Christophe Colomb, ses frères et ses fils, dont un, l’aîné, intimement. Peut-on révoquer en doute que ce père fut tisserand de profession? Nam textor pater, disent Gallo et Senarega , ce dernier aussi Génois et contemporain (3). Qu’il existait encore dans le dernier quart du XV'siècle? Oviedo rapporte que Colomb, fils dévoué, alors qu’il vivait en Portugal, envoyait des secours à son vieux père : socorria a su padre viejo (4). Christophe n’eut-il pas deux frères, l’un appelé Barthélémy, qui était son puîné; l’autre, le cadet, nommé Jacques ou Diego ? Bartholomaus minor natu,, dit Gallo. Bartolomè e Diego mis hermanos, répète mainte fois Christophe dans ses écrits (5), et en citant toujours ses deux frères dans l’ordre des actes savonésiens , lesquels nomment Christophe le premier et Barthélémy le second. N’a-t-on pas la preuve que trois frères Colombo , appelés respectivemet Cristoforo, Bartolommeo et Giacomo, fils de Domenico, vécurent à Savone avant l’an 1500? Comparez les documents : au 7 août 1475, « Christophe, fils de Domenico do Gênes et de sa femme Susanna , fille de Giacomo de Fontanarossa, » signe un acte notarié à Savone (6). Le 16 juin 1480, Domenico Colombo, dans cette même ville, nomme « son fils Bartolommeo » mandataire (7). Enfin, le 10 septembre 1484 , Jacobus de Columbo Dominici civis Janua (8) entre en apprentissage à Savone chez un tisserand. Ce nom de Diego n’est-il pas l’équivalent espagnol de Giacomo , équivalent confirmé encore par l’expression Jacobum dictum Diegum de l’assignation savonésienne du 8 avril 1500? Un autre acte précité du dossier savonésien porte qu’en 1501 , Cris- (1) Piahtrium , Genuae, 1516, iu-fbl., manchette du psaume XIX. (2) Hiiloria generai de las Indiai. Madrid, i8$l , t. I , p. il. (3) De rebus genuensibus , dans Muratori , t. XXIV, col. 534. (4) Oviedo , ubi supra. (5) Navarrete, t. II, pp. 227, 313, 314. (6) In not. Corsaro, doc. XXII, p. 424 , ligne 14. (7) In not. Basso, doc. XXXIII. p. 436, ligne xi. (8) In not. Basso, doc. XXXV, p. 437, ligne 17. 296 GIORNALE LIGUSTICO toforo , Bartolommeo et Giacomo dit Diego étaient depuis longtemps en Espagne: iam diu fore... in partibus Hispaniœ commortntes , Christophe Colomb n’était-il pas en Espagne à dater de i486, Barthélémy depuis 1494 et Jacques ou Diego à partir de 1493, sans qu’aucun d’eux ait revu le pays natal avant 1506? Le lecteur notera que tous ces faits concomitants proviennent de sources indépendantes des actes notariés savonésiens qui servent de point de départ à l’enquête de M. Harrisse. Ils sont empruntés à des historiens génois ou espagnols, contemporains de Christophe Colomb, et, par leur position officielle, en état d’être exactement renseignés. Supposer qu’une chaîne de concordances aussi serrée s’ajusterait de même à un Domenico et à un Cristoforo Colombo autres, mais jusqu’ ici complètement hypothétiques, serait faire montre d’une crédulité rare. En résumé, quel est le Christophe Colomb des Historié et de la légende ? Le rejeton légitime d’une famille patricienne originaire de Plaisance, dont la noblesse remontait au temps des Romains , Christophe Colomb naquit on ne sait où. Pauvres mais fiers, ses ancêtres ne s’abaissèrent jamais à travailler de leurs mains, et aucun de ses parents n’exerça d’état manuel. De père en fils, ils furent tout marins de profession , et, avant Colomb, on compta des amiraux dans cette noble lignée. Colombo, Varchipirata illustris (1), ainsi que Colombo junior, dont le nom seul faisait frissonner d’épouvante les enfants au berceau , étaient du nombre de ces valeureux ancêtres (2). Dans sa jeunesse, Colomb alla étudier à Pavie la cosmographie et l’astrologie. Il embrassa néanmoins la carrière maritime dès l’âge le plus tendre et ne cessa plus de naviguer. Son habileté devint telle que le roi René lui confia le commandement d’un grand navire de guerre et le chargea personnellement d’aller à Tunis s'emparer d’une galéasse ennemie. Il combattit aussi sous les ordres de son illustre parent Colombo junior, pour le compte de la France (3), et prit part au fameux combat naval du cap Saint-Vincent. L’ennemi fut cruellement décimé, mais le vaisseau (1) Sabellicus, Opera omnia, Basileae, 156ο, in-fol., t. II, col. ι$3^· (α) Col suo nome spauentaua i fanciulli nella culla (Historié, 1571 » I0> r‘ (3) Nécessairement, puisque le Colombo qui commandait la flotte victorieuse était un Français de naissance, amiral de Charles Vili, combattant sous le pavillon fleurdelisé. GIORNALE LIGUSTICO 297 amiral, sur lequel se trouvait Christophe Colomb, ayant été dévoré par les flammes, ce dernier se jeta à la mer et, sachant très bien nager, atteignit heureusement la côte du Portugal. C’est ainsi qu’il aborda dans ce pays (après le 21 août 1485, date authentique de ce mémorable combat). Colomb se rendit immédiatement à Lisbonne où, en allant à la messe, il fit la conquête d’une noble demoiselle. C’était la fille de Pietro Mogniz Perestrel, en son vivant grand marin et l’un des trois navigateurs qui découvrirent l’île de Madère. Colomb alla vivre avec sa belle-mère, laquelle, voyant le goût de son gendre pour la cosmographie, lui communiqua les papiers et les cartes nautiques de son défunt époux. Et comme une chose en amène une autre: una cosa dipende dall’altra, ainsi lui vint 1 idée qu’à l’ouest des Canaries il y avait des terres abordables. On sait le reste. Que disent au contraire les faits et les documents; quelle synthèse imposent-ils à l’historien sérieux? Christophe Colomb appartenait à une famille d’obscurs plébéiens, originaire de quelque village de la vallée de la Fontanabuona , peut-être Terrarossa ou Moconesi. C’étaient de pauvres tisserands de laine. L’un d’eux, après avoir passé par Quinto al mare, vint à Gènes même, où, vers l’année 1439, ’l s’établit pour son compte, dans le quartier Saint-Étienne. C’était Domenico Colombo , père da Christophe. 11 avait épousé une femme du Bisagno, appelée Susanna Fontanarossa, appartenant aussi à une famille de tisserands, et qui lui apporta une petite dot en argent. De ce mariage naquirent cinq enfants. Christophe, qui était l’aîné,.reçut quelque instruction, vraisemblablement dans une de ces écoles élémentaires que la corporation des tisserands subventionnait au Borgo dei lanieri. Les quatre fils de Domenico Colombo travaillèrent de leurs mains pour vivre, et, suivant l’usage des artisans génois, au métier qu’exerçaient leurs parents. Ce fut sans doute dans l’atelier de son père que Christophe apprit à tisser ou à carder la laine, et nous inclinons à croire que, son apprentissage terminé, il continua à exercer cette profession pendant quelque temps encore. Il est vraisemblable que Colomb accompagna son père à Savone, lorsque celui-ci alla s’y établir comme tisserand-cabaretier en 1470. Cependant rien n’empêche d’admettre qu’au sortir de l’adolescence, Colomb n’ait mené de front les exigences du métier, quelques -études nautiques et 298 GIORNALE LIGUSTICO certains voyages maritimes : combinaison dont on voit fréquemment des exemples parmi les ouvriers des ports de mer. C’est dans ces conditions que, jeune encore, il a pu faire partie de l’équipage du navire de guerre envoyé à Tunis par René d’Anjou, pour s’emparer dune galéasse ennemie. Vers l’année 1473, Colomb s’émancipa complètement et émigra en Portugal: pavs dont les rois accueillaient alors les marins génois avec empressement (1), et qui armaient de nombreuses expéditions pour cette côte d’Afrique où les esprits avides et entreprenants voyaient déjà miroiter de faciles richesses. Il vécut douze ou quatorze ans en Portugal, et c est sans doute de Lisbonne, où il paraît même avoir fait du négoce, que Colomb rayonna au nord jusqu’à Bristol et l’Islande, au sud jusqu’en Guinée. C est aussi dans cette ville qu’il se maria avec la fille d’un Moniz ou d un Perestrello , lequel, qu’on le nomme Pietro ou bien Bartholomeu, ne fut jamais marin (2) ni ne découvrit Madère ou quoi que ce soit. Il « Pater Noster » dei Corsi in lode del Giafferri Uno degli uomini che ebbero gran parte nelle turbolenze della Corsica fu Luigi Giafferri della Bastia. Di famiglia assai civile, provveduto di sostanze, di numerosa parentela e di molte aderenze, venne eletto nel 1729 de dodici Nobili Rappresentanti la regione Cismontana (1). E, chiaritosi fiero oppositore del governo genovese, ebbe nell’ anno successivo, quando i corsi levarono le armi, in un col Cecaldi 1 alto ufficio d: (1) Les Pessagno, Antoniotto Usodimare, Antonio Noli, etc. etc. (2) Bartholomeu Perestrello était un gentilhomme dirigine lombarde qui, attache i la personne d’un des infants de Portugal, fût chargé en 142s, peut-être en 1446 seulement, d’aller coloniser l’ile de Porto Santo, découverte ou redécouverte par Joam Gonçalvez Zarco et Tristam Yaz Teixeira, en 1418 ou 1419. Azurara, écrivain contemporain de l’événement et qui fût autorité, dit seulement que Perestrello accompagna les découvreurs lorsqu ils retournèrent aux îles. (Cbriiiopbe Colomb, t. I, p. 173. Voir aussi Barros et Damijm de Goes). (i) Cfr. per le notizie del Giafferri Cambiaci, Istoria M regno di Corsica* s. n. tip. 1771, III, 19, 52* 60, 73 e passim. GIORNALE LIGUSTICO Capo della Nazione, e di generale de’ sollevati. Si condusse strenuamente, dando prova più volte d’animo nobile e generoso, come allorquando entrato nel’32 vincitore in Sarsene si commuove alla vista delle femmine imploranti, e dà tutti i prigioni per aver in cambio un amico (1). Con la sua avvedutezza e col suo ardire seppe sgominare sì fattamente gli avversari, che furono costretti a chiedere gli aiuti imperiali, impossenti com’ erano a domare quella rivolta. Consentì poi alle proposte messe innanzi dal generale austriaco, desiderando, mercè un equo componimento, cessassero i danni che quella guerra recava alla patria; ma quando si credeva, sicuro sotto la fede dei trattati, vien preso co’ suoi compagni nella stessa residenza del generale , cui non mancò il sospetto di corruzione (2), è sostenuto alcun tempo in Bastia, poi mandato a Genova sulle galere della Repubblica, e quindi rinchiuso nella fortezza di Savona, mentre gli si fa il processo di perduellione che lo doveva condurre al supplizio. Senonchè il fatto e il modo dispiacque alla corte di Vienna, la quale ne levò alte lagnanze, e alla fine, dopo molto tergiversare, grazie le vive istanze del Principe Eugenio, viene messo in libertà, costretto pero a pubblico atto di sottomessione innanzi al Senato ; il quale usa blandizie , e gli offre con una buona pensione il carico di Capitano di Savona : ma egli non si vende, rifiuta ogni beneficio e ritrattosi a Livorno se ne ritorna indi a breve chetamente in Corsica , dove le sevizie de’ nuovi proconsoli genovesi e i rotti patti tenevano in armi gli isolani. Campato così da certa morte, sventate le trame de’ nemici che ne volevano macchiare Γ onore e che ora cercavano di vituperarlo in ogni guisa, ebbe fra’ suoi (1) Tommaseo, Lettere di P. Paoli, Proemio, pag. 129 in Arch. Stor. ltaì. Ser. i,* T. XI. (2) Giustificazione delia rivoluzione di Corsica, Corte 1758, pag. 203 e seg. 300 GIORNALE LIGUSTICO liete accoglienze e riconferma dell’ alto ufficio, di stima e d’ affetto ond’ era proseguito, ci testimonianza i seguenti versi (i): Invitto Duce protettor de’ Còrsi Difensor della Patria, e del suo gregge, Della giusta ragione, e della legge Padre, che col tuo sangue ci dai vita Arme, coraggio, libertà e vigore, Che per te solo si mantien 1’ onore Sarai quel nostro gran liberatore , Che il duro giogo ci torrai dal dorso , Perchè d’illustre schiatta e vero Corso Che sei prode si sa da quel valore , Che sconfisse il Griffon con l’ardir suo; Ben degno è d’ esser scritto il nome tuo Ne’ Cieli sempre avesti confidenza , E i Cieli ti daran certa vittoria, Il tuo nome immortai direni con gloria Sia pur santificato il nostro Eroe, Ognun dirà di noi per farsi onore, E in vita e in morte porterem nel cuore Il nome tuo sì ben si fece noto, E niuno meglio il sa del Veneroso , A cui dicesti saggio e maestoso: Venga la fama a dir 1’ eroiche imprese De i più degni campion d’Italia vasta, Che al tuo merto, Giaffer, dirà: non basta Il Regno Corso di ragion convienti Per averlo difeso con calore , Col sangue, coll’ ardire, e col valore Tuo è il trionfo, nostra la fortuna , E se a noi stasse il darti la corona , Direbbe: è tua, di cuore ogni persona; , Del sentimento porgono buona Pater. Noster, Qui es. In coelis. Santificetur. Nomen tuum. Adveniat. Regnum. Tuum. Fiat. (i) MS. del sec. XVIII, Raccolta di varie poetiche compositioni; presso di me. GIORNALE LIGUSTICO 3OI Sia fatta la giustizia al tuo gran merto , Se fosse d’uopo anche alla morte andare, Perchè da’ Corsi si fa venerare Tua volontà e giustizia ci fia guida Per arrivare alla bramata meta, E con questa goder calma perfetta Così nel giusto ciel speriamo tutti Di vendicar ben presto i crudi torti , 0 pure esangui rimaner fra’ morti Come in terra soggetta al tuo impero , Generoso campion, sì che morremo Piuttosto che mangiar dannati al remo Il nostro pane in un col nostro sangue Brama Genoa crudel, madre del vizio , Per condannarci tutti ad un supplizio Cotidiano sarà ’l tuo gran coraggio, 0 giusto, 0 forte General ben degno , ■ E quel che sopravanza al tuo disegno Dacci un sol cenno, chè vedrai ben tosto Ciò che sa far il grande ardir de’ Corsi, Pronti a sbranar la crudeltà coi morsi Oggi sempre saremo quel che fummo. A tante offese mai daremo oblio , Nella morte col cuor diremo : addio Perdona a noi, Signor, abbiam peccato, Ma la causa ne fu la guerra trista Che ci tolse da mente, e dalla vista I peccati di noi saran rimessi, Ma i Genovesi immersi in error brutti, Non son già degni d’essere assoluti Siccome noi viviamo di fatiche Lor vivon di rapine , e tradimento, E mai dicon con vero 'sentimento : Perdoniamo di cuor, se pur vorranno Renderci libertà coi cuor sinceri, Acciocché andiamo a lor co’ nostri averi, A’ nostri debitor si chiede il giusto, L’ ingiusto pagherem a suon di tromba Con moneta di palle 0 pur di bomba, Voluntas tua. Sicut in coelo. Et in terra. Panetti nostrum. Quotidianum. Da nobis. Hodie. Et dimite nohis. Debita nostra. Sicut et nos. Dimittimus. Debitoribus nostris. Et ne nos inducas. 302 GIORNALE LIGUSTICO Non indurci a ciò far, empio Griffone. Ricordati di ciò che fece il Figlio , Quando tu entrasti con 1’ infame artiglio In tentationem. In tentazione siam di far vendetta , Più crudele fia il mal quanto più tardo , Perchè detto t’ abbiam con gran riguardo : Sed libera nos. Ma liberi noi Dio dall’ ubbidirti , Pentapol infernal , Genoa perversa , In secca piaggia tu sarai conversa A mah. Dal male Dio ci guardi, e dal nemico Mercè la grazia di Gesù e Maria , Viva il nostro Giuseppe e cosi sia. Amen. Mi pare non possa cader dubbio sul tempo in che venne scritto questo componimento, rilevandosi assai chiaro, secondo me, dal contesto come sia da assegnarsi all’ anno in cui il Giafferri, tornatosene in patria insieme ad alcuni amici, ravvivò le speranze de’ corsi, i quali sotto la sua guida s apprestarono a sostenere una lotta novella. Scritture del genere di quella da me riferita , rispetto alla forma della quale io non dirò nulla, bastandomi ricordare quanto ne ha discorso il Novati (i), ne debbono essere venute fuori parecchie a quei dì dall’ una parte e dall’ altra, chè un versaiuolo di parte genovese , volgendosi con un sonetto al Doge per eccitarlo contro ai corsi scrive (2) : Tutto il mondo risuona a’ lor clamori Escono infamità scritte e stampate Tripudian baldanzosi in Pasquinate Per sincerar, ribelli, i loro errori. È notevole il benevolo ricordo del Veneroso, vale a dire di quel Girolamo che appunto mando la Repubblica commis- (1) Una poesia politica del cinquecento in Giornale di Filologia romanza, Ï, 155- (2) Semini, Epitome di diversi componimenti ecc. MS. R. Universitaria F. III, i. pag. 40. λ L 503 sario in Corsica su’ primordi delle turbolenze; accettissimo agli isolani per la sua mitezza, il solo che, dotato di gran senno, avrebbe potuto e saputo ricondurre la pace e la fiducia con equi temperamenti, se appunto perciò non ne fosse stato levato via sollecitamente da’ raggiri de’ malconsigliati governanti. In un’ altra poesia posteriore di certo alla qui riferita, già comparsa in queste pagine (i), v’ha pure onorevole ricordo di lui, il che mostra come que’ popoli non dimenticassero gli uomini degni , e non fossero ingrati. Eppure non vi fu vituperio che storici faziosi o libellisti prezzolati non lanciassero contro i generosi ribelli, i quali volevano scuotere la dura, tirannide dell’ oligarchia genovese. La quale con ogni maniera di sgoverno rendeva sempre più alieni da sè gli animi dei corsi, e cospirava a poco a poco, da prima inconsciamente, poi consapevole, a spiccare que' popoli della famiglia italiana; chè la cessione del 1768 riconosce la sua origine ben più in alto, ed è dolorosa e vergognosa conseguenza di colpevole debolezza e di studiata inerzia. Ne abbiamo la prova più aperta in una lettera privata scritta da Venezia il 12 gennaio 1759 da Gian Giacomo Grimaldi, uomo reputatissimo, commissario in Corsica, e uscito di recente dal dogato (2), a suo cugino Luigi Ghe-rardi, che ha lasciato di sè bella fama, sostenendo importanti uffici, specie quello delicatissimo e di tanto momento, di segretario della Repubblica. Io la reco qui esemplandola sopra la minuta autografa (3) : (1) Anno 1882, pag. 260. (2) Cfr. la biografia scritta da Giovanni Scriba (Belgrano) nel Caffaro, a. 1884, numeri 117, 118, 120. (3) R. Archivio, Carte private. 304 GIORNALE LIGUSTICO Non parerà stravagante a V. E. che ancor' di costà lontano, continua-mente pensi a’ vantaggi della nostra Repubblica, e che la mia quantunque tenuissima imaginazione vada sempre ruminando gl’ interessi della medesima; so che nulla puole arrivar di nuovo alla sua mente illuminata, e che qualunque contingibile circostanza sarà ottimamente preveduta dal suo alto intendimento ; onde resterà sicuramente superflua qualunque mia riflessione, ma prego V. E. donarla al mio zelo, e permettermi uno sfogo al mio timore. Francesi in Corsica , no : benedetta quella bocca che lo pronunciò. Ma francesi in Corsica si dicevan coloro a’ quali nulla importava acquistare e continuare una soggezione alla Repubblica, purché venisse qualche soldo, ed anche senza di questo avrebbero acconsentito, senza farsi carico del grave errore che commettevano, e del debito di cui si caricavano appresso i nostri posteri. Dopo una lunga resistenza vi contribuii anch’ io, o per dir meglio esposi che 1’ irreparabile perdita di tempo in quella congiuntura fecimo al solito, non ci lasciava altro scampo che di o condiscendere, o pure di farla in maniera che conveniva ad un Principe che desidera aderire, ma in quelle forme nelle quali si conserva la riputazione e l’indipendenza; cose passate che non serve a rammemorare; ma solo conviene minorare il male come si può. V. S. non ignora esservi alcuni Pianeti nel nostro Cielo cne tramandano maligni influssi contro la Corsica, alcuni apertamente, altri nascostamente e senza chiaramente spiegarsi ; il peggio effetto per ora che producano è di non leggere mai le lettere, di non parlarne che di rado, e di passaggio , di non accudire alle incidenze che occorrono in quel Regno , cose tutte che all’ orba conducono la Repubblica a risentire infine quelli effetti, che poi tutti insieme tenderanno al conseguimento di quel fine che si sono prefissi. Illecita condotta con cui abusano della semplicità e confidenza della moltitudine, la quale riposa su la sincerità, e provvidenza di pochi. Se 1’ occasione si presenta in Trono di parlare delle Torri, de’ Scali, del Capocorso si dipingono come siti di poca importanza, e di difficile difesa, quando con cento venti huomini si tengono tutti, anche senza i francesi, e tutti i ribelli non ponno prenderne un solo ; se si tratta di soccorrer S. Pellegrino non si vorrebbe anche a costo della vergogna che ne risulterebbe dalla perdita; i Presidii così lon tani uno dall’ altro si dipingono vicini per mostrare che le torri non sono necessarie ; si procura di far scordare la risoluzione presa dal Minor Consiglio di conservare detti posti; in somma si fanno tutti i sforzi per ot tenere l’intento di perdere la Corsica col fatto, già che da Consigli non giornale ligustico 305 se ne p.uò ottenere il decreto. In questo illecito metodo si continua anche presentemente in occasione dei disturbi che i ribelli danno alle vicinanze della Bastia, e si conta per spesa insopportabile alcune centinaia di razioni che sarebbe necessario somministrare a chi deve lasciare il giornale travaglio per correre alla difesa de’ suoi beni. Lascio da parte la giusta critica che meritano gli ufficiali dello Stato maggiore che presentemente si ritrovano in Corsica. I Corsi procurano di formarsi qualche difesa nelle sue vicinanze per più comodamente ed a longo incomodarla; ma è pubblico che tutto giorno gli ufficiali francesi vi si conducono, e che alla loro presenza si commettono le ostilità contro de’ paesi che riconoscono la sovranità della Repubblica , ed è verisimile che vi concorrino con i consigli, e con gli indizi, come facevano in tempo mio, e come consta che abbino eseguito dopo che in Corsica si ritrovano anche i più recenti. Si soverà V. E. tutti i sforzi che ànno fatti i francesi per occupare anche la Bastia, e quante volte ci è convenuto resistere ; è troppo natu-turale che loro stessi sussistino i ribelli, e li assistino ad incomodare quella città, per indurre poi la Repubblica a permettere il loro ingresso per far cessare quelle ostilità; conseguenza che non sarebbe ingrata a quei tali che cercano tutti gli appigli per peggiorare la condizione di quell Isola a nostro riguardo. Bisogna dunque stare in guardia, invigilare a tutto, cosa si taccia qua e là, quali possino essere le corrispondenze; V. E. meglio intende di quel che mi saprei spiegare, e di quello che non conviene fidare alla carta. Sono presenti a V. S. tutte le utilità concesse da fiancesi, senza, convien credere, attiva ingerenza della Corte, tanto in Calvi, Aiaccio, e S. Fiorenzo, fino dal loro ingresso in Corsica; l’incomodo però che presentemente, si soffrirebbe dalla loro ingerenza , si rende troppo dannoso, ed insopportabile, onde non si deve trasandare qualunque più viva istanza a Parigi , senza contentarsi di quei rimedii deboli, e pagliativi che per l’addietro si è preteso apportarci da’ Regi Ministri. In secondo luogo bisogna risvegliare il governo da quella noncuranza in cui si ritrova presentemente coltivata , e ben veduta da chi tiene massima diversa. L Ecc.ma Gionta di Corsica distratta ne’ suoi membri e nel suo capo da oggetti pubblici appresi di maggior rilievo, o da privati al solito, quantunque provveduta de’ più conspicui ed intelligenti patrizi, non si raduna o ben di rado unicamente per rispondere o provvedere a quelle poche accidentalità che le vengono tramandate , senza aver presente la traccia e la continuazione di quei affari che credo non acquisteranno mai, perchè mai si daranno la pena di riandare Giorn. Ligustico. Anno XIII. · 3o6 GIORNALE LIGUSTICO il passato, diligenza che non basterebbe a pienamente informarli, stante la poca pratica che anno di quelle situazioni, paesi, et abitanti. Quale vergogna per un Governo essergli affatto ignoto un paese che da tanto tempo si governa, cosi vicino, e che costa somme immense. Le lunghe malattie e croniche , ancorché disperino i medici ed i parenti, mai lasciano questi d’ acudire e somministrare i medicamenti agli ammalati; voglio che al nostro cronico non si somministri i sciroppi di perle, le polveri di corallo, ma i brodi lunghi che lo nutrischino ; la visita dell’assistente almeno non risparmiarla; questo sarà il primo Stato che un Principe perderà per non leggere, per non scrivere, per non parlarne. A Venezia le ufficiature cominciano alla mattina alle 16, finiscono alle 2i ; al dopo pranzo quando vi è Pregai alle 22 e dura molte ore della sera, tutti si fanno un debito di concorrervi, i desviati cridano, ma vanno, e pure è un paese dove abbonda il divertimento e si ama molto. Alle quali gravissime osservazioni rispondeva il Gherardi tristamente esser pur troppo conforme a verità quanto il savio patrizio affermava, del che faceva egli stesso quasi ogni di Γ esperimento, quantunque in mezzo all’ ignavia dei molti si reputasse incapace a’ rimedi efficace : soltanto movea rimprovero al suo concittadino, perchè quando più la patria si mostrava bisognosa del suo consiglio egli se ne stesse lontano. Ma il Grimaldi, fatto segno ad una guerra sorda, con mente che guarda lontano ben sapeva quali amarezze erano riserbate ai cittadini zelatori del pubblico bene, e se ne dimorava in disparte, già prevedendo nove anni innanzi come la Repubblica per sua colpa avrebbe perduto anche quel regno. A. N. Un Missionario al ChilI nel Secolo xvii. Niccolò Mascardi nato in Sarzana di famiglia assai chiara, già un tempo signora del Castello di Trebiano, vesti giovanissimo 1’ abito della Compagnia di Gesù, secondo avevano fatto alcuni suoi consanguinei, fra i quali si distinse Agostino, GIORNALE LIGUSTICO 307 il cui nome vive pur sempre onorato nelle storie letterarie. L esempio dei compagni, gli eccitamenti dei superiori, e la fervida fantasia gli posero nell’ animo un cosi profondo convincimento d essere chiamato alle missioni ne’ paesi degl’infedeli, che delibero recarsi nell’America Meridionale. Ma il padre, cui egli aveva aperto il suo fermo proposito , gli ricuso il consenso, ed alle lettere, colle quali in tono un po’ enfatico cercava di persuaderlo, affinchè non volesse opporsi ai divini voleri, rispondeva molto tranquillamente : « Stimo non convenirsi alla vostra età, alla vostra complessione un viaggio si lungo e travaglioso, e desiderando voi sacrificale a S. D. M. la vita, potete ciò conseguire anco standovene in Roma, con esercitarvi in opere pie, faticare nella vigna del Signore, e negare la propria volontà.... io vi parlo cosi alla piana senza tanti colori rettorici » (1). Ma furono tutte parole inutili; e Niccolò tanto fece che anche il padre alla fine dovette consentire. S’apprestava perciò con gran fervore religioso alla partenza; conosceva bensì per lettori. che questa sua andata era « di molto sentimento » al padre, a tutti i suoi di casa e agli amici; « ma che vuol fare? (così rispondeva) nonne, conveniemus in aeternitate? Hor doniamo un poco a Dio da dovero questi quattro giorni ». 1 arti da Genova nel Marzo del 1647» c dopo essersi trattenuto alquanto in alcune città della Spagna, si condusse , non senza burrasche e traversie che allungarono la navigazione, nel Chili. Lo troviamo infatti nella missione stabilita a Buona Speranza (2) , dove il pensiero della patria, della (1) Le citazioni sono tratte dagli autografi che si conservano in Sarzana presso l’egregio mio amico avv. Carlo Bernucci. Riproduco come sta; correggo solo l’interpunzione. (2) Cfr. D’Ovaglie A. Historica relatione del regno del Cile, Roma 1646, pag. 24. 3o8 GIORNALE LIGUSTICO famiglia e dei parenti si fa in lui più vivo e desidera sapeie le più minute particolarità del paese e dei suoi ; ringrazia il padre « per tutte le nove », che gli dà, e lo prega a non cessare di « scriverle in tutte le lettere », perchè egli sta « nell’ultimo del mondo ». Ed eccolo nel pieno esercizio del suo ministerio; udiamo lui stesso: « L’altro giorno andai a la terra degl’ infedeli (che stanno vicinissimi) e si giuntarono dieci o dodici Cacichi, che son Re piccoli fra essi, e gli parlai sopra le cose de la santa fè, e con molta allegria mi promisero ricevere il battesimo fra pochi giorni, e fabbricare nella sua terra una chiesa, e ritornerò là quest altro mese, per battizargli, e cominciar la chiesa. Questi indiani con la conversatione delli Padri della Compagnia già non sono tanto crudeli come prima, anzi quando vo là mi fanno molte cortesie. In questi paesi questo decembre si vidde una terribile cometa, et en el Perù, nell’Alden de Chuqujabo (i) si vidde il sole con quarantadue circoli all intorno, trapasado di una lanza bianca, e vicino al Sol y luna si partì una stella, e dopo molto camino ritornò subito al suo luogo, et in un monte parve un grande scoglio tutto acceso al medesimo tempo. Dio ci liberi di mali segni. Donde io sono stato non ho sentito terremoti d’importanza, solo uno fu tanto grande che tutte le campane delle chiese sonarono per se sole, e questo fu in Santiago di Chili ». Se non che un bel giorno gli indigeni irrompono nella casa dei missionari e vi appiccano il fuoco. Il Mascardi rimase spogliato di tutto, e fu costretto per oltre sei mesi a peregrinare nascondendosi or in un luogo or in un alti o, fino a che si ridusse alla Concezione. Da questa città ricominciò i suoi viaggi per altre parti di quella vasta regione americana, e non pochi anni passò nell’isola di Chiloè, d onde (i) Forse « Ande de Coquimbo ». GIORNALE LIGUSTICO 309 nel 1666 scriveva: « Io sto sin’ora in queste missioni e isole dell’Arcipelago di Chiloè, e questa primavera spero passare avanti verso la terra incognita dello stretto di Magagliano , a un’ isola dove ho saputo che sono venuti molti barbari tutti nudi, che solo portano come un braghero di pelo di cane per coprirsi un poco, nel resto tutti nudi homini e donne. Già ho battezzato alcuni di loro ; hora sto studiando la loro lengua per andare a insegnare la fede, e battezzare gli altri, però ritornerò a Chiloè questo medesimo anno ». La vita che conduceva in quell’ arcipelago era molto disagiata, pure non ebbe a lagnarsi della salute. Il che affermava con un sentimento di soddisfazione; « perchè (come dice) qui è un continuo travaglio giorno e notte, tutto l’anno per mare e per terra: e come quasi sempre piove tutto l’anno senza state sicura, et i padri quasi sempre stiamo fuora di casa per questi mari et isole, stiamo sempre bagnati o del mar o della pioggia in certe barche tanto piccole, che molte volte per mancar remo si rema colla mano, e non si può star in piedi dentro de la barchetta, perchè non si vada al fondo et anneghi; et alcune volte essendo io sentado nel mezzo della barchetta con il brazzo potevo cogliere acqua del mare dell’una e dell’altra parte ». Più innanzi dà alcune notizie locali : « In questa terra per le molte piogge non crescono nè maturano altri fruti che soli pomi, però pan e carne non manca ; ma il più degl’ indiani..... mangiano di ordinario biada tostata al foco, e fatta farina ; e questo è el meglior mangiare che desiderano. Gli altri indiani anco infedeli che teniamo intorno non tengono pomi, nè biada, e solamente hanno algune come ravi per mangiare, però il più ordinario si sostentano con pesce, con aiioni del mare, balene , et altri animali 0 monstri marini, che morti getta la marea, et essi mangiano di quel corpo morto per molti mesi ancorché sia podrito : molte volte lo mangiano crudo senza 310 GIORNALE LIGUSTICO -------*----;—»- ' metterlo al foco.... Hora per setembre corazza qui la primavera, e fioriscono gli arberi, e sta tutto contrario ai nostri paesi di là. L’ anno passato andai a due isole di homini barbari e infedeli tutti nudi, senza Dio, senza case, senza seme-nare nè raccogliere cosa veruna , solo mangian pesci e animali e cose del mare ; e più avanti sepi che vi sono homini grandi aggigantati anco barbari come questi altri ». Passati alcuni anni in quell’ isola di nuovo si ridusse in terraferma, a fine di esercitare il suo apostolato in mezzo a quelle barbare tribù denominate Pulches o Pojas, il cui paese si stende di faccia a Chiloè, e dall’ altro versante delle montagne attornia Nahuelhnapi al 420 grado di latitudine. Dovette fare il lungo cammino « a piedi per monti alti come gli Apennini, e con un piede infermo di una grande cascata fatta in Chiloè ». Vi giunse sulla fine di Febbraio del 1670, e un anno dopo mandava al padre questi ragguagli: « Il maggior travaglio che ho patito quest’ anno è stato la fame, perchè questi barbari non sogliono seminare, e solo vanno per i campi a cavalo cercando con cani gli animali silvestri. E non hanno case, ma delle pelli delli animali che mangiano, fanno ogni giorno la sua casetta portatile ; e per essere tutti questi campi senza legne, con le radici dell’ erbe se ne fanno un poco di foco, e mangiano la sua carne e caccia quasi cruda, però il sangue et il core, pulmone, e tutto il...... lo mangiano crudo.....; nelli monti dove vi è legna da cuoceie non si trova la caccia, et il maggior presente che mi han fatto, et ho mangiato d’ordinario quest’ anno, è stata carne di cavalo. Però perchè io non patisca tanta fame altri anni, havevo cercato molte semenze, e particolarmente grano, e molti di loro hanno seminato per il che gli altri anni non patirò tanto.... In queste terre mi vedo sforzato a parlare con cinque lingue differenti, per la varietà dei barbari che mi vengono a cercare di terre tanto lontane. Solo verso le tei re GIORNALE LIGUSTICO 3II del mezzogiorno vi sono molte nationi di barbari crudeli, che fin ora non mi. hanno venuto a vedere, anzi amazzano questi barbari dove io sto; che se non mi amazzano o mi cacciano da queste terre gli hanno da fare grandi guerre, pero questi hanno risposto che anzi amazzeranno e caccia-ranno i suoi figli e le sue mogli che me. Io venni quà solo senza compagnia, et è un anno che non ho visto sacerdote nissuno. Fruti silvestri non vi sono qui nissuni , eccetto li fravoli, e quando non trovano la caccia si sustentano con le radici di alcune herbe silvestri : quello che più mi maravigliò fu quest’ inverno, perchè andavano per i campi coperti di molta neve; e facevano molti bogli o pani di neve, e li ponevano a cuocere un poco al foco e li mangiavano; e perchè 10 gli dissi che si moriranno di freddo mangiando sola neve senz altra cosa, mi risponderono che questo era il suo mangiare , quando nell’ inverno non trovavano altra cosa. Delle pelli degli animali della pietra Belzar, che è la caccia più ordinaria, fanno come un ferajolo o manto grande, e con questo vanno vestiti di giorno, e dormono la notte cosi huomini come donne, e dalla cintura li casca solo un pezzo di pelle o altra cosa per coprire quello si deve coprire ; ma per 11 resto del colpo vanno tutti nudi; però dopo che io venni qua quasi tutte le donne portano un pezzo di una veste di piume di struzzo ». Intanto venne a sua notizia « che quasi settecento miglia » dai luoghi dove si trovava, « verso il stretto di Magaglianes » eravi « una citta di Europei, che ha quasi cento anni si persero per naufragio » e non se ne seppe mai più nulla. Ed ecco infiammato il suo zelo ; onde il proposito di recarsi « a consolare tante anime perse ». Come ben si vede fra quegl’ indigeni era sempre viva la tradizione di un naufragio , che si affermava avvenuto oltre un secolo innanzi, nelle costiere dello stretto di Magellano. 312 GIORNALE LIGilSTICO Il che si riferisce certamente al racconto che troviamo negli storici della spedizione consentita nel 1539 da Carlo V al vescovo di Placencia; il quale armò quattro navi e le spedì alle Molucche passando per lo stretto. Quivi un fortunale le sorprese e tre ne andarono infrante negli scogli, salvandosi però sulla costa gran parte dell’ equipaggio, fra cui, oltre qualche prete, si trovavano ben venti donne. La quarta nave rimasta illesa non potè soccorrere i naufraghi, e per il timore e la difficoltà del mare , e perchè non era provveduta di vettovaglie bastevoli a tante persone, per la qual cosa fu costretta a seguitare il cammino e portò a Lima la infausta nuova del naufragio (1). Quel che sia avvenuto dei naufraghi non si seppe mai; vi erano tuttavia notizie nella prima metà del seicento che verso lo stretto di Magellano dentro terra vi fosse un’ incognita nazione denominata Cesari, la quale si supponeva originata dagli Spagnuoli gettati in quelle coste dell’ infortunio indicato (2). Geronimo Luigi de Cabrera nel primo ventennio del secolo si era mosso alla testa di una buona mano di soldati, col proposito di ricercare questo popolo ; ma le difficoltà dei luoghi, i frequenti e larghi fiumi che incontrò, e la inclemenza della stagione lo costrinsero a retrocedere (3). Ugual sorte ebbero altre spedizioni fatte al medesimo fine. Più tardi il P. Gerolamo di Montemajor, missionario nell arcipelago di Chiloè , si spinse nella terra ferma col capitano Navarro seguito da altri Spagnoli, e vi scoprì alcuni indigeni che stimava appartenessero a questi Cesari, « perchè gente assai bianca e rossa , ben disposta e di buon aspetto, e che nella loro disposizione e gentili forme » mostravano « essere (1) D’Ovaglie, Op. cit. pag. 72. (2) Ivi, pag. 73. (3) Ivi» Pag. 29. GIORNALE LIGUSTICO 313 huomini di gran valore » (1); ma sembra che anche questo tentativo non abbia avuto miglior sorte dei precedenti, perchè non se ne ebbe poi altra notizia. Ed ecco la volta del P. Mascardi, il quale inteso quanto si asseriva intorno alla esistenza di un popolo forse derivato dagli europei, si accinse a ricercarlo ; e già inoltratosi nel cuore di quelle terre verso il Sud, nell’Aprile del 1673 scriveva al fratello: « Io già sono più di tre anni, che sto in queste nuove missioni dei barbari meridionali di quest’America, verso il stretto di Magagliane; et in questi tre anni non ho visto un sacerdote, e sono stato sempre solo fra questi barbari, e Dio mi ha aiutato che non ho tenuto un dolor di capo in tanti travagli massime della fame. Già si sono battizzati moltissimi, e presto entrare» in una città incognita di europei persi per queste parti e mari più di cento anni fa ». Questa è 1’ ultima lettera che si ha di lui, poiché ai 13 Maggio del 1675 giunse a Lima la notizia della sua morte , della quale non si conobbero i particolari; ma avvenuta, secondo narra il P. Adami, Procuratore generale del Chili, « andando al discubrimento di due abitationi, ha fatto il nemico inglese in questo mare del Sud murate et artegliate ; pero il P. Nicolò pensava che erano di Spagnoli, et nel camino 1 hanno occiso i medesimi Indi ». Come ben si vede egli rimase vittima del suo ardimento, nel mettere in atto il proposito di ricercare l’incognita città. Intorno alla esistenza della quale rimase viva la credenza neH’America del Sud, perchè ne ha lasciato ricordo anche il Padre Luigi Feuillée recatosi in quelle regioni nel 1707 per ordine di Luigi XIV. Dopo aver toccato del naufragio, di che ho parlato di sopra, soggiunge: « On croit que ceux qui resterent ont été l’ori- (i) Ivi, pag. 73. GIORNALE LIGUSTICO gine de ce peuple, appellé Cfsarètns par les Chileens, qui habitent une terre à 43 ou 44 degrez de hauteur du Pole Antartique , au milieu du continent qui est entre la mer du Ndrd et la mer du Sud, pays extrêmement fertile et tres-agreable, fermé du coté de Γ Ovest par une grande rivière fort rapide, en rapport de ceux qui ont été sur ses bords .1, qui disent avoir vu delà la riviere des peuples bien différents des naturels du pays, des linges fort blancs mis a secher et entendu des cloches ». E reca poi questi particolari: « J appris étant dans le Royaume de Chily, que l’entrée dans les terres des Cesarêens est deféndue à tous les Espagnols, et que pour se conserver dans leur liberté, ils ont établi entre eux une Loy, que ceux qui se crojent traîtres à la République, et qui decouvriroient son entrée seroient condamnez à mort, fut-il ls Chef de la Republique. Ce qu’on apprit par un Indien, leur espion, qui ayant été gagné par argent et par flatterie , par un Prêtre zélé, qui souhaitoit depuis longtemps d’aller prêcher à ces peuples, s’etant déjà présenté sur le bord de la rivière, sans pouvoir passer audelà, l’Indien luy promit de luy montrer l’entrée, s’approchant des terres, le fit arrêter, et le chacha dans le bois avec son valet, luy recommandant de ne pas paraître, et qu’il retourneroit la nuit suivante pour l’introduire dans la Ville. Il vint en effet, mais bien loin de le mener à la Ville, il l’assassina; le valet du Prêtre témoin de cet attentat, se cacha dans le bois, et s’en retourna a Chily, où il rapporca cette histoire » (1). Ora questo fatto di cui si trova qui menzione per la prima volta, potrebbe con molta probabilità, riferirsi alla morte del Mascardi ; de* quale non si spense la memoria in quelle terre , come testi moniano le lettere dei suoi correligionari (2). Ed a propo- li) Feuillée, Journal des observations etc. I, 295-96. (2) Lettres édifiantes, Paris 1708, Vili Ree. pag. 25 e 29. GIORNALE LIGUSTICO 315 sito di questa misteriosa città, convien dire che la memoria e la credenza ne è sempre viva fra quelli indigeni, se, come mi avverte il prof. Decio Vinciguerra che fece parte della spedizione recatasi alla Terra del Fuoco, in alcune carte di oltre mezzo secolo fa se ne trova Γ indicazione, e più recentemente porse argomento ad un viaggiatore inglese di raccoglierne tutte le leggende e le tradizioni, fra le quali non manca il ricordo di un missionario ucciso mentre si recava alla scoperta di quella incognita terra, il che pur ci richiama al triste fine del nostro Niccolò (1). Le notizie del quale vennero in seguito raccolte , poiché alcuno aveva in animo di dettarne la vita; anzi sappiamo che a quest’ opera si era proposto di attendere il celebre Padre Kircher, se non ne fosse stato impedito dalla morte (2). A. N. Statuti dei Cinturai, Guantari e Borsari di Genova. 11 signor Conte di Torrequadra scrive da Bitonto, per darci notizia di un codice di questi Statuti da lui posseduto. Il codice è membranaceo, legato in vitello inciso, ed ha 1 altezza di centim. 22 per 14 di larghezza. — Comincia : In nomine sancte et individue Trinitatis. In nomine patris et filii et spiritus sancti. Amen. Beate Marie Virginis Matris gloriose, sanctorum Johannis Baptiste et Evangelisti, beatorum apostolorum Simonis et Jude, beatorum Laurentii martiris patroni nostre Ecclesie Janueti: beati Georgii victoriosissimi Vexiliferi Comunis Janue et tocius Curie celestis. Amen. Ad honorem et gloriam Sancte Romane Ecclesie Sacrique Romani Imperij et ad honorem et exaltationem Illustrissimi et excelsi dni dni Thome de Campo (1) Cfr. At Home with thè Patagonians, By George Chaworth Meosters> London 1873, P· I23 e segg· (2) Lettera da Roma 24 Gennaio 1682 del P. De Luca. 3i6 GIORNALE LIGUSTICO fregoso Dei gratia Janucn: Ducis et libertatatum defensoris, ac Filipi Marie Angli Ducis Mediolanen: Papie Anglerieque Comitis ac Janue domini et pre-sentis status eius pacifici et felicis, et pro bono et utilitate arcium Corrigiariorum Guanteriorum Bursariorum in Civitate Janue et burgorum Janue etc. Seguono questi Capitoli ed altri riferentisi ad essi, notati di diverso carattere a seconda dei tempi più a noi vicini Dei quali Capitoli questi sono i titoli : De non utendo alijs usibus vel ordinibus quam in presentibus Capitulis innotatis. Quod extranei Consules esse non possint. De Consulibus elligendis et consciliariis. De iuramento prestando per homines dictarum artium. De iuramento prestando per consultes dictarum artium coram dominis vice gubernatoribus. De non conducendis domibus stallis vel appotechis quas aliquis alius dictarum artium conducat vel fuerit deiectus invictus. De non tenendis famulis. De non receptando famulos recedentes a suis magistris ante tempus. De festivitatibus celebrandis. De societate facienda pro sepulturis. De sponsis associandis. De crochis non faciendis nisi ut infra. Quod consultes possint crochos aportatos de extra Januam vendere et cognoscere. Quod consulles possint cognoscere. De quantitate solvenda per ingressis. De rebus non Jerendis per Civitatem causa vendendi. De non Jaciendis corrigijs de montonina. De reddenda ratione per consulles suis successoribus. De elemosinis. De non laborando crochis personis extraneis ut supra. De capitulis observandis. De divisione condennationum. Quod homines dictarum artium possint emere et vendere utiliter sine contradictione hominum artis mersariorum et e contra. De dispensacione facienda inter homines dictarum arcium. De non vendendis crochis de canabacio pro crochis de iella. GIORNALE LIGUSTICO 317 Quod roihe (?) seu ludentes per civitatem portare possint causa vendendi vel ludendi res ipsi arti pertinentes. De condennationibus exigendis. De societate facienda pro sepulturis. De societate facienda Magnifico Domino nostro Duci Janue. De servis non admittendis ad dictas artes. Quod consultes teneantur rixantes concordare. De condennationibus exigendis et aplicandis. Quod capitula non firmata sint cassa. Quod capitula contra Regulas sint cassa. De iuraniento consultum consciliariorum et aliorum dictarum artium prestando. Seguono modifiche, alle date seguenti : MCCCCXXII1I die XVI Junij — MCCCCXXVI die lune Vili Januarij — MCCCCXXXII die XX Marcij — MCCCCXXVII die III____hora signi meridiei. — De comunicandis pellis pillopis (?) inter homines dicte artis — Die XV Junij — MCCCCXXVIIII die 1I1I Madij. E di carattere più moderno : Quod nullus vocet aliquem ad apotecani alterius moram facientem causa emendi aliqua, nec signum aliquod faciat. Sententia inter Consules Mersa-riorum et Consules Corrigiariorum [a. 1441) — De congregatione facienda pro missa MDIIII die martis VIII Marcij in vesperis. Ad honorem etc. — MDLXXXXII die XII Decembris — Bando a 17 maggio 1604 — Tabula. II signor Conte di Torrequadra è d’opinione che il codice sia appartenuto in antico a certo Giambattista Ravano di maestro Pantaleo, il cui nome si vede scritto nell’ultima pagina dopo molte carte bianche. « Costui forse, membro di detta aite, fece per suo uso scrivere in detto codice gli Statuti di essa e poi le loro modificazioni via via che vennero emanate, secondo ne induce a credere la varietà dei caratteri ». Nel secolo presente il codice era posseduto dal marchese di Tientola e Massabruna Massola, patrizio di Genova e di Aversa; indi passò dal chiarissimo conte Berardo Candida-Gonzaga nelle mani dell attuale possessore; il quale noi ringraziamo per la cortese comunicazione» B. 318 GIORNALE LIGUSTICO SPIGOLATURE E NOTIZIE Il prof. Gaspary nella sua recente pubblicazione: Einige ungedruckte Briefe und Verse von Antonio Panormita, inserita nella Vierteljahrsschrift für Kullur und Litteratur der Renaissance (vol. I, fase. 4, 1S86, Lipsia), ha mandato in luce alcune lettere del letterato napoletano dirette ai genovesi. * * * A Como è venuto fuori un opuscolo nuziale del sig. Vincenzo Poggi intitolato : Spinola a Como — Chiacchiere erudite, nel quale si tocca di alcnne donne di questa famiglia maritatesi colà. * * * Nel periodico di Monaco Historisches Jahrbuch (VII, 1, 1886) è comparso un secondo articolo di Dittrich intorno a Gio. Matteo Giberti, nel quale narra le vicende della sua vita e considera l’opera sua di riforma. ♦ * * Scritti storici e letterari nei periodici politici liguri — Caffaro. — Vetri e specchi alla Veneziana (Giovanni Scriba), n. 122. — L’ Università di Genova (Giovanni Scriba), n. 129. — Il Parlamento nel secolo XII (Giovanni Scriba), n. 136. — Conversione di prestili (Giovanni Scriba), n. 144. — La nascita del Delfino (Giovanni Scriba), n. 150. I Confidenti sulla fine del sec. XVII (Giovanni Scriba), n. 157. — Prima festa della libertà (Giovanni Scriba), n. 164. — I comici uniti (Giovanni Scriba), n. 171. — Iprecursori del Succi (Giovanni Scriba), n. 178. — Papa lnnocen\o IV (Giovanni Scriba), n. 185. — I testamenti di Colombo (Giovanni Scriba), n. 192, 206. Il Cittadino. — Famiglie liguri (L. A. C.), n. 120, 124, 125, 126, 128, 130, 131, 137, 142, 146, 147, 149, 158, 162, 163, 166,168,170, 179, 181, 186, 188, 191, 196, 203, 204, 205, 209. — Il maggio di Roma antica (Orobius), 120. — Novità storiche (recensione della Corrispondenza di diplomatici edita dal Cantù), n. 123. — Accogliente in Liguria a Casa Savoia (L. A. C.) , n. 198. La Liguria Occidentale (Savona). — Studi Chiabrereschi. II, D una edizione del Chiabrera (O. Varaldo), n. 128. — La patria di C. Colombo, n. 135, 136, 143. GIORNALE LIGUSTICO 319 BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Marco Lessona, Poesie. Torino, Società Bibliofila 1886. Dimenticare le tristi realtà della vita e rifugiarsi nello splendido mondo dei sogni : ecco lo scopo che 1’ Autore si propone dettando questo volume di versi : Nell’ onda del risonante verso le belle speranze che il tempo infranse, i dolorosi sogni del nostro pensiero dimentichiamo e nel puro, nel santo amore delli arte per noi si rinnovelli lo spento fior della vita ; per noi smarriti nei tristi sentieri del mondo s’ apra dinanzi agli occhi il ciel luminoso dei sogni ». Così dice egli nel Prologo. E i sogni invocati aleggiano benigni intorno a lui, ma non i giocondi sogni del giovine che si sente forte e sereno e si prepara ardimentoso alle ardue battaglie della vita. Un’ aura di gentile malinconia spira per tutto il libro. Del rimanente nessuna pretesa, nessuno sfoggio d’ erudizione , nessuna delle scipitaggini e trivialità in cui cascano spesso la maggior parte dei versaiuoli moderni. Si scorge di leggieri che 1 A. è guidato da un alto ideale. E non si può negare eh egli abbia attitudini poetiche. I versi sono quasi sempre fluidi, facili, spontanei ; le dipinture piene di vita. Con poche linee, Γ A. riesce a metterci sotto gli occhi paesaggi caldi e luminosi che salutiamo con un sorriso. Le vaste praterie del Piemonte si stendono davanti a noi, i pioppi stormiscono, il fiume canta : e canta P allodola nel cielo azzurro, cantano i mietitori lontani. Altrove è la strada bianca che s’ allunga tra le file dei gelsi, 0 sono le casine variopinte sedute alle falde dei colli, o le Alpi superbe che toccano il cielo. Leggete» SullaBrugbiera, Fiume, Natura ecc. Quello che nuoce alquanto al volume sono, secondo noi, le reminiscenze di cui 1’ A. non sa sempre spogliarsi. Qua e là fa capolino il Leopardi e non il Leopardi soltanto. Qualche volta anche si rimpiange la mancanza d'un sentimento ben determinato e profondo, e viene il desiderio di esclamare: « Fiacco, superficiale, vaporoso! ». Inoltre, sempre secondo il nostro modo di vedere, 1’ A. ha di soverchio abusato del verso sciolto e della metrica barbara. Trattandosi di poesia che è espressione individuale, si vorrebbe qualche volta la foga e l’impeto della vera lirica, oltre che quel continuo succedersi di versi sciolti e di esametri, non sempre per fattura 320 GIORNALE LIGUSTICO eccellenti, dà al volume unta tinta uniforme e monotona e produce un po’ di stanchezzza sull’ animo del lettore. Ma basti delle mende. Quando vuole, il signor Lessona sa dare un’impronta originale ai suoi versi, e riesce allora a ringiovanire ed abbellire anche gli argomenti di cui s’ è fatto maggior abuso. Leggete ad es. Monacazione. Similmente, qualche volta gli sgorga dall’ anima il grido caldo e sincero che trova un’ eco nelP anima del lettore. Ci limiteremo a citare Leggendo il Ça ira del Carducci. Riassumendo, il signor Lessona ci ha regalato un bel libro, il pregio del quale è accresciuto dall’ eleganza dell’ edizione e dalle illustrazioni del Pollonera, e che lascia in noi il desiderio di leggere nuovi suoi lavori. E speriamo che questi non si faranno lungamente aspettare. Intanto egli ci permetterà di augurargli che la battaglia pel pane quotidiano non debba costare troppo gravi sacrifizi al suo cuore , e che se il destino lo spinge lontano dal suo bel Piemonte, da cui gli furono inspirati versi graziosissimi, si compia almeno il voto cosi gentilmente espresso a pag. 3 5 : « .... Un giorno fra trent’ anni , se Dio vuole, se noi non saremo sepolti in qualche triste, lontano cimitero di Calabria o di Sicilia , lungi dalla bella cerchia delle montagne piemontesi, ritorneremo qui .... » Lunghi giorni gli sorridano nei luoghi pieni per lui di tante memorie. Noi non sapremmo fargli augurio migliore. A G F Dizionario epigrafico di antichità romane di Ettore de Ruggiero. Roma, 1886. Esce il primo fascicolo di questa opera assai importante, la quale troverà certamente grande favore presso gli studiosi. Da questo primo saggio ben si vede come 1’ autore abbia posto mano all’ impresa nutrito di una larga ed illuminata preparazione, che lo mette in grado di porgere al lettore le maggiori e migliori notizie intorno al linguaggio usato nelle iscrizioni, a fine di agevolarne l’interpretazione, giovandosi di tutu quanti i sussidi che alle discipline storiche porgono gli studi più recenti. Perciò il lettore, oltre a tutti i richiami classici onde son ricchi ι singo t articoli, troverà accennati iu un sommario bibliografico ι materiali cui potrà ricorrere per più ampia trattazione della materia. _ Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 32I il Marchese di Monferrato GUGLIELMO IL VECCHIO E LA SUA FAMIGLIA SECONDO GLI STUDI RECENTI CON UNA APPENDICE SUI TROVATORI GENOVESI i. Cerrato (G). La famiglia di Guglielmo il Vecchio Marchese di Monferrato nel X// Secolo. Torino, Bocca, 1884, pp. 43, 8.° — 2. Savio (Fj. Studi storici sul March. Guglielmo III di Monferrato ed i suoi figli, con documenti inediti. Torino, Bocca, 1885, pp. 179, 8.° — 3. Ilgen (Th.) Marligraf Conrad von Montferrat, Marburg, lwert, 1S80, pp. 137, 8.° — 4. Cerrato (G). Il Bel Cavaliere di Rambaldo di Vaqueiras. Torino, Loescher , 1884, pp. 39, 8.° — 5. Schultz (O). Die lebensverhàltnisse der itali enis eh evi Trobadors, nel Giornale tedesco per la filologia romana. Voi. VII, pp. 175-235 Halle, 1883. Adempio la quasi promessa fatta nell’ ultimo mio scritto intorno ad Umberto Biancamano e mi accingo ad esporre il mio avviso qualunque siasi sulle recenti Memorie, dettate da chiari ingegni, intorno ai Marchesi di Monferrato. I. Il prof. Cerrato trattò della famiglia del marchese Guglielmo detto il Vecchio; la quale denominazione volontieri accettiamo anche noi, perchè nonostante i nuovi studi genealogici restan tuttora lacune o dubbi sull’ ordinamento delle generazioni che sono anteriori al padre di quel Guglielmo. La dissertazione del eh. Autore mi è sembrata assai lodevole; essendosi egli attenuto agli ultimi risultati, frutto di serie e diligenti indagini ed avendo aneli’ egli portato la sua pietra al laborioso edifizio. Vediamo Raitiero il padre di Guglielmo figurare tra i viventi dal noi a circa il 1135. Gisla di Borgogna sorella del Papa Calisto II, e Giulitta d’Austria Giorn. Ligustico. Anno XIII. 2i 322 GIORNALE LIGUSTICO figlia di Leopoldo II compaiono per documenti, la prima come moglie di quel Rainero, la seconda come nuora di lui e moglie di questo Guglielmo. Una Sofia finora era quasi generalmente accettata come prima ο seconda moglie di Guglielmo e come figlia dell’imperatore Federico I, ma l’autore non l’accetta, e ciò fa saggiamente. Difatti manca ogni traccia di buon documento in proposito ; inoltre Giulitta d’Austria è già dal r 13 3 congiunta al marchese e pare che a lui sopravviva o ad ogni modo conviva fino agli anni più tardi. Delle quattro sorelle di Guglielmo il vecchio niuna è sfuggita al Cerrato, avendo egli raccolto dal Moriondo la Matilde moglie di Alberto di Parodi. Qui però egli incorse in un leggero errore chiamando, col titolo di conte, Alberto che era un marchese e travisando in Palotto il titolo del suo marchesato che era ed è tuttora Parodi, comune nel Circondario di Novi-ligure. Le figlie di Guglielmo, a seguito di ponderata discussione sulle discordi opinioni finora agitate, l’autore ragionevolmente le riduce al numero di tre. Di due di loro è ben fermo il nome, e sono Agnese meglio ora conosciuta pei documenti rilevati dal disserente, ed Alasia la ben nota marchesana di Saluzzo. La terza figlia, che però dovrebbe essere la primogenita, finora nasconde il proprio nome, ma si sa essere stata dessa la moglie di Alberto dei marchesi Malaspinn, trovatore in poesia provenzale. Se questa donna possa essere una sola persona con Beatrice di Monferrato cantata da que’· trovatori, è una quistione che il Cerrato riservò ad altra sua dissertazione a cui faremo buon viso a suo tempo. I cinque figli di Guglielmo sono abbastanza noti per numero, per ordine d’ anzianità e per vicende ; salvochè si disputa sul quartogenito. Questo altri il vorrebbe chiamare Ottone e confonderlo col Cardinale di questo nome conosciuto a quei tempi col soprannome di Bianco; ma è da preferire la sen- GIORNALE LIGUSTICO tenza di coloro, i quali sulla fede del buon cronista Sicardo di Cremona distinguono i due personaggi, danno al figlio del marchese il nome di Federico e lo fanno non Cardinale ma Vescovo d’Alba. Il figlio primogenito rinnovò il nome paterno , ma ne fu distinto pel soprannome di Guglielmo Lungaspada. Questi recatosi nel x175 a Gerusalemme v’impalmò Sibilla sorella di Balduino IV ed erede di quel re e del regno. Ma fallirono le lusinghiere speranze ; Guglielmo morì dopo due anni, lasciando però incinta la moglie il cui postumo fu re Balduino V. Ramerò, l’ultimo dei figli, andò diciassettenne a Costantinopoli dal 1179 all’80, fu innalzato alla dignità di Cesare sposando Maria figlia di quell’ imperatore Manuele ; ma le susseguite rivoluzioni di palazzo, portando alla corona il tiranno Andronico, tolsero colla dignità la vita agli sposi nel 1183. Corrado il secondogenito, durando in Occidente fino almeno al 6 marzo 1186, passò poi ad entrambi gli Stati, bisan-tino e di Terrasanta, ove già vedemmo presso al trono i due suoi fratelli. Le vicende sue in Levante fino al sofferto assassinio nel 1192 sono cose notissime per istoria, e noi avremo occasione più sotto di richiamarle alla memoria. Per tale guisa al governo del natio xMonferrato rimane solo Bonifacio il terzogenito ; il quale tuttavia partirà anch’ esso l’agosto 1202, come capitano generale della quarta crociata. Eventi ed influssi che non è qui il luogo d’esporre fan deviare la spedizione a tutto danno dei Bisantini. Costantinopoli è occupata nel 1204 e tutto l’impero diviso fra i Crociati e Venezia; Bonifacio ottiene Tessalonica col titolo di re, ma soli tre anni dopo perde la vita in battaglia sconfitto dai Bulgari sui monti di Rodope. Il figlio minore di lui, Demetrio, gli succede in Oriente per brevi anni, anch’esso cac- GIORNALE LIGUSTICO fiatone dal Despota d’Epiro nel 1222; il figlio maggiore Guglielmo continua il governo nel Monferrato. Le discendenze successive offrono pochi dubbi da sciogliere. Si sa che Agnese, sorella di questi Demetrio £ Guglielmo, nel 1207 andò moglie ad Enrico I il nuovo imperatore latino di Costantinopoli e vi andò portata dalle navi genovesi ; ma presto lasciò vedovo il marito. Di una Alice di Monferrato è ormai constatato che intorno al 1228 si congiunse con un altro Enrico, il re di Cipro primo di questo nome, ed anche essa ebbe brevi anni di vita ; ma non è chiaro finora se fosse figlia di Guglielmo giuniore, come noi abbiamo creduto, od invece nata da Bonifazio II figlio di questo Guglielmo , coni-e opina il eh. Savio di cui discorreremo più avanti. Tale è la tela tessuta dal Prof. C. con buon ordine e buona critica, e rafforzata da sobrie ma diligenti citazioni. Non mancano, a dire il vero, alcuni nei, uno de’ quali accennai più sopra parlando di Parodi ; leggere distrazioni che difficilmente sfuggono a qualunque scrittore senza punto lederne il merito. Per esempio Margherita d’Ungheria, l’ultima moglie del re Bonifazio, è nel testo dell’ autore ben qualificata come già vedova dell’ imperatore Isacco Angelo, ma poi nella tavola genealogica che è in fine della dissertazione è posta erroneamente come vedova d’Alessio III. Ancora, Elena moglie di Guglielmo dalle Carceri signor di Negroponte è da lui ammessa , seguendo un cronista, come figlia di Agnese di Costantinopoli da un secondo marito; ciò non può essere: perchè Agnese morì presto lasciando vedovo l’imperatore Enrico I di cui toccammo sopra. Il padre di Guglielmo dalle Carceri, secondo gli alberi genealogici del ben informato Dott. Hopf(i), non sarebbe Ravano, come suppone il prof. C.; Ravano e Guglielmo sarebbero consanguinei più lontani .e con- (1) Chronique greco-romanes, Berlino, 1873, p. 479· GIORNALE LIGUSTICO signori nell’ isola di Negroponte. Non è nemmeno esatto l’asserire che, pel suo matrimonio con Elena, Guglielmo potè riavere il regno di Tessalonica già tolto a Demetrio ed ai Monferrato; gli sposi non poterono ereditarne che il nome e un puro titolo nel 1243, quando già dal 1224 quel regno era conquistato dai barbari e perduto definitivamente pei cristiani. Non capisco il perchè Γ autore sembri mettere in dubbio le nozze di Federico II con Iole figlia di Maria di Monferrato e nipote di Guglielmo Lungaspada; a meno che egli non intenda porre il dubbio soltanto sul nome di lei che altri autori invece di Iole o Iolanda chiamano Isabella. Infine egli erra per mio avviso, credendo che il Montaldo di certi documenti sia la terra omonima dell’Acquese; le qualità ed i nomi espressi in quegli atti mostrano trattarvisi di un Montaldo ligure ora distrutto ii quale già sorgeva su un colle vicino ad Arquata sui confini del Genovesato. Ma questi, ripeto, sono piccoli nei che cito soltanto per memoria e come saggio che io non ho 1’ abitudine di parlare degli autori senza averli prima attentamente studiati ; abitudine che si vuole non sia molto comune. L’appunto più grave che sarei proclive a fargli sarebbe quello dell’ aver egli citato talora, come fonti, autori di seconda e di terza mano e fra questi segnatamente il Molinari, Storia del Marchesato d’incisa. Basterebbe, come saggio di ciò ch’egli vale, richiamarsi ai due brani citati dal Cerrato medesimo : « Supremus Dux Christianorum omnium potentiarum » con quel che segue; e l’altro: « ambo capitanei equitum Serenissimi Bo-nifacii Marchionis ». Ma il peggio si è che tale cosidetta storia è una falsità da capo a fondo ; in cui figurano fedi di battesimo tratte da pretesi libri parrocchiali che si fan rimontare al secolo X, anzi anche all’ Vili ; una perla pex chi cerchi notizie d’Aleramo e de’ suoi discendenti!! Vi è 326 GIORNALE LIGUSTICO sopratutto Γ ormai famoso seme della melega che i Crociati d’ Incisa diconsi aver introdotto in Europa al ritorno d’ O-riente fin dai primi anni del dugento. E quasi fosse poco lo averne fabbricato i documenti, si ebbe l’impudenza di far stampare un libro apposta per corroborare le fiabe ; ponendovi la data d’edizione, Torino 1516, ma stampando sopra carta che nella filigrana e nella qualità rassomiglia quella che servì all’edizione della Storia del Molinari, Asti 1810 (1). II. Frattanto che Giuseppe Cerrato condensava in non molte pagine i casi e le parentele di Guglielmo il Vecchio , un altro studioso, il sac. Fedele Savio stava meditando sul soggetto medesimo, e il lavoro di questo uscì poco dopo la pubblicazione di quello di cui sopra è discorso. Il nuovo autore però fu ancora in tempo per giovarsi dello studio precedente ed ammetterne alcuni nuovi risultati; e fra questi segnatamente la Beatrice de’ Trovatori mutata da sorella in figlia di Bonifazio di Monferrato. Ma il eli. Savio ebbe agio maggiore per spingersi profondamente nelle ricerche ; onde la sua dottrina è pienamente accomodata al soggetto, non comune la sua erudizione bibliografica e 1’ applicazione che ne fa a diversi casi ed ipotesi, ingegnose le indagini che dai dati pei tal guisa accumulati si possono trarre a chiarir le paiti più oscure. Così più volte potè rafforzare con nuovi e più giavi argomenti le affermazioni del Cerrato; come gli avviene per esempio nel rigettar l’antica opinione che una figlia del Bai-barossa venisse sposa al marchese Guglielmo ; come gli avviene anche per riguardo ad Agnese di costui sorella, che (i) Ved. l’acuto scritto del Conte Riant: La Charte du mais (Revue des Questions historiques XXI, 157> I(^5 e se£S-> '^77)· ^ giudizio sulla fili grana e la qualità della carta ci è comunicato cortesemente dal Commendatore Promis, Conservatore della R. Biblioteca di Torino, ove si trova quella edizione. GIORNALE LIGUSTICO -il Savio dimostra più fermamente essere stata moglie di Guido Guerra IV signore in Romagna ma moglie presto sostituita da altra, lei tuttora vivente e chiusasi, pare , in un monastero. L’autore considerò la famiglia de’ Monferrato sotto i vari aspetti, fra i quali le relazioni sue col re di Francia e i progetti di nozze con famiglie reali. Specialmente intraprese cosa affatto nuova, il trovare l’età relativa dei membri della famiglia , e chiuse la sua Memoria colla pubblicazione di parecchi documenti inediti o poco conosciuti. Ebbe cura di purgare il suo campo dagli equivoci , distinguendo diligentemente gli omonimi contemporanei dei quali reca al bisogno le genealogie. Si veda ad esempio 1’ alberetto di quel marchese Rainero non di Monferrato ma di Toscana, i cui discendenti , dopo aver signoregg-iato colà , ne furono cacciati dagli antenati della contessa Matilde. Senonchè essi poterono ancora conservare un frammento di quella Marca ; formandosene un marchesato nei monti aretini, che continuò attraverso i nomi mutati, in Marca di Guidone, poi in Marchesato di Santa Maria del Monte (i). Approvo pienamente l’avviso dell’autore, che il cardinale Ottone dovesse essere troppo giovane per poterlo annoverare tra i figli di Guglielmo il Vecchio; e mi pare bella e felice 1 induzione tratta dalle parole dell’Annalista genovese (2), che cioè Ottone appartenga ai signori del luogo di Tonengo in Monferrato, fosse quindi piuttosto un vassallo dei Marchesi. Perfino nella leggenda di Giordana, per quanto troppo vaga a cavarne costrutto , trovo ingegnosa la spiegazione eh’ egli (1) Desimoni: Sulle Marche dell’alta Italia, pp. 123-24, Genova, 1869 e Rivista Universale, Genova 1868-69. (2) Bartolomeo Scriba nell’ edizione del Caffaro , Mon. Germ. hist. XVIII, 191, 194 al 1241. 328 GIORNALE LIGUSTICO ne dà, nè saprei fargli obbiezioni; se non forse mi par difficile che il popolo la potesse tener per santa, se la sapeva scismatica in religione. L’illustre Conte di Mas-Latrie (1) riconoscendo anch’egli il merito , che noi sopra attribuiamo all’autore , di erudizione ed ingegno, fa qualche riserva alle conclusioni di lui, come egualmente ci eravamo, riservati noi. Trova strano per esempio che ad un uomo di trenta anni si possa stendere la qualità di adolescens. L’obbiezione pare ragionevole, ma io non saprei come possa sciogliersi il nodo meglio di quello che ha fatto il Savio sul punto in discorso. Guglielmo Lungaspada, venuto a Gerusalemme nel 1175, dallo storico bizantino si dice adolescens , eppure fra gli otto fratelli maschi e femmine egli è il primogenito da un matrimonio contratto prima del 1133 , e il cui ultimo frutto nacque nel 1162. Più grave di questa è un’ altra induzione a cui il lodato Conte non ha voluto sottoscrivere e in ciò noi siamo in pieno accordo con lui. Secondo l’autore, Guglielmo il Vecchio è morto verso il 1183; perciò, non egli, ma il figlio Bonifazio andò in Terrasanta dopo quell’anno, si trovò presente alla sconfitta de’ Cristiani ad Hittim nel 1187, rimase prigione di Saladino, fu esposto ai dardi e alle macchine dei difensori di Tiro acciò impietosito il fratello Corrado cedesse la città ai Saraceni ; fu infine liberato 1’ anno seguente. Ora quali sono gli argomenti che possano infermare una opinione che finora fu quasi generale fra i dotti, quella che attribuisce a Guglielmo il Vecchio padre di Corrado e di Bonifazio tutti i fatti qui accennati? Savio ne reca di due sorte: negativi e positivi. Il negativo sarebbe il silenzio sui fatti di questo Guglielmo in Occidente dopo il 1183, la niuna traccia che di lui si serbi ne’ documenti; ma ognun vede che il si- (1) Bibliothèque de ΓÉcole des Chartes, n. XLVI, p. 552. GIORNALE LIGUSTICO lenzio è indizio troppo vago, specie a que’ tempi. Gli si potrebbero contrapporre altri silenzi contrari; e domandare il perchè, quando il figlio di lui Bonifazio è chiamato effettivamente più tardi a capo della quarta crociata , si vantano altri meriti di lui, ma niuno aggiunge, ciò che sarebbe stato tanto a proposito, che egli avea già battagliato fra i grandi in Oriente e vi avea subito vicende da render famoso e popolare il suo nome. L’ argomento positivo sarebbe veramente ineccepibile se si ha da prestar fede ad un atto del 1185, ove Bonifazio e Corrado sono nominati come figli quondam Villieìmi Marchionis ; ma questo atto non fu ancora trovato in originale, se ne ha solamente un estratto (1). La cosa cambia d’aspetto in tal caso; di faccia alle prove che si hanno della presenza di Guglielmo in Oriente si può ben supporre che l’atto del 1185 sia spurio od almeno inesattamente datato e citato. In modo simile il Savio ha saputo bene scartare altre copie od estratti non favorevoli alla propria opinione. Se fra gli altri argomenti addotti da lui, ci rivolgiamo a quelli tratti dai cronisti, ne troviamo a favore tanto dell’una quanto dell’ altra sentenza. Ma se, più che al numero delle autorità, badiamo al peso , non è dubbio per noi che vince di gran lunga quella che attribuisce i fatti in discorso a Guglielmo padre di Bonifacio. Lo attesta Ernoul vassallo del signor di Beirut e con questo presente alla sconfitta d’ Hittim ; lo attesta il vescovo Sicardo di Cremona, il quale fu in Terrasanta pochi anni dopo e nella sua cronaca si mostra cosi bene informato tanto dei fatti d’ Oriente come della famiglia dei Marchesi di Monferrato. Lo assicura Ottobono Scriba 1’ annalista genovese che appunto in quegli anni scriveva per mandato ufficiale della Repubblica; scrittura grave come (1) Mon. Hist. Pair. Chartar, II in nota a p. 1004. 330 GIORNALE LIGUSTICO generalmente è tenuta , gravissima su questo punto ; poiché trattasi di un marchese vicino ne’ feudi e che era legato ai genovesi pel giuramento della compagna. È provato da documenti che Guglielmo il Vecchio venne in persona a tale effetto due volte in Genova, nel 1150 e 1176 e nel 1172 armava al soldo della Repubblica. Nulla di più naturale che l’annalista abbia parlato con lui stesso, siccome si sa che Ottobono fu anche scrivano del Comune ed ebbe alti i incarichi pubblici (1). Queste testimonianze Γ autore le conosce e le cita ; ma spera vincerle. i.° Ernoul (egli nota) ha errato ad ogni modo, perchè parla bensì del padre del marchese Corrado , ma a questo padre dà il nome di Bonifazio che era il nome del fratello di Corrado. Dove dunque sarà 1’ errore ? nel nome o nella qualificazione di padre anziché di fratello? 2° Sicardo (2), parlando del padre, gli dà veramente il nome giusto di Guglielmo; ma (continua Savio) della cronaca attribuita a quel Vescovo si hanno due redazioni diverse, una più ampia dell’altra; e le notizie di che parliamo sono soltanto fra le giunte della redazione più ampia. Il dotto tedesco Dove (3), ammettendo l’attribuzione a Sicardo della cronaca più ristretta che è in un codice viennese, la rifiuta riguardo all'altro codice che è l’estense. Questo secondo codice, secondo Dove, sarebbe opera d’altra e più tarda penna. 3.0 Quanto a Ottobono Scriba l’autore crede egualmente che esso sia di data più recente ; il che però non ha egli (1) Mon. Genti, hist. sovracit. a p. 4 dell'introduzione. Del giuramento della compagna del 1176, essendo tuttora inedito, si darà la copia qui in fine. (2) In Rer. Ilalicar. Scriptores, vol. VII, 604. (3) Die Doppelchronik von Reggio und die Quelkn Salimbenes, Lipsia 1873. GIORNALE LIGUSTICO 33* provato e si confuta da sè , leggendo la sua cronaca e 1 introduzione del Pertz alla edizione del Caffaro e suoi continuatori (1). Basta per mio avviso l’affermazione di questo cronista genovese per togliere ogni dubbio sulla quistione ; ciò per le ragioni già citate, ed eziandio perchè aggiungendo al nome di Guglielmo il soprannome di Sencs, il vecchio, mostra sempre più di ben conoscerlo e distinguerlo dai consanguinei. Ma non hanno maggior valore le obbiezioni dell autore contro il detto di Sicardo e d’Ernoul. La pretesa, che ha Dove, di far di Sicardo due cronisti diversi di persona e di tempo è una trovata infelice; essa fu confutata pienamente dallo Scheffer — Boichorst (2), rigettata dal conte Riant, dall’Ilgen e ormai generalmente. — Quanto allo Ernoul, lo sbaglio vi e ceito, ma dove? nel nome o nella qualita di padre? Savio pensa che nella qualità di padre. Non par credibile (egli così ragiona) che Ernoul trovandosi alla battaglia errasse nel nome di uno di que’ grandi presenti, col quale , se non egli direttamente, certo il suo signore Ballano di Beirut era in stretta relazione. Ma contro Savio argomenta il De Mas-Latrie, prevenendo la risposta che a me pure fin da principio era venuta in pensiero naturalmente. Il nome di battesimo non è quello che predomini nei discorsi fatti fuori della famiglia ; non usa nemmeno oggi quando l’individuo nominato ha altri titoli d uffizio 0 d’onore; ciò tanto meno a que’ tempi (3). In quell eser- (1) Ved. sopra nota 1; e pel passo d’Ottobono Scriba ibid. p. 101. Anche il Varagine nella sua Cronaca (Rcr. liai., v. IX, 41) dice fatto prigione Gullielmutn Senem. (2) Nella Gaietta letteraria di Jena, 1874, p. 4S5 — Ilgen p- 15 Riant, Innocent III, Philippe de Souabe et Boniface de Montferrat, Paris, Palmé, 1875, p. 56. (3) Que’ di Costantinopoli supplicando Bonifazio nel disastro della sconfitta, non lo invocavano con altro nome che con quello di santo GIORNALE LIGUSTICO cito e in quel popolo Guglielmo (fovea essere specialmente conosciuto e nominato come Marchese di Monferrato o semplicemente il Marchese, senza che si curasser del nome proprio. Al contrario era ben naturale che , trovandosi allora due membri della stessa casa in Terrasanta, e tutti e due illustri per fatti e per qualità, Γ armata e il popolo sapessero che F uno era padre dell’ altro. Ciò è tanto vero che Corrado stesso , a guadagnarsi il rispetto all’ autorità dovuta al suo grado, non seppe trovare miglior titolo che quello di Marcbionis Montisferrati filius, come si vede in capo ai diplomi suoi emanati in Tiro dal 1187 fino alla sua morte. Or perchè egli volle assumere quel titolo, se non perchè suo padre erasi illustrato in Terrasanta coi fatti d’arme, nel 1187-88 era prigione di Saladino ed avea subito le vicende sopra toccate ? Guglielmo il Vecchio era già stato bensì alla crociata del 1147, ma dopo quarantanni la memoria di lui colà non potea che esser languida se freschi fatti non sopravvennero a rinvigorirla. Lo stesso titolo assunto da Corrado di marchionis filius non pare che dimostri la sopravvivenza del padre? È ben vero ch’egli continua a portarlo nei diplomi, mentre in un atto del 1190 è indicato quondam Vil-Jiehni. Non so se questa carta sia inattacabile; ad ogni modo assunto una volta il titolo in modo ufficiale , andava da sè che egli lo conservasse anche dopo morto il padre. D’altra parte Ernoul nel qualificar come padre il marchese prigione, non pronunziava tale parola di leggeri o quasi per distrazione. Che egli cosi sentisse in effetto, lo provano più re Marchese. L’abituale mancanza del prenome dei sigcori nelle Cronache e anche nei documenti è la causa per cui ad esempio la genealogia dei Gatilusi di Metellino resta confusa in certi punti non ostante l’abbondanza che vi sarebbe nei dati. GIORNALE LIGUSTICO 333 altri luoghi della sua cronaca (i). All’arrivo di Corrado in Tiro (egli racconta) quei cittadini, come seppero che l’arrivato era figlio del Marchese di Monferrato, ne furono .molto lieti. E più giù; quando Saladino fece venire a Tiro il prigione per costringer Corrado a capitolare, il cronista dice letteralmente « et fist venir le pére du marquis qu’il avait en sa prison ». E già .dal tempo che mori re Balduino V (1186) Ernoul nota che era presente alla sepultura di lui suo avo , son ayol, e non dice già suo zio, quale sarebbe stato Bonifazio. Vuoisi di più? Ecco la Brevis historia regni Jerosolimilani (2), negli annali genovesi, scritta non più tardi del 1192 e in generale ben informata di quegli avvenimenti ; essa conferma il detto d’Ernoul colle parole seguenti: « Erant (in Accone) marchio Montisferrati avus dicti pueri (Balduini regis) et mater ejusdem que Sibilia vocabatur et comes Guido de Jaffa qui maritus erat ipsius Sibilie » tutti nomi e qualità precisamente espresse. Confutate, come crediamo aver fatto abbastanza, le obbiezioni contro i testimoni a noi favorevoli, volgiamoci alla parte contraria e vediamo un po’ qual fede meritino le testimonianze favorevoli al ch. autore. Questi ne cita tre, tutti piemontesi: Gioffredo Della Chiesa, Galeotto del Carretto e Benvenuto di San Giorgio; unanimi tutti tre nel dire che Guglielmo il Vecchio è morto nel 1183. Galeotto riferendo il fatto della battaglia e della prigionia del Marchese in O-riente, sostituisce alla qualità di padre quella di fratello di Corrado. Ma nel suo racconto si vede aver egli copiato o (1) In difetto dell’edizione d’Ernoul fatta dal De Mas Latrie ci varremo del Recueil des Historiens des Croisades ; Historiens occidentaux, II ; 1’ hist. d’Eracüs. Ved. pei passi citati nel testo le pp. 76, 77-78, 105 in nota; 121, 26. (2) Mon. Germ. hist. sovracit. p. 52. Atti della Società Ligure di Storia Patria, I. 51· GIORNALE LIGUSTICO tradotto letteralmente il passo d’Ernoul o di altro copista di costui, con non forvi altra variazione che questa di scambiare il padre in fratello. Ciò anche fece sbadatamente, giacché dimenticò poi due volte di fare tale pretesa correzione; la quale cosa mostra abbastanza essere egli tutt’ altro che un testimonio che parli per scienza propria. Il nostro autore è d’avviso che i detti dei cronisti piemontesi sieno a preferirsi, perchè compatrioti del marchese; e sovratutto perchè hanno bene studiato le memorie della famiglia, e poterono averne trovate le prove nell’archivio della Corte, ove alcuno di essi onoratamente viveva. Senza voler menomare punto il merito di quelli scrittori, osservo che essi sono troppo distanti dal secolo in cui ebbero luogo i fatti narrati; che uno copia l’altro; e che l’archivio di Corte per que’ tempi lontani dovea essere ben povero se non anche quasi muto. I pochi documenti storici che poterono raccogliere, essi li danno per disteso o con parole tali che mostrano averli avuti sotto gli occhi; ma dove non ne trovano , pigliano di qui e di li con poca o niuna critica, perfino da Jacopo d’Aqui che le sballa tanto marchiane. Essi quindi cadono in frequenti errori storici e genealogici che la recente critica ha svelato. Di tali errori, anche i più grossolani, non ho a cercare la prova da lontano : il Cerrato ed il Savio stesso me la forniscono a piacere. Cosi per esempio Guglielmo Lungaspada, secondo que’ cronisti, sarebbe già andato col padre alla crociata del 1147. Che cosa è andato a fare egli che poteva allora avere tredici anni al più? Cosi Alasia la sorella di Bonifazio, la ben nota e cantata Marchesana di Saluzzo, pel cronista di questa stessa casa è trasformata in figlia di quel Marchese. Così Agnese, vera figlia di lui, ma di primo letto, per uno di que’ scrittori si dice nata dalla seconda moglie. Per conseguenza nata dopo il 1203, e di soli tre anni già congiunta nel 1207 all’ imperatore En- GIORNALE LIGUSTICO 33S rico di Costantinopoli. Altri simili spropositi si spacciano da quei benemeriti, per ignoranza, intorno ad Alice moglie del re di Cipro, intorno a Bonifacio di Clavesana e Berta la moglie di costui. Dalla medesima fucina provengono certo le fantasie di una figlia del Barbarossa moglie a Guglielmo il Vecchio, l’identificazione del cardinal Bianco col vescovo Federico d’Alba, la introduzione tra le figlie di Guglielmo di una Giordana, moglie di un imperatore bisantino che è introvabile perchè sono tutte note le mogli degli imperatori di quel tempo. Per me son persuaso che la data del 1183 assegnata alla morte di Guglielmo il Vecchio siasi radicata nell’animo dei piemontesi, appunto dal vedere che non si trovano più tracce del Marchese nella loro regione dopo quell’ anno. Non sarà fuori di luogo toccare qui d’ un’ altra opinione emessa dal ch. autore, a conferma degli altri argomenti; opinione però a cui credo avere anticipatamente risposto , e vi ho alluso nel recente mio scritto intorno ad Umberto Bianca-mano (3). Savio trovando che Bonifacio dal 1183 in poi esercita atti di giurisdizione marchionale, ne trae la conseguenza che dunque il padre di Bonifacio era morto. Nella pubblicazions recente come in altre mie più antiche credo avere dimostrato con più esempi che la sua conseguenza non tiene ; aggiunsi pure il motivo per cui non tiene, cioè perchè la giurisdizione non stava nel solo padre, ma sì in condominio e in comproprietà coi figli. È questa anche la ragione per cui Bonifacio e Corrado esercitano in consorzio 1’ autorità ; anzi Bonifacio l’esercita da solo in una carta del 1187, mentre Corrado dovrebbe essere preferito come più anziano. Al dotto Ilgen, (3) Desimoni, Il libro del B. Carutti : Umberto Biancamano, Genova, Sordo-muti, 1886, p. 35. 336 GIORNALE LIGUSTICO che fa questa osservazione, sembra strano questo arrogarsi che fa Bonifazio la giurisdizione da solo; ma non è strano se si consideri secondo il principio da me posto. Guglielmo il Vecchio nelle convenzioni coi Comuni o con altri signori suole stipulare non solo per sè ma e pei figli maggiori e minori, facendo giurare i maggiorenni ; ciò sarebbe inutile posta la sovranità assoluta del padre. Il Cerrato e ii Savio stesso suppongono che anche Bonifazio partendo per la crociata abbia ceduto, durante Γ assenza , il governo al figlio, Guglielmo giuniore. Non mi arresterò ad altri pochissimi e leggeri appunti che potrei fare all’autore, per esempio alla sigla pp. ch’egli interpreta per parvi ponderis; espressione che non mi pare del tempo, o che almeno si trova assai più tardi applicata ai soli fiorini non alle lire; e vi è il suo perchè. Nè mi muove il vedere che una volta almeno le parole parvi ponderis ci sono in tutte lettere ; credo che l’errore abbia cominciato dal primo copista del documento. L’interpretazione più naturale è quella di papienses che è pure scritta altra volta in disteso nell’atto e che significa la moneta di Pavia, la più comune in quei secoli. Non mi suona bene nemmeno la traduzione del Marchio de Asto in marchese d’Asti. Veramente questo documento è strano per più riguardi; parrebbe in sulle prime alludersi ad un Marchese del Vasto, come se l’iniziale smarrita lasciasse leggere soltanto Asto ; ma tutti questi aleramici sono di legge salica, mentre l’Enrico del documento professa legge lombarda. Ciò non ostante, tenuto conto che le terre donate da Enrico sono negli stessi luoghi ove i possessi dei Monferrato; e che il beneficato monastero di Lucedio è di fondazione e in protezione della medesima Casa, io crederei che vi si tratti di uno dei marchesi di Occimiano, ramo staccatosi dai Monferrato, e più propriamente di quell’ Enrico figlio di Ardizzone , GIORNALE LIGUSTICO 337 di cui abbiamo già due carte del 1197 e 1199 (1). A proposito di quest’ ultimo ramo sono molto notevoli i documenti pubblicati dal compianto Sella nel codice astense e qui opportunamente ripubblicati dal Savio. Essi chiariscono meglio d’ogni altro noto finora, il primitivo consorzio dei Monferrato in parti eguali e il successivo punto di stacco fra Rainero padre di Guglielmo il Vecchio, e i Marchesi Bernardo ed Ardizzone antenati degli Occimiano. Io ne era informato dal eh. dott. Wustenfeld, fin da quando il Codice astense era ancora a Vienna; perciò già me ne potei giovare nella Tavola genealogica inserita nel Giornale Ligustico (2). III. Ho citato più d’ una volta l’Ilgen ; vengo ora a portar la mia attenzione sul lavoro di questo dotto tedesco intorno al marchese Corrado che già dissi secondogenito di Guglielmo il Vecchio. Di questo studio parlarono con giusta· lode Cerrato e Savio, ma benché esso conti più di cinque anni, giova rinfrescarne la memoria, non parendomi abbastanza conosciuto fra noi. La vita e le azioni di Corrado vi sono riferite e discusse con pienezza di particolari, critica accurata e diligente indicazione delle fonti. Vi è pubblicato un documento inedito, la lettera di Corrado al Re d’Ungheria; un altro documento, che mi era ignoto, apre la carriera del Marchese fino dal 1160, essendo egli alla Corte di suo zio materno, Corrado vescovo di Passavia. Pare inoltre probabile che sia egli stesso quel figlio di Guglielmo il Vecchio che trovavasi presso il Re di Francia nel 1168 come pensa l’Ilgen, o meglio nel 1164, (1) Ved. pel 1197, 1 febb. il Codex Astensis η. 856, p. 941. Pel 1199, giugno, il Moriondo Moiium. Aquens. I. 122, ma questo secondo trattato l’ho anche visto nel Cartolario originale del Comune d’Alessandria (Liber Crucis) che si conserva in quell’Archivio civico. (2) Ved. Giorn. Ligust. 1878, p. 342 in fine dell’ articolo : Due documenti di un march. Ardoino. Giorn. Ligustico. Anno XIII. 338 GIORNALE LIGUSTICO corae con buone induzioni argomenta Savio. Così Corrado avrà allora attinto a Parigi una seconda educazione e insieme quella istruzione, cognizione di lingue e doti d’ eloquenza che gli valsero il titolo di secondo Mitridate. Il biografo lo accompagna, fra gli altri fatti, in Toscana, ora in compagnia, ora in lotta coll’Arcivescovo di Magonza. Ne avevamo un cenno negli annali del Muratori, ma più profondamente discute quegli eventi Γ Ilgen, benché le conclusioni non sieno ancora tali da sgombrare ogni oscurità. Infine si giunge al-Γ ultima e più illustre parte della vita di Corrado. Nel 1186 o principio dell’ 87 Corrado parte per 1’ Oriente e approda a Costantinopoli; ben accolto dall’imperatore impalma, già vedovo, la sorella di lui Teodora; ispira coraggio al cognato, sconfigge ed uccide Branas ribelle all’ impero. Ma lo disgustano la gelosia dei grandi, forse anche dell’ imperatore stesso, verso di lui; e gli dà a temere per la propria vita 1 odio generale del popolo contro i latini. Quindi abbandona moglie e speranze e va in Terrasanta. La sconfitta dei cristiani ad Hittim per opera di Saladino il 6 luglio 1187 e la successiva perdita di Gerusalemme pareano foriere di intera rovina, e già Tiro parea disposta a cedere quando l’arrivo di Corrado il 13 dello stesso mese bastò a salvarla. Dopo eccitato l’aiuto delle potenze paga di giusta gratitudine quei che glielo porsero , i Genovesi, i Pisani, i Marsiglies i, coi diplomi ove accennai essersi eg.i intitolato Marchionis Vuillielmi filius. Nè sono dimenticati i privati, come il genovese Martino Rocia o Rosa donato d un pcdeie in Acri (1)· Egli concorre altresì al ricupero d Acri, che ottenuta diventa la nuova capitale del regno ; sposa in terze nozze Isabella, sorella ed erede di quella Sibilla che vedemmo già (1) Strehlke, Tabule ordinis Teutonici, p. 21, sotto la data. Tiro, settembre, 1189. — Ilgen, p. 95· GIORNALE LIGUSTICO 339 moglie del fratello di lui Lungaspada e madre di Balduino V. Con quelle nozze egli si apre la via al crono, ma glielo toglie colla vita un assassino il 28 aprile 1192. Continua però il governo nella sua discendenza; Maria natagli da Isabella sposerà Giovanni di Brienne col titolo di re, e la loro figlia Iole regnerà, sebbene per pochi anni, col marito, l’imperatore Federico II. Ilgen entra nella quistione se un marchese di Monferrato, e quale, fosse presente al Congresso che nel 1177 tennero a Venezia Federico II e Alessandro III. L’autore ben interpreta che vi fosse presente Corrado e non altri che lui della sua casa ; traendone notizia dal vederlo comparire in documenti di quella città e di quel tempo. Ma nè egli, nè altri, ch’io sappia, diede la prova diretta dello esservi intervenuto Corrado a bella posta come seguace o faciente parte della Corte imperiale. Pure la prova v’ è e si trova nel catalogo di tali intervenuti che pubblicò il benedettino Ferdinando Olmo’(i). Di questo catalogo già si valse il Muratori per dimostrare la presenza ivi de’ Marchesi d’Este e dei Malaspina col seguito de’ loro militi. Ivi è notato anche Corrado di Monferrato col seguito di venti uomini. Sonovi pure quei due Corradi di Latinerio e di Bellaluce che Ilgen sarebbe stato proclive, ma a torto , ad immedesimare col nostro di Monferrato. Egli inoltre per mio avviso non vede giusto quando discorre di un particolare accaduto a Corrado al suo partir da Costantinopoli, come sovra accennai. Temendo il marchese (1) Catalogo dei Vescovi, Principi.... che intervennero alla pace in Venezia, nel libro intitolato della Venuta..., del Papa Alessandro, Venezia, 1629. Altro catalogo in latino è nel Cherrier, Stor. della lotta dei Papi cogli Imperatori (ed. ital. Palermo, I, 462); ma ivi manca Corrado come una gran parte dei Baroni secolari. 340 GIORNALE LIGUSTICO ostacoli a ciò, si accontò segretamente con un suo fedele di nome Ansaldo Bonvicino il quale gli procacciò una nave di Balduino Erminio. Cosi racconta la Brevis historia regni già citata da me, ed aggiunge che questi due Bonvicino ed Erminio erano genovesi. L’autore non vuole ammetter quest’ultima parte; nota che Ernoul parla invece di una nave pisana, e nemmeno questo concede; pensa insomma che que’ due e la nave sieno veneziani. E perchè? perchè il dott. Wustenfel 10 accertò non aver egli trovato traccia di Bonvicini e di Erminii nelle famiglie genovesi e pisane. D’altra parte trova che Ansaldo Bonvicino più tardi risiede nel quartiere de’ Veneziani in Acri. Ma questa seconda non è ragione sufficiente. 11 dotto He3rd (i) ha risposto preventivamente per me: che nei quartieri dei latini in Terrasanta abitava ogni sorta di persone non appartenenti alla nazione di cui era il quartiere e ne cita in prova un atto legislativo che toglie ogni dubbio. Quanto al Wustenfeld, questi è certamente uno dei più profondi conoscitori degli archivi e de’ documenti italiani ; ma può egli aver visto tutto, nella colluvie de’ manoscritti che cani città grande e piccola d’Italia possiede sulle famiglie rispettive? Nel caso presente il ch. Professore di Gottinga pare non abbia consultato la fonte più larga che abbiamo ; le famiglie nobili di Genova avanti al i;oo nella Biblioteca dei Missionari Urbani, lavoro del diligentissimo e ben informato senatore Federici. Ivi avrebbe trovato nota della famiglia Bonvicino come esistente già nel secolo XII; un Gandolfo che fabbrica presso a San Pancrazio (1131 , 1134) e vive ancora nel 1152; ed altri nei secoli seguenti; senza includervi Γ Enrichetto giudice ai malefizi nel 1230 perchè potrebbe essere uno straniero. Federici nota eziandio più Er-minii od Ermirii; ma, siccome questi due cognomi possono (1) Histoire du commerce du Levant au moyen âge: Paris, 1885, I, 154. GIORNALE LIGUSTICO 34I essere diversi tra di sè, ho voluto ricorrere agli atti originali dei notari ed ho trovato effettivamente ed evidentemente il cognome Erminio in due istromenti (1). È però curioso che si trovi anche una famiglia pisana di cognome Erminio. Il Wustenfeld come Γ Ilgen poteano trovarne facilmente la prova nel continuatore del Caffaro all’anno 1212. Dopo ciò si potrebbe dubitare che la famiglia Erminio sia mezzo genovese, mezzo pisana, e dia in qualche modo ragione ad Ernoul quando appella pisana la nave (2). Checchessia di ciò , non vediamo motivo di metter dubbio sull’asserzione della Brevis historia, la quale come già dissi è ben informata in genere,, e come di fonte genovese ben può essere creduta sui fatti dei concittadini suoi. Ilgen è incorso in un altro erroruccio che io segnalo, non per importanza che abbia, ma perchè palesa una delle ignote vicende del mio paese d’ origine. Il marchese di Monferrato (non è detto quale) nel 1177 era presente ad un istrumento fatto nel Castellum Gavye; nel quale atto Enrico figlio di Federico II giurò mantenere i patti concordati poco prima in Venezia tra l’imperatore, il papa Alessandro III, la Sicilia e i Lombardi. L’aurore seguendo il Toeche colloca quel Castellum presso Ferrara confondendolo con una oscura terra di colà chiamata Gaibana; ma l’acuto dott. Ficker fin dal 1869 avevane ben determinata la posizione nel Castello di Gavi (Circondario di Novi ligure) (3). E ciò non solo perchè risponde (1) In Archivio di stato, in Notaro Casanova Tomaso; Reg.° 1348, genn. 11, c.' 24, v.® e Registro 1353, aprile 11. c.® 97-99. (?) Historiens des Croisades sopra cit. II, 75 in nota. (3) Forschungen %ur Reichs-und Rechtsgeschiclite Italiens, vol. II, 207 ; e vol. IV, 206. Datum in Castro Gavie, 6 idus decembris 1185. Romualdi Salernitani Chronicon in Rer. Itat. v. VII, 239. Toeche, Kaiser Heinrich VI, Lipsia 1867, p. 636. 342 GIORNALE LIGUSTICO meglio la somiglianza del nome, ma specialmente perchè in questo di Gavi aveano dimorato Enrico stesso coll’ imperatrice, siccome in sicuro asilo, durante i torbidi, i pericoli e le trattative del Congresso di Venezia. L’ annalista genovese racconta che Federico I dopo il Congresso venne a Genova e qui vennero ad incontrarlo la moglie Beatrice e il figlio Enrico (certamente dal vicino castello). È noto pure che Gavi a que’ tempi, anzi fino ai principi del nostro secolo , valea per inespugnabile e per forte posizione strategica, dominando la strada dal Piemonte e dalla Lombardia per a Genova. I suoi castellani doveano essere di levatura e ben fidi allo impero; come sappiamo di Sigifredo di Lautern che ebbe anche altri uffici importanti. Lo stesso Barbarossa fu altre volte in quel castello; nel dicembre del 1185 vi fa una carta in favore degli Ubertini signori in Val d’Arno. IV. A Beatrice di Monferrato ed ai Trovatori che la celebrarono avevo già anch’io sacrificato un grano d’incenso, contro la mia abitudine (direi piuttosto necessità) da molti anni contratta di astenermi da studi di amena letteratura. Su questa Beatrice tanto contrastata il ch. Cerrato ha ora raccolta luce maggiore col secondo suo opuscolo di cui sopra è il titolo. Per un documento, da me citato più esattamente che non per P addietro ed ora pubbli cato per intero dal Savio, risulta il fatto accennato in principio del presente scritto: che tre e non più doveano essere le figlie di Guglielmo il Vecchio, una delle quali, la moglie del Malaspina, resta di nome ignoto. Sarebbe Beatrice quest’essa? Io ero proclive a crederlo, senza però escludere altre possibili combinazioni. Il Cerrato ora mi fit obbiezioni così vigorose che mi sforza ad abbandonare la mia supposizione. Egli inoltre rileva che se il biografo dei Trovatori dà Beatrice come sorella di Bonifacio, il Trovatore che ben la conosce e la canta la dice la figlia del marchese. In buona logica questi dee avere il sopravvento GIORNALE LIGUSTICO 343 a riguardo del più recente biografo; e la conclusione del Cerrato è avvalorata da altre buone ragioni che Savio e Carducci (i) approvano. Come si chiamerà dunque la sorella di Bonifacio, moglie di Alberto Malaspina? Chi lo sa? Non parmi da ammettere il nome di Giordana che è strano nella famiglia e forse anche nelle famiglie latine di quel tempo, nè ha altro appoggio che una leggenda fantastica. Oh perchè, dico io , non potrebbe anch’ella essere stata una Beatrice zia dell’altra più famosa? Per un caso singolare scopro in una inedita genealogia dei Monferrato (nel Septimus Jurium) (2) posta appunto una Beatrice tra le figlie di Guglielmo il Vecchio. Il genovese compilatore di questo e d’ altri alberi , dev’ essere senza dubbio Jacopo Doria, il noto annalista della fine del secolo XIII, il custode dell’archivio del Comune, autore dunque gravissimo; ma il suo scopo era di presentare le generazioni maschili dei feudatari che aveano interessi con Genova, mano mano che i documenti del testo nella medesima pagina gliene por-geano occasione. Egli quindi poco si cura delle generazioni più antiche, e non bada troppo se cada in errore riguardo alle femmine. Non avrei fatto caso per conseguenza di quella mia supposizione , se non mi si fosse offerta nello stesso albero un’altra singolarità. La figlia dei coniugi Malaspina, secondo i già noti documenti, è Caracosa che fu moglie d’Alberto marchese di Gavi; ma qui il genealogista genovese ve ne aggiunge un’altra: Elena moglie di Guglielmo (dalle Carceri) di Verona, signore di Negroponte. Questa Elena, di cui sopra (1) Galanterie Cavalleresche dei secoli XII e XIII (Nuova A titolo già, 1885, I genn.). (2) Codice membranaceo già dell’Archivio genovese , ora a Parigi al-1’archivio del Ministère degli Affari Esteri, carte 1, verso. 342 GIORNALE LIGUSTICO meglio la somiglianza del nome, ma specialmente perchè in questo di Gavi aveano dimorato Enrico stesso coll’ imperatrice, siccome in sicuro asilo, durante i torbidi, i pericoli e le trattative del Congresso di Venezia. L’ annalista genovese racconta che Federico I dopo il Congresso venne a Genova e qui vennero ad incontrarlo la moglie Beatrice e il figlio Enrico (certamente dal vicino castello). È noto pure che Gavi a que’ tempi, anzi fino ai principi del nostro secolo , valea per inespugnabile e per forte posizione strategica, dominando la strada dal Piemonte e dalla Lombardia per a Genova. I suoi castellani doveano essere di levatura e ben fidi allo impero; come sappiamo di Sigifredo di Lautern che ebbe anche altri uffici importanti. Lo stesso Barbarossa fu altre volte in quel castello; nel dicembre del 1185 vi fa una carta in favore degli libertini signori in Val d’Arno. IV. A Beatrice di Monferrato ed ai Trovatori che la celebrarono avevo già anch’io sacrificato un grano d’incenso, contro la mia abitudine (direi piuttosto necessità) da molti anni contratta di astenermi da studi di amena letteratura. Su questa Beatrice tanto contrastata il ch. Cerrato ha ora raccolta luce maggiore col secondo suo opuscolo di cui sopra è il titolo. Per un documento, da me citato più esattamente che non per l’addietro ed ora pubbli cato per intero dal Savio , risulta il fatto accennato in principio del presente scritto: che tre e non più doveano essere le figlie di Guglielmo il Vecchio, una delle quali, la moglie del Malaspina, resta di nome ignoto. Sarebbe Beatrice quest’essa? Io ero proclive a crederlo, senza però escludere altre possibili combinazioni. Il Cerrato ora mi fa obbiezioni così vigorose che mi sforza ad abbandonare la mia supposizione. Egli inoltre rileva che se il biografo dei Trovatori dà Beatrice come sorella di Bonifacio, il Trovatore che ben la conosce e la canta la dice la figlia del marchese. In buona logica questi dee avere il sopravvento GIORNALE LIGUSTICO 343 a riguardo del più recente biografo; e la conclusione del Cerrato è avvalorata da altre buone ragioni che Savio e Carducci (i) approvano. Come si chiamerà dunque la sorella di Bonifacio, moglie di Alberto Malaspina? Chi lo sa? Non parmi da ammettere il nome di Giordana che è strano nella famiglia e forse anche nelle famiglie latine di quel tempo, nè ha altro appoggio che una leggenda fantastica. Oh perchè, dico io , non potrebbe anch’ella essere stata una Beatrice zia dell’altra più famosa? Per un caso singolare scopro in una inedita genealogia dei Monferrato (nel Septimus Jurium) (2) posta appunto una Beatrice tra le figlie di Guglielmo il Vecchio. Il genovese compilatore di questo e d’ altri alberi , dev’ essere senza dubbio Jacopo Doria, il noto annalista della fine del secolo XIII, il custode dell’archivio del Comune, autore dunque gravissimo; ma il suo scopo era di presentare le generazioni maschili dei feudatari che aveano interessi con Genova, mano mano che i documenti del testo nella medesima pagina gliene por-geano occasione. Egli quindi poco si cura delle generazioni più antiche, e non bada troppo se cada in errore riguardo alle femmine. Non avrei fatto caso per conseguenza di quella mia supposizione , se non mi si fosse offerta nello stesso albero un’altra singolarità. La figlia dei coniugi Malaspina, secondo i già noti documenti, è Caracosa che fu moglie d’Alberto marchese di Gavi; ma qui il genealogista genovese ve ne aggiunge un’altra: Elena moglie di Guglielmo (dalle Carceri) di Verona, signore di Negroponte. Questa Elena, di cui sopra (1) Galanterie Cavalleresche dei secoli XII e XIII (Nuova Antologia, 1885, i genn.). (2) Codice membranaceo già dell’Archivio genovese , ora a Parigi al-Γ archivio del Ministero degli Affari Esteri, carte 1, verso. 344 GIORNALE LIGnSTICO toccai, finora si disputa da chi fosse nata ; ma si sa almeno che per le ragioni di lei il marito assunse nel 1243 il titolo di re di Tessalonica; certamente dunque come discendente dal marchese Bonifazio o dal figlio di costui Demetrio. Il ch. Savio per lettera mi avverte aver egli trovato Elena esser nipote di Demetrio senza sapersene il come (1). Hopf la suppone figlia di Demetrio, oppure del despota Manuele Angelo ma senza dirne i motivi. Ora posto che la moglie di Malaspina sia Beatrice o un’ altra di qualunque nome sorella di Bonifazio., si vede come possa ella aver acquistato diritti al regno, morto Demetrio senza figli. Ma se la madre d’Elena fosse anche proprio quella Beatrice che fu la figlia celebre di Bonifazio, non si potrebbe negare nemmeno allora la qualità di nipote di Demetrio ad Elena stessa; purché la parola nepos si pigli nel senso di cui si hanno altri esempi nel medio evo , cioè di cugina germana (2). Ma quell’ altra Beatrice moglie d’Enrico del Carretto ? Cerrato non rifiuta, almeno come possibile, la mia supposizione: che vi sia stato un matrimonio d’ Enrico, intermedio fra quelli con Simona di Balduino Guercio e con Agata del conte di Ginevra. Le nozze con Simona furono indicate dal conte di San Quintino (3); Savio dice che questi non ne ha dato la prova; si 1’ ha data invocando i registri notarili di Arnaldo Cumano che si conservano nell' archivio di Savona; ciò a me è confermato da altre fonti. Inoltre abbiamo esempi dallo stesso (1) In Rainaldo , Ann. Eccl. ad ann. 1245, 7 maggio ; Berger, Les Registres d’innocent IV, 1881, η. 645, anno 1244, aprile 23 (indicazioni che devo alla cortesia del Ch. Savio). (2) Nepos in Ducange Glossar, ad verbum; esempio in Carutti: Umberto I Biancamano, Roma 1884, p. 37. (3) Osservazioni critiche.... in Mem. dell’Acc. delle scienze di Torino, XIII, 223-24, 317. GIORNALE LIGUSTICO 345 Savio , come possano esservi state più mogli viventi ad un tempo, specie nel medio evo, separate per nullità, parentele 0 in altri modi. Beatrice è più d’ una volta nominata come abitante nel tortonese dove nulla tenevano i Del Carretto, molto i Malaspina; vi sarebbe essa venuta per dissidi dal marito, e accolta dalla zia moglie di Alberto? V. Qui, dopo riassunti i nuovi fatti più certi additati dai tre recenti autori, ho potuto permettermi di girovagare fra le cose possibili, ed ora avrei voluto deporre la penna. Ma la mia fantasia di parlare dei Trovatori genovesi a proposito di Beatrice, mi ha tratto disgraziatamente in lizza con un dotto tedesco che se ne occupò recentemente. Di questo ultimo soggetto egli fa uno studio speciale , mentre io Γ ho toccato quasi di sbieco, più che per altro, per offrire un ricordo di pietà al compianto Hopf ed uno di gratitudine al dott. Streit che mi mandò la postuma pubblicazione dell’ Hopf fatta per sua cura. Ma appunto perchè di passaggio , sovra studi non consueti e senza pretender di salire in cattedra, il mio opuscolo procedette un po’ alla lesta, indicando i fatti senza corredarli di quelle citazioni perpetue che i Tedeschi desiderano. Nè io tengo per ingiusto tale desiderio, quando le citazioni sieno appropriate, opportune , non al solo scopo di mostrare vasta lettura. Anzi credo essermivi attenuto io stesso per lo più; e forse non senza meraviglia i miei conoscenti , amici e perfino il mio proto verranno a sapere che io (non so se bene traduca) disprezzo o disdegno (i) di citare 1 fonti delle mie notizie ; ciò, mentre essi sorridono ed urbanamente mi mordono di note troppe o troppo lunghe. Eppure quella rampogna mi viene dal signor O. Scultz, il tedesco di cui parlo; il quale nel suo lavoro sui Trovatori italiani, mi fa anche passim altri appunti. E nemmeno per (i) Verschmàht, art. sovra citato, p. 222. GIORNALE LIGUSTICO questo vorrei lagnarmi, desideroso come sono soltanto della verità e tollerante delle opinioni altrui ; io mi valgo del diritto medesimo con franchezza, ma s’intende temperata alla cortesia nel discutere, che non è mai troppa nel genus discretamente irritabile dei letterati. Ora è questa cortesia che, se Pamor proprio non m’illude, non mi sembra sovrabbondante nello Schultz a mio riguardo. Dove vede che non cito, può ben egli desiderare che io facessi diversamente, ma non avrebbe dovuto aggiungere che per tale difetto sono permessi dubbi (p. 222) fino ad ulteriore verificazione. Cosi, a rovescio del noto proverbio , io sarò tenuto malus, finché non sia provato bonus. Non ritorcerò 1’ argomento osservando che egli, benché diligente in generale, ha dormicchiato due volte poiché, p. 224, cita, ma poco esattamente, il Fiamma e il Cavitelli col rimando alle loro cronache nel Volume XI dei Rerum Ilalicarum Scriptores senza indicarne la pagina; quasi fosse cosa da nulla il trovarla entro cronache poco cronologiche. Ma pazienza ancora se lo S. avesse usato la stessa misura con altri che con me ; egli invece abbraccia come vangelo le affermazioni pure di più scrittori; ira i quali, per non crescere le invidie, indicherò soltanto il Litta che non cita mai ed abbonda di notizie erronee, specie nelle genealogie dei Monferrato e dei Malaspina (1). Io ho la pretesa, non di andar scevro di errori, ma di studiare seriamente i miei lavori anche i più leggeri in apparenza; quindi è che per rispondere alle critiche dell' autore, non occorre mi stilli il cervello a rivangar la fonte delle cose dette da me; ho sotto gli occhi quasi tutte le schede di quel tempo. Il dotto uomo mi appunta, perchè dissi Simon Doria forse (1) Ved. Cerrato, Guglielmo il vecchio, p. 30 e specie Sforma nel Giorn. Ligust., 1886 p. 62. GIORNALE LIGUSTICO 347 figlio di Percivalle (i), mentre le prove da lui recate lo mostrerebbero figlio di Martino. Ma a lui che già sa esservi stati più Percivalli ad un tempo, non potè venire il sospetto che vi fossero anche più Simoni in famiglia? Ma che dico venirgli in sospetto ? Non cita egli più volte lo Spotorno e non vi potea trovare la prova documentata di un Simone proprio figlio di un Percivalle (2)? Cosa del resto che avviene tanto sovente nelle famiglie, specie nelle nobili e tanto numerose del medio evo. Così 1’ autore che desidera vedere le citazioni di documenti, pare non le voglia ammettere quando gli sono fornite. Egli inoltre mi appone che non ho indicato la fonte donde trassi notizia di un Percivalle Doria che nel 1261 fosse Vicario di Carlo d’Angiò ad Arles e ad Avignone , senza del che (come già notai) si permette alcuni dubbi. Veramente, almeno per Avignone, confessa averlo trovato anche nel Ruffi, Storia di Provenga ; il che , per mio avviso, potea già un poco aquetargli la coscienza. Questa sua citazione del Ruffi viene forse anche in mio aiuto; perchè in questo solo caso ho ricercato invano la scheda che indichi la fonte della mia notizia. Del resto non sarei restio ad ammettere un errore possibilissimo di data 0 di stampa; ma non mi pare da ammettere che un critico si contenti di dubitare a priori e senza addurre le ragioni del suo dubbio. Lo S. si duole di non poter consultare il Chaillot, storico d’Avignone, nè io posso aiutarlo; ma mi sembra strano che un uomo così erudito non faccia le viste di conoscere un’ opera cardinale sulla Storia di Provenza quale è quella di Papon ; (1) Ved. la p. 221 e p. 255 del mio: Bonifacio di Monferrato e i Trovatori alla Corte di lui, Giorn. Ligust. 1878. (2) Stor. lett. della Liguria I, 270-71 citando il Fogliazzo de Notari, III, 208, anni 1253, 1267. 348 GIORNALE LIGUSTICO tanto più che questi ha due lunghi capitoli sui Trovatori; poniamo che sieno ormai di poco interesse storico pei moderni, chi studia come lo Schulz dovrebbe aver avuto tra le mani quei libri (i). Ebbene il Papon reca notizie e documenti onde rilevasi che un Percivalle Doria (non indagherò se possa essere tutt’uno con quello del Γ261) fu Podestà d’Avignone nel 1220 e nel 1233 , e capitano in Arles pel re Roberto nel 1231 , come sono ivi annoverati più altri genovesi rivestiti di simili uffizi (2). Ancora, mi avverte S. che di Lucchetto Gattilusio aveano parlato Schirrmacher, Bartsch e Mussafia , senza che di ciò avessimo cognizione Belgrano, Neri, Casini, Thomas ed 10. Credo in verità che niuno di noi abbia la pretesa di saper tutto, contenti di poter rilevare qualche cosa col nostro intelletto senza doverla sempre imparare da altri. Io dissi che Lucchetto fu Podestà di Milano , di Cremona e di Lucca ; (1) Dopo scritto quanto sopra, leggo nello stesso Zeitschrijt, IX, 406-7, 1885 un secondo articolo dello Schultz (Zu den genuesischen Trobadors) ove cita il Papon. Del resto uulla di nuovo ivi, salvo una notizia tratta dalla Stor. di Provenza del Nostradamus , 1614, p. 250. Secondo la quale si avrebbe un trattato tra Genova e Carlo d’Angiò in data 8 agosto 1262 in cui figurerebbero come intervenuti cinque dei nostri Trovatori, Gattilusio , Grimaldi, Grillo, Percivalle e Simone Doria ; assente soltanto Lanfranco Cicala. Veramente il Liber Jurium (I, 402) reca un simile documento in data 6 luglio e vi mancano i predetti fra i cento che autorizzavano il trattato ; quindi, senza escludere la possibilità di un atto accessorio, io lo considero come poco probabile. È vero però che in altro trattato politico del 6 settembre stesso anno, per una ambasceria a Ceuta d’Africa, intervengono fra 137 cittadini Luca Grimaldo, Lanfranco Cicala, Giacomo Grillo, Simon Doria (Archiv. di Stalo, Materie politiche, Mazzo V.). (2) Papon, Hist. Générale de Provence, vol. II, preuves, p. LIX ; e vol. Ili, 512, anno 1231, per Arles; vol. II, preuves p. LXVII , vol. III, 536-7, anni 1223, 1232, 1233, 1238 per Avignone. GIORNALE LIGUSTICO 349 l’autore nota non aver trovato tali notizie nelle cronache, confessa però che in quelle di Cremona e di Lucca vi sono lacune che rendono possibile l’introdurre que’ Podestà nella serie; e tuttavia per la sola ragione di non averle egli trovate in tali cronache imperfette, a lui pare meno verosimile (p. 224) la Podesteria di Lucca nel Gattilusio. Riguardo poi a Milano, secondo lui, Galvano Fiamma la nega. A parlar giusto, rispondo io, Fiamma non nega punto; soltanto all’anno 1282 in cui io pongo Gattilusio egli pone un astigiano Guttuario. Ora a sciogliere il nodo interviene il cronista Corio ad anntim; il quale racconta che realmente fu scelto alla Podesteria il genovese, ma avendo questi rifiutato, vi fu sostituito l’astigiano. Dunque, se Lucchetto non ne venne all’ esercizio ne ebbe la nomina e 1’onore; ed era questo che importava allora al mio scopo. In quanto agli uffici di Lucca e di Cremona la prova me l’avea suggerita da più anni il lodato Wustenfeld; il quale ricavò la capitaneria di Lucca nel 1273 dal Registro Angioino III. di Napoli e la Podesteria di Cremona nel 1301 dal Codex Cabel-larum di quell’Archivio. — S. chiede ancora se Lucchetto sia uno di quelli citati dall’ Hopf come signori di Metelino e d’Eno in Oriente. A ciò io avevo risposto anticipatamente; il Trovatore apparteneva certo alla stessa famiglia, ma solo come fra gli antenati; le Signorie d’Oriente non pervennero in loro che un secolo dopo, nel 1355. Lo S. invita i genovesi a studiare i Fogliazzi notarili che furono consultati dallo Spotorno fra i manoscritti della Biblioteca civica ; ma ora noi abbiamo nell’Archivio di Stato il Richeri, che è 1’ originale dì que’ Fogliazzi ed è molto più utile per un buon indice che manca in quella copia. Ed abbiamo, oltre Richeri, il Federici, il Cicala, il Roccatagliata, il Giscardi, il Botto, il Della Cella ed altri Raccoglitori che ai tempi dello Spotorno 0 non erano in Genova o non si conoscevano. E tutti questi benemeriti, se non sono forniti 350 GIORNALE LIGUSTICO di critica sufficiente (che troppo mancava a quei tempi) sono tutti senza eccezione sinceri e indefessi nel rivangare e nel trascrivere. Il senatore Federici in ispecie per la sua dignità potè vedere a sua posta l’Archivio, vi si travagliò tutta la vita e ci conservò preziose notizie di documenti che passate vicende ci rapirono. Egli esercita anche un poco la critica, e spesso indica le sue fonti. Senonchè la ricchezza non sempre moltiplica le cognizioni, talora non fa che crescere la confusione. Mi passerò d’un altro appunto sulla differenza tra Lucchetto e Luca Grimaldi, sul quale l’autore può aver ragione, ma non è tanto facile 1’ accertarsene. Sono due nomi in sostanza eguali; l’addurre per ragione, che Nostradamus chiami Luca e non Lucchetto il Trovatore, non basta per identificar questo con Γ uno piuttosto che coll’altro dei personaggi Grimaldi. La prova stessa eh’ egli adduce dell’ identità di Luchetto e di Luchino Gattilusii basta ad ispirar qualche dubbio sulla teoria in genere. Ma giacché ci occorre di riparlare su quest’ ultimo Luchino, giova rilevare il passo che lo S. (p. 224) trae dall’ Archivio Glottologico II, 223 (correggi II, 243). Ivi egli appunta d’errore Spotorno, (Storia lett. I, 205) riguardo alla data che questi ha registrata : ma erra egli stesso invece, perchè le parole MCCC°primo significano proprio 1301 e non 1300 come vorrebbe sostituire. Non è del mio proposito parlare di Trovatori non genovesi, tuttavia noterò per memoria non essere esatto che Manfredo Lancia già nel 1168 si chiamasse marchese di Busca. Il primo documento legittimo in cui questi porta tale titolo è del 1196. Tanto meno avrebbe potuto portarlo nel sistema dello Schultz che si attiene alla erronea genealogia del Sc.hirrmacher e del San Quintino ; cioè spezza in due persone Manfredo I, il più antico de’ quali sarebbe morto verso il 1190; mentre si tratta di un solo che visse fino al 1215 GIORNALE LIGUSTICO 35 1 circa (i). Al 1168 e molto più in giù non erano ancora in uso i titoli che vanno gradatamente corrispondendo allo spezzarsi della Marca in Marchesati, come in altri miei scritti ho mostrato. Ma l’importanza del soggetto mi spinge a fermarmi un poco su un altro Trovatore che si potrebbe dire quasi genovese; intendo Alberto Malaspina detto il Moro. Le relazioni di questo marchese col padre Opizzone , coi fratelli maggiori Opizzone e Moruello, colla figlia sua Caracosa; la sua sopravvivenza ai fratelli e il governo da lui continuato ad esercitare in comunanza coi figli de’ fratelli, sono cose note e non soggette a dubbio. Vero è altresì e confermato da una carta genovese, che Alberto era minore di diciotto anni nel settembre u8o; però erra il Litta che data l’atto al 25 agosto invece del 25 del mese seguente. L’errore pare sia venuto dall’ aver interpretato per sexto Kalendas le parole della carta sexto exeuntis septembris; la prima espressione porterebbe bensì al 25 agosto, ma chi conosce il linguaggio del medio evo sa che il sexto exeuntis significa detrarre i cinque ultimi giorni del mese corrente e non di quello passato ; il che riviene al 25 settembre (2). Il mio contradditore mi ha ammonito per mezzo d’un punto d’ esclamazione (nota a p. 192), per aver io osato tradurre un (1) Ved. la recentissima, diligente e critica dissertazione del sig. Carlo Merkel ; Manfredi I e Manfredi II Lancia ; contribulo alla storia politica e letteraria italiana nell’ epoca sveva, Torino, Loescher, 1886. (2) Questa carta è neH’originale Registro I del Notaro Lanfranco (Arch. di Stato) fol. 16. 8. Più sotto al f. 61 v.°, v’ è quella del 16 marzo 1190 che investe Otto Nolasco del feudo. Nel Reg. Ili dello stesso notaro fol. 246, 1200, agosto 29, Alberto impegna ad un Guglielmo Balbo parte del suo pedaggio sulla strada di Torriglia. Le Miscellanee del Cicala aggiungono due carte pel 1201. Alberto coi nipoti da in feudo a Gastone Balbo, e vende per L. 100 libbre 26 in peso d’argento. 352 GIORNALE LIGUSTICO verso provenzale in guisa da lui non approvata; pure se in ciò ho peccato, temo di dover rimanere impenitente. Secondo il mio modo di vedere, un Trovatore rinfaccia al Malaspina la sua viltà, per cui non sa difendersi dai Piacentini i quali gli tolgono tutto, non lasciandogli ormai un castagneto. S. è d’avviso che la parola Castanhier significhi non una terra coltivata a castagne, ma si un luogo abitato, che si debba tradurre in Custagnero. Un luogo di tal nome però non l’ha trovato nel Piacentino, piuttosto crede averne scoperto uno in Polcevera citando una carta del notaio genovese Giovanni Scriba. L’originale registro dello Scriba si conserva nell’Archivio di Stato, e nel documento indicato veramente abbiamo letto Castagnetum tanto io quanto un amico che è paleografo ben perito. Inoltre il nome di quel luogo è vivo tuttora e chiamato in dialetto Castagnæo ; un genovese qualunque lo renderebbe, in italiano e in latino, Castagneto. Ma non è questo che importa. Io domando qual senso d’ingiuria può egli ridondare al Malaspina, se i Piacentini non gli lasciano il possesso d’un luogo oscuro, ignobile che abbia nome Castagneto o Castagnero ? Nessun senso, ciò è evidente. L’ingiuria sarebbe per contrario pungente nel mio modo d’interpretazione. Ebbi la fortuna di poter interpellare in proposito il distinto filologo nelle lingue neolatine, il dottor Foerster. Egli mi rispose che, a dire il vero, al nostro castagneto corrisponde il provenzale castagmtma non è lungi dal credere che possa passare anche il castanhier; ad ogni modo approva la mia osservazione che cioè il tradurre la parola provenzale, come vorrebbe S., non presenta significato corrispondente alla intenzione del poeta. Il sig. Foerster mi aggiunge una nota che forse potrà ricondurre sulla via retta : egli dice che la desinenza provenzale in er ne suppone una italiana in are. Che forse il trovatore abbia voluto dire: i Piacentini non vi lasciano nemmeno castagnare, nemmeno raccogliere castagne nel vostro senza disturbarvi? Il senso GIORNALE LIGUSTICO 353 vi sarebbe e poco diverso dalla mia interpretazione , ma abbandono il quesito ai filologi. Lo S., P ho già detto, è molto diligente nel raccogliere tutti i documenti possibili riguardanti i trovatori italiani, specie quelli d’Alberto Malaspina. Nè io saprei addurne altri a lui ignoti che prolunghino le azioni della vita del poeta avanti al 1180 e dopo il 1210. Nè sarò ingiusto a imputarlo di colpa se entro i limiti di questi anni non seppe di altri documenti eh’ io saprei produrre (più vicino come sono alle fonti), sia per rinforzare i cenni del Poggiali mediante gli estratti che possedo dagli originali dei Registri magnum e me^anurn di Piacenza; sia per aggiungere nuòve notizie (i)da carte dell’archivio piacentino di San Sisto, degli archivi tor-tonesi del Vescovato e del Capitolo, e degli archivi genovesi. Risponderò piuttosto ad un’ultima domanda. dell’autore ; il quale vorrebbe sapere dove abitasse Alberto Malaspina. S. vede in un documento del 1197 accennata la curia di quel marchese , ma chiede dove sia questa curia ? Se la difficoltà stesse soltanto qui, essa sarebbe sciolta subito; la curia si conosce dai vassalli che nel documento sono enumerati ; nel caso presente è chiaro che vi si tratta di luoghi nelle valli di Trebbia e di Borbera. Ma con ciò non avanziamo (1) Registrum mexanum fol. 2. v.° 1184, agosto 12, in Valditaro; Alberto è presente al giuramento di fedeltà prestato da Tedaldo Conte di Lavagna_ Monast. di San Sisto di Piacenza (Archiv. Farnesiano a Parma) fot. 18, 1199’ sett· H; Alberto è investito da quell’Abate dei feudi di Cortemaggiore e Redaldo — Tortona, Archiv. Capitolare, 1187, egli dona Pizzocorno al Monastero di Sant’Alberto di Butrio; nel 12 agosto 1194 cede alla chiesa di San Lorenzo un diritto di pedaggio sulla strada di Tortona. Conf. Bottazzi, Monumenti dell’Archivio Capitolare di Tortona, Tortona, Rossi 1837, pp. 54 e 56. Questi, come tutti gli estratti piacentini dagli originali mi vennero, ha più anni, comunicati cortesemente , con molti altri dall’instancabile ricercatore e mio amico, il prof. Alessandro Wolf di Udine. Gioux. Ligustico. Anno XIII. ,, 354 GIORNALE LIGUSTICO d’un passo, il documento del 1197 11011 parla della sola curia d’Alberto, ma Alberti et nepotum- : vale a dire di tutta la casa Malaspina vivente in comunanza fino alla divisione del 1218. La figlia d’Alberto Caracosa pare che facesse soggiorno frequente in Cantacapra, argomentandolo da certi versi dei Trovatori e dall’ esserle stato dato tale possesso in dote. Ma Cantacapra dov’è? L’autore cita un nome alquanto somigliante, Monte Caprone (leggi Caprione) che è in Lunigiana ed è già celebre negli atti de’ Malaspina. Ma ne siamo lungi. Cantacapra, sebbene come luogo edificato non esista più (come avvenne di tanti castelletti del medio evo), conserva tuttora il nome nel monte e nel rio che gli scorre a piedi ; lo si può leggere nelle mappe dello stato maggiore ed è situato nel Tortonese presso il Comune di Frascata, mandamento di San Sebastiano. Come è naturale che in questo stesso luogo colla figlia Caracosa soggiornasse Alberto, così è naturale che il nipote di lui Corrado soggiornasse più o meno in Oramala colle figlie Selvaggia e Maria perchè rammentate colà dai Trovatori. Oramala vige tuttora in quel di Bobbio nel mandamento di Varzi. Ma nè Γ un dato, nè il precedente bastano a determinare il domicilio de’ due marchesi, indicano solamente che i Trovatori ne’ loro giri di visita li hanno trovati colà e vi ebbero ospitale accoglienza. Se oggi ancora i signori vanno d’ estate in campagna cercando i freschi e il deshabillé, nel medio evo i feudatari, si può dire, non avean casa fissa; percorrevano di castello in castello, rendendo giustizia ai sudditi in persona; vi erano anche costretti, perchè il denaro essendo allora tanto scarso, i frutti e tributi si pagavano in natura e per l’insicurezza e la difficoltà delle strade bisognava consumarli sul luogo d’ origine. Ciò non era proprio soltanto dei feudatari, ma e dei principi e dei re. Fu pure uso comune nel medio evo che nel dividere l’eredità ciascun GIORNALE LIGUSTICO 355 membro avesse una porzione in ciascuna delle regioni del-Γ antica comunanza; di fatti alla divisione tra i Malaspina nel 1218 i due rami conservarono possessi tanto nella Luni-giana che nel Tortonese e Bobbiese. Mi duole aver dovuto entrare in queste piccole brighe ; nella nobile e dotta Germania io conto più di uno amico o benevolo, ma già una prima volta (non dal sig. Schultz) sono stato attaccato con argomenti simili su di un altro terreno ed ho taciuto, sebbene avrei potuto, non che pienamente rispondere, attaccare io stesso. Se ad un minimo e in cosa minima fosse lecito appropriarsi le parole di un grande , ripeterei con Carlo Troja: Nos musas sequimur humaniores. C. Desimoni. 1176 agosto 25. In Nomine Domini Amen. Ego Wilielmus Marchio Montisferrati convenio et promitto vobis consulibus communis Janue Nicole Embriaco, Ogerio Vento, Syrnoni Aurie, et Amico Grillo pro communi Janue quod salvabo et manutenebo quamdiu vixero universos Januenses et homines de districtu Janue et eorum res atque bona in tota terra et districtu atque posse quod habeo et propicia deitate de cetero habebo in terra et in aqua. Ego in causis atque discordiis omnibus quas deinceps Januenses habebunt per bonam fidem eis ad finem consilium et auxilium prestabo et eos inde manutenebo. Ego sine fraude adiuvabo ecclesiam Januensem et comune Janue atque ipsos Januenses retinere et quiete habere et si quod absit perdent recuperare omnes possessiones et iura que quasve habent et habebunt in ultramarinis partibus ; et nullo modo ero in facto aut consilio quod inde eis aliquid minuatur. Ad recuperandas vero possessiones et iura que aliquando habuerint ultra mare vel de iure poterunt postulare eis per bonam fidem auxilium et consilium efficaciter impendam usque in finem : excepto quod guerram inde non faciam et excepto de comitatu Jope et pertinendis eius omnino et de his que ipse Rex specialiter detinet ita quod opem et consilium dabo ut ipsi Januenses et eorum eclesia atque Commune vel ea recuperent vel inde iusticiam consequantur aut saltem 35^ GIORNALE LIGUSTICO ■convenientiam et concordiam inde habeant secundum quod ad commodum et honorem civitatis Janue et ipsius Regis michi sine fraude visum fuerit pertinere. Hec omnia per bonam fidem omni fraude et malicia i emota ego Wilielmus Marchio observare et adimplere iuro et in contrarium me sciente non faciam. Actum Janue in palatio Januensis Archiepiscopi. Testibus ad hoc convocatis Amico de Murta, Grimaldo Cannelle, Rubeo de Volta, Oberto Lucensi, Martino Tornello, Guarino preceptore hospitalis in Lombardia, Rainerio de Grana, Oberto Guardalosse et Guilielmo de Grafagna. Millesimo centesimo septuagesimo sexto. Indicione octava. Vigesimo tertio die augusti. Huius conventionis instrumenta tria facta sunt per A. B. C. divisa, quorum primum et ultimum habent Januenses et ipse Marchio medium; Wilielmus Calige Palliis Notarius Rogatus scripsit. DalVArchivio di Stato. Materie politiche. Mazzo i. BIBLIOFRAFIA DELLE OPERE A STAMPA DI GABRIELLO CHIABRERA (Continuazione vedi fase. VII-VIII, pag. 2S9). 2-. _ Italia liberala, poema eroico di Gabriello Chiabrera. In Mondovi, appresso Henrietto de’ Rossi, 1604, in 4.0 Dal Soprani, se bene leggo , è citata quest’edizione dell’Italia liberata (i). Ma quanta fede meriti il Soprani tutti sanno, ed io dubito forte che 1’ edizione in discorso esista veramente. 2É. _ Rime / del / sig. Gabriello / Chiabrera. Le Lodi de Vendemie di diversi Eroi. Parnaso. Lacrime so¬ Rapimento pra la lor di Cefalo. morte. V Erminia. Canzonette, L’ Alcina et Sonetti. prigioniera Schermi past. Sacre. GIORNALE LIGUSTICO 357 Parie prima./Raccolte da Piergirolamo/Gentile. / Con Licenza,· e Privilegi. I In Venetia / Appresso Sebastiano Combi/1605. In I2.° Quest’ edizione, bellissima e rara , è divisa in due parti, pubblicate tutt’e due dal Combi nello stesso anno, sebbene con titolo diverso. Ciascuno dei componimenti inseriti nella prima parte ha uno speciale frontispizio, ch’io qui riproduco, non senza avvertire che quest’edizione è stata descritta sinora molto inesattamente e imperfettamente. Le lodi di diversi eroi mancano però d’ un frontispizio lor proprio, e cominciano subito a pag. 5 dopo una lettera di dedica del Gentile, Venezia 25 settembre 1604 a Gio. Carlo Doria del sig. Agostino. In fine v’ ha un decreto del Consiglio dei X, i quali 1 havuta fede che nel libro intitolato Rime varie del sig. Gabriel Chiabrera non si trova cosa contra le leggi, et è degno di stampa; concedono licenza che possi essere stampato ». Seguono le Lacrime. — Lacrime / del / sig. Gabriello / Chiabrera. / Sopra la morte / di diversi Eroi. / Nuovamente poste in luce. / Con privilegio. / In Venetia, M.DC.V. / Appresso Sebastiano Combi. / Con licenza de’ Superiori. Il Gentile le dedica, con lettera da Venezia del 1 Gennaio 1605 , ad Andrea Spinola del fu sig. Francesco. In essa ci fa sapere che « la gravità de’ concetti, che son rinchiusi nelle lacrime , hanno reso immortale il loro Auttore ». — Canzonette / varie / del sig. Gabriello / Chiabrera. / Nuovamente poste in luce. I Con privilegio. / In Venetia, M.DC.V. / Appresso Sebastiano Combi. / Con licenza de’' Superiori. Queste Canzonette che « spirano dolcissima aura di honore » sono dedicate, con lettera di pari data, al sig. Gio. Lucca Chiavari. — Sonetti / del / sig. Gabriello / Chiabrera. / Nuovamente posti in luce. / Privilegio / In Venetia , M.DC.V. / Appresso Sebastiano Combi. / Con licenza de’ Superiori. Al Sig. Francesco de' Ferrari intitola il Gentile questi sonetti « che per numerosità di spiriti, et eccellenza d’ arte, fan gir inanti il loro Autore a 358 GIORNALE LIGUSTICO molti altri possessori della poetica facoltà ». La lettera è pure scritta da Venezia colla stessa data. — Schermi / pastorali / del sig. Gabriello / Chiabrera. / Nuovamente posti in luce. / Con privilegio. / In Venetia, M.DC.V. / Appresso Sebastiano Combi. / Con licenza de’ Superiori. Con lettera di pari data dedica il Gentile questi scherzi « pieni di musiche armonie, e di tutti quei colori poetici, che possono far meravigliosi simili generi di poesie » al sig. Agostino Balbi. — Vendemmie / di Parnaso / del sig. Gabriello / Chiabrera. / Nuovamente poste in luce. / Con privilegio. / In Venetia, M.DC.V. / Appresso Sebastiano Combi. / Con licenza de’ Superiori. I componimenti che il Chiabrera ha raccolti sotto Γ appellazione di Vendemmie di Parnaso, sono, in quest’ edizione, pochissimi di numero. Il Poeta dovè accrescergli via via. Questi sono dal Gentile indirizzati a Giovanni Soranzo. — Il rapimento / di Cefalo, / del sig. Gabriello / Chiabrera. / Nuovamente posto in luce. / Con privilegio. / In Venezia, M.DC.V. / Appresso Sebastiano Combi. / Con licenza de’ Superiori. Questo « parto di gran Poeta » invia il Gentile da Venezia al pittore Gio. Battista Paggi il i gennaio 1605. — L’ Erminia / del / sig. Gabriello / Chiabrera. / Nuovamente posta in luce. / Con privilegio. / In Venetia, M.DC.V. / Appresso Sebastiano Combi. / Con licenza de’ Superiori. Al sig. Gio. Francesco Baldi che « n’ acquistò già pacifico possesso di molti anni » dona il Gentile la presente ristampa dell’ Erminia. — L’Alcina / prigioniera / del sig. Gabriello / Chiabrera. / Nuovamente posta in luce. I Con privilegio. / In Venetia, M.DC.V. / Appresso Sebastiano Combi. / Con licenza de’ Superiori. Al sig. Gio. Battista Castello, al quale « fu donata come testimonio dell’eccellenza della sua virtù dallo stesso signor Chiabrera >, offre nuovamente 1’ Alcina prigioniera il Gentile con lettera, questa volta, senza data. GIORNALE LIGUSTICO 359 Rime / sacre / del sig. Gabriello / Chiabrera. / Nuovamente poste in luce. / Con privilegio. / In Venetia, M.DC.V. / Appresso Sebastiano Combi. / Con licenza de’ Superiori. « Le invio in questi pochi fogli le più rare gemme, eh’ io mi habbia saputo scegliere tra quei scrit:i, ch’io mi ritrovo bavere del più canoro Cigno de nostri tempi Gabriel Chiabrera ». Così scrive con lettera da Genova del 25 marzo 1595 il Gentile a Marc’ Antonio Grosso. Tra queste rime v’ hanno i poemetti : 1’ E'odiade e I cinque tiranni di Gabaon. L’Ero-diade termina col verso: Lo scandaloso piè rende alle danze. — Le Rime sacre chiudono la parte prima. — Rime / varie / del / Chiabrera. / Parie seconda. / Raccolte da Gioseppe / Pavoni. / Con licenza de’ Superiori, / el privilegio. / In Venetia / Appresso Sebastiano Combi / 1605. 1° I2.° Nessuno dei componimenti raccolti in questa seconda parte ha un proprio frontispizio. Eccone la nota: Delle canzonette, libro primo e secondo; Degli scherzi, libro primo, secondo e terzo; Canzonette morali; Le maniere de versi toscani; La disfida di Golia; La liberazione di S. Pietro; Il leone di David; Il diluvio; La conversione di santa Maddalena. V’hanno in fine cinque canzoni per Alfonso primo da Este, Enrico Dandolo, Marc Antonio Colonna il vecchio, Gian Giacomo Trivulzio e Francesco Sforza, delle quali la prima, la seconda e la quarta offrano alcune varianti alla lezione data nella parte prima. — Questa seconda parte ha un’ altra numerazione. 27. — Delle Poesie nuove raccolte da Pier Girolamo Gentile contenenti della Gotiade i quindici cauti, Canzoni varie , Sonetti varj. Fragmento de 1 etrarchi alla Gicrusalemme liberata del Tasso, In Venezia, presso Gio. Batt. Ciotti. 1605. In l2.° [« Il Gentile dedica il Poema della Gotiade in ottava rima a Tommaso Ciavari, le Canzonette a Leonardo Torre, ed i Sonetti a Cesare Corte con sue lettere tutte in data di Vinegia de’ 2 gennaio 1606. Rara edizione sconosciuta al Paolucci, ed all’ Editore delle Opere del Chiabrera riprodotta in Venezia nel 1730 , in 4 vol., in 8 ». — Poggiali, op. cit., tom. 2.0, pag. 20. Cfr. Giorn. dei Lett., tom. XXXVIII, p. 1.», pag. 150]. 360 GIORNALE LIGUSTICO 28. — Poesie nuove. Venezia, Giacomo Croci, 1605. In ié>.° Edizione citata dal Bertolotto al n. 15 della sua nota. 29. — Il Rapimento di Cefalo rappresentato nelle No^e della Cristianissima Regina di Francia, e di Navarra Maria de’ Medici Borbona. In Venezia per Sebastiano Combi, 1605. In 12.0 Quest’ edizione è citata dall’ Allacci (1), dall' Oldoini (2) e dal Giorn. dei Lett. (3). 30. — Poesie nuove di Gabriello Chiabrera. Venezia, Giacomo Croci, 1605. In 16.0. Edizione citata dal Bertolotto al n. 14. 31. — Della / corona / di Apollo / composta del più vago de’ / fiori di Permesso. / da Piergirolamo J Gentile ecc. / In Venetia / Appresso Sebastiano Combi / 1605. Afferma il Giuliani, nel suo studio intorno ad Ansaldo Cebà (4), che sono del Chiabrera gli scherzi i quali, in numero di cinquanta, si leggono nella seconda parte, da pag. 83 a pag. 239 sotto nomi diversi di « Accademico trasformato i>. Ma gli argomenti che adduce per sostener ciò non mi paion molto concludenti, anzi per me non concludono affatto. Nondimeno la Corona d’Apollo ho citata, perdi’ altri possa pronunziare il suo giudizio, il quale, se confortato di buone prove, accetterò di buon grado. 32. — Delle poesie / di / Gabriello / Chiabrera / Parte prima. / Per Lvi medesimo ordinata, / e donata all’ Illustriss. Signore, / il Signor Iacopo Doria / del Signore Agostino già / Serenissimo.· / In Genova, / appresso Giuseppe Pavoni, MDCV./Con licenza de’ Superiori. In 8.°. (1) Op. cit., pag. 658. (2) Op. cit., pag. 213. (3) Tom. XXXVIII, part. I, pag. 147. (4) Giorn. Ligust. , anno 1884, pag. 4. GIORNALE LIGUSTICO 361 ' Nella lunga lettera di dedica al Doria il Chiabrera scrive che se ha impiegato il tempo negli studi di poesia a ciò fu ricreazione e conforto dell’animo mio; et una imagine di negotio nell’otio grande della mia Patria; ma desiderio di fama veramenre non iu ». Poca stima faceva egli de’ versi, che via via componeva, anzi 1’ abbandonava in màno d’ amici, e- si dimenticava quasi d’ averli composti. Ma perchè alcuni presero più volte, nè già si vuol credere con malo animo, a raccorre le sue poesie « e senza ordine, mutando i titoli, scambiando i nomi, tutte o disperse, o confuse 1’ hanno stampate, e fattisene padroni ne hanno , come di lor patrimonio a loro talento disposto; e più oltre, vaghi solamente di stamparle, come elle si stampassero non hanno preso cura niuna ; si che cariche di scorrettioni, non eh’ a porgere diletto , non sono atte ad essere intese »; così il Chiabrera fu costretto a cambiar pensiero, e a procurare che le sue poesie « si divulghino con minore vergogna ». E pertanto si diede a « riordinarle, e secondo le maniere della poesia collocarle insieme ». I componimenti raccolti in questa prima parte, di pagine 11Ί, sono divisi in cinque libri. — Delle poesie / di./ Gabriello / Chiabrera / Parte seconda. / Per lui medesimo ordinata, / e donata all’ Illustriss. Signore, / il Signor Jacopo Doria / del Signore Agostino già / Serenissimo. / In Genova, / Appresso Giuseppe Pavoni, MDCVI. / Con licenza de’ Superiori. Questa seconda parte, di pagine 159, è divisa in sei libri. Nell’ultima pagina v’ha un’errata-corrige. A torto il Poggiali, mi sembra, scrive che non ha dedicatoria alcuna (1) ; è dedicata allo stesso personaggio , e non v’ è quindi mestieri di ripetere la dedica. — Delle poesie / di / Gabriello / Chiabrera / Parte terrei. / Per Lvi medesimo ordinata, / e donata alV Illustriss. Signore, / il Signor Gio. Vincenzo Imperiale. /.In Genova. / Appresso Giuseppe Pavoni, MDCVI./ Con licenza de’ Superiori. V’ ha in principio, senza data come quella al Doria nella parte prima, una lunga lettera di dedica all’Imperiale, dov’è largamente svolta la questione della rima nei poemi epici. Il Chiabrera non volle risolverla , (1) Op. cit., tom. II, pag. 24. 362 GIORNALE LIGUSTICO e stimò meglio tentare delle tre maniere di verseggiare, coni’ egli dice , « una picciola prova » nei poemetti raccolti in quest’ ultima parte , con ciascuno dei quali, soggiunge, « desiderava honorarmì ». I poemetti sono: il Battista, in terza rima , la Disfida di Golia, la Liberazione di S. Pietro, il Leone di David, il Diluvio, la Conversione di S. Maddalena, i Cinque tiranni di Gabaon. In quest’ edizione il poemetto sul Battista è compiuto, diviso com’ è in tre libri. Il Poggiali (1) però scrive eh’ è « in parte diverso da quello pubblicato nel 1602 ». Egli ignorava adunque la seconda edizione, che è quella procurata a Venezia dal Gentile nel 1605, dove del poemetto si leggono i primi due canti. Lo stesso Poggiali, infine , chiama quest’ edizione , e n’ ha ben ragione , « pregiatissima e rara (2) » 33. — Sette cannoni di sette famosi autori in lode del Serafico P. S. Francesco e del sacro monte della Verna, raccolte da F. Silvestro da Poppi, Minore Osservante. In Fiorenza, appresso Gio. Antonio Caneo, e Raffaello Grossi compagni, 1606. In 4.0. « A carte 16 v’è una Canzone, intitolata a Mons. Panigarola. Giorn. dei Lett., toni. XXXVIII, part. 1.% pag. 154 ». 34. — Gelopea / favola / boschereccia / del sig. / Gabriello I Chiabrera / al m. illustre / signore / il sig. Gio. Paolo / Torriglia. / Con licenza de’ Superiori / et privilegio. / In Venezia / appresso Sebastiano Combi / 1607, In 12.0 [« È divisa in cinque Atti ir. versi, e fu pubblicata da Pier Girolamo Gentile, che la dedicò a Gio. Paolo Torriglia con sua lettera di Venezia de’ 20 marzo 1607 ». — Poggiali, op. cit., tom II, pag. 30]. Debbo alla cortesia del mio egregio amico sig. A. G. Spinelli di poter aggiungere che è di pagine 82 e 2 bianche. La scena fu collocata dal Poeta al Promontorio in S. Pier d’Arena, nella villa del Torriglia. Cfr. anche Cinelli (3), Allacci (4) Giorn. dei Lett. (5) e VHaym (6). (1) Op. cit., tom. II, pag. 24. (2) Op. cit. , tom II, pag. 24. (3) Op. cit., tom. II, pag. 138. (4) Op. cit., pag. 388. (5) Tom. XXXVIII, par. 1.·, pag. 146. (6) Op. cit., tom. I, pag. 247. GIORNALE LIGUSTICO 363 35· — Delle / poesie nvove / del sig. Gabriello / Chiabrera / raccolte / da Pier Girolamo / Gentile. Rime varie. Fragmento de’ - Guerra de’ Goti. Tetraschi al- la Gerusalemme liberata del Tasso. Con privilegio. / In Venetia / presso Bernardo Giunti. Gio. Batta Ciotti / et compagni, 1608. In 12.0 V’ ha in principio una lettera di dedica del Gentile a Marcantonio Grosso, scritta da Genova il 25 marzo 1604. Seguono, sino alla pag. 71, e rime sacre , fra le quali sono compresi i poemetti Γ Erodiade , e I cinque tiranni di Gabaon. In questa quarta edizione dell’ Erodiade non è stato tenuto nessun conto dell’ edizione, curata dal Poeta stesso, di Genova del 1606; il poemetto termina col verso lo scandaloso piè rende a le danze. È stata riprodotta fedelmente, come si vede, la lezione del 1605. Alle rime sacre segue la Gotiade, con diversa numerazione di pagine, per cui taluno potè credere a un’ edizione distinta del poema in questo anno. Il Gentile la dedica a Tommaso Chiavari con lettera da Venezia del 1 gennaio 1606. È senza argomenti. Dopo la Gotiade si hanno le Canzonette varie dedicate dal Gentile medesimo a Leonardo Torre il 2 gennaio 1606, e i Sonetti varii inviati, con lettera di pari data, a Cesare Corte. In ultimo si legge il fragmento de’ tetrastichi per la Gerusalemme liberata dedicato, naturalmente, a Bernardo Castello. Chiude il volumetto una nota degli « errori occorsi nello stampare 1, e la licenza del Consiglio dei dieci, in data del 22 maggio 1606. Quest’edizione non è citata dal Bertolotto. 36. — Alcune poesie boschereccie di Gabriello Chiabrera. In Fiorenza, per Gio. Antonio Caneo, 1608. In 8.° [« Edizione originale rara, contenente la Meganira favola boschereccia divisa in cinque atti, donata dal Chiabrera a Filippo d’Averardo Salviati con sua interessante lettera senza data. In fine vi sono VII Egloghe in terza rima, nelle quali 1’ Autore sotto nome di Tirsi canta Iacopo Corsi poco prima defunto, il quale fu ancora grande amico del celebre poeta Ottavio Rinuccini. Il Chiabrera le indirizza a Riccardo Riccardi con sua 3 6 4 GIORNALE LIGUSTICO breve lettera pur senza data ». — Poggiali, op. cit.. tom. II, pag, 21]. LOlioini (i), e con lui Γ Allacci (2), citano un’ edizione della Meganira di quest’anno, stampata a Firenze nel 1608. Ma v’ha errore, come può rilevarsi dal Giorn. dei Lett. (3) dal Gamba (4) , e dalla citata descrizione del Poggiali. Accenna il Chiabrera a queste Poesie boschereccia in due lettere al Card. Ferdinando Gonzaga del 28 settembre e 4 ottobre 1608, pubblicate dal ch. prof. Neri (5).. — Quest’ edizione è taciuta dal Bertolotto. . 37. — Poesie sacre di Gabriello Chiabrera. Firenze, Filippo Giunti, 1608. Edizione citata dal Bertolotto al n. 17, seuza però notare il formato. 38. — Compendio / delle sonlvose / feste / fatte l anno M. DC. Vili. / nella città di Mantova, / per le Reali No^e del I Serenissimo Principe / D. Francesco Gonzaga / con la Serenissima Infante / Margherita di Savoia. / In Mantova, / presso Aurelio , et Lodovico Osanna Stampatori ducali. M DC . IIX . / Con licenza de’ Superiori. In 8.° Il Compendio è stato scritto da Federico Follino, si come si raccoglie dalla lettera di dedica a Margherita Gonzaga del 1.° luglio 1608. A pag. 2 si legge il Cartello in persona d’Amore , composto dal Chiabrera , e col quale il Duca di Mantova bandì il torneo. Veramente il Foliino non accenna averlo dettato il Chiabrera ; ma che sia cosa sua è tolto fuor di dubbio dalla ristampa fattane dallo Spotorno, di su i manoscritti del Poeta. Ancora in questo Compemdio si leggono, da pag. 75 a pag. 99, gl’ intermedi all’ Idropica del Guarini composti dal Chiabrera « a contemplatione del Duca , che per questo effetto 1’ haveva chiamato a Mantova». Merita d’esser rilevata qui una contraddizione tra il Follino e il Chiabrera. Questi nell’ autobiografia scrisse che il Duca Vincenzo lo chiamò « per ordinar macchine e versi per intermedi sulla scena ». Or il Follino tiene a dichiarare espressamente solo al Chiabrera appartenere i versi (1) Op. cit., pag. 213. (2) op. CI/., pag. S21· (3) Tom. XXXVIII, part. I.*, pag. 147. (4) Op. cit., ediz. 1839, pag. 528. (5) G. Chiabrera c la corte iti Mantova nel Giorn. Stor. della Leti, ititi , voi. VII, fase. 21, pag. 323, 324. GIORNALE LIGUSTICO 365 per gl’ intermedi ; ed essere la « maravigliosa inventione delle macchine, con le quali furono rappresentali, imitando cosi bene il vero, e la natura, tutta fatica del Sig. Antonio Maria Vianini ». Notisi bene 1’ espressione 'tutta fatica, eh’ esclude 1’ ipotesi aver avuto il nostro Poeta il pensiero delle macchine, ed essersi il Vianini contentato di provvedere all’ esecuzione. Il Rossi ha stabilito, nel suo recente libro sul Guarini, colla scorta d’una lettera d’Alfonso d’Este al Card. Alessandro, la data della rappresentazione dell’ Idropica (2 gtugno 1608), che il Follino e lo Zuccaro segnavano discordi (1). 39. — Vaghe^e / di mvsica / per vna / voce sola / di Francesco Rasi / gentilhuomo / aretino / raccolte da don Bussano / Casola vice mastro / di cappella / del serenissimo di Mantova. / Nova-mente stampati. / In Venetia / Appresso Angelo Gardano et Fratelli. / MDCVIII. In 4.0 Vi si leggono, musicati dal Rasi, alcuni madrigali del Chiabrera. V. a carta 2, Indarno Febo il suo bell oro eterno; a c. 8, Schiera d’ aspri martiri; a c. 9, Messaggier di speranza; a c. 12, Girate occhi, girate; a c. 13, Dolci miei sospiri; Si da vie pur mi desviano. Il eh. prot. Neri nel suo lavoro citato: Gabriello Chiabrera e la Corte di Mantova ricorda (pag. 343) un’altra raccolta del Rasi: Madrigali di diversi autori esposti in musica dal sig. Francesco Rasi nobile aretino, Firenze, appresso Cristofano Marescotti, 161 o, dove pure si leggono musicati alcuni madrigali del Chiabrera, gli stessi forse compresi nella raccolta del 1608. 40. — Concerto delle Muse ordinato secondo la vera armonia de’ metri da Pier Girolamo Gentile, negli spensierati di Fiorenza lo sprovveduto. In Venezia, presso Sebastiano Combi, 1609, in 12° « Sotto il nome d’ Erato v’ hanno rime del Chiabrera ». Così il Quadrio (2). 41. — Le varie musiche, a una, due e tre voci, con alcune spirituali in ultimo, per cantare nel clavicembalo e chitarrone, e (1) Rossi, Battista Guarini e il Pastor Fido. Torino, Loescher, 1886, pag. 154 e 294. (2) Della storia e della ragione ecc. Milano, 174x, voi. 11, pag. 371. 366 GIORNALE LIGUSTICO ancora la maggior parte di esse per sonare semplicemente nel organo, di Iacopo Peri. In Firenze , appresso Cristoforo Mare-scotti, 1609, in fol. A. pag. 29 v’ha la canzonetta che comincia: Un di soletta. — V. Gìor. dei Leti., tom. XXXVIII, part. 1.*, pag. 160. 42. — Alcune poesie boschereccie di Gabriello Chiabrera. In Venezia, appresso Sebastiano Combi, 1609. In 12.0 [« È una esatta ristampa dell’edizione del 1608. All’Egloghe evvi il suo particolare frontispizio ». — Poggiali, op. cit., tom. II, pag. 21]. Cfr. Giorn. dei Lett., tom. XXXVIII, part. 1.*, pag. 147 e 148. Alcuni citano un’ edizione della Meganira del 1609 , stampata pure in Venezia pel Combi. Valga, a questo proposito, 1’ osservazione fatta nel descrivere le Poesie boschereccie edite nel 1608. — Cosi questa edizione, come quella segnata al numero precedente, è taciuta dal Bertolotlo. 43. — Poesie di Gabriello Chiabrera. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1609. In 12. Quest’ edizione, sconosciuta a tutti gli altri bibliografi, è solo ricordata dall’ Haym (1). 44. — Rime / del / sig. Gabriello / Chiabrera. Le lodi de diversi Eroi. Lacrime sopra la lor morte. Canzonette et Sonetti. Scherzi Past. Di nuovo in questa seconda im- /pressione corrette, et accre-/ sciute della terza parte. / Parte prima / raccolta da Piergirolanw Gentile. / Con licenza e privilegi. / M.DC.X /In Venezia/appresso Sebastiano Combi. In 12.0 Vendemmie di Parnaso. Rapimento di Cefalo. L’ Erminia. U Alcina prigioniera. Sacre. (1) Op. cit., ediz. 1736, pag. no; cdiz. 1741* Pa£· II0> cdiz. 1771 » *om· Ρα£· 247· GIORNALE LIGUSTICO 367 La prima parte di quest’edizione è condotta fedelmente sull’antecedente edizione del 1605. Anche questa volta, nella ristampa del poemetto sulla morte di S. Giovanni Battista , che più compendiosamente è chiamato Herodiade, non è stato tenuto conto delle modificazioni e delle aggiunte fattevi dal Chiabrera nell’ edizione del Pavoni nel 1606. Come nell’edizione del Giunti, 1608, il poemetto non ha divisione di canti, ma termina col verso : Lo scandaloso pie’ rende a le danze che è quando dire che s’arresta al canto secondo. D’un abbaglio del Giuliani è qui da far cenno. Cita egli, nel suo studio intorno ad Ansaldo Cebà, un’ edizione delle rime del Chiabrera procurata a Venezia pel Combi nel 1604 , nella quale da pag. 82 a 92 si leggono gli Schermi pastorali (1) Ma questa edizione non esiste, e gli Schermi si leggono appunto nell’ edizione presente, compresi tra le pagine or ricordate; il Giuliani dovè esser tratto in inganno dalla data della lettera che sta in capo ad volume. — Delle / rime / del / sig. Gabriello / Chiabrera. / Parte seconda. / Raccolta da Giuseppe / Pavoni. / Con licenza de’ Superiori, / et privilegio. / In Venetia, MDCX. / Appresso Sebastiano Combi. V’ ha in principio la licenza del Consiglio dei dieci, in data del 19 novembre 1604. Seguono le Canzonette divise in due libri, gli Scherzi divisi in tre, le Maniere dei versi toscani, preceduti dal discorso del Fabri intorno alle medesime, la disfida di Golia, e le Canzonette morali. — Delle / rime / del / sig. Gabriello / Chiabrera. / Parte terrei / novamente data in luce. / Con licenza de’ Superiori / et privilegio. / In Venetia, MDCX. / Appresso Sebastiano Combi. Dopo il frontespizio vi ha una lettera di dedica del Gentile a Gio. Paolo Torriglia, scritta da Venezia il 20 marzo 1607, alla quale segue la licenza del Consiglio dei dieci in data del 9 gennaio 1606. Subito dopo si legge la Gelopea, la Giuditta in terza rima, e il poemetto sul Battista diviso in tre libri, vale a dire compiuto. A pag. 137 si ha: (1) V. Giorn. Ligust., anno 1883, pag. 456. 368 GIORNALE LIGUSTICO — Alcune / poesie / boschereccie / di Gabriello / Chiabrera. / Con licenza de’ Superiori, et privilegio. / In Venetia, MDCX. /Appresso Sebastiano Combi. Sono la Meganira che il Chiabrera invia a Filippo Averardo Salviati con lettera senza data, dove della rima nelle composizioni teatrali è di? scorso cosi: « Alcuni riguardando, che il favellare in scena rappresenta il favellare vicendevole, vogliono per rappresentare in ciò maggiormente la verità, che le rime se ne sbandiscano affatto. Alcuni altri stimano , che ’l verso toscano privo della rima rimanga privo di sua propria soavità, e forza, e sulle scene l’hanno rimato, ma senza ordine certo, e con una larga licenza ; onde si viene a soddisfare alla grazia del verso , ed al debito delle scene : quale sia l’opinione migliore io non so: credo, che nell’ uno, e nell’ altro modo si possa verseggiare senza colpa niuna. Ed ora ho preso consiglio di non abbandonare le rime ». La licenza per la stampa è del io settembre 1608. — A pag. 185: — Egloghe / di Gabriello / Chiabrera. / Nelle quali sotto nome di Tirsi / canta del signor Jacopo / Corsi. / Donate da lui al M. Illust. sig. il sig, / Riccardo Riccardi. / Con licenza de’ Superiori et privilegio. / In Venetia , MDCX. / Appresso Sebastiano Combi. La lettera di dedica del Chiabrera al Riccardi, molto affettuosa, è senza data. Le egloghe sono in numero di sette. Questa pregevole e rara edizione del Combi è citata inesattamente dal Bertolotto, che non ne distingue affatto le diverse parti, e vuole che sia in 16." 45. — Nove Muse, ordinate secondo la vera armonia de’ metri da Piergirolamo Gentile ecc. In Venetia, appresso Sebastiano Combi, 1610. In 12° [« Qui sotto ’i titolo d’Erilio si hanno a carte 320 due poemetti sacri, che però son impressi fra 1’opere dell’autor loro; cioè la Giuditta o la Morte di S. Giovambattista ». — Gior. dei lett. part. 1. pag. 154]· 46. — Rime / d’Ansaldo / Cebà. / A Leonardo Spinola / Fran-cavilla. / δς ol φίλος ήν εταίρος. / In Roma, / nella stamperia di Bartolomeo Zannetti. / L’anno, M.DC.XI. / Con licenza de Superiori. GIORNALE LIGUSTICO 369 A pag. 673 è un sonetto del Chiabrera per Federico Spinola , che incomincia: Il pregio altier che l'immortai Farnese; e a pag. 706 v’ha una canzonetta di quattro strofe al Cebà, che incomincia: Alcun giorno, nella quale son da notare i versi : Sempre scura bon Cebà non sia mia vita ; anco vn dì vedrò fornita mia sventura. Si contengono in questo volume alcuni sonetti del Cebà al Chiabrera, a pag. 289, 290, ^01 e 707. È noto come tra i due poeti fossero rapporti strettissimi d’amicizia. 47· — Oratione / nell’ in coronatione / del Serenissimo / Alessandro / Givstiniano / Dvce della Repvblica di Genova / Falla dal signor / Raffaele dalla Torre. In fine: In Genova, / appresso Giuseppe Pavoni. / MDCXI. / Con licenza de’ Superiori. In 4.0 Dopo la lettera di dedica del Pavoni a Luca Giustiniano v’ ha una canzone del Chiabrera al Duce Alessandro per 1’ occasione della di lui incoronazione, che comincia: Scettro, che d’alme gemme. 48. — Rime / del sig. Antonio / Costantini / in lode del gloriosissimo / Papa Sisto Quinto ecc. / In Mantova, presso Aurelio e Lodovico Osanni MDCXI. V’ è inserita, a pagina 151, una canzone del Chiabrera, che incomincia: Benché la sacra mano. 49. — Delle poesie di Gabriello Chiabrera, parte prima, per lui medesimo ordinala. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1612. In 8.° Quest’ edizione delle poesie, sconosciuta agli altri bibliografi, è citata dal Giustiniani (1). Esiste veramente? (1) Op. cit. pag. 355. Gioa*. Ligustico. Anno XIII. 370 GIORNALE LIGUSTICO _ Delie poesie di Gabriello Chiabrera, parte seconda, per lui medesimo ordinata. In Genova , appi-esso Giuseppe Pavoni, 1612, in 8.° Anche questa seconda parte è citata dal Giustiniani, come già la prima, senza alcuna particolare indicazione sul contenuto delle due parti. 50. — Alcune / cannoni / del / sig. Gabriello / Chiabrera /non più stampate. / Raccolte da Giuseppe Pavoni. / In Genova, / presso Giuseppe Pavoni / MDCXII. / Con licenza de’ Superiori. Nella lettera di dedica del Pavoni a Giacomo Doria, scritta addì 1 gennaio 1612, è detto: « Non ha molto, ch’io fui gradito di pochi, ma vaghi componimenti del sig. Gabriello Chiabrera fino à ora nelle tenebre di comun’ ignoranza sepolti, acciò col darli in luce gl’ avvivassi ». Le canzoni sono quattordici, e non tutte indirizzate a personaggi genovesi, come sembra affermare il Giuliani (1). 51. — I trionfali honori / della repubblica / genovese / nella coronatione del Serenissimo / duce / Giorgio Centurione. / In Genova / per Giuseppe Pavoni / MDCXII. A pag. 103 si legge un sonetto di Gabriello Chiabrera, che incomincia: Già l’ali onde voluhil s' appresenta. 52. — Le none di Zeffiro / idilio / del signor / Gabriello / Chiabrera / gentilhuomo savonese. / All’ illustrissimo sig. / e patron mio colend. / il sig. Conte / Gio. Tadeo de Bianchi, / Conte di Piano. / Con licenza et privilegio. / In Venetia appresso / Giacomo Violati al segno della Nave / con privilegio. In 16.0 Nel frontespizio non è indicato l’anno dell edizione , che però si rileva dalla lettera di dedica del Violati al Bianchi, scritta il 21 dicembre 1613. A proposito di questa edizione il Gior. dei Lett. ha queste parole: « Nel principio leggonsi ventitré versi, co’ quali è indiritto l’idilio al Granduca Ferdinando I, che mancano nell’ edizioni susseguentemente (1) Atti Soc. Lig. di Stor. Patr. voi. 9, pag. 22$. GIORNALE LIGUSTICO 37I .latte » (1). Ora v’ha in ciò un abbaglio solenne; il Violati lo prova nella lettera di dedica: « Fv dal sig. Gabriello Chiabrera, Poeta di quel grido, che è noto à tutta Europa, questo suo Idilio delle nozze di Zeffiro, donato all’Illustrissimo signor Ferdinando Riario Marchese di Castiglione». E, quand anche non si voglia dar fede al Violati, v’ha la testimonianza del Chiabrera medesimo, che chiarisce irrefutabilmente l’equivoco nel nome. Leggansi questi versi : A te fia caro, o Ferdinando, il dono, Poi che dell’ alma mia tanto sei caro Caro per la virtù che in te fiorisce, E per l’amato nome onde t’appelli, Che tal chiamossi ’l mio gran re, cui l’Arno Scorse ecc. Di pagine 17 non numerate. 53· — Lo stato rustico del sig. Gio. Vincenzo Imperiale, in questa tetça impressione accresciuto delle lodi a lui da’ mediori ò dedicate. In A^enetia, appresso Evangelista Deuchino , 1613. « Nelle Lodi a c. 81 una Canzone, e a c. 85 un Sonetto. Gior. dei Lett. tom. XXXVIII, part. 1.* pag. 156 ». — La canzone è ristampata a •pag. 13 del tomo IV delle opere, ediz. Venezia, 1730-31. Comincia col verso : Con la scorta possente. 54· — Al cippo, favola boschereccia di Gabriello Chiabrera, donata al sig. Pier Giuseppe Giustiniano. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1614. In 8.° • [« Edizione originale rara. È divisa in V atti in versi. La dedica al Giustiniani è in una Canzone. Meritava d’ essere registrata nella biblio-, teca dell’ Haym accresciuta ». — Poggiali, op. cit., tom. 2.°, pag. 29]. Cfr. Oldoini, op. cit. pag. 213 ; Allacci, op. cit. pag. 26; Gior. dei Lett., tom. XXXVIII, part, i.a pag. 146. Di questa favola ha fatta una diligente analisi il Klein, Geschicte des Drainas, Leipzig, 1867. (1) Tom. XXXV11I, part, i.a , pag. 148. 372 GIORNALE LIGUSTICO 55. — Galatea, favola marittima. In Mantova, per Aurelio, e Lodovico Osanna, fratelli, 1614, in-4.0 Che questa favola, citata dall’ Allacci (1) come d'incerto autore, appartenga al Chiabrera asserisce il eh. Prof. Neri nel suo recente lavoro: Gabriello Ombrerà e la corte di Mantova (2). Invero il Chiabrera il 26 dicembre 1608 scriveva al principe Francesco Gonzaga : «Ho preso anco ardimento di mandarle la presente favoletta, dono, il quale po’ ricevere alcuna gratia per la stagione festosa che s’ avvicina , quantunque per sè egli sia da dispezzare ». E in un’altra lettera dello stesso giorno al Card. Ferdinando Gonzaga: « Mando similmente una favoletta da cantarsi in sulle scene al Ser.m° Principe. È 1’ amore di Galatea mal fortunato, e vi si piange la morte di A ci ». Or la Galatea pubblicata dall’ Osanna, così il prof. Neri, risponde precisamente al soggetto ; poiché vi è svolto 1’ a-more di Galatea mal fortunato, e vi si piange la morte di Aci; inoltre Aci e Galatea non parlano mai insieme, secondo afferma dell’ originale Sante Orlandi in una sua lettera. Anche lo stile conferisce, sempre a giudizio del prof. Neri, nel farla ritenere cosa del Chiabrera ; ed a provarlo riporta alcuni brani della favola. Siccome però in essasi notano qua e là certe ineguaglianze di forma, e certi contorcimenti di pensiero, cosi argomenta che sia stata ritoccata per mano d’altri ; ed è anche questa la ragione per la quale il Chiabrera non volle pubblicarla col suo nome. La favola fu messa in musica da Sante Orlandi; e non comparve sulle scene, per quanto si sa, che ne! 1617, per festeggiare le nozze di Ferdinando Gonzaga con Caterina de’ Medici. _ Angelica in Ebuda, tragedia di Gabriello Chiabrera, donata al sig. Francesco Marino. Firenze, appresso Zanobi Pignoni, 1615. In 8.° « È molto gentile componimento, lavorato sul modello de Greci, senza alcuna divisione d’Atti, o di Scene, e col Coro, e colle Rime per entro agli Atti ; le quali sono così acconce e naturali, che ben danno a conoscere la mano maestra di chi le scrisse». Catalogo delle commedie italiane (Farsetti) Venezia, Fenzo, 1776, pag. 35. — Cfr. Gamba, op. cit. pag. 528; Poggiali, op. cit. tom. 2.° pag. 30. (1) Op. cit. pag. 383. (2) Nel Gior. stor. cit., pag. 327. GIORNALE LIGUSTICO 373 57· — Favolette / di Gabriello Chiabrera / da rappresentarsi cantando./In Firenze,/per Zanobi Pignoni, 1615. /Con licenza de’ Super. In 8.°. Debbo alla squisita cortesia dell’egregio prof. A. Neri la illustrazione di questo rarissimo opuscolo, che esiste nella raccolta lasciata da Antonio Bertoloni al nipote, il quale consenti all’ egregio dott. Alberto Bacchi della Lega di esaminarlo e trarne copia. Consta di pagg. 45 numerate, e tre bianche da ultimo, divise in tre quaderni di otto carte l’uno A, B, C. — A pag. 3 : Le favolette/ sono / Oritia rapita. / Polifemo Geloso; / Il pianto d Orfeo. A pag. 4 : Oritia / favoletta da / rappresentarsi / cantando. — A pag. 5 : Personaggi e Argomento. — A pag. 6 comincia 1’ Oritia, e va sino a pag. 20. — A pag. 21 : Polifemo / geloso /favoletta da / rappresentarsi cantando. — A pag. 22 : Personaggi e Argomento. — A pag. 23 comincia il Polifemo, e va sino a pag. 32. — A pag. 33 : Il pianto /d’Orfeo / Favoletta da / rappresentarsi cantando. — A pag. 34: Personaggi e Argomento. — A pag. 35 comincia l’Orfeo, e va sino a pag. 45. In fondo alla pag. 45 si legge : Il fine. Le ultime tre pagine che compiono il quaderno C sono bianche. 58· — Alcippo, favola boschereccia di Gabriello Chiabrera. In Venezia, per Giambattista Ciotti, 1615. In 12° Edizione citata dal Gior. dei Lett. ( 1), AM'Allacci (2), e dal Gamba (3). 59· — Alcune cannoni di Gabriello Chiabrera, composte per la Corte di Toscana. In Firenze, per Gio. Antonio Caneo, 1615. In 4.0 f« Raro. Sono tre Canzoni, la prima per le Dame, che ballarono mascherate nella Vegghia delle Grazie, la seconda è per due delle medesime dame al sig. Ferdinando Saracinelli, la terza è per Cosimo II, Gran duca di Toscana ». — Bertoloni, op. cit. pag. 41]. Il Bertolotto pone soltanto il cognome del tipografo. (0 Tom. XXXVIII, part. 1.· pag. 146. (2) Op, cit. pag. 26. (3) Op. cit. pag. 528. 374 GIORNALE LIGUSTICO 60. — Veglia delle Grafie di Gabriello Chiabrera, fatta ne’ Pitti il Carnevale dell’anno 161J. In Firenze, per Gio. Antonio Caneo, 1615. In 4.0 Edizione citata dal Moretti (1). 6 r. — Firenze / poema / di Gabriello / Chiabrera. / Al Serenissimo I Gran Duca di Toscana / Cosmo secondo. / Con privilegio. / In Firenze, / appresso Zanobi Pignoni. Con licenza de’ Superiori / M.D.C.XV. In 4.0 Il poema è diviso in nove Canti, in ottava rima. A pag. 3 comincia subito il Canto primo; non v’hanno nè argomenti, nè altra illustrazione Le stanze non sono numerate. Erroneamente l’Haym (2) scrive che in quest’edizione il poema è in versi sciolti, e diviso in quindici canti. Anche il Quadrio (3) è caduto in un errore siffatto. Edizione originale rara, di pagine 139. Si trovano esemplari in carta grande. Nella Maglia-becchiana, giusta quanto riferisce il Gamba, serbasi la Firenze con postille critiche di Francesco Piazza, pievano di Modigliana. 62. — Urania di Gabriello Chiabrera al Prencipe D. Carlo de Medici cardinale. In Firenze, per Cosimo Giunti, 1616. In 4.0 Edizione citata dal Cinelli, (4), dall’ Haym (5), e dal Giorn. dei Leti. (6). 63. — La Lira del cav. Gio. Batta Marino. In Venezia , appresso Gio. Battista Ciotti, 1616. In 12.0 « A carte 301 v’ ha un cartello fatto in persona del sig. Duca di Mantova, mantenitore in un torneo, da Gabriello Chiabrera *. Giorn. dei Lett., tom. XXXVIII, part. 1.«, pag. 159. In una posteriore edizione della Lira (1) Moreni, Bibliografia storico-ragionata della Toscana. Firenze, Ciardetti , 1815, Tora. I, pag. 256. (2) Op. cit., tom. I, pag. 199. (3) Op. cit., tom. IV, pag. 629. (4) Op. cit., tom. II, pag. 138. ($) Op. cit., tom. I, pag. 247. (6) Tom. XXXVIII, part.*, pag. i$i. GIORNALE LIGUSTICO 375 u (Venezia, Brigonci, 1667) ho trovato nella parte 3.“, pag. 278, ristampato il Cartello composto dal Chiabrera per il torneo bandito dal duca di Mantova. Merita d’ essere notato che il Marino dichiara il Cartello opera del Chiabrera, mentre il Follino (Compendio ecc.) aveva taciuto il nome del-1’ autore. A pag. 280 della ediz. cit. si legge pure la « Risposta del Cavalier Marino in persona de’ signori Principi di Piemonte, e di Modena con altri avventurieri ». 64. — Alcune cannoni sopra alcune vittorie delle galere toscane, e brevi postille intorno loro di Gio. Battista Forcano. Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1617. In 4.0 Le canzoni sono sei. L’edizione citata, fra gli altri dal Giustiniani (1) e dal Poggiali (2), è ignorata, non occorre dirlo , dal Bertolotto. 65. — Il presagio dei giorni. In Firenze , per Zanobi Pignoni, 1618. In 4.0 [« È un Poemetto in versi sciolti indirizzato dall’Autore al Principe D. Lorenzo Medici ». — Poggiali, op. cit., tom. II, pag. 23]. Questo poemetto è pure citato dal Bertoloni. Manca nel Gamba e nel Bertolotto. 66. — Per lo gioco del pallone celebrato in Firenze Γ estate dell’ anno 1618, et una lode ai giocatori dell’ istesso ; cioè due cannoni ecc. Firenze, Pignoni, 1618. In 4.0 [« La prima di queste due Canzoni si vede ristampata con le Opere del Chiabrera, ma con delle variazioni; e la seconda non è stata conosciuta dai Correttori delle medesime, e perciò quest’Opuscolo può considerarsi come non poco raro ». — Poggiali, op. cit., tom. II, pag. 23]. Il Bertolotto cita a quest’ anno un’ « Ode per il giuoco del pallone, celebrato a Firenze nel 1618 ».— Dalla descrizione del Poggiali si vede eh’ egli è in errore. 67. — Delle poesie / di / Gabriello / Chiabrera / parte prima. / All' illustriss. signore / il signore / Iacopo Filippo / Dyra^o. / In Genova, appresso Giuseppe Pavoni. / Con licenza de’Superiori, 1618. In 8.° (1) Op. cit., pag. 556. (2) Op. cit., tom. II, pag. 22. GIORNALE LIGUSTICO A pag. 2 v’ ha Γ imprimatur del P. Inquisitore, e, subito dopo, v’ ha la lettera di dedica, senza data , al Durazzo , la quale sì per la rarità del-l’edizione, come anche perchè serve a chiarir bene con quale intendimento ha ordinata il Chiabrera questa prima parte , stimo bene riprodurre quasi nella sua interezza. L’ oppressione gesuitica , si vede , stringeva sempre più in un cerchio di ferro gl’ ingegni ; e il Chiabrera , che certo non fu uno spirito fieramente ribelle, s’ acconciò volenteroso a quel giogo, offrendo i suoi componimenti alle cristiane tanaglie del reverendo padre inquisitore. « De gli studi miei di poesia io da principio non pen-» sando ad altro rinchiusi ne’ miei componimenti materie domestiche » con la gioventù; e poi maturandosi l’età mi vennero trattati soggetti » da questi primi alquanto diversi. E certo, avegna , che io non dovessi » giudicarmi poetando mal costumato, non posso già stimarmi in alcune » poesie salvo mal consigliato; et ora ottimamente il comprendo, quando » pervenuto al termine della vecchiezza, e raffreddato il vigore della fan-d tasia non posso più dilettarmi poetando, ma mi rivolgo ad esaminare » mie poesie : Io veramente, s’ elle fossero in mia balia , e di loro po-» tessi secondo il mio arbitrio disporre, tutte le disperderei; alcuna con-» dannandone per colpa della materia, e ciascuna per colpa dell’ ar-» tificio ; ma non essendo ciò conceduto, ho fatto proponimento di * raunare secondo il mio giudicio le men ree ; et apparire al cospetto » de gli homini men biasimevole che sia possibile; ho dunque de’ miei » componimenti fatte due parti; et in vna solo le poesie distinte, non » guardando alle cose, che in esse si trattano, ma riguardando alla » maniera delle rime messe insieme per saviamente trattarle; nell’altra » leggerannosi le poesie non con riguardo alle rime, ma solamente a’ » soggetti, eh’ elle contengono ». — Il Poggiali (i) a proposito di questa edizione scrive : « Questa prima parte è divisa in V libri , ma le Poesie sono diversamente disposti: da quelle del 1605. Edizione non molto corretta, benché fatta sotto gli occhi dell’ Autore, e molto stimata, e collocata da molti fra quelle di Crusca ». Di pag. 147 numerale. — Delle poesie / di / Gabriello Chiabrera / parte seconda. / Al-l’illustriss. signor, / il signor / Leonardo Spinola / del sig. Andrea. /In Genova, appresso Giuseppe Pavoni. / Con licenza de Superiori, 1618. In 8.° (1) Op. cit.y tom. II, pag. 25. GIORNALE LIGUSTICO 377 Questa seconda parte ha pure I’ imprimatur del p. Inquisitore, ed è indirizzata allo Spinola con una lettera senza data. In questa lettera il Chiabrera dà ragione delle innovazioni da lui introdotte nella poesia italiana ; e per la sua importanza merita d’ essere riprodotta in gran parte. « I Greci, Illustriss. Signor Leonardo, i quali abbondavano d’otio et » erano a meraviglia forniti d’ingegno, poetando per le antiche stagioni, » e per varie strade salendo al Parnaso, poche materie lasciarono , » che da’ loro nobili versi non fossero illustrate. Anacreonte secondando » i suoi costumi con soavità da non pareggiarsi assegnò il suo canto al-» 1’ allegrezza de’ conviti et alle feste del bon Dionigi ; Saffo mitigò le » fiamme d’ Amore, onde era accesa, cantando le sue passioni ; ma Pin-» darò con grandezza di spirito incomparabile, celebrò i travagliosi esser-» citij de’ Cavallieri ; all’ incontra Simonide hebbe vaghezza di piangere » le altrui morti; et Alceo esperto delle guerre compose canzoni intorno » a gli affari de i regni. Per s't fatta varietà di scritture non po negarsi » andarsene altiera infinitamente la greca poesia; ma la toscana ferma-» tasi nelle delitie de gli amori, e quasi di nulla altro honorando sua » lira, è fino oggi priva di quelle ricchezze, eh’ ella merita largamente , » et è ottimamente acconcia per acquistarle; questa sua povertà è tut-» tavia con esso lei perchè gli ingegni grandi de gli homini Italiani non » hanno preso a farla pomposa; et essi non hanno ciò fatto a mio giu-» dicio, perciò che ’l pensiero non ci hanno rivolto ; che del valore » hanno manifestamente provato haverne a’ bastanza. Hora io per lo » spatio della mia gioventù dilettandomi nella piacevolezza delle muse, » presi consiglio di comporre alcuni pochi versi, ne i quali si rinchiu-» dessero tutte quelle si fatte materie, non per altro veramente, che per » eccitare in altrui vaghezza di ferire quel segno, il quale da me poteva » solamente additarsi ; questa fu la cagione , che io metesi insieme le » presenti compositioni ; e Γ istessa oggi mi costringe a sporle fra gli » intelletti gentili della nostra Italia ». — Questa seconda parte, di pagine 123, è divisa, come la prima, in cinque libri. — Delle poesie / di / Gabriello / Chiabrera / parte ter7a. / Al-l’illustriss. signor, / il signor Gio. Battista Ballano. / In Genova. Appresso Pavoni. / Con licenza de’ Superiori, 1619. In 8.° Dopo l’imprimatur d’Iacobus de Cesena il Chiabrera dà conto al Baliano in una lettera senza data delle poesie raccolte in questa terza ed ultima parte così : « Ho disposte le Poesie, che s’ appellano liriche in due vo- 37§ GIORNALE LIGUSTICO » lumetti, et al presente in questo ho quelle disposte, le quali si chia-» mano narrative; — Di loro alcune manifestamente appaiono simigliami » ad alcune greche; veggendo noi che Museo con pochi versi narrò i »-miserabili amori di Leandro; e che Teocrito brevemente rappresentò » alcune attioni d’ eroi ; ma per alcune è da por mente a gli Inni d’Omero, » ne quali egli spone avenimenti, che altro vogliono dare ad intendere di » quello, che le pure parole significano; Poesie certamente dilettevoli, e » degne di essere caramente raccolte , se per me non fossero pessima-» mente trattate ; ma io di queste sì come dell’ altri soglio prendere scusa » con vna leale e sincera ragione; et è che portando la loro notitia a’ gli » homini Italiani io forse sveglierò desiderio di comporne in chi bene, et » ottimamente potrà adempiere i difetti del mio poco sapere ». — Questa terza parte, di pagine 98, è divisa, a differenza delle altre, in due libri. Nel primo si leggono i poemetti : La conquista di Rabicano ; L’ ametiste ; Gli strali d’amore; Il diaspro; Le nozze di Zefiro; Il Tesoro; Il Verno. Nel secondo, invece, si leggono poemetti sacri, e cioè: La disfida di Golia; La liberazione di S. Pietro; Il leone di David; Il diluvio; La conversione di S. Maddalena; I cinque tiranni di Gabaon. — È bene avvertire che il Bertolotto non accenna punto le tre parti in cui è divisa la presente raccolta. 68. Per li giocatori di pallone in Firenze I’ estate de V anno, 1619. In Firenze, nella stamperia di Zanobi Pignoni, 1619. In. 4° Quest’ opuscolo rarissimo, sconosciuto al Bertolotto , è citato dal Ber-toloni (1), che se ne riferisce al Gamba. 69. — La caccia dell’astore, poemetto di Gabriello Chiabrera all’ illustriss. sig. D. Virginio Cesarino. Fiorenza, appresso Zanobi Pignoni, 1619. In 4.0 Questo poemetto in versi sciolti è citato dal Poggiali (2). 70. — Il secolo d’ oro , poemetto di Gabriello Chiabrera all’ illustriss. signore Maffeo Barberini cardinale. Fiorenza, appresso Zanobi Pignoni, 1619. In 4.0 (l) Op. cil. , pag. 41. (1) Op. cit., tom. II, pag. 29. GIORNALE LIGUSTICO 379 Questo poemetto, pure, in versi sciolti, è citato , dal Poggiali (i). È sconosciuto al Bertolotto. 71· — Le ηοζζβ di Zefiro, idillio di Gabriello Chiabrera. Macerata, appresso Bastiano Martellini, e Gregorio Arnazzini, 1619. In 12.0 Anche questo graziosissimo poemetto in versi sciolti, ignorato dal Bertolotto, è ricordato dal Poggiali (2). 72. — Le meteore, versi di Gabriello Chiabrera. Firenze, Cec-concelli, 1619. In 4.0 Opuscolo rarissimo, menzionato dal Cinelli (3), dal Giorn. dei Lett. (4) e dall’ Haym (5). Il Bertolotto lo tace. 73. — Cannoni di Gabriello Chiabrera per le galere della religione di Santo Stefano. Firenze, appresso Zanobi Pignoni, 1619. In 4.0 Quest’ opuscolo, di carte 30, è ricordato dal Bertolotto al n. 26 della sua Nota. 74· — Firenze, poema di Gabriello Chiabrera. Firenze, 1619. In 4.0 Edizione citata dal Gamba (6), «enza accennare alla tipografia. 75· — Il vivaio di Boboli, versi di Gabriello Chiabrera, al sig. Giov. Ciampoli. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1620. In 4.0 Opuscolo rarissimo citato dal Soprani (7), dal Giustiniani (8), dall’ 01-doini (9) e dal Giorn. dei Lett. (10). Il Bertolotto lo tace. (1) Op. cit., tom. II, pag. 29. (2) Op. cit., tom. II, pag. 29. (3) Op· c*t· > tom· Pag· I5^· (4) Tom. XXXVIII, part, i.a, pag. 152. (5) Op. cit. , tom. I, pag. 247. (6) Op. cit., pag. 527. (7) Op. cit. , pag. 109. (8) Op. cit., pag. 256. (9) Op. cit., pag. 213. (10) Tom. XXXVIII, part, i.a, pag. 149 380 GIORNALE LIGUSTICO 76. — Inno per S. Francesco, di Gabriello Chiabrera. In Genova, appresso Pavoni, 1620. In 4.0 È citato dal Giustiniani (1). 77. — Inno per S. Carlo Borromeo versi di Gabriello Chiabrera. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1620. In 4.0 È pur citato dal Giustiniani (2). 78. — Inni per alcuni Santi, di Gabriello Chiabrera. In Genova appresso Pavoni, 1620. Q.uali sono questi inni, ricordati dall' Oldoini (3)? È lecito supporre che siano i due ricordati dal Giustiniani? Il Bertolotto, orm^j è superfluo notarlo, non fa alcuna luce su ciò. 79. — Amore sbandito, dramma musicale di Gabriello Chiabrera. È citato dall’ Oldoini (4), che non accenna le note tipografiche nè il formato. 80. — Il Romulo di Gabriello Chiabrera , al sig. Anton Giulio Brignole. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1620. È citato dall’ Oldoini (5). 81. — Tempio di lodi del serafico patriarca de’ poveri Francesco Santo, con molle annotationi del molto R. P. M. Oratio Civalli ecc. In Macerata, per il Carbone, 1620. In 4.0 Nel Gior. dei Lett. (6) è detto che a carte 62 si legge una canzone del Chiabrera, che certo è quella stessa pubblicata nel 1588. (1) Op. cit. , pag. 156. (2) Op. cit. . pag. 25«. (5) op. cit., pag. 213. (4) Op. cit. , pag. 213. (5) Op. cit., pag. 213. (é) Tom. XXXVIII, part, ι.·, pag. 156. GIORNALE LIGUSTICO 38i 82. — Cannoniere del sig. Piergiuseppe Giustiniano. In Vi-negia, per Evangelista Deuchino, 1620. In I2.° Il Gior. dei Lett. (1) riferisce che a pag. 125 v’ha un sonetto del Chiabrera. Il sonetto è riprodotto a pag. 46 dell’ edizione delle opere, Venezia 1736-31, tora. 4.0 Comincia: Con due bei gioghi nella Terra Argiva. 83. — Il Solimano, tragedia di Prospero Bonarelli. Firenze, Cecconcelli, 1620. In. 4.0 V’ha in principio un sonetto del Chiabrera, che comincia: Questo gentil, che con leggiadri canti. 84. — Amedeida / poema / di Gabriello / Chiabrera / al Serenissimo / Carlo Emanvel / Duca di Savoia, / etc. / con privilegio. / In Genova, / appresso Givseppe Pavoni MDXX. / Con licenza de’ Superiori. In 4.0 A pag. 3 v’ ha il « contenuto del poema » ; e a pag. 7 comincia il canto primo. Il poema è diviso in 23 canti, in ottava rima. Le stanze non sono numerate; non v’hanno nè argomenti, nè altre illustrazioni. L’ edizione è adorna di qualche fregio, in verità, non molto leggiadro. L’esemplare esistente alla Biblioteca civica di Genova ha annotazioni marginali del p. Spotorno. Erroneamente il Quadrio (2) scrive che per quest’ edizione dettò gli argomenti il forestiero Idrontino. 85. — Per la morte del Serenissimo Gran Duca di Toscana Cosmo secondo, cannone di Gabriello Chiabrera. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, con licenza de’ Superiori, 1621. In 4.0 Rarissima e quasi sconosciuta la dice il Bertoloni (3), in una lettera a Paolo Rebuffo. Inutile dire che se è sconosciuta agli altri bibliografi, eccetto il Giustiniani (4), lo è a maggior ragione al Bertolotto. (1) Tom. XXXVIII, part. I.*, pag. 156. (2) Op. cit. , tom. IV, pag. 679. (3) In Nuovo Giorn. Ligust. Ser. 2.·, voi. 2.°, pag. 313. (4) Op. cit., pag. 156. 382’ GIORNALE LIGUSTICO 86. — Scio, poemetto di Gabriello Chiabrera a Pier Giuseppe Giustiniani. Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1621. In 4.0 Edizione citata dal Giustiniani (1). 87. — Chirone, poemetto di Gabriello Chiahrera al Serenissimo Gran Duca di Toscana Ferdinando secondo. Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1621. In 4.0 Edizione citata dall’ Oldoini (2). 88. — La caccia delle fiere, versi di Gabriello Chiabrera al Serenissimo Gran Duca di Toscana Ferdinando II. Firenze, per Pietro Cecconcelli, 1622. In 4.0 Edizione citata dal Gamia (3). 89. — Etminia, tragedia di Gabriello Chiabrera. Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1622. In 12.0 Edizione citata dall’ Allacci (4), dall 'Oldoini (5) -, dall’ Haym (fi), dal Giorn. dei Lett. (7), dal Fontanini (8), e dal Gamia (9). Il Giorn. dei Lett. e 1’ Allacci vogliono che sia in 8.° 90. — Il ballo delle Grafie, dramma musicale di Gabriello Chiabrera, rappresentato in Firenze innanzi all’AUezza di Toscana sotto nome di Vegghia. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1622. In 8.° (1) Op. cit., pag. 255. (2) Op. cit., pag. 213. (3) Op. cit., pag. 527. (4) Op. cit., pag. 303. (5) Op. cit., pag. 213. (6) Op. cit., tom. I, pag. 285. (7) Tom. XXXVIII, part. i.a, pag. 146. (8) Op. cit., tom. I, pag. $25. (9) Op. cit., pag. 528. GIORNALE LIGUSTICO 383 Cita il Giustiniani a quest’anno (r) parecchi drammi musicali del Chiabrera, editi tutti pel Pavoni, e tutti d’ identico formato. A vero dire il Giustiniam si rapporta all’ Allacci, nella prima edizione della Drammaturgia, eh’ io non ho veduto. Or è lecito a me avanzare il dubbio che questi drammi siano stati non già pubblicati a parte, ma in un solo volume raccolti? Ai collettori di antichità bibliografiche la risposta. 91. — Il pianto d’ Orfeo, dramma musicale di Gabriello Chiabrera, rappresentato innanzi all’ Altera di Firenze sotto nome di Vegghia. Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1622. In 8.° Citato dal Giustiniani (2). 92. — La pietà di Cosmo, dramma musicale di Gabriello Chiabrera, rappresentato ' all’ altezza di Toscana sotto nome di Vegghia. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1622. In 8°. Edizione citata dall’ Allacci (3). 93. — Polifemo geloso, dramma musicale di Gabriello Chiabrera, rappresentato all Altera di Toscana sotto nome di Vegghia. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1622. In 8.° Edizione citata dall’ Allacci (4), dal Giustiniani (5), e dall’ Oldoini (6). 94· — Amore sbandito, dramma musicale, di Gabriello Chiabrera, rappresentato innanzi all’Altera di Toscana, sotto nome di Vegghia. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1622. In 8.° Edizione citata dall 'Allacci (7), (1) Op. cit. , pag. 256. Cfr. Belgrado, Delle feste e dei giuochi dei Genovesi, nell' Areh. Stor. [tal. Ser. 3.» vol. XVIII, pag. 118. (2) Op. cit. , pag. 257. Cfr. Belgrado, Delle feste ecc. , pag. 118. (>) °P- ciL 1 pag· <>27. Cfr. Belgrado, Delle feste, ecc., pag. 118. (4) Op. cit., pag. 636. Cfr. Belgrado, Delle feste, ecc., pag. 118. (5) Op. eit. , pag. 257. (6) Op. cit. , pag. 213. (7) Op. cit., pag. 69. Cfr. Belgrado, Delle feste, ecc., pag. 11S. 384 GIORNALE LIGUSTICO 95. — Oritia, dramma per musica di Gabriello Chiabrera , rappresentato innanzi alle altere di Toscana sotto nome di Veg-ghia. In Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1622. In 8.° Edizione citata dall 'Allacci (1), dal Giustiniani (2), dall 'Oldoini (3). 96. — Galatea, ovvero le grotte di Fassolo, versi di Gabrieli Chiabrera alla sig. Emilia Giustiniana. Genova, appresso Giuseppe Pavoni, 1623. In 4.0 Edizione citata dal Giustiniani (4), dall’ Oldoini (5), e dal Gior. dei Lett. (6). 97. — Inni / di Gabriello / Chiabrera. / per alcvni santi. / Al-V illustriss. signor, / il signor Francesco / Barberini. / Cardinale di salita / Chiesa. / In Genova. / Appresso Givseppe Pavoni, MDCXXIIII. / Con licenza de’ Superiori. In 4.0 Non v’ha alcuna dedica. Gli inni sono per S. Agata, S. Pietro, S. Andrea, S. Maddalena, S. Paolo, S. Cecilia. Di pag. 32. L’edizione è ornata di qualche fregio. 11 Bertolotto la ricorda, ma senza punto accennare al nome del tipografo. 98. _ Il rapimento di Cefalo, dramma musicale di Gabriello Chiabrera. Venezia, Combi, 1625. In 12.0 Edizione citata dal Gamba (7). 99. — Canzonette / di Gabriello / Chiabrera. / Composte alla maniera /di Pindaro. / In Roma, / appresso Giacomo Mascardi. M.DC.XXV./Con licenza de’ Superiori. In 4° (1) Op. cit. , pag. 581. (2) Op. cit. , pag. 256. (5) Op. cit., pag. 213. (4) Op. cit., pag. 256. (5) Op. cit.. pag. 213. (é) Tom. XXXVIII, part. I.», pag. 149. (7) Op. cit., pag. 528. GIORNALE LIGUSTICO 385 Non v’ ha alcuna dedica. Le canzoni sono sei, e sono tutte indirizzate, sebbene non sia detto, ad Urbano Vili. Eccone i capoversi: Qual su la celera ; Su questo scoglio; Suoi figli e la magion del suo riposo; Per alcun non si creda; Ornai fugge in Tracia il gelo; 0 bella che soggiorni. Il Poggiali, e a ragione, chiama rara quest’ edizione. 100. — Il Chirone-, versi di Gabriello Chiabrera al serenissimo Gran Duca di Toscana Ferdinando li. Roma, Mascardi, 1625. In )2-° Quest’edizione, che gli altri bibliografi non ricordano, è citata dal Bertolotto al n. 31 della sua Nota. (Continua). VARIETÀ Un’avventura dell’abate Pietro Maria Tosini. Non si hanno notizie biografiche di quest’uomo, che pur ha lasciato il suo nome in fronte a due libri assai curiosi (1), ne’ quali, a quanto si crede, mise mano, almeno come ispiratore, il cardinale Lorenzo Casoni, e che vennero proibiti (2). Accenna egli stesso a’ suoi « viaggi per 1’ Europa » , e alla dimora fatta « in Francia, nella Fiandra, ed in Olanda », dove « molti decantano delizie, passatempi, e libertà »; mentre egli, che ha « cercato di comprendere quanto sia possibile tutti quei paesi, e specialmente circa il morale », (1) La libertà dell’Italia dimostrata a’ suoi Principi e Popoli, Amsterdam, 1718-20, voi. 2. — Storia e sentimento sopra il Giansenismo nelle presenti circostante della Chiesa, Concordia, presso il Cristiano Fedele, nella via della Pace, all’insegna dell’ Olivo, 1717, tom. 3. (2) Cfr. Melzi, Ό'ιχίοη. opere anonime e pseud., Ili, no. — Giornale degli eruditi e curiosi, IV, 279. Giorn. Ligustico. Anno XIII. 25 386 GIORNALE LIGUSTICO non vi ha « riconosciuto altro che miserie » nè v’ ha « inteso altro che lamentazioni ». Ma nel suo soggiorno d’ Olanda, che fu posteriore al 1711 si procacciò non poche noie e dal Nunzio di Colonia, e dai Missionari, contro i quali scrisse poi assai vivamente (1). Là si era condotto, a quanto pare da Roma, donde si affermava fosse stato bandito; e quantunque non ve 11e siano prove, ed egli ben s’intende, lo neghi, pur conviene riconoscere in lui certa indole irrequieta che lo deve aver ridotto ad una vita avventurosa e randagia, di che può esser prova il fatto singolare avvenutogli a Genova, che suscitò un incidente diplomatico. Si riferisce al tempo della guerra di successione, e si svolge più specialmente nel periodo in cui, per essere passata la Sardegna in potere di Carlo III, il re Filippo a fine di ricuperarla apparecchiava l’infausta impresa, riuscita a mal termine per la mala fede del Duca d’ Uceda che ne era il condottiero. Allorquando la Regina sposa di Carlo III fu di passaggio per Genova nel 1708, fra le persone del suo seguito venne notato un Abate, che proseguendo il viaggio si condusse a Barcellona : donde in seguito passato in Sardegna ridotta al-Γ obbedienza di Carlo, tornò nell’aprile dei 1710 a Genova, e prese alloggio nella locanda di Marziano Patrini, dichiarando al magistrato della Consegna che il suo nome era Francesco Palmieri (2). Quivi trovò modo d’insinuarsi accortamente nelle grazie di parecchi ufficiali comandanti le galere di Spagna, le quali si trattenevano nel porto di quella città aspettando il tempo di uscire all’ impresa di Sardegna, che si andava maturando. Egli, di spirito vivace ed ambizioso, (1) Storia e sentimento sopra il Giansenismo, Venezia, Radici, 1767, I, nella Dedica; III, 230, 263. (2) I documenti dai quali ho rilevato questo aneddoto sono nel R. Arch. di Genova, Secretorum, 1710. GIORNALE LIGUSTICO 387 non ristava dallo spacciarsi come persona d’alto affare, tenuto in considerazione dai capi degli Spagnuoli, ben addentro nei segreti maneggi politici; e perciò proferiva a questo e a quello la sua protezione, ricavandone de' buoni regali, che gli facevano molto comodo, essendo povero in canna. Deliberatasi la partenza per andare ad investire 1’ isola, non gli riuiscì difficile salire a bordo, e facendosi credere conoscente e quasi intrinseco di tutti i capitani, si destreggiò in guisa che 1’ uno credeva avesse avuto dall’ altro il permesso d’ imbarcarsi; e poiché mostrava assai avvedutezza, buon senno, e molta conoscenza della Sardegna, furono contenti d’ammetterlo alla trattazione dei loro negozi. Se non che venutosi a scoprire, dopo alquanti giorni, che da nessuno aveva avuto facoltà d’imbarcarsi, gli fu domandato in qual modo si trovasse colà; al che egli, forse già preparato, rispose francamente, averne avuto ordine dal Duca di Uceda, dal quale dipendeva ; onde in ossequio del Duca non solo lo tennero a bordo e nella stessa confidenza come per lo innanzi, ma gli affidarono « il maneggio delle munzioni con assegnamento di qualche stipendio ». Qual non fu però la sorpresa degli ufficiali spagnuoli, quando tornati dall’ infelice spedizione della Sardegna, e domandato al Duca dell’Abate, si sentirono rispondere « non averne » egli « alcuna cognizione, nè avergli permesso l’imbarco » ! Allora nacquero dei sospetti, e il Duca premurosamente e con segretezza ricercò le più diligenti informazioni della condizione sua, donde venne in chiaro -essere costui « persona vagabonda, e che fintosi parziale del partito di Filippo Quinto, anche prima della spedizione suddetta, s’ingegnava di penetrare i più occulti disegni per riportarli al partito contrario » ; del che potè raccogliere prove bastanti ; e per di più vi erano indizi, sebbene non determinati, che avesse « commesso gravi delitti in offesa del Re ». Bisognava dunque dargli un adeguato castigo, togliendogli modo altresì di ar- 388 GIORNALE LIGUSTICO chitettare nuove trame ; perciò il Duca, con un po di spavalderia spagnolesca, non ricordando che si trovava in casa d’altri, fece deliberazione « d’assicurarsi della sua persona », passando sopra ai diritti della Repubblica ed alle convenienze che gli erano imposte dalla sua condizione. Egli, dati quindi segretamente gli ordini opportuni, aspetto prima alcun tempo nella speranza che forse il topo sarebbe ito da sè a rinchiudersi in trappola sulle galere ; ma veduto che la cosa andava in lungo, e 1’ amico, o perchè avesse subodorato qualche cosa, o per qualsivoglia altra cagione, non si lasciava cogliere a questo laccio, prese partito di finirla in altro modo. Era la domenica 13 di luglio, e il capitano Francesco Persichelli di Cremona, certamente già istruito di quanto doveva fare, se ne andò con altri ufficiali alla locanda del Patrini, e tutti di brigata desinarono allegramente insieme al nostro Abate, e poi inter pocula 1 indussero ad accompagnarli fino alla galera Capitana, chè sarebbero quindi tornati a terra. Se ne andarono perciò circa le ventidue al Ponte Reale, ed entrati in una barchetta si fecero condurre alla galea, do\e giunti salirono a bordo gli ufficiali, restando 1’Abate, « il quale era vestito di turchino con cravatta, senza spada », nella barca ad aspettarli; poco dopo giunse pure dalla cuti un’ altra barchetta con due altri ufficiali, i quali prestamente salirono a bordo aneli’essi. Non passò un quarto d’ora che scesi alcuni marinai, senza dir motto s’impadronirono del-1’ Abate e lo trascinarono a forza sulla galea, mentre egli facendo inutili tentativi per resistere, andava gndando, « che non potevano farlo prigioniero, perchè era in paese della serenissima Repubblica ». Dopo di che gli ufficiai, se ne tornarono tranquillamente in città. Venuto il fatto nel di successivo a cognizione del governo, prese le debite informazioni per mezzo degli Inquiston di Stato, ordinò al Segretario di condursi immediatamente dal GIORNALE LIGUSTICO 389 Marchese di Monteleone ambasciatore di Spagna, a fine di muovergli le più vive doglianze per l’avvenuta violenza, e richiedergli la sollecita libertà dell’ arrestato. L ambasciatore sapeva benissimo, sebbene in via non ufficiale, 1 accaduto, e un po’ per 1’ enormezza del fatto, un po perche punto dal non averne ricevuto nessuno avviso preventivo dal Duca d’ Uceda, mostrò aver « sentito la notizia con somma sua passione », ritenendo « che ciò fosse per apportare disgusto » al governo, tanto più non trattandosi « di suddito della Corona, nè di persona », la quale si fosse resa colpevole di tale delitto da indurre i ministri del Re « ad una risoluzione cosi precipitosa e del tutto opposta al diritto, e lesiva della giurisdizione e sovranità della Repubblica ; mentre anche in ognuno di questi casi non sarebbero mancate forme di reciproca so-idisfaziene, e convenienza col Governo per assicurarsi dell’ Abate ». Prometteva perciò « indagare le cause dell’ arresto » portando in un tempo al d’ Uceda « le giuste doglianze » della Repubblica, e facendo istanza per la liberazione del detenuto. Se non che abboccatosi con il Duca, e da questi certo indettato, nel successivo colloquio con il segretario di Stato narrò il modo dell’ arresto assai diversamente dal vero, nell’intento di escludere l’agguato, e insistendo sulle cause che 1’ avevano determinato , concluse avere speranza che il governo doveva « appagarsi col riflettere al motivo dell’ arresto, alla qualità della persona, che essendo stata a’ regii stipendi », poteva dirsi « soggetta alla giurisdizione del Re, al luogo dove seguì 1* arresto, cioè sotto la poppa della Galea, dove anche », secondo pretendeva affermare, « era andato spontaneamente da sè stesso, e senza nessuna sorta di violenza ». Ma alle evidenti ragioni del Segretario, il quale rilevata l’inesattezza dei fatti intendeva specialmente constatare che in ogni modo violenza ci fu, si trovò costretto ad ammetterla. 390 GIORNALE LIGUSTICO Intanto il governo, volendo dare, per via di rappresaglia, un pubblico segno della sua indignazione, e del fermo proposito di non tollerare si grave offesa alla sua autorità, ordinò che passando dalle porte « qualche ufficiale di primo rango delle Galee fosse trattenuto » a disposizione sua, e che si trattenesse altresì « il biscotto ed altre provigioni per le galee ». L’ ordine venne puntualmente eseguito ; fu prima arrestato un Capitano d’infanteria, poi due altri ufficiali. L’ambasciatore mandò in tutta fretta pel Segretario, e gli disse come sul punto in cui aveva indotto il Duca « a condescendere alle soddisfazioni del Governo » era sopraggiunta la nuova del seguito arresto d’alcuni ufficiali spagnuoli, e perciò il « tutto era rotto e sconvolto « avendo dichiarato il Duca che vedendo come « si volessero fare rappresaglie, anche lui a-vrebbe pensato all’indennità del suo Re ». La cosa prendeva aspetto assai grave ; era dunque d’ uopo maneggiarsi con accortezza, a fine di ottenere Γ intento senza danno. Dettero subito ordine si mettessero « in libertà gli ultimi trattenuti, in modo tale però che nell’atto del rilasso, potessero comprendere essersi preso errore nell’arrestarli »; c il Segretario tornato dall’ ambasciatore debitamente istruito rinnovò le lagnanze per la eseguita violenza, non potendo il governo ammettere per nulla le ragioni esposte dal Duca d’ Uceda per giustificare il suo operato, e fece nuove istanze per la liberazione del prigioniero, siccome unica soddisfazione dell’ offesa ricevuta dalla Repubblica, facendo intendere in un tempo con destrezza, che crasi messo in arresto il Capitano, perchè creduto diretto colpevole dell’attentato, nel che il governo aveva usato del suo diritto. Ma l'ambasciatore « non mancò di esagerare che sempre più si rendeva difficile la terminazione di questa pratica, essendo stati trattenuti altri ufficiali » ; ed annunziò « che nella conferenza che attualmente si faceva in casa del Duca, coll’ intervento del Cardinale Del Giudice et GIORNALE LIGUSTICO 39I altri, stavasi per risolvere una spedizione per espresso al Re, onde ne sarebbe risultato sempre maggiore 1’ impegno, da cui la Repubblica non poteva sperare d’ uscirne con tutta la soddisfazione ». Era questa una minaccia : non si perdette tuttavia d’animo il Segretario, e soggiunto come egli fosse ignaro d’ altri arresti all’ infuori di quello del Capitano, che se erano seguiti poteva dirsi « si fosse preso qualche equivoco », dichiarò che in ogni modo tutto questo non avea da fare con quanto si richiedeva, stando il punto « nel riparo del torto fatto alla Repubblica, e che quando S. M. fosse informata della verità del successo, di cui la Serenissima Repubblica non avria mancato di fargliene penetrare le notizie più sincere e distinte, non temeva punto di ricevere dalla generosa bontà, e rettitudine di S. M. quel riparo che al presente le venia ricusato, e che in ogni caso quando fosse stata costretta soccombere a maggior violenza, sarebbe assai giù-stificata appresso il mondo la sua disgrazia ». Siffatta fermezza produsse il suo buon effetto, perchè, preso argomento dalla liberazione de’ due ufficiali, il Duca rimise la cosa all’arbitrio dell’Ambasciatore, il quale immediatamente richiamato presso di sè il Segretario, « conoscendo la giustizia della domanda, prometteva la liberazione dell’Abbate, come e quando e dove fosse stata comandata, ben sapendo che rispetto alla persona del detto Abbate avrebbe il Governo prese le risoluzioni più adeguate alle sue convenienze, trattandosi di soggetto di spirito torbido, vagabondo e capace di far nascere nuovi disturbi » ; pregava poi « a proprio e privato nome », gli fosse permesso « poter dire al Duca che il capitano fu trattenuto per errore ». Accettato questo componimento, e dati da una parte e dall’altra gli ordini relativi, 1’ Abbate ricondotto al Ponte Reale venne posto in libertà; dopo di che fu prosciolto anche il Capitano, lasciando pure si dicesse al Duca proforma che era stato 392 GIORNALE LIGUSTICO preso per equivoco, come creduto autore principale della violenza. Il nostro uomo, gonfiato per l’avvenuto, se ne ritornò subito con la sua faccia fresca alla locanda del Patrini, dove sapeva che bazzicavano gli ufficiali spagnuoli. Lo videro i forestieri quivi alloggiati, e specialmente lo riconobbe il capitano Camillo Sardi; nò tardarono un istante a dichiarare all’oste, « che se avesse ammesso nella locanda » colui « se ne sariano partiti essi ». Dello sfratto datogli dall’oste, egli se ne rise; anzi nell’ora di pranzo, mentre i forastieri erano a tavola, eccotelo comparire, e veduto fra essi un bolognese suo conoscente, gli si va a sedere accanto. Al Sardi montò la senapa al naso e si volse a lui gridando « non volerlo a tavola, e che dove erano ufficiali di Filippo Quinto » non ci aveva a stare, « perche era una spia »; l’abbate rispose male, e il Sardi stava per tirargli il bicchiere se non fosse stato trattenuto ; ma poco dopo insistendo sempre che se ne andasse, e quegli stando duro in aria canzonatoria, il Sardi gli scaraventò la seggiola che andò malamente a colpire il bolognese suo vicino, il quale avrà mandato a mille diavoli l’amico, gli Spagnuoli, Carlo III e Filippo V: capi allora finalmente F abbate clic era tempo d’andarsene. Cambiò dunque quella sera stessa d’ alloggio recandosi all’ osteria di Santa Marta. Ma era pur necessario presentarsi al magistrato della Consegna per farsi rinnovare la bolletta di permanenza ; vi andò il giorno dopo, e all’ ufficiale clic lo domandava del nome, quasi corbellando rispose « che per avanti ancorché l’avesse dato di Francesco Palmieri, era il suo nome vero Abbate Pietro Maria Tosini di Bologna » sacerdote, ma privo del permesso di celebrare la messa : aggiunse poi che doveva trattenersi a Genova, perchè aspettava « lettere per soccorso di danaro ». E poiché gli veniva osservato che la bolletta rilasciatagli era a breve termine, ed avrebbe perciò GIORNALE LIGUSTICO 393 dovuto presentarsi indi a pochi giorni per la proroga, replicò che non poteva farlo, essendo invitato fuor di città nella villa del Duca di Tursi. Gli Inquisitori di Stato, appieno informati di tutte queste cose, fecero intendere ai Collegi non reputare conveniente si trattenesse nella città e nel dominio il girovago abbate, « non solo a riguardo delle ingerenze, con mutazione di nome, avute » per il passato, « ma in riparo ancora non produca la sua dimora altri inconvenienti, e fors’anco contro la di lui vita ». Fu perciò deliberato lo sfratto; ma non si potè eseguire, perchè T amico aveva preso il volo, nè si sapeva dove fosse. Se non che un bel giorno capitò pur a Genova, e « con molta sfacciataggine ed in atto di poco rispetto » passò imprudentemente dinanzi al palazzo del duca d’ Uceda ; di che questi lagnatosi per mezzo dell’ambasciatore al governo, si fecero le maggiori diligenze per scoprire la sua dimora. E finalmente lo scovarono a Savona, dove da un Padre delle Scuole pie seppero che era già stato frate; dalla sua padrona di casa poi rilevarono come « fosse destituito di ogni cosa, non avendo nè biancheria nè altre robe che quelle vestiva ». Gli fecero fare l’intimazione, e sebbene dichiarasse non saper dove andare « stante non aveva denari », dopo due giorni gli convenne alzare il tacco. A. N. SPIGOLATURE E NOTIZIE Notizie degli Scavi. — Ventimiglia. — Sul finire di marzo ed il principio di aprile, fu scoperta una tomba nella via dei sepolcri in Ventimiglia; e da quella fu staccato un marmo scritto, che l’ispettore professore cav. G. Rossi potè esaminare, e che forse fu destinato per la collezione della signora Cora Kennedy in san Remo. L’iscrizione, che si 394 GIORNALE LIGUSTICO trascrive dal calco cartaceo, dice : POC TAVIVS VRBICVS SIBI ET OCTAVIAE & SYN TYCHENIVXORt SVA E ET · SVIS · V · F Il medesimo ispettore riconobbe pure presso il padrone della trattoria nel sestiere s. Agostino in Ventimiglia, Γ iscrizione scoperta or sono due anni nella pianura di Nervia, nel sito dell’ antica Intemelio, iscrizione che fu edita dal sig. E. Blanc (Supplément à Tèpigraphie des Alpes maritimes p. 19) con la sola omissione della prima lettera del primo verso. La lezione esatta, come desumesi dal calco, è: L ■ SALVIO · L ■ F · ANI CANVLEIO VALERI A· MON TANA · CONIVGI Riferì poi il medesimo ispettore, che nella proprietà Porro, nella stessa contrada di Nervia, oltre ad una grande quantità di anfore vitree e vasi fìttili, è stata ricuperata una grande diota, portante in un manico il bollo PONTICI. Furono parimente trovate due coppe in bronzo, con coperchio fregiato di rami di quercia a bassorilievo; una magnifica testa di coccodrillo, in bronzo; e due sfingi in travertino. Nel Museo Daziano in Bordighera, il predetto prof. Rossi copiò l’epigrafe seguente, della quale mandò anche un calco cartaceo. È incisa su di un bel cippo, scavato nella stessa proprietà Porro, e dice: D M L·ALLIVS LIGVS · SIB ET VALER THALLVSÆ ET · L · ALLIO · AL LI A NO PUS SI Μ O A N XX GIORNALE LIGUSTICO 395 Ameglia. — Rapporto dell’ispettore avv. Paolo Podestà’ — Estraendosi da una cava di pietre il materiale pel restauro d’ un muro, in un terreno appartenente al prof. cav. Agostino Paci nel comune d’Ameglia, si scoperse nell’interstizio della roccia una tomba antica, con uno dei lati minori rivolto a sud-est. Il sig. Bernardo Bologna soprastante a quei lavori, che per fortuna si trovava sul posto, prevedendo l’importanza della scoperta , con saggio accorgimento potè assicurare dai possibili guasti la tomba, e porre in salvo la ricca suppellettile che vi era deposta. Il giorno dopo fui sul luogo ; e valendomi della cortese ospitalità offertami da quell’illustre cultore della scienza che è il prof. Paci, e coll’aiuto del sig. Bologna, ebbi tutta l’opportunità di visitare il luogo del trova-mento, e di esaminare i molti oggetti scoperti. La cassa sepolcrale, di forma quadrilatera, è costruita coi quattro lastroni laterali di uno schisto lamellare bruno, abbondante nella vicina Punta del Corvo, che si presta facilmente alla riduzione ; le altre due che servono da base e da coperchio, di macigno. Le laterali sono lavorate con gran cura, e le due dal lato più ristretto, sono tenute ferme al posto da due incanalature ad incastro, praticate con iscarpello alle due opposte estremità delle lastre maggiori; per cui le minori si devono estrarre dal-1’ alto a guisa di cateratta. Il tutto poi era tenuto ben commesso da appositi cunei di pietra, collocati a forza tra la roccia e le lastre della cassa. Al di sopra stava un terrapieno di circa un metro. Devesi certamente all’ottima qualità del materiale ed alla accurata esecuzione del lavoro, la incolumità della tomba, che internamente è lunga m. 5,56, larga m. 0,4.0, profonda m. 0,35. Nell’interno si rinvennero quattro ossuari intatti, le cui ciotole-coperchio eterno collocate col piede che entrava nell’orificio del vaso; e nell’interno degli ossuari, unitamente alle ossa combuste, erano: piccola oeno-choe verniciata in nero di forma greca; un unguentario di smalto egizio; molti oggetti d’ ornamento in argento, bronzo e vetro, dei quali darò la descrizione. Gli ossuari erano sepolti in una terra uliginosa, frammista a carboni, che credetti cenere del rogo ; e tutto intorno quattro lancie di ferro coi relativi spuntoni; due spade spezzate coi foderi in frammenti; due strigili, ed altri oggetti irriconoscibili ed incompleti in ferro e bronzo. Successivamente nella poca cenere del rogo che raccolsi, rinvenni un anello d’oro leggermente danneggiato dal fuoco ; l’altra cenere disgraziatamente fu dispersa. Degli ossuari, i due minori a forma la più comune di dolio in creta rossa ordinaria, lavorati al tornio, l’uno misura in altezza m. 0,17, ha 396 GIORNALE LIGUSTICO la massima circonferenza di ni. 0,58, il diametro del piede di m. 0,08, della bocca con labbro sporgente di m. 0,10; l’altro è alto ni. 0,12, ed ha la massima circonferenza di m. 0,38. Le due ciotole coperchio sono esse pure lavorate al tornio, ma più accuratamente; e sono inverniciate in nero, 1’una a forma conica come quella di Cenisola, alta ni. 0,08, col diametro della bocca di m. 0,14; l’altra più schiacciata a. forma di piattello. Due sono più grandi, il primo di forma quasi sferica con piede breve, senza collo e labbro e piccolissimo orifizio , è fatto alla ruota con creta gialla, levigata colla stecca; ed è alto m. 0,20, ed ha la massima circonferenza di m. 0,88. L’ altro, cilindrico, leggermente allargato sotto il labbro, il quale sta sulla bocca a guisa di cerchio inclinato al di fuori; è pari-menti lavorato al tornio con creta rossa finissima, e colorata d’ un rosso più cupo a zone e fascie di listelli. Il primo fittile non ha esempi nei precedenti scavi del nostro territorio; del secondo abbiamo avuto un bell’esemplare dal sepolcreto di Cenisola. Quest’ultimo vaso, a quanto mi si assicurò, non aveva alcun coperchio. L’altro teneva col piede infisso nell’ orifizio, una grande patera a forma leggermente convessa , decorata con quattro palmette disposte a circolo nella parte centrale , fatte collo stampo. È lavorato al tornio, con creta fina verniciata in nero;, è alto m. 0,08, ed ha il diametro di m. 0,25. Nel vuoto interno del piede fu graffita, dopo la cottura, una leggenda in caratteri grossolani. Nell’ ossuario più grande stava sopra le ceneri un vasellino in creta fina verniciato in nero, contenente esso pure ossa combuste; alto circa m. 0,07 con collo stretto, labbro sporgente, ed un’ansa, che dal ventre va ad attaccarsi alla sommità del labbro , e con la bocca chiusa da un coperchio fatto a cono rovesciato nella parte interna, e sferico nella esterna , contornata con eleganza da una corona di tondini rilevati. Nel-l’altro ossuario a forma cilindrica, era un balsamario di vetro, alto m. 0,025 ;on base a punta, e con ornati a smalto verde su fondo bianco. Era in frammenti, ma fu quasi tutto ricomposto. Nei quattro ossuari erano poi ripartiti i diversi oggetti d’ ornamento , che qui descrivo. Argento — Due fibule intiere a doppio e lungo vermiglione, posto trasversalmente sull’arco della fibula, conformi a quelle rinvenute in Cenisola; l’una è del peso di grammi 45, l’altra di gr. 17. Frammenti di altre tre fibule d’una forma, che a quanto sappia, non avrebbe riscontro. Consisterebbe in un emisfero concavo convesso, del diametro presunto di GIORNALE LIGUSTICO 397 m. 0,065, dal cu’ centro concavo si distacca l’ardiglione a doppio vermiglione; e dall’opposto centro convesso, l’arco, il quale è formato da una lamina dello stesso metallo della larghezza di circa mill. 5, che si rivolge in vario senso a guisa di nastro , certamente non per sola eleganza ma anche per dare elasticità all’arco; va in basso a formare un cartoccio, in cui s’innesta l’ardiglione, e finisce in un bottone che ha sopra un collarino come nella fibula di Cenisola. Due armille a duegrossi fili contorti, terminate alle estremità da bottoncini. Frammenti d’altre due ar-niille a filo più sottile. Tre anelli: Uno dei quali liscio, di forma comune, con grosso castone, in cui è una pasta vitrea (?) di colore opalino; pesa grammi 7. Altro anello a spirale, del peso di grammi 8, diviso in tante coste separate da altrettante sinuosità ; va assottigliandosi a forma di serpe dalla testa alla coda; la parte della testa è mancante. Altro a spira regolare di filo dello spessore di mill. 3, ornato da tre solchi alle estremità; è del peso di gr. 7. Altri tre spirali in filone più sottile, frammentati.* Bronco — Un anello spirale a grandi coste , con bella patina verde ; pochi frammenti di anelli, ed altri pezzetti irriconoscibili. Vetro — Cinque globetti dì una collana in vetro bianco opalino : due a forma di ovolo, sono attraversati in tutta la loro lunghezza da un foro sottile per passarvi il filo. Due pendagli, che si direbbero in forma di delfini, con testa voluminosa, labbro sporgente e coda rovesciata, forati nella parte più larga della testa. Altro pendaglio a forma di cuore. Furon tutti ritrovati in un solo ossuario, e dovevano far parte d’un monile. Anni — Quattro cuspidi di lancia in ferro ossidate, con bossolo, della lunghezza complessiva di m. 0,58. Sono provveduti d’una grossa costa mediana, ed hanno le punte molto assottigliate, contorte e ribattute sul corpo della lama, affinchè potessero entrare nella cassa sepolcrale. Con queste sono i rispettivi spuntoni pure in ferro, lunghi, compreso il bossolo, m. 0,32. Due spade con grossa costa mediana, di lama materiale e robusta, lunga m. 0,50, larga m. 0,055; 1’una senza codolo , con punta tondeggiante spezzata in due frammenti; 1’ altra col codolo lungo cent. 10, mancante della punta, rotta in cinque pezzi. Colle spade erano i residui dei foderi, in alcuni dei quali si vede la ripiegatura nel margine, con cui erano congiunte all’ interno le due lamine. Un pugnale in ferro con co-dolo e punta acuminata , e con lama lunga m. 0,20. In una cuspide dì lancia , alla metà della lama, era infisso 1’ emisfero di una delle fibule sopra descritte, posto colla faccia concava verso il riguardante. E per ciò fare, fu troncato 1’ ardiglione al disotto del vermiglione spirale , che an- GIORNALE LIGUSTICO cora rimane al posto; contorta a modo di gancio una parte della lamina, che formava F arco dal lato convesso, ed infitto in corrispondente bossolo appositamente disposto nella cuspide. Completano la copiosa e ricca suppellettile due strigili, lunghe cent. 40, e frammenti d’argento, bronzo e ferro, tra i quali veggonsi i resti di un morso da cavallo. Come ho già detto, nella poca cenere del rogo non dispersa, si rinvenne un anello d’ oro massiccio , del peso di granimi 6 , con largo castone che porta un’ incisione guasta dal fuoco. Non è la prima volta, che simili scoperte son fatte in Ameglia. Come già ebbi in altro tempo occasione di ricordare, circa trenta anni addietro in questo stesso luogo, si misero in luce casualmente parecchi sepolcri corrispondenti a questo descritto, ma nuli’ altro ne restò che la memoria. Mi vien però riferito che oltre al vasellame , si trovarono in copia glo-betti d’ ambra, qualche lamina d’ oro e molte anni. E non solo in questa località, ma in altre ancora tutte intorno alla borgata per qualche chilometro, si scopersero tombe, delle quali si conserva nel luogo qualche vaso ed alcuni frammenti di lamina d’ oro. Si avrebbe dunque un centro abitato anche a’ tempi da noi molto discosti , ed intorno ad esso una necropoli, sulla quale importa rivolgere accurate cure. Nei sepolcri di Cenisola, Monterosso, Vernazza, Viara e Barbarasco , le casse sepolcrali erano nel mezzo a cumuli di ciottoli; le lancie più piccole (la maggiore di cent. 45 e lo spuntone di cent. 12) ; le spade di lama più sottile, a punta acuminata (la maggiore lunga cent. 64, larga mill. 50), e gli ossuari accompagnati da uno o più vasetti accessori, e non sepolti nella cenere del rogo. Ad Ameglia invece , in questa tomba si trovano nella cassa ceneri e carboni ; le lancie coi relativi spuntoni assai più grandi; le spade più corte, più larghe, più forti; e mentre vi si scorge una straordinaria dovizia in oro, argento e vetro, nessun vaso accessorio sta a rammentare 1’ antico rito ligure. È ben vero che Ameglia posta nell’estremo limite della Liguria, presso la foce del Magra, poco discosta da Luni, e forse solo separata da questa città dal fiume, doveva avere continui e diretti rapporti con quel centro maggiore; per la qual cosa è facile il riconoscere, che poste le costumanze liguri al frequente contatto della più seducente civiltà vicina, potevano in breve modificarsi. Se non che male si giungerebbe a conclusioni esatte, collo studio di una sola tomba, e quindi voglio chiudere queste mie note augurandomi, GIORNALE LIGUSTICO 399 che presto possa essere intrapreso uno scavo sistematico, da cui molto si possa guadagnare per la topografia e per la storia (Atti dell’ Accademia dei Lincei). * * * Il cav. Ignazio Giorgi nel render conto di alcuni codici Sessoriani ricuperati dalla R. Biblioteca Vittorio Emanuele nota un grosso volume cartaceo (cod. 413), scritto negli ultimi anni del sec. XV, nel quale, fra le altre cose, si legge una versione italiana, ed ei crede aifatto sconosciuta, della lettera scritta da Cristoforo Colombo a Luis de Santangel (Appendice al Bollettino ufficiale del M. della P. I. per il dicembre iS8j·, pag. 1295). * * Nella Gaietta Letteraria (Torino, 1886, n. 28) Lucius in uu articolo intitolato : La vera patria di Giovanni Caboto riassume quanto è stato scritto intorno all’ argomento, specialmente riferendosi al libro dell’ Harrisse, del quale accetta le conclusioni, nel ritenere genovese quel viaggiatore. Nello stesso giornale (n. 33) col titolo: Uomo scampato dal terremoto di Lisbona, é pubblicata la relazione di Ferdinando Aniceto Viganego console genovese in quella città, mandata al governo 18 giorni dopo il fatto. * * * Nella The English historical Revieiu (1886 , n. 2) Miss Hamelton pubblica una monografia sopra il Re Teodoro in Corsica, giovandosi di un Giornale scritto da Sebastiano Costa, che fu gran cancelliere di quell’ avventuriero. * * * Nella Gaietta Numismatica (Como, n. 4-5, 1886) si ripubblica una Lettera di Gerolamo Rossi a Domenico Promis intorno al Principato di Seborca e la sua ^ecca< * * * Nel fascicolo 61 dell 'Archivio Veneto (pag. i 69—78), si trova un articolo di Vincenzo Bellemo : I Clodiensi alla battaglia del Bosforo (13 febbraio ISS2)· La narrazione, lo avverte anche l’Autore, è condotta su fonti note ; ma vi aggiungono importanti particolari due documenti sincroni che le fanno seguito. Il primo « ci accerta che tutta la notte e le prime ore del mattino seguente durò continuato il combattimento, almeno in gruppi particolari ; ciò che fa credere che !e flotte non riposassero durante la notte nel porto di Istenia, come generalmente si crede ». Fideles nostri de Clugia , dice 1’ atto , qui fuerunt super duabus galeis quarum 400 GIORNALE LIGUSTICO fuerunt supracomiti Nicolaus Fuscari de Clugia maiori et Christofalus de Lea de Clugia minori... reperientes se cum aliis tribus galeis... ab liora qua incepit prelium per totam noctem usque ad horam terciam diei sequentis expugnate fuerunt a XIIII galeis ianuensium, que nuinquam relinquerunt eas. Sfiduciati poi i combattenti per la notizia, che 1’ammiaglio Pisani si era ritirato a Terapiaj pensarono a scampare da’ nemici, « e forse spinsero le navi a frangersi contro terra ». Questa almeno é F interpretazione che il Bellemo dà al secondo documento, laddove gli uomini di Chioggia, espongono alla Signoria Veneta che in guerra Janue perdiderunt in uno puncto duas galeas; a perchè, soggiunge, non saprei come fossero sfuggiti alla prigionia, se le galee fossero state prese ». BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO Rime e lettere inedite di Galeotto del Carretto e lettere di Isabella d’Este Gonzaga a cura di Giovanni Girelli, Torino, Bona 18S6; in 8. di pp. 59. Consistono le poesie in una canzone querula tratta da un cod. della Bibblioteca Reale di Torino, e tre sonetti esemplati sopra due mss. l’uno esistente nella Biblioteca Nazionale di Parigi, Faltro nella Nazionale di Firenze. È il primo in lode di Ludovico il Moro, e contro i suoi detrattori, gli altri due d’argomento amoroso. Le lettere sono undici e vanno dal 1495 al 1517; sei appartengono a Galeotto, e cinque ad Isabella. Fanno parte della corrispondenza che il poeta ebbe con i Gonzaga, e sono utile contributo alla sua biografìa. Ma 1’ editore che ha preso a studiare da assai tempo la vita e le opere di questo quattrocentista, non si è contentato di mandar fuori gli accennati scritti, e vi ha premesso una erudita prefazione nella quale, quantunque brevemente, si fa a disco-rere delle relazioni avute da Galeotto con quella insigne famiglia. Egli ha dato titolo di appunti a questo suo lavoro , dal quale ben si rileva quali e quante diligenti ricerche abbia fatto per illustrare il suo soggetto, e come abbia piena conoscenza della materia non certamente scarsa nè di poca importanza; onde é da sperare che la sua monografìa, la quale ci annunzia prossima ad essere compiuta, riuscirà in tutto degna dell argomento, e procacciando giusta lode all’ autore, verrà a porsi in novero con le importanti pubblicazioni cosi felicemente iniziate dalla scuola di Magistero dell’Ateneo Torinese. Pasquale Fazio Responsabile. GIORNALE LIGUSTICO 4OI LE QUERELE DI GENOVA A GIAN GALEAZZO VISCONTI Milano, 22 Giugno 1886. Mio carissimo amico (i), Eccoti, secondo che te ne avevo data promessa, il curioso Sogno, che viene ad arricchire il numero dei componimenti letterari, illustranti le relazioni fra Genova ed i Duchi di Milano, che con tanto garbo tu hai fatto conoscere cd apprezzare nel tuo studio sopra talune Poesie Storiche Genovesi (2). Il documento che ora ti invio è, per quanto mi è noto, ine-dito (3), e si conserva in un solo ms. ; quell5importante zibaldone umanistico dell’ Ambrosiana , che è il cod. C. 141 inf., dal quale parecchie cose ho già tratte, ed altre caverò in seguito (4). Il manoscritto non ci dà alcuna contezza nè sul-Γ autore del Sogno, nè sul tempo in cui questo fu composto, nè sulla persona che vi recita la parte di protagonista, il Signore di Milane, dal quale Genova chiede pace e salute; ma è assai facile supplire, in parte almeno, al silenzio del copista quando si richiamino alla mente i fatti, dei quali questa città fu teatro negli ultimi anni del sec. XIV. (1) Lettera ad A. Neri. (2) Poesie Storiche Genovesi in Atti della Società Ligure di Storia Patria, vol. XIII, fase. I. (3) Lo ha però conosciuto il Magenta, il quale ne ha pubblicato di su una copia, che esiste nella Biblioteca Universitaria di Pavia, un breve frammento relativo al Castello di quella città. Ved. I Visconti e gli Sforma nel Castello di Pavia (Milano, 18S3), t. I, p. 214. (4) Cfr. Giorn. Stor. della Lett. Ita!., voi. VII, p. 234. Giorv. Ligustico. Anno XIII. z6 402 GIORNALE LIGUSTICO Già da più lustri le discordie intestine laceravano Genova, ma esse non erano mai arrivate forse a quel grado di intensità, al quale pervennero sotto il dominio di Antoniotto Adorno. Costui, ritornato con la frode al seggio donde era stato sbalzato, sosteneva nel 1396 una guerra senza tregua contro i due dogi deposti, Antonio di Montaldo ed Antonio di Guarco, e la città andava ogni giorno a tumulto, mentre i castelli ed i borghi si ribellavano all’ autorità sua. L’anarchia ed il disordine erano giunti quindi a tal segno , che l’Adorno stesso trovò necessario porvi un freno, ed accolse il pensiero di sottomettere la città a qualche principe potente, il quale, con 1’ autorità sua assopite le gare civili , vi riconducesse la calma. A questo patronato, non appena il disegno dell’Adorno fu conosciuto, sembra aspirassero molti; fra gli altri il maggiore dei principi italiani del tempo, Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano (1). Aveva egli, il Visconti, segretamente attizzati gli odi cittadini per servirsene onde più agevolmente conseguire il bramato dominio della opulenta repubblica? Degli scrittori contemporanei alcuni lo lasciano intendere (2); i posteriori lo affermano apertamente (3). E la cosa non può che parere a noi pure molto probabile; simili mezzi erano troppo frequentemente messi in opera dall’ambizioso Signor di Milano, perchè ci faccia meraviglia vederli qui pure adoperati. Comunque sia di ciò, egli ò certo che all'acquisto di Genova il Visconti teneva moltissimo, poiché a trattarlo vi mandò in forma solenne due ambasciatori. Come i fatti non rispondessero alle sue speranze, ma le segrete inclinazioni del Doge (1) Ved G. Stellae, Ann. Gerì, in Rer. II. Script., t. XVII, c. 1148 e sesg. E cfr. Muratori, Ann. d'It., t. Vili (Milano, 1744) P· 462. (2) Stella, op. cit. c. 1147, G. (3) Muratori, op. cit. loc. cit. GIORNALE LIGUSTICO 403 incessero piegare la bilancia in favore del Re di Francia, è troppo noto perchè mi dilunghi adesso a narrarlo. Vale invece la pena che io mi arresti un istante a richiamare la tua attenzione, mio caro amico, e quella dei lettori, sulla importanza della scrittura che ora vede la luce. Per verità questa importanza parrà a tutta prima assai tenue. Che altro è infatti questo Sogno, se non mera esercitazione retorica di un cortigiano del Visconti , il quale piegava la sua curiale eloquenza a solleticare le mire ambiziose del suo padrone ? Eppure, se noi ci rifletteremo alquanto, questo giudizio ci parrà inesatto, e lo scritto cesserà di sembrarci un puro componimento letterario per apparirci invece quale è : un documento politico non privo di valore. Esso infatti ci si offre prova novella di un fatto che non so se sia stato abbastanza rilevato sin qui : intendo parlare della parte, che, primo forse fra i signori italiani, Gian Galeazzo Visconti ha fatto alla letteratura nel vasto arsenale dei suoi strumenti di governo. Niuno infatti prima di lui che io sappia, ha chiamato sempre in proprio aiuto, oltre che la spada, la penna, e si è fatto costantemente, non per ubbidire al bisogno imperioso del momento, ma per assecondare un piano nettamente premeditato, un’ arma delle sottigliezze dei cancellieri, degli impeti dei poeti, delle eleganze dei grammatici. Le lettere che sono uscite dalla cancelleria viscontea possono dirsi capolavori di eloquenza insidiosa e dissimulatrice; contro l’imperatore, come contro il Pontefice, contro i Signori di Padova, di Verona, come contro Firenze, il Duca ha combattuto sempre non solo con le armi, ma con gli scritti; e, mentre le sue truppe invadevano il territorio dei nemici, i suoi segretari ne laceravano in eleganti epistole ed in ciceroniani libelli il nome e la fama. I sonetti e le invettive contro Firenze, ad esempio, che si leggono quasi in ogni codice del tempo, sono 404 GIORNALE LIGUSTICO usciti dalla curia viscontea (i); e Firenze, che si vide paragonata a Cleopatra, a Semiramide, a Jezabele, ebbe d’uopo di tutta la sdegnosa eloquenza dei suoi alunni per rendere pan per focaccia al tiranno lombardo, e ricambiargli i biblici vituperi e le mitologiche insolenze (2). Anche questo nostro Sogno adunque va considerato come un documento, più che letterario, politico; esso pure ha uno scopo assai più pratico di quello che a prima vista appaia; è stato dettato per preparare il terreno, per dimostrare a chi fosse tardo o riluttante a convincersene come nella sottomissione di Genova al Visconti tutti i van-tagggi fossero per quella, i danni, o per lo meno gli. incomodi, per questo. Nè l’astuto cortigiano si è appagato di ciò; ma, dipingendo un quadro tristissimo, sebbene non esagerato (3), delle condizioni della città, e dimostrando quanta necessità vi fosse di darle stabile assetto, non ha mancato di far chiaro come a tanto non potesse provvedere se non il suo Signore, screditando, sebbene in modo copertissimo e 111 mezzo agli elogi più smaccati, gli altri sovrani, ai quali si poteva ricorrere, l’imperatore, il re di Francia. Ma, dove fi) Cfr. Mehus, Vita Ambr. Trav., p. CCCXII ; Moreni, Invectiva L. Cohicii Salutati in Aut. Luscbum Vicentinum, etc. " ,2j i)c| due sonetti, che coni.: 0 scaccialo dal citi da Michael, e O Cleopatra madre d’Ismael, il primo diretto contro il duca di Milano, il secondo cóntro Firenze, io ho notizia da un centinaio di copie ; c credo che son lungi dal conoscere tutte quelle che ne rimangono. (i) Lo Stella, per carità di figlio, dissimula negli Annali la gravità delle condizioni in cui versava la sua patria ; ma quanta e quale fosse svelano altri scrittori del tempo, che niuna peculiare ragione astringeva al silenzio. Il Manzini cosi in que’ suoi ricordi editi dal Mansi (Baluze, Misceli I'", 126 e segg.) afferma che tot inter se cives et nobiles gladio ber ierunt, tot edes in urbe et extra urbcm et palacia sunt incensa , quod incredibili ac ineffabile dictu esset. Ed il Sercambi nelle sue inedite Cronache di Lucca rincara la dose consacrando un capitolo a narrare coinè tra i guelfi e ghibellini di genoua e del contado fut smisurata giuria e uccisione tralloro ardendo le uille e taglando le uingne (Arch. di Stato in Lucca, Cod. orig., (· 166). GIORNALE LIGUSTICO 405 Γ accorgimento dello scrittore vie meglio si manifesta è nella conclusione, dalla quale, se si può bensì arguire che il Visconti non avrebbe rifiutato di accordare la sua protezione così umilmente ed ansiosamente sollecitata, non lo si ricava però con sicurezza. Troppo esperto dei politici maneggi l’autore, che noi potremmo identificare con qualcuno dei segretari del Visconti, l’Arisi, il Marini, se non il Loschi, sa che è un recar danno alla propria causa il mostrare di desiderar soverchiamente quello che viene offerto. Con sagace prudenza egli lascia quindi senza risposta le preghiere di Genova; e che tale prudenza non fosse troppa si incaricarono di provarlo i fatti. E qui io avrei finito, se non mi paresse opportuno far seguire alla breve dichiarazione di questo scritto, che ci dà modo di conoscere, meglio di quello che concedano gli accenni fin qui noti degli storici, le vive speranze che il Conte di Virtù aveva nudrite di unire ai suoi domini anche Genova, la notizia di un altro documento letterario, che ci richiama alla effettuazione di queste speranze per opera di un figlio ed erede del gran Giovanni Galeazzo. E questo un breve frammento di componimento poetico , forse Γ ultima strofa di una canzone, da me rinvenuto in altro codice Ambrosiano (1). nel quale vediamo Genova personificata richiedere la protezione del Duca Filippo , come , scorso quasi mezzo secolo, la torneremo a vedere, nel Lamento da te messo (1) È quello segn. L. 101 sup., che contiene il Canzoniere del Petrarca, scritto, come è alla fine notato, per me Iohannem de Paralo civem Mediolani ac coadiulorem officii Bullettarum Civitatis predicte anno dovimi nostri Jesu Cliristi millesimo quadringentesimo vigesimo nono, die Salati vigesimo secundo mensis Octobris hora decima septima cum dimedia (sic) octava indictione. I primi sei fogli comprendono la tavola del Canzoniere, la quale termina col sesto, lasciando bianchi i due terzi della facciata. È di questo spazio vuoto che il de Parazo si approfittò per trascrivere il Lamento di Genova. 4o6 GIORNALE LIGUSTICO in luce, implorare quella del suo successore Francesco Sforza (i) : Mouiti ormai, o desiato sposo, Più non m’indusiar la tua venuta , Muouiti, aiuta, aiuta, Che già chiamando te sum facta fiocha. Muouiti ormai, ch’io ti fo glorioso, Se fai eh’ io sia da te riconosciuta , E per te ricevuta Col pacifico bascio de la bocha. Io sum colei chi de raxon ti tocha , Che sotto ’l pasturai del buon giouanni Lieta vissi molti anni. Tu dunque che ’l subcede per tuo honore Di ciò se’ debitore; Genoua sum chi chiama (2) notte e dia : Da cha Visconte o Philipo Maria ! Anche qui parecchie considerazioni troverebbero luogo ; ma io ho già parlato abbastanza, e mi arresto tanto più vo- (1) La rassomiglianza fra i due componimenti ù resa anche più evidente dai richiami alla passata signoria dei Visconti. Come nel Lamento del 1421 Genova rammenta a Filippo Maria eh’essa sessant’anni innanzi si era data all’arcivescovo Giovanni Visconti, cosi in quello del 1464 ricorda allo Sforza che ella ha ragione di confidar in lui, Quale altra volta sposa Fu dii Philippo suo prccedessorc. Oltre che per il contenuto v’è rapporto di somiglianza fra le due poesie anche nella forma. Come nella nostra Genova esclama, rivolta a Filippo : Più non m' indusiar la tua venuta Muouiti, aiuta, aiuta; cosi la udiamo dire a Francesco più tardi : Zomo et note , aimé tapinclia, Crido et chiamo , o novello sposo , O Signore glorioso, Pii non indettar la tua venuta. Manin hormat, aiuta , aiuta La vidueta ...... La identità di questi versi c forse accidentale ; certo, curiosa lo resta ad ogni modo. (2) Il cod. chiamando. GIORNALE LIGUSTICO 407 lentieri, in quanto che tu, meglio assai di quello che io potrei , avrai campo di illustrare codesto aneddoto in quel lavoro che mi auguro (e nell'’ augurio molti si associano) di veder presto compiuto, dove tutti i componimenti, vuoi popolari vuoi letterari, riguardanti la Liguria rinverranno una piena ed efficace dichiarazione. Intanto continua a voler bene all’ affezionatissimo tuo F. Novati. [ANONYMI SOMNIUM Q.UO JANUENSIS URBIS QUERELAE ENARRANTUR] (l). Quamquam eorum, que mortalium mentes, dum vigilant, cernunt, considerant, paucscum aut exoptant, alique plerumque in sompnis representen-tur ymagines et iuxta omnium prudentum dogmata soporatarum mentium visiones, uti omni misterio vacue et illusiones inanes abitiende sint et ad nulla futurorum sint presagia protrahende ; attamen, quia cuiusdam mee somniate visionis pars maxima est in iam partis vera , et restantem portionem summe affitior adimpleri, non silebo, illius interpretationem veram-que significationem sanctissimo omnipotentis Dei viro Danieli prophete tota deuotione mentis totoque affectu cordis submittens. Transierat namque sexte ferie lux, qua parturientis virginis jeiunia deuota persol-ucrarn, sequentisque noctis maxima pars iam erat exhausta, ut frequentantibus galliciniis (2) rutilantis aurore iam enitescerent aurei fulgores ; ecce raptus (3) sum in spiritu usque ad olim regiam ticinensem ciuitatem, que hodie Papia titulatur, et ingressus sum illud mirandissimum spetiosi-tate, sumptuositate, et tutela inexpugnabile castrum, in quo residentiam facit illustris princeps Mediolanensis dux ; et ductus per multa menia et amplissimas aulas, quorum spetiositatem, structuram et iocunditatem per- (1) Riproduco il componimento secondo la lettera del cod. Ambros. C. 141 inf. (f. 24 r — 17 /), limitandomi ad espungere, confinandoli a piè di pagina, gli sfarfalloni più grossi dell’a-m.mucnsc. (2) Galieinis. (3) Qui incomincia il brano riferito dal Magenta (o. c. p. 214). 4oS GIORNALE LIGUSTICO transeo, quoniam in exprimendo deficerem (i), tandem applicui ad locum, nec latitudine nimia spatiosum aut nimia arctum angustia, sed honestissima spetiositate (2) finitum et aeris debita orientalis immissione coruscantem. Ac parietum structura nec formositate neque hystoria luxuriabatur inani, nec etiam in materiali primeua simplicitate relicta ($;; verum virtutum ymagines :n actu honestissimo et mistico insignite, se ibidem taliter ostentabant ut, tamquam vita fruentes, cunctos astantes profundis eloquiis (4) et ponderatis gestis virtutum regulis et preceptis pronos facere viderentur et attentius provocarent. Ibidem namque excelso sedebat in trono mediolanensis dux, princeps utique in presenti euo sublimis. In ipsum enim natura conata est quicquid potuit ; cum corporis magnifica quantitate ceteros presentis eui principes longe precellat, neque difornjis sit eius corporis altitudo, sed membra grossitie et congrua mensura sint sub propor-tionalitatis regula copulata. Mirabilis est equidem inter modernos principes tanta statura. Cesarea insuper et imperialis faties, luminibus imperiosis in illo prefulgens , improbos timidos facit, virtuosos autem attrahit (5) et ardentissimam in pusillanimes (6) magnanimitatis flammam infundit. Mei et fauum sub lingua eius et labia eius aperuit dominus et opere et sermone potentem fecit illum. Sapientia eius inperscrutabilis et astutie eius abissus. Magna iustitia eius super populos suos acceptum illum facit coram domino et temperantia illius atque luxus omnis mirabilis abstinentia regnum suum confirmant apud dominum. Hunc equidem tantum ducem magnificohim procerum et spectabilium militum ac eminentissimorum prudentum comitabatur excelsum consilium. Cumque super magnificis casibus satis prolixe consultum tuisset inter tantos, eccc secretarii illius pulsate sunt fores et per hostiarios ducis facta de pulsante noticia ad eiusdem mandata patuit introitus. Et statini ingressa est mulier quedam reuerendissimi et eminentis aspectus, lugubribus amicta vestibus et illam mulierum nigrorum amictuum corus sequebatur amplissimus. Illa equidem annosa valde cius fatie videbatur; ceteras tamen pollenti (7) statura et ostentatione ma gnifica superabat. Que cum ingressa fuisset, ter reuerentissime poplite ilexo. (1) Drfftcrrcm, (2) Sptciotilatc. (3) Qui termina il brano edito dal Μαοεπά. (4) Elhqmijt. (5) .4trahit. (6) In in patillanimts. (7) Polenti. GIORNALE LIGUSTICO 409 se principi prefato inclinauit humillime ; similiter et chorus ille. Quibus dux predictus assurgens, dextra illi reuerendissime mulieri cum regia honestate porrecta, in eodem solio discumbere fecit eandem et in circumstantibus inferioribus sedibus sequentes illam mulieres. Et deinde eadem se totam duci inclinans, luminibus humi depressis et Tubescente fatie, tremula voce sic exorta est: Salue, illustrissime dux mediolanensis urbis, Comes Virtuturn, Longobardorum tranquillitas, Italicorum (1) spes, omnipotens deus per sui clementiam (2) preces vestras clementer exaudiat, propositum vestrum sanctum in sua sinceritate et pacificum regnum vestrum incepta tranquillitate per tempora longiora conservet. Ut igitur vestra ducalis celsitudo que nos et accessus nostri causam colligat euidenter, ecce ego januensis urbis (3) sum ymago lacera et he sunt occisorum virorum flebiles relicte. Postquam namque dicta nunc infausta januensis urbs a suo fundatore fuit primo lapide feliciter instituta, mirandissime quippe floruit, ciuibus eius magnificis et ad lucra solertibus, in breui coaluit uehe-menter, et, rei sue publice paulatime fiscalibus erario repleto pecuniis, terra marique plurima propulsata sunt bella adeo magnifice et strenue, ut urbes et loca plurima circumstantia , insulas maritimas, populos exteros , variasque nationes, potentatui baculoque suo imperiose subiecit et felicis , sui syderis infusione mirabili imperiosos suggerente successus, adeo urbis illius exuberauit imperium, ut vera esset et a cunctis mundi janua diceretur. Ibidem virorum fecunditas audatium valde, maritimo bello potissime, magnifica navigiorum bellicosorum et mercionalium (4) potestas , opum immensitas, concursus gentium ineffabilis , portus tutus, eiusdem quoque ciuitatis gloria immensa facta erat. Intus enim et extra altissima palatia magni sumptus, maximi decoris ; pomeria virentia, alacritatem conferentia infinitam, suppellex (5) argentea pomposa, vestium et ornamentorum luxus. Hac siquidem quiete tanta gaudentem urbem non unquam tetigere bella, sed ciuilis concordia et ad patrie augumentum tenax unanimitas victores eos fecit et de inimicis suis memorandos reportare triumphos. Hec plurima nempe testantur spolia: ferree quippe Venetorum cathene, navigiorum catelanorum rostra , Pisanorum strages. Sed, proh dolor, tanta natantes pinguedine ciues, eximioqne superhabundantes luxu. 0) Ytalicorum, (2) Misericordiam espunto. (5) UrU. (4) Mcrcionialium. ($) Suppeitx. 410 GIORNALE LIGUSTICO ceci facti sunt, ut summi tonantis immemores, superbia elati, liuore pre-gnantes, consortium impatientes, cessantibus exteris inimicis, ciuiles in se verterunt dextras: heu, heu, quanta strages! lacent altissima menia igne succensa, aut violenta ruina (i) depressa , vinee et oliveta tam sapidorum liquorum , aut metu inculta iacent, aut ferro et depopulatione lacrimabili prostrata tabescunt, et, quod lacrimabilius est et inreparabile penitus, letalibus vulneribus multa iacent corpora, lugent orbati filioli, contristantur germani, flent incessanter mestissime coniuges; colores vestium virentes in nigros et mortuosos translati sunt in occisorum (2) testimonium flebile. Huius siquidem tante cladis primitiuam fama est fuisse scintillam (3) duorum ciuium letalis liuor, quos libido dominandi tanta captauerat quod, ut improba vota sua totaliter implerentur, passi sunt misceri rempublicam et ciuiles discordias incitarunt. O male concordes nimiaque cupidine ceci ! Quid miscere iuuat mundum (4), orbem tenere in medio? Hinc enim infernales diaboliceque secte, infaustis Guelforum et Gibellinorum distincte vocabulis, que longa per tempora commote non fuerant, pestiferis inflammate liuoribus, ardentissimas pariere flammas, ut huiusmodi parcialitatum ardore universorum et ciuium (5) sint corda succensa. Vota quippe ciuium ad varios referuntur ; alii Adornensem, alii Montaldum exoptant : alii Fli-schos, alii Grimaldos magnates secuntur et aliqui Spinolorum et Aurien-sium potentiam inuocant. Ille urbem sub ducis titulo tirannice intendit (6): alius gauiense oppidum notabile prefate reipublice sibi usurpauit indebite (7). Quid dicam de castro Monaci? Sed certe illud regulat qui urbem ducit, licet sub proprio titulo sibi illud ascribat (8). Quid grandius Saonensis? Urbs antiquum deseruit cultum; bono tamen et fido sequestro commissa est (9). Portus autem Veneris pleraque oppida alia urbi aut ducenta aduersa sunt. Verum bene sperandum est in illo qui rubeo tegitur clipeo , quod iusti-tie presul maximus preiatam rempublicam suis viribus non fraudabit et (1) Ruyna. (2) 0 ci osorum. (3) Sintillam. (4) Mondum e cosi sempre. (5) Omnium. (6) Intendi Antoniotto Adorno. (?) Allude ad Antonio di Montaldo, che si era impadronito di quel castello nel maggio del 1394. Cfr. Stella, Ann., c. 1143-44. (8) Per le vicende di Monaco, uturpato nel 1395, da Giovanni e Lodovico Grimaldi, ved. Stella, op. cit., c. 1147. (9) Savona si era data al Duca d’Orléans ; cfr. Stella, op. cit. c. 1150. GIORNALE LIGUSTICO 4II reintegratis omnibus totalitari sue membra reddet (1) sine mora. Liquet igitur qualis sit urbis prefate miserandus casus; que enim, eleuata ceruice, solita erat domitare superbos et nomina sua extendere in fines orbis, nunc humiliata sub uno prosternitur, queque mercium copiis alios implere consueuerat, in presentiarum ab aliis indigens pudibunde mercatur. Mercatorum appulsus (2) desinit, sed armatorum strepitus insurrexit; pro sonetis non est locus tibicine et tympana vindicant sibi bellicosum strepitum. Ad galeas, ad merces, navesque grandes ad remota viatica destinandas, non conueniunt sotii, sed obsidionibus, gentium coaceruationibus, insidiis, litteris, breuiis et nuntiis omnium vacant ingenia studiosa. Huic siquidem tante stragi, illustrissime dux, vix ullam cerno medelam optimam, nam qui intrusus est dominii auidus est, sagax et medie impatiens, quod detinet · relinqueret inuitus, et ad retinendum iam longa possessio eundem potentem indicat de futuro. At plerisque potentibus inuisus est : dedignantur admodum patique nequeunt illum urbi presidere predicte , tyrannico maxime gestu. Unde pestis hec letalis mortiferaque est, et salutis repara-tionisque spe fere omnimoda destituta. Unicum tantum, princeps optime, subsidium salubre perpendo, ut vos, princeps desideratissime, prefatam urbem eiusque magnificas alas sub vestra protectione potentissima assumatis. Vota omnium ad excelsam dominacionem vestram se affectuosissime extendunt, maiores utique et minores ad prefate urbis imperia excelsa nomina vestra invocant incessanter ; quinymo menia , mare et li-tora (3) principatus vestri salientem affectum crebris nutibus indicare videntur. Hec siquidem nostra, si non fallor, felix princeps, tanta potestas vobis soli bene sedet, conuenit et est apta . Communiter quidem viuere aliorum ritu populorum nostrarum mentium immensa varietas minime pateretur, et in unum ex nobis tanti potentatus ducem ciuiles liuores nostri ascensum denegant diuturnum, quo fit ut extero indomita nostra capita submittamus. Sed non omnis potentatus tanti capax existit. Ridiculum et ignominiosum reuera esset pusillo tantam submittere potestatem ; potens namque populus sub nouo excelsi principis dominio non vilescit, et dure ceruices sub potentissimo flectuntur baculo, et sub excelso imperio elata corda et conflate mentes totaliter liniuntur. Sed cui excelso tanta submittet se potestas? Serenissimus equidem et superillustris dominus noster Romanorum Imperator, in Germania habens tronum maiestatis sue et aliis (1) Reddent. (2) Apulsus. (3) Littora. % ^12 GIORNALE LIGUSTICO magnificis et amplissimis necessitatibus occupatus, soloque generali titulo urbis nostre contentus, plagis nostris neque optat nec in presentiarum commode (i) posset opportunam et celerem (2) intundere medicinam. De illustrissimo, quinymo serenissimo, d. Franchorum rege consultum est. Certe immensa est illius prudentia et potentissima eius excelsa serenitas. Verum loci sedis residentieque maiestatis sue prolixa distantia et ad festinanda nobis sua subsidia inopportuna valde; nec non Gallicorum ab Italicis mores longe diformes sunt et conuenientiam cum eisdem esset habere difficillimum. Unde, undique meum reuoluens intuitum, nullatenus cernere possum principem ullum, cui melius dicte urbis sedeat imperium. Tu namque es potentia inextimabili fortis, sapientia venerabili prudens, ad succurrendum promptissimus nobis vicinis, et moribus nostris tui omnes sunt conformes. Suscipe igitur , prosperosissime et felix princeps , hanc laceram urbem eiusque longas caudas, et ingenio immense sapicntie tue statum illius in pace reforma. Exaltabuntur equidem preclara nomina tua usque ad ethera et in fines orbis terre sonus eorum exibit : tremenda quorum insignia audacis vipere per equora militantia, orientalibus, meridianis (3) et septentrionalibus (4) maritimis nationibus in actu excelso iterum se ostendent et antique dominacionis illustrissime agnationis vestre renovabuntur vestigia. Ne moreris; tolle moras; quid amplius cernis ? Hoc enim impleri oportet omnino. Scriptum est enim per prophetam : Et tu Bethleem terra Juda nequaqtum minima es in principibus Juda; ex te enim exiet dux qui regat populum meum Ysrael. Tu quippe cs ille dux, qui Januenscm populum sic diriges, diuino mediante iuditio, ut hostium sublata formidine tempora nostra erunt tua protectione tranquilla. Et illam sic reformabis quod id quod belli calamitas introduxit, hoc pacis lenitas sopiret. « His sic clementer oratis prefcua reucrendissinia domina inclinato capite finem fecit. Fune illustrissimus dux, claritatem sui generosi vultus aperiens, versus prefatam venerabilem mulierem, sic suum inchoiuit eloquium :« Veneranda domina, eloquentissimam orationem vestram eiusque sententiam lacrimabilcm nostra mente percepimus et vester sequentiumque flebilis habitus, nec non vestra tante stragis enarratio ad lacrimas nostra lumina incitauit men-temque nostram super casum vestrum compunctione non modica pun- (t) Ctmait. (>) Crhhrm. (j) Htrtdiâeit. (4) StUtiremslilmi GIORNALE LIGUSTICO 413 gunt (1). Nos enim non latet quanta semper feruens caritas, quamque fraterna dilectio inter illustres et magnificos progenitores nostros et populum Januensem viguere et quam multos nobilissimos eiusdem vrbis ciues magnis amicicis connexos habuimus. Et nos illius populi inter ceteros generationis nostre principes fuimus zelatores immensi et de illo semper optauimus audire felicia (2). Stragem tantam equo patientique habetis animo tollerare, diuina namque iuditia sunt summa suffulta iustitia et non sine quare diuina turbatur maiestas. Populum enim vestrum voluptatibus deditum, sue maiestatis oblitum (3), peruertere voluit forsan ut suum recognosceret creatorem, potius corrigere intendens quam occidere. Quare est summis vigiliis, ieiuniis et orationibus deuotissime (4) insistendum , ut diuina maiestas humiliata, populi precibus inclinata, amodo retrahat manum et persecutionibus vestris finem imponat. De laudibus nostris vestra oratione comprehensis, ad non modicas vobis grates astringimus. Que dicta sunt, curialitate prudentie vestre prolata sunt; nam et ego humanus sum, terra et limo a summo tonante creatus, pronus ad lapsus, nisi diuinum suffragium robur tribuat et pedes nostros a lapsu conseruet. Quod nos ad urbis vestre invocatis imperia, modice non est dilectionis inditium. Ad quod respondemus quod omnipotens Deus nos, licet indignum, magno regno terreque amplissimo ambitu preposuit, nostro submisit dominio nonnulle praue nationes et incorrigibiles fere ; propter que satis latitudine habundantes imperii, humeros nostros aliis laboribus subiicere (5) non curamus. Verumtamen quia antiquorum nostrorum et noster ad populum vestrum feruentissimus zelus nos urget, ut super calamitate vestra non obturemus aures nostras et super imminenti (6) periculo vestro nostra lumina non claudamus, considerabimus super requisitionibus vestris et cum consilio nostro plenissime discutiemus hec omnia et vobis iuxta diuinam inspirationem responsum dabitur votis vestris. Quibus explicitis, prefatus d. Dux reuerenter assurgens iussit prefatam dominam sequentesque illam illustrissime domine Ducisse, consorti sue, introduci confestim sub maximo cultu et honoribus venerandam. At ego resipui. (1) Ponfunt. (2) Felilia. (3) Semper espunto. (4) Deuotissime. (5) Subicere. (6) Imi nenti. GIORNALE LIGUSTICO BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE A STAMPA DI GABRIELLO CHIABRERA (Continuazione e fine, vedi fase. VII-VIII , pag. 385). 101. — Canzonette / di/ Gabriello / Chiabrera. / In Roma, per Francesco Corbelletti. / MDCXXV. / Con licenza de’ Superiori./Ad instanza di Gio. Francesco Pieri. In 12.0 II Pieri le dedica ad Alessandro Pozzobonelli con lettera da Roma del 20 settembre 1625. « Essendomi capitate da Firenze, così gli scrive, pochi giorni sono, alcune Canzonette del sig. Gabriello Chiabrera, stampate separatamente in diversi piccoli volumi, hò pensato d’haver’ à servire al gusto de’ Professori di Poesia, raccogliendole tutte in vn volume solo ». Le canzonette, giusta il numero d’ordine, sono ventuna ; ma è da avvertire che il n. 11 è ripetuto due volte. Seguono le: Ballatelle/di/ Gabriello / Chiabrera. / In Roma, per Francesco Corbelletti. / MDCXXV. / Con licenza de’ Superiori. / Ad instanza di Gio. Francesco Pieri. Non v’ ha alcuna dedica. La numerazione delle pagine segue progressivamente. Le ballatelle qui raccolte dal Pieri sono in numero di trenta ; e giungono dalla pag. 33 sino alla pag. 44. Alle ballatelle seguono altre canzonette. Canzonette / di / Gabriello / Chiabrera. / In Roma, per Francesco Corbelletti./MDCXXV. / Con licenza de’ Superiori./ Ad instanza di Gio. Francesco Pieri. Le canzonette cominciano alla pagina 51 e terminano alla pag. 67. Sono in numero di sedici. Quest’ edizione, sconosciuta a tutti gli altri GIORNALE LIGUSTICO 415 bibliografi, è solo citata dal Fontanini (1). La biblioteca universitaria di Genova ne possiede un esemplare conservatissimo. 102. — Ballatelle di Gabriello Chiabrera. Firenze, Ceccon-celli, 1625. Γη 12.0 Edizione citata dal Bertolotto al n. 30 della sua Nota. Nelle osservazioni aggiunge che le Ballatelle hanno in fronte il ritratto del Chiabrera. Mi sembra potersi supporre con molta ragione che su quest’ edizione abbia condotta il Pieri quella di Roma. 103. — Proverbj di Giacomo Peri. Venezia, Combi, 1625. Vi ha una scelta di rime del Chiabrera, delle quali taluna è stata ristampata nella raccolta delle opere edita dal Geremia, donde ho attinta la notizia. In edizioni posteriori dei Proverbi non m’ è avvenuto di trovare pur un verso del Chiabrera. 104. — Discorso di Gabriello Chiabrera sopra il Sonetto del Petrarca : « Se lamentare augelli 0 verdi frondi ». Alessandria, per Gio. Scoto, 1626. In 4.0 [« Opuscolo di carte 12, compresovi il frontespizio. È scritto in dialogo, ed ha al fine Iscrizioni latine in lode di Ferdinando e Cosimo de’ Medici e d’ Urbano Vili ». — Gamba, op. cit., pag. 529]. In una nota al dialogo 11 Forcano (Dialoghi dell’ arte poetica, Venezia, 1830), il Gamba avverte che il Discorso venne « sciaguratamente impresso » in questa prima edizione; e che pure « scorrettamente » fu ristampato dal Geremia nella raccolta delle Opere, Venezia 1730-31, tomo IV. Cfr. Haym (2) e Fontanini (3). 105. — Il Prencipe / Iacopo / Lomellino. In fine : In Genova / per Giuseppe Pavoni / MDCXXVI / Con licenza de’ Superiori. In 4.0 (1) Op. cit., vol. I, pag. 52$. (2) Op. cit. y tom. II, pag. 444. (3) Op. cit. , tom. II, pag. 54. GIORNALE LIGUSTICO A pag. 54 tra le poesie « in lode del serenissimo prencipe Iacopo Lo-mellino » una ve ne ha del Chiabrera, che incomincia: Quando nel greco regno orribil belve. 106. — Poemetto di Gabriello Chiabrera al Granduca Ferdinando II. Genova, Pavoni, 1626. In 4.0 Questo poemetto è citato dal Bertolotto al n. 32 della sua Nota , dove aggiunge essere in versi sciolti, senza però notare quale sia il titolo del poemetto. Può essere che sia questa una ristampa del Chirone, edito già nel 1625, che è appunto in versi sciolti e dedicato a Ferdinando II. 107. — Il Battista, poemetto in ottava rima di Gabriello Chiabrera. In Firenze, per Pietro Cecconcelli, 1627. Edizione citata dal Soprani (1), senza tener conto del formato. 108. — La caccia delle fere, versi di Gabriello Chiabrera al Serenissimo Gran Duca di Toscana Ferdinando li. In Firenze , per Pietro Cecconcelli, alle stelle Medicee, 1627. In 4.0 1 Questo Poemetto é in versi sciolti ». Così il Poggiali (2). Il Berto-loni (3) lo dice « raro », e corregge l’errore del Gamba (4) che lo notò all’anno 1622. Cfr. Soprani (5) e Gior. dei Lett. (6). Ï09· — Delle poesie di Gabriello Chiabrera. Firenze , per Zanobi Pignoni, 1627, volumi III in un sol tomo in 12.0 [« Edizione assai corretta , e probabilmente assistita dall’ Autore , ed è per avventura una di quelle, che intesero citare gli Acccademici della Crusca. Non ha in fronte veruna dedicatoria o prefazione , cominciando dalle Poesie, le quali sono diversamente disposte dall’ edizioni anteriori. Il primo volume della presente comprende i Poemetti in versi sciolti ». — Poggiali, op. cit., toni. I, pag. 113]. Il contenuto degli altri due vo- (1) Op. cit., pag. 109. (2) Op. cit., tom. II, pag. 29. (3) Op. cit., pag. 41. (4) Op. cil., pag. 527. (5) Op. cil., pag. 109. (6) Tom. XXXVIII, part. 1.·, pag. 149. GIORNALE LIGUSTICO 417 lumi, taciuto dal Poggiali, è dato dal Gamba (1) che scrive comprendere poesie varie. Il Bravetti a proposito di quest’ edizione avverte : « In questa ristampa alle volte s’incontra la lezione della prima di Genova (1605-6), altre volte della seconda (1618-19), ed altre volte differisce da ambedue le medesime. Quindi non è inverisimije, che 1’ autore medesimo prendesse pensiero anche di questa fiorentina edizione , che fu 1’ ultima che vedesse e riordinasse egli medesimo (2) ». 110. Delle poesie di Gabriello Chiabrera, volume quarto. In Firenze, appresso Simone Ciotti, 1628. In 12.0 O Questo quarto ed ultimo volume, contenente altri Poemetti in ottava rima ed in versi sciolti, è anche più raro di quelli pubblicati pel Pignoni. È dedicato dallo stampatore a Cammillo Lenzoni con sua lettera di Fiorenza de’ 20 novembre 1628 ». — Poggiali, op. cit., tom. I, pag. 114]. Il Giorn. dei Lett. insieme allo Zeno, nelle sue annotazioni al Fontanini, sono d’ accordo col Poggiali nel dichiarare stampato in Firenze pel Ciotti il quarto volume delle poesie del Chiabrera. Il Gamba (3) ai-l’incontro, per errore tipografico forse, vuole che per lo stesso Simone Ciotti sia stato pubblicato in Venezia. Il diligentissimo Bertolotto non conosce l’edizione del Ciotti, e quella del Pignoni la fa consistere in un solo volume. ΙΓΙ· Cannoni di Gabriello Chiabrera composte alla maniera di Pindaro, per la Santità di N. S. Papa Urbano Vili. Firenze, per Pietro Cecconcelii , 1628. In 4.0 0 Sono tre Canzoni e l’esemplare — quello posseduto dal .Poggiali, s intende è corredato di note MSS. del Salvini ». — Poggiali, op. cit., tom. II, pag. 22]. Il Bertolotto aggiunge che è di pag. 20. II2· — Per h del Serenissimo Odoardo Farnese Duca di Parma, e la Serenissima Margherita Medici, versi di Gabriello Chiabrera. In Firenze, per Simone Ciotti, 1628. In 4.0 (1) Op. cit., pag. Ilo. (2) Op. cit. , pag, 48. (3) Op. cit., pag. no. Giorn. Ligustico. Anno XIII. GIORNALE LIGUSTICO Il Bertoloni Vagheggiando le bell' onde (pag. 472) ; Belle rose porporine (pag. 473) ; Se ’l mio sol vien che dimori (pag. 475). Inoltre nel tomo primo sono citati qua e là alla spicciolata versi del Chiabrera. V. pag. 165, 166, 186, 527, 589, 590. Il Bertolotto cita a quest’anno (n. 44 della sua Nota) la Perfetta poesia, ma dimentica il nome del tipografo , il numero dei volumi , e non si perita d’affermare che è accompagnata da postille di Anton Maria Salvini. Poteva egli darci maggior prova di diligenza? 1:35). — Fasti / consolari / dell’ Accad. fiorentina / di / Salvino Salvini ecc. / In Firenze. M.DCC.XV1I. / Nella stamperia di S. A. R. per Gio. Gaetano Tartini, e Santi Franchi. / Con licenza de’ Superiori. In 4.0 Si legge a pag. 271 una lunga lettera del Chiabrera diretta a Lorenzo Giacomini, in data di Savona, 4 agosto 1588. 140. — Rime / di / Gabriello Chiabrera / in questa nuova edizione unite, I accresciute, e corrette. / All’E.'"0, e R.”‘° Signore / il sig. Cardinale I Gio. Battista Spinola / Camerlingo di Santa Chiesa. / Parte prima. I In Roma, MDCCXVIII. / Presso il Salvioni, nella Sapienza. / Con licenza de’ Superiori. In 8.° Intorno a questa ricercatissima edizione il Paolucci ragguaglia così nella lettera di dedica . lo Spinola: « questi componimenti ora insieme da tanti, e vari tomi raccolti, ed uniti con altri, che in più manoscritti dispersi andavano , e da privati nascondigli ritolti ». Ma intorno a questa edizione meglio ci ragguaglia il Paolucci nel lungo avviso al lettore. L’idea di raccogliere le opere del Chiabrera fu caldeggiata da prima nell’ adunanza di letterati che il cardinale Gio. Battista Spinola teneva nelle sue stanze. A tradurla in fatto si pose con sollecito amore il Paolucci, aiutato dallo Spinola, che a Genova e a Firenze, per il nipote Stefano Grimaldi, spirito colto, fece ricercare diligentemente le edizioni chiabreresche uscite sin’ allora , nonché i manoscritti originali del Poeta. Furono le ricerche felici; poiché si trovarono i sermoni, i poemetti domandati la Lotta d’Anteo e il Muzio Scevola, gli epitaffi e molte canzoni. Tutta questa messe però non fu solo a raccoglierla il Grimaldi ; chè anche Pier Luigi Caraffa, messo in sulla via dal Salvini, potè comporre nelle biblioteche di Firenze un manipolo di scelti componimenti. Nè fu- 430 GIORNALE LIGUSTICO rono queste sole le diligenze ; ma al Paolucci piacque altresì , nel condurre la sua edizione, d’aver 1’ occhio alle migliori già pubblicate, e particolarmente a quella di Genova del 1605. Molte, come si vede furono le cure; ma potevano e dovevano anche adoperarsene altre assai, e giustamente al Paolucci notò il Bravetti d’ aver ignorato qualcuna delle edizioni uscite per cura del Chiabrera stesso. Inutile poi avvertire che al concetto nostro d'edizione critica non risponde affatto quella che qui esaminiamo. Seguita all’ avviso la licenza per la stampa , il ritratto del Chiabrera , finamente inciso , e 1’ autobiografìa. Per questa dettò il Paolucci un’ appendice, che molti, erroneamente, scambiarono per la continuazione del-Γ autobiografìa ; mentre in essa sono ricordati coloro che elogiarono il Chiabrera, è data una breve notizia delle maniere di rime usate da lui e delle edizioni quelle sono segnate, e non più , che il Ghilini , il Giustiniani e Γ Oldoini segnarono. La prima parte comprende le canzoni eroiche, le lugubri, le sacre e le morali. — Delle / rime / di / Gabriello / Chiabrera / parte seconda. / Contiene / canzonette / amorose , e morali, / scherzi, sonetti, epitaffj, / vendemmie, egloghe,/e sermoni./In Roma, MDCCXVIII. / Presso iJ Salvioni, nella Sapienza. / Con licenza de’ Superiori. In 8.° Il contenuto del volume è indicato nel frontispizio, e però non occorre ripeterlo. Gli epitaffi e i sermoni, come già si è accennato escono qui per la prima volta alla luce. Ho dubbio però che il Paolucci, nella stampa dei sermoni, abbia avuto innanzi 1’ autografo, ponendo mente alle importanti varianti recate più tardi dal Rebuffo. — Delle / rime / di / Gabriello / Chiabrera /parte terza. / Contiene I poemetti / profani, e sacri. /In Roma, MDCCXVII. / Presso il Salvioni, nella Sapienza. / Con licenza de’ Superiori. In 8.° I poemetti profani contenuti in questa terza parte sono: La conquista di Rabicano; L’Erminia ; L’AIcina prigioniera; Il Muzio Scevola ; La lotta di Ercole e di Acheloo; Il Chirone; Le meteore; Delle stelle; Il presagio dei giorni; Il secolo d’oro; La caccia dell’astore; Il vivaio di Boboli, L’ametisto; Gli strali d’amore; Il diaspro; Le nozze di zefiro; 11 verno; Le grotte di Fassolo ; Le perle; Il rapimento di Proserpina ; Scio. Il poemetto sulle Νοφρ di %_efiro esce in quest' edizione tronco dei primi GIORNALE LIGUSTICO 4SI versi, che contengono la dedica a Ferdinando Riario. I poemetti sacri sono i seguenti: La disfida di Golia; La liberazione di s. Pietro; Il leone di Davide; Il diluvio; La conversione di S. M. Maddalena; I cinque tiranni di Gabaon ; La pietà di Micole ; Per s. Carlo Borromeo; Per s. Margherita; Per s. Agnese; La Giuditta; La Giuditta in terza rima; Il Battista; Le feste dell’ anno cristiano. — Alcuni esemplari di questa edizione, scrive il Gamba (1), hanno il frontispizio del volume primo impresso in caratteri rossi e neri, senza alcun fregio ; ed altri lo hanno impresso tutto in nero , e coll’ arme del card. Gio. Battista Spinola. 141. — Scelta / di sonetti, j e cannoni / de’ più eccellenti rimatori / d’ogni secolo. / Terza edizione / con nuova aggiunta. / Parte seconda, I che contiene i rithatori dal 1550 fino al 1600. / e del 16ου /In Venezia MDCCXXVII. / Presso Lorenzo Baseggio. / Con licenza de’ Superiori. In 8.° Raccoglitore, com’ è n to, fu Agostino Gobbi. Ecco i capoversi delle rime del Chiabrera contenute in questo volume : — Dico alte Muse : dite; — Per quell' alta foresta in nobil pianta ; Se de T indegno acquisto ; Or che a Parnaso intorno ; Deh qual mi fia concesso ; 0 inclita Ferrara ; Spero, ne forse io spero ; Già tu per certo, 0 Famagosta loco ; Chi su per gioghi alpestri ; Era tolto di fasce Ercole appena; Qual se per vie selvagge; Tra duri monti alpestri ; Come franco augelletlo ; Corte, senti il nocchiero ; Del mio Sol son ricciutegli ; Oliando l’Alha in Oriente; Chi può mirarvi; Nigella, 0 ch’io vaneggio·, L’altr’ier per lunga via; Cetra de’ canti amica; Quanto Anfitrite gira. La prima edizione della raccolta uscì nel 1709 in Bologna pel Pisarri ; ma il Gobbi nulla vi comprese del Chiabrera. Ignoro dove e per cura di chi sia uscita la seconda edizione , e se in questa si legga cosa alcuna del nostro Poeta. Osservo , intanto, che il Bertolotto non badando alle precedenti edizioni, citò la quarta del 1739; e, come già il Pignatelli, così ora fece tipografo il Gobbi. 142. — Comentarj / del canonico / Gio. Mario Crescimbeni / custode d’Arcadia, / intorno alla sua istoria della / volgar poesia. / Volume secondo parte prima ecc. / In Venezia MDCCXXX. / (1) Op. cit., pag. no. 432 GIORNALE LIGilSTICO Presso Lorenzo Baseggio. / Con licenza de’ Superiori, e privilegio. In 4.0 » A pag. 483 v’ha il sonetto a Filippo Emmanuello Principe di Savoia, che comincia col verso: Al’or, che d’ira infuriato ardea. 145. — Delle opere / di / Gabriello Chiabrera j in questa ultima impressione tutte in / un corpo novellamente unite / tomo primo / contenente le / cannoni / eroiche, le lugubri, le morali, j e le sagre. / A sua Eccell. il signor / Giacomo S orando, j In Venezia,/ presso Angiolo Geremia/in campo di s. Salvatore. / MDCCXXX. / Con licenza de’ Superiori, e privilegio. In 8.° La lettera di dedica del Geremia al Soranzo è senza data. Dopo la lettera si legge la prefazione all’edizione di Roma del 1718, riprodotta integralmente come ci fa sapere il Geremia nell’ avviso ai lettori. « Ma perchè, egli soggiunge, nel collazionare le diverse edizioni antiche di questo Autore, ci accorgemmo che molte composizioni di lui furono dal primo Raccoglitore tralasciate, forse perchè non gli riuscì vedere tutte le impressioni, che in nostre mani pervennero, di esse Rime da lui omesse abbiamo composto il IV volume ·. Inoltre 1’ editore sapendo desiderata la ristampa degli altri poemi e delle poesie drammatiche promette di darla in altri volumi. Di questo primo tomo è superfluo affatto indicare il contenuto, essendo indicato già nel frontispizio. — Delle opere / di / Gabriello Chiabrera / tomo secondo / contenente I canzonette / amorose e morali / scherzi, sonetti, epitaffj, vendemmie , egloghe, e sermoni. / A sua Eccell. il signor / Giacomo Soranzo. /In Venezia, / presso Angiolo Geremia / in campo di s. Salvatore,/MDCCXXX. / Con licenza de’ Superiori , e privilegio. In 8.° Nemmeno di questo secondo tomo occorre indicare il contenuto. Degli errori si legge in fine la nota, con questa più precisa indicazione tipografica: In Venezia, MDCCXXX, addi XVI Aprile, presso Angiolo Geremia. — Delle opere / di / Gabriello Chiabrera / tomo terzo / contenente / poemetti / profani e sacri. / A sua Eccell. il signor / Giacomo GIORNALE LIGUSTICO 433 Soran^o. / In Venezia, / presso Angiolo Geremia/in campo di s. Salvatore. / MDCCXXX. / Con licenza de’ Superiori, e privilegio. In 8.° I poemetti raccolti in questo tomo terzo sono gli stessi che si leggono nel tomo terzo dell’edizione di Roma (1718), e disposti anche collo stesso ordine. Dei poemetti' profani, però , il Geremia ha tralasciato quello sulle No%%e di Zefiro. In fine , insieme alla tavola degli errori, si legge : In Venezia, MDCCXXX, addì 1 Agosto, presso Angiolo Geremia. — Delle opere / di / Gabriello Chiabrera / tomo quarto / contenente / le poesie liriche / omesse nella edizione di Roma, alcune favole Idramatiche, e altre composizioni mentovate / nell’ indice, che segue la prefazione. / Giuntovi parecchie rime di diversi / poeti in lode dM’ autore. / A Sua Eccell. il signor / Giacomo Soranzo./In Venezia, / presso Angiolo Geremia / in campo di s. Salvatore. / MDCCXXXI. / Con licenza de’ Superiori , e privilegio. In 8.° Nella prefazione il Geremia dà ragione ai lettori di quanto è compreso in questo quarto ed ultimo tomo, e delle diligenze per esso usate. Contiene: le rime, estratte nuovamente da vari libri; le No^e di Zefiro condotte sulla edizione originale, e però intiere; il Foresto, stampato colla scorta dell’edizione del Guasco; gl 'Intermedi per 1’ Idropica del Guarini, cavati dal Compendio del Follino ; il Discorso sopra un sonetto del Petrarca, forse di su l’edizione originale di Alessandria. Contiene ancora, senza nessun cenno delle edizioni che hanno servito di norma : la Me-ganira, la Gelopea, il Rapimento di Cefalo, la Vegghia delle Grafie. Dopo la Vegghia si leggono, sebbene non ricordati nell’indice: il « frammento de’ tetrastichi per la Gerusalemme liberata » ; un sonetto all’ Imperiale ; e alcuni versi al Materdona, colla risposta di questi. Chiudono il volume le rime di diversi autori in lode del Chiabrera (Cebà, Gentile, Andreini, Marini, Grillo, Connio); e il discorso del Fabbri intorno alle varie maniere dei versi toscani. Non manca, nemmeno in questo tomo, la nota degli errori occorsi, e la indicazione più particolareggiata della stampa: In Venezia, MDCCXXXI, addi xx Marzo, presso Angiolo Geremia. — Il Poggiali (1), a proposito dell’ edizione qui descritta scrive: « Edizione assai (1) Op. cit., Tom. II, pag. 25. Giorn. Ligustico. Anno XIII. 434 GIORNALE LIGUSTICO buona, di bella esecuzione, e più compiuta d’ogni altra ». L’ Haym (i), ponendola a confronto con quella di Roma del 1718, la dice * quanto migliore per i Componimenti aggiuntivi, altrettanto inferiore per la carta, e per i caratteri ». È facile vedere, a chi abbia avuto in mano le due edizioni, che il giudizio dell’ Haym. s’ accosta al vero più di quello del Poggiali. Ha voluto, sì, il Geremia, anche nei caratteri e nel sesto imitare 1’ edizione del Paolucci ; ma la prova è riuscita infelice. Ad ogni modo è da seguire 1’ esempio del Carducci che suol citare e 1’ una Γ altra edizione. Il Bertolotto, corretto sempre, a tutti e quattro i tomi assegna l’anno 1730. j μ. _ Dilì e opere / di I Gabriello Chiabrera I in questa ultima impressione tutte in un / corpo novellamente unite / tomo primo / contenente le /cannoni eroiche, le lugubri, le / morali, e le sagre. I In Venezia,/MDCCLVII./Presso Angiolo Geremia/in Merceria all’insegna della Minerva./Con licenza de’ Superiori, e privilegio. In 8.° Questo primo tomo non è che una fedele ristampa del primo tomo dell’edizione del 1730, uscita per cura dello stesso Geremia, con carta e caratteri anche peggiori. In fine vi ha la licenza per la stampa del 17 novembre 1756· __ jje[je 0pere / di / Gabriello Chiabrera / in questa ultima impressione tutte in un I corpo novellamente unite / tomo secondo I contenente le / canzonette / amorose, e morali I scherzi, sonetti, epi-Ivendemmie, egloghe,/e sermoni./In Venezia,/ MDCCLXII. / Presso Angiolo Geremia/in Merceria all’insegna della Minerva. / Con licenza de’ Superiori, e privilegio. In 8.° Il contenuto del volume è gii dato nel frontispizio; e del resto anche non è altro che una ristampa, senza pur un’aggiunta a una questo tomj w correzione, del tomo secondo dell’edizione del 1730. — Delle opere / di / Gabriello Chiabrera / in questa ultima impressione tutte in un j corpo novellamente unite / tomo terzo / con- (,) Of. cil·, e ro Darsend; della canzone archiloca : Stanno ormai d'invidia audace. Nelle note alla prefazione alle poesie è riportata la dichiarazione di nascita del Chiabrera fatta dallo zio Giovanni; sono pure riportate alcune memorie di Lelia Chiabrera, moglie al Poeta ; 1’ atto di morte desunto dai libri parrocchiali di S. Andrea (già si conosceva) ; ed una deliberazione del Consiglio degli Anziani di Savona, per la quale è commessa a Gerolamo Spinola e Giulio Gavotti la cura di onorare la memoria del defunto Poeta. Ma non ne fu nulla; e Savona che vivo richiese sempre dei suoi uffici il grande suo figlio, morto ne dimenticò affatto la memoria. La chiesa di S. Giacomo, dov’ era la sua tomba, fu diserta, tramutata in casa di pena ; ed io narro qui con sdegno e dolore che entro quella tomba sacra, sino a pochi anni fa, si recavano ogni notte i ladroni a passar l’ore giuocando. Oggi, chi sale a S. Giacomo, trova anche distrutto ogni indizio esterno del sepolcro del Poeta, scomparsa la lapide che lo indicava; e sostituita per tutto compenso, da un’altra che si riferisce all’ arte dei mereiai. 183. — 0 cartoccio^ de Savon-na, almanacco pe-o 1846. Anno quinto. Savon-na, stampaja de Felice Rossi, presso Angelo Faero editò. In 12.° Vi si legge a pag. 65 una « canzone » che comincia: Quando stavi ballando; e a pag. 68 una « serenata » che comincia : Questa è quella muraggia. La canzone e la serenata sono accompagnate da questa nota: « Le due precedenti canzoni furono composte da Gabriello Chiabrera, come si ricava da manoscritto di un suo contemporaneo. Crediamo che debba riuscire cosa grata il pubblicarle, malgrado che siano già stampate clandestinamente in un giornale letterario ». Le poesie sono pubblicate da un sig. C. M. che è il march. Carlo Montesisto. Io non comprendo però com’egli possa dire che furono pubblicate « clandestinamente » in un giornale letterario, chè clandestina certo non può dirsi la pubblicazione fattane sin dal 1843 dal Belloro nella Rivista Ligure. Né so perchè abbia spezzata in due parti la serenata 2.» del Belloro. Se era così distinta nel ms. Baldano eh’ egli possedeva e forse possiede ancora, parmi avrebbe dovuto accennarlo. Ed anco avrebbe dovuto avvertire se il ms. citato ha 464 GIORNALE LIGUSTICO riprodotto più o meno fedelmente: si spiegherebbero così le varianti che si riscontrano tra il testo del Canocciale e quello della Rivista Ligure. 184. — Sermoni di Gabriello Chiabrera. Venezia, 1846. In 12.0 Il Bertolotto cita quest’ edizione al n. 70 della sua Nota, avvertendo che ai sermoni del Chiabrera sono uniti quelli del Gozzi; ma dimentica d’accennare la tipografia ond’ è uscito il volume. 18 j. — Rime I di I Gabriello Chiabrera / volume /./Savona, 1847/presso Luigi Sambolino / editore libraio. In 12.0 Nel retro della pag. II, si legge : In Genova , per la nuova tipografia di Nicolò Dagnino , da S. Giorgio palazzo Cattaneo, n. 1400. Il primo volume contiene l’autobiografia, le canzoni eroiche, le lugubri, le sacre, le morali ; le canzonette amorose , e le canzonette morali ; gli scherzi, sonetti, egloghe , vendemmie di Parnaso , scherzi e madrigali diversi. A pag. 292 si ha : fine del volume primo. L’ ordinatore di questa edizione ebbe innanzi quella edita dall’Antonelli in Livorno nel 1841, poiché da questa si veggono riprodotte testualmente le note alle poesie , e sono inoltre riprodotte le seguenti delle poesie inedite: Allor che carche lietamente salpano; Crudi fiati di Borea; Già le piaggie fiorirono ; Dall’alto veggio sorgere; Odi tu mormorar T onda, che gelida; Ornai per aria corrono turbini; Se pur nell’alto piovere; Tanti orgogli perché, bella Licoride. Veramente, nella legatura dei fogli, questa edizione risulta divisa in tre volumi ; e a questa divisione fu costretto il Sambolino per necessità tipografica, facendo l’edizione parte d’una Biblioteca popolare (e risponde appunto ai voi. 7, 8 e 9 della i.» Serie) eh’ egli fondò a imitazione del Pomba. Cosi il primo volume occupa i voi. 7 e 8, e parte del 9 (sino alla pagina 292). — Rime / di / Gabriello Chiabrera / volume II. / Savona 1847 / presso Luigi Sambolino / editore libraio. In questo secondo ed ultimo volume seguita la numerazione delle pagine. Comprende: I sermoni (in numero di 25) pei quali l’editore si valse (ciò che non fece 1’ Antonelli) dell’ edizione curata dal Rebuffo. Seguono ai sermoni i poemetti, e cioè: Il presagio de’ giorni; Il Mit%io Scevola; Il Chirone; Il Vivaio di Boboli; Il tesoro; Le perle; La disfida di Golia; Il leone di David; Il diluvio; La conversione di S. M. Maddalena; La pietà di Micole; Per s. Carlo Borromeo ; Per s. Margherita ; Per s. Agnese; GIORNALE LIGUSTICO 465 Per s. Luca; Per s. Lucia. Questi due ultimi inni sono riprodotti dal-1’edizione di Livorno (1841). Il Bertolotto cita all’anno 1847 tre edizioni del Chiabrera con questi titoli : Rime; Poesie liriche; Rime di Gabriello Chiabrera. Le prime due vuole siano uscite in Genova, ma tace il nome della tipografia; la terza (in due volumi) fa uscire in Savona dal Sam-bolino. Il Bertolotto, si sa, era costretto a starsene alle notizie che gli venivano fornite da altri; e certo tutte queste presunte edizioni corrispondono a quella da me ora descritta. 186. — Poesie Uriche, sonetti e cannoni di Gabriello Chiabrera. Venezia, Giuseppe Antonelli, 1851. Esistono nel tomo 12.0 del « Parnaso italiano » da pag. 2574 a pag. 2658. Edizione di lusso, caratteri minuti ed eleganti. — Così il Bertolotto al n. 75 della sua Nota. 187. — Firenze / poema / di / Gabriello Chiabrera /per cura/ dell’avv. A. G. Rocca / Savona , 1851. / Tipografia di Luigi Sambolino. In 8.° L’edizione è dedicata dal Rocca « non immemore della diletta sua patria » al municipio di Savona. Seguace della scuola classica si mostra il degnissimo sig. Rocca nella prefazione, scritta a Genova nei primi di settembre del 1850, sperando che la ristampa della Firenze valga a distruggere » quelle male radici di boreali piante che tentano inselvatichire il giardino della nostra bella letteratura ». Nè questa ristampa stima indifferente « alle presenti politiche vicende ». Di talune inesattezze della prefazione — scritta con stile ostrogoto — mi passo, per dire dell’ « Osservazione » che le vien dopo. In questa il Rocca ragiona delle opinioni professate dal Chiabrera a proposito della rima nel poema eroico , e accenna ai di versi, rifacimenti della Firenze. Inoltre, in una nota corregge 1 errore in cui incorsero parecchi nel fissare il giorno e l’anno della morte del Poeta. In questa edizione la Firenze è data sul testo di quella di Napoli (1637), divisa cioè in dieci canti in versi sciolti rimati liberamente. Il Rocca però ha sostituito il moderno ortografare all’ antico ; ed ha poi a ciascun canto preposti per maggior chiarezza gli argomenti. L’edizione, dal lato tipografico, è abbastanza corretta. 18S. — La Patria / ossia / liriche italiane / di patrio argomento / tratte dai migliori poeti d’ogni secolo. / Torino, tipogr. scolastica di Sebastiano Franco e figli e Comp. / 1856. In 8.° Giokn. Ligvstjco. Anno XIII. 466 GIORNALE LIGUSTICO A pag. 182-185 vi sono quattro sonetti, recati da altre raccolte di poesie patriottiche come quelle del Polidori (Firenze 1847) e del Baffi (Napoli, 1865). 189. — Autobiografie. Petrarca, Lor enfino de’ Medici, Chiabrera, Vico ecc. Firenze, Barbera, Bianchi e Comp. 1859. In 3 2.0 Come si rileva dal frontispizio tra Γ altre autobiografie quella v’ ha eziandio del Chiabrera. 190. — Poesie liriche / sermoni e poemetti / di / Gabriello Chiabrera / scelti I da F.-L. Polidori. / Firenze, / G. Barbèra, editore. / 1865. In 32.0 V’ha una prefazione del Polidori, datata da Firenze, settembre 1865, dov’ è toccato con molto senno della vita e delle opere del Poeta, e de metodo col quale è stata condotta Γ edizione, invero pregevolissima, divisa, come il frontispizio annuncia, in tre parti ; ma la prima è suddivisa in altre cinque, cioè: poesie storiche e politiche, poesie religiose e. morali, poesie varie, canzonette amorose ed altro, sonetti. I poemetti ripubblicati dal Polidori sono: Le meteore, Le stelle, Il presagio de’ giorni, Il tesoro, Il verno, La conquista di Rabicano, L’Erminia , La disfida di Golia. Un appunto, anzi due son da farsi al Polidori: il primo è quello di non aver detto su quali edizioni del Chiabrera ha condotta la sua ; il secondo è d’ aver tralasciato di profittare , come doveva , della ristampa dei Sermoni curata dal Rebuffo. Se è da aggiustar fede al Brunengo (1), per questa edizione il Polidori ebbe gli aiuti di G. A. Rocca. 191. — Atti / della / Società Ligure / di Storia Patria / voi. IX./ Genova / Tip. del R. I. de’ Sordo-Muti / MDCCCLXIX. In 4.0 A pag. 278 il Giuliani riporta alcuni versi di quel frammento autografo del poema, tuttora inedito, composto dal Chiabrera, sulla regina Ester, che si conserva nella Biblioteca Universitaria. Il frammento è illu-stiato da venti disegni or.ginali a penna di Bernardo Castello. Il poema, o, piuttosto, poemetto, era già stato ricordato prima dall’ Oldoini. (1) Brunengo, Dissertatone storica sulla città di Savona. Savona, Miralta, 1876, voi. 5.°, pag. 148. GIORNALE LIGUSTICO 467 192. — Poesie liriche / sermoni e poemetti'/·di / Gabriello Chiabrera f scelti ed annotati / dal sac. dott. / G. B. Francesia. / Torino / tip. dell’oratorio di S. Francesco di Sales / 1872. In r2.° V’ha una lettera di dedica del Francesia ai giovani del Collegio Convitto di Varazze, scritta a Varazze il 25 Maggio 1872. Segue una prefazione, pur del Francesia, scipita come sogliono, del resto, essere tutte le prefazioni ai libri della biblioteca salesiana. Oltrecchè è piena d’ errori. Così il Chiabrera si vuol morto sin dal 1637, quando anco i bimbi sanno esser mancato del 1638. Inoltre è affermato che raramente lasciò il soggiorno di Savona, quando è risaputo che fu appassionatissimo pe’ viaggi e visitò quasi tutte le città d’Italia. È detto, ancora, che sulla sua tomba fu scolpita l’iscrizione: Io vivendo cercava ecc. che nessuno vi lesse mai. Questo basti degli errori : dei giudizi è meglio tacere. Perchè sarebbe un far troppo onore al sig. Francesia, discorrere con lui di quel sereno sentimento pagano che informa buona parte delle poesie del Chiabrera. L’edizione da lui assistita rispecchia da vicino quella del Polidori. È cosi divisa: poesie religiose e morali; poesie storiche e politiche; poesie varie; sonetti; sermoni; poemetti. I poemetti sono gli stessi che si leggono nel Polidori, meno II Verno e ΓErminia; quello indubbiamente omesso perchè dal Polidori stesso giudicato « stupendo parto di fantasia tutta greca », e il secondo perchè non offendesse i timorati e casti lettori della biblioteca salesiana. 193· — H Baretti, giornale scolastico letterario, diretto dal prof. G. S. Perosino, anno VI, n. 51. Torino, tip. Alessandro Fina, 1874. Vi si legge un sonetto inedito in morte di Filippo Emanuele principe di Piemonte, che comincia: De Γ aspra Scitia a T aggiaciato polo. Ne diede copia al giornale Vincenzo Promis, traendola dalla Biblioteca reale di Torino, dove si conservano parecchie poesie autografe del Chiabrera « scritte dal poeta mentre dimorò in Torino, ai tempi di Carlo Emanuele I ». Di tali poesie due solamente sono inedite: il sonetto e un’ode, che si promette di pubblicare in un prossimo numero. 11 sonetto è riprodotto colla stessa ortografìa dell’ autografo. Il Bertololto dovè leggere cogli occhiali annebbiati il Baretti per poter scrivere che in questo è asserito dubbiosamente che il sonetto è cavato dall’ originale, mentre è detto espressamente che il Promis ebbe innanzi 1’ autografo. 468 GIORNALE LIGUSTICO _ Per none / di / Erminia Paulucci / con / Enrico Si-gistnondi. Nel retro: Udine — Tipografia G. B. Doretti e Soci. In 8.° A pag, 3 si ha un’ epigrafe dedicatoria a Lucrezia Manin-Paulucci. A pag. 5 una lettera di Lodovico Giovanni Manin alla stessa, in data di Passariano, 19 agosto 1874. Finalmente a pag. 9 si legge la canzone di genere allegorico, La Discordia, che il Manin attribuisce al Chiabrera, affermandola trovata — è forse questa la prova? — « fra suoi manoscritti ». Comincia col verso : Posto il mondo in confusione. Ma bisogna non aver letto pur un verso del Chiabrera per potergli attribuire questa scipita canzone; ch’io mi rifiuto assolutamente a creder sua. J95. — Sonetto e cannone inediti di Gabriello Chiabrera. Torino, Tommaso Vaccarino, 1874. Lo scrupoloso Bertolotto (v. la sua Nota al n. 80, eh’ è pur 1’ ultimo) dal quale è tolta la notizia di questa stampa, dimentica di ricordarne il formato. Solo aggiunge che insieme al sonetto e alla canzone si leggono altre liriche inedite di Felice Romani e Costantino Nigra. 196. — Il Baretti, giornale scolastico letterario ecc. anno Vili, η. 66-6η. Torino, tipogr. Alessandro Fina, 1876. Vi si leggono alcuni versi del Chiabrera, procurati al giornale, scrivono i redattori, dall’ « ottimo signor Conte Cibrario, che ce ne favorì 10 stesso prezioso autografo. Essi sono, a quanto pare, il principio di qualche Idilio, o Egloga o altro simile componimento, il quale ignoriamo se sia continuato. Il foglio su cui sono scritti, diviso evidentemente dalla sua metà, fa supporre che altre strofe e altri versi dovessero tener dietro a questo che oggi, dopo tre secoli dacché furono scritti, abbiamo la fortuna di esser noi i primi a pubblicare. Che siano del Chiabrera si pare tosto a chiunque abbia conoscenza del modo di poetare del Pindaro Sa-novese; per noi, che abbiamo l’autografo sott’occhi, avvi una prova di più , ed è la scrittura affatto conforme a quelle che si conoscono del Poeta ». Ed io dichiaro d’associarmi pienamente al giudizio del Perosino. 11 primo verso di quest’ egloga incompiuta, i cui personaggi sono Meleagro e Tideo, comincia : Noi che nelle selvose aspre foreste. GIORNALE LIGUSTICO 469 197. — Lirici / del / secolo XVII / con cenni biografici / volume unico / edizione stereotipa. / Milano / Edoardo Sonzogno, editore /Via Pasquirolo — 14./1878. In 8.° In questo volume, insieme alle liriche del Chiabrera, se ne leggono altre del Testi, del Redi, del Maggi, del De Lemene, del Menzini, del Rosa, del Guidi, di Giambattista Zappi e di Faustina Maratti-Zappi. Quelle del Chiabrera aprono il volume. Quest’ edizione, che non è detto per cura di chi sia uscita alla luce, è così divulgata, che stimo superfluo dare i capoversi delle rime. Noterò per altro che nella notizia biografica del Chiabrera è errato il giorno di nascita del Poeta, e l’anno della morte. Inoltre, e nell’ errore incorse anche il Tiraboschi, l’Italia liberata e la Gotiade si nominano come fossero due poemi diversi, mentre in realtà non sono che uno solo, con vario titolo nelle varie edizioni. 198. — Memorie dell’ Istituto veneto di sciente, lettere ed arti, volume ventesimo primo. Venezia, tip. Antonelli, 1879. A pag. 739 vi si legge 1’ epitaffio dettato dal Chiabrera in morte di Francesco Rasi. 199. — Caffaro, giornale politico quotidiano, maggio 188}. Genova, tipogr. del Caffaro. Giovanni Scriba (L. T. Belgrano) vi ha pubblicato una supplica indirizzata dal Chiabrera al Serenissimo Senato nel 1626 per ottenere che la sua villa di Legino e con essa la « piccola e cattiva casa » che vi aveva non fosse data per alloggiamento a soldatesche. La supplica, tratta dalle carte senatorie dell’ Archivio genovese di Stato, non ha data ; ma siccome la risposta del Senato, compiacente al desiderio del Poeta, è in data del-l’8 giugno 1626, così è ragionevole ritenere che sia stata presentata nel maggio dello stesso anno. 200. — Liguria Occidentale, giornale politico quotidiano, maggio 188}. Savona, tipogr. Andrea Ricci. Vi è riprodotta la supplica del Chiabrera al Senato, pubblicata già da Giovanni Scriba nel Caffaro. 201. — Giornale Ligustico di archeologia, storia e letteratura ecc. Anno XIII, fase. 1II-IV-V. Genova, Sordo-muti, 1886. 470 GIORNALE LIGUSTICO Il eh. prof. Neri vi ha pubblicato due avvertenze poste dal Chiabrera nella guardia delle edizioni di Isocrate e Demostene, pubblicate a Basilea nel 1582; e alcuni frammenti di lettere a Roberto Titi del 27 dicembre 1594 e 18 marzo 1595. 202. — Giornale storico della letteratura italiana, fondato e diretto da Arturo Graf, Francesco Novati, Rodolfo Renier. Vol. VII, fase. 21. Torino, Loescher, 1886. Lo stesso prof. Neri vi ha pubblicato una serie di lettere inedite del Chiabrera al card. Ferdinando Gonzaga, al principe Francesco Gonzaga, ad Alessandro Striggio e al consigliere ducale Iberti; Queste lettere, che formano argomento d’una pregiata memoria Gabriello Chiabrera e la corte di Mantova, furono tratte dall’archivio Gonzaga dal prof Severino Ferrari, da Antonino Bertolotti e da Stefano Davari. Comprendono gli anni tra il 1608 e il 1621. In questo stesso fascicolo si leggono pure un coro ed alcuni versi della Galatea, favola marittima , attribuita dal Neri al Chiabrera con buone ragioni. 203. — La Liguria Occidentale, giornale quotidiano, Savona, tip. Ricci. 1886. Vi ho pubblicato nel n. 247 alcune iscrizioni latine dettate dal Chiabrera per l’arrivo a Savona, nel luglio del 1585, dell’infanta Isabella e di Carlo Emanuele I, reduci dalla Spagna. Erano già state pubblicate per vero dal Monti nel suo Compendio historico citato più innanzi, ma senza dirne 1’ autore. Io le ho attribuite al Chiabrera, appoggiato ad un coscienzioso annalista savonese, Bernardo Pescetto. Inoltre vi ho pubblicato un distico bilingue che si legge al sommo della torre Leon Pancaldo a Savona, nel lato che guarda il porto ; ed un’ iscrizione latina in onore di s. Lucia che si legge sulla facciata della chiesuola dedicata alla medesima, accanto alla quale il Poeta avea costrutto, sì com’ è noto , la sua Siracusa. Queste due iscrizioni sono dalla costante tradizione attribuite al Chiabrera. E finalmente nel numero 250, ho inserito un’ode indirizzata dal Chiabrera a Carlo Giuseppe Orrigone , che comincia : Riderebbero aspersi, sconosciuta a tutti i raccoglitori delle opere del Poeta, della quale le prime due strofe aveva stampate l’Aprosio nella sua Bibliotheca (Bologna, 1673) : e clle s' legge tutta intera in fine alle Poesie eroiche dello stesso Orrigone, edite in Genova pel Pavoni nel 1634. GIORNALE LIGUSTICO 47 1 V A R I E’T A Giuseppe Buonaparte in cerca di nobiltà. Prima che la fortuna porgesse modo a questa famiglia assai modesta di levarsi dal comune, e salire ai più alti gradi de5 troni europei, nessuno aveva in animo d’indagarne Γ origine , ricercarne i fasti e la nobiltà. Si sapeva per tradizione che s’era condotta in Ajaccio dall’Italia, e più precisamente da una piccola città della Liguria, da Sarzana, dove per lungo tempo avevano dimorato i suoi antenati. Ma l’amicizia di Carlo Buonaparte con Borromeo Landinelli sarzanese, tenente in Corsica al servizio della Repubblica di Genova, e il ricordo da lui fatto, come accade, della comune patria originaria, cosa ben nota al Landinelli, perchè consegnata da un de’ suoi agnati in una storia paesana lasciata manoscritta (i), mosse vaghezza delle prime ricerche; le quali, incominciate dal canonico Torriani, sollecito studioso delle patrie memorie, furono in seguito riprese con maggior fortuna da Domenico Maria Bernucci, al quale si devono le migliori e più esatte notizie intorno a sì fatto argomento, quantunque il suo lavoro rimasto inedito, saccheggiato dal Gerini e da parecchi altri, non sortisse consolazione di grata ricordanza (2). (1) Traltati della storia di Luni e Sarzana del canonico Ippolito Landinelli, Ms. (2) Due sono le redazioni della memoria del Bernucci, 1’ una in forma di dissertazione con il corredo di documenti, 1’ altra più breve, quantunque sostanzialmente la stessa, in forma di lettera diretta a Cesare Remedi. Ho sotto gli occhi 1’ una e 1’ altra. Il Gerini se ne giovò senza citarlo nelle Memorie storiche d’illustri scrittori e di uomini insigni dell’ antica e moderna Lunigiana; Massa, Frediani, 1829, I, 68 e segg. Il Passerini, che 472 GIORNALE LIGUSTICO Senonchè, avvenuta inopinatamente la morte del padre, quando Napoleone già era innanzi nella via degli studi, Giuseppe, finite le classi del ginnasio ad Autun, riluttante a vestire gli abiti talari, desideroso invece di maneggiare la spada, fu costretto a ricondursi in Corsica a fine di provvedere alle non liete condizioni di sua famiglia, e quivi s’ adoperò per veder modo acconcio e sollecito di trovare un impiego (i). Ma non gli riuscì secondo il desiderio; onde dopo alcun tempo, migliorate le faccende domestiche, deliberò di recarsi a Pisa con Γ intendimento di procacciarsi una laurea, pensando forse che titolo sì fatto gli avrebbe reso quindi più agevole il sostenere un ufficio e il procurarselo. Il giovane « doux, timide, et très aimant », sì come lo dipingeva il suo maestro, e nel quale non aveva riconosciuto nessun germe « d’ambition » , adesso incominciava a cambiar natura, e forse « rêvait dèja les grandeurs » (2); il fatto stesso di voler acquistare un titolo accademico senza aver percorso regolarmente la via degli studi, mostra già in lui una certa audacia. Narra nelle sue memorie a questo proposito che nel 1787 si ridusse a Pisa, e quivi, dopo aver frequentato le scuole di giurisprudenza, ottenne la laurea (3). Ma non risulta in vero ch’egli fosse mai inscritto all’Università in qualità di studente; ben si rileva invece da un atto del 22 aprile 1788 eh’ ei comparve personalmente innanzi al cancelliere, e affermò con giuramento di aver « fatti gli studi in utroque jure », onde porse « reverente vide la lettera al Remedi senza nome, la credette opera del Gerini (Arch. Stor. Ita!., Nuova ser., vol. Ili, par. 2.’ pag. 32 in nota). L’albero genealogico a corredo dello scritto del Bernucci fu pubblicato recentemente dall’Jung, Bonaparte et son temps, Paris, Charpentier, I, 300. (1) Jung, Op. cit. vol. I, cap. VI e VII. (2) Jung, Op. cit. I, pag. 71, 158. (3) Mémoires du Roi Joseph, Paris, Perrotier, 1855, I, 34 e segg. GIORNALE LIGUSTICO 473 istanza per essere ammesso, secondo gli ordini, come forestiero, avanti il Collegio legale, e successivamente prendere la laurea », ed « essere promosso al dottorato nelle forme solite e consuete, per godere di tutti i previlegi e preminenze accordate a simili dottori di detta Università ». Accolta favorevolmente l’istanza, egli fu addottorato « in utroque jure » il 24 agosto, ed ebbe la laurea dall’avvocato Vannucchi (1). Era già qualche cosa, non tutto però quello che desiderava ; egli mirava più in alto. Ricordevole di quanto aveva inteso in famiglia, a proposito dell’origine di sua casata, e ben sapendo come in grazia d’un titolo nobiliare fosse stato ammesso il fratello Napoleone alla scuola reale e la sorella Marianna nel collegio di Saint-Cyr, ebbe vaghezza di essere insignito d’una onorificenza, alla quale dava diritto la nobiltà originaria toscana, e sui primi del 1789 porse domanda al Granduca affinchè gli concedesse di vestir Γ abito dei cavalieri di Santo Stefano. E poiché nella domanda (riferita ultimamente disordinata e non conforme all’originale dall’Jung sotto 1’ anno 1786 con manifesto errore (2)) aveva pur affermato la sua derivazione da antica famiglia nobile toscana, e più precisamente fiorentina, non ignorava che ad ottenere il suo intento sarebbe pur stato necessario porgere le prove di sì fatta genealogia onde rifacendosi al dato certo dell’ emigrazione dei Buonaparte da Sarzana in Corsica, volle raccogliere tutte le memorie che in quella città si potesseso trovare a suo uopo. Si condusse dunque in Sarzana, dove tuttavia abitava il Landinelli amico di famiglia, e da lui ebbe i primi documenti, ma non erano tutti quelli veramente da lui desiderati, e perciò cono- (1) Arch. dell’Università di Pisa, Libro dei Dottorati dai 1758 al 1805, N. 1783. R. Arch. di Pisa, Libro dui Dottorati del 1788 e 17S9, atto del cancelliere 22 aprile 1788. (2) Jung, Op. cit., I, 158. L’aveva già pubblicata il Gerini. 474 GIORNALE LIGUSTICO sciuto per mezzo del Landinelli il notaro Vivaldi, custode del— l’archivio, lo incaricò delle ricerche (i). Di qui una corrispondenza assai curiosa, della quale ci rimangono undici lettere di Giuseppe (2). Che cosa desiderava trovare ? Lo dice egli stesso (trascrivo come sta): un « documento dal quale si possa far costare che la famiglia Buonaparte di Sarzana tiri la sua origine da Firenze, come è certissimo avendo io auto fra li mani documenti che lo provavano infallibilmente, ma delli quali sono privo. Le ricerche fin ora fatte aveono per iscopo principale questa scoperta, la quale non dovrebbe essere lontana , poiché la emigrazione da Firenze si operò nella persona del figlio di un Gioanni, il quale Gioanni vivea in quella Città nel 1203, quindi questo Buonaparte stipite nel albero mandatomi dovrebbe essere questo figlio di Gioanni di Firenze. Quest’ ultima ricerca è il mio scopo principale, e perciò sarebbe sufficiente un atto che chiamasse il Gioanni di Buonaparte di Firenze o pure di St. Miniato, cornine padre del Giacobino o del primo abitato in Sarzana ». Gli altri documenti per mezzo dei quali si veniva a provare la discendenza sarzanese, senza risalire a Firenze, non gli giovavano gran fatto, e non erano ormai per lui « che 1’ ogetto di una sterile curiosità » , alla quale non si sentiva disposto far il sacrificio delle centocinquanta lire che si richiedevano per fornirglieli. Poiché bisogna sapere come il Vivaldi, incapace di condurre a pratico risultato le indagini nelle antiche scritture, s’era rivolto al Bernucci, il quale già per suo studio, come amantissimo delle memorie paesane, aveva raccolto buona messe di notizie e di documenti; ed egli di buon grado gli aveva (1) Si rileva da informazioni che dà il Bernucci in fine alla prima redazione. (2) Anche questi autografi mi stanno dinnanzi. GIORNALE LIGUSTICO 475 comunicato liberalmente ogni cosa, senza sapere però per chi dovessero servire, e senza la menoma intenzione di lucro. Ma il notaro, riferendosi sempre all’incognito ricercatore, s era proposto di trarne profitto per sè, e stava tirando e mercanteggiando sul prezzo; tanto che Giuseppe finiva con offrirgli « il prezzo di cento lire » genovesi per « li documenti giustificativi le quattro generazioni ultime, cioè da Gioanni a Gabriele.... e quelli riguardanti le quattro altre generazioni superiori » , che però dichiarava prendere « per pura curiosità Senonchè gli straordinari avvenimenti della Francia avevano prodotto anche in Corsica un grande fermento, onde a Giuseppe « convenne partire precipitosamente a norma d’una lettera » ricevuta dalla sua patria. Il Vivaldi, non vedendo risposta a parecchie sue lettere, si determinò a ricorrere con una supplica al Granduca, nella quale affermata P incombenza avuta dal Buonaparte, « che si disse di Pisa » , delle ricerche, ricordate le fatiche sue e d’ altri intorno a ciò e le relazioni frequenti communicate a Giuseppe stesso in Pisa, si lagnava perche « arrivati al segno di fissare un quantitativo dovuto » per il lavoro eseguito, s’era « veduto abbandonato » e privo di riscontri, di guisa che riteneva « deluse le di lui giuste speranze » ; se ne rimetteva perciò alla giustizia del principe, affinchè in qualche guisa gli fosse resa ragione (i). Ma il Buonaparte non aveva dimenticata la cosa, e da Ajaccio scriveva al Vivaldi giustificando il ritardo nel rispondere, e inviandogli le cento lire per i desiderati documenti, promettendo altrettanto, sol che si trovasse « il minimo atto, instrumento, per il quale costi che qualche d’uno de’ Buonaparte di Sarzana era figlio di un Giovanni o Giacobo, o Corrado (i) È in .copia ira le carte del Bernucci. GIORNALE LIGUSTICO di Firenze, o semplicemente che ne discendeva ». È curioso : precisamente dieci anni innanzi Carlo Buonaparte (e si firmava con un de, come appunto Giuseppe nelle citate lettere) presentava a Hozier de Sérigny le prove della nobiltà di sua famiglia , e fra esse, secondo si legge in un inventario di sua mano, « un acte de reconnaissance de la famille Buonaparte de Toscane du 28 juin 1759 qui jouit du Patri^iat, et par conséquent de la plus grande noblesse, comrriil est constaté par un extrait des lettres de noblesse du 18 niay 1757 délivré par le grand duc de Toscane, plus de lettres patentes de l’archevêque de Pise en Toscane qui accordent au dit Charles Buonaparte l’exercice du titre de noble et de patrice, du 30 novembre 1769 » (0· doveva bastare, mi sembra, la produzione di questi documenti per dar le prove ricercate da Giuseppe della discendenza fiorentina, poiché è supponibile che il Granduca nel 1757 e l’arcivescovo nel 1769 non a* vranno concesso patenti di nobiltà, senza la sicurezza della derivazione, salvo che non si trattasse di un attestato generico, per affermare che in Toscana vi fu una famiglia Buonaparte ascritta al patriziato. Le quali cose ci è tolto di verificare, perchè all’ Archivio Nazionale di Parigi esiste si 1 inventario citato, ma non le carte ivi descritte, e già non v’erano più nel 1859 quando ne fece ricerca Federico De Stefani, che dice essere state « rendus à la famille après que M. de Sèrigny en eut reconnu la validité » (2); nè si sa che codesti documenti siano stati rinvenuti per altra guisa in archivi pubblici o privati. Del resto la derivazione fiorentina del ramo di Sarzana, venne indiscutibilmente provata più tardi dal Passerini, il quale dimostrò per conseguenza che la famiglia Buonaparte discendeva dalla vetusta nobilissima (1) Jung, Op. cit., I, 298. (2) Sur les origines des Bonaparte, Turin, Bocca, 1859, pag. 13. GIORNALE LIGUSTICO 477 casata dei Cadolingi (i); e questo, sia omaggio al vero, aveva intravveduto fin dal 1812 1’ erudito archivista Filippo Brunetti. Infatti richiedendo per mezzo d’ un amicò al Bernucci la nota dei documenti da lui raccolti, coll’ intento « di combinarli con altri più antichi » esistenti negli archivi fiorentini, soggiungeva: « Non sarebbe difficile che quel Giovanni Buonaparte che sposò Felicita 'meglio Vita) del fu Pasqualino di Serzanello nel 1293, e fu deputato a far la pace co Caira-resi nel 1296, fosse la medesima persona di Giovanni Buonaparte, che per mezzo di suo procuratore prestò mallevadoria per i Ghibellini nel 1280 per la pace stabilita co Guelfi dal Cardinale Latino Legato Apostolico, e che non si sa che ritornasse mai più in Firenze, ed in tal caso il Buonaparte suo padre potrebbe essere la medesima persona di Buonaparte del popolo di San Niccolò, che insieme co’ figli, fu confinato come Ghibellino fuori di Firenze nel 1268, il quale traslocò forse la sua famiglia a Sarzana. Quando si identificassero tali persone, non vi ha dubbio che si verificherebbe la de-scendenza da una delle più illustri famiglie d’Italia, cioè dai Conti di Borgonuovo, signori di più città e castelli in Toscana » (2). E il Brunetti coglieva davvero nel segno. Ma tornando a Giuseppe Buonaparte ed alla sua supplica, donde abbiamo prese le mosse, convien ricordare come egli stesso nelle Mémoires tocchi d’ un suo viaggio a Firenze nel 1787, dove avrebbe avuto udienza dal Granduca « pour obte- (1) Della orìgine della famiglia Bonaparte nell’ Ardi. Stor. liai., Nuova ser., Ili, par. 2.*, pag. 29 e segg. ; IV, par. i.\ pag. 43 e segg. Cf. anche Branchi, Tavole genealogiche della imperiale famiglia Bonaparte nel Piovano Arlotto, Firenze, 1861, anno III, pag. 625. Una genealogia fu pubblicata prima dal Passerini mü1 Appendice alle Letture di Famiglia, Firenze, Cellini, 1859, v> Pag· 741· (2) Lett. autografa fra le carte Bernucci. GIORNALE LIGUSTICO nir » , scrive, « mon admission dans l’ordre de Saint-Etienne» , riportandone « un rescrit favorable — Si ita est, ita fiat — »; il quale rescritto, seguita a dire, « il voulut bien le remettre lui-même en ma présence au grand chancelier de l’ordre, le commendeur Inghirami, avec la seule condition que celui de ma famille qui entrerait dans son ordre s’ établirait en Toscane ». Dopo di che afferma d’essersi restituito ad Ajaccio nel giugno del 1788. La memoria lo ingannava. Poiché la domanda per il titolo di cavaliere egli la presentò ne’ primi mesi del 1789, e dalle sue lettere risulta che fece una gita a Firenze nel giugno; il rescritto poi porta la data del 10 settembre, ed è di questo tenore: « Si ricevino dal Supplicante le prove di essere Toscano d’origine, e si riproponga 1’ affare » ; ben lontano dall'essere cosi risolutivo, secondo egli racconta. La cosa rimase a questo punto, chè gli avvenimenti politici a ben altri pensieri davano luogo, e niuno poteva mai più immaginare che il laureato di Pisa, e il supplice chieditore d’ordini cavallereschi avrebbe cinto corona di re, e fattosi egli stesso dispensiere d’ onorificenze. A. N. SPIGOLATURE Articoli storici e letterari nei gionali politici liguri — Caffaro. — Le sagre (Giov. Scriba), n. 213 — Cristoforo Colombo poeta (·), 11. 220 — La presa di Costantinopoli nel 145$ (»), n. 227 — Gli americanisti (»), n. 234. — Genova eia Bulgaria (»), n. 2μ — La liberazione di Buda (»), n. 248 — Castelli d'Oriente (»), n. 255 — Bachtar, Matrega e Russia (»), 11. 262 — Coronata (>), 11. 269 — Funebri di Paolo Battisia Calvi (»), n. 276 — 1 Signori di Chantilly a Genova (»), 11. 283 — Sepolcro di un medico genovese in Costantinopoli (·), n. 290 — Un ammiraglio di Castiglia (»), n. 297 — Il viaggio di Augusto fai (»), 11. 304. — Kertch ο Vosporo (»), n. 311. Il Cittadino. — Le famiglie liguri (L. A. C.), n. 2’2, 213, 214, 216, 218, 220, 223, 224, 226, 228, 235, 257, 258, 259, 261, 264, 265, 275, 278, 279, 281, 282, 283, 285, 286, 287, 290, 291, 303, 304. — Genova e Barcellona (L. A. C.ì, n. 236 — Cimiteri (L. A. C.), 11. 305 — Rii funerari di Roma antica (Orobius), n. 305. La Liguria Occidentale (Savona;. — La casa e la piana di Colombo — Le pretensioni di Albissola e Piacenza (Ottavio Varaido), n. 183 — G. Chiabrera e Cristoforo Colombo (O. Varaido), n. 184 — Bibliografia delle opere a stampa di G. Chiabrera, Prefazione (0. Varaido), n. 204 — L’Infante Isabella e Carlo Emanuele I a STuona (0. Varaido), n. 233, 247, 248. — Una poesia sconosciuta di G. Chiabrera (0. Varaido), n. 250. INDICE DEL VOLUME DOCUMENTI ILLUSTRATI. Le querele di Genova a Gian Galeazzo Visconti (F. Novati). Pag. 401 MEMORIE ORIGINALI. Alcune osservazioni a proposito del « Lessico genovese amico » di Giovanni Flechia (E. G. Parodi) » 3 Illustrazione storica di alcuni sigilli antichi della Lunigiana (E. Branchi).........» 31 Antonio Ivani umanista del secolo XV (C. Braggio) » 37 Della vita e degli scritti di Eugenio Branchi (G. Sforma) . » 56 Maggio (G. Re^asco)........» 81 Studi etruschi (A. Borromei)......» 193 Anticaglie (L. T. Belgrano).......» 206 Esame critico di alcuni documenti riguardanti 1’ origine del culto di N. S. del Soccorso in Genova [M. Remotidini) . » 241 Bibliografia delle opere a stampa di Gabriele Chiabrera (0. Varaìdo)........* » 273,336,414 Il marchese Guglielmo il Vecchio e la sua famiglia secondo gli studi recenti, con appendice sui trovatori genovesi (C. Desimoni).......... 521 VARIETÀ. Il « Massa Mutino » del Contrasto (C. Desimoni) > 73 Ancora di S. Caterina da Siena a Varazze (P.) ...» 75 11 Duca di Mantova a San Pier d’Arena (A, N.) . . » 160 Un privilegio a Bernardo Buontalenti (A. N.) ...» 164 Data di fondazione della chiesa di S. Agostino (L. T. B.). » 167 Lettere di Andrea e di Antonio D’Oria (A. N.) . . » 168 Giovanni Bologna a Genova (A. N.).....» 229 Iscrizione sepolcrale di G. B. Centurione (ΛΓ. Remondim) . » 232 L’origine di Cristoforo Colombo (H. Harrisse) » 289 480 GIORNALE LIGUSTICO Il * Pater noster » dei Corsi in lode del GiafFerri (A. N.) « 298 Un missionario al Chili nel secolo XVII (A. N.) . . » 3°^ Statuti dei Cinturai, Guantari e Borsari di Genova (L. T.B.) » 31? Un’avventura dell’abate Pietro Maria Tosini (A. N.) . » 3®5 Giuseppe Buonaparte in cerca di nobiltà (A. N.). . ■ » 471 SPIGOLATURE E NOTIZIE. Pag. 76, 174, 234, 318, 393, 478. BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO. Emilio Penco. Storia della Letteratura italiana, Pag. 181. — L. A. Michelangeli. Gli inni di Proclo, 185. — Il sacco di Volterra nel 1472 a cura di L. Frati, 186. — G. Rossi. Lo stipite dei Chiabrera di Savona, 189. — C. Desimoni. Il libro del barone Carutti : « Umberto Biancamano », 236. — Henry Harrisse. Grandeur et decadence de la Colombine La Colombine et Clément Marot (C. Desimoni), 237. — M. Lessona. Poesie (N. G. F.), 319. — Dizionario epigrafico di antichità romane di Eltoiede Ruggero, 320. — Rime e lettere inedite di Galeotto del Carretto e lettere d’isabella d’Este Gonzaga a cura di Giovanni Girelli, 400.