R. D E P U TAfl ONE DI S T Ο,ΑΙΑ PATRIA P E R-C'A LIGURIA GIORNALE ■STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA N-Q ir im Anno XV - 1939-XVII Fascicolo I - Gennaio-Marzo GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Direttore: ABTÜRO CODIGNOLA Comitato di redazione : CARLO BORNATE - PIETRO NURRA - VITO A. VITALE GOFFREDO MAMELI In quest’aula il 14 dicembre 1847, mentre Paria era corsa da fremiti e presagi di guerra imminente, cinquecento studenti dell’Ate-neo, dopo aver percorso, militarmente ordinati, le vie cittadine al canto dell’inno allora composto e subito divenuto popolare, si formavano in quadrato e il poeta ventenne che dell’inno era l’autore, avanzatosi verso il Presidente della Deputazione degli Studi, che attendeva circondato da professori e funzionari, gli consegnava, còme a capo degno di custodirlo e conservarlo, questo sacro vessillo, che, non ancora ufficialmente bandiera nazionale, portato in trionfo nelle frequenti dimostrazioni di quei giorni, raccoglieva intorno a sè e simboleggiava le più ansiose aspettazioni e le più luminose speranze. E il Presidente con solenne promessa assicurava che il prezioso deposito sarebbe stato da lui e dai successori conservato come attestazione dei sentimenti che univano tutti i cuori in un unico intento, come pegno della promessa dei giovani studenti di votarsi alle fortune e all’avvenire della patria. La promessa è stata scrupolosamente mantenuta; questo santo simbolo della nazione, trasmesso con gelosa cura dai suoi predecessori, è oggi religiosamente custodito nell’ufficio del Magnifico Rettore, e agli studènti che da un secolo si sono susseguiti in questo Ateneo è apparso, nei momenti più gravi e nelle ore più solenni della patria, segno di raccolta e monito incitatore di una tradizione che è insieme un imperioso dovere. Qui pertanto dove fu il quartier generale della prima insurrezione antistraniera che Goffredo Mameli cantò come premessa e promessa di sicura risurrezione; qui ove nelle sue mani sventolò prima il santo tricolore, qui era giusto e doveroso che in queste liguri celebrazioni Goffredo Mameli fosse ricordato — anche se ben più alta e diversa 0) Discorso tenuto ali’Aula Magna della R. Università di Genova il 19 ottobre 193S-XVI, tra le celebrazioni liguri. VITO VITALE avrebbe dovuto essere la voce — come rappresentante ideale del generoso e ardente slancio giovanile e della perfetta coerenza tra pensiero e azione, come la più alta ed entusiastica incarnazione del binomio mussoliniano che, fondendo insieme la forza dell’intelletto e della cultura e quella delle armi, scolpisce il compito e il dovere del giovane italiano. Iniziatore del volontarismo universitario che, dalle campagne del risorgimento alla grande guerra, alla conquista imperiale e alla lotta per la civiltà e per la sicurezza mediterranea, è una tradizione costante e una gloria ininterrotta dei nostri Atenei, egli è uno dei più saldi anelli della catena ideale che lega in indissolubile connessione storica e morale, attraverso le diversità contingenti e l’evolversi delle forme politiche e sociali, il Risorgimento al Fascismo, 1 Italia rivolta alla ricerca e alla creazione di se stessa aU’Italia avviata dall’esistenza alla potenza, salita dal piano nazionale al piano imperiale. Tanto più che l’ascensione magnifica si è svolta accompagnata dal ritmo fremente dell'inno che egli non senza motivo chiamò dei guei-rieri e che noi intitoliamo al suo nome, perchè dal giorno in cui egli annunciò all’Italia e al mondo la grande novella-. « Fratelli d Italia. l’Italia s’è desta », da Cintatone e Montanara a Calatafimi a Milazzo al Volturno, dal Carso dagli Altopiani e dal Piave alle ambe africane e sulle piazze d’Italia quando occorse difendere e salvare la vittoria e impedire il ritorno alla barbarie, schiere innumerevoli di giovani hanno accolto l’invito e fatta propria l’offerta che egli formulò col canto e ratificò con l’esempio: « Stringiamo] a coorte siam pronti alla morte— L’Italia chiamò ». Singolare ventura, ma non casuale ventura, che questamente ligure, capace di trascorrere dalle forme più solidamente pratiche della vita agli slanci della pura idealità, abbia espresso dal proprio seno i due più eloquenti simboli della giovinezza italica : il fanciullo generoso e insofferente che interpreta col gesto magnanimo l’anima di un popolo e ne ispira l’azione, il giovane poeta soldato che accende coi versi e infiamma con l’esempio a un eroismo che non misura i pericoli e anela alle supreme dedizioni. Sono i rappresentanti e i simboli di due aspetti e di due momenti della giovinezza italiana ; la loro immagine si estende e dilata dall’aspetto regionale e locale a un significato più largamente e fieramente nazionale come espressione comprensiva e creatrice di quella gioventù generosa ed eroica pronta all’azione e al sacrificio che in loro si è raffigurata e da loro ha preso l’ispirazione e l’esempio. Grande orgoglio, Genovesi, l’aver offerto i simboli a questo nostro splendente fiorire delle forze della giovinezza, speranza e ceitezza della patria e del regime; grande orgoglio l’eroica tradizione di questa Università, orgoglio e tradizione che le giovani generazioni sapranno indubbiamente conservare ed accrescere. ■P GOFFREDO MAMELI Quando Goffredo Mameli apre gli occhi alla luce nel 1827 l’Italia è in uno dei momenti più tristi e oscuri della sua vita; nel pieno di quel decennio di cupo abbattimento succeduto alle prime agitazioni indecise disordinate e parziali del 20 e del 21. Ma il silenzio è soltanto apparente sotto la plumblea cappa oppressiva, come nelle viscere dei suoi vulcani, la nazione cova il fuoco sacro; insonni vestali, alcuni entusiasti lo conservano e lo alimentano tramandando le parole della tradizione e cercando le vie della salvezza. In loro e per loro l’Italia è già nazione perchè ha la volontà di essere nazione ma incerto è ancora il cammino e, nella diversità dei mezzi e dei programmi, oscuro l’orizzonte e non chiara la meta. Tra le contrastanti correnti letterarie filosofiche culturali che sembrano combattersi e mirano in fondo a un unico fine, tra le morbidezze sentimentali e gli sbrigliamenti della fantasia si radica e afferma la convinzione che l’Italia debba trovare in sè sola e nel proprio passato le ragioni della vita avvenire, ricercando nel vero storico le memorie della patria e nel passato il principio e la causa del futuro. E quando nell’ondeggiare delle dottrine e dei programmi si leva una voce che suona come eco di cose inconsciamente pensate e sentite, l’ansia dei giovani dibattuti nel doloroso tumulto spirituale e nel penoso contrasto tipicamente romantico tra l’aspettazione mistica e contemplativa e lo smanioso bisogno di azione, si placa nella fede cieca e nella dedizione assoluta all’apostolo. Al richiamo di quella voce che ripete con inesausta fede la necessità del rinnovamento e ne indica le vie e ne segna le altissime mete, e a un popolo, massime negli strati inferiori, ancora sonnecchiante e indolente, getta il più orgoglioso grido di riscossa assegnandogli il programma e la missione nel nome di Roma eterna, perennemente rinnovantesi, essi, stretti intorno al fratello insegnante ed eccitante, nelle cospirazioni, nelle carceri, nelle imprese disperate, e pur necessarie a scuotere e trascinare e infondere la fede, traducendo il nuovo verbo in azione, ne divengono i confessori ed i martiri. Troppo giovane Goffredo per essere tra loro; ma cresciuto nell’ambiente eroico e romantico delle cospirazioni, colpito nell’accesa fantasia dall’ostinato ripetersi dei coscienti volontari sacrifici, animato dalla parola ardente dell’esule lontano e sempre presente, è cresciuto nella fede e nell’ammirazione del Maestro e se ne è fatto interprete e seguace fedele con l’entusiasmo della giovinezza e l’ardore della passione. Ma non è un dottrinario nè un settario, e in taluni aspetti e in qualche momento della sua opera poetica e politica su quella base intimamente mazziniana si innestano influenze e metodi dell’altra corrente, la moderata e riformista, che, partendo egual- VITO VITALE e dalle premesse della tradizione romana e delle benemerenze ila-in osmi momento della vita civile, arriva per altre vie all’affer- mente liane w inazione del necessario nuovo primato
  • er via», fra i quali figuravano nomi illustri, come quelli del De Sanctis, del Crispi, del Cairoli, del Bargoni, dell'Asproni : e dopo aver deprecato alla politica dell anno precedente, caratterizzata dalla « sventura di una umiliazione che amareggiava gli ani- pa, ingloriosamente per me. Il pensiero dì quel tempo mi rende melanconico assai, e mi fa sentire il bisogno ancor più forte di vivere nei miei rimorsi ». Id.. vol. X, p. 197. (*) /<4., voi. IX. p. 235. G. GARIBALDI K LA QUESTIONE ROMANA mi, malgrado la restituzione di una eletta e cara parte d’Italia », i sottoscrittori di quel manifesto dichiaravano : « Sostenitori della inviolabilità «Iella coscienza umana, desideriamo l’eguaglianza dei culti, ma non il predominio dell’episcopato sotto l'egida del protezionismo governativo, armato di privilegi, minaccioso di peggiori usurpazioni : funesta oligarchia nel duplice aspetto politico e religioso che non sta entro i limiti del proprio ministero, ma invade il campo della podestà civile. Non vogliamo la sicurezza dello Stato in pericolo, mantenendo la servitù dentro la Chiesa, colla tirannia riconosciuta dei suoi magnati a danno del basso clero, fatti arbitri di quelle ricchezze che in loro mano saranno uno strumento di guerra contro il paese, mentre esse con una operazione veramente consentanea a’ suoi diritti devono essere base al riordinamento della finanza e quivi sorgente di prosperità per lo Stato e pei comuni. Insomnia, non vogliamo la spontanea genuflessione colla consegna delle armi al temporale pontificato, che fulmina la civiltà e contende all'Italia la capitale. Il paese al quale s’intima il veto delle discussioni è 111 colpa per l’appoggio morale dato alla sua legale rappresentanza : il diritto di riunione e colpito in Italia perchè non turbi le trattative col Vaticano, da cui muove persistente quel soffio di reazione che dà le vertigini dell'arbitrio a quei ministri che si dichiaravano una volta amici della libertà ». La lotta, che non era solamente nel campo elettorale, era dunque ben definita. Il Ricasoli avrebbe desiderato che il Re avesse lanciato un suo proclama, poiché si riteneva dai più che si fosse tornati ai giorni di Monca 1 ieri o della Convenzione di settembre: ma non si ritenne opportuno di giungere a quel passo decisivo, e allora il Ricasoli dovette limitarsi di inviare una circolare ai prefetti, che fu stesa da Celestino Bianchi sulle tracce dategli dal Ricasoli. e che scontentò Cesare Correnti, il quale minacciò di procurare una nuova crisi ministeriale. Ad aggravare ancor più la situazione politica, giunse a I* irenze « inaspettato a tutti ►>, secondo quanto affermava il Diritto. annunciandone il giorno dopo l’arrivo, Giuseppe Garibaldi. Ma era proprio « inaspettata » quella discesa del Generale dal- 1 isola sua prediletta sul Continente? O non piuttosto una manovra politica del l'opposizione, come può ritenersi quando si pensi al modo con cui si svolse, presente il Duce dei Mille, la campagna elettorale? Parrebbero ammetterlo una lettera che Francesco Crispi, in quei giorni ancora in ottimi rapporti con la direzione del Diritto, inviava a quel periodico, dichiarando esplicitamente essere stato proprio lui a dar notizia che il Generale aveva abbandonato Caprera. Comunque, secondo il suo modo di fare, Garibaldi ruppe gl'indugi e partì. Del MARIO MEN GHINI resto, la sua discesa sul Continente era preveduta e desiderata dal mese precedente. Il 28 gennaio una commissione delegata dal Municipio e dai cittadini di Venezia era partita per Caprera al line di presentare a Garibaldi un indirizzo coperto di diecimila firme, col quale si invitava « a onorare di una sua visita quella illustre città )) (4) ; e il Generale, ricevendola il 29, oltre a promettere a voce di farlo, aveva consegnato al capo della commissione una risposta, recata solennemente al Municipio di Venezia, che decretò fosse « conservata a memoria del fatto nel Museo Civico Correr. ». Se non che, non appena giunto a Firenze, dimostrò che quello non fosse il solo intendimento che lo aveva deciso a lasciare Caprera. Egli infatti, lo stesso giorno del suo arrivo, prese posizione contro il Ministeró, con la seguente dichiarazione, apparsa nel Diritto del 23 febbraio : « Non solamente io aderisco al manifesto dell’opposizione parlamentare con tutta 1’anima, ma spero che la gratitudine del paese non mancherà a quel patriottico documento ». Era quanto bastava perchè il Ricasoli non nutrisse alcun dubbio sul successivo atteggiamento del Generale. Scrivendone al Pasolini il 23 febbraio, e dettando le norme da seguire durante la permanenza di Garibaldi a Venezia, così si esprimeva : « Il Garibaldi è sbucato dal suo nido. Certamente con l’intenzione di fare imbroglio al paese, e senza avvedersi, come al solito, che egli serve ai fini perversi degli imbroglioni che vogliono proseguire ad imporsi alla maggioranza del paese, che sventuratamente non abbonda nè di senso, nè di coraggio civile. Il Governo adempirà il suo dovere con calma e fortezza ; la sua missione è chiara e precisa. Imperterrito, il Governo deve fare che nessuno violi la legge e ponga a rischio l’ordine pubblico. In Italia non vi sono che cittadini, ed il Re col suo Governo ; la legge sopra tutti. Non è d’uopo che io dica a te il contegno che chi rappresenta il Governo deve seguire. Il Garibaldi è un cittadino come un altro; se andranno a salutarlo, a fare dimostrazioni di affetto, vero o non vero che sia, poco importa. Si servano pure. Se si faranno cose che il buon senso è solo autorizzato a giudicare, l’autorità nulla ha da ingerirsene. Guarda e vigila come è suo debito, e buon viaggio. Se poi si escisse dal terreno della moderazione per invadere il terreno della offesa alle leggi, dell’ingiuria al Go\7erno, della minaccia alla libertà e alla tranquillità dei cittadini, l’autorità e la legge debbono mostrasi quali esse sono, cioè la tutela della ragione pubblica. L’autorità rappresenta oggi il Re, e la Nazione ; essa sta sopra tutto e sopra tutti, e parla a nome di tutti, perchè parla a nome della legge.... Tu non scenderai spero dal tuo seggio di rappresentante del Re e del Governo, e non andrai a fare ossequio a Garibaldi, (4) L’indirizzo, che aveva la data del 16 novembre 1866, fu pubblicato nel Diritto del 31 gennaio 18G7. G. GARIBALDI E LA QUESTIONE ROMANA 23 poiché l’autorità non può mettersi in linea di privato cittadino. Se Garibaldi non offende l’autorità nelle sue parole, col suo contegno, tu potrai, se ti corre l’occasione di dare feste, mandargli un biglietto d’invito, ma non credo tu debba andare oltre.... Con Garibaldi non bisogna mostrarsi timidi, nè ossequiosi, ma piuttosto schietti e risoluti » (5). Non era veramente una lusinghiera presentazione di Garibaldi a Venezia. A renderla ancor più ostile da parte del Governo, il Diritto del 27 febbraio dava a luce un manifesto di cinque giorni prima, con cui Garibaldi tracciava agli elettori una specie di programma politico, nel quale s’affermava che « in Italia bisognava assicurare la libertà minacciata e messa in pericolo dal clericalismo e dai suoi complici », e che quindi « gli sforzi di tutti gli uomini liberi dovevano essere rivolti a questo supremo scopo»: parole, come si vedrà in appresso, che egli ripetè lo stesso giorno in cui erano pubblicate nel Diritto, indirizzandole ai Veneziani pigliati in piazza San Marco, e anche altrove. Era bastato questo perchè il Ricasoli « l’antico ghibellino », come lo chiamava il Diritto, scrivesse il 28 febbraio irosamente a Celestino Bianchi che « dopo il grido del Garibaldi contro i preti e i loro complici », la Nazione·, organo officioso del Governo, non poteva tacere, e anzi doveva avere un articolo « che dovesse parere, più che ispirato, dettato dal Governo stesso », che quello di Garibaldi era « grido di barbari », era « grido di discordia interna », era « grido di insensato e d’uomo debole », era « grido di sangue » ; e pregava il suo fido segretario di « trovar modo che quell’articolo fosse fatto e pubblicato » il giorno dopo (5 bis). Mario Menghini (continua) (5) B. Ricasoli, Lettere e documenti, vol. IX, pp. 279-2S0. (5 bis) Id., vol. IX, p. 300. LA “VIA ÆMILIA „ DI SCAURO Si presume che sia stato Aurelio Cotta, censore nel 241 colui che legò il suo nome all’arteria litoranea tirrena che da Roma conduceva alle Gallie. Ma in un primo tempo questa via, la quale usciva da Roma presso Castel Sant’Angelo (Pons Aurelius) e raggiungeva Alsium (Palo) sulla costa, non si spinse più in là di Cosa etnisca, colonia romana fin dai 273 a. C. Questo primo tronco, da Roma a Cosa, rappresentò il primo balzo verso nord della strada destinata un giorno ad allacciare l’Urbe alle Gallie. Nel tratto urbano esisteva anche un’altra via detta « Aurelia vetus » che aveva inizio dal luogo ove sorge ora Porta S. Pancrazio sul Gianicolo e si riuniva all’altra presso la Torretta Troili nella Val Canuta (1). Ma Cosa non fu che una tappa. Quando Roma volge le sue legioni alla conquista di Pisa, ecco che l’Aurelia procede quasi di pari passo coll’avanzata degli eserciti e pone la sua nuova stazione terminale ai « Vada Volaterrana », nei pressi della « Caecina » romana. Tale è l’ipotesi del Miller (Itineraria romana p. 233) accettata anche dal Lam-boglia (2). Però «Turrita» o ((Triturrita» che sorgeva presso Fattuale cimitero di Livorno potrebbe essere tenuta in considerazione quale eventuale stazione terminale del tronco uscente da Cosa, anche in rapporto alle distanze itinerarie (3). Comunque resta assodato il fatto che su questa stazione terminale, nel 109 a. C. o giù di lì, s’innestò il nuovo tronco stradale che con· duceva a Pisa e poi volgeva a Luni : indi per i Sabazi portava a Tortona. Di tale nuova opera, come è noto, fu autore il censore Emilio Scauro. La notizia si rileva da Strabone : il sommo corografo, trattando della Cispadana e dopo aver detto che Emilio Scauro bonificò il piano subappenninico, conducendo un canale navigabile dal Po sino a Parma, aggiunge, quasi per meglio delineare storicamente il personaggio cui accennava (4) :Ουτος δέ ο Σκαϋρος έστίν δ χαι jr)V Αιμιλίαν δδον στρώσας, την διά Πισών καί Αούνης μέχρι Σαβάτων κάντευθ’εν διά Δερ^ονος, ί1) Lugli G., in Enciclop. Treves, Treccani Tuminelli. Ed. Ist. Treccani, vol. V, pag. 365, voce : Aurelia. (2) Lamboglia N., La via Æemilia Scauri, in « Athenaum », Pavia, gennaio- aprile, 1937, pag. 57, nota 4. (3) I «Vada Volaterrana» distano infatti da Pisa Km. 48 pari a circa m. p. 32,4, mentre la «Turrita» dista solo.circa m. p. 15. Senza contare che la romana non batteva il tracciato deU’attuale via, ma si teneva più a monte. (4) Strabone, V., 0. LA « VIA ÆMILIA )) DI SCAURO 25 e cioè, per dirla letteralmente nella traduzione del Sanguineti (/ :· « Hic vero ille Scaurus est qui Emiliani viam stravit, quae per Pisas et Lunam usque ad Sabbatos et inde per Derthonam ». Tale luogo di Strabone, nel secolo scorso suscitò un vero vespaio di dispute. La sua interpretazione controversa· diede modo a dottili ingegni quali POderico, il Repetti, lo Spotorno, il Celesia di polemiz zare a lungo su la possibilità o meno che 1’ Aurelia toccasse Tortona trascurando Genova, senza cioè battere il tracciato di quell’antichis-sima litoranea che da Lerici a Turbia, tenendosi quasi sempre vicina al mare, segue Parco del golfo ligustico. Di questa vivacissima polemica si può aver chiara conoscenza nell’opera del Sanguineti già citata (6). Quest’ultimo con una sagacia ed una logica stringente, ristabilì nella sua vera lezione il luogo straboniano dianzi riportato, dimostrando nel più convincente dei modi che solo una interpretazione era possibile e cioè quella che ammetteva Pesistenza d’una litoranea (l’Emilia di Scauro) fra Pisa e Luni, e i Vadi dei Sabazi e di lì con-giungentesi con Tortona. Le ragioni allora addotte dal Sanguineti parvero così lampanti che nessuno osò più tentare interpretazione diversa dalla sua. Ma ecco che Nino Lamboglia fecondissimo e felice scrittore di cose liguri delPantichità, ha ripreso l’argomento, illuminandolo d’una luce tutta moderna di critica, e dimostrandosi decisamente, per quanto cautamente, sostenitore della vecchia tesi, quella che fu del Celesia e dello Spotorno, per citare i maggiori. Quella tesi cioè che il Sanguineti tanto vigorosamente aveva , affrontato. Dichiaro subito che questo riesame moderno d’una questione per cui s’era già cantato il « requiem » non mi dispiace. Tutt’altro. Ed è perciò che ho voluto esaminare attentamente il saggio del Lamboglia, seguendolo passo passo nella sua analisi critica 'dell’argomento. Il quale, secondo l’idea dell’A. è suscettibile d’una revisione sia dal punto di vista filologico, come da quello storico (7). * « 4 Rifacciamoci quindi al luogo straboniano già citato nel testo. Come ognuno può agevolmente osservare la traduzione del Sanguineti nonché esser fedelissima, è l’unica possibile. Ed eccoci alla prima osservazione del Lamboglia (8). Egli rileva che quel διά a fianco di (6) Sanguineti L., Epigrafia ligure. Atti Soc. Lig. di Storia Patria, voi. Ili, Genova, 1864, pag. 2SS. (6) Anche nel saggio del Lamboglia ricordato dianzi in nota i limiti di quella discussione lontana sono nettamente e chiaramente posti. Mi dispenso quindi dal ripetere cose ornai trite. (7) Lamboglia N. op. cit., pag. 59. E geografico, aggiungerei io. (8) L’autore a pag. 60 avanza pure l’ipotesi che l’inciso κάντεΰθεν διά Δέρθονος possa essere una posteriore aggiunta esplicativa attribuibile così allo stesso Stra- Ut» RENZO BACCINO Λέρί^ονος costringe ail ammettere, a ligor ili logica, che Tortona fosse ima tappa, come Pisa e Limi, non la meta delia via ; in caso con-trario l'inciso apparirebbe contorto ed improprio (9). Questa Osserva/.ione era già stata formulata dal Repetti (10) il quale aveva obbiettato che se l'Autor Greco avesse voluto indicar Dertona come termine della via, a questa città avrebbe applicato il μέχρ: cioè « usqne » non il ò:à ossia « per » che significa transito. Ma è evidente, a una serena disanima, che Strabone non poteva dir diversamente, senza peraltro rendere oscuro il testo. Infatti il hi o «per» esprime l'andamento della via, la quale passava per Tortona, ma non terminava, non si esauriva in questa città. Ê notorio du» a Tortona transitava la Piacenza-Genova o Postumia, aperta, intorno al 14S. Questa via che congiungeva Tortona a Piacenza e formava il tratto d'unione fra l'Emilia di Scauro e quella di Lepido (!1) preesisteva alla via di Scauro, la quale necessariamente in essa doveva innestarsi ed in essa aver prosecuzione per Piacenza, emporio munitissimo, vero caposaldo d’ogni azione militare nelle Gallie. È fuor di dubbio che VEmilia di Scauro ebbe un compito nettamente strategico: nelPinterpretazione del Sanguineti tendente "d affermare l'esistenza d'una Emilia di Scauro con tracciato 1 itordr-neo, questo compito strategico appare ancora più evidente. I due ** emporia » militari di Pisa e Piacenza sono congiunti da una via rivierasca sino ai Yadi dei Sabazi. Questa località terminale è come il vertice del triangolo di cui Pisa e Piacenza sono i vertici di base. In più, la Postumia, arteria legata a Genova ed al suo porto forma un'ottima via di arrochì mento, A mio avviso questo irraggiarsi ili si rade congiungenti saldamente tra di essi i punti nevralgici strategici padanoliguri risponde ad 1111 disegno meditato: quello di poter aver pronti e di poter concentrare rapidamente gli eserciti stanziatiti ne' quartieri d'inverno di Pisa e Piacenza. La via litoranea serviva mirabilmente a questo scopo, sia che la minaccia s'affacciasse da Ovest, sia da Nord. La qual deduzione appare piti plausibile ancora quando si rifletta che l'Emilia di Scauro fu affannosamefite é rapidamente aperta sotto l'incombente minaccia d'invasione dei Teutoni e ilei ('imbri. E i Cimbri battevano proprio alle porte accidentali d'Italia, allorché Mario li sterminò alle Acquae Sextiae, Sicché a mio avviso il luogo straboniano famoso non può inter- Imnc» rotin» ad un suo lettore od editore. Ma la fragilità di ffueste supposizione appare in pieno quando si consideri che nulla assolutamente nulla ci autorizza a tenerla. Allo stesso modo si potrebbe considerare come una glossa Tinter** luogo KtrabnniaRo. <•1 Ιλμιμιογμ N., op. cit., pag. Sii e nota 3. ι»·ι Itermi K.f In \ntoiopia. Firenze, cit. in Sanguineti. Eplgr. lig. •tp, c*#., pag. 285. («) I/Km 11 In di I/epldo fu aperta nel 1S7 a. C. 1 LA <( VIA ÆMILIA DI SCAURO pretarsi che in una sola maniera : quella del Sanguineti. Quel 5:i posto dinanzi a Δέρι)·ονος non ci svia, perchè se è vero che Tortona (*-) era capolinea dell’Emilia di Scauro lo era soltanto pei* il fatto che da Tortona a Piacenza già altra via correva, la Postumia, sulla quale l’Emilia di Scauro appunto s’innestava per correre a 1 emporio piacentino, fulcro d’ogni azione militare nel Nord-Italia, «umbilicus» «Ielle vie cisalpine e transalpine: a quell’emporio— « opere magno munitum et valido firmatum praesidio » (Livio XXI-37). Ma passiamo oltre. 11 Lamboglia, a proposito ancora del luogo straboniano solleva un’altra obbiezione che può riassumersi così: come mai il nostro corografo dopo aver fatto menzione di Pisa e di Luni, tappe vicine l’una all’altra, omette Genova? « Tale silenzio, aggiunge il Lamboglia non può non rendere legittimo il sospetto che per Genova la via Emilia non passasse e invece da Limi, varcato VAppennino, si dirigesse verso Tortona: e che Luni, sebbene vicina a Pisa, sia appunto nominata, perchè ivi era il luogo dove l'Emilia si staccava dalla litoranea ». R evidente che se Strabone avesse fatto menzione di Genova, il nodo della questione cadrebbe di per se. Ma per me è evidente pure che egli ritenesse sufficiente dar l’andammto della via nominando i capilinea* (KI) : da Pisa a Luni, tronco toscano, da Luni ai Yadi dei Sabaz! tronco ligure-litoraneo, dai Vadi a Tortona, tronco ligure montano. Se egli invece avesse voluto accennare a una Luni Tortona avrebbe detto che l’Emilia per Pisa e Luni va fino a Tortona e di qui ai Vadi «lei Saba zi. Λ questo punto della discussione, mi sia lecito porre una domanda che potrebbe definirsi d’indole geografica, e che scaturisce appun to dal nocciolo «Iella questione in esame. Se Strabone avesse voluto indicare, nel contrastato luogo, un andamento appenninico interno alla via di Scauro, ove sarebbe passata (12i Dertbona, militarmente doveva avere mediocre importanza, poiché anche nella mappa itineraria detta del Peutlnger appare accennata come una a ni ansio »
  • er λ ali care le Alpi quello ftio Aiywov ργγιβτβ τφ τι^ι^ηνιχώ .τ^λαγπ (apud. Strab. IV. 0, 12) e dice pure come Strabone ricordi quale prima causa delle guerre romano-liguri, il jiossesso della via che δια rfjc παραλίας conduce v.i dall’Italia ail’Iberia. f: logico quindi dedurre che Scauro si sia servito, almeno in parte di queir antichissima via per il suo nuovo tracciato, anche pensando all’urgenza ed alla necessità immediata di allacciare Pisa alla pianura padana. RENZO BACCINO l'Emilia per valicare il crinale montano e spingersi tino a Tortona? Il Lamboglia non affronta la questione, ma più d’un secolo fa l’aveva affrontata e risolta a modo suo il Repetti (15) il quale aveva determinato il presunto tracciato d’un’Emilia valicante l’Appennino fra Limi e Tortona. Ascoltiamolo : « Per servire allo scopo di Scauro, la via da lui aperta correrebbe naturalmente su queste traccie : Pisa, Luni, Val di Magra, Pontremoli, la Cisa, Monte di Bardone, Fornuovo, Val di Taro, Borgo S. Donnino, Fiorenzuola, sotto Vel-deja, Tortona, gli Stazielli sino ai Sabazì ». Ed ora mettiamoci sotto il naso una buona carta geografica e seguiamo questo itinerario. Non voglio sollevare obbiezioni di massima sino a Borgo S. Donnino : ammettiamo che fin lì potesse spingersi PEmilia. Ma a questo punto del suo viaggio, a rigor di logica avrebbe dovuto trovare il suo capolinea, perché Borgo S. Donnino o altrimenti « Fidentia Julia » romana, era una stazione dell’Emilia di Lepido preesistente all’Emilia di Scauro perché aperta nel lontano 187 a. C. : conseguentemente la nostra via censoria per raggiungere Tortona non avrebbe fatto altro che innestarsi sulla « Arimi-num-Dertliona » della Postumia. Sarebbe infatti assurdo pensare che i Romani (specialmente nel momentoso tempo in cui Scauro aperse la sua via) avessero aperto una strada che si giovasse di due stazioni dell’Emilia di Lepido (Borgo S. Donnino e Fiorenzuola d’Arda) tenendosi da questa indipendente e per giungere in località (Derthona) che da essa via di Lepido era allacciata, tenendo s’intende conto dell’innesto sulla Postumia. Sicché Strabone, supponendo vera l’ipotesi del Repetti, avrebbe dovuto dire che Scauro aperse due vie : una per Pisa e Luni a « Fidentia » (1G) e l’altra da Derthona ai Vadi. Ma il Repetti, non accorgendosi dell’insussistenza del suo ipotetico tracciato, costringe la via di Scauro a camminare di pari passo coll’Emilia di Lepido da Borgo S. Donnino a Fiorenzuola d’Arda, per poi staccarsene ad un certo punto e andare a fare un giretto sotto Velleja (ma dove?) e puntare poi su Tortona, attraversando una successione di vallate parallele da tagliarsi normalmente e quindi di difficilissimo transito, per tralasciare, chissà poi perchè, il comodo itinerario dell’Emilia di Lepido, la quale seppure alquanto più lunga della via.... repettiana, offre ed offriva maggiori comodità e consentiva indubbiamente di giungere a Tortona in tempo più breve. È superfluo aggiungere che di questo presunto tracciato non rimane la benché minima vestigia, sicché l’ipotesi del Repetti deve senz’altro considerarsi insussistente. Resta ancora un’osservazione di non trascurabile valore. Fra Luni e Parma c’era una via, la Clodia che, neanche a farlo opposta, i15) Sanguineti L., Ep. Lig., op. cit., pag. 292. (16) Cit. in Sanguineti L.. Ep. lig., op. cit., pag. 2S6. LA « VIA ÆMILIA » DI SCAURO 29 lino a Fornovo seguiva il tracciato della presunta Emilia del Repetti. Come spiegarsi il fatto che due vie corressero nello stesso itinerario, per poi dividersi, quando ornai la vicinanza dell’Emilia di Lepido (23 km.) poteva consentire di raggiungere ornai comodamente Tortona? È possibile pensare che Scauro abbia compiuto un tale giro vizioso in momenti tanto tragici per l’Italia intera minacciata da una spaventosa invasione?. Sia pure, osserverà a questo punto il Lamboglia, cauto per quanto convinto assertore della tesi d’una Emilia transappenninica nel tratto Luni Tortona, questo itinerario del Repetti può essere errato, ma altri se ne possono dare di più plausibili. Infatti ecco che il nostro illustre studioso ponentino, scova un indizio favorevole « per quanto incerto » alla sua tesi, nel disegno della mappa peutingeria-na. Egli fa notare come a nord di Luni « dopo la non più identificabile stazione di « Boron » (17), il tracciato dell’Aurelia « segna una spezzata che si addentra verso l’interno a cui corrisponde la stazione di « in Alpe pennino ». La linea indicante la strada si arresta a questo punto, mentre alquanto sotto riappare, con direzione normale alla costa la linea che conduce « ad Monilia». Giustissimo : c’è una soluzione di continuità a questo punto nella tavola itineraria. Ma ascoltate che ne deduce il Lamboglia : « La spiegazione che appare più semplice •'e naturale è che nell’originale della tavola fosse indicato lo sdoppiamento delle due vie a nord di Luni verso Genova e verso Tortona e che nella copiatura di essa sia stata tralasciata la prosecuzione di quella interna dall’Alpe Pennino sino a Tortona : la direzione della spezzata superiore è infatti precisamente quella di Tortona ; e il nome stesso della stazione « in Alpe pennino » si adatta assai meglio ad un valico fra due versanti dell’Appen-nino che al passo del Bracco o ad altri in prossimità della costa. L’incertezza in cui ci lascia forzatamente l’esame di quest’unico indizio di una via transappenninica dipartentesi da Luni è però tale da rendere non ingiustificati i dubbi sulla sua esistenza ». Fin qui il Lamboglia. Ecco, francamente a me non pare nè « semplice » nè « naturale » che nell’originale della tavola fosse indicato lo sdoppiamento delle due vie, una per Genoya^e l’altra per Tortona, e che nella copiatura una di queste vie sia stata tralasciata. Ho invece l’impressione che la mappa peutingeriana, fra inevitabili errori toponomastici e di distanze dovuti a innumeri copiature, riporti diligentemente le (17) Strabone conosceva benissimo la «Fidentia» della tribù Pollia, tant’è vero che in altro luogo ne fa menzione qualificandola una « πόλισμα » ossia una piccola città (V. 216). 30 RENZO BACCIN Ο vie militari. D’altra parte non sono incline ad ammettere una omissione così importante basandomi sulla fragilità d’una ipotesi. Aggiungasi che se errore vi fu nel copista che possa accettarsi senza troppo indulgere alla fantasia, fu quello certamente d’aver dimenticato di tracciare il segmento d’unione fra « ad Monilia » ed « in Alpe pennino ». D’accordo che la cosa non si può affermare in maniera recisa, ma ipotesi per ipotesi, mi pare: più ovvio supporre che il copista abbia omesso un segmento del tracciato, che una via intera Î Si noti che, qualora nell’originale della tavola fosse stato indicato lo sdoppiamento delle due vie e il copista l’avesse tralasciato, occorrerebbe supporre che : 1) lo sdoppiamento non avvenisse in Luni, ma da una semplice « mansio » « in Alpe pennino » promossa al rango di capolinea, cosa che mai si verifica in altri luoghi della Tavola ; 2) qualora lo sdoppiamento avvenisse in Limi, il copista avrebbe tralasciato non solo il Tronco « in Alpe pennino »-« Derthona », ma anche quello « ad Monilia-Luni » della litoranea. Si veda come si reggono bene queste due supposizioni Î Ma procediamo. Il fatto che la direzione della spezzata « in Alpe pennino » si diriga verso Derthona non mi pare probatorio per poter far supporre, da solo, resistenza d’una via in tale senso. Ma ancora : quasi tutte le tappe sulla tavola peutingeriana son congiunte fra di esse non da un unico segmento rettilineo, ma da una serie di spezzate. Sicché la direzione di un solo segmento di spezzata non può darci la direzione dell’intera via. Pertanto questa direzione a me pare causale e tutt’altro che precisa (18). Resta invece il fatto abbastanza importante a mio avviso, che Tortona sulla mappa è rappresentata come una semplice stazione di passaggio al pari di « di Libarnum » e di tante altre, e non come stazione capolinea, quali son segnate ad’ esempio « Luni », « Genua », « Vadis Sobates ». E veniamo ora alla stazione « in Alpe pennino » il cui nome al Lamboglia par meglio addattarsi ad un valico fra due versanti del-l'Appennino che al passo del Bracco o ad altri in prossimità della costa. Ma perchè poi? Forse che il toponimo « alpe » suggerisce un accostamento con un valico di dorsale? Vi sono ragioni filologiche, toponomastiche, storiche che autorizzino a tanto? No ; dalla toponomastica anzi balza evidente il contrario. Esaminiamo ancora la mappa del Peutinger sino alle porte d’Italia. Troviamo segnato un altro valico: «in Alpe Maritima » (La Turbia). Ora, neanche a far- lo apposta, l’Alpe Marittima è più vicina assai al mare che non il passo del Bracco e non è neanc-h’essa posta affatto su un crinale, ma su di un contrafforte di monte Agèl : aggiungasi che il valico po- (18) Lamboglia N., op. cit.. pag. 00-67. LA « VIA ÆMILIA » DI SCAURO 31 nentiiio è alto 500 m. s. J. m. mentre quello levantino è m. 613 di altitudine. Eppure ambedue son detti a Alpe » ! $ -X- -K- Ma rifacciamoci un passo indietro e discorriamo ancora un po' di questa Luni-Tortona transappenninica, alla quale finora, non per partito preso, intendiamoci, ma per intima convinzione, non abbiamo accordato diritto di esistenza. Chi scrive ha buona pratica di tutto PAppennino anche il più riposto ed lia potuto a più riprese rendersi conto della difficoltà d’un tale tracciato. Tuttavia, diremmo per scarico di coscienza, l’autore di queste note dopo essersi lusingato d ’a\;er chiaramente dimostrata l’assurdità dell’itinerario proposto dal Repetti che cade nel controsenso di condurre per buon tratto la strada di Scauro sulPEmilia di Lepido per discostarsene ad un certo punto senza alcuna plausibile ragione e senza poter dare a conforto della sua tesi la più piccola prova vuoi nella tradizione, vuoi « in situ», ha voluto porsi questa precisa domanda: quali altri tracciati può aver tenuto questa benedetta via.... fantasma? (19) Diamo uno sguardo alla configurazione morfologica dei luoghi. Il primo valico che si presenta è quello della Cisa. Ma deve essere a priori scartato perchè ivi passava di già una via Romana : la Clodia che congiungeva Luni a Parma. Eppure il Repetti non si peritò di condurvi il suo tracciato ! Tralasciando la Cisa resta il Cento Croci. Ma questo valico porta necessariamente in vai di Taro e quindi a confluire,’ ad un certo punto, sullo stesso itinerario scendente da la Cisa (20). Nessun altro tracciato resta probabile, perchè, chi ha negli occhi la configurazione dell’Appennino, sa che una strada che da Luni volgesse direttamente a Tortona, tralasciando i due valichi summenzionati e non giovandosi della Valle del Taro per scendere nella pianura padana, si troverebbe a dover superare una serie di vallate profondamente incise, valicando incessantemente catene e catene di montagne di altezza assai rilevante (tutte oltre i 1000 metri), affrontando insomma un cumulo di difficoltà tali, da rendere la sua aper- (10) Si potrebbe anche dire, senza tuttavia commettere un errore, che il segmento anziché esser posto in direzione di Tortona, lo è invece di Libarna. (20) Pare che il valico di Centocroci fosse effettivamente superato da una via che la tradizione affermava romana (Vedi: Sanguineti L., Vita del Beato Antonio Maria Gì anelli vescovo di Bobbio, Manetti ed. Torino-Uoma, 1825). A questa strada accenna anche U. Formentini in Concilaboli, pievi e corti della Liguria di Levcvnte in Memorie Acc. Lunig., G. Capellini, 1926, cap. VI). Ne fa pure menzione A. Ferretto: Il distretto di Ghiavari preromano, romano e medioevale, Chiavari, Tip. Colombo, 1028, pag. Sol. Nessuno però di questi autori s’è mai sognato di elevare al rango di via censoria quella modesta arteria di traffici che legava la Riviera alla valle del Taro. 32 RENZO BACCINO tura estremamente difficile. Tant’è vero, che tranne la strada della Se offe ra che ha un raccordo con Busalla (Valle Scrivià), nessun’al-tra strada moderna allaccia il Piemonte con la Liguria di Levante! Ed eccoci alla conclusione. La quale, come il lettore può agevolmente comprendere è nettamente contraria ad un tracciato Luni-Tortona diverso da quello litoraneo. La tesi del Sanguinetti è a mio avviso ancora la più logica e la più convincente. Una sola via esisteva fra Luni e i Vadi e questa batteva le orme di un’altra via antichissima, quella dei Liguri allacciante l’Italia a l’Iberia : via commerciale e di transito, non via militare. Su questo antico tracciato Scauro condusse la sua « Æmilia » da Pisa a Luni fino ai V adi dei Sabazi. Con l’andare degli anni il nome di Aurelia, del tronco cioè Roma-Pisa, si sovrappose a quello di Emilia, dacché la strada di Scauro non è che la naturale prosecuzione dell’Aurelia. Renzo Baccixo UN TIPICO CONFLITTO LIGURE-PIEMONTESE ALL7INDOMANI DELLA RESTAURAZIONE La demolizione della Chiesa di S. Domenico e del convento attiguo avvenuta tra il 1818 ed il 1825 è legato alla sistemazione della piazza omonima sulla quale doveva sorgere il teatro Carlo Felice e la Accademia di Belle Arti. Dell’argomento incidentalmente trattarono tutti gli studiosi ch’ebbero ad occuparsi della storia del nostro Massimo, dall’Alizeri che nelle sue Notizie ricordava, oltre al nome celebre di Carlo Barabino, quello dell’architetto Andrea Tagliafìchi, autore di un progetto del 1799, ad A. Codignola che, in occasione del centenario del teatro, dimostrò gli stretti rapporti intercorrenti fra il primitivo progetto e quello realizzato nel 1828 (r). Scopo della presente ricerca non è perciò di aggiungere qualche cosa di nuovo alle questioni tecniche ed artistiche intrinsecamente connesse con l’origine e la vita del teatro (2), ma piuttosto di illustrare tutto il retroscena politico che accompagnò e spesso ostacolò i lavori di demolizione ; retroscena in cui è dato scorgere un nuovo esempio dello spirito d’incomprensione esistente tra Genova e Torino in quegli anni lontani in cui la nostra città, uscendo da una secolare tradizione d’indipendenza, andava lentamente accostandosi, anche in ispirito, alla capitale sabauda. Protagonista dei fatti che prendiamo a narrare non sarà perciò l’architetto che ideò e diresse i lavori, Carlo Barabino, ma piuttosto il Corpo Decurionale, che, avendo progettato la demolizione della Chiesa, ebbe spesso a difenderne l’esecuzione, ed il modo d’esecuzione, contro le esigenze militari e governative. Fu infatti attraverso un’attività dignitosa ed equilibrata che l’opera dei Sindaci venne rivolta a sostenere gli interessi, e non soltanto quelli artistici, della Città. A norma del progetto governativo, la piazza che sarebbe risultata dalla demolizione, avrebbe dovuto essere in gran parte occu- (x) A. Codignola, Come e da quali. artisti fu ideato per la prima volta il Teatro « Carlo Felice », in « La Grande Genova », marzo 1928, anno Vili. (2) Oltre all’articolo citato di A. Codignola, vedi G. B. Vallebona, Il teatro Carlo Felice. Cronistoria di un secolo (1828-1928), Genova, Coop. Fascista Poligrafici. aprile 192S; G. Monleone, 1 eenfamii del a Carlo Felice» (1828-1928), con un proemio di Corrado Marchi. Genova, Stabil. d’Arti Grafiche Bozzo e Coccarello, 192S ; Ferdinando Resasco, Il teatro « Carlo Felice », in «La Lettura», aprile 192S; Janus, Il teatro Carlo Felice in Genova cent'anni fa, Genova, Editoriale Genovese, 1928. 34 ENRICO GUGLIELMI NO pata da un casermone militare, destinato a tenere a freno i troppo turbolenti genovesi, ed il convento attiguo alla Chiesa, già usato a tal uopo, non avrebbe dovuto essere affatto toccato (;i). Il « casermone » diventò invece il Palazzo delPAccademia, ed il convento cadde dopo lunghe controversie sotto i colpi di piccone per cedere il posto alla mole imponente del « Carlo Felice ». A raggiungere tale fine occorsero tutta la tenacia, Γintelligenza, Pabilità dei Sindaci che furono invero coadiuvati, nei limiti che il suo grado gli concedeva, dal- lo stesso Regio Commissario, il genovese conte Luigi Carbonara. Occorre perciò premettere qualche notizia intorno ai rapporti intercorrenti tra Genova e Torino alPindomani dell’annessione, ed inoltre accennare alla costituzione ed agli interni travagli del Corpo Civico in quegli anni. * * * L’atto del congresso di Vienna che il 12 nov. 1814 aveva unito definitivamente la Liguria agli Stati Sardi, non soltanto aveva posto fine bruscamente alla speranza d’indipendenza suscitata tra i Genovesi dal manifesto di Lord Bentink, ma, imponendo alla nostra città una costituzione politica troppo diversa da quella desiderata, aveva creato un dissidio aperto tra due regioni di opposte tradizioni politiche e sociali. Che se in Piemonte la restaurazione della monarchia sabauda era stata generalmente salutata con simpatia da una popolazione avvezza alla disciplina militare, al predominio della nobiltà, ed alle rigide forme di un’amministrazione burocratica e fiscale, nella città di Genova le forme politiche ed amministrative piemontesi rappresentavano un rigore per lei nuovo. Infatti il governo napoleonico, pur avversato dalla maggior parte dei Genovesi specialmente negli ultimi anni, aveva colpito, in sostanza, soltanto gli interessi materiali della città, soffocandone i traffici col blocco continentale e mettendo a dura prova la pazienza di una popolazione coinvolta in una serie di guerre sostenute per una causa ad essa estranea. Non aveva colpito invece l’amor proprio dei Genovesi, che avevano pur conservato una certa autonomia amministrativa, nè aveva contribuito ad aprire un dissidio tra la nobiltà e la borghesia, in quanto la prima, già cacciata.in esilio dopo la rivoluzione democratica del ’97, era stata riammessa in città a condizioni di perfetta uguaglianza con la seconda (4), e questa si vedeva innalzata a funzioni di comando che mai per l’innanzi aveva potuto raggiungere. L’uguaglianza delle classi sociali, livellate prima dall’eccesso rivoluzionario e poi dall’assolutismo imperiale, pareva or (3) A. Codignola, art. cit. (4) C. Spellanzon, Storia del Risorgimento e deir unità d’Italia, Milano, Rizzoli, 1036, vol. I, pag. 286. UN TIPICO CONFLITTO LIGURE-PIEMONTESE ECC. 35 mai un fatto compiuto : tutti erano uguali cittadini, diversi soltanto per censo. Per l’amministrazione della città il Bonaparte aveva creato nei 1808 un Consiglio Municipale di cento cittadini tra i maggiormente tassati, cui presiedeva un Maire assistito da due Aggiunti, di nomina imperiale (5). Caduto il governo napoleonico nel 1814, dopo il breve periodo di ricostituzione repubblicana, la Liguria era stata unita al Piemonte, ed allora la situazione era cambiata non soltanto per ciò che si riferiva ai rapporti tra la cittadinanza ed il Governo, ma anche per i rapporti delle due classi sociali, che, di nuovo separate, rinnovarono le antiche rivalità. L’articolo 13 delle R.E. Patenti 30 die. 1814 infatti, riproducendo l’articolo 13 delle condizioni fissate dal Congresso di Vienna, stabi li va la formazione di un Corpo di Città diviso in due classi, l’una di 40 nobili, l’altra di 20 cittadini benestanti o esercenti professioni liberali, e di 20 dei principali negozianti, da eleggersi tutti a vita, la prima volta dal Re e in seguito dal corpo medesimo, salva la regia approvazione. Ciascuna classe aveva un Sindaco annuale proposto dal Consiglio generale e nominato dal Re ; quello della seconda classe era alternativamente scelto tra le due parti (6). L’amministrazione era affidata ad un Consiglio generale e ad un Consiglio particolare. Il primo, composto di tutti i membri, o Decurioni, era convocato tre volte all’anno, il 16 di aprile, di agosto e di dicembre. Proponeva i. Consiglieri e i Sindaci da sottoporsi alla regia approvazione, la nomina del Consiglio particolare, la ripartizione degli uffici tra i Consiglieri, l’esame dei bilanci e il controllo delle spese. Per la validità delle deliberazioni era necessaria la presenza dei due terzi dei consiglieri. Alle sedute assisteva, senza voto deliberativo, un Commissario del Re. Il Consiglio minore, che durava in carica un biennio, si occupava dell’ordinaria amministrazione economica, ed era composto dei Snidaci, dei consiglieri eletti a coprire i diversi uffici municipali: provveditori, edili, ragionieri, archivisti, segretario, in tutto 22 persone, più altri 10 Consiglieri senza ufficio speciale, scelti tra le due classi in parti ugnali. Per la validità delle deliberazioni occorrevano 21 presenti, con la partecipazione di un rappresentante del Senato, nominato dal suo presidente, ov’egli non avesse creduto di intervenire in persona. Spettava al Sindaco della prima classe, e solo in caso d'impedimento a quello della seconda, convocare i consigli, rappresentare in (5) V. Vitale. Un documento sulVamviinist ragione comunale e io spirito pubblico a Genova dopo il 181J/, in «La Liguria nel Risorgimento ». Stabil. Tip.-edit. C. Cavanna, Pontremoli, 1925, pag. 78. (6) V. Vitale, op. cit., pag. 82. ENRICO GUGLIELMI NO qualunque occasione il Corpo della Città e presentarne al He le richieste e i desideri (7). Come appai* chiaro, due inconvenienti contribuivano a rendere difficile l'opera del Corpo di Città: la divisione delle classi e l’intervento del Commissario Regio. Da un lato veniva riaperto un dissidio interno che sarebbe stato opportuno piuttosto dimenticare, dall’altro si creava un ambiente di diffidenza e di freddezza in quelle sedute comunali alle quali un regio funzionario partecipava. E poiché simpatia non correva tra la città ed il governo, e vivi erano i sentimenti d'indipendenza tra i Decurioni, accadde fatalmente che le sedute fossero spesso disertate dai membri, sicché difficile fosse raggiungere il numero stabilito per la validità* delle deliberazioni (s). Un altro ostacolo che si venne ben presto manifestando contro la attività dei Consigli, fu la eccessiva autonomia dei diversi uffici, specialmente dei Provveditori e degli Edili, sicché spesso accadeva che questi prendessero iniziative non desiderate o addirittura ignorate dai Consigli stessi. La lentezza e l’inoperosità del Corpo cittadino finì perciò col preoccupare il Governo, il quale, per iniziativa del Conte Balbo, aprì nel 1820 un’inchiesta sulle cause per le quali alle adunanze intervenivano così pochi membri. Condusse l’inchiesta il senatore Giacinto Bordili, Reggente gli Uffici dell’avvocato generale, che, il 7 maggio 1820, inviò un parere molto acuto e dettagliato intorno alla questione. Il parere fu trasmesso confidenzialmente dal Balbo a M. S. Provana, che il 26 maggio, rispose con alcune osservazioni molto eque e largamente comprensive rispetto all’ambiente e allo spirito pubblico genovese (9). Dai due documenti risultano alcune constatazioni rispecchianti dati di fatto che è possibile controllare seguendo Pattività, del Corpo Decurionale in quegli anni. A parte l’osservazione prima contenuta nel documento del Borelli, riguardante il numero troppo grande dei (7) V. Vitale, op. cit., pag. 83. (8) V. Vitale, op. cit., pag. 84. (9) Si conoscevano finora soltanto le osservazioni del Provana, pubblicate da V. Vitale in appendice all’opera citata ed in essa illustrate. Mi venne fatto di trovare nelPArchivio di Stato di Torino il parere del Borelli, che il Vitale aveva attribuito al conte L. Carbonara, Primo Presidente prò tempore del Senato, ed insieme R. Commissario. Il documento, accompagnato da una lettera, è registrato sotto il titolo : Due lettere dell9avvocato generale di Genova in cui si tratta dei motivi per cui alle adunanze del Corpo di città in-tervengono pochissimi membri. (A.S.T., Sezione la, Paesi G. Genova, Mazzo 7, 1820,. n. 17). n confronto fra i due documenti è interessante, e mi riprometto trattarne in un lavoro di prossima pubblicazione. Qui basti aver accennato al fatto che nel 1820 si stimava opportuna, sia a Genova che a, Torino, una riforma degli ordinamenti del Corpo cittadino, a causa dei cattivi risultati di quelli del 1814. UN TIPICO CONFLITTO LIGURE-PIEMONTESE ECC. 37 Decurioni per una città in cui gli eleggibili erano pochi (10), risultano particolarmente interessanti per illustrare l’episodio che narrerò le seguenti constatazioni : la mal celata avversione di parecchi Decurioni per il nuovo stato di cose, per cui, mentre essi non osavano ricusare l’onore della loro elezione, se ne mostravano di fatto malcontenti ; la divisione del Corpo di Città in due classi, e la suddivisione della seconda in due categorie ; i contrasti interni e la eccessiva autonomia dei diversi uffici del Corpo Civico, nonché le gare e lo spirito di parte di molti Decurioni ; la presenza di un Commissario Regio e infine la troppo breve durata in carica dei due sindaci. Queste osservazioni fatte dal Borelli rispondevano alla sua personale esperienza degli ultimi anni, che gli derivava dai suoi rapporti sia col Corpo Civico che con il Commissario Regio, il conte Luigi Carbonara. Appunto accennando ad un progetto di riforma del Corpo cittadino già studiato dal Carbonara, il Borelli accennava nel 1820 al fatto che il conte aveva poi rinunziato al suo lavoro perchè disgustato per Vaffare di 8. Domenico, che gli aveva procurato qualche noia non meritata. Quest’affare di S. Domenico di cui fa cenno il Borelli riguarda una questione sorta.nel 1818 tra il Comune e l’autorità militare a proposito della demolizione della Chiesa. La chiesa di S. Domenico che, come si è detto, sorgeva sull’area stessa sulla quale più tardi doveva sorgere, per opera di Carlo Barabino, il teatro Carlo Felice (X1), non era più adibita al culto fin dal tempo dei francesi (1797)ed insieme al vicino convento omonimo, era adoperata per depositi militari. Opera del secolo XIII di stile gotico-pisano, a marmi bianchi e neri, la Chiesa era sorta sulle rovine di una più antica, quella di S. Egidio, ed era stata consacrata a S. Domenico quando egli era passato per Genova, Nel 1131 era stata ampliata, ed aveva raggiunto la massima lunghezza fra tutte le chiese di Genova. A poco a poco si era riempita di oggetti d’arte di pitture e (li affreschi pregevoli, fra i quali uno celebre di Bernardo Strozzi nella volta del coro. Nel 1780 era ancora consacrata al culto, come afferma la Gui- (10) Il numero di SO Decurioni era stato concesso come un privilegio particolare alla * città con l’articolo 13 delle R. Patenti 30 dicembre 1814, ed appariva perciò difficile diminuirlo. Di ciò si rendevano conto sia il Borelli che il Provana. O1) Ricavo le notizie riguardanti questa chiesa dal Dizionario storico-geografico di G. Casalis, Torino, 1840, voi. VII, 1840, e dalla classica opera del Banchero, Descrizione di Genova e del Qenovesato, Genova, Tipografìa Ferrando, 1846, voi. Ili, pag. 278. 38 ENRICO GUGLIELMINO da del Ratti (12) clie è appunto di quell’anno. Spogliata poi d’ogni suo ornamento, essa nel 1818 era adibita a deposito di materiale da costruzione per i forti ed assegnata agli appaltatori del Genio. Doveva tuttavia conservare ancora molti marmi preziosi e degli altari intatti, che furono oggetto di contestazioni e, pare, anche di furti, durante il periodo della sua demolizione. Il progetto di demolire la chiesa per ampliare la piazza ed insie^ me per creare lo spazio adatto a farvi sorgere un grande teatro non era nuovo. Era stato presentato tìn dal 1799 dall’architetto Tagliafichi (13) all’istituto Ligure, ma non era mai stato attuato per mancanza di fondi. Più tardi, sotto il governo Sabaudo, era stato j)resentato dai Sindaci all’approvazione regia, sebbene il primitivo scopo per cui era stato ideato non comparisse nella supplica. Il governo poteva perciò prendere in considerazione l’idea e modificarla secondo i suoi interessi ed i suoi programmi militari. Al Comune interessava soprattutto ottenere il permesso d’iniziare i lavori. Sarebbe stata poi cura, dei Sindaci riuscire ad imporre il loro progetto contro quello governativo. Due scopi erano da raggiungere : uno di decoro cittadino, riguardante la bella piazza che doveva sorgere e gli edilizi che avrebbero dovuto limitarla ; l’altro di difesa contro la pretesa governativa di costruire un « casermone » proprio nel cuore della città. Il 2 luglio 1818 il Corpo Decurionale indirizzava a Sua Maestà, per mezzo del conte Carbonara, una lettera di ringraziamento per l’interesse che il Re dimostrava per Genova. Tra le prove di questo regio interessamento il Corpo segnalava il permesso, inviato con R. Biglietto del 2 giugno, di demolire l’antica chiesa di S. Domenico onde formare una « discreta piazza ad uso di mercato nel vico Lavagna » (I4). La proposta di demolizione era partita dall’Ufficio degli Edili, e il Corpo di Città l’aveva appoggiata presso il Carbonara. Il re tuttavia aveva fatto espresso divieto di toccare il convento, che serviva da caserma, e che d’altra parte costituiva parte integrate della Chiesa (15). Infatti sopra una delle navate appoggiava la caserma, e proprio quella parte di essa ove abitava il Colonnello del Reggimento. Ciò non ignorava il Corpo Decurionale, che si trovava nel dilemma di abbattere l’intera Chiesa, e ciò secondo lo spirito e la lettera del R. Biglietto e secondo l’aspettativa cittadina, o di abbattere due navate soltanto, per rispettare il divieto di demolire il convento. Come appar evidente, il R. Biglietto stesso eira fonte dell’equi- (12) C. G. Ratti, Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura, scultura ed architettura, Genova, 1780. (13) Cfr. la Memoria dell’ALiZERi, citata da A. Codignola nel cit. articolo* (14) Archivio Istituto Mazziniano, Lettere del Municipio (1818-1819). Nelle citazioni mi riferisco sempre alle lettere che sono trascritte in ordine di data nel volume 1818· 1819 e in quello seguente del 1819-1820. (15) A. Codignola, articolo cit. UN TIPICO CONFLITTO LIGURE-PIEMONTESE ECC. 39 voco, poiché, ordinando la demolizione totale, pareva ignorare che essa era impossibile data Pintima unione della chiesa con il convento. Il Corpo civico si trovava perciò nella necessità o di richiedere un ampliamento della concessione sovrana o di fare un lavoro incompleto. A questo partito volle attenersi, come risulta da una nota dei Sindaci al R. Biglietto; il progetto del Comune era dunque un compromesso : contemplava la demolizione di due navate e la costruzione di un porticato al posto della terza, sì da sorreggere Pala del convento in cui il colonnello abitava (16). Il progetto non corrispondeva da un lato al R. Biglietto, dall’altro necessariamente creava dei rapporti fra la città e Pesèrcito che solo uno spirito benevolo di conciliazione avrebbe potuto render buoni. Intanto il R. Commissario Carbonara, il 5 giugno, sollecitava i Sindaci ad iniziare al più presto l’opera, per corrispondere alle premure di S. Maestà, mettendo a profitto « la buona stagione, e l’attività ed intelligenza del nuovo architetto che non a caso era stato scelto nella persona del signor Barabino » (17). Ma poiché la chiesa intera era nelle mani degli appaltatori del Genio, occorreva intanto che costoro sgomberassero. Ora i Sindaci, Giuseppe Grimaldi e Luigi Morro, avrebbero potuto rivolgersi al Governatore Militare, il conte Thaon Di Revel. Essi invece, forti della autorizzazione sovrana, pur tenendo conto delle necessità militari, come si è visto a proposito del progetto, agirono tuttavia indipendentemente del Governatore rivolgendosi soltanto agli appaltatori, ai quali offrirono altri locali e un’indennità per il trasloco. Sostanzialmente, i Sindaci non avrebbero potuto agire in modo più corretto. Formalmente tuttavia essi avevano ostentato una noncuranza che feriva nel vivo il Governatorato. Gli appaltatori presero tempo ; chiesero consiglio alle autorità militari, che molto probabilmente diedero loro risposte atte ad essere diversamente interpretate. Infatti uno soltanto tra gli appaltatori, Tommaso Picasso, accettò le proposte del Comune e consegnò le chiavi di quella parte della Chiesa che era in suo possesso, essendo l’altra metà, divisa da un muro interno, assegnata ad altri appaltatori. Enrico Guglielmino (continua) (16) La nota è riportata dall’art. cit. di A. Codignola. (17) Cfr. A. Codignola, art. cit. PAGrANINIANA L’AMBIENTE MUSICALE GENOVESE NEL SETTECENTO LA MUSICA DA CAMERA L'innegabile indifferenza di esperti e profani per tutto ciò che riguarda la storia della musica in Liguria è in certo modo spiegata da un antico pregiudizio, diffuso, tenace, refrattario, e apparentemente valorizzato da una così detta risultanza storica, accettata senza alcuna indagine. Il fondamento del pregiudizio è sinteticamente definito dal noto verso di Giuseppe Parini : Te il mercante— Musa non ama. Tale aforisma esprime senza dubbio una constatazione antica e attuale, ma limitata e ristretta ; basta rovesciare la proposizione per esserne persuasi. Salvo poche eccezioni, la Poesia e le Arti non amano il mercante, sopratutto perchè questi, distòlto da ingombranti e insistenti preoccupazioni, non può dedicare ad esse una sufficiente attività creativa ; ma il mercante ama, forse col fervore più intenso ed appassionato, la Poesia e le Arti, le quali, appunto in questo amore, hanno spesso trovato il più potente elemento di vita e di progresso. La deduzione è facile ed immediata. ΙΓ popolo ligure, e particolarmente il genovese, essendo per definizione un popolo di mercanti, non fu, nè poteva essere, un popolo di artisti ; ma fu un generoso e munifico amante e ammiratore dell’Arte e degli artisti. Non dovrebbero essere necessarie prove e documentazioni per testimoniare e convalidare la seconda parte della deduzione ; senonchè, quando si specifica e si limita il riferimento alla sola Musica, non ostante il preciso significato della parola greca « liguros », da cui pare sia sbocciata la leggenda armoniosa del Cigno, la diffidenza di esperti e profani si irrigidisce in uno scetticismo riottoso, ostinato e persino beffardo. Qui entra in scena la cosidetta risultanza storica, a cui ho accennato, la quale afferma che nessun musicista genovese, prima di Nicolò Paganini, ha lasciato profonde traccie di sè nella Storia della Musica. Sarei tentato di soggiungere che la risultanza storica ha in questo caso un’intima affinità coll’ignoranza storica, ma credo più utile al mio scopo interpretare in modo più aderente alla realtà l’affermazione di una Storia ancor da abbozzare, quale è appunto la Storia della Musica in Liguria. Elemento principalissimo per mettere in più giusta luce la pretesa assenza di significative personalità artistiche nella Storia musi- PAGANI AN A 41 cale genovese prima di Nicolò Paganini, è appunto Nicolò Paganini, come del resto confermano quegli stessi che, per esaltare il grande violinista, hanno creduto utile negare la nobilissima tradizione musicale della sua città. Un esempio tipico ce lo offre l’immaginosa definizione, che ho già citato altre volte, enunciata da un insigne musicologo francese : « Il fenomeno Paganini è la conseguenza di un capriccioso colpo di vento, che, rapito un atomo di polline in un lussureggiante giardino lontano, lo lia sbadatamente posato sul modesto fiore di un umile arbusto cresciuto sull’arida scogliera ligure, e ne è riuscito così un frutto strano, di sapore asprigno ed inebbriante, quale non si era mai gustato prima nè forse si gusterà mai più ». In quest’immagine è riprodotta la realtà forse più di quanto se 10 credesse l’illustre autore, ed è una realtà ben diversa da quella che egli avrebbe voluto fissare con tratti decisi e precisi. L’umile arbusto doveva pur essere ricco di generosissima linfa, se ha così felicemente assecondata la prodigiosa fecondazione; doveva pur esser stato educato con cura paziente, assidua e remota, se ha messo radici tanto salde e profonde da poter nutrire, sviluppare e portare a maturità così meraviglioso frutto; quindi l’arbusto, per quanto umile e adorno di fiori modesti, è pur esso una precisa testimonianza della diuturna fatica di giardinieri pazienti, confortati dall’assistenza costante di un vasto circolo di ammiratori. Ad ogni modo il lussureggiante giardino lontano, di cui parla l’illustre musicologo, non si trovava certo in terra di Francia, la quale, ancora al tempo di Paganini, continuava ad implorar benigno 11 vento che le portasse musica e musici dall’Italia canora, Liguria compresa. La cosidetta risultanza storica non nega adunque un'attività musicale in Genova, si limita a non classificarla tra le più significative. Quindi, se anche nessun musicista ligure, prima di Nicolò Paganini, ha lasciato profonde traccie di sè nella Storia della Musica, si deve egualmente riconoscere che Genova ha educato anch’essa musicisti geniali, attivi e volitivi, specialmente nel campo degli esecutori. Senza dubbio (piesta particolarità musicale genovese, questo prevalere degli esecutori sui compositori, ha collaborato e non poco al formarsi, diffondersi e radicarsi del pregiudizio e del conseguente scetticismo. La Storia della Musica si preoccupa sopratutto dei compositori, trascurando quasi completamente gli esecutori, la cui arte non lascia traccie controllabili, sebbene abbia sempre portato un decisivo contributo al progredire’dell’arte. Meteore luminose, gli esecutori brillano, abbagliano, lasciano impressioni indelebili soltanto in chi ebbe la fortuna di ammirarli. Per gli altri è come se non fossero apparsi, eliè l’esaltazione entusiastica di chi ne subì il fascino non fa presa sull’animo di chi non ne ebbe i sensi percossi e sconvolti. La loro sorte è simile a quella degli attori, anch’essi stanno ai MARIO PEDEMONTE compositori come gli attori ai poeti, anclie ad essi ben si addicono i versi dello Schiller : Demi scimeli und spurlos geht des*Mimen Kunst die wunderbare an vieni Sinn vortiber, wenn das Gebild des Meissels, der Gesang des Dichters nach Jahrtausend nocli leben Hier stirbt der Zauber mit dem Kiinstler ab, und wie der klang verhallet in dem Ohi*, verrauscht des Augenblicks geschwìnde Schopfung, und ihren Rubili bewabrt Kein dauernd Werk. Ë spontaneo adattare questa constatazione scliilleriana alla vicenda musicale e tradurre e parafrasare così : il canto del compositore vive ancora dopo mill’anni, come l’immagine fissata dallo scalpello, la mirabile arte del l’esecutore si dilegua e vanisce, come il suono che egli ha destato, e nessuna opera duratura ne conserva la fama. Che Genova nei secoli passati abbia educato in prevalenza esecutori eminenti è, per ora, soltanto una mia convinzione, fatta precisa e sicura da piccoli indizi, minuscoli riferimenti, significative concordanze. Una esposizione dettagliata e completa di tutto questo bagaglio, oltre ad essere prematura, riuscirebbe poco persuasiva; preferisco quindi sbrigarmela con un rapido cenno sommario che riassuma e coordini i troppi elementi minimi. Ricordo anzitutto due constatazioni precise: le minuscole citazioni di scrittori forestieri, che nel settecento visitarono Genova, riportate nell'articolo precedente, parlano tutte di esecuzioni, nessuna di composizioni e di autori ; i maestri forestieri, di passaggio, o per qualche tempo ospiti di Genova, vi trovarono sempre esecutori d’eccezione (preciserò in seguito nomi ed episodi), che spesso si portarono con sè per completare o migliorare complessi ed orchestre delle città dove erano diretti, perchè chiamati ad allestirvi l’esecuzione di qualche loro lavoro. Queste due constatazioni sono indubbiamente la conseguenza di una preparazione accurata ed assidua dei singoli e di un’ambiente particolarmente propizio e favorevole. Una visione panoramica della vita musicale genovese nei secoli passati, come ci permettono di ricostruirla le poche notizie che abbiamo, ci presenta una vita intensa, fervida, splendida, ma quasi esclusivamente privata, cioè svoltasi nelle lussuose e impenetrabili sale dei signori (dovrei dire mercanti), dove si badava sopratutto all’eccellenza della esecuzione e si richiedeva una sconfinata varietà di programmi,' che imponeva agli esecutori uno studio costante, vigile e diligente per rendere sempre più scaltrita la tecnica, più vasta e cosciente la cultura. Il mecenatismo musicale genovese ebbe questa particolarità tutta sua. JSon si è limitato ad assistere e valorizzare un solo artista per PAGANINI AN A 43 quanto grande potesse essere o divenire, lia invitato, ospitato, onorato e compensato generosamente chiunque tra i compositori d’ogm paese gli fosse segnalato da una bella fama, dimostrando così un costante interesse per tutto quanto avveniva nella vita musicale europea. Tuttavia, pur essendo generosissimo con tutti gli artisti, ha sempre manifestata una spontanea preferenza per i virtuosi eminenti, cantanti e strumentisti. A costoro Genova ha sempre improvvisata un’accoglienza entusiastica e volle ed ottenne che tornassero spesso e vi si indugiassero a lungo. Ospiti ricercati e graditi di questa 0 quella casa gentilizia, i più insigni virtuosi del tempo parteciparono spesso a quelle audizioni private, che costituirono l’espressione massima dell’attività musicale genovese, e lusingati, inebriati, esaltati da quell’atmosfera trionfale, che il ristretto ed elegantissimo pubblico creava intorno ad essi, concedevano molto di più di quanto era richiesto, affrontando le più ardue difficoltà, miniando con grazia squisita le cose più semplici e tenui. Gli strumentisti del luogo, costituendo il complemento indispensabile ai virtuosi, ebbero modo di avvicinarli, di conoscerli, di ammirarli e di intuire quali ne fossero i segreti della tecnica e della espressività. S’accesero così nell’animo degli esecutori locali le due brucianti fiamme dell’emulazione e della curiosità di più ampie conoscenze, che spinsero 1 più generosi e tenaci verso le più alte vette del virtuosismo. Qualche volta, o pel* naturale tendenza o perchè richiesti o così tanto· per fare, composero anch’essi musiche di vario genere, che la loro esecuzione spigliata riusciva a mettere in buona luce, ma senza pretese, senza illudersi, senza inorgoglire. Fatte pochissime eccezioni, l’ambizione massima dei musicisti genovesi pare sia stata quella di diventare esecutori notevoli, e veramente tutto concorda nel confermarci che i musicisti genovesi del settecento furono esecutori meravigliosi, le cui composizioni, almeno quelle che son giunte sino a noi, non risultano altrettanto meravigliose. Nessuno ci ha tramandato un’eco qualsiasi di tanto entusiasmo fattivo, che particolari circostanze vollero appartato e schivo di pubblicità, tuttavia non lo si può negare. Oe lo conferma, tra l’altro, la tradizione, che non si è conclusa al tempo di Paganini. Lasciamo pure da parte Camillo Sivori, che fu sopratutto un epigono di Paganini, la tradizione continua con i fratelli De Giovanni con Bolognesi, Preve, Gilardini, Bacigalupo, Corsanego, Moresco, La Rosa (e non li ho nominati tutti). Ma più d’ogni altra documentazione ce ne persuade il repertorio che gli esecutori genovesi, anteriori e contemporanei di Nicolò Pa-o-anini, si son formati cercando l’ottimo senza trascurare il buono ed il mediocre. Anche il buono ed il mediocre essi, emuli geniali di interpreti sommi, con cui vissero quasi in continuo contatto, sapevano presentare con garbo disinvolto e collocare con arguta sagacia 1 I MAH IO PEDEMONTE iu*l posto e nel tempo opportuuo, IValtra parte le cronache «lei tempi» < i hanno tromandato molti episodi di virtuosi eminentissimi clie coll esecuzione di umilissime cose riportarono i successi più entusiastici, Porse neLTcseguire quelle umili cose il virtuoso si sentiva veramente cren tore ed animatore; la commozione intensa e profonda, suscitata con quella semplicità canora, e ni per lui soddisfazione più intima che destar meraviglia e stupore con acrobazie ardite. Non e tpuudi il euso «li ordinare il repertorio degli esecutori genovesi seminio l'importanza delle composizioni, che sarebbe forse classifica zioite alquanto arbit raria ; risponde molto meglio allo scopo la solita classificazione secondo i cosi detti generi, sebbene nel caso nostro eia un po' ditlirìle stabilire a quali genere spetti il primo posto. Arie, Inietti da rainera, ('alitate, CJuartetti, Óoncerti, Sonate per cembalo. Sonate per violino o violoncello o flauto o per altri strumenti con basso .numerato o accompagnamento strumentale, mugica d assieme |«er complessi vari, vi figurano tutti in tale* abbondanza da costituire col solo numero un elemento validissimo «Iella «loctimen-tazioue. Mi accorgo che, senza pentirci, ho stabilito una graduatoria «li generi. Non mi dilungo a dis«*utere oltre ed inizio la Kussegutt paiv i«tndo della « Musicai vocali da ('atuera ». Nel repertorio genovese* per i|ii«*st«> genere di musica figurano compositori vera mente famosi, «» sono: Kuiauucle I)*Astorga ; Vinci, Λ «|llesti «Olii posi tori, «*h«* si jwìt rebln*r«i definire sp«*«*ia lisi i d«*lla musica vocale da camera* *i devono aggiungere «|tlasi tutti gli operisti italiani «lei *c«*o|o, gnindi «» picc«di, «li « ui « r«*d«» imitile trascriver*!* I elenco, poiché torneranno alla ribalta, e«l in primissimo piano, nel capitolo «ledicato alla musica teatrale. Per «»ru «· necessario «lire soltanto che i migliori epistili vocali «li «piasi tutte 1«· opere, composte nel wttecent·», furono trascritti, partiture e parti, anche in pin «luna copia. perche i gratuli virtuosi deirugola, ««spiti «li qual « he famìglia patrìzia genovese, solevano ri|»eterli nelle au«lizi«uii pri vate. t redo invece utile, interessante e probativo l’elenco «lei maestri miuori. jnmo noti «» sconosciuti* di cui sarebbe necessario aver qualche notizia, sopratntto circa i loro rapporti con Genova. I na loro più intima conoscenza* ri dareblie certamente una pift intima cono *cenza - da co (1) a (t) ó (r) i o. Sul che si pos- (*) Circa — gna — (— nia —) = glia (— lia —), per quanto possa parer singolare, cfr. il tose, ciciglia = ♦caecilia (serpentello detto altresì ceolina = cecolina), il piem. liin «luglio» = Julius e i nomi locali Lucignano (* L u c i 1 i a n u m) e Lugnano (* J u lianu m), e forse il veneto Arcugnano che, piuttosto che da Arconius come vorrebbe POli-vi eri (Toponomastica veneta, p. 54) potrebbe derivare da II ere u 1 i us (Her-culianum). Nella stessa guisa, anziché da *Mutinius come vuole il Pieri (Touonom. della Valle dell'Arno, p. 55), potrebbe derivare da Mutilius il ni. tose. Mutignano. DIALETTO LIGURE ' 59 son vedere le acute osservazioni dell’Ascoli (Del posto che spetta al ligure, ecc.) in Arch. glott., II, 124, n. 3. 13· gassa «cappio, cappietto, fiocco, nodo» ecc. (diminut. gassetta «occhiello»). E’pur del piemontese (monferr., canav. ecc.) e circa retimo non concordano gli studiosi. Il Nigra (Arch. glott., XIV, 281) dice: «a capite, cioè a un verbo *capitiare *captiare (cfr. it. raccapezzare) ben risaliranno le voci monf. gen. gassa, gassetta, ecc. ». Il Levi (Diz. etim. del dial. piem.) dice gasa voce aferetica di angasa; e spiega angasa come variante di langasa, spiegando questa come incrocio di liasa con lingassa « linguaccia » ! Credo che si tratti per tutte le forme di una base ligacea, legacea, « legaccia », con l’aferesi della prima sillaba. Quanto a langasa piem. (che avrebbe dato angasa, per la perdita di Z scambiato per l’articolo), si avrebbe l’epentesi di n come in angonia e simili. 14. — r i s Ó « ciottolo », « piccolo sasso rotondato dalle acque che lo rotolano » (Casaccia). Ben distinto, a mio avviso, da riso « riccio », « istrice » derivato da *ericiòlus, come riccio da *ericius e il fr. hérisson da ♦ericio η em (cfr. Korting, N. 2879; Parodi, Arch. glott., XV, 73). Il Giusti (Giorn. stor. e letter. della Liguria, 1937, p. 39) postula per entrambe le voci la base #ericius (Meyer-Lübke, Rom. Etym. Wòrterb2897). Di risi) « ciottolo» dice il Parodi (Arch. glott., XVI, 139): «probabilmente da *roccéolo (se mai, come ben osserva il Giusti, da *riceolo), il quale però più volentieri crederemmo attratto da qualche altro vocabolo, perchè Vi occorse assai presto : cfr. arizorare e arrisolare « acciottolare », riciolus e rizorius in Rossi, Gloss. mediev.lig., 19, 84». Anche il Merlo (Italia dialet., XIV, 52) registra risi) accanto a faèii, pini'), ecc., come esempi di i> = — e ò 1 u , Il Parodi, come s’è visto, non si nasconde la difficoltà di tale derivazione, alla quale ne credo di gran lunga preferibile un’altra. Per me (o m’inganno) risi) « ciottolo » non è se non un normale continuatore di *siliciòlu (diminutivo di silex in quanto vale « pietra dura »), con quello stesso procedimento derivativo che si ebbe in risó « riccio » da * e r i c i ò 1 u , col noto fenomeno genovese di Z in r (cfr. parazo oggi pazu « palazzo ») e con l’aferesi della sillaba iniziale. A rincalzo di questa etimologia crederei di poter addurre l’equivalente tose, ciottolo e ciotto, variamente ma poco felicemente spiegato fino ad oggi (*·), ma che ben si spiegherebbe come aferesi di * sélciotto (2). Giuseppe Flechia (*) Cfr. Zambaldi, pag. 1244; Pianigiani, I, 288; Korting, N. 7265; Meyer-Lübke3, N. 2454. (2) Sia ancora qui ricordato il veneto salizo = s i 1 i c e u, col derivato salisàda « lastricato » ). COMUNICAZIONI DELLA R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA La K. Deputazione, che aveva l’onore di annoverarli) tra i suoi corri -spondenti partecipa con profondo rimpianto al lutto della Cristianità per la morte dì S. S. Pio XI. ' Ai nuovi soci entrati recentemente a far parte della R. Deputazione il Cousiglio Direttivo rivolge il suo più cordiale saluto : Prof. Giuseppe Mariani (proposto dal Presidente Sen. Moresco) ; Giudice dott. Luigi Tria (proposto dal prof. Vitale) ; March. Avv. Gian Battista Gritta (proposto dal socio nob. Riccardo Maineri) ; Rag. Gerolamo Eugenio Monchìero (proposto dal socio professor Tòmaso Pastorino) ; Prof. Arturo Dellepiane (proposto dal prof. Tomaso Pastorino). È stato pubblicato nella Collezione dei Notai Liguri del secolo XII. il voi. Obcrto Scriba de Mercato (1190) a cura di Mario Chiaudiano e Raimondo Morozzo Della Rocca. Secondo le norme consuete, il volume è ceduto ai soci col 75 sul prezzo di copertina, cioè a L. 12,50, oltre le eventuali spese di |*>sta. Il rapido susseguirsi dei volumi della Collezione mostra come il Consiglio Direttivo tenga fede alle sue promesse; i soci vorranno certo dimostrare col loro premuroso interessamento di apprezzare l’ardita iniziativa che onora gli studi storici e giuridici della Liguria. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Paolini (F. M.), Cristoforo Colombo nella sua vita morale. Prefazione di Francesco Guerri. Livorno, Off. grafiche Chiappini, 1938-XVI. In 8°, di pp. XVI+ 358 [Edizioni di « Corsica antica e moderna »]. Scopo di questo libro è quello di « dare un giudizio positivo su le questioni e i fatti morali della vita di Colombo », difendendolo dalle accuse che a questo proposito gli vennero mosse e gli vengono tuttora ripetute. La difesa tende a dimostrare che Don Fernando non è hijo naturai del Navigatore, come si legge nella Historia del Las Casas, nia figlio perfettamente legittimo di Beatrice Enriquez, con la quale Colombo, manco a dirlo, si sarebbe unito in regolare matrimonio. Questa, tesi assorbe da sola la maggior parte del volume ; ma con non minore zelo PA. s’industria anche di mettere in luce la-religiosità· e le virtù morali di Colombo, considerato, sulla scia della tradizione cattolica che fa capo al Rosellv de Lorgnes, come un ambasciatore divino, spedito a « realizzare le sublimi volontà della Prov\ idenza* nello scoprire ed integrare un Nuovo Mondo col vecchio ». Basta l’enunciazione della tesi per far comprendere che lo scopo del libro non è scientifico. Ma, anche a prescindere da questo, 1 Apologià tien luogo di critica e la trattazione si dissolve in un formalistico, astratto sillogizzare, che a un lettore moderno dà un curioso senso di anacronismo. E questa trattazione non procede in un discorso continuato, dove le premesse si tirino dietro le conclusioni, ma si frammenta in una raccolta di schede, ognuna delle quali introdotta con titoli e motti di cui non è facile, leggendo alla prima, afferrare il preciso senso e la vera funzione. E così, l’analisi del libro riesce non poco faticosa anche a chi non sia digiuno dei termini della questione. Comunque questa ha, fuori dal campo etico-religioso, così scarso interesse, che non mette conto di perderci molte parole. In realtà il Paolini non reca alcun elemento nuovo alla biografia colombiana, e si è ben lontani dal poter riconoscere che lasci convinti con le sue argomentazioni. La lettera ed il senso del celebre codicillo del 25 agosto 1525 al testamento del 19 maggio dello stesso anno sono così chiari ed espliciti, che non si vede come possano piegarsi alla tesi di coloro che vogliono Fernando figlio legittimo. E fosse solo questo documento: ma, come tutti sanno, la condizione di Fernando Co- 62 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA lombo è direttamente [Las Casas] e indirettamente [iscrizione preparata da Fernando stesso per la propria tomba, dichiarazione di Beatrice dinanzi al notaio nel 1510, espressioni di Diego Colombo, disposizioni da lui prese per il trasporto all’isola di Haiti delle cembri dello Scopritore, testimonianza di Oviedo, ecc.] attestata con tanta concordia di elementi positivi e di sottintesi, che ormai non possono esistere in proposito incertezze di sorta. Quanto al resto, nessuno dei principali problemi colombiani è trattato, od anche soltanto sfiorato, dalPA. Ricorderò solo che il Paolini non crede dimostrata l'origine genovese di Colombo, anzi la revoca in dubbio, sebbene con argomenti di assai scarso peso [cfr. p. 6], chiedendo, al solito, « prove più precise ». È d’altra parte vero ch’egli giudica « secondaria » tale questione: comunque « Calvi e la Corsica possono continuare a ritenere la propria tradizione sopra la nascita di C. C. » [p. 7]. Nè me ne meraviglio, se ricordo che FA. è appunto còrso. Un ultimo cenno merita la prefazione; purtroppo non elogiativo. Che bisogno ci fosse di scrivere sei pagine di stampa per presentare il libro del Paolini, non si riesce a vedere; meno che mai, che costrutto, a riempirle di notazioni banali e spropositate [Colombo che va alla ricerca di un continente nuovo; l'idea «li questo continente suggerita dalla passione di crociato, e via di questo passo]. Lo so: si poteva anche tacerne; ina sarebbe anche meglio che si smettesse di chiacchierare di Colombo, come troppo spesso si continua a fare da noi, senza una conveniente preparazione. G. Caraci Piero Guibaudi, // Pmlrr (Sorrido a/fiirò c confidente di Cristoforo Colombo, in « Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino », gennaio-giugno 1938, n. .1-2, pagg. 1-87. L’Autore deplora, all'inizio del suo studio, che la « storia dei grandi viaggi e delle grandi scoperte, nella quale l'Italia ha scritto pagine gloriose », sia — in questi anni — poco curata nel nostro paese. Che, pur non mancando le eccezioni, notevoli e lodévoli — e il Grìbandi cita i nomi di Alberto Magnaghi, di Roberto Almagià, di Giuseppe Caraci, di Paolo Revelli ecc. — scarso è, in questo campo, il numero degli scrittori italiani di fronte a quello degli stranieri, che esaltano gli esploratori loro connazionali. Anche per quanto concerne gli studi colombiani, si notano tuttora molte lacune che meritano di esser colmate: intento che spinge il Gribandi a rompi- · lare la presente memoria. II Navigatore Genovese, che compì impresa così grandiosa da empire di stupore il mondo, ebbe — come è noto — nella sua tor- rassegna bibliografica 63 mentata esistenza, accanto ai nemici e ai denigratori, amici saldi e fedeli, dai quali gli vennero aiuti e conforti : tra questi, il frate certosino (raspare Gorricio di Novara, figura che il Gribaudi si propone di illustrare. Egli indaga le origini della famiglia e rintraccia, sulla scoila di documenti locali, che risalgono al secolo XI : ricerca inoltre quando i Gorricio passarono dal nativo Piemonte alla terra di Spagna, dove, tra la fine del sec. XV e la prima metà del sec. XVI, esplicarono la loro attività, rivolta al commercio librario, Francesco e Melchiorre, due fratelli del padre certosino. Di quest’ultimo molto scarse sono le notizie anteriori ai suoi rapporti con Cristoforo Colombo, ridicendosi alla pubblicazione di una sua opera ascetica tradotta in Castigliano da un canonico di Siviglia. Cliè in questa città appunto dimorò l’amico dell’Ammiraglio, nella splendida certosa di Las Cuevas, in prossimità' delle case del Navigatore, sulle rive del Guadalquivir. Così, data la vicinanza della dimora e la comunanza della patria, facilmente si stabiliron rapporti di amicizia tra l’Esplo-ratore e il padre Gorricio, che ebbe dal primo incarichi importanti e delicati. A lumeggiare tali rapporti il Gribaudi si vale specialmente delle lettere scritte da Colombo al cappuccino novarese, i cui originali si trovano parte nell’Archivio della Casa d’Alba e parte in quello della Casa di Veragua; lettere già pubblicate in varie epoche. Si riferiscono, riguardo al tempo, al terzo viaggio di Cristoforo Colombo, al periodo che intercede fra il terzo e il quarto, periodo trascorso a Granata, ove risiedevano i Sovrani spaglinoli, al quarto viaggio e agli anni successivi, essendo l’ultima del gennaio 1505. Ma queste lettere rimaste (undici in tutto) non sono che una piccolissima parte di un carteggio molto più voluminoso e certo molto più interessante. Nel padre Gorricio, Cristoforo Colombo ha un appòggio per consolidare e difendere i privilegi ottenuti, nei quali è minacciato dal- 1 ingratitudine dei re di Spagna, e un’adesione e un incitamento a quell’opera di conversione di tutte le genti, alla quale si sentiva come predestinato da Dio, che lo aveva aiutato nella grande impresa. Assai importanti sono le lettere scritte durante il quarto viaggio, rimasto famoso per i pericoli e le sofferenze a cui fu esposto il Navigatore: viaggio che creò neU’animo di lui la certezza che le terre scoperte^ costituivano un nuovo mondo, al di là del quale vi era un altro Oceano, separante queste nuove terre da quelle dell’Asia. Il Padre Gorricio coadiuvò pure il Navigatore nella compilazione del « Li-hro dei privilegi » e del « Libro de las Profeeias », intorno al quale ultimo e alla parte da attribuirsi al certosino il Gribaudi fa alcune considerazioni critiche importanti, rilevando e confutando giudizi di altri studiosi. — TI lavoro del Gribaudi si protrae dopo la morte di Cristoforo Colombo e tratta, negli ultimi capitoli, dei rapporti del frate Cappuccino coi fratelli dell’Esploratore e col tìglio di lui Die- (M RASSEGNA BIBLIOGRAFICA go, erede ili tutti i beni e titoli ilei Grande Ammiraglio. Accenna agl'incarichi numerosi e delicati clie anche questi affidò all aulico e confidente del padre, tra i quali — nel testamento — di trasferire la salma del Grande da Valladolid al monastero di « Las Cuevas ». In detto monastero, fin da quando ('. Colombo era vivente e per suo desiderio, si raccolse l'archivio delle carte colombiane, di cui il P. Porricio fu l'iniziatore e per molti anni il fedele custode. Benemerenza non di poco momento rispetto agli studi colombiani, acquistata dal P. Gorricio, che si spense — forse — in età molto avanzata nello stesso monastero di Siviglia, dopo aver altamente onorato la patria lontana. Opera quindi interessante e doverosa quella del Gribaudi di aver tratteggiato, con amore e perizia, la figura di questo suo corregionale, al quale egli dice, con intimo compiacimento, che il Piemonte e particolarmente la città di Novara possono andar gloriosi di aver dato i natali. E velina Rinaldi Nino Lamboglia, Urliti toponojnastica di Al ansio c Laifiucrjlia. Al- benga, R. Deputazione di Storia Patria, 16°, 1939, pagg. loO, illustrazioni fuori testo. 11 libro, scritto sotto il patronato della R. Deputazione di storia patria per la Liguria, comprende, nel capitolo d’introduzione, le norme per i raccoglitori, un breve e preciso ammonimento sulla fonetica e sulla scrittura dei vocaboli, un cenno storico sui comuni esplorati sufficente per lo scopo dell'opera, delle notizie sul dialetto a lassino e il confronto con il taggiasco della Liguria occidentale e il genovese; e, infine, un elenco dei documenti atti ad accertare le trasformazioni dei vocaboli e le loro varianti. Tutto ciò e ordinato e presentato con discrezione. Le 804 voci della toponomastica abissina e le 68 del territorio di Laigueglia dànno agio a rivolgere allo studioso parole di lode per la sua premura, per il suo zelo istancato, per una simpatica ostinatezza nel cercare, ad ogni costo, risoluzioni e spiegazioni, per la pratica dei libri maestri della materia e per la volontà sempre appariscente, di trovare, attraverso la nebbia dei secoli, la vena dell’antica loquela. E, naturalmente, dànno agio, e facile agio, a osservazioni e note, che non torneranno sgradite perchè la toponomastica è una fatale sirena, e perchè sono presentate da uomo che scrive senga toga. Occorre confessare che, normalmente, su cinquecento voci della toponomastica ligure, duecento sono facilissime perchè la dizione latina è chiarissima: duecento sono dubbie e difficilissime: e la spiegazione dell’altro centinaio è quasi impossibile. Non ni in- RASSEGNA bibliografica 65 tratterrò, quindi, sulle prime perchè non v’è materia di discussione ; non sulle seconde perchè la materia di discussione è troppa e lo spazio si ostina ad essere « tiranno » e perchè io credo molto Iacile il convincere chi pecca per errore e molto difficile il convincere chi pecca per amore; non sulle ultime perchè è inutilissima fatica. Allora? Allora tratterò del significato non conosciuto o mal conosciuto di vocaboli citati. Colpa dell’autore? No, certamente ; è colpa del Tesser egli « marinencu » (abitante sulla riva del mare) e del non aver quindi soverchia pratica e uso del vecchio ligure ancora vivo nelle comarche rustiche in cui il dialetto si mantenne sino alla fine del secolo scorso incorrotto, e con ricchissimo vocabolario. ( hi scrive, invece, è un contadino che presume di saper di lettere e come contadino nota. 2'). Arpix eia : non vetta montuosa, ma monte rotondeggiante e sprovvisto di vetta. 29. Asperu : non terreno non adatto a coltura, ma secco. I/asperu da una impressione tìsica. Le foglie secche sono asperc. Terra aspera significa terra non umida. 30. L'asperina è quel l’impressione di arsura data dallo scirocco. 52. Bandia : non è « zona dove è interdetto il pascolo », ma zona boschiva o pratile dove il pascolo ogni anno è messo all’incanto, è bandito dal Comune. A Ceriano erano date all’incanto le bandie de Vabrigu e de Viibagu e le sutane e le survane. Costa bandia è nel sanrumasco. 74. Bausu è rocca nell’imperiese e pietra nelle campagne occidentali. 90. Bignun. Il ligure ha biignu e bugna, pignun e bignun. Il primo significa gonfiore, tumore. Il tale è malato perchè ha in biignu. Biigna è gonfiore voluminoso : il muro a secco fa biigna·, cioè si è gonfiato per il peso e lo slittare della terra umida. È da credere che il termine biignu derivi da pugnus. Il passaggio dalla tenue alla media è normale, nel ligure. Pignun è un accrescitivo di pigna (pinea) e significa il mozzo della ruota. Bignun è lo stesso vocabolo con il passaggio dalla media alla tenue. Perchè i due termini, biignu e pignun, indicano una stessa forma, come essa cade sotto i nostri sensi, la contaminatio è logica. Ma il gallico ha biigna, da cui con la dissimilazione della ii lunga in i si ha bignun come si ha bitiru (Parodi AGI 1 n. 108). Però il ligure della montagna, nel ponente, continua a pronunciare biitiru, senza la dissimulazione, come un greco antico. Se bene ricordo il termine bugnone citato e preso dal documento di cui al Liber Jurium è seguito da un termine gumbenia, il quale corrisponde all’attuale Ghimbegna. 125. Il termine bura detto a Porto Maurizio corrisponde al termine sbuira della montagna, e significa il rigonfiamento del muro a secco prima che avvenga la frana, e quindi la frana. 66 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 13(>. Buyo corrisponde al taggiasco bugi io e lia un femminile in buglioni. Questa è misura per olive ed è capace
  • 78. Boscu de prexuy. La spiegazione non è facile per chi non conosce gli usi dei nostri comuni. In ogni comune e forse anche ad Alassio era una casa lontana dall’abitato in cui dovevano vivere, come al confino, coloro che erano stati banditi dal comune per delitti. A Ceriana questa casa si chiamava « a cà di mesi ». La casa dei mesi, in relazione al tempo del confino. 606. Ravina. Non frana, ma burrone. Ravin nel ligure di Ceriana corrisponde al francese ravin—burrone. (ili». Riva non « sponda o margine di pendio ». K pendio scosceso e difficilissimo. 663. Sciórta è veramente sciórta nel senso di gregge, non altro. 666. Seâusa 11011 è speciale qualità di fichi, ma il nome delPalbero gelso. 710. Tana du fascili. Tana del tasso. Ma bisognava dire che ta-sciu (tasso) deriva dal germanico taxo. E a proposito di germanico un’osservazione. Pare che il Lambo-glia escluda il vocabolario tedesco dalla sua toponomastica. Questa è deficienza gravissima. Pochi esempi da me studiati, tra i molti che la mia poltroneria non mi permise di maggiormente studiare. Al numero 105 è scritto: Bracca, 1826. Costa della Bracca et Bracca. Aggettivo sostantivato dal cognome Bracco. Ora il termine bracca è a Ceriana (ponte da Bracca; an dà aa Bracca). Il li- 1>8 RASSEGNA BIB LIO ORA RICA gure liniera è la trasformazione del tedesco bracli = maggese, terreno lasciato a riposare, terreno incolto, brachfcld = campo incolto, brachhut = pascolo nel maggese. Al numero 41) Banda de cà. Lato di casa. \ a bene, ma occorreva notare: dal tedesco bande. Al numero 45 : Baenca. La località è bosco e prato. Dai documenti: la baenca, in la boenca. alla macnca. La spiegazione del termini è errata. L'aggettivo costruito, bocinica, avrebbe dato in ligule bòi nega. Occorreva, per una spiegazione scientificamente buona, partire dal suffisso engu o enea che è particolarey nel ligure, dei derivati da nome tedesco o usato da tedeschi anche con vocaboli latini. (Come il suffisso engu è tedesco, in è latino e di Longicood e i cimeli di Xapoleone in « Corriere Mercantile», 17 gennaio 1939. Le depredazioni francesi in Italia in « Nuovo Cittadino ». 20 gennaio 1939. F. Geraci : Ixi contessa Wa-Ictrska in « Corriere Mercantile », 20 gennaio 1939. A. Mombello : I maneggi per dar moglie ad un imperatore in «Il Lavoro», 25 gennaio 1939. G. Zampiga : Maria Jaiìmq la vedova di Napoleone in « Corriere Mercantile », 24 gennaio 1939. A. Tosi: / soldati italiani di Napoleone in « Secolo XIX », 9 febbraio 1939. g. m. s. : Misteri ed intrighi della polizia segreta di Napoleone in «Corriere Mercantile». 9 febbraio 1939. RISORGIMENTO Giovanni Maioli : La priorità dell9Italia in Tunisia in « Resto del Carlino », Bologna. 1 gennaio 1939. (Recensione della monograti a di A. Codiamola]. Cesare SPIGOLATURE E NOTIZIE 75 Spellanzoq: L’armatore Rabattino e l’alba dell’espansione italiana in «Giornale d’Italia », Roma, 1 gennaio 1939. [Recensione dell’opera di A. Codignola]. Amerigo d’Amia : Ohi diede a Garibaldi le due navi per il trasporto dei Mille in «La Sera», Milano, 28 dicembre 1938. Umberto Monti: Raffaele Rubattvno in «Nuovo Cittadino», 6 gennaio 1938. [Recensione dell’opera di A. CodignolaJ. G. Marchi : L’odissea di Anita in « Giornale di Genova », 12 gennaio 1939. L. Salvatorelli : Il Piemonte e la guerra di Crimea. in « Il Lavoro », 17 gennaio 1939. Spect : CrìspS e Virridentismo in «Secolo XIX», 17 gennaio 1939. Dam : Italiani, Spaglinoli, Tedeschi alla conquista di Tunisi in « Nuovo Cittadino », 21 gennaio 1939. R. Bacchio: Il dramma della cessione di Nizza in «Giornale di Genova», 24 gennaio 1939. Atos: Navi sarde e napoletane a Tunisi in «Secolo XIX», 27 gennaio 1939: G. Lattanzi : Cavour e Gargantua in «Secolo XIX », 28 gennaio 1939. P. Rembado : Roma e Genova a Cartagine e a Tunisi : Garibaldi al soldo del Bey in « Il Lavoro », 20 gennaio 1939. F. M. Rossi : Come Raffaele Rabattino acquistò la ferrovia fra la Goletta, e Tunisi in « Giornale di Genova », 28 gennaio 1939. Il premio Savoia-Brabante per la storia ad A. Codignola in «Il Lavoro », 4 febbraio 1939. I premi S avoia-B roboante : Il premio per la politica e la storia; ad A. Codignola in « Secolo XIX », 4 febbraio 1939. A. Codignola : L’autentico « plebiscito » di Nizza nel 1860 in « Giornale di Genova », 7 febbraio 1939. G. Triulzi : Memoria di Alma in « Il Lavoro », 9 febbraio 1939. Il premio Savoia-Brabante a Codignola in « Gazzetta azzurra », 9 febbraio 1939. F. Xoberasco ? Le piar de Nissa poesia stampada dau Comitat Nissard de Savona in « Cronache savonesi », 15 febbraio 1939. Un’opera monumentale sulla Storia del Ri sor g invento in Liguria in « Giornale di Genova ». 18 febbraio 1939. Calandra Rossi : Rubattvno in « Gazzetta del Popolo », 20 febbraio 1939. [Recensione dell’opera omonima di di A. Codignola]. A. Fauché: La spedizione dei mille nei ricordi inediti dì un figlio .di G. B. Fauclié in « Camicia Rossa », novembre 1938. « Rivista Marittima », Roma : gennaio 1939, recensisce l’o.pera su Rubattino di A. Codignola. « Il libro italiano », Roma, novembre 1938, recencisce Rubattino di A. Codignola. P. Bolzon : I premi Savoia-Brabante in « La Vittoria », Roma, febbraio 1939. [È la relazione ufficiale dell'assegnazione del premio ad A. Codignola]. «Liguria», gennaio 1939 da notizia dell’assegnazione del premio Savoia Brabante ad A. Codignola. Carlo Agrati: Rubattino in «L’Italia», Milano, 8 febbraio 1939. [Recensione della monografia di A. Codignola]. C. S. : Chi diede a G. Garibaldi le due nam dei Mille in « Il Giornale d’Oriente », Alessandria d’Egitto, 13 gennaio 1939. [Ber censione del volume Rubattino di A. Codignola]. E. Benedetto: Il vero autore dell’inno « Gli Apostoli » attribuito a Goffredo Mameli in « Civiltà moderna », Firenze. 1939, fase. I. CORSICA V. Vitale: La Corsica nel Risorgimento e la faccenda del pollice in «Giornale di Genova», 31 gennaio 1939. V. Vitale: Il processo Genova-Çorsica in «Giornale di Genova», 14 febbraio 1939. X.: La Corsica dopo 79 anni di governo francese in « Corriere Mercantile », 15 febbraio 1939. « Universo », Firenze: recensisce il saggio del Giardelli su la bibliografìa generale della Corsica pubblicato nel nostro giornale a cura di A. Codignola. P. Pecchiai : Sampiero Còrso. Pasquale Paoli, Napoleone Buona parte in « Corsica antica e moderna ». ottobre 1938. S. Mazzelli : L'Italianità della Corsica ed il suo postulato biologico in « Corsica antica e moderna », ottobre 1938. L. Paoli : Un problema còrso: l’Uomo e la Terra in «Corsica antica e moderna», ottobre 193S. A. Guerrieri : Nuove considerazioni sulVorigine còrsa di S. Giulia in « Corsica antica e moderna », ottobre 1938. R. Pellegri : La conquista della Corsica in « Giornale d’Italia », 10 giugno 1938. Fra Diavolo e i Còrsi in « Petit Bastiais » 7(i SPIGOLATURE E NOTÌZIE 25 settembre 193$. Le dernier Comte de Corse iu « Petit Bastiais », 25 agosto 193S. Corses en Espagne in « Petit Bastias », 2 settembre 193S. Cliartinis : L'occupation grecque de la Corse avant Vére chrétienne in « Revue de la Corse ancienne et modernes), décembre 193S. Aimés: Légende et folklore en Corse in « Revue de la Corse ancienne et moderne », décembre 1988. MISTICA ED ECCLESIASTICA. I n grande pontefice genoveseo Benedetto XV in «Nuovo Cittadino », 22 gennaio 1939. A. Marchi : Secoli di Storia al Santuario delle Grazie in « Corriere Mercantile ». 20 gennaio 1939. M. L. Perduca : La. beata Cabrini in «Nuovo Cittadino», 27 gennaio 1939. Fra Ginepro: Il grande amore per Genova di una Santa in « Nuovo Cittadino ». 7 febbraio 1939. GENOVA E LIGURIA (ί. Miseosi: Tempeste e bonacce a Genova attraverso i secoli in «Corriere Mercantile ». 3 gennaio 1939. M. G. Berteli : Ricordi imperiesi nei « bozzetti » di !.. Giordana in »< Nuovo Cittadino », 4 gennaio 1939. L. De-S linoni : Terre e chiesi di Liguria: Sot'i in «Nuovo Cittadino», (î gennaio 1039. S. Ruinas: Apuania in «Giornale di Genova» 7 gennaio 1939. T. Concordia: Questa è Taggìa in « Il Lavoro », 8 gennaio 1939. , 8 gennaio 1939. Lo scoprimento degli affreschi del Palazzo dd Governo in «Giornale di Genova», 14 gennaio 1939. R. A. de Grade: Gabrieli- Mucchi in « Secolo XIX ». 14 gennaio 1939. A. Dellepiane : Profili di vecchi artisti liguri: a. Monti in «Genova», Rivista Municipale, gennaio 1939. SPIGOLATURE E NOTIZIE < t Riva: JjC mostre d’arte: Gabriele Mucchi in «Giornale di Genova», 28 gennaio 1930. Artisti che espongono : Liccio Fontana ceramista, Luigi Bezzoini pittore in « Secolo XIX », 2 febbraio 1030. A. Podestà : Il Duce alla vernice della III quadriennale in « Secolo XIX», 5 febbraio 1030. E. Balestieri : La III quadriennale d'arte nazionale in « Nuovo Cittadino », 5 febbraio 1030. V. Marga nt a : Mostra d’arte di Giacomo Delcroiaf in « Nuovo Cittadino », 0 febbraio 1030. La HI quadriennale d’arte in « Giornale di Genova », 5 febbraio 1030. ARCHITETTURA, RESTAURI. MUSEI O. Grosso : I restauri di Porta· Soprana e di Villa Scassi in « Genova » Rivista Municipale, gennaio 1030. A. Cappellini : Il Castelletto i Forti in « Genova » Rivista Municipale, gennaio 1030. G. B. : Il ponte Paleocapa in « Corriere Mercantile », 22 gennaio 1030. E. Lanzarotto : Gaetano Moretti in «Il Lavoro», 14 febbraio 1030. NOTE LETTERARIE « 11 Musicista », Roma, dicembre 1038, recensisce: Paganini intimo di A. Co-dignola. G. Balestreri : Produzioni musicali ispirate dalle vicende di C. Colombo in « Liguria », dicembre 1038. A. Zamboni : Goffredo Mameli uomo e poeta in « Liguria», dicembre 1038. G. B. Mosele: Il Carteggio fra G. B. Ballano e G. Galilei in «Genova» Rivista Municipale, gennaio 1030. E. Canesi : Il Lunario del signor Regina in « Secolo XIX », 1 gennaio 1030. X : Le Accademie letterarie liguri in « Corriere Mercantile », 7 gennaio 1030. E Firpo : G. Giacomo Cavalli poeta genovese del r600 in « Il Lavoro », 13 gennaio 1030. A C. Terenzi : Il Chiabrera nel pensiero del Farinétta in « Nuovo Cittadino », 14 gennaio 1030. Il Lunario del signor Regina· in «Il Lavoro», 15 gennaio 1030. Lo Duca: Cézanne■, il cesena te, Zola, il genovese in « Giornale di Genova », 28 gennaio 1030. I. Scurto : Ricordi genovesi di Pietro Mascagni in « Corriere Mercantile ». 31 gennaio 1030. TOPOGRAFIA, TOPONOMASTICA, INDUSTRIA, COSTUMI T. d’A. : Sintesi storica del presepe ligure in « Liguria ». dicembre 1038. Nuovi toponimi genovesi : via A. Paci-notti in « Genova » Rivista Municipale, gennaio 1030. G. Miscosi : Dalle ultime diligenze ai prima tram genovesi in « Corriere Mercantile », 19 gennaio 1939. C. C. : Toponomastica cittadina : Un nome da cancellare (Via Cristoforo Saliceti) in « Secolo XIX », 26 gennaio 1030. V. Que-rél : Le gloriose origini della· nostra' Marina a Vapore in « Corriere Mercantile », 1 febbraio 1930. A. Rodino: Rocchetta (Cairo) e il suo antico ponte in «Giornale di Genova », 3 febbraio 1030. m. : Oro nel savonese? in « Secolo XIXI ». 4 febbraio 1039. Gigli Molinari : La Compagnia dei Caravaim in « Giornale di Genova ». 11 febbraio 1030. a. po. : Campoligure il maggior centro dì produzione della filigrana in «Secolo XIX», 2 febbraio 1939. G. Chiozza : La miniera di monte Ramazzo in «Il Lavoro», 11 febbraio 1030. Enrico Clausetti : Ingegnen militari liguri in « Bollettino dell’istituto storico e di cultura dell’arma del genio», Roma, dicembre 1038. Luigi Lastorico: Agostino e Domenico Chiodo, ibid. Renzo Baccixo I NOSTRI LUTTI ANTONIO COSTA Il Sac. Prof. Antonio Costa, membro della* R. Deputazione di Storia Patria per la Liguria e della Società di Scienze e Lettere di Genova, collaboratore del « Giornale storico e letterario della Liguria » e di varii altri periodici genovesi, è morto in Genova il 19 settembre 1938. Nato a Camogli il 1 gennaio 1874 dal comandante Giuseppe e da Luisa Adele Costa, e ordinato sacerdote nel Seminario Arcivescovile di Genova (luglio 1896), si laureò in Sacra Teologia (1899) presso il Collegio Teologico di Genova, poi in Lettere (1902) e in Giurisprudenza (1913) nella Regia Università genovese. Insegnante dotto, efficace, apprezzatissimo, di materie letterarie «era da 15 anni ordinario nel R. Istituto Magistrale Raffaele Lanibru-scbiui di Genova, dopo di aver insegnato nel Seminario Arcivescovile e in varii Istituti privati genovesi, e Direttore della Civica-Biblioteca Brignole Sale Deferra ri dal 1923) era largamente noto agli studiosi per i suoi approfonditi studi metastasiani e per le sue ricerche scrupolose e metodiche, di storia genovese che gli meritarono un premio della Reale Accademia d'Italia (21 aprile 1932). Ma, come ebbe a ricordare il Professore Revelli, in una recente adunanza «Iella Società di Scienze e Lettere di Genova, egli attese con grande diligenza, a ricerche sulla storia della popolazione ligure che gli permisero di fissare le varie modalità di registrazione ca ratte ri st che di atti di nascita, matrimoni e morte conservati negli archivi parrocchiali di Genova, La Spezia, Sestri Levante, Chiavari, Rapallo, Savona, Al ben-ga, Imperia, San Remo, Venthniglia. I suoi viaggi in varii Stati d’Europa gli avevano permesso una conoscenza non superficiale di uomini e cose. La morte lo ha sorpreso in piena attività mentre stava per portare a compimento importanti studi sulla vita genovese alla metà del Seicento (con particolare riguardo al Cardinale Stefano Durazzo, Arcivescovo di Genova: 1635-1664). La sua scomparsa è lutto degli studi e della scuola, oltreché della Famiglia, a cui era particolarmente affezionato, e del clero genovese. I NOSTRI MITTI 79 SUOI SCRITTI PRINCIPALI: 1. Il soldo di un poeta. Saggio intorno alla situazione economica di Pietro Metastasio e i suoi rapporti con la famiglia e con gli estranei da lettere e documenti inediti. Genova, 1922. 2. Pagine metastasiane. Dal carteggio con il fratello e da altre lettere inedite tratte dai Codici di Vienna. Genova, 1923. L’A. attese, in sèguito, ad altre importanti ricerche metastasiane : a) Carteggio del Metastasio col fratello Leopoldo. Dagli autografi della Biblioteca Nazionale di Vienna; b) Lettere inedite di Pietro Metastasio. 3. Cacciata degli austrìaci, da Genova. Conferenza tenuta per invito della Società « Dante Alighieri », San Pier d’Aréna, 1924. 4. Silhouettes del 700. In « Emporium », ottobre 1924. 5. Gian Luca Pallavicino e la Corte di Vienna (1731-1753). In « Giornale Storico e Letterario della Liguria », Genova. 1926. 6. San Francesco d’Assisi. Conferenza, Genova, 1926. 7. San Francesco e i suoi tempi. Nel periodico « Padre Santo », Genova, gen-naio-agosto 1926. 8. Tobia. Nel periodico «Padre Santo». Genova, giugno-agosto 19*27. 9. Contributi alla storia di Santa Caterina da Genova. Nel periodico « Padre Santo », Genova, febbraio-novembre 1928. IO-. Dogi e Senatori in processione. Appunti storici genovesi. Nel periodico « Padre Santo », febbraio 1929. 11. Appunti di storia genovese: un anno santo tormentato dalla peste (11/50). Nel periodico « Padre Santo », gennaio-agosto 1930. 12. La peste in Genova negli anni 1656-57. Negli « Atti del Congresso Internazionale per lo studio dei problemi della popolazione » tenuto in Roma nel settembre 1931. 13. L’altra campana. (Per la Storia della Rivoluzione del 1746 e della cacciata degli Austriaci da Genova). Da documenti tratti dagli Archivi di Stato e della Guerra di Vienna. In « Giornale Storico e Letterario della Liguria », aprile-giugno 1931. 14. Collaborazione (Registri parrocchiali di Genova) al I volume delle «Fonti archivistiche per lo studio dei problemi della popolazione fino al 1S4S », pubblicate dalla Commissione di Demografia Storica (Comitato Italiano per lo studio dei problemi della popolazione). Roma, 1932. (Collaborazione al volume, in corso di stampa, sulle « Fonti archivistiche » dei centri minori della Liguria). 15. L’e.v convento di Santa Maria delle Grazie e la Venerabile Battis fina Ver-nazza, con 8 illustrazioni. In « Raccoglitore Ligure » 1934, n. 1-4* 16. Vari articoli di storia genovese, in « Raccoglitore Ligure », 1935, n. 5-7-10-12. 17. Curiosità settecentesche genovesi, in « Atti della Società di Scienze e Lettere di Genova », 1935.* 18. La cacciata degli austriaci (17J/6) nella cronaca di una suora, in « Atti della Società di Scienze e Lettere di Genova », 1936. 19. S. S. Giacomo e Filippo, in « Atti della Società di Scienze e Lettere di Genova », 1938. 20. Aristocrazia genovese in clausura: Il monastero e la chiesa dei SS. Giacomo e Filippo in Genova. In « Genova ». Rivista Municipale, maggio 193S. SO I NOSTRI LUTTI ONOFRIO SAULI SCASSI Il 22 febbraio 1939-XVII è mancato, a Genova, in età di 77 anni, il march, dott. Onofrio Sauti Scassi, nobilissima figura di gentiluomo, amoroso cultore delle memorie patrie e familiari, autico socio e per lunghi anni membro del Consiglio Direttivo della Società Ligure di Storia Patria, dal 1935 Deputato della R. Deputazione. I/istituzioue cui Egli diede tutto il suo affetto e che sovvenne con munifica signorilità, s’inchina reverente alla memoria di uno dei più devoti e affezionati suoi aderenti. Direttore responsabile: ARTURO COUIGNOLtA stabilimento Tipo^raflro L. CAPPELLI - Rocca $. Cacciano. 1939-XVII - Ληηο XV - 1939-XVIÌ Faecicolo II - Aprile-Giugno GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Direttore: ARTURO CODIGNOLA Comitato di redazione : CARLO BORNATE - PIETRO NURRA - VITO A. VITALE G. B. SPOTORNO E IL “ GIORNALE LIGUSTICO „ Reazionario per temperamento, classico per educazione e per gusto, rigido per carattere, G. B. Spotorno divenne il capo naturale, autorevole e intransigente dei classicisti genovesi. Contro di essi battagliavano i romantici che contavano, a Genova, giovani di bellissimo ingegno, guidati da Giuseppe Mazzini, il quale, proprio con queste zuffe politico-letterarie, inizierà la grande sua lotta per la causa italiana. Battaglia appassionata quella clie si combatte tra il Giornale Li-gustico conservatore e reazionario e 1’Indicatore Genovese arditamente innovatore, e, spento questo, ad opera, in gran parte, dello Spotorno, dall’Indicatore Livornese e dalla fiorentina Antologia. Occorre, per giudicare serenamente lo Spotorno, dimenticare il suo giovane antagonista che, da quel momento, riempirà la storia· d’Italia della sua azione e del suo pensiero. Bisogna comprendere l’animo dello Spotorno, se si vuol arrivare a riconoscergli i meriti ragguardevoli che ebbe, pur essendo tra i più fieri avversari del Romanticismo e pur combattendone, decisamente, anche quel contenuto politico cui pur dobbiamo il risorgimento nostro. Ma proprio misurando il valore di queste forze contrarie, meglio s’onorano quelle che alla fine trionfarono, mentre è giustizia riconoscere il contributo che esse stesse dettero al progresso della scienza e del sapere. * * * Da famiglia « civile e agiata » Ç) nacque G. B. Spotorno il 24 (ìttobre 17S8, ad Albissola. I suoi genitori, Pasquale ed Orsola Ger- (i) Michele Giuseppe Canale, Necrologio di G. B. Spotorno, in «Esperò», 16 marzo, 1844. S2 LEONΛ RAVENNA mano, lo mandarono alle Scuole Pie di Savona, ove seguì i primi studi; entro, nel 1S0G, nelΓOrdine Barnabitico, e dopo pronunciati i voti, andò a Macerata e poi a Roma per proseguirvi gli studi di Teologia. Ebbe, tra i suoi Maestri, Luigi Lambruschini (*) il futuro cardinale, segretario di Stato, e di ciò egli si tenne sempre onoratissimo (2). Intanto pubblicava lavori quali, ad esempio, il Trattato sull 'irte E pi (jra fini che gli valsero una larga notorietà. Nel 1813, fu chiamato dai marchesi Rivarola di Chiavali, in quella città, per costituirvi la Biblioteca che appunto allora si stava formando e per insegnare agli allievi della società Economica Geometria e Agricoltura. Rientrato, frattanto, nel ricostituito ordine Barnabitico, lo Spotorno andò a Bologna nel 1814 — sempre in qualità d’insegnante — e poi a Livorno (1816-1817) — con lo stesso ufficio — per ritornare ancora a Bologna. Fu questo il periodo in cui all’austero sacerdote fu dato di de dicarsi interamente agli studi severi della storia e dell’archeologia, all’arte della poesia che coltivava con fervore e alle letture dei classici per cui ebbe sempre vivissimo culto. L’insegnamento fu — in quel tempo in modo speciale — una chiarificazione in cui si continuavano i suoi studi. Ad iniziativa dello Spotorno, stabilitosi frattanto a Genova, fu riaperto il Collegio di S. Bartolomeo degli Armeni, e solo per sua cura, la Chiesa annessa al Collegio fu nuovamente officiata. Scrupolosa mente adempì i nuovi doveri che non sacrificò mai pelle sue pur care indagini e ricerche storiche e scientifiche. Ma a queste tornò più assiduo quando, nel 1821, fu nominato professore di Retorica, dal Comune di Genova, nel Civico Ginnasio, e poi, direttore di questo, e, finalmente, Prefetto della Biblioteca Berio. Ciò che lo Spotorno fece a vantaggio di quest’istituzione, basterebbe da solo a renderlo benemerito della cultura in Genova. Gli acquisti da lui voluti per la Biblioteca, la severa dottrina con cui l’ordinò e organizzò, la capacità dimostrata nel dirigerla rivelano (>) Il Barnabita. Card. Lambruschini, ebbe sullo Spotorno un influsso sensibilissimo : non tanto per la sua produzione ascetica, quanto per l’orientamento Mitico che nel Cardinale fu programma di governo, nel discepolo principio morale e atteggiamento df pensiero. i-) Tanto che, quando, nel 1829, gli fu chiesto con viva insistenza dal conte < Emanuele Muzzarelli, un cenno biografico da inserire in una raccolta comprendente brevi biografie dei più chiari italiani del secolo, e pubblicata dal Pomba nel 1853, lo Spotorno, dopo aver forniti alcuni dati, scriveva al Muzzarelli : « Se la S. V. 111.ma e R.ma darà luogo tra gli illustri viventi a Monsignor Lambruschini, basterà che in nota mi ricordi come scolaro di esso prelato e nulla più >>. (Carte Spotorno, Archivio dell’istituto Mazziniano). ' G. B. SPOTORNO E IL « GIORNALE LIGUSTICO » 83 come la sua preparazione e la sua forma mentis fossero proprio quelle necessarie pei· degnamente occupare queir ufficio. Morto il Lari, -fu chiamato, nel 1829, lo Spotorno a succedergli nella cattedra di Letteratura Latina nel1’Università genovese. L’insegnamento era per lui una vocazione : vi si dedicò con passione e con fede. Abbiamo, nella mole ingente delle sue carte, conservate nell’Ar-chivio dell’istituto Mazziniano, raccolte in ben tredici gonfie cartelle, appunti più o meno sviluppati, delle sue lezioni, libretti per le votazióni degli alunni, lavori, traduzioni e composizioni degli stessi; versioni preparate dal Maestro per gli allievi, abbozzi di lezioni, il tutto rivelante, anche nella rapida e talvolta stenografica indicazione, una cura minuziosa e attenta, un vigilante pensiero, un metodo costante. AU’insegnamento lo Spotorno non lesinò nè tempo, nè cure; egli lo equiparò — in un certo senso — al suo ministero sacerdotale tanto che non si saprebbe dire dove nell’insegnante finisca il sacerdote e dove nel sacerdote cominci il Maestro. Ministero e missione l’uno e l’altro, e, come tali, sentiti e professati. Nè si potrebbe fargli elogio più meritato. E tale elogio si mantiene anche dopo aver letto quanto di lui maestro scrisse lo scolaro suo più famoso e spiritualmente e intellettualmente più lontano da lui. Voglio dire F. D. Guerrazzi. Stridono, messi vicini, anche se l’uno era maestro ventottenne e l’altro scolaro appena adolescente, i nomi di questi due, che temperamento e ingegno non potevano avere più antiteticamente dotati. Avversi furono, e tale avversione, se si manifestò quando lo scolaro — uomo e scrittore, raggiunse la fama — nacque inconsapevolmente certo nell’aula tranquilla dell’antico Ginnasio livornese. Se nelle Memorie il Guerrazzi definiva lo Spotorno « un Robespierre letterario del ’500 » (*), nelle Note Autobiografiche scritte più tardi, riandando alle sue esperienze giovanili, si dilunga assai più nella descrizione del Barnabita che dice « mansueto » (2> mentre in una pagina precedente lo presenta come di « umori acri » (3). Questo giudizio è motivato dal severo apprezzamento dallo Spotorno fatto della Battaglia di Benevento non dallo Spotorno maestro di Retorica. 11 giudizio di condanna dell’antico scolaro è coerente per (!) F. D. Guerrazzi, Memorie, p. 40, Livorno, 184S. (2) F. D. Guerrazzi, Note autobiografiche e poema con prefazione di A. Guastalla, Firenze. Le Monnier, 1S99, p. 63 e segg. Appunto in queste pagine si legge: « .... nè egli ammaestrando [lo Spotorno] vedemmo comparire tra i mezzi di educazione il nervo di bove: bisogna però anche dire che l’età e le abitudini nostre gliene avrebbero reso l’uso pericoloso; ma.... io credo che non lo producesse per bontà d’indole piuttosto che per timore ». (3) op. cit., p. 65. . . S4 LEONA RAVENNA lo Spotorno « s’intende il disgusto di lui classicista e di lui sacerdote » (‘) nota il Mazzoni. Un efficace ritratto dello Spotorno schizza il Guerrazzi iu queste righe: uln quell’uomo singolare tutto era antico, vesti, libri, pensieri; perfino i premi ; se taluno di noi gli mostrava composizione che gli andasse a grado, ci faceva presente di una medaglia (li rame di Costantino, e di qualch’altro imperatore, e scorrendocela tra mano con tenerezza ci confortava a tenerla cara— ». E ancora : « Lo Spotorno ha il torto di avere sbagliato secolo; se fosse venuto al mondo nel sec. XIV ο XV per certo aggiungeva un nome a quelli del Filelfo, del Poggio, di Giorgio da Trebisonda, del Valla e compagnia » (2ì. L’irruente scolaro 11011 risparmia il Maestro. Eppure : « L’educazione che ebbe.... specialmente da un benemerito ligure, il Padre Spotorno, gli restò consueta, come 1111 paludamento classico su un ingegno che voleva essere e apparire romantico » (3Ì. (*) G. Mazzoni. L'ottocento, Milano, Vallardi, p. S69. Coloritamente il Guerrazzi presenta nel vivo del suo Magistero il (lotto Padre: «Lo Spotorno intendeva che avessimo riguardo alla letteratura italiana, dacché italiani eravamo e ci conveniva pure scrivere, e parlare in idioma italiano; cotesto avviso era da lodarsi, ma in qual modo potevamo noi pregiare i classici italiani, noi che mai avevamo veduta la grammatica della nostra lingua? Ma tranne questo impedimento del quale in lui non era colpa, qual modo praticava egli per conseguire lo scopo! Il mondo per lo Spotorno cominciava e finiva nel seicento. Bembo e Casa rappresentavano il sommo della umana perfettibilità. Quelli lodava, quelli non rifiniva mai raccomandarci, scomunicato chiunque non li adorava, presso quell’oro ogni altro autore cenere. .... Lo Spotorno celebrava le poesie del Bembo fuoco eterno, e la mia anima assiderata dal freddo le aveva per mese di dicembre. Mi angustiava poi quella alìuvipne di parole nel Casa, i pensieri fievoli, e affogati mezzi nella gonfiezza dei periodi fatti a scartoccio, in quello stile barocco. Jx> Spotorno chiamava le sue orazioni arche di sentimento, io balle di stoppa. Dii tutto questo si scorge come non andassimo perfettamente d’accordo il mio maestro, ed io. La letteratura straniera odiava lo Spotorno più che cane le mazze; su questo punto era Intrattabile, chiudeva gli occhi, si turava gli orecchi, avrebbe remuto alla vista di un solo Byron di rendersi irregolare e non potere più oltre celebrare la messa. Se gli occorreva spettro o fantasima nelle nostre composizioni si faceva bianco in volto come se quelle ombre agitassero lui stesso. Allora gli rammentavamo gli spettri dell’Eneide e dell’Odissea, ed egli si acquetava ; mala pena però, e sempre dubbioso se le nostre ombre fossero o non classicamente ortodosse.... .... per lui barbari tutti i forestieri e non solo i forestieri, ma ogni altro non nato nel sec. XVI. .... Lo Spotorno poco si dilettava di filosofia; anzi io mai, per quanto mi ricordi, udiva rammentargli il nome di quei tanti valorosi, che nel secolo passato ricercarono profondamente la ragione delle cose, bensì non si stancava di encomiare il Castelvetro ». Op. cit., pag. 06 e segg. (2) Op. cit., pp. 69-70. (*) Mazzo>1, op. cit., pag. 853. G. B. SPOTORNO E IL « GIORNALE LIGUSTICO > 85 E il Guerrazzi stesso sente, nonostante il brucióre per la critica apparsa sul Giornale Ligustico, il dovere di riconoscere dopo aver notate le profonde divergenze del loro gusto e del loro sentimento : « nondimeno ei mi trasfondeva un vago sapore di buona lingua italiana, il quale poi con migliori auspici in me si accrebbe; egli non era tale da schiudermi i penetrali della letteratura italiana, ma io gli son grato come ad un uomo che me -ne mostrò una porta, non la più magnifica, ma pure una apertura ck>nde potevasi entrare» i1). Ammissione a denti stretti di quel che egli doveva a quegl’insvegliamenti troppo spesso da lui giudicati « con sottile ridicolo » i2'», ma forse per questo più efficaci. Lo Spotorno, che a Genova godeva larga reputazione e meritata, ebbe, in questa città, agio per il più lungo soggiorno da lui fattovi, di formarvi una sua « scuola pari per l’importanza a quella d’altri più celebrati Maestri, se un buon numero di scolari devoti lo richiesero spesso di consiglio ; e si distinsero per valentia professionale o per levatura di mente. Tra questi ricordiamo Michele Giuseppe Canale, figura certo non di prinTordine se la paragoniamo a quelle di coloro che furono i suoi compagni : il Mazzini, i Ruffini, il Campanella, per citare i più noti e nemmeno ben chiara nella sua condotta politica, ma anch’egli entrò come seppe e come potè nel movimento patriottico del suo tempo. Lo Spotorno e il Canale, troviamo tra i collaboratori del Magazzino Pittorico che riusciva, per certa sua onesta franchezza, a interessare Maria Mazzini e la sua figliola Cichina e persino Giuseppe Mazzini. Altro discepolo fu Emanuele Rossi, assai discosto dallo Spotor- 110 per le idee politiche essendo il Rossi amico di Maria Mazzini perchè seguace delle dottrine del figlio che divenne più tardi collaboratore dell’Italia e Popolo e del Povero. È molto probabile che i rapporti del Rossi con lo Spotorno fossero meno cordiali di quelli, sempre mantenuti tali, avuti con il Canale. Infatti nel 1835 — durante l'epidemia colerica — il Canale offre allo Spotorno ospitalità nella sua casa di campagna· di S. Siro di Struppa. Poco dopo — il 23 settembre — gli scrive nuovamente e riferendosi alPargomento del giorno, il colera, gli ricorda il dottor Luigi Gozzi distintosi appunto nella cura di quel morbo cori la « cacciata del sangue » coronata da eccellente successo : « Gliene scrivo — dice il Canale — perchè sappia Tonore di chi gli fu scolaro e si attribuisce ad orgoglio Tesserlo stato ». Altre volte gli scrive, devoto, complimentoso e ossequiente per chiedere schiarimenti, notizie, pareri intorno ad argomenti storici o letterari. Le lettere del Canale che troviamo nel Carteggio Spotorno sono (1) Gueriuzzi, op. cit.y pag. 70. (2) Ibid., pag. 70. 86 LEONA RAVENNA state scritte quasi tutte durante il soggiorno in campagna d’entrain-bi o d’uno di essi, e ciò fa logicamente pensare che frequenti fossero i loro incontri in città. Il carteggio del dotto Padre a giudicare da quanto ci rimane sia dalle lettere a lui dirette, sia di quelle da lui scritte era abbastanza vario e ricco. 1 più — tra i suoi corrispondenti — sono religiosi del suo ordine o sacerdoti secolari che lo richiedono di consiglio e d’aiuto : aiuto e consigli d’ogni genere che dimostrano però quanta fiducia ispirasse per cuore e per mente. C’è un gruppetto di studiosi e uomini eminenti nella politica che l’onorano * delia loro stima e trattengono con lui una dotta corrispondenza. Ebbe avversari leali e sleali con cui si battè con fermezza, anche se con amarezza ; ed ebbe ammiratori ed estimatori che, talvolta, lo portarono, nella loro considerazione anche più su di quanto, Toise, meritasse. Riconoscimenti ufficiali non mancarono all’Abate G. B. Spotorno che fu da Carlo Alberto nominato Cavaliere dell’ordine dei S.S. .Maurizio e Lazzaro; nominato membro nazionale non residente dal-ΓAccademia delle Scienze di Torino; socio della Reale Società degli Antiquari del Nord di Copenaghen; dalla R. Deputazione di Storia Patria, chiamato a componente; nell’Università più volte eletto Preside o vice Preside di Facoltà, senza contare gli uffici e gl’incarichi di minor peso. Ebbe una vita piena : studio, lavoro, sacro ministero, insegnamento, pietà tutta l’intessono e colmano. E fu una limpida vita rettilinea, coerente tanto che a levargli anche ciò che in lui potè spiacere: l'intransigenza e l’incomprensione del nuovo mondo cui turale e politico, lo si mutilerebbe così da non poterlo intendere più. Quando, il 22 febbraio 1S44, egli conchiuse la sua giornata, potè sentirsi davvero in pace: il suo compito lo aveva assolto con austera virtù. Fu sepolto in un locale contiguo alla Chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni. (Continua) Legna Ravenna GIUSEPPE MAZZINI E LA REPUBBLICA ROMANA1'1 L’atto audace e d’immodestia con cui riferiamo ciò cùe e i impressione d’uno sguardo a sì alto maestro, la cui azione complessa e grandiosa fu benefica alla patria, in particolare, durante la sua vita, e perche eternata negli scritti lo è anche all’umanità, sia giustificato dalla forza d’amore, che ogni bellezza d’idea suscita ed alimenta. Bellezza d’idea, forte espressione di vita, dolcezza d’amore e fede capace di smorzare ogni paura per la sfortuna del passato, di attutire ogni dolore di ravvivare ogni energia, di squarciare ogni limite al pensiero per ricondurlo alla fissazione di quel punto che è unica fonte d’ogni vita. È la visione esatta nella grandiosità della concezione, e nell’altezza del pensiero : anzi, la visione della verità appunto perchè solo guardando sublime la si poteva scorgere, ed il procedere deciso mentre più l’avvenire s’effettuava come era preveduto, e più si era avviliti da coloro che in esso nòn avevano creduto ; ed il trionfo che va e va affermandosi quasi in una confusione inestricabile, più che di avvenimenti, di coscienze sperdute ed incerte. E non è stata, nè è ora idolatria. Per Lui è stata e sarà la stima /ammirazione l’ossequio devoto di discepoli, che tanto più valgono quanto, più son capaci d’imparare, non ciecamente, dal . maestro. L’idolatria non spetta a chi ha toccato le vette del Mazzini, e questa è pure una ragione di sua grandezza : d’aver, operando energicamente fermamente intransigentemente come volevano i tempi, affermato l’alto ed insostituibile bene della libertà. Non la libertà esistente nella parola, e che, spudoratamente definita completa in ciò in cui nulla può limitarla, equivale a servitù ; ma quella che vive nell’animo e s’esplica nell’opera, ed è intiera per l’uomo, e dà alimento a tutte le forze dello spirito, a cui sottomette, perchè ubbidiscano, quelle fisiche, per creare la dignità e la forza intelligente della persona. E queste furono idee in lui vive e costanti, idee che assorbì dalla città in cui nacque ed in cui visse gli anni della giovinezza ; dall’ampiezza del mare ove può lanciarsi ogni coraggioso alla sfida ed al trionfo ; dalla varietà dei monti, dall’aura che li accarezza e dalle raffiche ammonitrici della necessità della forza, dalla storia delle audacie di Genova, per la quale il 0) Conversazione tenuta all’istituto mazziniano il 10 marzo deU’anno XVII. 88 COSTANTINO PANIGADA inondo non fu mai vasto; idee che ancor più trasse dalla mente e dall’animo proprio. Amore della libertà, ed una concezione (lei giusto, che dona all'animo una serena invulnerabilità, che gli fu guida in ogni campo, ma che ha destato in lui il grido più alto, che tutti riscosse ed animò, in quello politico e per la patria. Fu la tiamina di quest’amore che, adolescente lo restrinse alla meditazione, e giovane lo portò al pericolo. E fu carbonaro e congiurò e soffrì, e dalle sofferenze si sprigionò il fascio di luce che corresse i principi che avevano saputo animare i popoli, e si affermò la Giocane Italia, Non sognando, ma con ogni cura studiando e analizzando il passato, ricostruì la concezione dell’avvenire. Ire terrori ingiurie calunnie, e Fazione subdola e spietata di cento polizie, che si sentono impotenti nella loro forza ; perchè 11011 si frena una potenza che sgretola e determina scoscendimenti ; è tutto un mondo che assalito da una coorte audace, che è da lui^ guidata e che si sente non si vede, sta per precipitare. E per ritardare il precipizio si fa scorrere sangue, quasi si potesse ancora giustificare quello che da sapienza 11011 schiava e da purezza di cuore è giudicato solo pertinente al passato. Corse sangue e corsero lagrime ; e fu la conoscenza del dolore ne1 suoi strazi intimi, e fu la prova interminabile dell’esilio, di cui pure egli aveva saputo intravvedere tutte le pene. Agli afflitti non manca il conforto indispensabile perchè si risollevino tanto da 11011 essere immersi nella disperazione: ed al Mazzini non mancò per la formidabile sorgente di fede che era nell’animo suo, e per le benedette creature, che in un mondo ove 11011 era il suo cielo ed il caldo degli affetti delle persone sue, seppero impedire il gelo che lo rodesse. Quando nel 1846 d’ogni intorno si diffuse l’entusiasmo patriottico per l’elezione ed i primi atti di Pio IX, il Mazzini non poteva entusiasmarsi, come di troppi avvenne: non poteva rinnegare nè i propri principi nè il proprio programma. Tanto più facilmente all’in fatuazione popolare resiste, e meno si lascia ingannare chi ha forza di convinzione ed acutezza d’analisi degli avvenimenti. Perciò il giudizio che il Mazzini, in una lettera del tutto privata ha dato di papa Mastai, se non è, forse, completo, è corrispondente in parte alla verità : « Pio IX è un brav’uomo, desideroso che i suoi sudditi stiano alquanto meglio di prima : ecco tutto ». Quel brav’uomo era principe, ed agiva precisamente cosi : aveva amnistiato i condannati politici, ma in ogni atto che li riguardasse la polizia, con segni convenzionali. li doveva tenere ben distinti dagli altri ; dei libri del Gioberti poteva entrare nello stato pontificio il Primato ma non il Gesuita moderno: approvava le proteste del cardinale Ciacchi dell’agosto del *47, ed alle adunanze del Circolo romano interveniva il GIUSEPPE MAZZINI E LA REPUBBLICA ROMANA 89 fratello del segretario di stato conte Pietro Ferretti perchè ascoltasse « con le sue orecchie le opinioni del popolo deciso a spingere il governo a permettere che i volontari dessero la mossa da Roma, ed uniti alle truppe di linea formassero un campo imponente per numero e più per forza morale » (come hfr scritto in una lettera uno dei più accesi innovatori, Giovanni d’Andrea) ; ma tutta l’importanza veniva data alle trattative diplomatiche che nell’autunno ponevano fine alla troppo rumorosa, se consideriamo la modestia e la natura dei fatti che l’hanno conclusa, e pur tanto ammonitrice, nella grandiosità dell’entusiasmo e delle speranze che l’hanno accompagnata, questione di Ferrara; « .... il governo romano — tuonerà il Brofferio — mancò alla sua missione, mancò alla sua parola : e gl’italiani avrebbero fin da quel giorno dovuto apprendere a giudicar meglio gli intendimenti del pontefice ». Ed allora ben aveva avuto ragione il Mazzini di non aver fiducia nè in pontefici nè in principi nè nella diplomazia. Annotò nella sua autobiografia Tommaso Cooper: « Mazzini stesso era la nostra grande sorgente d’ispirazione. Ci assicurò — e questo molti mesi prima che accadesse — che una rivoluzione europea era alle porte, una rivoluzione che caccerebbe Luigi Filippo dal tronco e metterebbe in pericolo il trono degli altri. Questo affermò fin dal settembre del 1847, quando questi eventi sembravano del tutto impossibili a molti di noi ». La rivoluzione scoppiò., ed iniziatasi in Francia si diffuse in Austria in Ungheria in Germania nella Lombardia e nella Venezia. Già prima si erano avuti moti in Sicilia e nell'Italia meridionale. Nel- lo stato pontificio si fremeva; non si era in guerra con l’Austria, o meglio, non lo era il governo ; ma il 31 marzo i civici di Ravenna di Ferrara e di Comacchio, costretto il comandante alla resa, entravano, insieme con le truppe svizzere, nel forte di quest’ultima città. Si movevano verso il Po colonne di volontari e truppe di linea; comitati delle diverse città erano in relazione coi governi di Milano e di Venezia ; il ministero pontificio di cui aveva il portafogli dell’interno Gaetano Becchi, già tanto implicato nelle vicende emiliane del 1831, presentava il 23 aprile a Pio IX le dimissioni, perchè il papa non voleva la guerra all’Austria; il 29 aprile il papa pronunciava l’allocuzione in concistoro. Non si era adunque in guerra, ma si lasciavano partire volontari; non si compivano atti di ostilità troppo palesi dai cardinali legati deirEmilia più vicini alla frontiera del Po ed alle coste dell’Adriatico lungo le quali incrociavano navi austriache, ma si raccoglievano nelle città danari ed oggetti per i combattenti e per i fratelli lombardi e veneti. Mazzini nel '48, dal 7 aprile, era a Milano; vi fondava e diri geva L’Italia del popolo, che cercava di diffondere anche alla destra del Po. Egli e gli amici suoi erano inquieti; scriveva uno di questi, il Ripari, il 16 maggio a Carlo Grillenzoni ferrarese: « .... si 90 COSTANTINO PAN IG AD A va buccinando di un novello trattato di Campoformio » ; ed il Mazzini allo stesso il giorno dipo: « Siam convinti d* esser Punico partito che possa unificare non due o tre parti d’Italia, ma Pltalia ». Poco prima della capitolazione di Milano del 5 agosto, egli si recava alla legione di Garibaldi; e scrisse di lui il colonnello Medici, comandante della colonna inglese: « La mia colonna, sempre inseguita dal nemico, minacciata ad ogni istante (li annientamento da una forza assai superiore non vacillò mai, ma tenne il nemico a bada lino all'ultimo. In questa marcia Pintrepidità e la decisione che .Mazzini possiede in massimo grado, destarono Panimi razione dei più valorosi tra noi. La sua presenza, le sue parole, Γesempio del suo coraggio, animavano i nostri soldati, i quali, inoltre, erano orgogliosi di dividere quei pericoli con lui ». A Roma, al Consiglio dei deputati, dalPinizio delle sedute al 26 agosto era stata un’incessante sorda lotta fra i deputati democratici favorevoli alla guerra ed ogni tendenza contraria, facente capo al pontefice. Si era fatta pressione sul ministero Mamiani prima, e Fabbri poi. Ma Pio IX non cedeva : e scriveva un deputato, Francesco Mayr, il 23 giugno: « Due giorni fa il papa disse alla Guardia civica che montava alla reale, essere una pazzia questa guerra all’Austria, e che gli bastano ventiquattro ore per finire queste mene, ma che gli rifugge il pensiero. Con queste parole voleva, così tutti credono, accennare ai trasteverini. L'eminentissimo Ferretti ha detto pochi giorni addietro in una società che durava fatica a trattenere i trasteverini.... Ieri fu la festa del Corpus Domini. Dopo la Messa detta dal Papa a S. Pietro, e prima di entrare nella sedia gestatoria, chiamò a se monsignor Muzzarelli, e gli disse tutto adirato: Voi siete un pazzo, e non potete dimenticare le antiche vostre pazzie. Come avete potuto permettere che si proponessero nell'alto Consiglio le proposte ammesse nella Camera dei deputati, relative alla guerra? ». Erano urti troppo forti, nè si trattava di tesi che si potessero conciliare: non era che la via alla violenza, che determinasse la vittoria delPuna o delPaltra parte. I fatti son noti : al Fabbri era successo come ministro Pellegrino Rossi, che veniva assassinato il 15 novembre. Per qualche ora fu di fatto padrone di Roma il Circolo popolare: il 17 esso imponeva un ministero democratico presieduto, per il rifiuto di Antonio Rosmini, da monsignor Muzzarelli. Fiducioso negli uomini da lui imposti, il Circolo ritornava alla sua funzione, meno illegale, di propulsatore: l’indirizzo che si presentava era quello di un atteggiamento deciso a pro’ del problema nazionale; ma era Patteggiamento dello Sterbini ed anche del Ma-miani, non lo poteva essere di Pio IX, e questi la sera del 24 noveni lire a bbandonava Roma. Il Mamiani, che era rimasto sino allora indeciso, dichiarava il GIUSEPPE MAZZINI E LA REPUBBLICA ROMANA 91 giorno dopo di accettare senz’altro la nomina a ministro degli esteri, perchè « la partenza improvvisa del Principe a/oeva posta la patria in pericolo estremo di rimanere senza governo e soggiacere a tutti i mali delPanarchia ». Il 3 dicembre giungeva a Roma il breve del papa, il quale protestava contro le violenze, che — egli affermava — gli erano state usate, e con la nomina della Commissione governativa· composta del cardinal Castracane, di monsignor Roberto Roberti, del principe di Rimano, del principe Barberini, del marchese Bevilacqua di Bologna, del marchese Ricci di Macerata, del tenente generale Zucchi. Ma dieci giorni dopo rispondeva, in certo qual modo, al breve il congresso di Forlì: con quello aveva parlato il pontefice sovrano, con questo parlavano i sudditi, con una nota, come del resto imponevano i tempi nuovi, più che di sudditi di cittadini. E fra essi erano il conte Laderchi e Carlo Mayr, Quirieo Fi-lopanti ed Aurelio Saffi. Una conciliazione col sovrano era impossibile, se egli « non volesse recedere da quella via, in cui sventuratamente fu condotto e quando non restassero salve e intatte quelle garanzie, che egli stesso spontaneamente aveva assicurato nello statuto fondamentale, e.... si fosse dovuto precludere la via di concorrere con gli altri stati alla ricostituzione della nostra nazionalità ed al conseguimento della italiana indipendenza ». E se una conciliazione non era possibile nulP altro rimaneva « per uscire dalla incertezza e dalla difficoltà della.... posizione,... di domandare che il Consiglio dei deputati procedesse alla nomina immediata di un governo provvisorio, il (piale dovesse poi convocare un’assemblea generale dello stato per statuire il definitivo nostro politico ordinamento, salvi i diritti della Nazione, convocata in Assemblea Costituente Italiana». E Peco era pronta al Consiglio dei deputati; PII dicembre già era stata nominata una Suprema giunta di «governo nel senatore di Roma in quello di Bologna e nel gonfaloniere di Ancona. Il 18 dicembre il principe di Canino, deputato, faceva la proposta della convocazione dell’assemblea costituente. Erano ore decisive per la necessità di prendere definitive deliberazioni, per naturale contrasto di idee e di opinioni, e quindi di tensione degli animi. Il 26 veniva affìssa la protesta di Pio IX confermante la sola legalità della commissione governativa da lui eletta. Al Consiglio dei deputati si discuteva nel vivo contrasto delle due tendenze, moderata e spinta ; il popolo nelle tribune lanciava invettive ed elogi, e non si giungeva ad alcuna votazione; la Giunta stabiliva la chiusura della sezione. Era aperta la via alla costituente. Col trentun dicembre 1848 nello stato pontificio non si concludeva soltanto un anno ricco di avvenimenti notevoli, ma tutto un periodo che si era iniziato con l’elezione di Pio IX. Era il fallimento di tutto un programma politico: quindi le furiose invettive dei conservatori puri, il rammarico dei liberali moderati, gli entusiasmi 92 COSTANTINO PANIGADA dei più decisi, che vedevano rimedi solo in un radicale rinnovamento ili sistemi e di forma di governo. Ed a questi toccava ora la prova. Le elezioni per la Costituente ebbero luogo nella maggior parte delle provincie il 21 gennaio; ma a Ferrara, che era stata dalle truppe austriache occupata nell’agosto del ’47, die era stata invasa nel luglio del ’48, e lo sarà ancora fra poco nel febbraio del ’49, il 25 ed il 26 seguente. Il papa aveva minacciata la scomunica a chi avesse partecipato alle elezioni. È naturale che fosse una minoranza quella che rispondesse all’appello della Giunta suprema di Stato. Eppure non esigua; già una parte del popolo veniva legandosi ai più audaci propugnatori di rinnovamento ; ed è sorprendente, se si considera la forza enorme della tradizione politica legata al supremo prestigio religioso. Mazzini era allora a Marsiglia, e prima delle elezioni di là scriveva al Saffi: « Voi non avete più re e non avete dinastia. Voi non potete dar lo spettacolo al mondo di gente che mendichi un re alle corti straniere; e non potete prenderne uno italiano senza cacciarvi nello stesso ginepraio di difficoltà coll’estero e l’interno, che vorreste evitare. La Repubblica nello stato vostro è un fatto. La Costituente deve proclamarla ». E la Costituente l’ha proclamata iJ 9 febbraio, con soli 22 voti contrari sopra 131 deputati ]presenti. Ed il Mameli al Mazzini : « Roma repubblica venite ». Egli il giorno prima era sbarcato a Livorno, ed in un manifesto aveva proclamato : «L’Italia risorge nelle sue tradizioni di popolo, nei suoi ricordi repubblicani, nel nome santo di Roma ». Roma: era sì gran parte della sua fede, era possente giustificazione del suo pensiero e della sua dottrina, era la luce più splendida del passato, che confortava, anzi assicurava, per l’avvenire ; era la prova che nessun ardimento è un sogno, che la forza di volontà e la costanza erano doti essenziali, e che se corrispondevano alla logicità del pensiero la vittoria era inevitabile ; era la prova che la mente suprema di Dio aveva prescritto una missione particolare a un popolo per il bene dell’umanità ; era la prova del progresso, era la culla del principio unico logico e realmente d’origine divina, che la sovranità è nel popolo ; ed il principio era giganteggiato nel pas sato gloriosissimo, e non s’era mai spento neppure nelle età più oscure; l’aveva fatto risorgere Alberico, ed era espresso nel grido dei comuni italiani « popolo, popolo » ; Roma, grandiosa per potenza ma più grandiosa perchè al mondo tutto aveva dato coi trionfi propri la pace, colla sapienza delle proprie leggi il diritto ; Roma, che Dante, il più grande ed il più fiero degli italiani, avrebbe voluto unica sede dell’impero universale e pacifico, perchè solo al popolo romano Dio aveva assegnato la sovranità ; Roma, che era stata degli imperatori, che era stata dei papi, e che il fato stesso che l’a- GIUSEPPE MAZZINI E LA REPUBBLICA ROMANA 93 veva governata nel passato, ora guidava a divenire la Roma del popolo. È adunque, 1’aspirazione grandiosa, sono le speranze coltivate come parte essenziale dell’essere proprio clie stanno per avverarsi? La tede è gigante, ed eterna è la sorgente che l’alimenta ; eppure una nube copre Paniino del Mazzini, mentre va avvicinandosi a Roma. Una forza avversa ha tentato di piegarlo: — Vedi gli uomini migliori del popolo in cui tu credi! — Egli aveva detto ai toscani di proclamar la repubblica, e nel nome d’Italia di fondersi immediata niente con Roma. Ma il nome, che per lui era tutto luce e giustizia, spaventava la gente pacifica, e la gente piccola discuteva se Firenze, PAtene italica, avrebbe potuto, inchinandosi a Roma, divenire semplice città di provincia. Ma per il Mazzini non poteva essere la sosta del rammarico : s’imponeva a lui quella legge del dovere, a cui era sempre andato educando gli italiani, ed a cui, del resto, non manca mai, e talvolta è pronto, il conforto della realità. « Sì, sentii rivivere quella potenza, sentii i palpiti delPimniensa eterna vita di Roma anche attraverso le bende con cui i preti e i cortigiani avevano fasciato la Grande Dormente come in un sudario ». La sera del 5 marzo entrava in Roma. Il 6 parlava al popolo, esortando i suoi « fratelli ad amare Dio, la Patria la verità, la virtù il genio la religione ». Il Mazzini era già stato eletto deputato da due città; a Roma il 24 febbraio ove era riuscito capolista con voti 8982, ed a Ferrara, ove s’era incominciato a votare la mattina del 18. Ma proprio allora il tenente maresciallo barone Haynau occupava le quattro porte della città ed imponeva, per precedenti sfregi alla residenza del console austriaco e conseguenti zuffe, la contribuzione di 206 mila scudi, sei ostaggi, l’innalzamento degli stemmi pontifici, sotto minaccia di bombardamento e saccheggio, e col termine del successivo lunedì. Le elezioni erano state sospese; ma è bello notare che i ferraresi rispondevano la successiva domenica 25 febbraio eleggendo con 8201 voti « a rappresentante del popolo Giuseppe Mazzini ». L’azione del Mazzini a Roma? Egli ha inspirato un’anima in una folla varia, imbevuta da secolari sentimenti e precetti servili, e la folla divenne popolo. Il lavoro confuso di risveglio era stato in parte compiuto, ma l’aveva compiuto Giceruacchio, ed era stato come uno squillo senza precisa direzione; il coraggio nella sublimità affascinante era rappresentato da Garibaldi : Mazzini dominava da un punto ancor più alto: era colui che aveva il potere di effondere dall’animo proprio il prestigio, che non comanda, ma attira l’ossequio. Era la guida che doveva dirigere perchè già maestro nel passato senza contraddizioni nè considerazioni d’opportunità di momento ; nul- 94 COSTANTINO PANIGADA la d’incerto era stato in lui e nulla che potesse sorprendere da lui sarebbe venuto. Egli si trovava fra suoi discepoli, di cui nessuno poteva pensare d’imporsi al maestro. Eppure anche chi non voleva essere dominato, e rifuggiva da quelle che stimava astrattezze prepotenti, come Carlo -Pisacane, così scriveva : « Griuseijpe Mazzini sorvolava al di sopra degli altri sulle ali del suo genio, e la sua opinione prevaleva in qualsiasi reparto ; la sua intelligenza splendeva fulgida, prezioso elemento delle più grandiose concezioni. Non v’e-ra alcuno che contestasse la sua superiorità ». Era adunque la forma del potere legittimo, che s’affermava in lui; non chiesto, ma dato; non imposto da chi doveva esercitarlo, ma a lui imposto più che da uomini in lui credenti, dalla responsabilità sua d’aver costruito un nuovo sistema politico. Un potere da esercitarsi entro i limiti politici consentiti dalla più democratica delle dottrine, ed in cui quindi v’era meno posto per il comando che per il consiglio, ed il trionfo primo, l’acquisto della fiducia anche dei molti che egli trovò a Roma ; che erano deputati della Costituente ma che da quel nome di repubblica erano lanciati in una sperduta incertezza, sia pur nella terra, ove, dopo quella greca ed in età meno remota, più aveva significato gloria e libertà ; e che vennero a poco a poco educandosi ed inchinandosi alla constatazione del bene che sapeva compiere una fede superiore incarnata nella probità d’un saggio. È vero: perchè rifulgesse l’uomo si svolsero avvenimenti drammatici, e furono causa dell’avvenire delle istituzioni politiche e religiose del mondo. Ed in quel momento Mazzini triunvirò a Roma giustificava l’apprensione di tutte le polizie per lui e per Popera sua, che fino allora si era dagli scettici e dai ciechi considerata con disprezzo; ora egli terrorizzava mostrando che quei sogni potevano divenire realtà. Era un mondo nuovo ; è stato il fatto più miracoloso dell’Italia dell’ottocento ; è stata l’espressione più sincera e più pura dei sentimenti e delle aspirazioni del risorgimento italiano, e dell’opera del popolo per condurlo ad effetto. Questo è ciò che ci dicono gli echi di quel tempo, e più intieramente quelli che sono nelle carte, le quali senza pretese di servire di documenti storici, della storia sono le attestazioni più spontanee. Un mondo nuovo s’affermava, e tutto il vecchio dovunque raccolse le forze, e furono minaccie spirituali, e furono forze armate che d’ogni parte si mossero. Gli austriaci, la minaccia più diretta e più attesa-, dal nord ; erano essi stati l’espressione costante della violenza tirannica e del dispotismo di governo: avevano conosciuto, le legazioni, le periodiche occupazioni suggerite od invocate dai papi, e solo in documenti da farsi noti talvolta deplorate. Ma per un momento tace il senso dell’isolamento, e si palpita per il gaudio di sentirsi uniti, nel pericolo, a fratelli. L’annunzio GIUSEPPE MAZZINI E LA REPUBBLICA ROMANA 95 della rottura del l’armistizio da parte del Piemonte giunse a Roma soltanto il 17 marzo : il presidente dell’assemblea, Carlo Bonaparte principe di Canino, gridava a gran voce: « Viva gli italianissimi soldati piemontesi! Viva la santa guerra italiana ! ». Il 18 marzo Mazzini ammoniva commoveva esaltava: « un grido sorse da tutti voi — viva la (Ju0rra — grido sublime, perche la guerra è santa, quando è fatta per Pincarnazionè di un’idea, pel trionfo di un grande principio.... Avete scelto la guerra, e Iddio vi benedica per questo. Ora, dovete farla e dovete vincerla— Prima conseguenza di questo programma, che voi avete dato con quel grido sublime, è, lasciate che io lo ripeta, un raddoppiamento di concordia fra noi.... Roma repubblicana militerà contemporaneamente a fianco del Piemonte monarchico. Le due bandiere hanno trovato anch’esse.... un terreno comune; hanno trovato una cosa, che santifica le due formole. Le questioni di forma spariscono. Noi siamo nella guerra fratelli. L’unica gara che può d’ora innanzi, pendente il tempo di guerra, esistere tra noi, è la gara di chi fa meglio ». Ma pochi giorni dopo, l’abbattimento. Ecco ciò che scrisse uno dei deputati, il Grillenzoni, il 30 marzo: «A un’ora e mezzo, o circa le due, sgombrò il popolo dalle tribune, e noi ci chiudemmo in Comitato Segreto, e ci restammo sin dopo le S. Ci furono lette quivi le tristissime notizie della guerra. « Fu introdotto Valerio, ch’era alterato dalla passione in modo da far pena : ci eccitava a correre a passare il Po. Fu risposto avremmo fatto quanto avesse domandato l’onore italiano, e quanto le forze nostre ci acconsentissero, per la difesa della causa comune, presi i concerti necessari con Pepe e con Toscana. Non credo che sia partito contento. Ma se l’esercito è disfatto, se, (abdicato il re) il tìglio ha capitolato, che potremo fare colle nostre forze contro Ra-detzki vittorioso?... Il risultato è stato che si concentrano tutte le forze verso i confini sì austriaci che napoletani, che se la guerra sé-guita e Lombardia è insorta, si passerà (dipendentemente dai concerti presi con Pepe) nel Veneto. Altrimenti veglieremo alla sicurezza del nostro territorio. A tale effetto si organizzerà la leva in massa per essere pronti ad attivarla da un momento all’altro. In tempi di pericolo è poi necessario concentrare il potere in pochi, e sarebbe ridicolo che l’assemblea sovrana volesse quind’innanzi decidere su tutti i movimenti di guerra e le risoluzioni da preludere. Fu perciò sciolto il potere esecutivo attuale ed affidato il governo ad un triunvirato, cui si concedono poteri illimitati per la guerra e la salvezza del paese. Furono eletti triunviri Mazzini Saffi Armellini, i primi due quasi a pieni voti, l’ultimo con due terzi almeno ». Il 5 aprile il triunvirato pubblicava il proprio programma : « Libertà e virtù, Repubblica e fratellanza devono essere inseparabilmente congiunte.... La Repubblica in Roma è un programma· ita- 96 COSTANTINO PANI G AD A liano: una speranza, un avvenire pei ventisei milioni d’uomini, nostri fratelli.... Noi non siamo governo d’un partito, ma governo della nazione.... Nè intolleranza nè debolezza. La Repubblica è conciliatrice ed energica. Il Governo della Repubblica è forte; quindi non teme; lia missione di preservare intatti i diritti e libero il compimento dei doveri d’ognuno; quindi non s’inebria d’una vana e colpevole securità.... Economia degli impieghi; moralità nella scelta degli impiegati____ Non guerra di classi, non ostilità alle ricchezze acquistate, non violazioni improvvide o ingiuste di proprietà ; ma tendenza continua al miglioramento materiale dei meno favoriti dalla- fortuna.... Ci secondino i buoni ; Dio, che ha decretato Roma risorta e l’Italia nazione, ci seconderà ». Lo si è già detto: in Roma d’una folla svariata il Mazzini colla luce dei suoi princìpi andava facendo un popolo, di Roma riuscì a fare il cuore d’Italia : non era il solo asilo della libertà italiana, perchè quasi la sorte volesse, attestando le virtù italiche, rievocarne in particolare le città, che un patrimonio più glorioso avevano apportato, resisteva Venezia. Ma Roma era l’unico centro davvero capace di attrarre a sè la vita della nazione per diffonderla nuovamente potente a tutte le estremità d’Italia. Nella seduta del 17 marzo il presidente della Costituente aveva letto un indirizzo inviato da 57 rappresentanti del popolo francese ai « cittadini membri dell’assemblea costituente romana ». L’avevano firmato fra gli altri Deville, Ledru-Rollin, Demostene Ollivier, Proudhon, Lammennais ; ed incominciava : « La democrazia francese saluta in voi, con entusiasmo, la repubblica gloriosamente fondata sulle rive del Tevere. Onore al popolo romano ! La storia ammirerà la grandezza dell’opera sua ». Ed era stato incaricato della risposta Mazzini, che così la incominciava : « Cittadini, il vostro indirizzo ci è giunto in un momento solenne, alla vigilia della battaglia ; e? noi vi attingeremo nuove forze, nuovi incoraggiamenti per la santa lotta che sta per aprirsi » ; e così finiva : « Fidate in noi ; noi fidiamo in voi. Se mai nella crisi che stiamo per attraversare le forze ci mancassero, noi ricorderemo allora· le vostre promesse ; noi vi grideremo : Fratelli, l’ora è venuta, sorgete ! e noi vedremo i vostri volontari ad accorrere. Insieme combattemmo sotto l’impero; noi combatteremo un’altra volta insieme per quanto v’ha di più sacro per gli uomini: Dio, Patria, Libertà, Repubblica, Santa Alleanza dei popoli ». Il 24 aprile in una comunicazione all’assemblea da lui stesso letta, il triunviro, ricordato che un sussidio era stato dal governo francese ottenuto dall’assemblea per una spedizione sulle coste d’Italia in un punto del territorio della repubblica, comunicava che « l’opinione generale diffusa nei corpi che componeva/no la divisione, era GIUSEPPE MAZZINI E LA REPUBBLICA ROMANA 97 che essi eran chiamati a difendere l’inviolabilità della Repubblica romana », e terminava dichiarando « che il triunvirato memore del mandato conferitogli dall’assemblea, di preservare la salute e l’onore della Repubblica contro ogni tentativo interno ed esterno, aveva preso ed avreyie preso tutte le misure richieste dal mandato assunto, dai diritti sacri e dalla dignità della Repubblica romana ». Venti giorni prima il governo di Roma stava ancora studiando le risoluzioni da prendersi riguardo all’assunzione del generale Char-ras, che aveva fatto per sette anni la guerra d’Africa, e che era stato ministro della guerra per tre mesi sotto il governo provvisorio, ed a Roma s’aveva notizia dell’arrivo a Livorno « d’una porzion-cella dei tanti fucili che si aspettavano ». Nella seconda seduta dello stesso giorno, apertasi alle nove della sera, si leggeva un’altra breve comunicazione dei triunviri : « La vanguardia della spedizione francese s’è presentata questa mattina davanti a Civitavecchia. Il forte è nelle nostre mani. Noi crediamo che l’assemblea debba radunarsi e dichiararsi in permanenza, e vi invitiamo ad attivarvi per questo. Importa che tutti i poteri siano pronti a sostenere con tutti i mezzi in loro potere la Repubblica, e a testimoniare per essa ». Dal proclama dell’Oudinot agli « abitanti degli stati Romani », appariva chiaro il carattere ostile della spedizione : non veniva — si diceva — a difendere quel governo che la Francia non aveva mai riconosciuto ; gli interessi spettanti al popolo romano si estendevano, più ampiamente parlando, all’Europa intera e a tutto il mondo cattolico ; si voleva facilitare lo stabilimento di un regime « egualmente lontano dagli abusi per sempre distrutti dalla generosità dell’illustre Pio IX e dall’anarchia di questi ultimi tempi ». Ma tre inviati dell’Oudinot ai triunviri dichiaravano che l’oggetto della spedizione era salvare gli stati della repubblica da un’invasione di nemici esterni, nominativamente dall’Austria e da Napoli, e di constatare quali fossero le reali opinioni delle popolazioni romane ; e lo stesso generale a-1 deputato Rusconi dichiarava che a Roma la Francia non sarebbe andata che come amica. Mazzini proponeva la resistenza a qualsiasi costo. Scriveva in una lettera familiare il Grillenzoni : « Se tu vedessi 10 spirito di Roma! Alle 9, questa mattina c’è stata la rivista della; Guardia Nazionale in Piazza S.S. Apostoli. Quale spettacolo ! Erano seimila. Affacciatici noi alla ringhiera di uno di quei palazzi, 11 Preside Galletti li ha arringati testimoniando loro la nostra riconoscenza e la nostra fiducia ». Noi non possiamo descrivere le gloriose prove di valore, che solo una voce potente ed ispirata potrebbe degnamente esaltare. Ma ci sia permesso di riferire queste poche righe del deputato alla Costituente testé ricordato : « Lo spirito del popolo di Roma è eroico 98 COSTANTINO PANI G AD A veramente; sino le donne e i fanciulli correvano col fucile alle barricate. Alcuni bambini Della Spera/n^a hanno fatto prodigi. Roma la sera è sempre illuminata a festa, e regna il massimo ordine, la massima tranquillità.... Qui spira in tutti quell’alito di vita che fa grandi i popoli, può salvare le nazioni e renderle gloriose m eterno »; E a Parigi? a II paese qui è molto esasperato, e da due giorni vi sono degli attruppamenti in quartieri popolari. Ieri sera al mio arrivo le porte di Saint Martin e Saint Denis erano occupate da tre battaglioni militarmente. Da un momento all’altro mi aspetto qualche cosa di nuovo.... Intanto tutti qui predicano che si tenga forte a Roma, almeno per un poco, e tutto è finito ». Questo scriveva un italiano, che in quei momenti difficili, s’era recato a Parigi, ove cercava d’adoperarsi per la patria. Il governo francese ed il presidente Bonaparte avevano un ben deciso fine da raggiungere : restaurare il potere temporale in Roma ; avevano una tattica da seguire : ammantarsi di ipocrisia liberale. Il ministero aveva dall’assemblea un voto di sfiducia il < maggio, ma il Bonaparte lo manteneva al potere. Ma si era costretti a mandale il Lesseps a Roma. Perchè l’ora fosse più epica si moltiplicavano i nemici: gli austriaci attaccavano Bologna e dovevano occuparla il 17 ; a Palestrina il 9 le truppe repubblicane battevano le borboniche ; il 19 l’esercito di Roma si scontrava vittoriosamente a Velletri coi napoletani in ritirata ; il 24 gli austriaci iniziavano Passedio di Ancona; il 26 sbarcava a Gaeta la spedizione militare spagnola. Di fronte al Lesseps Mazzini si comportò con la- sapienza diplomatica di chi sa quanto può aspettarsi dalle circostanze e dagli uomini : il 23 maggio scriveva alla madre : « Di due nemici che avevamo, il napoletano è fugato; il francese è incerto, imbarazzatissi-mo e temente della crisi che gli si prepara in casa ». Dalle elezioni in Francia era uscita una enorme maggioranza clerico-bonapartista ; ma anche una vigorosissima minoranza . circa duecento deputati repubblicani socialisti. La fermezza del tiiunvi-rato piegava il (Tiplomatico della Francia, che il 31 maggio nonostante ogni sforzo per evitarlo finiva, nello stesso principio dell accordo, col riconoscere l’Assemblea Costituente romana. « 1°) L’appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni delli Stati romani. Esse considerano Parmata francese come un armata amica, che viene a concorrere alla difesa del loro territorio. 2°) D’accordo col Governo romano, e senza immischiarsi affatto nell’amministrazione del paese, Parmata francese prenderà gli accantonamenti esterni convenevoli tanto per la difesa del paese che per la salubrità delle truppe ». Quando gli « articoli consentiti dalPAssemblea Costituente romana e dal signor Lesseps » furono letti ai deputati nella seduta del primo giugno, fu l’esplosione d’un entusiasmo unanime, furono GIUSEPPE MAZZINI E LA REPUBBLICA ROMANA 99 grida di Viva la repubblica romana, ripetute dalle tribune fra applausi vivissimi. Diceva il Cernuschi : « Il popolo ha fatto il proprio dovere. L’Assemblea e i Triumviri hanno la coscienza d’aver fatto il proprio dovere ». Ed invero, vi sono fortunatamente nella storia dei popoli momenti in cui sembra che contrasti e difficoltà s’appianino come per l’inchinarsi dei contendenti innanzi ad una verità, che s’impone per la vivezza della luce in cui risplende. Sono i momenti del trionfo dello spirito ; possono essere fugaci, possono essere seguiti dal torbido sopraffare della forza ingiusta, ma sono i momenti che decretano la vittoria a chi ne è più degno. Sorgeranno nuove difficoltà ancora ; si sarà battuti, si tornerà a lottare, ma la vittoria, ti^ascdr-rano quanti anni vogliano, non si cancellerà. E la vittoria fu del Mazzini, del triunvirato, dell’assemblea, e del popolo romano, anche se il giorno stesso primo giugno giungeva al governo della Repubblica il rifiuto dell’Oudinot di riconoscere gli accordi, « Io sono convinto — egli diceva — che, sottoscrivendoli il signor Lesseps ha oltrepassato i suoi poteri. Le istruzioni che ho ricevuto dal mio governo mi interdicono formalmente di associarmi a quest’ultimo atto. Io lo riguardo come non avvenuto.... ». La doppia politica, quelìa che si faceva alla luce del sole, quella diremo dell’assemblea, e l’altra, sotterranea, del presidente e dei ministri, veniva rivelata dal contegno dei due francesi, del diplomatico e del generale, che erano t ' I mistio di Pantoi già aveva dato due ordini : col primo richiamava il Lesseps; il secondo era l’attacco alla città. L Oudinot scriveva al Rosselli ch’egli per dar tempo ai residenti francesi, che volessero abbandonare Roma, di farlo con facilità, e su richiesta del cancelliere dell’ambasciata di Francia·, differiva l’attacco della piazza fino al lunedì mattina, 4 giugno. Due anni prima, a proposito della violenza usata dagli austriaci a Ferrara·, dappertutto s’era discusso intorno al significato della parola piazza ; ora l’Oudinot l’interpretava in modo che per lui le ville Pantili e Corsini, ed il convento di S. Pancrazio, non facevano parte di quella di Roma. L· all’alba del 3 giugno, ventiquattro ore prima del momento in cui i difensori avrebbero potuto aspettarselo, più migliaia di francesi le assalivano e le occupavano. Nella villa Panfili erano quattrocento soldati, metà bersaglieri romani, metà del sesto reggimento fanteria. Ma « il generale Oudinot non sapeva fax-bella la santa causa che difendeva se non adornandola ed imbellettandola delle più vituperose menzogne.... Se non vi fossi testimonio — scriveva il Grillenzoni — cogli occhi miei di quauto qui accade, non ardirei credere che si potesse discendere a tanta bassezza; mi parrebbe di rinnegare ogni dignità della nostra· natura. Scrive al suo Governo che villa Panfili era occupata da ventimila uomini dei nostri, e che con pochi suoi se n’è impadronito ». 100 COSTANTINO PANIGADA Meschine vanterie ove i fatti stessi più importanti scomparivano innanzi al pensiero, ed a quello che di là il pensiero avrebbe tratto. Aveva più forza e più vita 1’elogio di Mazzini, il quale, per 1 tnun-viri, ai combattenti, che da se stessi e dalla propria volontà avevano preso l’ardore necessario al sacrifìcio, diceva : « Dio vi benedica, custodi delle glorie paterne; come noi, orgogliosi di aver indovinato ciò ch’era· in voi, vi benediciamo in nome d'Italia ». Ma ogni opera esige d’essere compiuta per acquistare valore, e nessuna forza d’animo può rinunciare ad alcun tentativo che alimenti una speranza : quale linea distingua la visione d’un mondo avvenire dal sogno irrealizzabile nessuno può dire, perchè si sente dai poôhi, i quali, per fortuna., non si stancano mai, anche se d ogni intorno soffocati dagli scettici e dagli indifferenti. Per Mazzini di cui nessuno ha compreso con maggior amore, ma anche con più nitidezza di concetto, la nazione, era anche, propoi-zionata allo splendore della concezione dell’idea di ciascuna, bella e giusta la famiglia delle nazioni. E quindi la santità dei legami fra coloro che nelle nazioni diverse aspiravano a superiori ideali comuni, e la coscienza d’una solidarietà fra di essi, e gli appelli d’aiuto reciproco. Ed all’appello del Mazzini risposero, come hanno potuto, Ledru-Rollin ed i suoi compagni. Il deputato di Parigi non era il capopopolo ribelle : era, oltre che il difensore della giustizia d’un popolo assalito colla violenza da chi esso non aveva mai offeso, il difensore della legalità e della costituzione. Fu sopraffatto, dai voti contrari, all’assemblea, e poscia le colonne dei dimostranti al grido: «viva la Repubblica Romana» furono il 13 a Parigi dispersi dai dragoni a cavallo ; dei deputati dell’opposizione, chi non riuscì a fuggire fu arrestato. Ed allora, era ormai pazzia chiedere a Roma la resistenza? Nel cinquecento Firenze, in un tempo in cui fino al limite estremo si sentivano l’amore alla libertà e lo spirito di parte che la· minacciava, aveva saputo dimenticare la prudenza dei padri, i quali « declinando — come disse il Guicciardini — e’ pericoli a’ quali si cognoscevano inferiori, cercavano di salvare la città et el paese, con la speranza che restando vivi potrebbeno a qualche tempo risurgere » ; ma anche più energia era richiamata dal programma dell’Italia del ’49 : era, con il diritto alla libertà, richiesto il diritto di costruire. Per questo scrisse poi il Mazzini : « Noi dovevamo resistere fino all’estremo. Le monarchie possono capitolare : le repubbliche muoiono ». Il 30 giugno i francesi si lanciavano un’altra volta all’assalto della città; Mazzini convocava un consiglio di guerra: le sorti ormai erano favorevoli ai nemici : la maggioranza decideva la resistenza in città. GIUSEPPE MAZZINI E LA REPUBBLICA ROMANA 101 Nello stesso giorno 1’ Assemblea Costituente completava la costituzione nei suoi principi fondamentali, di carattere s’intende, prettamente democratico. Votata all’unanimità il 1° luglio, fu nel mattino del 3 promulgata dalla loggia del palazzo centrale del Campidoglio, presenti tutti i deputati, dinnanzi a folla di popolo plaudente e fremente. Il 30 giugno s’era presentato Garibaldi all’assemblea ed aveva dichiarato la difesa impossibile. L’assemblea aveva perciò decretato cessata la difesa e rimesso al municipio romano di trattare col nemico per la salvezza della vita e delle proprietà dei cittadini. L’assemblea il 1° luglio aveva decretato che i triunviri avevano bene meritato della patria. Un proclama di questi aveva annunziato al popolo che essi si erano sciolti: si diceva ai romani: « Una nube sorge oggi tra il vostro avvenire e noi. È nube d’un’ora. Durate costanti nella coscienza del vostro diritto e nella fede per la quale morirono, apostoli armati, molti dei migliori fra voi. Dio, che ha raccolto il loro sangue, sta mallevadore per voi. Dio vuole che Roma sia libera e grande; e sarà ». I triunviri rinunciavano perchè non ritenevano esauriti tutti i mezzi di difesa. Poiché l’assemblea ad essi ancora scriveva chie dendo notizie delle trattative fra il municipio di Roma e l’Oudinot, Mazzini la rimproverava tanto acerbamente d’aver ceduto, quando ancora si sarebbe potuto resistere, che i deputati si ritenevano offesi, e nominavano un nuovo triumvirato in Saliceti, Calandrelli e Mariani. Ma Roma ormai cadeva nelle mani degli stranieri. Scriveva in una lettera il Grillenzoni il 6 luglio : « Vidi ieri in corso Mazzini, e lo salutai con affetto ». Ed il giorno dopo : « Questa mattina ho salutato Mazzini. Quanto è triste! ». Triste : certo, anche per il sangue sparso dall’ardimentosa generosità di giovani — uno di essi intimamente a lui vicino, Goffredo Mameli —, sangue ben degno della pienezza della vittoria ; per la sopraffazione della forza sul diritto ; per l’affermarsi prepotente della menzogna, dei mezzi subdoli, della frode, della disonestà politica di quei ministri a cui egli poteva scrivere: «Voi siete ministri di Francia, signori: io non sono che un esule.... pur non vórrei mutare la mia sorte con voi. Io porto con me nell’esilio la calma serena d’una pura coscienza. Posso levare tranquillo il mio occhio sull’altrui volto senza temenza d’incontrar chi mi dica : tu hai deliberatamente mentito.... Dio salvi a voi, signori, il morir nell’esilio, perchè voi non avreste a confortarvi coscienza siffatta » ; triste per l’affermarsi della politica e della fortuna, sia pur momentanea, di quel Luigi Napoleone antico cospiratore, a cui profetizzava : « Voi, abbandonato, schernito, maledetto da quei ch’oggi s’avviliscono più di menzogne e di lodi davanti a voi, andrete, vittima espiatrice di 102 COSTANTINO PANIGADA Roma, a morire in esilio » ; triste per il contatto con la dura realtà, in cui l’uomo dotato di bontà e di fede trova sempre delusioni. Eppure non mai come allora era giganteggiata la figura sua. L’avevano atteso i moderati quasi con trepidazione : speravano soltanto che fosse un uomo quanto repubblicano altrettando d’ordine ; ed uno di quei repubblicani moderati, il Grillenzoni già più volte ricordato, scriveva nei momenti di lotte più vive : « Parrà strano a chi non conosce le cose di Roma che il partito più moderato sia sempre caldo nell’idea di mantenere Mazzini al potere : Mazzini contro cui si scagliano principalmente le calunnie dei forestieri e degli italiani degli altri stati : Mazzini che accusano di mantenersi colla violenza e col terrore al potere. Povero Mazzini!... violenza e terrorismo sono ridicolezze.... ». Non violenza, adunque, ma saggezza ed energia, e capacità d’innalzarsi tanto nel toccare le note più sensibili dell’animo umano da frenare anche l’irrequieta e generosa impulsività di Garibaldi ; e sommo rispetto dei sentimenti altrui, senza venir meno a quello de’ propri principi : rispetto, del resto, sgorgante dalla fede che il popolo è il vero interprete della suprema volontà. Le costanti condizioni di guerra ed i pericoli da ogni parte incalzanti, e le proteste di Pio IX, che aveva posto un caso di coscienza all’animo di tanti sudditi cattolici, se imposero una particolare attività per i problemi più gravi ed urgenti, non permisero un esempio troppo vasto di politica, generale. Eppure quell’episodio di storia italiana non è un qualche cosa che sia ora, o che — lo sentiamo — possa rimanere freddo oggetto di studio per i curiosi del passato ; poiché da esso viene *una luce di vita, suscitatrice di fede nel miglior bene, a cui può giungere la forza dell’ingegno e l’aspirazione naturale dell’animo umano. Costantino Panigada G. GARIBALDI B LA QUESTIONE DI ROMA (Continuazione e fine - V. numero precedente) Intanto, il 24 febbraio, dopo aver ricevuta una rappresentanza degli esuli romani a Firenze, la quale gli presentò un indirizzo in cui si « affrettava il giorno dell’azione », Garibaldi partì, accompagnato dalla figlia Teresita, dal genero Stefano Canzio, da Giovanni Acerbi e da J. W. Mario. Sostò a Bologna, dove erano a riceverlo Giuseppe Galletti, Quirico Filopanti, Vincenzo Caldesi, il figlio di Giuseppe Petroni e tanti altri, e scese al San Marco, da lui preferito « per deferenza del martire Ugo Bassi, la cui sorella era moglie del proprietario dell’albergo ». E di là arringò la folla che si era assiepata sulla via, dichiarando : « Io e la popolazione dell’8 agosto siamo antiche conoscenze. Abbiamo fatto qualche cosa insieme. Forse qualche altra cosa rimane a fare : la liberazione di Roma ; ma dobbiamo preferire di ottenerla per le vie pacifiche e legali. Onde ciò sia, mandate al Parlamento degli uomini che ci facciano andare a Roma, come a casa nostra quale si è ; che abbiano più a cuore gli interessi del popolo che quello dei preti. Questi si contentino di avere che vivere, ed i milioni che vorrebbero dare al Duoncean (6) si consacrino piuttosto a dar lavoro ai poveri operai. Sopratutto ricordatevi di non dare il voto a quelli che l’han sempre dato in favore dei preti ». La mattina dopo, alle sei, riprese il viaggio che poteva ormai definirsi elettorale. Sostò poche ore a Ferrara, dove prese stanza al palazzo Strozzi, e pur di là arringò la folla plaudente, accennando naturalmente alle « vessazioni del Governo papale e del prete », e proponendo il dott. Timoteo Riboli come candidato a quel collegio elettorale; ripartì alle 11 e all’una e mezza del pomeriggio era a Rovigo. Aveva deciso di proseguire per Lendinara e pernottarvi, ospite di Alberto Mario ; trascorse invece la notte nel palazzo Mar-chiori, ma prima parlò alla folla, e dopo di aver tributato lodi ad (5) B. Ricasqli, Lettere e documenti, vol. IX, pp. 279-280. (5 bis) Id., vol. IX, p. 300. (6) Il conte Langrand-Dumonceau, belga, aveva stretto col Governo italiano un disegno di convenzione riguardante la liquidazione e conversione dell’asse ecclesiastico, in previsione che la legge relativa fosse stata approvata dal Parlamento. Yed. il Diritto del 29 gennaio 1867. 104 MARIO MENGHINI Alberto Mario « una delle più belle figure della nostra Italia », raccomandò l’elezione dell’Acerbi. Nel pomeriggio del 27 febbraio Garibaldi giungeva finalmente a Venezia. Ebbe un’accoglienza trionfale, maggiore di tutte le altre avute nelle città dove si era soffermato ; e poiché la folla gli si addensava attorno, formando un « agglomeramento spaventoso di persone », corse pericolo di rimanere soffocato. Fortunatamente, giunto alla peota, « un antico suo compagno d’armi, vista ia mala parata, con robuste braccia, sollevò da terra il venerato capitano e lo depose in barca ». Durante il tragitto dalPimbarcadero della Lista di Spagna al palazzo Zeccbin, dov’era ospite, avvennero scene curiose. Da una delle innumerevoli gondole che seguivano la peota del Generale si rizzarono in piedi due dame « sfarzosamente abbigliate » ; la prima gridò : « Generale, vi mando un bacio a nome di tutte le veneziane » ; e l’altra, più ardita : « Generale, vi mando un bacio per me e per conto e nome di tutte le triestine ». E Garibaldi ricambiò i baci « con un sorriso di compiacenza ». Non appena entrato nel palazzo Zeccliin, costretto dall’entusiasmo popolare, dovette affacciarsi al balcone e parlare alla folla che faceva calca in piazza San Marco. Era uno spettacolo imponente. « La piazza stipata di popolo — pavimento di teste veduto dall’alto — un grido universale di plauso — i concerti dellHnno garibaldino nel mezzo —* al chiaror di mille fiamme di gas e le illuminate variopinte tende della fiera carnevalesca — le maestose moli di San Marco e della Procuratie per contorno — costituivano un quadro che nessuno saprebbe adeguatamente descrivere ». Disse delle glorie, dei dolori di Venezia, del prossimo risorgimento « del più puro gioiello d’Italia » ; concluse con quello che ormai era per lui l’argomento principale. « Abbiamo ancora un bocconcino del nostro paese che è fuori del gregge, bocconcino che non manca di avere la sua importanza.... Roma. Dunque, Roma, che quei signori mitrati non vogliono cedere alla Italia, e che pure è nostra capitale, colle buone o colle cattive faremo in modo che ce la diano. Quei signori preti, che per tanti secoli l’hanno goduta, deturpata, trascinata nel fango, e del primo popolo ne han fatto una cloaca, sarebbe tempo che finissero d’insudiciarci, che ci lasciassero la nostra capitale. Io sono persuaso che l’Italia ha abbastanza valorosi per prendersela con le armi. Ma non credo che sia il caso. Roma è nostra, è nostra legalmente. In conseguenza, andremo a Roma, come andiamo nella nostra stanza, a casa nostra. EÎ spero che non vi sarà bisogno di prendere le armi ! troppo facile sarebbe andare colle armi ; noi siamo assuefatti a imprese ben più ardue ! Dunque oggi gPltaliani devono ottenere Roma coi mezzi legali : chiederla al Governo italiano, e per conseguenza mandare al Parlamento uomini G. GARIBALDI E LA QUESTIONE DI ROMA 105 elie non patteggino coi preti, nè coi complici dei preti, nè coi protettori dei preti ». Pur troppo, nella serata avvenne un incidente piuttosto grave. Una turba di « ragazzacci » s’addensò sotto le finestre del palazzo patriarcale, lanciando sassi, e costringendo a « metter fuori le bandiere e poi i lumi ». Il Generale riprovò « altamente quei fatti indegni d’un popolo libero e civile»; ma quell’atto increscioso fu argomento di aspri commenti e persuase il Governo a tener gli occhi aperti, perchè non si rinnovasse. Il Pasolini, che pure, quand’era prefetto di Milano, aveva nel 1862 fatte le più affettuose accoglienze al Generale, andando a rendergli visita e invitandolo a pranzo (7), tenne questa volta un contegno assai diverso. Il 1° marzo, annunziando al Iiicasoli la partenza di Garibaldi da Venezia, scriveva : « Il risultato della sua visita fu poco soddisfacente per lui e forse utile alle elezioni. La ovazione fatta ieri in teatro al principe Amedeo fu grandissima e significante. Il principe ringraziò inchinandosi, e vi pose fine ritirandosi dal suo palco e venendo nel mio, dove mia moglie e la contessa Pianell erano in piedi, agitando ancora il fazzoletto, come tutte le altre signore. Nè Garibaldi (era appunto nel palco accanto al nostro, datogli dal Municipio), nè alcuna delle sue signore si levarono o applaudirono. Garibaldi non fu applaudito quando partì dal teatro, ma lo fu nell’atrio. Io non fui a vederlo : 1°) perchè questo era vostro desiderio, e se io fossi andato, credo che tutti i Prefetti in seguito sarebbero andati; 2°) perchè egli non aveva fatto visita al principe Amedeo, sebbene forse a mia insinuazione l’avrebbe fatto ; 3°) perchè nell’insieme delle circostanze non mi parve utile il farlo » (8). Il Pasolini afferma nelle Memorie che Garibaldi parve scontento di quella scena al teatro, allo stesso modo che parve esserlo contro il Municipio « e particolarmente contro} il Sindaco che avendolo invitato a solenne banchetto, non aveva potuto invitare con lui i suoi seguaci per difetto di una sala abbastanza ampia e capace » ; ed aggiunge che « volle partire la mattina seguente, troncando il suo soggiorno a Venezia come impresa fallita » (9). Comunque, nei due giorni in cui rimase nella Laguna, visitò Chioggia ; ma prima volle ricevere una deputazione di, cittadini di Udine, che l’invitarono a recarsi colà; e a Venezia ascoltò i rappresentanti di Treviso, di Padova, di Vicenza, e specialmente quelli d’un Comitato nazionale triestino-istriano, che gli presentarono un indirizzo in cui era accennato « alle braccia supplichevoli che l’Istria infelice tendeva alla sua Venezia (10). (7) G. Pasolini, Memorie raccolte da suo figlio (4a ediz.) ; Torino, Bocca, 1915, vol. I, p. 377. (8) B. Ricasoli, Lettere e documenti, vol. IX, p. 310. (9) G. Pasolini, MemoHe, vol. II, p. 76. (10) Diritto del 2 marzo 1S67. 106 MARIO MENGH1NI Il 1° marzo partì per Udine. Fu ospite colà al palazzo Mangili, e da un poggiolo parlò alla folla. Disse che forse non ci sarebbe stato bisogno di far « la guerra all’Austria, giacché si sfasciava da sè ». Consigliava però « di continuare nell’esercizio delle armi » ; e aggiunse: «L’integrità dell’Italia non fa piacere a tutti; siccome abbiamo dei nemici potenti, bisogna esser forti, bisogna coltivare il tiro a segno, il maneggio della carabina ». Poi, udita una voce esclamare : « E il prete? » egli concluse : « Aspettate che parlerò anche dei preti. Per Roma, spero che la vedremo finita tra breve ; bisogna torsi dal cuore questo morbo. Coi preti, violenza no ; siamo abbastanza forti e non dobbiamo usare violenza. Ma voi dovete dire ai vostri rappresentanti che i milioni dell’alto clero vanno spesi a beneficio del popolo che ha fame ». Rivolse infine un saluto alle bandiere abbrunate del Trentino, di Trieste, dell’Istria che « erano portate da alcuni emigrati da quei paesi ancor divisi dalla famiglia italiana » (λ1). Nè qui terminarono le sudate fatiche del Generale. Stefano Canzio che fino allora lo aveva docilmente seguito insieme con la moglie con la quale, rinunciando a quella straordinaria corvée, era rimasto a Venezia, scriveva in quello stesso giorno al Crispi : « Io e Teresita restammo qui — precederemo a Padova l’arrivo del Generale in quella città — non amando portare Teresita nelle vallate delle Alpi Friulane, tanto più viaggiando come viaggia il Generale, volando » (12). Infatti, lo stesso giorno, il Generale partì per Palmanova e di là visitò Verona (13) e Mantova, proponendo il Castellazzo a deputato di quella città. Volle recarsi all’ara di Belfiore ; e si prostrò « baciando con tanta devozione su quelle tombe, che fece cadere una lacrima alle migliaia di persone che erano accorse per rendere omaggio a quei simulacri d’amore per noi, e di terrore per i nostri nemici » (14). i11) Id. del 4 marzo 1867. (12) F. Crispi, Carteggi politici inediti; Roma, l’Universelle, 1912, p. 23ì. Sembra che il Canzio non dividesse le rosee speranze della stampa devota a Garibaldi sugli effetti di quelle lunghe peregrinazioni. Scriveva infatti al Crispi : « Nulla ti dirò del viaggio del Generale e delle varie accoglienze avute nelle varie città che visitò. Sorpassa rincredibile, ma temo molto del risultato. Il Paese si entusiasma, ma non ci comprende ancora; v’è molta illusione pel Governo, spinta al punto che malgrado i discorsi del Generale, il Paese crede ad un perpetuo accordo fra lui e Ricasoli ». (13) Gazzetta del Popolo del 13 marzo 1867. (14) A Verona si svolse una curiosa scena. Dalla folla che si accalcava alla stazione per assistere all’arrivo del Generale, si staccò una donna che pregò Garibaldi a battezzare un bimbo che recava in braccio. E Garibaldi « commosso, sorridendo lo battezzò in nome di Dio e del Legislatore Gesù ». E disse : « Ti chiamo Chiassi [il prode colonnello mantovano, morto a Bezzecca] ; sii forte per combattere i tiranni; ama i tuoi simili, soccorri i simili ». Id. Ved. pure il Guekzoni, Garibaldi; Firenze, Barbèra, 1882, vol. II, p. 476, che dà una versione non molto diversa di questo incidente. G. GARIBALDI E LA QUESTIONE DI ROMA 107 Garibaldi si sentiva oramai stanco. I disagi di quel lungo peregrinare per tante terre d’Italia, durante una stagione quasi invernale, gli avevano resi più acuti quei dolori artritici che da più anni lo tormentavano. Rimase qualche giorno in riposo a Mantova, e PII marzo, dopo un’apparizione di poche ore a Milano, giunse a Torino, dove fu ospite della marchesa Pallavicino. Colà, da un balcone del palazzo, pronunziò un altro discorso che fu questa volta ispirato a sensi di moderazione. Tuttavia, ebbe modo di accennare a un « connubio liberticida, intimorito dalla prepotenza straniera » che voleva contendere « l’ultima spinta verso la nostra capitale, Roma ». Ripartì da Torino il 13 marzo, visitò Asti, che lasciò lo stesso giorno per Alessandria, dove ripetè ancora una volta, in un discorso tenuto dinanzi a numerosa folla di popolo, che occorreva « mandare al Parlamento deputati che non patteggiassero coi clericali, che erano quelli che impedivano di andare a Roma » ; e per clericali « intendeva pur quelli che sono i protettori e i complici dei clericali ». Ricevette pure una deputazione di Nizzardi che « gli parlarono nella natia favella », usata pure dal Generale nel rispondere. E il corrispondente della Gazzetta del Popolo, che era presente, osservò che lo sguardo di Garibaldi « al vedere i figli della sua venduta terra si fece un istante fosco : si rasserenò presto, e mandò ai suoi Nizzardi l’augurio della speranza ». La sera stessa, accettato l’invito di Giorgio Pallavicino, lasciò Alessandria e si recò a San Fiorano, presso Codogno. Colà ebbe una ripresa ancor più acuta dei suoi dolori artritici, che l’inchiodarono per più mesi nella villa che con signorilità gli avevano messo a disposizione i marchesi Pallavicino; e mentre attendeva l’esito delle elezioni politiche di ballottaggio del 17 marzo, le quali dovevano fare eseguire una svolta alla politica italiana, riceveva il giorno dopo il suo arrivo questa lettera del Ricasoli : « Caro Generale, « L’attitudine da voi presa dacché lasciaste gli ozi di Caprera, ha chiamato a sé l’attenzione di qualche uomo che non si tenga estraneo, comunque ne siano i motivi, alle sorti del paese. Io in particolare vi osservo per duplice ragione, e per l’affetto che porto a voi e al paese, e per il dovere della posizione mia officiale, che m’impone di vegliare alle sorti della patria nostra. Dal giorno che voi lasciaste l’isola per venire in terraferma, compresi il vostro disegno, o per meglio dire compresi il disegno di coloro che chiamandosi vostri amici pensano ad una cosa soltanto, di valersi cioè della persona vostra per i disegni loro, che spesso, sventuratamente, sono in opposizione assoluta cogli interessi veri della patria, e perciò debbono essere an- 108 MARIO MENGHINI cora in opposizione colle intenzioni vostre. Non tardaste, Generale, a far chiara la meta propostavi. Io n’ebbi dolore per voi. Vi avrei voluto avvertire, ma la posizione officiale e la mia natura si fecero impedimento al mio desiderio. Le ragioni di Stato e quelle di certa suscettibilità personale, prevalsero a quelle dell’amicizia. Chi avrebbe levato dal capo di coloro che vi stanno attorno, e forse a voi medesimo, che la mia parola non fosse suggerita da un sentimento di paura? La mia stessa persona non avrebbe bastato ad allontanare da me questo sospetto, tanto è invalso fra gli Italiani il mal uso che ogni uomo, sol perchè siede al Governo, abbia ad essere divenuto un me· schinello, stupido, codardo ed anche ciuco per non dir peggio. Oggi poi che gli Italiani si sono pronunziati in prima istanza sugli uomini, che intendono far prevalere nel Parlamento Nazionale, e sembrano volere giustificare e la fiducia e i fini che mossero alla rinnovazione della Camera, io pretermetto l’amicizia e il rispetto che vi professo ad ogni altra considerazione. Voi lasciaste Caprera per premere col vostro nome, la vostra persona, la vostra parola sugli animi degli elettori, onde scegliere Deputati alla vostra maniera. Veduta la cosa dal punto di vista della legalità, voi avete esercitato un vostro diritto. Ma se aveste esaminata la cosa colla dirittura della vostra mente e colla lealtà dell’animo vostro, io sono sicuro che ne avreste giudicato altrimenti. Quelli che v’hanno consigliato al passo che avete fatto, hanno calcolato sul prestigio del vostro nome ; anzi, guardate, hanno persino avuto poca fede in questo prestigio, che volevano sfruttare, poiché si sono studiati di farlo valere sulle popolazioni più nuove dell’Italia, e che supponevano più malcontente. Voi potete adesso giudicar^ dal fatto che pure abusando di voi senza riguardo e senza pietà, non sono nemmeno riesciti a coglierne i vantaggi che si ripromettevano. E perchè? Perchè v’è un istinto nelle popolazioni, che fa loro ripugnare ad essere premute, e insegna loro che non è lecito nè legittimo tutto quello che non è vietato dalla legge. Dev’essere parso che voi offendeste quel sentimento d’uguaglianza, che appunto è più vivo e più sentito, quando i cittadini sono innanzi al gran livello dell’urna elettorale, deve avere ferito gli animi che voi predicaste concitazione dove si sente bisogno d’ordine e di quiete, che gettaste parole d’odio dove si desidera la conciliazione nella libertà. Vuol forse dire che vi debba essere vietato ogni intervento nella vita pubblica? No certo : ma non vi pare che sarebbe più degno di voi prendervi parte nei modi ordinarii e regolari, che nel regime libero sono aperti a tutti, dovè ognuno prevale secondo il suo sapere, i suoi atti, i suoi intendimenti? Avreste sempre una via per difendere i vostri principii, per sostenere i vostri concetti ; fareste l’opposizione, se vi piacesse, ma almeno non sareste strumento di alcuno : sareste voi, sareste Garibaldi ; e invece di portare la parola solitaria, intol- G. GARIBALDI E LA QUESTIONE DI ROMA 109 lerante (l’un partito, cooperereste a quei vantaggi, che si ricavano dalla libera ed ampia discussione. Generale, voi sapete che non v’ho mai voluto confinato a Caprera, ma per la stima che ho di voi, pel rispetto al vostro nome e alle vostre gesta, io vorrei che prendeste alla vita politica quella parte che consentono le nostre istituzioni o altrimenti conservaste intero agli Italiani il prestigio della vostra riputazione nel silenzio della vostra isola romita. Confido, caro Generale, che accoglierete con animo benevolo queste mie schiette parole, e le avrete come pegno di stima e di fiducia per voi, per parte di chi è pur sempre lieto di confermarsi vostro affezionatissimo » (15). Questa lettera, che rispecchiava luminosamente i sentimenti e i propositi di chi la scriveva, per nulla ansioso di stare aggrappato al potere, e anzi desideroso di abbandonarlo, specialmente dopo le amarezze dell’anno precedente, e la poca stima che aveva degli uomini politici che gli stavano attorno, pochissimi eccettuati, non era tale da far peso sull’animo del Generale, anche per il fatto che alcune considerazioni potevano aver ferito l’amor proprio di lui. Due giorni dopo quello delle elezioni di ballottaggio, le quali, come quelle di primo scrutinio, erano state una sconfitta per il Governo, e va notato che Garibaldi era riescito vincitore in sei collegi (Mantova, Ancona, Napoli, sconfìggendo Liborio Romano, Ozieri, Barletta e Andria), egli, da San Fiorano, rispose al Ricasoli : « Caro Barone, «Non è nuovo il giudizio vostro di credermi istromento della volontà altrui. Vari altri, ed anche amici miei, ebbero la stessa credenza e s’ingannarono. Io sono docilissimo nell’udire l’opinione delle persone che stimo, e qualche volta ho seguito il loro dettame; ma solo quando alle idee loro fece plauso la mia coscienza. E posso assicurarvi che in caso diverso io mai ho ceduto a suggestioni, venissero esse da persone a me le più care e le più stimabili. Cosa non si fece per distogliermi dalla spedizione di Marsala, dimandatelo a Sirtori e a Medici, se ne avete occasione. Non meno si fece per isolarmi in Sicilia ed impedirmi di passare sul continente. E quando prima del 1850 io predicava in America, ed in Europa poi, l’avvicinamento alla monarchia, non mi si trattò di apostasia ai principii liberali che avevo professato tutta la vita? « Potrei citarvi molte circostanze della stessa natura, ov’io passai sopra ad ammonizioni di persone care e rispettabilissime, e sen-guii impavido la voce dell’anima mia. « Avete mai inteso che io avessi per abitudine di riunire consigli per decisioni importanti? No, mai! e vi ripeto: se qualche volta ho (1S) B. Ricasoli, Lettere e documenti, vol. IX, pp. 335-337. 110 MARIO MENGHINI seguito Paltrui parere, ciò è sempre stato, quando quello era in armonia col mio convincimento. « S’io ebbi qualche volta la fortuna di servire il mio paese colle armi, non capisco perchè non possa io servirlo con la mente, conformandomi alle libertà, che ci vengono largite dallo Statuto. Nell’operato presente del vostro Ministero vi sono due atti che mi hanno scosso con dispiacere : 1°) l’anticostituzionale proibizione dei Meetings ; 2°) le largizioni fatte dal Ministero a quella setta fatale dei preti, nemici secolari dell’Italia ed i più terribili. «Tali disposizioni, la di cui impronta straniera ed imposta a nessuno sfugge, sono quelle che mi hanno deciso a venire sul Continente per combatterle e evitare all’Italia nuove umiliazioni. « Io dunque, senza esercitare pressioni o gettare parole d’odio, ho cercato di consigliare le popolazioni a votare per deputati che sostenessero il diritto nazionale contro chi voleva conculcarlo a profitto d’una gente malefica. E vi confesso : credo che nessun cittadino debba suscitare insurrezioni — ed io meno di nessuno ; — ma credo pure che se non si deve rovesciare Governi, dobbiamo almeno esigere che l’Italia sia ben governata. « E l’Italia non è ben governata ! quando tra gli altri errori, che non sono pochi, si vuol disporre dei beni ecclesiastici che appartengono alla Nazione, che tanto ne abbisogna, a favore di nemici, che se ne serviranno per combatterci e comprare nemici. «Che gl’italiani si disgustino della libertà, come dite; ciò è opera del Governo, ed accenna ad un colpo di Stato. Venga pure : io conobbi le vie dell’esilio ed altre, pria e più di molti, e non devierò dal mio dovere per ciò. «Concludo: io, mentre deploro l’avviamento del Ministero, non ho odio con nessuno dei membri che lo compongono ; e vi contraccambio certamente la amicizia che m’avete professato in ogni circostanza. Ubbidirò soltanto al dettame della mia coscienza, che seguirò a qualunque costo; e mi troverete quindi docilissimo, quando vorrete fare il bene del paese » (16). Nessun dubbio poteva dunque sussistere sui successivi comportamenti di Garibaldi. Già da qualche giorno la stampa periodica non favorevole al Ricasoli andava ripetendo che il Generale, presi alcuni giorni di riposo e ristorate le sue forze, aveva intenzione di recarsi il 22 marzo a Firenze per assistere all’inaugurazione della nuova legislatura. Correvano in proposito le più strane voci che il Crispi, forse a torto, riteneva fossero state messe in giro dal Ministero, tanto più che il Ricasoli, dopo « dieci mesi di dura vita », pensava fin d’allora a ritirarsi dal potere, esacerbato dal contegno assai ambiguo del Rattazzi, non solo, ma temendo, come infatti ebbe a ve- (16) Id., vol. IX, pp. 350-352. G. GARIBALDI E LA QUESTIONE DI ROMA 111 liticarsi, che in un probabile nuovo rimaneggiamento del Gabinetto, a cui avrebbe dovuto partecipare il Sella, il Re non sarebbe stato propenso ad approvare la proposta di nuove tasse. Sull’attendibilità di queste notizie il Diritto, in un articolo assai sensato, aveva fatta la dovuta tara ; esisteva tuttavia un punto nero, che doveva dar motivo a giuste preoccupazioni : considerata cioè la sua incrollabile volontà, quale sarebbe stato il contegno che avrebbe assunto il Generale, tanto più che il 18 marzo, da San Fiorano, egli aveva indirizzato alla direzione del Sole, tenuta ancora dal Guerzoni, la breve lettera che segue, la quale sembrava un minaccioso squillo di tromba : « Importando al bene del paese che i deputati si trovino alla Camera immediatamente, pregio i miei col leghi a non ritardare. Comunicate questo mio desiderio ». Il Crispi ritenne quindi opportuno di consigliarlo a non interrompere il riposo di San Fiorano ; e lo fece con la lettera qui trascritta, fino ad ora inedita : Firenze, 19 marzo 1867 (( Mio Generale, « Qui spargon la voce, che voi sarete in Firenze alla seduta reale del 22. Siccome sarebbe un atto poco prudente ed io so che voi sapete comprenderne la gravità meglio di ogni altro, ho dovuto credere che ciò non sia vero e che, dovendo venire alla capitale, lo farete allorché la Camera, sbarazzatasi delle operazioni preliminari, comincierà a discutere le leggi e si occuperà di quistioni importani. « Il Ministero intanto, valendosi della notizia, che facilmente esso stesso avrà creata, fa dire a’ suoi giornali le cose più assurde intorno all’atteggiamento degli uomini politici che non sono suoi amici. Nel paese inoltre si è suscitata un’agitazione fattizia (sic), dando a noi proponimenti che non abbiamo. Dicono, che noi vogliamo contrapporre voi al re, che ci prepariamo a far un colpo su Roma, che andremo alla Camera in camicia rossa e che susciteremo il disordine nel paese nello scopo di prendere le redini del Governo. « Dopo la vittoria delle ultime elezioni, che ci fu fortemente contrastata, bisogna provare coi nostpi atti, che noi vogliamo l’ordine con la libertà, e ch’essi, i nostri avversari, dopo aver tutto sciupato e tutto disordinato, sono la causa del malessere nel paese e sono il permanente pericolo dell’unità nazionale e della monarchia. « Io sarò domani a Reggio (Emilia) dove ho una causa a quelle Assise ; ove il crediate, scrivetemi colà. « E or lasciate che vi abbracci. Vostro affezionatissimo F. Crispi ». 112 MARIO MENGHINI È da supporre che se fosse stato in tutt’altre condizioni di salute Garibaldi, coerente del resto ai propositi che aveva espressi nella sua lettera al Ricasoli, non avrebbe tenuto conto di quei consigli del Crispi; e anzi, dando per il primo l’esempio di quel che aveva raccomandato ai suoi amici deputati, sarebbe corso a Firenze, e chi sa quanti altri turbamenti avrebbe recati alla politica seguita dal Gabinetto del fiero barone. Rispose invece il giorno dopo al Crispi : « Non sarò il 22 a Firenze — anche se volessi, non lo potrei — sono un tantino incomodato. In ogni modo, se sarà bisogno, sarò sempre con voi » (17). Certamente, la decisione del Generale dovette dal Crispi essere subito comunicata ai suoi amici della Sinistra, poiché il Diritto del 22 marzo annunziava : « Il Generale Garibaldi ritarderà di alcuni giorni la sua venuta a Firenze stante una leggiera indisposizione che lo sorprese». E ripeteva il 1° aprile: « Un dispaccio da Codogno ci reca che il Generale Garibaldi ha sospeso la sua partenza per Firenze, e conta di rimanere ancora qualche giorno nella villa Pallavicino a San Fiorano ». Il pericolo imminente era dunque scomparso. Se non che, permaneva sempre la minaccia di chi era disposto alle subitanee risoluzioni; e scansato quello fiorentino, rimaneva l’altro, annunziato già dal Diritto del 2 marzo, ripetuto con insistenza da altri periodici, riguardante il proposito che Garibaldi aveva espresso di recarsi in gita a Napoli e nelle provincie meridionali. Anche questa volta fu il Crispi ad assumersi il delicato incarico di persuadere il Generale di non sospendere il suo riposo di San Fiorano, e gli scriveva il 1° aprile : Firenze, 1° aprile 186 7 « Mio Generale, « Mi si è detto, che intendete fare un viaggio nelle provincie meridionali. Ogni passo che voi fate deve avere un utile risultato. Garibaldi non è un uomo come un altro, e la sua persona non può passare inavvertita. Or nel Sud le condizioni del popolo sono tali che al suo antico Dittatore non è data potestà di provvedervi. Aggiungete l’agitazione che ne nascerebbe al solo vedervi e quello ardore di entusiasmo che suscita la vostra parola, e dietro la quale non può venire un fatto utile. « Il Ministero ha bisogno di qualche atto vostro che possa definire come atto di disordine, o cagione di disordine. Esso è dolente della nostra calma, del modo tranquillo col quale noi abbiamo agito fin’oggi. « Quando un partito è forte, non deve rischiare le sue forze, ma deve spiegarle a tempo e con probabilità di vittoria. Noi oggi ab- (17) F. Crispi, Carteggi, p. 240. G. GARIBALDI E LA QUESTIONE ROMANA 113 biamo numero e mezzi di vivere. Aspettiamo dunque il momento e mettiamoci in misura di tirare il nemico sul terreno nel quale potremo batterlo. Voi che siete un gran patriota ed un gran capitano, saprete meglio di ogni altro apprezzare le mie osservazioni. Nicotera che viene a visitarvi, saprà esporvi quali siano le condizioni delle provincie napolitano. Vi convincerete con lui, che un vostro viaggio colà è per lo meno intempestivo. « Vi Stringo con devozione la mano. Vostro gempre F. Crispi ». Questa volta Garibaldi non rispose, o almeno non v’è traccia che l’abbia fatto. Quattro giorni dopo, la crisi ministeriale, da più giorni latente, era decisa. Vittorio Emanuele II aveva lungamente riflettuto sulla proposta che gli aveva fatto il Ricasoli d’un altro rimaneggiamento ministeriale; deciso a mantener fede alle dichiarazioni contenute nel discorso del 22 marzo, inaugurando la nuova Legislatura, non poteva accettare il programma finanziario del Sella. Al Ricasoli egli scriveva il 4 aprile che « per quindici giorni » aveva « sempre resistito alle intenzioni da lui espressegli in varie circostanze di volersi ritirare » ; ma che « nelle condizioni attuali della Nazione » aveva l’intima convinzione che la sola proposta di aggravare considerevolmente le tasse, introducendone una sopratutto, a torto o a ragione, odiosissima, « poteva sollevare un generale malcontento, di cui era difficile preveder le conseguenze ». E aggiungeva con franca e nobile schiettezza : « Questo sarebbe doppiamente doloroso per me, dappoiché per le idee espresse nel discorso e da Lei consigliate, io aveva ragione di sperare di compiere il desiderio più vivo del mio cuore, quello cioè di non assoggettare la Nazione ad una sì dura prova. Ora, tali essendo le intenzioni del Sella, mi sarebbe impossibile, come capo del Governo, di aderirvi, e quindi sono costretto mio malgrado di accettare la dimissione da Lei offertami » (18). Quattro giorni dopo, sfumata una combinazione Menabrea, che rinunziò all’incarico fidatogli per dolorose circostanze di famiglia, al Rattazzi fu commesso di formare il Ministero, del quale il Crispi non ritenne di far parte, con grande compiacimento di Garibaldi, che da San Fiorano, l’8 aprile, mentre fervevano i soliti lavori d’approccio, scriveva a Nicola Fabrizi che gli amici di sinistra, i quali avessero avuto « la debolezza di accettare portafogli, sarebbero politica-mente perduti », poiché quel partito avrebbe dovuto andare al Governo « senza un solo dei vecchi e sdruciti elementi, e colla condizione d’esser libero a fare il bene del paese » ; al qual fine, avrebbe (18) B. Ricasoli, Lettere e documenti, vol. IX, p.. 367-368. 114 MARIO MENGHINI dovuto «sciogliere le tre questioni principali e vitali : 1°) questione papale; 2°) esercito; 3°) bilancio» (19)· . Il l(i maggio da San Fiorano Garibaldi andò a Firenze, ma vi giunse quasi in incognito. Non si presentò alla Camera, e ι ““ recò a Castelletti, nella villa Cattaui Cavalcanti; vago tutta 1 estate in Toscana, tra Signa, Vinci, Siena, Monsummano, dove andò a passar le acque. Il suo pensiero era sempre rivolto alla, liberazione di Roma ; già da San Fiorano il 10 maggio egli aveva scritto a JNicoia Fabrizi d’essere interamente d’accordo con lui « circa alle cose romane ». Aveva cercato di « raggranellare ogni elemento di quel l ι più eterogenei per formare il fascio » (~())· E poiché 1 nspi o esoi tava il 18 giugno di non affrettare la soluzione della questione romana, affermando che le condizioni del paese « non erano favorevoli » e « le condizioni d’Europa » contrarie ; che « una iniziativa popolare avente lo scopo di fare entrare nella cerchia dell’Italia redenta ι Patrimonio di San Pietro » sarebbe stata « inefficace », specialmente allora che in Roma era raccolto « tutto l’episcopato cattolico con quanti chierici sono sotto la sua influenza », per modo che una azione come quella ideata da Garibaldi si sarebbe potuta considerare «Halle potenze come un attacco alle libertà della Chiesa, un msu o ai congregati»; che, infine, la Francia « dopo le scon t e moia ι pio vate nel Messico ed in Germania » si sarebbe gettata « con entusiasmo su noi per rilevare la sua influenza internazionale, resa PyoDie matica negli ultimi quattro anni » : contro tutte queste obbiezioni, traribaldi rispondeva imperturbabile il giorno dopo (la Castelletti. « Quando partimmo per la Sicilia, io dissi: non ho consig ia ο ι i ciliani ad insorgere, ma giacché là si combatte contro i nemici e l’Italia, è dovere nostro d’aiutare i fratelli. Oggi io sono nello stesse caso, e se sul territorio pontificio si pugnerà contro il Papato, io procurerò d’aiutare i nostri » (21). Illuso forse sulla potenza dei comitati insurrezionali romani a varie tinte, che si sbranavano tra rti loro, mantenne quel suo proposito in quei mesi d estate, pei nu a disapprovando parziali tentativi insurrezionali ebe il G-ueizoni a così diligentemente illustrati (22) : concitando anzi « quelli tra i suoi amici che in quel momento stimava più devoti e meno renitenti a suoi concetti» a raccogliere elementi da esser posti m azione « alla rinfrescata )) Il suo intervento al Congresso della pace indetto a Ginevra neì settembre parve un diversivo, e non fu. In queireteroclito convegno, nel quale socialisti, clericali, cattolici zelanti della pace evangelica, (13) F. CRISPI, Carteggi inediti, pp. 243-244. (2«) Id., p. 247. (21) Id., p. 247. (22) G. Guerzoni, Garibaldi, vol. II, p. 474 e segg. G. GARIBALDI E LA QUESTIONE ROMANA 115 dottrinari della democrazia s’eran dati la posta, Garibaldi era andato con tutte le sue idee. Gli erano stati compagni Benedetto Cai-roli, Alberto Mario, Mauro Macchi, il Ceneri, il Missori, il dottor Ivi boli, e qualche altro. Festeggiatissimo fin dal suo arrivo, si dichiaro subito qual era, poiché salutò Ginevra la « Roma dell’intelligenza », in contrapposto « alla Roma bugiarda del Papato » ; e più d’un naso dovette arricciarsi quando, il 9 settembre, dopo inaugurato il Congresso, dichiarò che non avrebbe preso la parola se non avesse dovuto osservare che i discorsi dei precedenti oratori non erano consentanei alle sue idee; che non poteva approvare « la prudenza un po’ timida ed un poco egoista che non vuole arrischiare nulla per alleviare le miserie altrui ». E dopo avere aggiunto: « Noi non vogliamo abbattere le monarchie per fondare repubbliche, ma vogliamo distruggere l’assolutismo per fondare sulle sue rovine la libertà e il diritto », presentò una specie di programma in otto articoli che non contentò nessuno. Non attese nemmeno che il Congresso discutesse quella sua proposta ; invece, il 14 settembre, lasciata la Svizzera, sostò a Beigirate, presso i Cairoli ; e affrettò il suo ritorno in Toscana, per prepararsi alla marcia su Roma. Mario Menghini ÜN TIPICO CONFLITTO LIGURE-PIEMONTESE ALL’INDOMANI DELLA RESTAURAZIONE (Continuazione e fine - V. numero precedente) Clie le autorità militari in questa circostanza abbiano fatto un (loppio giuoco risulta da questo, che, secondo la dichiarazione dei Sindaci, il Picasso era giunto alla determinazione <11 consegnar le chiavi d’accordo col tenente colonnello D’Anilreis, dipendente da Governatore; mentre, più tardi, completamente sconfessato, il 1 icasso fu imprigionato per quell’iniziativa considerata tutta sua. Evidentemente il Governatore irritato contro il Comune per il suo contegno considerato poco riguardoso e troppo autonomo, voleva prendersi la soddisfazione di lasciare che i Sindaci agissero, per fermarli qum 1 ài momento opportuno, facendo loro sentire tutto il peso de a sua autorità. D’altra parte era proprio l’autonomia ciò che i Scindaci desideravano dimostrare di fronte all’autorità militare, e quindi il loio C01^ tegno fu tale da prestarsi facilmente al giuoco del Governatore. 11 Comune non era ancora entrato in possesso della seconda meta della chiesa, quando, il 27 agosto, incaricò l’architetto Carlo Barabmo di iniziare senz’altro i lavori di demolizione. Intanto, essendosi verificati in quei giorni furti di oggetti di marmo e di opere d’arte, (della valutazione di queste era stato incaricato il marchese Enrico Carrega) il Comune deliberò di far accompagnare il Barai tino da alcune « guardie civiche » a tal uopo nominate. Infatti, dodici guardie erano destinate per R. Regolamento al servizio della Civica Amministrazione. Ma ecco improvvisamente il conte Thaon Di Eevel d’accordo con l’intendente generale Demarini, entra re in iscena naturalmente non per agevolare l’opera eli demolizione, ma per impedirla. Il Barabino aveva appena iniziato di praticare dei fori, nel tetto, quando un picchetto di soldati gli intimò la cessazione dei lavori, mentre la sua « guardia civica » veniva arrestata. E ve niva arrestato lo stesso Picasso, colpevole di aver consegnato la chiave alla pubblica amministrazione. Il Corpo Decurionale non avrebbe potuto essere maggiormente umiliato. Si era permesso che prendesse tutte le iniziative, che trattasse con gli appaltatori, che si accordasse con uno di essi ; lo si era aspettato al varco, per colpirlo. Anche il Conte Carbonara, che,^ come R. Commissario era al corrente delle deliberazioni dei Consigli, UN TIPICO CONFLITTO LIGURE-PIEMONTESE 117 doveva essere rimasto piuttosto disgustato dell’andamento che aveva preso la questione. La reazione dei Sindaci fu immediata, e l’unica oh'essi potessero compiere. Il giorno dopo il fatto, cioè il 28 agosto, con due lettere, una al Carbonara e l’altra a S. Maestà, rassegnavano le loro dimissioni. I Sindaci lamentavano l’uso della forza armata, facendo notare che sarebbe bastato un ordine del Governatore per far cessare immediatamente i lavori, mentre l’uso della forza armata non poteva servire che a far « rimarcare un dispregio alla Civica Amministrazione ». Il 29 agosto i Sindaci scrivevano al conte Gioachino Cordero di Roburent, grande scudiere di Sua Maestà, la seguente lettera, che merita di essere pubblicata per intero perchè riassume e definisce l’atteggiamento preso dal Corpo Civico in tutta la questione. « I Sindaci della Città di Genova, memori dei favori distinti ottenuti da V. E. e della parzialità loro mai sempre dimostrata in accogliere favorevolmente le loro preci, crederebbero mancare non solo a que’ sentimenti di riconoscenza, e di rispetto verso la di lei persona, che indelebilmente sono impressi ne’ loro cuori, ma anche al preciso dovere, se non informassero V. E. dei motivi per i quali sono costretti a chiedere a S. M. la dimissione dalla carica di Sindaci di cui si degnò onorarli. « Ne’ documenti, che hanno l’onore di compiegarle nella presente, è registrata la storia genuina de’ fatti, ohe hanno dato luogo ad un incidente tanto inaspettato, altrettanto per essi doloroso. Vostra Eccellenza rileverà delle annesse carte, quanto sia stata- regolare la loro condotta, quanta pazienza, quante diligenze abbia impiegato la Civica Amministrazione a togliere di mezzo, anche con discapito, tutte le difficoltà, che dagli Appaltatori del Corpo del Genio, si presentavano per impedire che si ponesse mano ai lavori necessari per la demolizione della cadente fabbrica di S. Domenico, in esecuzione delle concessioni di S. M. accordate a questa Civica Amministrazione con suo R. Viglietto de’ 2 giugno p. p. « Senza che possano essi indovinarne il vero motivo (dopo che loro fu consegnata da uno degli appaltatori, che occupano detta Chiesa, la chiave di quella porzione, che era stata destinata a suo uso) con somma loro sorpresa hanno veduto sospendere il lavoro cominciato in quella porzione di Chiesa istessa, che ad altro oggetto non gli era stata consegnata, se non se per cominciare la demolizione. « Quantunque detta sospensione fosse del tutto opposta al prefato R. Viglietto di S. M.., nulla di meno sapendo quanto rispetto è dovuto alle Autorità superiori, con prestare a’ loro ordini la più cieca obbedienza, si sarebbero affrettati di far sospendere qualunque lavoro all’istante in seguito di un semplice avviso, anche verbale, di S. E. il Signor Governatore per attendere quindi quelle sovrane disposizioni, che fosse piaciuto a S. M. di dare, ma la cosa fu presa i” 118 ENRICO GUGLIELMI NO tutt’altro aspetto, senza che neppure di ciò possano comprendere la vera ragione. Un picchetto di truppe ha fatto sospendere i lavori, v’è rimasto di guardia permanente, come se vi fosse, o vi i^otesse essere, qualche opposizione. « Si è immaginato di vedere della gente armata, così dipingendo un individuo delle dodici Guardie destinate dal R. regolamento al Servizio della Civica Amministrazione il quale era stato incaricato dal suo Capo soltanto ad invigilare per ordine de’ Sinda ci, che non accadessero trafugazioni nel locale, che per necessità doveva restare aperto per il concorso degli operai, che dovevano esservi impiegati. « I .Sindaci, che altro interesse non avevano, nelle loro premure, che di far eseguire al più presto possibile il R. Viglietto e che, a so- lo questo oggetto, hanno spiegato tutto il loro zelo per provare coi fatti, quanta era la loro riconoscenza verso (li S. M. per le grandi ed interessanti beneficenze, che in tutte le occasioni specialmente di soggiorno qui fatto ha voluto accordare a questa sua fedelissima Città, si trovano nella dolorosa situazione non solo di non poter giungere alla bramata meta, cioè di vedere eseguiti, e perfezionati, i lavori decretati da S. M., ma si è tentato perfino di ascrivergli a delitto quelle disposizioni, che a detto scopo solamente si erano creduti in dovere di non ritardare ulteriormente. Veramente sembra cosa strana come il semplice comodo di due appaltatori a’ quali furono offerti dalla Civica Amministrazione equipollenti locali ed il rimborso delle spese necessarie al trasporto de’ loro materiali possa essere un giusto e sufficiente motivo per impedire che si adempiano i voti della Città e, quel che è più, che venga ritardata l’esecuzione de’ Sovrani Decreti. « E se non esistesse il locale di S. Domenico oppure fosse ad uso di Chiesa, come lo era anticamente, non vi sarebbe altro locale in Genova, in cui gli Appaltatori del Genio potessero custodire il loro materiale? Non sarebbe forse possibile provvedere in altro modo per il servizio delle fortificazioni? « In queste circostanze i Sindaci si sono convinti della loro insufficienza a proseguire nelle funzioni della loro Carica. « Il marchese Grimaldi tormentato da’ suoi incomodi quasi continui, ha molto deteriorato di salute nelFaffaticarsi inutilmente al disimpegno de’ pubblici affari. Morro padre di numerosa famiglia, afflitto da dolorose circostanze, pressato da’ suoi particolari interessi, straordinariamente occupato da’ doveri di Presidente al Tribunale di Commercio non potrebbe più a lungo resistere a tanti carichi senza soccombere. Tutti questi urgentissimi motivi gli costringono ad intercedere la singolare protezione di V. E. acciò si degni di ottenere loro, dalla mai sempre esperimentata Bontà del clementissimo nostro Sovrano, quella dimissione di cui nella loro umile rappresentanza lo UN TIPICO CONFLITTO LIGURE-PIEMONTESE ECC. hanno rispettosamente supplicato. Questo sommo favore che sperano ottenere da V. E. porrà il colmo a’ tutti i precedenti loro compartitigli. « Profittano essi di questa circostanza per rinnovare all’E. V. il rispettoso attestato di que’ sentimenti ».... ecc., ecc. In realtà Patteggiamento dell’intendente Demarini, che aveva assecondato il giuoco del Governatore militare, non trova spiegazione se non nell’astio che covava tra il Comune e l’intendenza. Da questa incomprensione reciproca, derivò il « dispregio » lamentato nella lettera dei Sindaci al Carbonara e messo in evidenza in quella scritta il giorno seguente al di Roburent. Il Re serbò un atteggiamento equo nella questione, e, riservandosi di esaminarla, volle che i Sindaci restassero in carica. Egli disapprovava! la loro condotta unicamente perchè avevano cessato da 11’Amministrazione prima d’aver ricevuta la sovrana approvazione, ma, per la questione in sè, pareva propenso a riconoscere le loro buone ragioni (18). Comunque la demolizione della Chiesa venne per il momento sospesa, d’ordine del Re, trasmesso ai Sindaci dalla Segreteria degli Interni con lettera 23 settembre 1818 (19). Scrivendo, il 1 ottobre, al Borgarelli, i Sindaci dicevano che, in obbedienza agli ordini sovrani, avrebbero tosto riassunto l’esercizio delle loro funzioni, « quantunque sussistessero sempre i motivi » che li avevano obbligati a chiedere le dimissioni. Essi obbedivano ad un ordine, ma contro la loro volontà. Soltanto « la devozione e l’attaccamento » ch’essi portavano a Sua Maestà avevano fatto superare, « in quelPoccasione, tutti gli ostacoli fisici e morali » ai quali dovevano andare incontro. La risposta denota l’irritazione che l’incidente aveva provocato nel Corpo di Città, ed è insieme un chiaro avvertimeùto per il futuro. In sostanza ! sindaci dicevano ch’erano disposti a riassumere le loro funzioni, e quindi ad obbedire all’ordine sovrano, in quell’occasione, sottintendendo con ciò che non sarebbero stati disposti a sopportare un secondo affronto. Sullo stesso tenore essi inviavano contemporaneamente al Carbonara una lettera, in cui, dopo aver deplorato la « fatale combinazione » che li aveva spinti a chiedere le dimissioni, dicevano di essere in attesa degli ordini del Re circa le sorti della vecchia Chiesa. (18) Ciò risulta da un documento (lei 22 settembre ISIS, conservata nell'Archivio di Stato di Torino, Sezione la. Paesi G. Genova, Mazzo C>, 1817-19, n. 19. Il documento non porta intestazione, nè è firmato; ha l’aspetto di una minuta ed è probabilmente del Ministero degli Interni. (19) Non mi è stato possibile trovare questa lettera in Genova, e neppure una minuta nell’A.S.T., ma vi allude il Sindaco di prima classe in una sua al Carbonara del 6 agosto 1819. 120 ENRICO GU GLIE LM INO Dieci mesi dopo, il 30 luglio 1819, il permesso di demolizione non era ancora arrivato, secondo una lettera del Cattaneo, il nuovo Sindaco di la classe, scritta lo stesso giorno al Carbonara. Finalmente il 4 agosto la Segreteria degl’interni autorizzò il Comune a dar seguito all’esecuzione del E. Biglietto del 2 giugno 1818 e a non tener conto della lettera della stessa Segreteria del 23 settembre 1818, cui già accennammo. Ora, in tutta questa faccenda, il conte Carbonara aveva sostenuto ed appoggiato le richieste del Comune, sicché particolarmente per il suo interessamento questo aveva ottenuto, il 2 giugno 1818, il permesso regio di demolizione. Nella piega inaspettata che aveva preso poi la questione fra l’autorità comunale e quella governativa, cioè, in effetto, tra Genova e Torino, egli, genovese ma funzionario regio, dovette trovarsi poco a suo agio ; di qui il « non meritato disgusto » di cui parla il Borelli nella, sua relazione del 1820 ; per questo il Carbonara avrebbe cessato di occuparsi della progettata riforma dell’ordinamento comunale. Dopo la dura lezione, i nuovi sindaci andarono più cauti. L’11 agosto scrissero al Thaon di Revel notificandogli la lettera della Segreteria degli Interni, la quale diceva che, per parte delle R. Segreterie della Guerra, erano cessati del tutto gli ostacoli che si erano frapposti alla demolizione della Chiesa. Chiedevano perciò i Sindaci, molto prudentemente, istruzioni al Governatore. Avuta l’autorizza zione anche da questo, il Sindaco di la classe il 9 settembre scrisse agli appaltatori del Genio perchè gli consegnassero, il giorno dopo, venerdì3 a mezzogiorno, le chiavi di S. Domenico. Egli avrebbe ricevuto un incaricato della consegna nel suo ufficio di città, nel Palazzo Ducale. V’è un’evidente compiacenza in questo soffermarsi sui particolari, sull’ora, sul luogo, in cui il Sindaco, nel suo ufficio del Palazzo Ducale, sede antica dei Dogi, avrebbe ricevuto le chiavi che erano state oggetto di sì fiera polemica. Non si può dire che fosse un trionfo degno dei gloriosi tempi della Repubblica, ma tant’è, finalmente il Municipio l’aveva spuntata. L’incaricato del Genio tentò un’ultima resistenza, appigliandosi ad alcuni cavilli. Quanto alla consegna della Chiesa non aveva nulla da dire poiché c’era un ordine sovrano e l’autorizzazione militare, ma le botteghe che erano state aperte lungo la Chiesa spettavano al Demanio o al Municipio? Con quale diritto il Comune ne aveva fino allora percepito gli affitti? Ed ecco il Sindaco rispondere (14 settembre) che, per disposizione del Governo francese, sia la Chiesa che quelle botteghe erano spettate al Comune; che nel 1815 poi la Chiesa era passata, con Regio Decreto, al Demanio, ed era stata assegnata agli impresari del Genio ; ma UN TIPICO CONFLITTO LIGURE-ΡΓΕΜΟΧTESE BCC. 121 le botteghe 11011 èrano state comprese in quel decreto, _* : - a ef- ficienza. Era un'altra vittoria ; ma quella Chiesa era destinata a crear noie al Municipio. O meglio, intorno a quella Chiesa e*l al3a sua demolizione tutti i dissapori celati, le piccole rivalità, i ripicchi vennero a manifestarsi dopo che la controversia tra la Città ed il Governo era terminata in favore della prima. Innanzi tutto i privati cominciarono a rivendicare certi loro an tichi diritti sopra altari ed oggetti della Chiesa. Così il marchese Ferretto che nel settembre sporgeva reclamo contro il Comune per alcuni fondi che diceva esser suoi; e più tardi, nelPottobre i signori Revello e Codevilla reclamavano un altare nella navata in Cornu Epistolae, come eredi della famiglia Veneroso, che lo avrebbe ottenuto dal*Governo francese (20). Poi scoppiò un grosso scandalo. Il Corpo Decurionale, giunto il permesso di demolizione, aveva stabilito di farla eseguire ad economia dalParchitetto del Comune, Carlo Barabino. Poiché tuttavia questo era occupatissimo e non poteva badare alla verifica del materiale ancora utile o agli oggetti d’arte provenienti dalla demolizione (abbiamo visto come si fossero verificati casi di furti), fu temporanea -mente affidata quell’incombenza all’economo della città, Niccolò Cazzo. Ma i Sindaci stimarono poi opportuno destinare alla sovrainten-denza dei lavori anche due Decurioni, che furono scelti il 20 settembre nelle persone di Vincislao Piccardo e del cav. Luca Podestà. Questi destinarono un assistente alla sorveglianza del materiale e degli operai, ed il Gazzo restò così esonerato dal lavoro (21). Egli se.l’ebbe a male, sicché 1Ί1 ottobre rifiutò di eseguire un ordine del Piccardo e rispose malamente allo stesso Sindaco. Questo gli inflisse allora una temporanea sospensione dall’impiego, chiedendo contemporaneamente istruzioni al Carbonara ; per ordine del quale il 16 ottobre il Gazzo veniva destituito, mentre il suo posto era provvisoriamente occupato dal tesoriere della città. Ma pare che il Gazzo non fosse uomo da piegarsi con tanta facilità. Attaccò i Decurioni d’incompetenza, attraverso una circolare inviata a tutti i membri del Corpo, e non si peritò di rivolgere anche velate accuse contro il Barabino .'Allora il Podestà ed il Piccardo impugnarono l’accusa, sicché il Sindaco, il 20 ottobre, inviò al Carbo- (20) Lettera dei Sindaci ai deputati per la demolizione, in data 21 ottobre 1019. La navata in Cornu Epistolae era quella sottostante al convento, e quindi all’alloggio del colonnello. Cfr. A. Codignola, art. citato. (21) Cfr. lettera del Sindaco di la classe al Carbonara del 20 ottobre 1819. 122 ENRICO GUGLiELMINO nara la risposta dei due Decurioni, insieme ad una lettera del Bara-bino con la quale si lagnava delle espressioni poco misurate del Gazzo. Nella lettera con cui il Sindaco accompagnava quelle dei Decurioni e del Barabino, egli riassumeva i fatti, facendo notare che se c'era un uomo il quale avrebbe potuto protestare per la nomina dell'assistente quello era il Barabino, che poteva credere gli si volesse porre un controllo. Perciò il contegno del Gazzo appariva ben biasimevole. Intanto, dopo averlo destituito, il Sindaco chiedeva istruzioni ministeriali per mezzo del Carbonara, per tutti quei provvedimenti che al riguardo la Segreteria degli Interni avesse voluto applicare. In tutte queste vicende Patteggiamento tenuto dai Sindaci appare dignitoso e, nello stesso tempo, equilibrato. Essi conservarono, nei limiti del possibile, uno spirito di indipendenza ed un senso di responsabilità degni piuttosto di uomini di governo che di semp ici amministratori del comune. Il compito era difficile e delicato, perchè ^urtava da un lato contro Pinvadenza governativa, dall’altro contro 1 as senteismo dei consiglieri sfiduciati dal nuovo stato di cose. Sopravviveva, nell’azione concorde dei due Sindaci, un i‘est° di repubblicana fierezza, che faceva doro altamente sentire la dignità e 1 importanza del loro ufficio. Essi ben comprendevano di essere (piasi l’anello di congiunzione fra Genova e Torino, i cui buoni rapporti potevano essere salvati da una politica intelligente ed accorta, che, ossequiente alla legge ed alla sovrana Maestà, salvaguardasse ugualmente 1 unione alla Monarchia e l’autonomia cittadina. . . Non si può dire tuttavia che in questo programma di equilibrio ι Sindaci fossero molto coadiuvati dai Consiglieri e dagli Uffici. I pi imi erano troppo indolenti, i secondi, per spirito di parte e per incomprensione, contrastavano e cercavano spesso di sopraffare l’attività dei Sindaci, rivendicando a sè certe attribuzioni, che, se pur spettavano loro di diritto, richiedevano in alcune circostanze l’intervento diretto della suprema autorità cittadina. Doveva infatti notare il Borelli nel paragrafo ottavo del suo Par ei e che, tra le cause della crisi del Corpo Decurionale, erano da ascriversi a la natura e la tendenza » dei diversi Uffici del Corpo stesso. « Fra gli altri i Provveditori e gli Edili cercavano di estendere le già vaste loro attribuzioni, e di farsi quasi assolutamente indipendenti dai Consigli di Città ; si formavano così altrettanti Corpi in un Corpo solo, e, mancando l’unità, mancava l’armonia ». Il Borelli stimava che ciò derivasse, più che dagli stessi Uffici, dagli « avidi loro commessi, i quali cercavano di lucrare nell’indipendenza delle aziende ». Se quest’ultima affermazione del Borelli può essere considerata come una sua congettura, certo è che nei rapporti tra gli Edili e il Corpo cittadino si ebbero spesso a notare contrasti che non depongono del tutto a favore dei primi. Un esempio si ha nel dissidio manifestatosi al principio del 1820 UN TIPICO CONFLITTO LIGURE-PIEMONTESE ECC. 123 tra i nuovi Sindaci, G. B. Centurione e Luca Solari, e C. Pallavicini, presidente deU’Ufficio degli Edili, a proposito della demolizione della Chiesa. Era destino che quest’opera, così importante per Genova, do vesse procedere in mezzo, a ogni sorta di difficoltà. Bisogna notare che dal giugno del 1818, quando era giunto il permesso di demolizione, i Sindaci l’avevano direttamente iniziata,.senza valersi dell’opera degli Edili, i quali non avevano sollevato per ciò difficoltà alcuna. Ora che i lavori erano già avanzati, improvvisamente il Palla vicini li rivendicava al suo Ufficio. Scriveva infatti il 26 gennaio ai Sindaci (22) che i lavori di S. Domenico cominciati nel decorso anno « avevano eccitato sul bel principio la loro [degli Edili] attenzione ». Considerando lo spirito e la lettera delle R.R. Patenti del 31 luglio 1815, e specialmente gli articoli 3, 83 e 84, che stabilivano spettasse al loro Ufficio la sovraintendenza su tutte le fabbriche, di qualunque natura esse fossero, gli Edili sostenevano che a. loro dovessero spettare i lavori di demolizione della Chiesa « a meno che S. M. quale solo poteva derogare ai suoi voleri di già manifestati, non avesse per atto espresso altrimenti ordinato, ciò che non sapevano gli Edili supporre, non essendone stata data alcuna communi-(•azione ad essi nè ai Consigli di Città, di cui facevano parte. « Consci altronde del zelo, del quale erano animati nel disimpegno di qualsiasi loro funzione, non avevano potuto, nè potevano imaginare la ragione, che li escludeva dall’eseguimento dell’opera della stessa natura di quelle che formavano la loro ordinaria occupazione. « Per siffatto motivo osavano lusingarsi gli Edili che sarebbero stati in grado non meno d’ogni altro combinarlo col maggior vantag gio della Cassa Civica. Avrebbero creduto perciò di mancare al dovere del loro ufficio, e a loro medesimi, e di mal corrispondere altressì alla confidenza del Consiglio Decurionale se avessero omesso ulteriormente di sottoporre alla saviezza, ed equità di Loro Signorie Illustrissime le preannunciate osservazioni, sulla fiducia, che avrebbero voluto elleno onorarli di uno schiarimento relativo all’argomento ». La rivendicazione espressa nella lettera degli Edili era, quanto allo spirito ed alla lettera delle Regie Patenti, perfettamente giusta. Ma gli Edili, che « non potevano imaginare la ragione che li escludeva dall’eseguimento dell’opera » mostravano in effetto di non saper comprendere il segreto motivo dell’invadenza dei Sindaci in un campo che non sarebbe loro spettato. L’urto che era avvenuto con l’autorità militare avrebbe potuto ripetersi, poiché vicino alla chiesa c’erano ancora dei fabbricati, appartenenti all’esercito, che occorreva demoliri', secondo l’ultimo progetto di Carlo Barabino. L’argomento, per la sua delicatezza, non era certo da trattarsi molto apertamente, ma, i Sindaci, rispondendo agli Edili, vi accennavano in modo chiaro. (22) Lettere degli Edili, in Archivio Istituto Mazziniano di Genova, 1S14-1822. 124 ENRICO GUGLIELMINO Scrivevano infatti i Sindaci al Pallavicini il 26 febbraio che essi « avevano preso in serio esame la memoria trasmessa dalle S.S. Loro 111.me non senza grandemente apprezzare l’ottimo spirito e zelo che in essa caratterizzavano e onoravano del pari così degno Magistrato, ed era in seguito ed in riscontro della medesima che si pregiavano di comunicare loro le seguenti osservazioni ». Dopo aver notato che, fin da quando era stato emanato a Torino e registrato a Genova il R. Biglietto che, « a pubblico comodo e decoro » aveva approvato la demolizione della Chiesa di S. Domenico, i Sindaci di quell’anno avevano preso su di sè i lavori, osservavano che « non altri ne aveva ordinato la mano dell’opera, la aveva sospesa, la aveva diretta,. la aveva proseguita. Nè aveva dimostrato un’opinione diversa l’autorità governativa ogni qualvolta aveva dovuto intervenire su la soggetta materia, e l’Eccellentissimo B. Commissario puranche non era parso dissentirne semprecchè vi aveva avuto ad interloquire. Lo stesso Corpo civico, o riunito in Consiglio, o diviso in Uffici non ne aveva pensato forse differentemente rimanendosi a questo riguardo di continuo inattivo e silenzioso come in cose affatto a lui estranee ». I Sindaci d’allora, se pur avevano dovuto valersi per quella pratica dell’opera di qualche Decurione, non per questo avevano inteso mai delegare attribuzione o trasferir poteri. Nello stesso modo intendevano agire gli attuali Sindaci. Che ove poi si fosse voluto « argomentare sulla più vera intelligenza e preciso adempimento dell’accennato E. Biglietto, non esitavano eglino a credere di niuna utilità il rimontar ad una tal disamina allora, siccome piuttosto a discapito che a commune profitto essenziale che derivar ne avesse potuto di conseguenza ». Insomma, i Sindaci sembravano voler dire che la protesta degli Edili avrebbe forse avuto un qualche valore se fatta subito, ma che ora, a distanza di due anni, a lavori intrapresi, era assai inopportuna. « Era fuori di dubbio » proseguivano « e i Sindaci lo dichiaravano altamente, che gli 111.mi Signori Edili, in quanto a ciascheduno di loro, avrebbero saputo al pari di chiunque lodevolmente disimpegnarsi non tanto dal contemplato incarico, che da qualunque più importante e difficile commissione, ma lisognava convenire altressì che i Sindaci per loro particolari attribuzioni cumulative fra due soltanto, e per la corrispondenza che tenevano immediatamente con le diverse autorità ed amministrazioni, si trovavano in posizione più favorevole assai a presiedere ed ordinare sì fatti lavori' a cui prendevano parte al tempo stesso e la città e il militare, e il governo, che mettevano non di rado a contatto gli interessi di quella e di questi, che sempre richiedevano la più grande prontezza di esecuzione ». I Sindaci non avrebbero potuto essere più franchi di così verso gli Edili, ai quali spiegavano confidenzialmente il vero motivo, che essi non avevano potuto imaginare, per cui quei lavori non erano stati loro affidati. Quel contatto con l’autorità militare e governativa, trop- UN TIPICO CONFLITTO LIGURE-PIEMONTESE ECC. 125 po, spesso aveva minacciato di trasformarsi in conflitto. Occorreva, per evitarlo, una prontezza di esecuzione ed una autorità clie un seni -pi ice Ufficio non avrebbe potuto avere. Anche il Carbonara aveva sostenuto presso gli Edili questa presa di posizione dei due Sindaci, come si rileva da una loro lettera del 2 marzo diretta al conte. Che i contatti con l’autorità militare fossero frequenti è dimostrato del resto dalle lettere indirizzate per varie ragioni dai Sindaci al Governatore. Così il 9 dicembre 1819 i Sindaci, molto prudentemente, Io avevano pregato di mandare un ufficiale del Genio affinchè col Barabino facesse un sopraluogo per stabilire insieme i mezzi onde evitare danni alla Caserma vicina a S. Domenico. L’atto, finemente diplomatico, doveva mirare ad ottenere lo sgombero della caserma da parte delle truppe, e dovette sortire immediato buon effetto poiché nel gennaio del ’20 le caserme erano vuote, tanto che, il 19, i Sindaci rivolgevano preghiera al Governatore di concedere quel cortile al Comune come deposito di materiale. Il 24 aprile il Corpo Decurionale era ancora in contatto con l’autorità militare per chiedere il permesso di demolire l’ex-convento di S. Domenico sovrastante ai lavatoi di strada Giulia. L’edificio era infatti ancora occupato da qualche ufficiale e da una lavandaia al loro servizio. Evidentemente andava maturando nella mente dei Sindaci l’idea di creare sul posto una bella piazza, ben diversa da quella di cui si era parlato nel primo progetto, da destinarsi a mercato. Il nuovo progetto, ideato da Carlo Barabino, esigeva la demolizione di parecchi fabbricati, sì che si formasse un piazzale assai maggiore di quello fino allora previsto. Ma per far ciò occorreva appunto eliminare ogni motivo di controversia con il Governatore; opera delicata, nella quale i Sindaci ed il Barabino riuscirono pienamente. Infatti nel dicembre del 1820 il Governatore aveva approvato il progetto dell’architetto genovese, il quale, attraverso i Sindaci, lo inviava il 7 al Ministro delle Finanze perla definitiva approvazione. Intanto erano stati messi a tacere anche gli Edili. Questi, dopo la risposta dei Sindaci che abbiamo riferita, non si erano dati per vinti, ma, forti dello spirito e della lettera delle B.R. Patenti 31 luglio 1815, erano tornati all’assalto con rinnovata fprza- Il Presidente Pallavicini scriveva infatti il 16 marzo 1820, in un tono tra Pironico ed il sostenuto, che l’Ufficio degli Edili era oltre modo sensibile a quanto di lusinghiero era per esso scritto nel pregiatissimo foglio dei Sindaci ma che essi non potevano fare a meno di « soggiungere alcune osservazioni alle già sottoposte alle Signorie Illustrissime » con la precedente lettera del 26 gennaio. Era ben naturale, osservava il Pallavicino, che S. Maestà e le diverse autorità governative si rivolgessero, per le varie pratiche, ai 126 ENRICO GUGLIELMI NO Sindaci e non agli Edili. Ma questi stimavano che « non potesse tutto ciò considerarsi per una deroga a quelle ulteriori attribuzioni che aveva rispettivamente S. M. concedute a ciascuno degli Uffizi ». Ai Sindaci era spettato quindi trattar con le autorità governative e militari per rinnovare ogni difficoltà, ma l’esecuzione dei lavori toccava agli Edili « come quelli destinati per volontà sovrana a simili oggetti ». Se gli Edili non avevano rivendicato subito quelle loro attribuzioni, ciò era stato determinato dall’incertezza e dagli incagli che inizialmente aveva incontrato la pratica, e poi dal fatto che gli Edili avevano creduto che i Sindaci avessero agito per speciale deroga di Sua Maestà. Non volendo trattenere i Sindaci in troppo lunghe discussioni, il Pallavicini concludeva « col pregarli a persuadersi che quanto aveva loro esposto sulla soggetta materia ΓUfficio Edili nasceva dal sentimento dell’obbligo che gli correva di sostenere le attribuzioni del proprio Istituto ». Si convincessero perciò i Sindaci « che non potevano declinare della richiesta dei restanti lavori ». Il Pallavicini terminava dicendo che « osava sperare » che i Sindaci* « non avrebbero più voluto permettere siffatti esempi in avvenire, mentre avrebbero rovesciato intieramente queireconomico Regolamento che formava la base delle rispettive funzioni [degli Uffici del Corpo Decurionale] e che S. M. si era compiaciuta trasmettere appunto per guida delle medesime ». Dal registro della corrispondenza non risulta che i Sindaci abbiano direttamente risposto. Probabilmente si occupò della contraversia il Carbonara, o vi furono contatti orali. Certo i rapporti fra il Corpo Decurionale e l’Ufficio degli Edili dovevano essersi fatti tesi, come risulta da una lettera ad essi indirizzata, che, mentre nel tono perentorio mostrava l’irritazione dei Sindaci, nelle sue prime parole rappresentava una indiretta risposta al Pallavicini. La lettera è del 24 ottobre 1820, e merita di essere riportata per intero, sebbene esuli in parte dall’oggetto di cui trattiamo, perchè è un indice della tensione dei rapporti tra i due Istituti : « L’esecuzione della nuova piazza di S. Domenico con ordine superiore intrapresa da questa Città produce pure l’allineamento di strada Giulia col rimanente di tale strada, cioè dal principio della Piazza sino all’Arco del Pubblico Acquedotto. « Le vasche o ponti ivi situati devono per conseguenza essere spostati per regolarizzare non solo la strada suddetta ma ancora per ivi avere il comodo e sicuro posto da far passare i canali di piombo.... ecc. « I Sindaci volendo allontanare al più presto da tale strada l’imbarazzo e pericolo delle demolizioni ivi intraprese si fanno premura di avvisare l’Ill.mo Ufficio Edili, affinchè, essendo tali vasche oggetti di sua spettanza, possa per questi prendere quelle disposizioni che credesse convenienti relativamente agli oggetti medesimi, oppure farne UN TIPICO CONFLITTO LIGURE-PIEMONTESE ECC. 127 prendere nota e farli custodire dall’assistente speciale di tale lavoro assieme agli altri oggetti commessi alla sua cura,». Un altro esempio dell’attrito che si era; determinato fra i due Istituti si può scorgere in una lettera degli Edili del 29 giugno (|e^° stesso anno, relativa alla cupola di S. Lorenzo. In essa gli Edili dicevano di voler eccitare i Sindaci ad occuparsi « seriamente » di tale oggetto, facendo notare che essi « non avrebbero saputo a qual partito attenersi in caso diverso ». L’occuparsi seriamente di quello, come di altri oggetti, voleva si gnificare una concessione di fondi, dei quali il Comune scarseggiava, mentre le opere di riparazione e di sistemazione intraprese erano molte. Fra quelle che stavano maggiormente a cuore ai Sindaci erano la costituenda piazza di S. Domenico e la sistemazione dell’Aqua-sola. Non potendo far fronte a sì gravi spese, i Sindaci scrissero il 4 gennaio 1821 al Carbonara pregandolo di ottenere dal Re l’autorizzazione per emettere un prestito di 80.000 lire, con ipoteca sui beni immobili della città e con interesse del 6 %. Il 27 gennaio pregavano Ambrogio Mollino, facente funzione per il Carbonara, di voler avviare la pratica il più sollecitamente possibile. Finalmente il 13 febbraio con R. Biglietto S. Maestà diede auto rizzazione al Municipio di emettere il p restito, che fu coperto da Giocarlo Serra, come risulta da una comunicazione del consiglio dei Ragionieri del 13 luglio 1821. Nel 1823 i lavori di demolizione e d’ampliamento della piazza dovevano essere a buon punto. Infatti in una lettera del 28 luglio gli Edili, su richiesta dei Sindaci, esponevano il parere che la nuova piazza fosse destinata a mercato delle frutta, in sostituzione di quello sino allora posto in pazza Nuova, ed anche a stazione di carri e carrozze (funzione che piazza S. Domenico mantenne poi anche quando mutò nome!), in sostituzione di quella sita in piazza dello Ospedale (23). Come dice il Rancherò « per una singolare stranezza di umani eventi, dove prima sorgeva l’antica chiesa di S. Domenico, ora giganteggia il magnifico teatro Carlo Felice » (24). Ma in realtà, come abbiamo visto, l’idea di far ivi sorgere il teatro era assai antica, ed era stata espressa per la prima volta dal Tagliafichi. La prima pietra dell’edificio costruito su progetto di C. Barabino con la cooperazione dell’architetto Luigi Canonica e sulle basi dell’antico progetto del Tagliafichi, fu posta il 19 marzo 1826. Il 7 aprile 1828 il teatro era inaugurato con un inno scritto da Felice (2S) Istituto Mazziniano di Genova, Edili, cartella n. 310. (24) Ganghero, Descrizione di Genova e del Genovesato, voi. VII, pag. 243. 128 * ENRICO GUGLIELMINO Romani e musicato dal Donizzetti. All’inno seguirono l’opera Bianca e Fernando di Vincenzo Bellini, ed un ballo di Galzerani, Gli adoratori del sole/ che fu rappresentato per 35 volte di seguito. Dopo sì lunga attesa e tanti contrasti i Genovesi potevano dirsi ben ripagati dall’opera monumentale. Ed invero dovevano ringraziarne, oltre Carlo Barabino, i vari Sindaci che si erano succeduti nell’ultimo decennio. Enrico Guglielmino UN LIBRO MANCATO (0 PERDUTO?) SULL’ORIGINE E LA STOEIA DELLA FAMIGLIA MALASPINA Della Biblioteca di Bobbio del Marchese Folchetto Malaspina recentemente ci capitava tra mano un manoscritto inteso a lumeggiare !e origini della nobile e antica Casata. Precisiamo: è un manoscritto che si sarebbe tentati di dire fosse già la copia preparata perchè su di essa avvenisse la riduzione a stampa dell’opera, la copia preparata adunque per il tipografo, il quale avrebbe dovuto su di esso procedere alla composizione e all’edizione; ma per le ragioni che tosto diremo riteniamo che l’edizione non sia poi avvenuta. Così il ms. reca tutte le consuete indicazioni tipografiche dei libri : nome della città, anno (1717), tipografo, consenso del revisore ecclesiastico, conseguente « imprimatur » di enti ecclesiastici e civili : e il tutto è vergato non in calligrafie diverse, nè personali, nè corroborate da firme autografe, ma le dichiarazioni stesse e le firme sono evidentemente di quella stessa mano, la quale stendeva e firmava la successiva lettera di dedica dell’autore e il testo dell’operetta. Copia manoscritta invece di un libro già uscito per le stampe? È improbabilissimo dopo il 1717, anno della indicazione tipografica, al principio avanzato ormai del sec. XVIII. Che l’edizione fosse già esaurita nel 1723, anno cui ci riporterebbe una specie di dichiarazione di proprietà premessa al titolo del frontispizio, ci pare del pari improbabile. D’altra parte a concludere che il ms. non sia mai uscito per le stampe siamo fondatamente indotti dal fatto che un’opera a stampa con tal titolo non è posseduta da nessuna delle Biblioteche, le quali più presumibilmente dovrebbero esserne in possesso: ci risulta che non la possiedono le pubbliche Biblioteche nè di Firenze, nè di Milano, nè di Torino, nè di Genova, nè della Spezia, nè di Pavia, nè di Piacenza, per non dire di Bologna e di Verona del pari sprovviste. Il ms. cartaceo, cm. 14χ20, legato in cartone con foglio di guardia alquanto bruciacchiato in un lato, seguito da un foglio recante un fregio marchionale, che è una affermazione di proprietà, comprende pagg. 55 di regolare chiara grafìa, numerate a cominciare dalla pagina del titolo; la pag. 56 è del tutto bianca, mentre la pag. 57 si adorna di altro fregio marchionale : aquila bicipite ad ali spiegate, con spine in petto, fiorite. Conchiudono il ms., affatto bianche e 130 PIETRO VERRUA punto numerate, una decina di altre pagine. La prima pagina recante il fregio marchionale che afferma la proprietà consiste in uno sfondo dorato e bianco rettangolare con stretto margine esterno bianco, occupato in gran parte dallo stemma Malaspina, aquila bicipite ad ali spiegate e leone incoronato e rampante in uno dei quarti — quello di destra — irti tutti di spine senza fiori. Sotto lo stemma si legge la data 1723 in una riga e quindi: III.mi D. D. Marchionis / G. Baptae (?) Malaspinae / Orezoli. Ma il primitivo G. Baptae è stato di poi malamente corretto in Ludovici (?). Il titolo si legge steso in stampatello di vario corpo a pagina 1 del frontespizio. Eccolo : Frammenti / istorici / comprovanti Vantica origine / dell’Illustrissima / Famiglia Malaspina / dedicati / alVlll.mo Sig. Marchese / Gio. Battista / della medesima Famiglia / Golonello d’un Regimento de Dragoni / per Sua Maestà Cesarea Catolica. / In Milano, 1717 / Nella stampa del Beltramino, vicino a S. Antonio». I consensi per la stampa si leggono a tergo, a pag. 2, ed eccoli : Die octava Maij 1717 : Hoc opus cui inscribitur Framenti Istorici, Ego D. Caietanus Fa-gnanus / Monacus Gassinensis; de mandato Reverendissimi P. Inquisitoris / Generalis Mediolani recognovi et imprimi posse censui; me tamen etc / Stante praemissa attestatione. VI Idus Maij MDCGXVII Imprimatur F. loseph Maria Felix Ferrarmi Ord. Pred. Sac. Theologiae / Magister ac Comiss. S. Officij Mediolani. Dominicus Crispus Par. S. S. Victoris et JfO Martyrum pro / emi-nentiss. et Reverendiss. D. D. Cardinali O descalco / Archiepiscopo. Federicus Cesatus pro eccelentissimo Senatu. Non rimane che a sapere il nome dell’autore : e lo si desume dalla firma apposta alla dedica-prefazione, la quale, breve, di intonazione smaccatamente secentistica, noi riproduciamo integralmente : « Ill.mo Signore, « Non mi arrogo tal perspicacia di pupilla, ch’io mi creda di potere, qual Aquila, fissare fermo il guardo nel sole del Vostro Casato, in cui l’Antichità e Nobiltà formano nobile disputa di primato. « Mi conosco talpa più atta a vivere tra le tenebre che a comparire in tal arringo di splendori; havendo tuttavia ogni uno, che nasce, inviscerato l’obbligo di lasciare a Posteri qualche contrasegno UN LIBRO MANCATO (O PERDUTO?) 131 d’haver egli uiuuto peso non inutile della Terra, devo pur io a medesimi trasmettere questa materia dei miei onesti studij, propagando a’ que’, che vivevano doppo me, i chiarori di una Famiglia, Che non riconosce altro buio, Se non il proveniente da immemorabili principij, alla foggia de Nilo, cui fa somma parte delle lodi lincer-tezza del origine. In un tale ammasamento (pag. 4) di lumi, co’ quali pretendendo [= pretendo] provocare la posterità alPEsempio delle illustri azioni operate da vostri Gloriosissimi Antenati, sospiro entriui pure La manifestazione del infinito ossequio di chi si fa gloria in dedicarsi. « Di Y.S. Illustrissima « Devotiss. et Umiliss. Ser. « Gio. Pietro Fontana Capelano « De Dragoni ». Che Poscuro Gio. Pietro Fontana sia adunque autore del manoscritto a quanto dalla dedica-prefazione risulta non pare da mettere in dubbio : ad ogni modo qui specifichiamo che nelle Biblioteche an-zidette di Firenze, Milano, Torino, Genova, La Spezia, Pavia, Piacenza, Verona e Bologna le ricerche furono compiute e sotto la voce « Gio. Pietro Fontana » e sotto « Frammenti Istorici », con esito, ripetiamo, completamente negativo : tale opera a stampa non esiste. Riscontrato adunque che il Cappellano dei Dragoni Giovanni Pietro Fontana è affatto sconosciuto, come l’opera sua, alla Bibliografia della Famiglia Malaspina, e presa nota che egli come fonti dell’opera sua, dei suoi onesti studij, designa qua e là fra gli antichi Dione Cassio, Sparziano collaboratore della « Historia Augusta », il « De Civitate Dei » di S. Agostino, e, tra i moderni, lo storico domenicano del Rinascimento Leandro Alberti, « La Rosolinda », il « Baroni », la « Geografia » del « Prencipe Filippo Ferrari », 1’« Historia » del Burgati, il « Signorio » e nessun altro, noi pensammo di mettere la monografia del Fontana a riscontro con la monografìa del Porcac* chi sulla Famiglia Malaspina e come « disonesto » ci è apparso allora il Cappellano dei Dragoni Giovanni Pietro Fontana ! Di suo, nelle 55 pagine, « dei suoi onesti studi » nei suoi Frammenti istorici comprovanti Vantica origine dell’Illustrissima Famiglia Malaspina, di suo non vi saranno che tre o quattro pagine : le rimanenti pagine sono tolte per lo più di peso, alla lettera — diciamo alla lettera — o qua e colà riassunte e raffazzonate dalla non mai citata da lui « Historia dell’origine / et successione / dell’Illustrissima / Famiglia Malaspina / descritta da / Thomaso Por cacchi da Castiglione Arre-tino I et I mandata in luce da Aurora Bianca / d’Este sua Consorte / in Verona MDLXXXV / presso Girolamo Discepolo e Fratelli ». Che saccheggio ! La veronese edizione porcàcchiana sulle origini e sulle vicende dei 132 PIETRO VERRUA Marchesi Malaspina comprende otto libri. Aurora Bianca d’Este, la quale, consorte del Porcacchi, curava la stampa dell’opera, a questa fece precedere una lettera, in data Verona, 20 agosto 1585, indirizzata air« 111.ma Famiglia Malaspina » confermando quanto risulta dal titolo, cioè che l'edizione a stampa della storia dei Malaspina è opera di lei, e notificando che il marito suo Tommaso Porcacchi, prima di procedere alla stesura del lavoro, aveva impiegato ben quattro anni in continue ricerche intorno alla nobile Famiglia ; da tal lettera appare inoltre che tra i Malaspina chi si era interessato e della composizione dapprima, e poi della pubblicazione, era stato il Marchese Ludovico Malaspina, e, morto questo, della pubblicazione si era occupato l’erede di, lui da parte di moglie Orazio Boldieri, « honoratissimo gentilhuomo ». Alla lettera prefazione tien dietro un primo sonetto dal titolo : « AlFIll.ma / Casa Malaspina / Aurora Bianca d’Este Porcacchi / per la morte del Marchese Lodovico Ma / laspina, e di Thomaso Porcacchi / suo consorte», e poi un secondo sonetto « A1PIllustrissima / Famiglia Malaspina », e infine una canzone « Alle nobilissime / et illustrissime donne / della Casa Malaspina / Aurora Bianca d’Este Porcacchi ». Dopo i quali versi alla narrazione storica di Tomaso Porcacchi precede ancora una copiosa « Tavola / di tutte le cose più / notevoli » per ordine alfabetico. Gli otto libri di tale storia del Porcacchi occupano 236 pagine a stampa ; di esse solo 234 furono dettate da Tommaso Porcacchi, che appunto a pag. 234 con la data 22 luglio 1573 registra la morte del. Marchese Ludovico Malaspina, patrono, per così dire, della composizione porcacchiana sulla storia di sua Famiglia, composizione da lui non vista finita : « la ho io appunto hiersera fornita, per haver oggi questa dolorosa novella della morte di lui successa quattro giorni sono ai 22 di luglio 1573 ». A questa chiusa la Aurora Bianca d’E-ste, moglie di Tommaso Porcacchi, fece seguire una pagina e mezzo di sua composizione, e l’accodò alla esposizione del marito senza distinzione tipografica di sorta, senza separazione differenziale, senza andare a capo, nello stesso identico carattere ; proseguendo dopo la chiusa del marito, accenna alle vittime della peste di Brescia del 1577 ed esalta i coniugi Flavia Malaspina e Orazio Boldieri di Verona, che avevano deciso e determinato la stampa dell’opera scritta da Tommaso Porcacchi, ormai esso pure defunto : perciò la Aurora Bianca d’Este a chiusura dell’opera, augura ogni bene alle Famiglie Bol-dieri e Malaspina: « Dio longo tempo le mantenga e le moltiplichi: e di già la sua gratia si sparge sopra di loro, poi che con felice fecondità hanno questi sposi generato tre figliuoli, Benedetto nato alli 4 di maggio 1582 (pag. 236), Gerardo alli 4 di luglio 1583, Lodovico nato alli 12 d’agosto 1584, i quali si come felicemente sono nati, così desidero che felicemente vivano. Il fine ». Il saccheggio adunque del Fontana si perpetrava sulle prime 171 delle 236 pagine del Porcacchi, arrestandosi là ove scrive il Por- UN LIBRO MANCATO (O PERDUTO?) 133 cacchi a pag. 171 : « .... riputazion della Casa: nella quale sono fioriti huomini illustrissimi in armi ; perciocché essendo d ’animo grandi, e riputando in un certo modo più propria la gloria acquistata con Parmi in guerra, che con le dignità ecclesiastiche, parve che non dilettasse loro la chierica: havendo massimamente da lungo tempo in qua, veduto d’essere stati poco fortunati in godere i beni di chiesa e nondimeno hanno havuto occasioni opportuni co' Pontefici loro stretti parenti come dirò poco appresso ». E il Fontana ha trapiantato, qui malamente assai invero, a chiusura dei suoi Frammenti istorici: « .... l’antica anotasione (pag. 55) della Casa, nella quale sono fioriti Uomini insignissimi in Armi, che essendo sempre Malaspina d’animo grandi, hanno riportato [= riputato?] in un certo modo più propria la gloria che s’aquista coll’Armi in guerra, che colle Dignità Ecclesiastiche alle quali, non ostante la stretta attinenza auta con Pontefici, non mai s’applicarono molto. Il fine )). Abbiam visto come la Storia della Famiglia Malaspina stesa dal Porcacchi con l’appendice appostavi dalla consorte Aurora Bianca d’Este arrivi fino all’anno 1584: il saccheggio, il riassunto e il ìaf-fazzonamento, alternati e commisti da parte del Fontana, si arrestano circa la metà del settimo tra gli otto libri del Porcacchi (di tale divisione in libri nel Fontana è sparita ogni traccia), e precisa-mente all’anno 1248, con la caduta cioè della città di Λ ittoria, che, contrapposta da Federico II a Parma, aveva ftvuto per governatore imperiale Corrado Malaspina, figlio di Guglielmo Malaspina, dallo spino senza fiore del ramo di Mulazzo, ramo che nell’arme, oltre 1 a-quila bicipite, ha il leone rampante incoronato, come nello stemma, che, quasi ex-libris, è disegnato al principio dell’opera in esame, quale affermazione di proprietà, nel 1723, del Marchese Lodo\ico Malaspina di Orezzoli; Orezzoli è pure in Val Trebbia, come Bobbio, a 5 km. da Ottone. Se contrassegniamo con F le pagine del manoscritto del F ontana e con P le pagine a stampa del Porcacchi, risultano copiate alla lettera le pagine sotto elencate : F 6-7 = P 1-3 ; F 9 = P 7 ; F 12 = P 16 ; F 13-14 = P 16-19 ; F 15-18 = P 23-28 ; F 23-24 = P 38 ; F 25 = P 41-42 ; F 30 = P 26-28 e 47; F 31-32 = 56-58; F 35-39 = P 62-68; P 40 = P 71-72; F 44 = P 100 ; F 48 = P 128 ; F 49-50 = P 132-133 ; F 51 = P 148-149 ; F 53 = P 165-166. . Non sono poche adunque le pagine che il Fontana ha copiato pan pari dal Porcacchi, e senza citarlo : e alle pagine copiate si inframmettono e si alternano le pagine del Porcacchi dal Fontana palesemente riassunte, di modo che si avrebbe quest’altro specchio statistico : 134 PIETRO VERRUA Quando il Fontana riassume o addirittura salta, salta e riassume per lo più degli incisi non indispensabili, per esempio e i vanti del Porcacchi sull’autorità delle proprie fonti storiche; certe disquisizioni del Porcacchi storico-critiche, le quali ritarderebbero l’esposizione degli avvenimenti, mentre il Fontana* vuole andare per le spicce, badando piuttosto ai risultati, talora conchiudendo a modo suo, magari indipendentemente, se non contrariamente, dalle premesse ; salta vicende che non riguardano Casa Malaspina; lunghe e complesse genealogie di altre Casate, citazioni che gli sembrano inutili, da Fazio degli Uberti e da Dante. Pertanto serque di pagine del Porcacchi (11-15; 20-22; 106-116), non hanno nessun riscontro nell’opera del Fontana, che talora anche raffazzona a capriccio o si vale della fonte porcacchiana però spostandone l’ordine. Pochissimo il Fontana non ha desunto dal Porcacchi; da questo si stacca al principio dell’opera sua, dove il Fontana annovera tra le più illustri e nobili famiglie di Roma antica la casa Aniecia, la Savella e la Marzia, dalla quale ultima deriverebbero i Malaspina. Verso Bobbio poi il Fontana non appare nutrisse molta simpatia, e neppure molta ne doveva nutrire verso i Malaspina di Bobbio, nella sua devozione ai Malaspina di Orezzoli, a cui apparteneva il Colonnello dei Dragoni Marchese Giovanni Battista ; infatti nella pag. 41, riassunta in parte da pag. 73 e 74 del Porcacchi, che ivi parla della conversione dei Longobardi al Cattolicesimo, dal Fontana è omesso un accenno a Bobbio, che pure il Porcacchi aveva detto chiaro già appartenente fin d’allora ai Malaspina. Così, prima ancora, a un certo punto il Fontana, cui era accaduto di dire che Ilduvino ο II-duino, figlio del Console Mavorzio, « attese per lo più a far la sua residenza in Bobio, città posta alle radici dell’Appennino » (pag. 17) o « posta sopra il giogo deU’Appennino » a detta del Porcacchi (pag. 26), a pag. 19 adunque dopo aver soggiunto che Ilduino, « ch’era in Bobio.... fu scacciato di Stato », il Fontana non segue per un momento il Porcacchi ; gli si mette contro anzi e stende una sua « Di -gressione » : questa parola scritta isolata, in carattere ben marcato, a mezzo il rigo, è l’unica divisione grafica del testo dei Frammenti del Fontana. Ed ecco questa « Digressione » non desunta dal Por-cacchi : « Questa città di Bobio, ch'era antica residenza della Casa Marzia, stimo che non possi esser Bobio di Lombardia al fiume Trebbia, ma bensì un altro Bobio nell’Emilia, perchè io trovo nella Geographia del Prencipe Filippo Ferrari esservi duoi Bobij : Bobium, italice Bobi, o Bobio, quasi Boium, quod a Boij conditum sit, nunc opidum olim Civitas, Episcopalis Emiliae Sarsinae, seu Galliae Togatae intra radices Montis Apennini non procul a Sarsina, sub cuius Episcopatu nunc continetur; e questo Bobio pure era compreso nelle cit- UN LIBRO MANCATO (o PERDUTO?) tà dell’Esarcato, che erano Ravenna, Bologna, Imola, Fauenza, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Bobio, Ferrara, Comacchio, Adria, Fiesali e Gabello Signorio, Libro 3 pag. 128 sub anno 755. Est et aliud Bobium. prius Libarnarum dictum Urbs Episcopalis Insubriac sub Aj -cMepiscopo Januensi ad) Trebiam Fluium intra Montes. OUm Coenobium a Theodolinda, Longoba/t'dorum Regina extructum, quod postea sub Longobardis crea/vit in Urbem, manente adhuc Coenobio inter Placentiam 25 et Derthonam totidem mille passus a Genova sunt 35 quot a Ticino seu Papia. Ad Ducatum Mediolanensem (pag. 20) spectat sub ditione Verminensis Famigliae. a Theodolinda extructum traditur. « Ora Theodolinda essendogli morto il marito Autori Re de’ Longobardi, si elesse per secondo marito Aigiulfo o Agiculfo, Re de Lon gobardi a’ procurare nell’anno del Signore 591, e questo Re donò a S. Colombano Abbate del 598 un sito d’una Chiesa nella Val di Bobio con quattro miglia d’ogni intorno, ed allora non uèra città di soi te alcuna, che poi per la Santità de’ SS. Colombano, Attala e Bartulfo Abati, ed altri Santi monaci si cominciò a popolare quel luogo, a segno che si fece una Terra e poscia una Città, ed il primo Vesco\o il dal 1143. Oglerius primus Episcopus Bobiensis fuit prius Abbas Monasterij 8. Columbani, et relicta Ab batiali Gura eius Nepoti Episcopalem dignitatem assumpsit, secum defferens partem bonorum praedicti Monasteri]. Flavio Mavorzio, Padre d’Ilduino di Casa Mai zia, uisse del 527, e supponiamo che quando dominava in Bobio Ilduino (come dice l’istoria) fosse nell’anno 550, o 560, e più. In questo tempo Bobio di Lombardia al fiume Trebia, non era in regnum natili a, oltre che anticamente si chiamava Libarnao. L’Istoria Malaspina dice che Teodeberto mandò un esercito di Borgognoni e d’Alemanni a rovinare il Genouesato, la Romagna e la Prouincia di Venezia, e più a basso, che s’insignorì del Piamonte, della Liguria e di gran (pag. il) parte della Toscana : si che ha del probabile e più consentaneo a tempi, che scacciasse Ilduino a ( = da) Bobio Città della Romagna contigua alla Toscana uerso Sarsina ». Conchiudendo, è cosa meschina assai sotto ogni aspetto, letterario e storico, questa compilazione, e plagio e riassunto e raffazzonamento insieme, che il Fontana così sfacciatamente alla chetichella peipe-trava di sull’opera a stampa di Tommaso Porcacchi per ingannare ed ingraziarsi il Colonnello dei Dragoni Giovanni Battista Malaspina . se l’opera del Fontana poi non fu mai stampata, essa ebbe la sorte che si meritava : se invece essa andava realmente stampata a Milano nel 1717 pei tipi del Beltramico, ci si conceda questa postuma rivendicazione ai meriti di Tommaso Porcacchi, del resto buona persona di certo, se tanto già per lui si adoperava anche la consorte dal bel nome Aurora Bianca d’Este. Pietro Verrua GLI ALBERI GENEALOGICI DELLE FAMIGLIE MAZZINI E DRAGO i. Escluso qualche appunto che ho ricavato consultando i libri sto rici, la maggior parte di questo lavoro si svolse negli archivi parrocchiali dove appresi le date di nascita e di battesimo dei genitori e dei componenti la famiglia del grande Agitatore italiano. Le ricerche riuscirono assai difficili e faticose per diverse cir costanze. Come ognun sa, gli avi di Giuseppe Mazzini erano nativi di Cliia-vari ed in questa cittadina il padre delFEsule, nacque il 2 marzo 1767 e fu portato al Fonte battesimale PS seguente nella chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista. Anche il nonno ebbe ivi i natali il 3 aprile 1736 e fu battezzato nella medesima chiesa il giorno 8 seguente. Dai registri di questa Parrocchia, non si potè ricavare altro ascendente di questo ceppo : probabilmente la famiglia aveva domicilio in località viciniori. Le ricerche continuarono ancora nella vicina chiesa di San Giacomo di Rupinaro e in quella di Lavagna, ma per quanto nei registri di quest’ultima Chiesa vi fossero elencati molti Mazzini o Maz zino, non mi fu dato di rintracciare con precisione quelli di cui si tratta. È dato da rilevare che nella plaga del Chiavarese molte famiglie portano questo cognome. Al contrario di quel che è stato detto da qualche scrittore che il padre di Giuseppe Mazzini non avesse fratelli e che due sorelle morissero giovani, risulta dai documenti che ho rintracciati, che la prolificità di questa famiglia era molto più notevole; direi quasi imponente, perchè compendiava tre fratelli e nove sorelle. Che siano morti infanti o adulti, non mi è riuscito di sapere ; riferisco soltanto per chiarire questo punto finora errato, basandomi sulle eloquenti note battesimali della parrocchia. Lascio alla considerazione dei lettori questa genealogia che può interessare gli amatori di storia e la affido alla loro cortese attenzione, colla speranza di incontrare qualche studioso che voglia renderla più estesa nei suoi particolari. ■P * ... ο GIACOMO MAZZINI Q BARTOLOMEO Sposo di Angelica Raffo di Gio. Batta t GIUSEPPE Nato il 3 aprilo 1736 e batt. Γ8 seguente in S. Giov. Bat ti sta di Cliiavari sposo di Maria Turio q. Bernardo il 29-X-1752 nella suddetta Chiesa. M i ria Brigida Batt. 25-111-1739 in Sau Giov. Battista di Chiavari. Giov. Battista Batt. 9 Luglio 1741 in San Giov. di Cbiavari. Lorenzo Batt. 31 Maggio 1744 in San Giov. Battista di Chiavari Giulia 31. Batt. 24 Aprile 174^ in San Giov. Battista di Chikvari. M. Giulia Batt. 29-1-1749 in San Giov. Battista di Chiavari. Maria Frane·00 Lorenzo Angela Geronima M.a Angela M.a Teresa Batt. 4-X- 1755 in Batt. 18-IX-1758 in Batt. 18 XII-17G0 in Batt. 8-III-1703 in Batt. 24-11-1764 in Nata a Genova il San Gio. Batt. di San Giov. Battista San Giov. Battista San. Giov. Battista San G-inv. Battista 4-VII-I765 o regi-Cbiavari. «li Cbiavari. di Cbiavari. di Chiavari. di Chiavari. strato il battesimo il 13-1-1770 in San Giov. Battista di Cbiavari. Giacomo Dottore Nato il 2-III-1767 e bjtt.l’Sseguente, in San Giov. Battista di Chiavari. - Sposo di Maria Drago di Giacomo. - Morì il 13-ΧΙΓ-184Κ nella parrocchia del Carmine in Genova. I Luigia Batt. 18-111-176« in San Giov. Battista di Chiavari. 31.a Ottavia Batt. 24-VIII-1769 in San Giov. Battista di Chiavari. Margherita Batt. 27-XI-1770 in San Giov. Battista di Chiavari. Camilla Batt. 27-1-1772 in San Giov. Battista di Chiavari. Vincenzo Batt. ll-V-1773 In San Giov. Battista di Chiavari. Maria Rosa Caterina Suora Nata il 19-VIII-1797 e batt. il giorno seguente in San Siro. — Morì il 30-X1I-1823 in Sampierdareua. Maria Antonia Carlotta Tomasina Nata il 4-XI-1800 e batt. il giorno 7 seguente in San Francesco d’Albaro. - Sposa di Antonio Massuccone il 20-VIII-1829. -Morì a Marta presso Bolzaneto ii 22-X-1838. Giuseppe Nato il 22 giugno 1805 e batt. il giorno seguente in San Siro. - Morì a Pisa il Francesca Geronima Nata il 16-XII-1808 e batt. lo stesso giorno in San Siro. - Morì il 17 gennaio 1838 nella parrocchia del Carmine in Genova. GIOV. ANDREA DRAGO Q. LUCA (Parrocchiano di San Fruttuoso) Sposo di Maria Maddalena Molinello il 23-Î-1703 in San Francesco d’Albaro 1 1 1 1 1 1 / 1 Anna M.a Luca Maria Ben.tta Francesco Luca Tomaso Batt. il 25-11-1704 in San Batt. l’8-XI -1 705 in San Batt. il 25-111-1709 in San Nato il 9-XII-1711 e batt. Batt. il 21-V-1716 in San Batt. il 21-VIII-1721 in San Fruttuoso. Frutti »so. Fruttuoso il 311 stesso mese in San Francesco d’Albaro. Francesco d’Albaro. Caterina Parodi il 27IV-1731 nella suddetta chiesa. - Morì il 17-IX-1773 e fn sepolto nella chiesa di San Fjfanoesco d’Albaro. M >ria Madd.iia Batt. il 4*1-1732 in San Francesco d’Albaro. Andrea (*) Batt. il 27-LX-1733 in San Francesco d’Alburo. - Sposo di Teresa Pareto di Lazzaro il 20-11-1757 nella stessa chiesa. Anna Maria Batt. il 16-X-1735 in San Francesco d’Albaro. - Madrina: Maddalena moglie di Andrea Drago. Giacomo Nato il 15-1-1738 e batt. il giorno seguente in San Francesco d’Albaro. - Sposo di Geronima Bottino di Giuseppe il 28-XI-1763 nella stessa chiesa. - Detta Geronima morì il 4-V1I-1823 nella parrocchia di S. M. di Castello o fu sepolta il giorno 7 seguente nella chiesa di San Francesco d’Albaro. Batt. t Anna Maria il 2-VI-1743 in San ràncesco d’Albaro Nicola Batt. il 10-IX-1745 in San Francesco d’Albaro. M.a Teresa Batt. il 24-X-1747 in San Francesco d’Albaro. M.a Antonia Batt. il 26-X-1749 in San Francesco'd’Albaro. Giuseppe Fr.co Batt. il 12-XH-1764 in San Francesco d’Albaro. Giacinto Batt. il 13-11-1766 in Sjan Francesco d’Albaro. M.a Rosa Batt. Γ8-ΤΙ-1767 in Son Francesco d’Albaro. Francesco Batt. il 2-IV-1769 in San Francesco d’Albaro. Filippo Batt. il 2-IX-1770 in San Francesco d’Albaro. M.a Antonia Batt. il 15-IX-1771 in San Francesco d’Albaro. (1) Da Andrea Drago di Francesco, spoéo di Teresa Pareto di Lazzaro, sono nati i seguenti dieci figli e furono battezzati, in data a liato del nome, nella chiesa di San Francesco d’Albaro : Caterina (21-11-1758), Gio. Batta <18-111-1760), Barbara (26-11-1763), Giuseppe (27-VI-1764, vedi nota 2), Giacomo (17-11-1767), Alessandro (7-VII-1768), M. Maddalena (15-X-1769), Nicola (18-VII-1773), Nicoletta (8-X-1776), Al. Giacinta (8-X-1776). Queste due ultime erano gemelle. Maria Giacinta Nata il 31-1-1774 e batt. lo stesso giorno in San Francesco d’Albaro. - Sposa del dott. Giacomo Mazzini di Giuseppe. - Morì il 9 agosto 1852 nella parrocchia del Carmino in Genova. (2) Da Giusoppe Drago di Andrea q. Francesco, (vedi nota 1) andato a nozze il 29-XI-1788 nella chiesa di San Francesco d’Albaro con Nicoletta Bisso q. Stefano, sono nati i seguenti sei figli: Angelo (3-XII-1799), Vincenzo (22-VIII-1802), Carlo (l-XI-1804), Francisca (7-IX-1806), Chiara (23-111-1810), Giulia (7-IX-1812), e furono battezzati, in data a lato del nome nella chiosa di San Francesco d’Albaro. M a Caterina Batt. Γ8-Χ-1776 in San Francesco d’Albaro. GLI ALBERI GENEALOGICI DELLE FAMIGLIE MAZZINI E DRAGO 137 Riporterò le note di battesimo e di matrimonio che ho ricavate fedelmente dall’Archivio della Parrocchia di San Giovanni Battista di Chiavari. Atto di battesimo di Giacomo Mazzini, padre di Giuseppe Mazzini. Registro dei battesimi per gli anni 1757-1774. 1767 Die 8a Martij. . . Jacobus Nicolaus Filius Joseph Mazini Jacobi et M. T. Filia q. Bernardi Turij coniugum natus die 2.da huius, et hodie baptizatus fuit a M. D. Archi -presb. Levantibus D. Nicolao Baffieo q. D. Jo : Franc.ci et D. Teresia vidua q. Jacobi Turij. Atto di matrimonio dei genitori di Giacomo Mazzini. Registro dei matrimoni per gli anni 1737-1783. 1752 Die 29 Sbris. Joseph Mazzinus Jacobi, et Maria Turie Bernardi ambo ex hae Parochia tfactis solitis proclamationibus inter Missarum Solemnia die 18 Tbre p:, 2.da die 22:, prò 3:tia die 25: mensis 8bris nullo detecto Canonico Impedimento per me li. D. Joanne Bapta Bianchi Curato coniuncti. fuere in matrimonio presentibus testibus D. Clerico Caroli Solario q. D. Joannis rane.ci et Dominica Lacomarsin q. Andreae. Atto di battesimo del padre di Giacomo Mazzini. Registro dei battesimi per gli anni 1722-1737. Die Octava aprilis 1730. Joseph Filius Jacobi Mazzini Bartholomei et Angelica Filie Jo : Baptae Raffi coniugum natus undius tertius et hodie a R. D. Doni.co Questa de mei Archipresb.ri licentia fuit baptiz.s Levantibus Carolo Garibaldo q. Bar.ei et Catharina filia q. Fra.ci de Potestate. Atto di battesimo di Lorenzo Mazzini, fratèllo di Giacomo Mazzini. Registro dei battesimi per gli anni 1757-1774. 1758 — 18 settembre. Laurentius Antonius filius Joseph Mazini et Μ. T. Turriè coniug. natus 11 Junij cui data fuit aqua ob imminens mortis periculum, et hodie suppletae fuit cerimoniae Levantibus R. V. Laurencio Manfredo et D. Bianca Lagoria uxore Michaelis Angelli. Atto di battesimo .di Vincenzo Mazzini, fratello di Giacomo Mazzini. Registro dei battesimi per gli anni 1757-1774. Die 11 Maij, Vincentius filius Josephi Mazzini Jacobi et Marie Turrié q. Bernardi coniuge natus hodie et baptizatus est a me Archipr.ro Levantibus Josepho Botti Octavi, et M.a Hyeronima vidua q. Andrea Descaltj. II. 11 secondo studio genealogico tratta della madre di Giuseppe Maz zini e comprende le famiglie Drago da cui germogliò il grande Agitatore del XIX secolo. Erano umili famiglie vissute nella plaga di Albaro che generarono altri figli dai quali nacque la madre delPEsule che nella me- 138 G. B. SANTO BOERO ditata calma e nel pensoso raccoglimento diuturno trovò la saggezza per impartire al diletto figlio le vie luminose da seguire. Come risulta dai registri parrocchiali, i Drago furono battezzati nelle chiese di San Fruttuoso e di San Francesco d’Albaro e in quella ridente collina il giorno 31 gennaio dell’anno 1774 venne por tata alla Fonte battesimale la piccola Maria che divenne poi madre delPUomo che dedicò tutta la sua esistenza per la grandezza della sua nazione e per il bene del suo popolo. La genealogìa presenta un aspetto imponente dal lato prolifico, poiché ogni singolo soggetto di queste famiglie, ebbe numerosissima prole con un parto gemellare. Nelle ricerche fatte, non fu dato di sapere quale professione o mestiere esercitassero queste famiglie « bisagnine » e considerando che la zona dove essi furono battezzati si trovava fuori delle vecchie mura di cinta della Città, si ritiene che esse ricavassero il guadagno coltivando la terra. Soltanto dal registro del censimento della parrocchia di San Francesco d’Albaro per gli anni 1789-1794, rilevai dallo stato di famiglia denunciato da Andrea Drago di Francesco e zio di Maria, in occasione della benedizione delle case dell’anno 1792, che egli abitava coi figli in « Orto Franzone ». Detta località, che portava il cognome di una delle famiglie più spiccate della nobiltà genovese, suppongo sia l’attuale via San Giuliano. Del resto non saprei come interpretare diversamente queste vecchie registrazioni. Ecco le note di battesimo e di matrimonio che ho ricavate fedelmente dagli Archivi delle rispettive parrocchie. Atto di battesimo di Maria Drago di Giacomo. Registro C dei battesimi lier gli anni 1764-1782 dell’Archivio parrocchiale di San Francesco d’Albaro. 2 Febraro 1774. Maria Giacinta f.a di Giacomo Drago q. Francesco e di Geronima di Giuseppe Bottino S. M., nata il 31 Genaro (cor.e) p. p. ore 12. oggi battezzata. P. P. Giuseppe Drago e Maria Giacinta, moglie di Francesco Contini. Atto di matrimonio dei genitori di Maria Drago. Registro B. dei battesimi, matrimoni e morti per gli anni 1755-1764 delPArchivio parrocchiale di San Francesco d’Albaro. 28 novembre 1763. Giacomo figlio di Francesco Drago e Geronima figlia del sig. Giuseppe Botino ambedue della n.ra Parr.a dispensati in questo giorno dalle tre solite pubblicazioni da Mons. Rev.mo Vicario Gen. sono stati congiunti in matrimonio per verba de presenti, e secondo il rito di S. M. C. Test.i Bartolomeo Viga-nego di Bartolomeo e Giuseppe Viganego di Giamb.ta si è contratto il matrimonio privatamente e non anno preso la nuziale Benedizione, essendo entrato l’Awento. Atto di battesimo di Giacomo Drago di Francesco. Registro A. dei battesimi per gli anni 1738-1755 dell’Archivio parrocchiale di San Francesco d’A^lbaro. GLI ALBERI GENEALOGICI DELLE FAMIGLIE MAZZINI E DRAGO 1738 — 16 gennaio. Giacomo figlio di Frane.co Drago di Andrea e di Cattarina sua moglie, nato ieri a ore 16 circa, oggi è stato battez.to P. P. Giacomo Verona q. Antonio e Maria Rosa moglie di Stefano Centanaro. Atto di matrimonio dei genitori di Giacomo Drago di Francesco. Registro dei matrimoni per gli anni 1702-1754 dell’Archivio parrocchiale di San Fruttuoso. 1731 die 27 ap.ly. . Ego suprad. Rector J. Aug. Figarius praemisis solitis denonciationibus sub diebus tribus festivis in utraque Parochiali nulloque detecto impedimento quominus servata in omnibus forma S. C. T. in ecc.la coniunxi in matrimonium Fran.cum M.a Drago fìlium Andrea ex Parochia S. Frane.ci de Albario et M.a Catharina Parodi filia Nicolai ex hac mea Parochia habito prius ipsorum mutuo consensu per verba de pr.ti espresso. Presentibus testibus D. Thoma Solario q. Franc.ci et Joseph Rondanina Laurentij, usque sicut supra coniunctis die sequenti solemniter benedixi. Atto di battesimo di Francesco Drago di Gio. Andrea. Registro dei battesimi per gli anni 1704-1758 dell’Archivio parrocchiale di San Fruttuoso. 1711 die 31 Xbris. # Franciscus Maria filius Joannis Andrea Draghi q. Luce et Magdalena uxoris natus die 9 a me Paulo Vignolo Rectore baptizatus est sub conditione. Levantibus D. Fran.co Maria Mantelli Joanni Stephani, et Maria Magdalena Balestrimi uxore Joseph. Atto di matrimonio dei genitori di Francesco Drago di Gio. Andrea. Registro dei battesimi, matrimoni e morti per gli anni 1692-1707 dell’Archivio parrocchiale di San Francesco d’Albaro. 23 gennaio 1703. Furono coniug.i in matr. da me Parocho per verba de presenti, et alla forma del S. C. T., Andrea Drago q. Luca della Parochia di S. Fruttuoso di Tealba e Maria Madalena, fig.a di Bened.to Morinello della nostra. Testimoni il sig*. Gasparo Merano q. Joannis.Baptaé e Bened.ta Raestrello di nostra Parochia. Essendo p.a state fatte le tre solite denuncie in una e nell’altra Paroc.a, e sotto i med. giorni 15, 22 e 28 Sbre pros.o passato, come da fede di d.to Parocho, che si conserva. G. B. Santo Boero V ARIETA ANTICHE FAMIGLIE LIGURI : I RAVENNA DI LAVAGNA Nell’antica, contea dei Fiescbi, vive, da secoli, la famiglia Ravenna, di cui non è difficile seguire le vicende nel passato. Nelle Memorie manoscritte, conservate nell’archivio familiare e nelle quali, dal -500 in poi, regolarmente, il capo di casa registra nascite, matrimoni, morti, trasferimenti di residenza, si legge che, nel Duecento, dalla nativa Ravenna, un gruppo non numeroso di persone, che poi assunse il nome della città d'origine, venne a stabilirsi in Liguria e precisamente a Lavagna, a Cavi di Lavagna e a Chiavari. Va da sè che a queste Memorie 11011 si dà che un valore molto relativo. Ci siamo perciò rivolti a fonti sicure e cioè alPArehivio Parrocchiale della Basilica di S. Stefano in Lavagna, e all’Archivio Comunale della stessa città. Dall'uno e dall'altro, si ebbero elementi sufficienti per dimostrare che tale famiglia è cattolica e ariana. I registri parrocchiali — purtroppo — non esistono che dal 1591. Per quanto concerne i Ravenna, si arriva al 1595, al Foglio n. 2 e si trova l'atto di battesimo di Stefano Ravenna tìglio di Silvestro e Benedittina, nato il 1° aprile 1595, battezzato in quello stesso giorno: tenuto al fonte battesimale da Falcone Mncenzo e da Nicoletta Tiscomia. Nel foglio successivo, al n. 3, sempre nel 1595, incontriamo Virginia Ravenna figlia di Battista e Giulia, anch'essa battezzata nello stesso giorno in cui nacque. D'ora in avanti, possiamo, sui registri parrocchiali, seguire il regolare, costante sviluppo di questa famiglia. E non solo battezzati, sposati e sepolti secondo il rito cattolico, ma ordinati sacerdoti furono parecchi Ravenna, due dei quali furono Parroci della Parrocchia di Barassi (nella circoscrizione di Lavagna) l’uno Don Cipriano Ravenna, nel 1G79, e l'altro, Don Giulio, nel 1762. Che questa famiglia fosse ritenuta cattolica e non di recente data, lo dimostra anche il fatto che Giovanni Andrea Ravenna è nominato ANTICHE FAMIGLIE LIGURI : I RAVENNA DI LAVAGNA 141 Massaro della Chiesa di S. Stefano dal 1658 al 1668, proprio nel decennio iii cui si portò a compimento la costruzione del nuovo Tempio. Da un codice cartaceo, conservato presso il Municipio, e contenente Atti della Comunità di Lavagna dal 1650 al 1674, rileviamo che, nel 1650, si deputa Angelo Maria Ravenna e un altro concittadino, ad occuparsi « secondo loro assoluta balia e facoltà » della rifusione delle campane, vigilando a che il lavoro riuscisse come si desiderava. Che fossero ariani lo dimostra ancora il fatto (provato dal citato Codice e da altri coevi) che troviamo sempre tra i Consiglieri di Lavagna un membro della famiglia Ravenna. I Consiglieri erano incaricati di eleggere i Censori alle derrate o Maestrali} di fissare 1 a-varia, di stabilire le spese ordinarie e straordinarie e d’altre importanti deliberazioni. E Ravenna ci sono tra i Censori alle derrate, tra gli Officiai» dell· Annona, tra i Cassieri della Comunità Lavagnese. Se poi si vuole una onesta e semplice storia di Lavagna, è ne cessano valersi di quella scritta dal Canonico Giuseppe Ravenna e di cui s’ebbe — vivente l’autore — una seconda edizione nel 1886. A Lui, Lavagna ha intitolato una piazza ; quella prospiciente al palazzo delle scuole, ex sede del Municipio, quasi a ricordare ai giovanissimi, Colui che la storia antica e recente della comune terra natale, raccolse e narrò. X X JL R. DEPUTAZIONE 1)1 STORIA PATRIA PER LA LIGURIA Sabato 17 nella etnie di Palazzo Russo ha avuto luogo l'adunanza Interna della H. Deputazione di Storia Patria a col è seguita ΓAssemblea generale ilei Soci. Esaurita alcune pratiche di ordine interno, il Presidente Sen. Mattia Moresco, ha fatto un’ampia esposizione del lavoro compiuto e delle pratiche svolte nei l’anno XVII. Tra queste merita particolare rilievo la pratica evoltasi per richiamare l’attenzione del Municipio sulla inopportunità che una località di Genova — la salita da via XX Settembre al Ponte Monumentale — porti il nome di Cristoforo Saliceti, dei quale Genova ha avuto tutt’altro che a lodarsi sia quando provocò nel 17S8 l’annessione officiale della Corsica alla Francia, e l’anno successivo denunciò 1 tentativi della Dominante per ritornare lu )M»ssesso dell’isola, sia quando nel 1805 provocò con la violeuza e la frode l'annessione di Genova all’impero francese, li Presidente rivolge un fervido ringraziamento ai Podestà che ha accolto con immediato e cordiale favore la proposta della Deputazione: il nome — che risaliva a una deliberazione di parecchi decenni addietro — sarà sostituito con altro nome còrso di chiaro significato nazionale. Il Presidente ha anche ricordato d’essere stato chiamato a rappresentare la Deputazione in una commissione incaricata di studiare e risolvere il problema della viabilità connesso con quello della Casa di Colombo, l/n'ampia discussione tecnica e storica, cui hanno partecipato 1 Deputati Boriiate, Pandianl e Mon-leone, ha Indicato gli elementi storici che In Deputazione ritiene debbano essere tenuti presenti. In modo particolare 11 Presidente si è soffermato poi sulla pubblicazione del protocolli notarili del secolo XII, i più antichi conosciuti e Illustranti la storia del commercio e il diritto commerciale di tutto il bacino Mediterraneo. Tre volumi sono già stati pubblicati e tre sono in corso e saranno editi In breve: l'iniziativa della Deputazione ha avuto 11 più lusinghiero successo e l’approvazione dei maggiori enti culturali, tra 1 quali particolarmente gradite le parole di alto plauso della Biblioteca Vaticana. Il ritmo della pubblicazione continuerà ininterrotto sinché almeno tutt# l protocolli del secolo XII. comprendenti una dozzina di volumi a stampa, siano posti a servizio degli studiosi. Intanto continua anche il lavoro ordinario della Deputazione; è stato pubblicato 11 volume Sinodi gencrccM antichi di Mons. Cambiaso; sarà pronto tra breve un interessante studio del dott. Gugllelmino suH’eeonomla e lo spirito pubblico a Genova dal 1S14 al UH*. Le Deputazione continua alacremente la propria funzione dì preparare i materiali documentari e le opere monografiche per la illustrazione della gloriosa storia genovese; si augura di avere* In questo lavoro l'appoggio fattivo e cordiale degli studiosi, dei cittadini in cenere e specialmente della stampa. 8u questo argomento si è impegnata un'ampia discussione alla quale hanno partecipato col membri della Presidenza il conte Puccio Prefumo, ϋ nob. Maineri, il cav. Zonza. il comm Canevello, 11 coroni. Chiossone. I prof. Pàsttne e Ternate «1 altri. T, stato ribadito specialmente il concetto che k necessario diffondere tra i molti genovesi amatori e cultori delle patrie memorie la conoscenza di questo Ente che ha appunto l’uffldo di conservarle e studiarle e la convinzione <*be non occorrono, per appartenervi, requisiti spedali. Approvato II bilancio preventivo e il piano dì lavoro per l'aouo XVIII da R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA 143 sottoporsi alla Giunta Centrale degli Studi Storici, l’Assemblea ha rivolto un fervido saluto e il più vivo compiacimento al Deputato prof. Alfredo Schiattai chiamato a far parte dell’Accademia d’Italia. Sono entrati a far parte della R. Deputazione i nuovi. Soci, ai quali il Consiglio Direttivo rivolge il più cordiale saluto : Prof. dott. Nilo Calvini (proposto dal prof. Vitale) ; Luigi Garibaldi; March. Giacomo Granello di Casaleto; Giorgio Chiavola; Ing. Comm. Gustavo Dufour (tutti proposti dall’affezionato e benemerito Socio nob. Riccardo Maineri). RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Antonio Monti, La giovinezza di Vittorio Emanuele II (1820-1849). A. Mondadori, Milano, 1939. Ohe trattando della giovinezza di Vittorio Emanuele II occorresse parlare innanzi tutto dei genitori suoi, s’intende facilmente ; ed il Monti parla dapprima delle relazioni fra Carlo Alberto e la moglie Maria Teresa, secondogenita- di Ferdinando III granduca di Toscana, poiché « insistere alquanto su tale argomento potrebbe sembrare fuor di luogo o superfluo soltanto a chi non fosse convinto della necessità che, specialmente per quanto concerne il campo delicato dei rapporti coniugali, lo studio di Vittorio Emanuele II riceva luce anche dallo studio di Carlo Alberto ». 11 Monti nota che proprio nel periodo fiorentino della vita, in cui il principe di Carignano avrebbe, secondo alcuni scrittori, più dimenticato i propri doveri coniugali, doveva egli maggiormente cercare di comportarsi bene per riguadagnarsi la fiducia di Carlo Felice, e che infatti il granduca suo suocero scriveva al re di Sardegna rendendo « giustizia alla regolare, savia e esemplare condotta politica e morale costantemente tenuta dal.... principe da che si trovava in casa sua ». Pertanto Fautore conclude con le parole del Genova di Revel per il quale « Carlo Alberto, distinto di persona e di modi, si compiaceva di trattare le signore con gentile cortesia, specialmente le più belle.... Con la principessa vi fu sempre accordo, mai mancanza menoma di riguardo ». Invero, il giungere ad una perfetta conoscenza della verità in questioni di tal genere è almeno difficilissimo; e in nessun campo come in quello senza volerlo si danno argomenti ai maligni fabbricatori di calunnie, perchè questi possono facilmente fare scomparire alla vista degli altri il limite che divide il lecito dalPillecito ; d’altra parte, tanto più uno è in pericolo di cadere in peccato di tal genere, quanto più per la condizione sociale propria, anche se non aiutano altre doti, attira forze ammaliatrici. Ad ogni modo, ciò ha importanza solo riguardo ai benefici che l’armonia familiare porta all’educazione dei figli. Un altro elemento pone molto opportunamente in evidenza il Monti, che innegabilmente bisogna tener presente per l’educazione e la formazione dello spirito di Vittorio Emanuele, anche se non vogliamo indagarne l’efficacia e la natura dei risultati, ma che è particolarmente importante per lo studio del carattere e dell’azione di RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Carlo Alberto ; tale elemento, che spiega, tanti suoi atteggiamenti in momenti importanti, è la sua religiosità: « mes vues sont toutes dirigées vers un autre séjour plus estimable, plus désirable que celui-ci ». E questo Carlo Alberto scriveva in una lettera del gennaio 1820, cioè a non ancora ventidue anni. Ma. che questa religiosità, per quanto sostanziale, non si trovasse in completa armonia con lo spirito dei tempi, lo provano gli scherzi lugubri fatti alla principessa proprio in occasione della nascita di Vittorio Emanuele. Carlo Alberto diede direttamente opera intensa all’educazione dei tigli. La principessa Maria Teresa traduceva dal tedesco in italiano nel 1827 alcune favole, Carlo Alberto le traduceva in francese e ne aggiungeva altre di sua invenzione ; ne risultava un libro in sessanta copie col titolo: Contes 'moraux pour l’enfa/nce; ed il più pai-ticolare fine del libro risulta dal titolo d’un esemplare esistente nell’archivio reale : Pour I’instruction de mes enfants, l· ra il lb32 ed il 1836 il re trascriveva di proprio pugno le preghiere che i prìncipi dovevano recitare, ed i punti fondamentali di un completo esame di coscienza, quando si accostassero al sacramento della confessione, ed infine nel 1838 pubblicava le Réflexions historiques, che egli aveva scritto « appunto per completare la formazione spirituale e politica dei suoi figli e per dare loro delle norme precise, e, a suo credere, assolute e sicure sia dal punto di vista politico che religioso ». Le particolari discipline in cui fu istruito Vittorio Emanuele furono oltre le militari, filosofia, elementare, diritto naturale musica (da cui non trasse mai profitto) disegno storia dell’arte, un po’ il tedesco, storia generale da integrarsi col diritto politicone più particolarmente la storia di casa Savoia, con quella delle singole pro-vincie dello Stato. I princìpi che più direttamente ed immediatamente derivarono dalla educazione avuta si possono considerare indicati da un breve suo scritto riassuntivo intitolato: Breve notizia letteraria intorno a Niccolò Machiavelli, che egli inviava al padre dopo che era stato riveduto e corretto ; è il vecchio ristretto modo di comprendere degli uomini del tempo : « se debbono riguardarsi (le sue massime politiche) come consigli dati al principe di Toscana per norma del suo governo, sono sovente opposte ai princìpi benefici che la religione insegna pi Re della terra pel bene loro e dei popoli ; se vogliono credersi, secondo l’avviso di molti, una satira di quel principe, per renderlo odioso, sono sovvertitrici dell’ordine pubblico, e conducono alla rivolta. La Chiesa le ha severamente condannate, a ragione ». E di non minor valore è ciò che riguarda un altro lavoro del principe: « Quelques réflexions sur les révélations d’un Franc-Maçon, commento 0 piuttosto attacco a fondo contro la pretesa dei massoni di distruggere la monarchia. L’argomento contrario — dice il Mon- 146 RASSEGNA BlBLfOGRAFlCA ti — che il giovane mette innanzi è quanto di più pratico, sbriga tivo ed efficace si possa immaginare: i massoni vorrebbero distruggere ogni autorità incominciando da quella del Re ; ma non sarebbe più facile al Re distruggere i massoni, potendo impiegare in questo dei mezzi ben più potenti di quanto i massoni possano disporre? ». Ed lutine, ecco un periodo della risposta al padre sopra il quesito presentatogli : « Può un principe 'prendere parte in contratti di compra vendita di cavalli? ». « Il principe è collocato dalla Divina Provvidenza in un posto più elevato che i particolari, e se Dio lo lia innalzato a tanta dignità è perchè Egli faccia del bene e loro dia buon esempio; quindi l’obbligo che gli incombe di considerare l’alto grado a lui affidato, con l’onore e senza macchia agli occhi degli uomini ». Lasciamo a parte le espressioni di vanità; comuni a tutti i ragazzi adolescenti e giovanotti, prìncipi e non prìncipi, convinti tutti da che mondo è mondo, d’essere oggetto d’ammirazione specialmente da parte del gentil sesso, e notiamo piuttosto ciò che non solo fu determinato dall’età, ma anche dall’indole dall’educazione e dalla condizione sua di principe ; egli scriveva il 13 gennaio 1841 al padre Isnardi di far pregare per ottenergli « quella tanto desiderata guerra che » dichiarava « ora, da ciò che mi accorgo, pare di nuovo avvicinarsi ». Ma più ancora merita attenzione il lato politico del matrimonio di Vittorio Emanuele. Anche in questo caso è indispensabile tener presenti, fra le forze più determinanti, i princìpi religiosi di Carlo Alberto. Egli si preoccupava di togliere alla marchesa Paulucci, moglie dell’aiutante generale dell’imperatore di Russia, che forse pensava alla possibilità d’un matrimonio con una principessa di questo paese dell’allora duca di Savoia, ogni illusione, con queste parole : « en effet quelque brillant ou avantageux que peut être un mariage pour un de mes enfants, je n’y pourrais jamais penser s’il y eut différence de Religion; je me fais gloire de suivre l’exemple de mes ancêtres, nous sommes de fervents et dévoués catholiques » ; e conforme a queste idee egli volle il matrimonio di Vittorio Emanuele con la cugina Maria Adelaide, secondogenita di Maria Elisabetta di Savoia Carignano, sorella di Carlo Alberto, e dell’arciduca Ranieri viceré del Lombardo-Veneto. Quanto alle conseguenze di questa nuova stretta parentela fra casa Savoia e casa d’Austria nessuno può dubitare che esse non si siano fatte sentire all’armistizio dopo Novara e alla pace di Milano del 6 agosto 1849. Il ritratto fisico e morale di Carlo Alberto che il Monti ci fa alla vigilia della campagna del 1848 spiega molto dell’andamento di questa. Carlo Alberto aveva momenti in cui viveva, diremo così, fuori RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 147 del tempo suo. Lo indica la l'rase del novembre ’47 a Bettino Ricasoli : « Che gioia poter fare una guerra di indipendenza e di religione! », in relazione a quella questione di Ferrara, che ormai fra Austria e Γιο IX era stata, dopo calme trattative diplomatiche, del tutto appianata, senza avvilimento per alcuna delle parti, sia pure mentre ancora non s’erano spente le grida di protesta e di minaccia del Circolo romano, e dei giornali da poco nati. Si direbbe che anch’egli poco conoscesse Pio IX, come del resto non troppo lo conobbe lo stesso Mettermeli, il quale il 23 febbraio 1848, quando ormai, malgrado le apparenze, il papa andava preparandosi a resistere ai liberali più che ad assecondarli,, scriveva : « L’élément qui au milieu d’urne situation indicible est le plus incompréhensible, c’est swns contredit le libéralisme du Pape et qui n’est pas feint mais réel et fait ainsi la contrepartie du Roi Chai1.es Albert qui est despote et livré au courage de la peur! ». Il liberalismo di papa Pio IX era davvero non finto, ma era proprio quello del brav’uomo, come disse il Mazzini, desideroso che i suoi sudditi stessero un po’ meglio di prima ; ed egli di crociate non andava fantasticando. Ma forse tutti e tre : Carlo Alberto Pio IX ed il Metternich ebbero questa giustificazione: che i tempi e gli avvenimenti furono tanto più forti di loro, perchè i tempi erano nuovi ed essi vivevano troppo soffocati da idee del passato. La nota, -che risuona più evidente nella rievocazione degli stati d’animo durante la. campagna del 1848, è quella delle condizioni difficili in cui si trovò l’esercito, costretto a sopportare le fatiche della. guerra fra stenti e privazioni che lo fiaccavano. Il Della Rocca ha confessato nella sua. Autobiografìa di un veterano pur dopo aver compassionato i croati che si lasciavano prendere prigionieri facilmente perchè mal nutriti : « Vi furono, è vero, alcuni giorni in cui i soldati dei due nostri corpi d’esercito mancarono di viveri ; l’intendenza generale di certo non era ciò che avrebbe dovuto essere ; ma per quanto si sia detto e scritto, quei giorni furono eccezioni; disgraziatamente furono appunto in occasione di grandi marce e di combattimenti.... »; e Vittorio Emanuele nella sua Relazione del settembre ’48 per il Comando Supremo dichiarava : « In quanto ai servizi dei viveri e delle ambulanze, i quali lasciarono molto a desiderare durante la scorsa campagna, non ho nulla da aggiungere ai progetti di miglioramenti fatti dal commissario di guerra.... ». Ma le circostanze che contribuirono al grande fallimento furono numerose e di natura diversa : fra il re ed il duca era una diversità di carattere e d’idee che doveva determinare uno stato d’animo nei due più che favorevole ad urti ed a contrasti, se sol ricordiamo che « si dice.... che quando, preparandosi la battaglia di Custoza, Vittorio Emanuele si presentò per proporgli un suo piano d’attacco, il re fosse stato aspro e duro nella sua risposta ». Ma quella diversità appare per noi, sia pure di riflesso, continua nelle lettere di Maria 148 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Adelaide al marito. Parole d’affetto, ma più di pietà che di stima per Carlo Alberto: professione d’italianità, ma certo non più intensa e pura di quella che poteva pretendersi da lei, nata principessa austriaca, con attaccamento fatale a quei princìpi conserva-tori che l’Austria rappresentava·. « Il Re è triste. Io sono sempre più convinta che non saprà realizzare il suo sogno » (G aprile) ; « Tuo padre non potrà abituarsi ad essere un re costituzionale. Egli fu troppo assoluto, ed ora, per i dolori, il suo carattere ha purtroppo perduta molta energia » (14 giugno). E noi confessiamo di non goder troppo di quell’umorismo che troviamo nella lettera del 12 giugno, quando più vive erano in generale le speranze in un fausto procedere della campagna : « Bava, Salasco e Castagneto dicono che noi dobbiamo sbarazzarci del triangolo delle fortezze di Verona Mantova e Legnago, il che si farà presto : poi resterà un altro triangolo fra noi, quei tre signori. E lusinghiero »! Non ci mera vigileremo, quindi, delle ripetute deplorazioni della volontà di Carlo Alberto, fatalmente tratto, dopo l’armistizio del Salasco, al desiderio di riprendere la lotta. Noi non diciamo che la nuora sua non sia. stata indotta a ciò anche dall’aver visto le enormi difficoltà ed i pericoli che si affrontavano. Essa ritiene il re avviato all’abdicazione forzata (di abdicazione aveva parlato ripetutamente anche prima, talvolta per dire che Carlo Alberto vi pensava, talvolta per dichiarare che non vi pensava più ; ora non augurandosela, ora pressoché ritenendola indispensabile; 8 agosto) e scrive il 2 ottobre: « .... perchè il re non abdicherà volontariamente, ma d’un momento all’altro può esservi obbligato. Egli vuole la guerra., ma voi sarete soli, e allora diventerà impossibile, Roma e Napoli non la vogliono; Toscana non la può fare; la Francia non interverrà, e non si può negare che le forze austriache siano considerevoli ». Eppure, di fronte a tutte le accuse ed agli errori di Carlo Alberto non si può porre nulla che lo giustifichi più delle sue illusioni. (« Credo che (la guerra) sarà una grande sventura, ma che si farà. Dio ti protegga, amico mio. Papà si fa delle illusioni, che mi sono incomprensibili. Ciò ch’egli sognava nel mese di marzo lo sogna di nuovo, cioè l’amore dei popoli, ma non nella sua qualità di Re, ma come Carlo Alberto ; è inconcepibile ! che il buon Dio gli doni la sua misericordia, voglia preservarlo da ogni disgrazia ed anche dal far quella del suo paese »; 22 ottobre); illusioni che se non si vuole che abbiano avuto per causa prima ed esclusiva quella « brama di veder onorato il suo nome », come disse appena dopo la sua morte il Gioberti, ebbero forse, inconsciamente s’intende, più nobile origine da quella scossa a lui portata dalla celebre lettera a. cui in anni ormai lontani egli aveva risposto con la condanna a morte delFau- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 149 tore, mostrando di mal comprendere gli alti principi clie vi erano affermati. Dopo aver riportato la descrizione che della scena dell’abdicazione fa il Cibrario, scrive il Monti : « Il dramma regio di Novara ha per presupposto la catastrofe di una politica, osserva giustamente l’Omodeo ; ma la catastrofe della politica carlalbertina dipende a sua volta in gran parte dal dramma, personale di Carlo Alberto, dalle sue contraddizioni dall’urto sferratosi fra la volontà di governare da sovrano illuminato e le sue pregiudiziali assolutistiche e religiose ». Ed è vero che per gli uomini del risorgimento non erano divisibili redenzione d’Italia ed idee di libertà.... La catastrofe di quella politica era però, pel momento almeno, il trionfo dell’altra, che già l’8 agosto 1848 la novella regina, allora solo duchessa Maria Adelaide, aveva scritto al marito : « Amico mio, tu cambierai subito il ministero, farai la pace.... tu, non impegnato in nulla la farai in modo onorevole per la famiglia e per il paese, che tu salverai.... Il paese, la popolazione.... non desidera che la pace. Vi sono alcuni frenetici che gridano nelle vie, guerra, guerra, ma la moltitudine vi è contraria » ; e da. ciò fu facilitato al nuovo re l’armistizio del 26 marzo preludio della pace di Milano, ed il Radetzki non andò a Torino, come Melania, terza moglie del Metternich, aveva scritto in una. nota del suo giornale che sarebbe stato proposito del feld maresciallo. È però anche vero, come ricorda il Monti, che ancor v’erano uomini tenaci nella resistenza a Venezia e a Roma, e che il ministro francese Odillon Barrot dichiarava il 24 marzo all’assemblea « di voler salvaguardare l’integrità del territorio piemontese e nello stesso tempo gli interessi e la dignità della. Francia ». Quanto a quei frenetici, sia pur andando essi talvolta al di là dell’opportunità del momento, guai se non ci fossero stati ed allora ed anche poi! A questo punto del libro cambia, diremo così, la figura del prò-tagonista; logicamente, del resto, poiché anche avendo per oggetto principale di studio la persona di Vittorio Emanuele giovane, lo storico era troppo tenuto a rappresentare il mondo politico del tempo illustrando la figura di chi più lo determinava, cioè di Carlo Alberto. L’importanza della trattazione di problemi quali quello de! contegno e della politica di Vittorio Emanuele da Novara a Vignale, e dall’armistizio alla pace di Milano, è indubbiamente aumentata con la pubblicazione di non pochi studi e documenti in questi ultimi anni, innanzi tutto del Monti stesso, e poscia del Luzio del Salata del Colombo del Howard Me Gaw Smytli ; dal titolo stesso dello studio di quest’ultimo, The Armistice of Novara : a legend of a liberal King (in The journal of Modem History, Chicago, 1935Ì, si comprende facilmente la tesi che egli sostiene, ed è in buona parte contro questa tesi che il Monti tratta la questione. In una recen- 150 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA sione non è possibile neppure elencare i particolari punti che vengono trattati o toccati, e le lettere le relazioni le memorie in parte riportate ed in parte richiamate, che servono allo storico ; il quale fa risaltare non poche altre figure, attori primi degli avvenimenti del ’49, oltre quella di Vittorio Emanuele, nè, si comprende, trascura, sia pure necessariamente limitandosi a brevissimi cenni, i fatti politici generali e di altri stati, che pure con ciò che è argomento essenziale hanno relazione. L’ultimo capitolo parla degli inizi del regno di Vittorio Emanuele, e vi è come parte importante, naturalmente, Patto di sanzione delle leggi Sic-cardi, al quale la regina, madre Maria Teresa scongiurava il re che non giungesse. Ed invero proprio con questo suo atteggiamento politico, pare a noi, che il nuovo re si sia staccato dagli ideali che, come risulta chiaro dai documenti dello stesso libro del Monti, egli fino allora aveva tenuti presenti, e che più particolarmente risuonano nella lettera, di piena devozione al pontefice ed alla Chiesa cattolica, del 21 settembre ’49 a Pio IX. Sì che anche qui, a nostro giudizio, pone lo storico un quesito di capitale importanza. : fu per evoluzione dei sentimenti e dei pensieri propri che Vittorio Emanuele giunse alle leggi Siccardi, o ha egli compreso l’opportunità di tale indirizzo di governo per influenza altrui? E di chi particolarmente? Dei liberali piemontesi monarchici religiosi, ma non alla Carlo Alberto? Di quei così detti giansenisti, che secondo Pincaricato della Santa Sede a Torino nel 1835 e ’36 avevano tale influenza da dominare perfino nella magistratura nelPamministra-zione e in gran parte dello stesso clero? È prezioso questo libro, che noi abbiamo brevemente esaminato, per l’importanza dei problemi che l’a.utore pone e discute con amore ed acume, e per la copia dei documenti inediti che dà alla luce, presi dall’Archivio reale, da quello Storico del corpo di S. M., dallo Staatsarchiv di Vienna, dall’Archivio del Vaticano, ecc. : notevolissima parte, indubitatamente, tali documenti, del patrimonio di conoscenze indispensabile ad ogni studioso della nostra storia del Risorgimento. Costantino Panigada Renée Doehaerd, Les Galères génoises dans la Hanche et la Mer du Nord à la fin du XIII et au début du XIV siècle. (Extrait du Bulletin de l’institut Historique belge de Rome, Tome XIX, 1938). I primi studi sulla storia della marina ligure nel Brabante. in Fiandra e in Borgogna risalgono a quelli che possono essere chiamati i padri della moderna storiografia scientifica sulla Liguria, il Desimoni e il Belgrano, che hanno pubblicato in proposito importanti documenti nel V volume (1871) degli « Atti della Società li- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 151 gure di Storia Patria ». Hanno tenuto dietro a queste prime indagini lo studio di Roger Jannsen de Bistboven su La loge des Génois à Bruges edito nel volume XLYI degli « Atti » con una introduzio ne di Fr. Poggi sulle Relazioni tra Bruges e Genova nel Medio Ero. il lavoro di J. Finot, Etude historique sur les relations commerciales entre la Flandre et la République de Gênes au moyen âge e le pagine dedicate a Genova dal Gorie, Les colonies marchandes étrangères à An/vers au XV et XVI siècle. È certo qualche cosa, ma non è molto per un argomento che meriterebbe d’essere approfondito. Anche qui le basi della ricerca sono, prima che nei documenti diplomatici, nei cartulari notarili, nei quali quelle relazioni commerciali e marinare appaiono in atto e si possono seguire nel loro sviluppo. Dei risultati che dal loro attento e intelligente esame si possono ricavare è prova questo breve succoso studio della Sig.na Doehaerd che abbiamo vista per molti mesi intenta a rintracciare, tra la con gerie degli atti notarili del nostro Archivio di Stato, i documenti delle relazioni economiche tra Genova e i Paesi Bassi nei secoli XTIT e XIV. Ella, offre intanto dei risultati delle sue pazienti e fruttuose ricerche alcune prelibate primizie. Mentre infatti è opinione comune che quei rapporti economici non risalgano oltre il primo quarto del secolo XIV, ella può dimostrare che già alla fine del XIII i Genovesi seguivano la via marittima verso la Fiandra e l’Inghilterra. Anzi, al principio del XIV questa era già divenuta la via normale spostando dalla terra al mare l’asse sul quale si erano effettuati gli scambi tra l’Europa nord-occidentale e il bacino mediterraneo negli ultimi secoli del medio evo. I mercanti genovesi che si recavano alle fiere di Champagne e di là in Fiandra e in Inghilterra avevano seguito dapprima le vie terrestri, delle quali l’una da Asti si biforcava in due rami per il Mon ginevra e il Moncenisio da un lato e dall’altro, più frequentato, per il Piccolo o il Gran San Bernardo; l’altra dai porti di Provenza, raggiunti per terra o per mare, lungo le valli del Rodano e della Sao-na verso la Champagne. (Alle indicazioni bibliografiche della D. su questa seconda via sarebbero da aggiungere gli accenni e le acute osservazioni sparse in più lavori del Lopez». Questa prima fase del commercio per via terrestre tra Genova, Fiandra e Inghilterra, che la D. illustra anche con quattro importanti documenti tra il 1234 e il ’44 testualmente riprodotti, riguarda in particolare i rapporti tra la Fiandra, centro industriale produttore, specialmente per i panni, e Genova, centro di consumo e di riesportazione. Era un commercio esercitato o direttamente da Genovesi o per mezzo di intermediari, Arras per la Fiandra e Asti per Genova, come studi recenti, e specialmente del Reynolds, hanno mostrato. 152 RASSEGNA BiBLIOGRAFICA È opinione diffusa tra gli storici del commercio che la decadenza delle fiere di Champagne abbia determinato il mutamento della strada terrestre nella marittima e che il passaggio sia avvenuto intorno agli anni 1316-20; ma già il Serra e il Canale avevano notato partenze di navi genovesi per l’Inghilterra negli anni 1306 e 1309, e ora i documenti studiati e pubblicati dalla D. mostrano chiaramente che la nuova via marittima, era entrata nell’uso ben prima che i mercanti delle Fiandre si astenessero dal frequentare le fiere di Champagne. Da essi risulta infatti che, procedendo nella spinta costante verso occidente e fors’anche indotti dal desiderio di evitare i numerosi diritti fiscali della lunga via terrestre, i mercanti genovesi sin dall’ultimo quarto del secolo XIII affrontarono la via marittima verso Inghilterra e Fiandra, e che essi, e non i Veneziani come è generalmente ritenuto, hanno aperto questa strada commerciale destinata ad acquistare nei secoli successivi sempre maggiore importanza. Ciò non vuol dire, si comprende, che la via terrestre fosse subito abbandonata, anzi continuò ad essere molto frequentata sino alla metà del secolo XIV, come è attestato da infiniti documenti, sopra tutto di cambio, relativi alle fiere ; vuol dire soltanto che la via ma rittima andava acquistando sempre maggiore importanza sino a diventare la più normalmente seguita. I numerosi documenti recati in appendice e il quadro riassuntivo che presenta· in forma schematica i dati relativi agli anni tra il 1298 e il 1329 lo dimostrano efficacemente. Dai trentotto documenti pubblicati integralmente e tratti da diciassette diversi notai l’autrice ricava, corredandole con dati desunti anche da altre fonti, interessanti notizie sulla natura, l’equipaggio, il carico, il nolo, i possessori, per lo più appartenenti alle maggiori famiglie, di queste navi, sui tipi di contratti cui danno luogo, sulle merci prevalentemente trasportate, sul tempo impiegato nel viaggio. È un contributo cospicuo alla storia del commercio genovese ; è, se ancora ce ne fosse bisogno, un’altra riprova che questa storia non potrà dirsi realmente ricostruita, sempre per quanto i documenti sopravissuti lo permettano, se non dopo la compiuta esplorazione dei cartulari notarili. y ito Vitale Mario Chiaudaxo, I « Loca maris » net documenti genovesi dei secoli XII e XIII, Milano, Giuffrè, 1939-XVII. (Estr. da Studi di Storia e Diritto in onore di Enrico Besta, vol. IV). Tra gli studiosi del diritto marittimo e dell’economia medievale è stata largamente dibattuta la questione del valore dell’espressione « partes » e « loca navis » nei documenti notarili genovesi. A non risalire più indietro, per il Bvrne i loca rappresenterebbero quote della comproprietà della nave e il loro numero corrisponderebbe a quello dei marinai in essa arruolati. Il Di Tucci ha obiet- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 153 tato essere erronea l’identificazione che in tal modo verrebbe a farsi tra loca e partes; e, distinguendo comproprietà da condominio, ha affermato che le partes sono le quote di proprietà della nave mentre i loca} appartenenti agli armatori non proprietari, sono le quote corrispondenti alle parti di capitale investite nella conduzione della nave stessa : e la dimostrazione mi era apparsa allora convincente (cfr. « Giornale stor. e letter. », 1933, pag. 261 segg.). Ma il Savons in uno studio pubblicato in questo stesso « Giornale » contesta al Byrne che i loca corrispondessero al numero dei marinai imbarcati, perchè il numero dei partecipanti all impresa marittima non aveva nulla a che vedere col numero dei marinai : negava cioè anche quella parte della tesi del Byrne che il Di Tucci aveva accettato pur dando al vocabolo loca un valore particolare. Finalmente il Reynolds, anche lui nel nostro « Giornale », ribadiva contro il Sayous la tesi del Byrne : impossibile dubitare che i loca corrispondessero ai marinari e costituissero un fattore di notevole importanza nello stabilire il sistema di proprietà per azioni delle navi e del loro finanziamento. In così dibattuta questione entra ora, armato di un formidabile apparato documentario, il Chiaudano. Il carattere, a così dire, esteriore dei suo studio è dato appunto da una documentazione molto più ampia di quelle servite agli studiosi precedenti : egli ha messo a profitto infatti, con raccolte già edite e ben note, come i « Registri della Curia arcivescovile » pubblicati dal Belgrano e con molti documenti ancora inediti, le recentissime edizioni degli Atti notarili del Cassinese e di Oberto da Mercato. Le indagini comparative su così larga messe documentaria portano a queste conclusioni: 1) Le navi erano ripartite in quote di comproprietà, eguali tra loro, generalmente quattro (quarteria) che potevano anche essere suddivise. 2) Accanto a questa divisione per partes vi era anche quella per loca e con la medesima caratteristica della ripartizione della nave in un determinato numero di quote eguali. 3, I loca erano una suddivisione delle partes, introdottasi probabilmente in un secondo tempo. Quando infatti le navi erano di piccola portata non occorreva un capitale grandissimo per la loro costruzione e poteva essere sufficiente il concorso di pochi capitalisti e la ripartizione della nave in medietates, quarteria, octene, sedicene al massimo, per rappresentare con queste quote la parte a ciascuno spettante nella comproprietà della nave. Ma quando, in seguito al grande sviluppo avuto dall’arte delle costruzioni navali nella prima metà del secolo XIII, si fabbricarono navi di grande portata e i forti investimenti di denaro richiesero un concorso maggiore di capitale, allora il riparto per loca, che permetteva di dividere le navi in un numero elevato di quote, fu certamente preferito, 154 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA specie quando, come appare da qualche documento, verso la metà del Dugento, taluni banchieri cominciarono a speculare sulle navi, finanziandone l'intera costruzione e rivendendole ripartite per loca, (‘he poi a loro volta venivano ceduti e dati in societate e in accomen dacione dai loro proprietari a chi gestiva l’esercizio della nave e della navigazione. 4) Questi sistemi di ripartizione della comproprietà non erano affatto tipici nè esclusivi delle navi ma la divisione in quote eguali si trova perfettamente identica nelle terre indivise e la stessa terminologia compare negli atti dì vendita, nelle locazioni, nei livelli, nei pedaggi, nei prestiti dei secoli XII e XIII, persino nella vendita di schiavi, ogni volta che si voglia indicare una quota di proprietà indivisa. L’espressione locum e loca non deve dunque contrapporsi /tartes ma significa semplicemente quota e può riferirsi alla nave co me oggetto di proprietà o come oggetto di impresa di navigazione i> come oggetto d’impresa di armamento. 6) L’asserita corrispondenza dei loca coi numeri dei marinai non sussiste. I loca sono costituiti indipendentemente dal numero dei marinai e l’assegnazione di questi ai loca deriva unicamente dalle norme della comunione secondo la regola che la spesa dei marinai, come ogni altra, doveva proporzionarsi alle singole quote della nave, cioè ai loca. La conferma della identificazione fra il numero dei loca e il numero dei marinai desunta da alcuni documenti relativi alla decima mori-v, criticamente esaminata, appare anch'essa insussistente. L’acuta e stringente dimostrazione ha un’efficacia veramente persuasiva. Lasciando ai competenti il giudizio sulle conclusioni dal punto di vista giuridico, qui basti accennare come la base documen tana di questo denso studio dimostri ancora una volta l’eccezionale importanza delle fonti notarili genovesi per la storia del diritto, della marineria, del commercio medievale. Vito Vitale Mario Chiaudano, Il più antico tua noscritto degli Statuti rii Genova, Napoli, Jovene, 1938-XVII. (Estr. dagli Annali della Facoltà fji u ri d ìcyi deir Ini versit à di ('a ni eri η o, vol. XII, 2 ). E la descrizione del manoscritto n. 291 della Biblioteca Reale di Torino; non datato ma indubbiamente della seconda metà del secolo XIII, e quindi il pili antico che si conosca degli Statuti di Genova, accanto al frammento pubblicato dal Datta nel primo volume degli Atti della Società Ligure di Storia Patria (1858). Il manoscritto torinese è ancora inedito ma sarà pubblicato appena possibile a cura della lt. Deputazione Ligure. Il brano edito dal Canale nell’edizione del 1K44 della sua Storia non è tratto da questo manoscritto. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 155 come fu erroneamente creduto, ma dal primo quaderno del Codice n. 50 della Biblioteca Reale che, staccato dal resto, si trova nella R. Biblioteca Universitaria di Genova. I capitoli di questo manoscritto, che è mutilo e si compone di due frammenti, riproducono sostanzialmente il testo dei Capitula Comunis Janue che si trovano negli Statuti di Pera editi nel volume XI della Miscellanea di Storia Italiana (Torino 1870) ; e il Chiaudano ne riporta le rubriche con la corretta numerazione. L integrale pubblicazione potrà offrire preziosi elementi per la storia degli Statuti di Genova e per la loro formazione, argomento di grande interesse, ora specialmente che con la pubblicazione dei Cartolari notarili del secolo XII gli studi sulle fonti genovesi più antiche sono in una magnifica e promettente ripresa. Vito Vitate Giorgio Monaco, Liburna, il centro romamo e la rinnovata importanza della sua posizione geografica, in « Alexandria », gennaio 1939, pp. .9-17. Sicure traccie dell’età preromana si son trovate nelle vicinanze di Libarmi, ma più sicure se ne potrebbero avere se si rinvenisse l’iscrizione in caratteri etruschi, di cui ci ha conservata memoria l'epigrafista Fabretti. Libarmi nell’età imperiale era una stazione provvisoria di semplice passaggio; l’aumentare della sua importanza politica e stradale portò presto al costituirsi del municipio libar-nese, che fu indubbiamente uno dei più ampi dell’Italia settentrionale. Le memorie epigrafiche ci fanno conoscere che esponenti della vita civile e artistica della città era la famiglia degli Atilii. che nel-l'etA imperiale si presenta nei due rami Atilii Serrani e Atilii Bra duo. Verso la metà del V sec.. al primo passaggio delle orde barbariche, gli abitanti si ritirarono sulle colline sovrastanti la città, donde discesero appena passato il turbine delle invasioni. Ma. essendo distrutta la loro antica sede, si servirono dei materiali rimasti per creare i nuovi centri medievali di Serravalle e Arquata. La scoperta di Libarmi coincide col rinnovarsi moderno dell’importanza della zona. L'edificio più notevole è il teatro con una cavea di circa 60 m. di diametro e un terzo ingresso al centro, oltre i due laterali : un'iscrizir.ne rinvenuta nel teatro stesso che dice costruito a sue spese da Gaio Attilio Bradua. Altro importante editicio è l’anfiteatro sul terrazzo prospiciente lo Scrivia. Esistono pule traccie d'un foro e d'un edificio termale; nessun resto di tempio. Piccole sculture in marmo e pietra, ceramiche a rilievo di tipo aretino, alcuni bronzetti tra cui una statuetta di Minerva e una acefala di Vittoria testimoniano «Iella vita artistica dell'antico municipio. Antonio Giusti SPIGOLATURE E NOTIZIE STORIA PREISTORIA G. Monaco: 1 vasi greci e italici della collezione C. Barbano in «Genova» Riv. Municipale, marzo 1930. a. p.: La mostra delle incisioni rupestri della preistoria ligure in « Secolo XIX », 1G aprile 1939. P. Graziosi: / giacimenti preistorici dei Balzi Rossi in « Nuovo Cittadino », 19 aprile 1939. Le incisioni rupestri, in o. : Il giornale di bordo di C. Colombo in « Secolo XIX », 1 aprile 1939. G. M. Vassallo: Cristoforo Colombo nacque in Portoria in «Perseo», 1 aprile 1939. (Lo stesso articolo fu riportato dal « Secolo » in data 4 aprile 1939). F. Noberasco, in «Cronache Savonesi», 15 giugno 1939: Peste e contagi in Savona. NAPOLEONICA M. De Marco : Chiavari culla degli antenati di Napoleone in « Giornale di Genova », 7 marzo 1939. A. Reiter : Storie e leggende napoleoniche in « Contemporanea », marzo 1939. A. Mombello : Confidenze di Napoleone dopo Lipsia in «Il Lavoro», 25 marzo 1939. F. Geraci : Napoleone III e la disfatta del 18Π0 in «Giornale di Genova», 10 maggio 1939. V. Vitale: Una lettera sconosciuta di Napoleone in «Giornale di Genova», 12 maggio 1939. R. Baccino : L3eroismo dei soldati italiani di Napoleone in « Giornale di Genova », 14 maggio 1939. RISORGIMENTO «Archivio Storico Italiano» disp. I, 1939 recensisce il saggio di A. Costabile pubblicato sul nostro giornale 1938 fase. IV. « Rivista storica italiana », dicembre 1938 menziona il saggio di V. Vitale Documenti di sto-, ria ligure ( 1189-1815) nelVArclvivio Nazionale di Parigi apparso nel 1937 nel nostro giornale. «Rassegna storica del Risorgimento», marzo 1939, segnala il saggio di A. Galimberti Jaeopo Ruffini comparso nel nostro giornale nel 193S. « Rassegna Storica del Risorgimento ». segnala pure il saggio di Γ. Mondello:. Un episodio ignorato della politica inglese, ecc., e quello di A. Costabile su Problemi economici e contrasti politici tra la Liguria e il Piemonte durante la prima metà del 1800, apparsi nel 1938 nel nostro giornale. Lo stesso saggio del Mondello è pure segnalato dal « Bullettino Senese di Storia Patria ». 1939, fase. I. « Liburni Civitas » recensisce « Rubatiino » di A. Codignola. P. L. R. : Témoignages e commentaires italiens in «Afrique française, Paris, febbraio 1939. (Recensione polemica all’articolo di Timo apparso nel fase, di dicembre della Rassegna d’oltremare. Ad esso ha risposto Timo nel fase, d’aprile della stessa rivista). Una lettera di Garibaldi alla madre di F. Nullo in «Secolo XIX», 3 marzo 1939. A De Donno: Genova cuore del Risorgimento in « Il Lavoro », 4 marzo 1939. U. V. Cavassa : Rubattino uomo d'idee e di denari in «Il Lavoro», 30 marzo 1939. L. M. Fava: Francesco Nullo in « Giornale di Genova », 4 marzo 1939. U. V. Cavassa : Giovanni Ruffini non era medico in « Il Lavoro », 8 marzo 1939. U. V. C. Cavassa: Rubattino uomo d’idee e di denaro in « Genova » R. M., marzo 1939. [Recensione dell’opera di A. Codignola]. V. Vitale: Alle origini del Risorgimento in « Giornale di Genova », 18 marzo 1939. Timo : I grandi amori nel Risorgimento in « Il Lavoro », 29 marzo 1939. « Contemporanea ». marzo 1939 dà notizia dell’assegnazione del premio Savoia-Brabante ad A. Codignola. L. Costa : Il Risorgimento, Garibaldi e gli altri popoli in « Giornale di Genova », 13 aprile 1939. Gii Blas : Ritratto del Maggiore Galliano in « Giornale di Genova », 0 aprile 1939. U. V. Cavassa: Rubattino, Faucliè e le navi dei Mille in «Lavoro », 7 aprile 1939. [Ê la conclusione d’uno spunto polemico fra P. Rembado che nel « Lavoro » del 2 aprile 1939 aveva pubblicato un trafiletto, e A. Codignola che nello stesso numero aveva replicato in merito]. C. A. Vianello: Un proclama di G. Mameli, in « Rassegna storica del Risorgimento », aprile 1939. C. Pan- 158 SPIGOLATURE E NOTIZIE seri : Garibaldi runico generale che vinse nel 1870 in « Corriere Mercantile », 19 aprile 1939. « Roma-Napoli » .del 13 aprile 1939 segnala Rabattino di A. Co-dignola. Timo: T7 maggio: Villa Spinola in «Il Lavoro», 5 maggio 1939. V. Mancini : L’argonauta dei Mille in « Ora », Palermo, 13 aprile 1939. [Cita Ru-battino di A. Codignola]. A. Rossi: L'ammiraglio Francesco Sivori e Vincursione nel porto di Tripoli del 1825, in « Corriere Mercantile », 4 maggio 1939. Ugo Bassi e i Raffini in « Giornale di Genova », 1 maggio 1939. Gli Annali del-PAfrica Italiana, Ufficio Studi, Roma, marzo 1939. [R. d. L. recensisce ampiamente Rubattino di A. Codignola]. Costantino Panigada : Rabattino in «Rassegna storica del Risorgimento italiano », Roma, aprile 1939. 1 Ampia recensione critica del volume di A. Codignola]. T. Bozza, Vita di un grande armatore in « Oggi », Roma 3 giugno 1939. (Recensisce ampiamente il volume « Rubattino » di A. Codignola]. F. Noberasco : Una lettera di Gioberti ai Savonesi in « Cronache Savonesi », 15 giugno 1939. CORSICA F. A. Pesce: Le catene del porto di Bonifacio a Genova in « Archivio Storico di Corsica», marzo 1939. V. Vitale: La Corsica e il sentimento italiano in «Giornale di Genova», 2 marzo 1939. R. Ciasca : Storia della Corsica italiana in « Nuovo Cittadino », 9 maggio 1939. L. Possenti : La Corsica nel pensiero dei suoi poeti del dopoguerra in « Giornale di Genova », 7 marzo 1939. E. Scipioni : Come la Corsica divenne francese in « Secolo XIX », 13 marzo 1939. V. Vitale: La Corsica e la latinità in «Giornale di Genova», 12 marzo 1939. G. Cecchini : Cristoforo Saliceti contro le rivendicazioni Genovesi nella Corsica in « Archivio storico di Corsica », dicembre 1938. G. Manacorda : Corsica italiana in « Telegrafo », 15 marzo 1939. La Corsica è un'isola africana— In « Giornale di Genova », 22 marzo 1939. G. C. M. : Paxquale Paoli eroe nazionale in « Telegrafo », 22 marzo 1939. « Nuova Antologia » segnala il saggio del Giardelli pubblicato dal nostro giornale ed edito in volume a cura di A. Codi-gnola. G. Cavallucci: Corsica ù italianissima in «Secolo XIX», 1 aprile 1939. G. Manacorda : Pasquale Paoli babbu d’i Còrsi in « Telegrafo », 26 aprile 1939. R. Baccino: Santu Casanova il Cantore dell'isola Persa- in «Giornale di Genova», 4 maggio 1939. A. Pescio: Francesi in Corsica, no! in «Secolo XIX», 9 maggio 1939. f MISTICA ED ECCLESIASTICA. F. Steno: Santuari Liguri: Λ7. S. dell'Acquasanta in «Secolo XIX», 5 marzo 1939. X: Sinodi genovesi antichi in «Corriere Mercantile», 2f» aprile 1939. Fra Ginepro: L'apostolato di un Padre ligure fra le popolazioni della Corsica [Leonardo da Portomaurizio] in « Giornale di Genova », 9 maggio 1935. A. Rossi: Colombo sarà beatificato? in «Corriere Mercantile», 15 maggio 1939. GENOVA E LIGURIA « Rivista storica italiana » dicembre 1938, segnala il saggio di A. Cappellini Un mecenate genovese a Padoia (Gianvincenzo Pinelll) comparso nel 1937 nel nostro giornale. V. Vitale: Gli studi di storia ligure nelVultimo ventennio in « Archivio storico italiano », fase. IV, 1938. Il Generale Enrico Olausetti pubblica nel « Bollettino dell’istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Gneio », dicembre 1938 n. 9, uno studio, con riproduzioni fotografiche su Ingegneri militari liguri. Nello stesso fascicolo il colonnello Luigi lastrico traccia le biografie di Agostino e Domenico Chiodo. Sul fascicolo di marzo e su quello d’aprile della rivista a Le vie d’Italia » Achille Noli pubblica Itinerari Gastronomici Liguri. A Cappellini: Battaglie navali di Genova in «Genova» R. M. marzo 1931*. I. Scovazzi : L'eroismo ligure in « Liguria », marzo 1931). G. Ga-ribbo : I si oleari antichi e moderni in Imperia e in Liguria, in « Liguria », mar- SPIGOLATURE E NOTIZIE 159 zo 1939. A. Podestà : Riscoperta poetica delle case mediterranee di Varigotti in « Secolo XIX », 3 marzo 1939. Per la « Storia di Genova » in « Giornale di Genova», 29 marzo 1939. M. Celle: Lapidi commemorative in «Genova» K. M., aprile 1939. G. Maioli : / diritti italiani in Tunisia in «Resto del Carlino», 4 aprile 1938. F. Geraci: Genova d'altri tempi e la sua R. Scuola di Marina in « Corriere Mercantile », 10 aprile 1939. a. pò. : Noli, ti. Paragorio e le torri in « Secolo XIX »,_ 15 marzo 1939. X: Giustizia genovese in «Corriere Mercantile», 11 aprile 1939. A. Ferraris: Genova nuova e Genova vecchia, in «Nuovo Cittadino», 24 marzo 1939. Paesi di Liguria: Badalucco in «Giornale di Genova », 27 marzo 1939. M. Pescini : Passeggiate romantiche : B ace zza in «Secolo XIX», 29 marzo 1939. E. C. Sinibaldi: Per una storia di Genova in « Secolo XIX », 29 marzo 1939. M. Pescini : Il muro della « mulitta » (Chiavari) in « Secolo XIX », 30 marzo 1939. M. Nazzi : Il miracolo verde di Albenga in « Secolo XIX », 8 aprile 1939. La Storia di Genova in « Nuovo Cittadino », 13 aprile 1939. Alla vigilia del centenario di Paganini in « Giornale di Genova », 5 maggio 1939. L. De Simoni : Celle in Nuovo Cittadino », 7 maggio 1939. M. M. Martini : Difendiamo S. Fruttuoso di Capodimonte in « Giornale di Genova », 11 maggio 1939. Paesi di Liguria : Montaldo Ligure in « Giornale di Genova », (> maggio 1939. X : Gli ingegneri militari genovesi in « Corriere Mercantile », 10 maggio 1939. S. Balestreri : La I scuola genovese di musica in « Il lavoro », 9 maggio 1939. U. V. Cavassa : La storia di Gcìiova in « Il Lavoro », 13 maggio 1939. «Aurea Parma», fase. Ili, 1939, pubblica, con illustrazione di S, Monaco, una lettera inedita di N. Paganini. « Il Movimento Letterario », Napoli, dicembre 1938, illustrando Ta vita e le opere di N. Paganini, si basa sull'opera omonima di A. Codignola. LETTERARIA G. C. : Poesie postume di A. S. Novaro in « Il Lavoro », 1 marzo 1939. A. Cappellini: Genovesi dimenticati: Gianvincenzo Pinelli in «Il Lavoro», 9 marzo 1939. F. Sapori: /I. S. Nòvaro in «Giornale di Genova», 10 marzo 1939. A. Moretti : Mario Mascardi in « Il Lavoro », 8 aprile 1939. P. Rembado : Un umorista ligure (L’avv. Porcella) in « Il Lavoro », 12 aprile 1939. U. Zuccardi Merli : Sonetti del mezzo ottocento (P. Mastrorigo) in « Il Lavoro », 16 aprile 1939. P. Buzzi : Un patrizio genovese biografo di Leonardo in « Giornale di Genova», 20 aprile 1939. Marbet: Giornalismo d’altri tempi: Leone Fortis a Genova in « Il Lavoro », 20 aprile 1939. « Il Libro Italiano » di aprile 1939 pubblica una nota su ΓAttività della Casa Editrice Emiliano degli Orfini. PITTURA E SCULTURA. Il fascicolo novembre-dicembre 1939 de «La Rassegna della Istruzione Artistica » (Urbino) pubblica un articolo dì Podestà su la Mostra della Pittura Ligure dell'Ottocento. M. Bonzi : Il Mulinaretto (pittore) in « Liguria », marzo 1939. C. Marchisio: La mostra personale di Mimi Quilici Borzacchi in «Genova» R. M., marzo 1939. C. Marchisio: Arturo Dazzi in «Contemporanea», marzo 1939. O. Grosso : Ville e palazzi genovesi in un quadro di G. Masone in « Contemporanea », marzo 1939. O. Sacchetti : G. B. de Salvo Cspiritualità d’una pittura) in «Liguria», marzo 1939. E. Balestreri: Liguri alla III quadriennale d’arte nazionale, in « Nuovo Cittadino », 8 marzo 1939. Riva: Le Mostre d’Arte: Mini) Quilici Borzacchi in « Giornale di Genova », 2 marzo 1939. a. po. : La V Mostra del Marc a Palazzo Rosso in « Secolo XIX », 10 marzo 1939. Ang. : La Mostra d'Arte del Mare in « Il Lavoro », 10 marzo 1939. A Podestà: Artisti che espongono: Il pittore G. Vivimi in «Il Lavoro», 13 marzo 1939. A. Angelini: Scultori c pittori alla III quadriennale in «11 Lavoro», 22 marzo 1939. R. : Le Mostre d'Arte: Michele Cascella in «Giornale di Genova», 20 marzo 1939. Riva: Gli artisti liguri ulla III quadriennale d'arte di Roma in «Giornale di 160 SPIGOLATURE E NOTIZIE Genova », 21 marzo 1939. Riva: La V Mostra d'arte del mare in « Giornale di Genova ». 30 marzo 1939. A. Podestà : Artisti che espongono : D. Capuli in « Secolo XIV», 2 aprile 1939. E. Balestrar! : Liguri alla III quadriennale <1*Arte -Vazionale in « Il Nuovo Cittadino», 0 aprile 1939. a.: Artisti che espongono: II pittore Berto Ferrari in « Il Lavoro », 2ó aprile 1939. A. AngioLni : Artisti liguri alia quadriennale di Roma in «Il Lavoro», 5 aprile 1939. Artisti che espongono: il pittore Castella in « Il Lavoro», 29 aprile 1939. I. C. Cozzolino: Pittori genovesi: A. Vernazza in «Genova» R. M., aprile 1939. a. o. : Ait isti che espongono: Renzo Lupo in «Corriere Mercantile», 17 aprile 1939. C. D. Adamoli : Angelo Verna zza in « Nuovo Cittadino », 3 maggio 1939. Ang. : Le mostre d'arte: Il pittore Bruno Furlotti e lo scultore Edmondo Alfieri in « Il Lavoro», 5 maggio 1939. Riva: Le mostre d'arte: E. Alfieri e B. Furlotti in « Giornale di Genova », 6 maggio 1939. g. m. s. : Mostre d'arte : E. Alfieri in « Corriere Mercantile », 6 maggio 1939. ARCHITETTURA E RESTAURI Il fascicolo IV di « Le Arti » (aprile-maggio 1939) reca brevi note, con illustrazioni, dei seguenti restauri: Teatro Romano di Serravallc Liburna; Mosaico pavimentale di Via Ricciardi a Loano; Resti di edificio romano in Alas-s,io; Avanci di Battistero paleocristiano a Taggia; Porta Soprano di Genova; Casa del Boccanegra a Genova; Villa Scassi iti Genova Sa m pie rd a rena; Palazzo dei Wieschi a 1 i reo di Margherita d’Aosfria o Finale Ligure; Chiesa di San Martino a Taggia. P. Rembado: Il grande mosaico di Loano in « Genova » R. M., aprile 1939. TOPOGRAFIA, TOPONOMASTICA, ARALDICA, INDUSTRIE, COSTUMI. « Rivista storica italiana », Torino, dicembre 1938 segnala il saggio di G. Pappaianni su La manifattura dei cappelli iti Massa di Lunigiana, pubblicato nel nostro giornale nel 1937. A. Conti Sinibaldi : L'antica maiolica ligure a Palazzo Reale in «Contemporanea», marzo 1939. M. Pescini : Car egli e de Viavai in « Secolo XIX, 2 marzo 1939. L. Rubini : Del nome Genova e di alcune osservazioni per la storia della città in « Il Lavoro», 3 marzo 1939, La mostra della maiolica ligure a Palazzo Reale in «< Secolo XIX ». 25 marzo 1939. L. De Simoni: L'arte della maiolica in Liguria in «Nuovo Cittadino», 29 marzo 1939. La mostra delle antiche maioliche liguri in « Nuovo Cittadino », 30 marzo 1939. Karaban : Le ceramiche genovesi a Palazzo Reale in « Giornale di Genova », 30 marzo 1939. Carcos: La mostra dell'antica maiolica ligure in a Corriere Mercantile», 31 marzi) 1939. A. Podestà: La V mostra d'arte del mare in a Genova » R. M., aprile 1939. Riva : La mostra dell'antica maiolica ligure dal XIV al XVIII secolo in « Giornale di Genova », 2 aprile 1939. G. Casa : La processione del Venerdì Santo a Savona in « Il Lavoro», 7 aprile 1939. A. Dellepiane : Iai mostra dell'antica maiolica ligure in « Il Lavoro », 8 aprile 1939. G. Miseosi : Le casacce genovesi in «Il Lavoro», 11 aprile 1939. L. De Simoni: La mostra delle antiche casacce genovesi in «Nuovo Cittadino», 10 aprile 1939. Carcos: Le Casaecie processionali della Liguria in «Corriere Mercantile», 15 aprile 1939. X : In margine alla mostra d'arte della maiolica in Liguria in « Corriere Mercantile », 19 aprile 1939. F. Steno : La Mostra delle Casacce in « Secolo XIX », 23 aprile 1939. Riva: La mostra delle casacce genovesi in « Giornale di Genova », 23 aprile 1939. Ceramiche e ceramisti liguri contemporanei in a Giornale di Genova », 6 maggio 1939. Rexzo Baocino Direttore responsabile!: ARTURO CODIGNOLA StabUimento Tipografico L. CAPPELLI · Rocca 6. Gasciaoo, 1939-XVII Anno XV - 1939-XVII Fascicolo III - Luglio-Settembre GIORNALE STORICO E LETTERARIO DELLA LIGURIA Direttore: ARTURO CODIGNOLA Comitato di redazione : CARLO RORNATE - PIETRO NURRA - VITO A. VITALE GRAVE INCIDENTE DIPLOMATICO TRA LA REPUBBLICA DI GENOVA E IL SOVRANO DI SAVOIA (1726-27). Un banale incidente, cioè l’arresto di supposti contrabbandieri di Oneglia da parte della polizia genovese, originò una lunga e intricata lite diplomatica che fu più volte per degenerare in guerra. Contribuì naturalmente al complicarsi della questione la situazione internazionale, già tesa da lunghi anni (*) al punto che quel periodo fu definito di incoerenza e di anarchia (2), e vi contribuì pure la tensione creata dal trattato di Vienna tra la Spagna e l’impero (30 aprile 1725), al quale la Francia, l’Inghilterra e la Prussia avevano contrapposto il trattato di Hannover (3 settembre 1725) (3). A tali contrasti internazionali va ad innestarsi, come si vedrà, questo incidente tra Genova e Torino. Esaminiamo rapidamente il fatto (4), quindi i primi contrasti derivatine fra Genova e Torino e finalmente le complicazioni internazionali che ne seguirono (5). 0) Per Genova é i suoi rapporti internazionali in questo periodo, cfr. 0. pastine, Genova e Massa nella politica mediterranea del primo settecento, in a Giornale Storico e letterario della Liguria ». 1927. pagg. 102-134 e 197-233. (2) e. Rota, Le origini del Risorgimento italiano, Milano, 1938, I, pag. 161. (3) Ibidem. (4) Esso verrà ricostruito sugli incartamenti della busta Paesi. Oneglia. N. 354, delTArchivio di Stato di Genova. (5) Per queste due parti ho consultate le lettere dei Ministri nelle diverse capitali degli anni 1726 e 1727. Delle varie centinaia di tali lettere che parlano di questo episodio ho citato solo quelle di maggior importanza. A quanto mi risulta questo episodio e i suoi sviluppi sono ancora completamente ignorati salvo un brevissimo cenno di O. Pastine, La Repubblica di Genova e le Gazzette, Genova. 1923, pag. 83. 162 NILO CALVINI I. Nella notte del 10 gennaio 1726 una piccola barca che trasportava una botte di vino ed era guidata da un marinaio genovese, di cui non risulta il nome, e da uno di Oneglia, che si chiamava Alessandro Casaniiglia, fu fermata all'imboccatura del porto dalle guardie genovesi, che credettero di aver a che fare con contrabbandieri : il Casamiglia tentò infatti di gettare in mare il vino. Cominciò un violento diverbio tra i marinai e le guardie, le quali alla line sequestrarono la barca e fecero scendere i due uomini fra il ponte Reale e quello chiamato Spinola. Il marinaio d'Oneglia, vedendo non molto lontano numerose imbarcazioni e uomini della propria terra, cominciò a gridare, affinchè lo venissero a liberare e si fece udire anche da Antonio Amedeo, che era il padrone del vino e della barca e alle cui dipendenze il Casamiglia si trovava. Questi, radunate in breve armi e uomini sul battello di un oneglino, Colombo, si diresse immediatamente contro i genovesi. Non è facile sapere come si siano comportati gli uni e gli altri : secondo la relazione fatta dai genovesi, gli oneglini, avvicinatisi minacciosamente, spararono senz'altro sulle guardie, costringendole a gettarsi in mare e a salvarsi a nuoto; invece, secondo la versione degli oneglini furono i genovesi che, subito dopo aver intimato: «alla larga », spararono e ferirono uno e bucarono con una pallottola il cappello ad un altro. Comunque sia, risulta certo che furono sparate dalle due parti delle archi-bugiate e che il capo dei birri fu ferito da un'arnia da taglio. I genovesi, inferiori di forze, dovettero abbandonare quanto avevano sequestrato. Gli oneglini ripresero il loro vino, liberarono i due uomini e portarono via, a quanto dicono i genovesi, anche uno schioppo e un cappotto delle guardie. A causa degli spari un numeroso gruppo di genovesi si era raccolto presso le mura della città e aveva in parte assistito alla lotta, senza però poter accorrere in aiuto dei suoi, essendo, per Torà già tarda, le porte chiuse, e senza poter sparare, per il pericolo di colpire i genovesi nell'oscurità. Per quella, notte null'altro accadde. L'indomani mattina però gli onegliesi informarono del fatto il rappresentante in Genova di Sua Maestà il Ite di Sardegna, il conte Gross. 1 genovesi da parte loro ne informarono il loro Governo. I primi dissero naturalmente di essere stati aggrediti dai genovesi, i quali avevano anche turpemente insultato il governo di Torino; i secondi dichiararono di aver dovuto combattere contro contrabbandieri ribelli. Il conte Gross la mattina del giorno 11 si recò dal segretario della repubblica genovese, Carlo Tassorelli (e), il quale prese atto » è detto che il 28 marzo 1720 il governo di Genova informato della mediazione offerta dal-rimperatore di Vienna rispondeva ni governatore di Milano: «di avere la Repubblica ascritta a particolare suo vantaggio la mediazione offerta da Sua Maestà Cesarea e di avere essa riconosciuto un atto della continua parzialità della Maestà Sua Cesarea verso la Repubblica ». A. S. G, Buste Paesi, Oneglia, (20) Quale inviato straordinario fu a Milano dal 10 febbraio del 1710 al 20 febbr. del ITU» e vi ritornò nel 1717. Dal settembre del 1712 ajl settembre delTanno successivo fu a Torino, e dal marzo del 1716 all’aprile del 1717 a Vienna dove ritornò quale Ministro residente dal luglio del 1710 e vi si fermò fino* al gennaio del 172T> e quindi dall’aprile del 1720 al marzo del 1731. Cfr. V. Vitale, Diplomatici w. cit., pagg. 4.°». 04, 122. Il Vitale non parla però della presenza del Doria in Milano fino al .TI marzo del 1720, a cui accenneremo esaminando le lettere sull'inizio della mediazione. (21) A. S. G., Lett. Min. Milano, Mazzo 10-2315, 17 marzo 1720, mazzo 20-2310 lett. del Governo di Genova. 27-20 aprile 1720. i22) Cosi scrive G. B. Sorba. A. S. G. Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 20 aprile 1726. INCIDENTE DIPLOMATICO TRA GENOVA E SAVOIA 167 III. L’accaduto fu presto segnalato alle varie capitali che avevano relazioni con Genova e col governo di Torino, e soprattutto a Parigi, Londra, Vienila e perciò anche Milano (23). Diverso è il loro comportamento, ma quasi sempre ostile a Genova. A Parigi l’incaricato d’affari di Genova, Giambattista Sorba (24), sino dal 4 febbraio 1725 segnala al suo Governo la disapprovazione del Sig. di Morville, segretario francese, sul modo in cui si è proceduto da parte genovese, anzi lo stesso Morville, già informato dell'incidente anche da Torino, ne è preoccupato (25). Il governo piemontese informa Vienna del fatto, nella speranza di ottenere una pubblica soddisfazione da Genova (26). Si cerca intanto, da parte del Governo di Sardegna, un’intesa con F Inghilterra, e il tentativo ha buon esito. L'Inghilterra, nemica di Vienna, sperava di trovare un buon alleato nel Piemonte per una eventuale guerra (27)· Informate così le varie capitali, si attende qualche decisione : la Francia, l'Inghilterra, benché richieste della mediazione (28), pare (23) Con lettera del 2 febbraio, Clemente Doria dice di essere stato informato da Genova dell’incidente, e di averne parlato al Governatore di Milano già informato dal Cancelliere Castelli, Ministro del Re di Sardegna. A. S. G. Lett. Min. Milano, mazzo 19-2315, 2 febbraio 1720. (2-1) Giambattista Sorba fu a Parigi dapprima dall’ottobre al dicembre del 1704 e poi dal 1709 al 1711. L’11 aprile 1712 è inviato all’Aia, da dove riparte il 14 marzo 1714. Ma dopo breve sosta a Parigi, e precisamente il 30 aprile dello stesso 1714 è inviato in missione al convegno di Baden, dove arriva il 17 maggio; riprende il suo servizio a Parigi Γ8 ottobre. Il 24 giugno 1715 è nominato regolarmente incaricato d’affari a Parigi, dove svolge attività tino al 13 gennaio 1738 (Cfr. V. Vitale, Diplomatici, ecc., cit., pag. 121, per la missione nel Baden; pag. 149 per quel che riguarda l’attività di Parigi; a pag. 201 per il viaggio all’Aia). (2V) Nella lettera dell’ll febbraio 1726, G. B. Sorba dice che il Mourville gli chiese: «Come farà la v. Repubblica a soddisfare il Re di Sardegna, sull’arresto di tutte le barche d’Oneglia seguito nel porto di Genova? Io ho veduto la lettera stata scritta da quel Principe al conte Gross suo ministro, la quale non può essere più risentita nè più forte». A. S. G., Lett. Ministri, Parigi, mazzo 42-2218 ; 4-11 febbraio 1726. (26) Cosi Eufrasio Sorba scrive da Torino a Genova in data 6 febbraio, e, ripetendo lo stesso il 13 febbraio, aggiunge: «Qui si dice pubblica mente che se ne è scritto alle corti di Vienna e di Francia per impegnarle a sostener la detta domanda di riparazione ». A. S. G., Lett. Min., Torino, mazzo 2-24S9, 6-13 febbraio 1726. (27) Giambattista Sorba in una lettera del 4 marzo 1726, esprime il timore che « il Re britannico si lasci suadere come tal’uno crede, dall’idea di poter trovare nel duca di Savoia un’aleato de più molesti all’imperatore ». A S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 4 marzo 1726. (2S) In una copia di lettera scritta da Genova al suo incaricato a Milano, I). M. Spinola, il 6 aprile 1726, è detto che Clemente Doria, inviato in Vienna 168 NILO CALVINI non accettino, poiché desiderano in realtà qualche notevole cambiamento ; l’imperatore di Vienna si offre invece a far da paciere (29) e ne incarica il Governatore di Milano (30). La mediazione è accettata da ambo le parti (31), ma le pretese di ognuna sono molte e inconciliabili. Il 28 marzo Genova invia a Domenico Bologna (32) le istruzioni (3^ì su quanto deve far conoscere a 1Γ Impera tore, tramite specialmente i suoi ministri, il marchese di llialp e il conte di Zizendorf, e consiglia il suo incaricato di metter bene in chiaro la colpa degli oneglini e il jus di Genova anche sulle navi battenti bandiera estera, ricordando molti casi in cui detto jussi era praticato, tra gli altri quello del 1703, quando erano stati arrestati alcuni ufficiali piemontesi. Ma fino dai primi colloqui il Governo di Torino tenta di dimostrare falso questo, recando esempi di casi opposti, sicché mancando la buona volontà, questa mediazione si fa subito molto difficile (31) e si comprende che non è dell’importanza sperata. Ai primi di aprile ha confidato che il Governo di Savoia aveva tentato
  • . Bologna risponde affermando che realmente l’imperatore ha offerto la propria mediazione. A. S. G., Lett. Min., Vienna, mazzo 56-2573, 0, 15 marzo 172(5. (30) Il 17 marzo il Doria scrive da Milano che « questo signor Governatore seconda le istanze della Corte di Torino, per procurarsi l’ordine da rjuella di λ ienna d’intromettersi nel noto affare degli oneglini ». K 5 giorni dopo scrive la conferma: «Il signor Governatore.... mi ha spiegato l’ordine ricevuto iersera dalla Maestà delTImperatore di offrire la di lui mediazione per componere il disappore del Re di Sardegna.... colla Repubblica Serenissima sempre che sia grata alla medesima come non dubitava ». A. S. G., Lett. Min., Milano, mazzo 19-2315, 17, 22 marzo 1726. (31) Da parte genovese ci si sforza di mettere in chiaro che la mediazione stata chiesta da Torino; così è detto infatti in una lettera del 6 maggio 1720 del Sorba di Parigi; e in una lettera ad Eufrasio Sorba a Torino è specificato che la Repubblica di Genova non ha invocato la mediazione. Dalla parte piemontese e francese si diceva invece che i Genovesi si fossero procurata questa mediazione. A. S. G., Lett. Min, rispettivamente: Parigi, mazzo 42-221S, 0 maggio 1720; Torino, mazzo 2-24S9, 5 aprile 1726; Parigi, mazzo 42-2218, 22 aprile 1726. <32) Fu segretario incaricato di affari; dapprima supplì Clemente Doria in Vienna (1725-26) poi fu incaricato di reggere la legazione. Benché malato rimase al suo posto fino al 1741. Cfr. V. Vitale, Diplomatici, ecc. cit., pag. 124. (33) A. S. G , Lett. Min., Vienna, mazzo 56-2573, 2S marzo 1720. (34,i Questa e simili questioni sono riferite specialmente nelle lettere di Clemente Doria del 7 e 31 marzo. Questa fu l’ultima scritta da Milano dal Doria, che partì poi per Vienna. A. S. G., Lett. Min., Milano, mazzo 19-2315, 27, 31 marzo 1720. INCIDENTE DIPLOMATICO TRA GENOVA E SAVOIA 16& viene inviato a Milano D. M. Spinola (35) per sostituire il Doria che è ripartito per Vienna e per continuare la pratica della mediazione che si fa sempre più difficile anche perchè le versioni del fatto, la genovese e la onegliese, sono assai diverse (36). Genova cerca di tirare in lungo le cose, sia per permettere al Doria di arrivare a Vienna e far pressione sull’imperatore affinchè favorisca la Repubblica·, sia perchè ha saputo che a Vienna e a Milano si giudica eccessiva la misura presa da essa coll’arrestare tutti gli oneglini (37). Sono tenuti numerosissimi congressi, ma tutti con scarso esito : Genova non specifica quale soddisfazione sia disposta a dare, e cerca sempre di tirare in lungo ogni cosa nonostante il parere contraria del Governatore di Milano (38). Ai primi di maggio invia a Milano anche Francesco Maria Grimaldi (39) con le credenziali della Repubblica cercando di aggiustare la faccenda col far fare delle scuse ai Ministri torinesi alla presenza del Governatore di Milano. Ma i ministri torinesi resistono : vogliono una soddisfazione pubblica e scritta (40), il rilascio degli uomini e dei bastimenti (41) e che un cavaliere faccia un « complimento » al Re di Savoia (42). Questi patti però non sono accettati dalla Repubblica e così con molte discussioni l’interesse e l’importanza della mediazione svaniscono. Gli stessi inviati, e ambasciatori, pochi mesi dopo, nel mag- (35) Il 29 luglio 1710, quale inviato straordinario per l’acquisto del Finale,, era stato mandato a Vienna dove si era fermato sino al 29 agosto 1716, quindi quale gentiluomo residente, rappresentò Genova a Milano dal 4 settembre 1722 al 30 aprile 1727. Cfr. Vitale, Diplomatici, ecc., cit., pag. 66, 121 (3e) Così scrive lo Spinola riportando un colloquio avuto col Governatore dì Milano. Δ. S. G., Lett. Min., Milano, mazzo 19-2315, 6 aprile 1726. (37ì A. S. G., Lett Min., Milano, mazzo 19-2315, 9-16, 20 aprile 1726. (38j Lo Spinola riferisce che il Governatore cercò di dimostrargli che « la dilazione non era buona per la Repubblica, perchè il He di Sardegna, o si sarebbe incluso nel trattato di Hannover, ed in tal caso la Francia, e l’Inghilterra co’ quali resterebbe collegato, le farebbero avere maggiore la sodisfazione, o egli si sarebbe unito a S. M. Cesarea, ed al Re Cattolico, ed in questo caso avrebbero obligo di maggiormente assisterlo». A. S. G., Lett. Min., Milano, mazzo, 19-2315, 23 aprile 1726. (30) Era già stato, quale inviato straordinario a Madrid dal 10 gennaio del 1713, fino al dicembre del 1715; quindi fu a Milano con D. M. Spinola dall’aprile del 1726 al 4 gennaio 1727; infine a Vienna in sostituzione di Clemente Doria dal febbraio all’agosto del 1727. Cfr. Vitale, Diplomatici, ecc., cit., rispettivamente, pagg. 185, 66, 123. (40) A. S. G., Lett. Min., Milano, mazzo 19-2315, 4, 5 maggio 1726. (41) Così riferiscono lo Spinola e il Grimaldi. A. S. G., Lett. Min., Milano, mazzo 19-2315, 7 maggio 1726. Dalla ricostruzione del fatto era risultato che i battelli onegliesi erano stati tutti rilasciati, ma evidentemente qualcuno era stato trattenuto o dì nuovo sequestrato perchè anche con lettera del 15 maggio lo Spinola e il Grimaldi riferiscono una discussione se sì dovesse: «escludere dal rilascio il Batello colto in frode». A. S. G., Lett. Min., Milano, mazzo 19-2315, 15 maggio 1726. (42) A. S. G., Lett. Min., Milano, mazzo 19-2315, 4, 5, 7, 12 maggio 1726. gio (43) e luglio (44) ; dichiarano di non saperne più nulla: se però se ne parla è per lanciar accusa di cercare false testimonianze ed inasprire i rapporti già tesi (i5). L'entusiasmo, se pur era vero, dimostrato nei primi momenti dopo l'offerta della mediazione, presto cede ai preparativi bellici, alle voci allarmistiche. La Francia intanto dichiara che, se 1111 accomodamento pacifico sarà concretato, questo dovrà essere a favore dei Savoia : il signor di Morville ammonisce e consiglia Giambattista Sorba « che qualunque partito prenda il Iìe di Sardegna nelle presenti turbolenze di Europa, egli ne sortirà assolutamente con vantaggio e con tutta la gloria, egli è Principe vicino alla vostra Repubblica, egli può esserle utilissimo. Perchè non mandarglisi da essa un gentiluomo, che lo riconosca, e che nel complimento inserisca quattro parole di soddisfazione circa l'insulto fattosi al di lui Governo? » (ie*. Il governo di Sardegna, è chiaro, si è affidato alla Francia e all'Inghilterra. Il Sorba da Parigi s'allarma e comunica spesso di temere che l'Inghilterra si valga del Re di Sardegna per fare una rivoluzione in Italia e che questo momento sia propizio; il fatto degli oneglini è un pretesto sufficiente ( ,7). II Duca di Savoia avrebbe aiuti, (43> L'ambasciatore di Torino a Parigi alla metà del maggio dei 1720, chiese a Giambattista Sorba notizie circa la mediazione, dichiarando di non esserne al corrente, ma anche il Sorba dimostrò di non saperne nulla. A. S G., Lettere Ministri. Parigi, mazzo 42-2218, 20 maggio 1720. i44) Il 21 luglio 1726 il maresciallo Villars, nascostamente dall’ambasciatore di Torino a Parigi, chiese a Giambattista Sorba « in qual stato era la nostra (è il Sorba che scrive) differenza col Duca di Savoia, sopra di che io non risposi, ne egli mi diede tempo di rispondere altro, se non che credevo che se ne trattasse tuttavia colla mediazione dell’Imperatore ». A. S. G.t Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 21 luglio 1726. (4S) V. le lettere firmate da Carlo Palla vicino riportate in appendice, Doc. IV, V. Carlo Pallavicino non risulta tra i diplomatici di quell’epoca : però in una lettera cifrata scritta a Vienna, pure firmata da Carlo Pallavicino par di comprendere che fosse un Inquisitore segreto. A. S. G., Lett. Min. Vienna, mazzo 56-2573, lettera del 5 aprile 1726. ί4β) A. S. G.f Lett. Min. Parigi, mazzo 42-2218, 18 marzo 1720. i47) Documento molto significativo b una parte di lettera del Sorba di Parigi, spedita a Genova Γ8 aprile: «Dal lunghissimo dispaccio del 20 scaduto e dalle scritture annessevi ricavo, come mi era ben immaginato, che il consaputo ricorso della corte di Torino si è altresì esteso a quello di Londra.... ma temo sempre più che il loro contegno possa derivare da intelligenza che abbiano colla corte di Torino per indurre a poco a poco la Brittanica a caricarsi dell’odiosità di sposare quest’impegno da cui forse profittando del pretesto, si volesse far nascere in Italia qualche rivoluzione favorevole al Duca di Savoia. Mi conferma in questo sospetto la confidenza fattami da un amico che il Nunzio Apostolico abbia ultimamente ricavata da persone, la quale si crede il Vescovo di Frejus, che la corte di Londra siasi già obbligata verso il Duca di Savoia a pagargli sin d'ora 70 mila lire sterline, et a mantenergli 10 de 20 mila uomini che doverà avere in piedi a condizione che occorendo rottura coll’imperatore egli lo attacberà nello stato di Milano e l’Inghilterra doverà con- INCIDENTE DIPLOMATICO TRA GENOVA E SAVOIA 171 special mente di denaro, dall’Inghilterra e di uomini dalla Francia; non avrebbe inoltre nulla da temere da parte del Pontefice, al quale il Nunzio Apostolico di Parigi avrebbe scritto per decidere le differenze esistenti tra Roma e Torino (48). Il momento è veramente delicato, siamo in una prima fase, per così dire, acuta. L’attività diplomatica è quasi sorpassata dai fatti : il 20 maggio Giambattista Sorba scrive che a Parigi la guerra si ritiene oramai inevitabile (49) ; il 1 luglio alla corte di Vienna il marchese di Rialp chiede a Clemente Doria (50) se la Repubblica di Genova sia provvista di truppe verso Savona per affrontare ogni sorpresa (51) e il 21 luglio G. B. Sorba da Parigi comunica per cosa sicura che la flotta, inglese verrà ad ancorarsi nel golfo della Spezia e non nasconde i suoi timori, ben comprendendo che tale mossa, diretta contro il suo governo, può avere gravi conseguenze : questo del resto è anche il parere del governo francese (52i). L’intervento della fiotta inglese è anche annunziato da Milano dallo Spinola, che però non ritiene imminente la guerra (53). Genova perciò si mostra piuttosto allarmata e cerca ogni mezzo per guadagnar tempo finché si calmi un po’ la burrasca (54). È però costretta a prendere a sua volta misure per lo meno precauzionali: G. B. Sorba scrivendo da Parigi a Genova il 26 si mostra contento che « la somma Prudenza delle SS. VV. 111. si è determinata di accrescere le loro truppe e di far altri provvedimenti per regola di buon governo (5S). Si ha allora un pareggiamento di forze servarlo negli acquisti che ei potrà farvi. Io non mancherò di valermi di tal notizia con opportunità quanto potrà permettere l'affettata indiferenza nella quale continuano a mostrarmisi questi reggi ministri ». A. S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 41-2218, 8 aprile 1726. La stessa cosa ripete anche con lettera del 15 aprile. (48) Il 26 aprile 1726, G. B. Sorba scrive a Genova che il signor di Morville ha raccomandato al Nunzio Apostolico di appellarsi al Pontefice per terminare le differenze tra Roma e Torino «e ciò mi conferma la mia supposizione che si prepari una rivoluzione a favore del Duca di Savoia » egli commenta. A. S. G., Lett. Min., Parigi, Mazzo 42-2218, 26 aprile* 1726. (49) Vedi appendice doc. IV. (so) a. S. G., Lett. Min., Vienna, mazzo 56-2573, 10 luglio 1726, e appendice doc. V. (51) Il Sorba scrive esplicitamente che il Maresciallo di Villars gli disse: « Ho poi veduta la lettera del Duca di Richelieu, ambasciatore di Francia a Vienna, che dà per cosa sicura che la squadra inglese destinata per il Mediterraneo deve ancorarsi nel golfo della Spezia ». A. S G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 22 luglio 1726. (52) A. S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 20 luglio 1726. (ss) a. S. G., Lett. Min., Milano, mazzo 19-2316, 9, 11 agosto 1726. (M) u parere che fosse bene temporeggiare fu espresso anche daH'ambascia-tore di Francia a Torino e fatto conoscere da Eufrasio Sorba a Genova con lettera cifrata del 24 luglio. A. S. G., Lett. Min., Torino, mazzo 2-2489, 24 luglio 1726. (ss) A. S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 26 aprile 1720. 172 NILO CALVI Μ e una nuova fase di attesa ; la diplomazia lui nuovamente il sopravvento sulle azioni; ognuno dei contendenti cerca abilmente di acquistare amicizie, procurarsi aiuti e far pendere dalla propria parte la bilancia. 11 Piemonte si rivolge alla Francia e all’Inghilterra le quali erano state punte sul vivo quando l’Austria, col trattato
  • ete ancora la possibilità che il He di Sardegna aderisca al detto trattato. V. Appendice, doc. V. (60) A. S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 20 settembre, 2 ottobre 1720. Nella lettera del 20 settembre dice chiaramente: «Io per me non so cessar di temere che il duca di Savoia se si determina a rompere con la Serenissima Kep. abbia in vieta di attirar dal suo partito il He di Inghll. nel che sono persuaso potrebbe riuscir facilmente quando rinif>eratore pigliasse il nostro (partito) e W. SS. 111. accedesero al trattato di Vienna ». INCIDENTE DIPLOMATICO TRA GENOVA E SAVOIA 173 Francia e dell’Inghilterra col Sovrano di Savoia (61). Uguali notizie giungono anche da Milano (62) dove nel dicembre si crede di sapere che il Ile di Sardegna lia aderito al trattato di Hannover, e si pretende conoscere i patti stipulati (63). Intanto però non si cessa dal parlare di mediazione ed anche di >desiderio di amicizia tra le due avversarie : mentre un giorno G. B. Sorba si reca dal cardinale di Fleury incontra per caso la Principessa di Carignano, la quale gli •chiede notizie della vertenza, auspicando un accomodamento (64) e pure di accomodamento parlano lungamente l’ambasciatore di Torino a Parigi, il cardinale di Fleury e i Nunzi Apostolici (65). Ma col sopraggiungere del nuovo anno pare cessi ancora una volta il periodo delle trattative pacifiche e le cose debbano risolversi ■con la forza; i fatti hanno il sopravvento sulle trattative; la mediazione non è ancora attuata : anzi con una lettera del primo gennaio 1727 e con altre successive al suo governo, Eufrasio Sorba dà per certo che il Governo di Savoia è ormai entrato a far parte del trattato di Hannover, ricevendone in cambio l’appoggio armato delle potenze firmatarie e non resta che agire (66). Questo è anche il parere di Francesco Maria Grimaldi, che da Milano, pure ai primi di gennaio, denuncia a Genova preparativi bellici franco-piemontesi assicurando però che lo stato di Milano è pronto a difendersi e a respingere ogni attacco (67)· Regna tuttavia grande incertezza circa gli obiettivi del Re di Sardegna : Eufrasio Sorba, alla fine di gennaio e nel febbraio, scrive della possibilità che si tenti un colpo di mano su Savona, o anche si cerchi di acquistarla accampando diritti, ciò per cui pare si stia lavorando di nascosto, ina (61) A. S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-221S, 4 novembre 1726. (62) Scrive lo Spinola : « Si dice quasi per cosa sicura, e me lo scrivono ancora da Vienna che all’arrivo che si aspetta in Torino Nella lettera del 7 ottobre G. B. Sorba riferisce il colloquio avuto con la Principessa e tra le altre anche questa frase di cortesia: « Lei non può credere (disse la principessa al Sorba) quanto io ne desideri la conclusione (della vertenza) c quanto vivamente io sento gli obblighi che deve avere alla Repubblica tutta la Casa di Savoia ». A. S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 7 ottobre 1726. (βΛ) A S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 22 ottobre, 4 novembre, 25 novembre ed altre, 1726. (ββ) A. S. G., Lett. Min., Torino, mazzo 3-2490, 1 gennaio 1727. (e7) A. S. G., Lett. Min., Milano, mazzo 20-2316, 8 gennaio 1727. 174 NILO CALVINI attivamente (6S). Poco dopo però parla di veri movimenti di truppe. La prima notizia giunge improvvisa il 23 febbraio : per il 26 dello stesso mese il reggimento Piemonte con rinforzi di cavalleria deve essere in Alessandria, altre truppe a Valenza, le rimanenti devono tenersi pronte (69). Eufrasio Sorba ha la conferma di queste notizie auclie dal conte d'Haracli, ministro di Vienna in Torino: anche questi è allarmato e ne ha avvertito Vienna, dove pare si stia « con le mani alla cintola » mentre che « le voci e le opinioni di qualche meditata sorpresa contro la Serenissima Repubblica diventano sempre più accreditate (70)». E dopo aver detto che il Re di Sardegna avrebbe tardato a dichiarar guerra a Genova perchè prima voleva esser ben sicuro delle alleate, dichiara che « ciò che però è costante, e che trovasi in bocca di piccoli e di Grandi, si è che questo Sovrano non vuol certamente lasciar invendicato il preteso insulto nel fatto degli oneglini » (71). Il comando di tutte le operazioni piemontesi è affidato al generale Rebender che fa eseguire con sollecitudine preparativi e leve di uomini anche in Oneglia, la quale invece, secondo le convenzioni avrebbe dovuto fornire soldati solo se minacciata essa stessa ("*). Ma da Alessandria e da Valenza non si sa verso dove il generale Rebender si dirigerà, benché il conte Ha radi creda che la meta sia Savona, che Genova non riuscirà a difendere perchè le truppe dell’imperatore di Vienna giungeranno in ritardo (73). Si spera però che anche Torino temporeggi per attendere la flotta inglese ('*). Simili notizie ora di allarme (75), ora di calma (7e), continuano per tutto il marzo e primi di aprile. Ugualmente da Parigi il 3 marzo (·*) Il Sorba scrive che il suo confidente fu « assicurato sempre più esser ix>- sitivo che qui si fan le più diligenti cerche d’ogni documento, clic parli de pretesi diritti sullo stato di Savona ». A. S. G., Lett. Min., Torino, mazzo .ï-2490, 12 febbraio 1727, anche 29 gennaio 1727. <··) « Tutto è in armi in Torino, conclude il Sorba scrivendo a Genova, ed eziandio per i nuovi regimenti del soldo si spediscono attualmente tutte le patenti alli Ufficiali Maggiori. Dico in armi per far intendere che tutto Torino risuona di voci di una guerra quasi presente, ed i movimenti che? se ne intendono, e se ne vedono, lo fan credere». A. S. G., Lett. Min., Torino, mazzo 3-2490, 23 febbraio 1727. (70) Così scrive Eufrasio Sorba. A. S. G., Lett. Min., Torino, mazzo 3-2490, 27 febbraio 1727. (71) Ibid., 3 marzo 1727. <*2) Ibid., <73) Ibid., 3 e 5 marzo 1727- <74» Ibid., G marzo 1727. Slealmente nelle lettere 1, 2, 9 aprile; oltre che nelle *ià citate del il> e 2«» marzo. <“«) In una lettera proveniente da Finale, di cui non si capisce la tirma, si assicura che tutte le voci riferite dal Sorba a sembrano di ninno fondamento *>. A. S. G., Lett. Min., Torino, mazzo 3-2*190, 9 aprile 1727. INCIDENTE DIPLOMATICO TRA GENOVA E SAVOIA 175 G. B. Sorba afferma di aver sentito dire che presto in Italia- vi sarà la guerra « forse ne i stati della Serenissima Repubblica, mediante l’occasione che ne darebbe la querela che verte tra essa e la corte di Torino » (77). Notizie simili giungono anche da Milano donde D. M. Spinola il 5 marzo assicura che il Re di Sardegna è aiutato dalla Francia e con lettera del 12 marzo aggiunge di aver saputo « che l’armata piemontese dovrà entrar nel genovesato, per intentare l’assedio di Savona, assistita· dalla flotta inglese » (78). Il 17 marzo da Parigi G. B. Sorba rende noto che il signor di Mourejas stima prossima la guerra del Piemonte contro Genova, che però non sarebbe nè impreparata nè sola : le truppe di Milano sarebbero già in movimento per mettersi in contatto con Genova (79). Il ritmo degli avvenimenti si fa più celere, e i fatti si complicano. Le trattative di mediazione interrotte, vengono riprese e condotte avanti rapidamente; ma le cose sono nella fase estrema e non si sa se ormai giungerà in tempo. Pare dapprima di sì : nella lettera del 31 marzo (80.) G. B. Sorba riporta un colloquio avuto con l’ambasciatore di Torino a Parigi; quell’ambasciatore aveva detto che il suo Sovrano era disposto ad un accomodamento, che era sicuro che la guerra non si sarebbe fatta, anzi sarebbe terminata prima-che cominciata ; che a Torino si attendevano due senatori genovesi che avrebbero dovuto fare le scuse del proprio governo. Il 2 aprile poi (81) da Milano giunge notizia che la mediazione è a buon punto e la vertenza sta per terminare. Ma accanto a queste notizie di conciliazione ne persistono ancora altre allarmistiche: con lettera del 7 aprile 1727 lo stesso G. B. Sorba si mostra preoccupato dal fatto che i senatori genovesi non sono andati a Torino e che perciò il Re di Sardegna rotto ogni indugio, coll’appoggio francese avrebbe ordinato di attaccare benché il Papa abbia scritto a Parigi esortando quella capitale alla pace. Ancora con lettera del 14 aprile, G. B. Sorba dice che il sig. di Mourejas aveva saputo da varie fonti che truppe piemontesi muovevano da Alessandria verso Genova (82). Ma sono gli ultimi allarmi. (continua) Nilo Calvini (77) Λ. S. G., Lett. Min.. Parigi, mazzo 42-2218, 3 marzo 1727. (7R) L’aiuto inglese viene invece smentito a Parigi dal cardinale di Fleury a G. B. Sorba. Λ. S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 10 marzo 1727. (79) A. S. G., I>ett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 17 marzo 1727. (80) A. S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, 31 marzo 1727. (81) A. S-. G., Lett. Min., Milano, mazzo 20-2310», 2 aprile 1727. (®2) A. S. G., Lett. Min., Parigi, mazzo 42-2218, rispettivamente 7, 14 aprile. TOMBA A INCINERAZIONE NELL’ALTA VAL DI MAGRA Nella primavera dello scorso anno (1938), durante i lavori di scavo per la costruzione della strada dalPArzelato a Zeri, nell’alta Val di Magra (Com. di Zeri), fu casualmente messo in luce un sepolcro arcaico che, disgraziatamente, andò quasi del tutto disperso, salvo un vaso fittile, che formava evidentemente l’ossuario di una tomba a incinerazione. Secondo le notizie che è stato possibile mettere insieme, la tomba conteneva tre vasi di terra, qualificati dai presenti per pignatte, che si trovavano allineati nel fondo della fossa. Ognuno dei vasi era coperto da una sottile lastra di arenaria, e, al disopra, a guisa di coperchio della tomba, stava poi un grosso lastrone della stessa sorta di pietra, comune nella località. Questo lastrone era stato squadrato e pareggiato con lavoro accurato, tanto che parve ai presenti che recasse anche segni di lettere, paragonabili, secondo loro, a « moltipliche ». I tre vasi di terra, tutti della stessa forma e dimensione, a quanto è stato riferito, contenevano minuti avanzi di ossa cremate. Nessun altro oggetto sarebbe stato trovato o dentro o intorno ai vasi, e solo furono notate, nel terriccio del fondo della tomba, traccie di ruggine. La tomba giaceva, a detta degli informatori, a circa ni. 1,20 sotto la superficie del suolo (*). 0) Il fittile superstite, pervenuto nelle mani del Rettore di quella Parrocchia. il rev. Don Ino Pasquali, fu da lui fortunatamente messo in salvo. Debbo alla .sua cortesia di averlo potuto esaminare e le notizie sulle circostanze del ritrovamento. L’urna col suo contenuto si trova ora depositata presso il e Museo Archeologico Lunense» della Spezia, che, per recente deliberazione Ministeriale, è considerato il centro di raccolta del materiale preistorico e protostorico della Liguria Orientale. Altri materiali di scavo, provenienti da casuali ritrovamenti verificatisi nel territorio dell’Arzelato, disgrazia ta mente sono andati perduti. Uno di tali ritrovamenti avvenne nella prossimità del villaggio di Caserana (Cabrarla), in un cam]K> sottostante alle rovine di un vecchio fabbricato, che si dice sla stato un oratorio, nei pressi di una antica strada che conduceva verso la valle inferiore della Teglia. In occasione di lavori agricoli vennero in luce cinque tombe a inumazione, giacenti a non molta profondità sotto il piano di campagna, consistenti in incassature quadrangolari, lunghe oltre due metri, che si restringevano nel lato inferiore, formate con muretti a secco di rozze pietre, poste orizzontalmente e non a coltello, e coperte con grossi lastroni squadrati e adattati a coperchio. Le tombe contenevano scheletri, posti supini, orientati da |>o- TOMBA A INCINERAZIONE NELL’ALTA VAL DI MAGRA 177 Il fìttile, di argilla mal depurata e d’impasto grossolano, è fatto a mano e cotto a fuoco libero : ha la forma tipica di due tronchi di cono congiunti per la base, con sagoma carenata con Paiuto della stecca, Porlo del collo tondo, svasato all’esterno. Manca di piede e Tomba del Mondagnc : Ossuario fìttile. (Fot. I. Formami - Pontremoli) la base è ottenuta con una irregolare schiacciatura del fondo, lasciato assai rozzo e scabroso. Esteriormente è di color grigio, con parti rossastre e annerimenti: internamente, invece, è stato accuratamente lucidato a nero con la spatola. Una frattura delPorlo permette di osservare nelPargilla traccie di sostanze quarzose e di ma- nente a levante, che, al contatto dell’aria, andarono in polvere. A detta degli scopritori non furono trovati tra le ossa avanzi o tracce di suppellettile. Anche in occasione
  • e, a cremazione, anche in questa, una parte delle ceneri dovette poi essere raccolta sul fondo della fossa per esservi quindi deposta sopra la suppellettile funebre, perchè nelle asperità della base delPossuario si notano gru metti di cenere finissima. Meno facile è dire se i pezzetti di laterizio, disseminati nel terreno. provengano essi pure dal sepolcreto e siano, p. es., residui di fornello crematorio come sono stati trovati in altre località, oppure se si debbano giudicare avanzi di costruzioni meno remote, come appunto la vecchia osteria detta la Cà du lince. La linea ondeggiante e spezzata dello strato marmoso rivela il profondo sconvolgimento subito dal terreno. Se, come è probabile, la TOMBA A INCINERAZIONE NELL’ALTA VAL DI MAGRA 181 tomba non era sola, il sepolcreto potrebbe trovarsi nel tratto compreso tra le due strade, poiché le urne venute in luce dovevano essersi spostate in basso per il movimento del terreno, così da costituirne la punta avanzata, non essendosi trovata, al di sotto, nel largo tratto di terreno rimosso per i lavori stradali, traccia alcuna di altri avanzi del genere. E dello sconvolgimento della tomba pare che sia rimasto 1 indizio anche sull’urna che porta, su un lato, tenaci incrostazioni di terra, effetto probabile di un parziale interramento. I dati esposti e le scarse e incerte notizie raccolte rendono assai difficile tentare di determinare i particolari caratteri e, sopratutto, la cronologica della tomba. Sebbene le alterate condizioni del terreno e le disgraziate circostanze del ritrovamento non abbiano dato modo di aver notizie esatte della forma della fossa, della costruzione della tomba, del suo rivestimento, della presenza o assenza di cumuli o circoli di ciottoli, di stele, ecc., tuttavia par lecito concludere che si tratti di una tomba del tipo ben conosciuto delle tombe esostoriche della Liguria orientale, a incinerazione, composte a cassetta, con cinque o sèi lastroni di pietra più o meno squadrati, come tante ne sono state trovate in Lunigiana. Diversamente, bisognerebbe riferire la tomba ai tipi più arcaici di questi sepolcri a incinerazione, di rito italico, ciò che non pare possibile per varie ragioni e, soprattutto, per la forma del lastrone che aveva evidentemente i caratteri di coperchio della cassetta e non di semplice protezione delle urne. Che se mancano molte delle più comuni caratteristiche delle tombe a cassetta, non vi si riscontra, d altra parte, nessun elemento che sia veramente estraneo ad esse. Si potrebbe osservare che, contro il solito, la tomba conteneva tre ossuari e che, a quanto è stato detto, era sprovvista di quei vasi accessori che, in genere, accompagnavano caratteristicamente l'ossuario: tali particolari, però, non stanno in contrasto con la proposta classificazione poiché sono state trovate anche cassette contenenti sino a cinque ossuari riuniti, ed urne non accompagnate da vasi accessori. La presenza del ferro, poi, sarebbe testimoniata dalle traccie di ruggine, notati nel terriccio della fossa. E si può escludere (‘he questa tomba, diversamente dalle altre tombe a cassetta, portasse una iscrizione, giacché quei segni, somiglianti a «moltipliche» notati sul lastrone che copriva la tomba non erano certo lettere, ma casuali incroci di segni lasciati dalla punta dello scalpello usato per un sommario lavoro di spianatura, come osservò già IJ. Mazzini a proposito delle presunte « lettere e cifre », che si pretesero scolpite sulle lastre di simili sepolcri scoperti a Malgrate (3). D’altra pnrte questi caratteri di estrema semplicità della tomba (3) U. Mazzini, Txi necropoli apuana del lìaccatoio nella Versilia in Ale-morie della Soc. Lun. « O. Capellini », IV, p. 68. 182 MANFREDO GIULIANI dato il luogo, sono forse più indizio di povertà che non di antichità. È noto, infatti, che le tombe di questo tipo si trovano generalmente più rozze in montagna c he nel piano, e che la rozzezza e povertà aumentano nei sepolcri più tardi del periodo romano. Così, p. es., se la copertura delle urne con lastre di arenaria può far pensare ai tipi più arcaici di tombe come quelle del sepolcreto di Bismantova, può anche ricordare alcune tombe di Ceparana che vengono raggruppate con quelle del sepolcreto di Genicciola (Po-denzana). Nè, in questo caso, si può aver grande aiuto, neirinda-gine cronologica, dalla ceramica, sia perchè il fittile superstite è sprovvisto di manici e di ornamenti caratteristici ; sia per la mancanza dei vasi accessori e specialmente delle ciotole di copertura, che, nella maggior parte delle tombe di questo tipo, per una particolarità che può parere rituale, rappresentano, rispetto ai rozzi ossuari di fabbricazione locale, esemplari di manufatti pili fini, importazioni di industrie più progredite; sia, in fine, perchè nella regione esistono tuttora industrie locali figuline, di tecnica così primitiva, da far giudicare che si sia fissata nella località da· epocai remotissima (4). Anche di manufatti del tipo della piastrina d'osso, frequentemente associati ad avanzi di età molto remota, non mancano esempi nella suppellettile della tombe a cassetta, come, p. es., in quella di Genicciola, tra la quale fu appunto trovata una lamina di osso forata (5). . Si può dunque concludere che, malgrado gli scarsi e incerti elementi di giudizio, la tomba del Mondagnë si possa raggruppare con le tombe a cassetta dell’alta Val di Magra, quali quelle di Pozzo, Talavorno, Filattiera e Malgrate e, per l’età, con le tombe del sepolcreto di Genicciola, che si fa durare dallo scorcio del III sec. «>. <\, sino al primo decennio del I, quasi un secolo dopo la conquista (6). (*) In tali antichissime attività industriali si sono mantenute persistenze singolari di caratteri arcaici non solo nella tecnica primitiva, ma anche nel sistema patriarcale dell’esereizio, dove l’archeologo e il paletnologo potrebbero trovare utili dati. I na primordiale fornace, scavata nel terreno, che spesso da il nome alla località, serve, t>. es., alla produzione locale dei mattoni, dove, nei casi di bisogno, ogni famiglia del vicinato può produrre, o far produrre, direttamente il materiale occorrente. Nella stessa vallata della Teglia, nel paese di Castagneto!!, esiste tuttavia una antica e caratteristica industria dei « testi ». rozze stoviglie da cuocere focaccie, modellate a ninno e cotte a fuoco libero, con procedimenti — quale l'impiego, come tarso da ceramica, di sostanze quarzose pestate — evidentemente non dissimili da quelli usati per la fabbricazione delle urne del 3f onda g né. Si vedo la Ικ;η nota memoria di P. Podestà in Notizie degli scavi di an- t-ichità, a. 1 *71». p. 285. <.«* Cfr. Issel, Liguria Preistoria, parte ili, cap. IV, e specialmente la spesso citata p. 594. TOMBA A INCINERAZIONE NELL’ALTA VAL DI MAGRA 183 L’esistenza di questo sepolcro arcaico vicino all’antico tracciato della mulattiera dell’Arzelato per Rossano e per Zeri, non è priva d’interesse per la storia delle comunicazioni antiche, e, quindi, della demografia antica di questo territorio della Liguria· orientale montana (7). In una organizzazione ruralistica, di tipo montano, connessa necessariamente a un sistema di viabilità naturale, lo spartiacque tra le vallate della Gordana e della Teglia, formato da uno sperone che si distacca dal monte Picchiara-Rotondo, sul displuvio tra Vara e Magra, a una media altezza di mille metri s. m., offriva il tramite più sicuro per le comunicazioni tra una parte della Val di Magra e le vallate della Vara e del Taro. Manfredo Giuliani (7) Rossano, Arzelato e Zeri sono caratteristici paesi che, come varii altri della montagna pontremolese, conservano, evidentissimo, il primitivo tipo ligure della formazione pagense : gruppi di piccoli abitati (vichi o cà) disseminati in una assai larga circoscrizione o vicinanza, che ha un nome collettivo derivato spesso da originarie sue ragioni giuridiche nelFordinamento superiore del pago o cantone, mentre ogni abitato è distinto da un nome particolare, qualche volta di carattere gentilizio, testimonianza dell’originario vincolo agnatizio. Traccie di noti elementi arcaici, come calmo, var-, hard-, barg-, -asc-, -use- (?), sono pure evidenti in alcuni nomi di località del territorio, quali Car-muschio, Carmus-c o Scantino, monte a pascolo, che si associa, come altrove, con Pradalinara, località prativa; Carvara, fontana sul fianco dello stesso monte; Garmèla, piccolo piano nel basso corso del torr. Gordana; la Marcinasca, podere in Pradalinara; Mezzemola o Mezzemena, Msëmla ο Msemola, rio del monte Burello; Coppavara, Cupavara, località sul torr. Teglia; ara d’Bardlun, località di monte; Bardine, Barghin, località boschiva, ecc.; nomi connessi a voci diffuse in tutta la Liguria mediterranea con notevoli riscontri special-mente in gruppi toponomastici della Liguria di ponente. Anche i nomi di Rossano, 1tusan, e Tornino, Turano, si ricollegano a gentilizi romani denominatori di fundi.diffusi in tutta la Liguria, e forse il termine Linarius dei vecchi documenti, che designava una località di confine nei pressi del Carmuschio, più che una errata latinizzazione del volgare Pradalinara, è un ricordo di un limes linearius, di età posteriore alla conquista. SCHIAVI GENOVESI NELL’ARCHIVIO CONSOLARE VENETO DI TUNISI(1779-1784) Il caso ha voluto ch’io avessi in visione alcuni registri della Cancelleria del Consolato di Venezia in Tunisia, di cui sarà trattato diffusamente in altra sede. Per ora, solo qualche accenno, necessario alla presentazione degli Atti che seguono. Sono tre, e gli ultimi di una serie, contraddistinti dalle lettere D, E, F. Il primo racchiude Atti dal 7 gennaio 1771) al 27 gennaio 1783, il secondo dal 27 gennaio 1783 al 16 ottobre 1795, ed il terzo dal 24 ottobre 1795 al 12 novembre 1797 (*). In quello contrassegnato E gli atti si arrestano al 6 gennaio 1784 per essere ripresi il 29 gennaio 1789, e nuovamente sospesi dal 21 dicembre 1789 al 15 maggio 1791. Senza dubbio alcuno, tali lacune sono dovute al lungo stato di guerra fra Tunisi e la Serenissima, originato dal noto incidente con i mercanti di Sfax (2). Frammisti a contratti di nolo, « prove di fortuna », protesti, perizie, donazioni, vendite, ecc., figurano quattordici riscatti che si riferiscono a soggetti liguri, schiavi del « Governo » tunisino (3). E chi libera gl'infelici sono mercanti di Genova. E di genovesi — provenienti, in gran parte, dalla fattoria di Ta barca- — era composto, quasi tutto, il personale del Consolato (4). (1) Nel 1703, Venezia aveva concluso trattati di pace cod Algeri e Tunisi. Cfr. particolari in Correspondance des Jieys de Tunis et des Consuls de France, arec la Cour. lôTi-1830, par E. Plaktet, Paris, 1894, vol. II, pp. 597, e Armale* Tunisiennes, etc., par A. Rousseau, Alger, 1804, pp. 557. (*) Cfr. C. A. N a lu no, Venezia e Sfar nel secolo XV/II secondo il cronista arabo Maqdish, in « Centenaria della nascita di Michele Amari », Palermo, 1910, vol. II, pp. 30<ί e segg. Cfr pure A. Rousseau, op. cit., pp. 197 e segg. E da osservare che il Consolato si era già chiuso al pubblico prima che fossero dichiarate le ostilità. Il 17 gennaio Ì784 « le mat de pavillon fu abattu au moment où le chevalier Querini sortait du Bardo », mentre l'ultimo Atto è del 0 gennaio. Cfr. A. Rousseau, op. cit., pp. 200. (3) Quattro sono pubblicati nel testo integrale, e dieci riassunti. I registri contengono altri riscatti riguardanti napoletani, siciliani, ecc. <4) Forse non era mai stata -applicata la disposizione del Senato veneto, in data 21 settembre 17«%: a Non potrà in avvenire alcuno essere ammesso alla concorrenza del Console, e tanto meno esserne eletto, se non proverà con legali, ed autentici documenti di essere Suddito Veneto». Cfr. Codice per la vendita mercantile marina approvato dal decreto delVeccelìentiss* Senato..··, Venezia, MDCCLXXXVI, pp. 95. Oppure, non esistendo una simile norma regolamentare all’epoca della creazione del Consolato (1703), non si è voluto dare effetto retroattivo al nuovo provvedimento. schiavi genovesi nell’archivio VENETO Dì TUNISI 185 Per il De Saizieu, Console di Francia in Tunisi dal 1762 al 1778r i veneziani avevano scelto per loro Console, « à la demande du Bey, le sieur Gazzo, Tabarquin, son chirurgien », non solo per « assurer la navigation dans le Levant», ma, sopratutto, per « faire l’acqui-sition de Taba-rque » (5). In realtà, Giovanbattista Gazzo, che si circondò di ottimi collaboratori liguri, fu attivissimo al servizio di Venezia, e alla sua morte (7) il Vice-Console Gorgoglione, seguì le orme del venerando capo (8). È evidente che Hamouda-Bey (9) — come il precedente sovranor Ali-Bey, suo padre — aveva influito sulla nomina del predetto Gorgoglione. Interessi e generosità protettiva dovevano agire insieme nell'animo del principe barbaresco, giacché il nuovo diplomatico accreditato, in un Atto del 5 luglio 1780, è qualificato « Medico di questo Bey » (10). E rappresentò Venezia anche quando la Serenissima dalla forma aristocratica passò a quella democratica (1797) p1), nonostante l’ostilità del Devoize (12«). Costui, scrivendo al Talleyrand, suggeriva mezzi energici : « il est essentiel que vous m’autorisiez à m’expliquer (5) Cfr. E. Plantet, op. cit., vol. II, pp. 006. (e) Il 24 aprile del 1757, Gio Batta Gazzo, «di Tabarca ». figura «compare» di un Serafino Giano, al fonte battesimale della chiesa di Santa Croce. (7) Sul registro N° 1 dei Morti dell’Archivio parrocchiale della citata Santa Croce in Tunisi, si legge: « Adi 5 %re 1Ί85 Gio-tta Gazzo Console della Sere- niss: Republica di Venezia doppo liauer sofferto con indicibile sofferenza una cronica indisposizione cagionatagli da una caduta per lo spazia di sette mesi, finalmente in perfetta cognizione, hauendo domandati, e ricevuti tutti i santissimi Sagramenti passo’ VAnima sua da qta alValtra vita in età assai decrepita; ed il suo corpo doppo essere stato esposto nel Consolato di Venezia aj consueti suffragi, fu sepolto nel sepolcro Gentilizio della sua Casa nel Cimitero li atlanti la Capella di S. Antonio ». (8) Agostino MA Gorgoglione attraverso gli Atti del Consolato veneto risulta medico e mercante genovese. Testimone per la prima volta in un Atto del 7 gennaio 1770, è nominato arbitro il 22 aprile dello stesso anno da « due sudditi genovesi » : Gio Batta Costa qm Stefano, e Angelo Vigna qm Bartolomeo. Il 5 novembre del medesimo 1770 è chiamato come perito calligrafico dall'Amministratore dellOspedale dei Trinitari spagnuoli, e nel marzo del successivo 1780 tratta un primo nolo col capitano Biagio Mila to vi eh, della veneta nave « L’Innocenza protetta ». Dopo la partenza del Cancelliere Giuseppe Capriata, promosso Console in Albania, il Gorgoglione lo sostituisce a cominciare dal 22 ottobre 1781. (®) Dal 1782 al 1S14. (10) Nel registro E, Gorgoglione figura vice-console dal 20 gennaio 17S0. (“) «La Municipalité provisoire de Venise h Ilamouda, Bey de Tuuis. Venise, août 1707 (Il thermidor an V), Ier de la liberté d’Italie. Le citoyen Augustin Gorgoglione, qui va reprendre ses fonctions consulaires près de la Régence, notre amie, nous procure l’agréable occasion de pouvoir annoncer à Votre Seigneurie l’heureux changement qui vient de s’opérer dans notre gouvernement par l’oeuvre de l’invincible République française ». Cfr. E. Plantet, op. cit., vol. III, pp. 330. ACHILLE RIGGIO -au nom du Gouvernement français, et que le Bey sache par la Municipalité même que l’Agent vènetien se trouve ici sous les auspices du Consul de France » (13). Qualche mese prima, e precisamente il 10 febbraio 1797, il Gorgoglione era stato accusato di mene antifrancesi, e s’era chiesto il suo richiamo a J. B. Lallement, Ministro Plenipotenziario a Venezia (14). Comunque, il rappresentante della Dominante non dovette uscire illeso dalla lotta. Infatti, dal registro F, sappiamo che il successore del Gazzo restò « assente » per tutto il 1797, sostituendolo Antonio Mendrice « Cancelliere e Incaricato delli Affari pp la Serma Repubcft » (le). Per gli Atti concernenti i riscattati s’impone qualche cousidera-zione. Il numero degli schiavi liberati si presenta estremamente esiguo dal 1779 al 1797. Indubbiamente, non tutti i genovesi si servivano del Consolato di Venezia. C’erano i privati, le diverse « Redenzioni », i Consoli di Francia, di Olanda, ecc. Ma perchè le liberazioni registrate si realizzano soltanto dal 1779 al 1784? Eppure Tunisi rigurgitava, specie nell'ultimo decennio del Settecento, di schiavi cristiani, e fra i quali, numerosi abbondavano i liguri (17ì. Non è improbabile che la guerra iniziata da Angelo Emo e conclusa dal Condulmer, abbia fatto deviare la solita clientela dal Consolato veneto verso più sicuri protettori. Tale ipotesi potrebbe essere confermata dal fatto che neppure riscatti di soggetti appartenenti alle altre parti d’Italia risultano superiori ai genovesi, nei suindicati tre i12) Abilissimo diplomatico francese, Vice-Console, Console, Commissario del Re, ecc., che, salvo intervalli piti o meno lunghi, fu sempre in Tunisia, . il 4 luglio 1785; Giuseppe Falle, «di Rapallo», il 3 novembre 1795; Giuseppe*... «nativo di Genova», il 20 novembre 1784; Stefano Lavata, «genovese», il 21 ottobre 1770: Ambrogio Marinaro, « genovese ». il 4 gennaio 1780; Sebastiano Matarana, «genovese di 80 anni», il giorno 8 giugno 1785; Nicola Ma* la testa, «di Rapallo», il 18 maggio 1707: Antonio Morgara. «da Caprara », il 1 giugno 1707; Lorenzo Olivieri, «di Capraja ». il luglio 1704; Gio Olivieri, a di Capraja», il 27 febbraio 1705; Nicola Pienovi (?), «genovese», il 4 luglio 1770; Giuseppe Palmiero, «genovese», il giorno 8 agosto 1770; Niccola Pescio, «genovese», il 21 agosto 1770; Bonaventura Derosci (?). di «Mone-glia », il 2fi luglio 1788; Andrea Susone f?), «dell’isola di Capraja», il 20 ottobre 1701; Andrea Semoville. «di Zoragìi nel Genovesato», il 22 maggio 1707: Giuliano Sabba ti ni, di «Capraja», il 17 luglio 1707; Niccolo’ Sisini, «di Caprara». il 14 ottobre 1797; Gio Batta Valle, «genovese», il 4 giugno 1707. fiCHIAVI GENOVESI NELL* ARCHIVIO VENETO DI TUNISI 187 registri. I documenti qui pubblicati, dunque, rappresentano una statistica frammentaria, atta a suscitare, negli studiosi, un certo interesse, particolarmente dal punto di vista economico. E specie per i numismatici, che si dedicano alle ricerche dei complessi sistemi monetari dell’Africa settentrionale (18j. Tunisi, 1G agosto 1939-XVII. Achille Riggio (18) La piastra tunisina che si riscontra negli Atti della Cancelleria veneta è quella che comprendeva sedici carrube; una carruba valeva tre aspri e un quarto; cinquantadue aspri formavano la piastra stessa. Non esistono trattati completi, ed esaurienti, che riguardino le monete degli ultimi due secoli della Reggenza. Notizie, più o meno esatte, si trovano sparse in pubblicazioni varie, delle quali, però, è bene diffidare. Accenni sintetici e sicuri si possono avere in Tunis, par le Dr. Louis Frank et par Μ. .T. Marcel, in L’Univers, Paris, 1S50, pp. 215 e segg. ATTI So ito compresi nel registro I) dal mese di marzo 1781 al febbraio 1182; e nel registro E, dal marzo 1783, alla chiusura del Consolato (gennaio 178.)). I. L’anno 1781 li 21. del Mese di Marzo giorno di Mercoledì Dopo Mezzogiorno, Dinanzi di noi Giuse Capriata Cancelle del Veneto Consto in qta Città e Regno di Tunisi 0), e delli Testimonj infrascritti è personalme comparso Bartolomeo di Stefano Ardito del luogo di Sta Margherita riviera di Levante Dominio della Serma Repubb» di Genova, il quale liberarne, sponte, et in ogni miglior modo ha dichiarato, e confessato, siccome in virtù del p.nte Atto dichiara, e confessa ch’era Schiavo di questo Governo (2), et al presente libe- (r) Il Capriata, probabilmente t ab archino, di origine genovese o corsa, risulta Cancelliere, nei registri in questione, dal 7 gennaio 1779 al 4 aprile 1781. Con Atto del 1S dicembre 1780 figura già nominato Console: «è perso-nalme comparso il Sigr Giuse Capriata Cancelle nro elletto Console p la stessa nra Serma Repca in IMirazzo» Tracce di una famiglia Capriata esistono nell’archivio dei Cappuccini italiani, missionari in Tunisia. Un Atto del « Molto Rdo Padre Alessandro da Bologna, Prefetto, e Provicario Apostolico di tutto il Regno di Tunis», informa che «Adi 11 Giugno 1756 è nata Margherita Capriata, figlia di Bartolomeo, e Maddalena Capriata sua moglie Schiavi Ta-barchini ». Cfr. Registro dei Battesimi dal 173G al 1839, in Santa Croce. (2) Il governo della Reggenza era tenuto da Ali-Bey (1759-1782), uno dei principi più illuminati della dinastia husseinita. Favorì l’agricoltura, l'industria, il commercio con i paesi europei, fondò la « Tékia », ossia ospizio per vecchi infermi. Riconobbe il trapasso della Corsica alla Francia soltanto nel 1770, e dopo che i francesi bombardarono Susa, La Goletta e Biserta. 188 ACHILLE RIGGJO rato, e riscattato da questo Sr Dionisio Meudrice Merce Genovese (3) p ordine. e conto delli SSri Mafone e Avansini di Genova mediante l’esborso, e pagamento dal medo Sr Mendrice fatto al d° Governo di P° 1610 qta moneta di pmo costo, numerate, e contate dal med<> Sr Mendrice al d° Governo in presenza del sudo riscattato Ardito; con più le solite spese soddisfatte dall’istesso Sr riscattante in di lui presenza, cioè P® 29: 20 p il Scrivano, Guardasigillo, e Guardian Baseia (4); Pe 5: 1/2 p Contratto, e Patente P® 1 p il Torcimanio (5) per rimbarco; Pe l p Sandalio (6); Pe 1:1/2 p Ciaus (?) e Sachegi (8) ; Po 14: 39 p nolo fino a Livorno; Le quali spese ascendenti a Pe 53: 13 qta mta unite al do pmo costo, sono Pe 1663:13 qta mta che importò il predo riscatto, alle quali unita la solita Provigione del d° riscattante, viene a risultare il totale costo e spese del riscatto med° Pe 1696: 1/2 qta moneta esborsala dal dto Sr Mendrice, p la libertà del d*o riscattato Ardito, il quale spedisce p la via di Livorno con Basto di Bandiera neutra p conto, e risico delli sud» SSri Mafone e Avasini, o di chi spetta; E p fede del vero di quanto sopra il prefto Bmeo Ardito riscattato si firma di proprio pugno alla presenza delli SSri Agostino Ma Gorgoglione, e Giulio Ponte (9) Testimoni chiamati, e pregati, e di noi Cancelle sudo infrasto. Agostino Ma Gorgoglione G. Capriata Canc Bartolomeo Ardito Giulio Ponte II. L'Anno 1781 li 4 del mese di Aprile giorno di Mercoledì alla mattina dinanzi di noi Giuse Capriata Cancelle del Veneto Consto in qta Città, e Regno di Tunis, e delli Testimoni infrascritti è personalme comparso il nominato Andrea (8) Mendrice compare testimone, per la prima volta, in un Atto del 7 gennaio 1779. Più tardi, e precisamente il 2 dicembre dello stesso anno, dà procura alla « Srn Ma Anta di lui Consorte e Figlia del Sig Gio : Batta Guzzo ». Xel^ citato Archivio di Santa Croce, Dionisio « M and risi », In data dell’8 aprile liC7, figura padrino di Giovanna Sibilla Xiesen, figlia di Arnoldo Enrico Nis-sen. console di Olanda. Un suo congiunto doveva essere Antonio Mendrice, cancelliere del consolato veneto dal 5 gennaio 1795, e « Incaricato » dopo 1’« assenza » del Gorgoglione. Antonio era iì fratello di quel Mendrice, medico presso la Corte beilicale, e che alla morte sospetta di Hamouda-Bey, fu decapitato col napoletano Mariano Stinca (1814). (4i Custode capo degli schiavi. i'» Colui che traduce, cioè interprete, dall’arabo « torgeman », ridotto a < torcimano » dagli italiani, ed a « truchemant » dai francesi, abitanti la Iteg- genza. («) Piccola imbarcazione che univa, attraverso il lago, Tunisi alla Goletta. (y) Inserviente graduato. (*i Parola turca deformata che significa a giannizzero ». (*) Sempre a Santa Croce, Giulio Ponte, padrino di .Maria Teresa Nissen in un Atto di battesimo del 2 novembre 1700, è qualificato cittadino di Genova. schiavi genovesi nell’archivio veneto di ttjnisi 189 Barbassa qm Giovanni, Caprageze, il quale liberarne, sponte, et in miglior modo lia dichiarato, e confessato, siccome in virtù del presente Atto dichiara e confessa, che era S-chiavo del fù Muhamed Bental Moro cognato di questo Bey, ■et al pi esente stato rilasciato libero gratis dalla Vedova moglie del medo, mediante però li forti impegni, e mezzi stati addoprati dal d° Schiavo p indurre la meda sua Padrona a tale grazioso rilascio; per il quale p altro si obbligò di contare a titolo di ragalia la somma di Pe 181: 1/2 qta mta alle Persone che hanno agito presso la dta Vedova sua Padrona perchè colla loro mediazione gli accordasse la libertà ottenuta, quale soma di Pe 1S1 : 1/2 le fù imprestata da Franco Ma Fasce suo Paisano Pe 60 dte, Pe 121: 1/2 simili dal Rinegato As- -sen del Kaja (10) p mero favore, mediante l’obbligo di dovere restituire le mede due partite componenti le dte pe i8l : 1/2 si all’uno che all’altro pma di partirsi da questa. Perciò il sudo compte, trovandosi mancante di tale somma, à ricorso da questo Sr Dionisio Mendrice Merce Genovese, perchè come incombenzto del suo riscatto, si compiacesse pagare la dta soma di Pe 181:1/2, p quindi poter partire liberarne p la Cristianità; Le quali Pe 181:1/2 furono dall’istesso Sr Mendrice contate, e numerate alli dti due creditori del sud0 Barbassa compe in presenza sua, e di noi Cancelle sudo,-come pure ha soddisfatte tutte le solite spese d uso p la sortita, ed imbarco dell'istesso Schiavo liberato, regolate sopra il piede delli Schiavi de’ particolari, componenti la somma in tutto di Pe 50: 5/8 qta mta, cioè Divano Pe 13: 5/8 (“), Dogana Pe 11: 1/4, Ciaus, e Sache-gi Po 1: V2, P/., Torcimo Pe i, Tescherè Pe 1 (i2), Scrivano Pe 1, Pe 14: 3/4, Contratto, e Patente Pe 5: 1/2, x quali spese unite alle sudte pe isi : 1/2, fanno in tutto Pe 232: 1/8 questa moneta che il d° Sr Mendrice ha esborsate p la libertà del predo Schiavo Barbassa come; sopra qta totale somma aggionta la solita commissione del 2 % (13) spettante all’istesso Sr Mendrice sono in tutto P 230 : 3/4 qta mta che ascende il costo e spese della libertà de pto compe Schiavo, il quale spedisce con pmo incontro p Livorno p conto, e risico delli SS* Mafone e Avansini di Genova, o dì chi spetta, da cui il predo Sr Mendrice fu incaricato del suo riscatto; E per fede del vero.di tutto quanto sopra il precto compe riscattato non sapendo scrivere fà un segno di croce di suo proprio pugno alla presenza delli SS» Agostino Ma Gorgoglione, e Giulio Ponte Testimonj chiamati, e pregati, e di noi Cancelliere sudo infrascritto. (Seguono ìe firme). (10) Specie di luogotenente. (n) Specie di assemblea consultativa, composta di militari, introdotta da Sinan Pascià all’epoca della conquista turca (1574). Creata, in origine, per attenuare la potenza del Pascià, con l’avvento dei Deys e dei Beys, la sua funzione subì cangiamenti diversi. (,2) Significa, in generale, biglietto, e proviene dall’arabo. Permesso per esportare, specialmente, derrate alimentari; nulla osta per uscire dalla Reggenza. (13) Negli atti del Seicento, concernenti riscatti dì schiavi, e che si trovano tuttora nell’Archlvio della Residenza Generale di Francia in Tunisia, è raro che la provvigione sia indicata. Cfr. P. Grandchamp, La France en Tunisìe, Tunis, 1020-1933, 10 vol., passim. 190 III. L’anno mille settecento ottanta uno li sette del mese di Giugno alla matt* inanzi di noi Gio. Batta Gazzo Console Generale p la Ser.ma Repube· di Venezia in questa Città, e Regno di Tunis, e delli Testimonj infrascritti è personalme comparso Cesare Garibaldo del Luogo di Rapallo Dominio della Ser.ma Repubca di Genova, il quale spontaneam®, et in miglior modo ha dichiarato, e confessato, siccome in virtù del pnte Atto dichiara, e confessa, ch’era schiavo di questo Governo, et al presente è stato liberato, e posto in libertà da questo Sr Dionisio Mendrice qui commorante ρ orde de SS1 Maffone e Avanzini di Genova mediante l’esborso fatto da Esso Sigr Mendrice di P« 1620 pino costo di questa moneta al Governo sud° numerate, e contate dal d°· alla presenza del prefto Garibaldo, con più le solite spese pure soddisfatte in Lui presenza, cioè IH‘ 20-26 Scriv°, Sappi Tappa (14), e Guardiano Rascia, contratto, e Patente Pe 5-26, Torcimo p accompagnarlo, Sandalio, ciaus e Sacchesi Pe 3-26, vitto, e nolo sino in Livno pe 29-26, Prowigge a 2 p % Pe 33-29 a favor del riscattante, quali spese tutte unite fanno Pe 201, e 29 — che aggionte alle sù espresse Pe 1620, risulta il totale intiero costo Pe 1711. 29 aspri di questa m^a stata sborsata dal succ° Sigr Mendrice p la libertà del Garibaldo, il quale lo imbarca p la via di Livorno su Bastiino di Banda neutra p conto, e risico de sud» SS» Maffone, et Avanzini, o’ di chi spetta. E per Fede del vero di q° sopa il preft0 Cesare Garibaldo non sapendo scrivere ha fatto una croce di sua mano alla presenza de SS» Agosto Ma Gorgoglione, e Salamone qn» Abramo Basevi Testimoni (15) chiamati, e pregati, e di noi Console sudo infto. (Seguono le firme). IV. li) giugno 1781 Giacomo Bisso d’Anto di Recco, et Ant° Dagnino di Franco d’Albo Dominio della Serma Repubea di Genova, schiavi di « questo Governo », sono riscattati da Dionisio Mendrice « Mercante qìii commorante », per ordine e conto dei SS» Maffone et Avanzini di Genova. Prezzo del riscatto, < omprese le solite spese : « Tremilla quattro cento Trenta otto Piastre, e 6 aspri ». Testimoni : Agostino Ma Gorgoglione e Salamone qm Abram Basevi. (14) Dall'arabo « sahib-tapa » o « sahib at-tabi », Ministro guardasigilli. (15) Il Basevi era uno dei « sensali » del Consolato veneto, appartenente,, forse, a famiglia israelita veronese, come risulta da un Atto della Cancelleria. Nell’onomastica ebraica odierna di Tunisi non vi è traccia dì Basevi. Almeno, nel ceto benestante. schiavi genovesi nell’archivio veneto di tonisi 191 V. 25 giugno 1781 Agostino \ atuone ili doni co di Sestrl Levante, Rened0 Puccio qni Gius1 di Chiavari, e Nicolò Chiappara di Lavagna, dominio della Serma Republica di Genova, «chiavi «di ministri di questo Governo», sono riscattati da 1 Moni ss io Mendrice « mercante qui commorante » per ordine e conto dei SS» Maffoni et Avanzini. Prezzo del riscatto: per ciascuno, 1485 piastre, più 71 e dieci aspri I>er le solite spese. Totale, 4668 piastre e 30 aspri. Testimoni : come sopra. VI. 19 luglio 1781 Jeramo Galeano qm Giacinto della Lingueglia, e Leonardo Qfeio di Capraia Dominio della Serma Republica di Genova, schiavi di « questo Governo », sono riscattati da Dionisio Mendrice, per ordine e conto dei SS' Mattone et Avanzini di Genova. Prezzo del riscatto: primo costo Piastre 1610 per ciascuno, più 85 di solite spese. Totale, 3390 piastre. Testimoni : come sopra. VII. 19 luglio 1781 Domenico Migliaro q“ Agosto di Moneglia e Domco Carueggia qm Franco di Sestri di Levante dominio della Serma Republica di Genova, « schiavi di questo Governo », sono riscattati da Dionisio Mendrice per ordine e conto dei SS' Maffone et Avanzini di Genova. Prezzo del riscatto: 1710 piastre per ognuno, comprese le solite spese. Totale, 3420 Pe. Testimoni : come sopra. Vili. 1 ottobre 1781 Domenico Preve qm Agostino della Lingueglia dominio della Serma Republica di Genova, «schiavo di questo Governo», è riscattato da Dionisio Mendrice per ordine e conto dei SS' Maffone et Avanzini, di Genova, mediante la somma di Pe 1610, più le solite spese, e per un totale di Pe 1695 di « questa moneta ». Testimoni: come sopra. 192 ACHILLE RI G GIO IX. 6 ottobre 17S1 Gio : Batta Palmiero qm Vincenzo, e Gio : Batta Canevaro « ambidue di üapallo dominio della Serma Repubblica di Genova, Schiavi di questo Governo », sono riscattati da Dionisio Mendrice, per ordine e conto dei S'S1 Maffone, et Avanzini di Genova, mediante la somma di Pe 1610 per ciascuno, più le solite spese, e per un totale complessivo di « Piastre Tremila quattro cento venti moneta di Tunis ». Testimoni : Agostino Ma Gorgoglione, e Giulio Ponte. X. 10 ottobre 1781 Giorgio Agostino Costa qm Girolamo di Sta Margherita dominio della Serma Repubea di Genova, « Schiavo di questo Governo », è riscattato da Dionisio Mendrice, per ordine e conto dei SS1 Maffone, et Avanzini, mediante la somma di 1695 piastre « di questa mta », comprese le solite spese. Testimoni: Agostino Ma Gorgoglione, e Salamone qm Am Basevi. XI. 24 dicembre 17S1 Vincenzo Aserete qm Sebastiano di Sestri di Levante, et Ambroggio Lupè qm Franco di Pegli, l’uno e l’altro Dominio della Serma Repubblica di Genova, « schiavi di questo Governo » sono riscattati da Dionisio Mendrice per ordine e conto dei SSi Maffone, et Avanzini di Genova, mediante la somma totale, comprese le solite spese, di piastre 3390. Testimoni : .Tossef Franchetti, e Salamone qm Am Basevi. XII. 6 febbraio 1782 Gio : Batta Molinetta di Pegly Dominio della Serma Repubea di G.enova, <( schiavo p l’avanti di questa Sigra Fattimina Figa del fù Siddi Ahemet Ben-tar », è riscattato da Dionisio Mendrice, per ordine e conto dei SS1 Maffone, et Avanzini di Genova, mediante la somma, comprese le solite spese, di « 1414.29. 6 Piastre di questa moneta, alle quali aggionte P™ 28-24 provvig à 2 p % al Sigr Mendrice Riscattante, risulta la somma totale di Pre 1442. 33.6. Testimoni: Joseph de Yacob Lumbroso, e Salamone qm Am Basevi. SCHIAVI GENOVESI NELL’ARCHIVIO VENETO DI TUNISI 193 XIII. 12 febbraio 1782 Patron Giuse Bisso, e Francesco di Lui Fratello del luogo di Becco ambi-due Dominio della Serma Repubblica di Genova, « p l’avanti Schiavi di questo Governo », sono riscattati da Dionisio Mendrice, per ordine e conto dei SS1 Maffone, et Avanzini di Genova, mediante « Piastre Tremila Due cento venti di questa moneta, p il pmo p esser Patrone di pmo costo, e parimte Piastre 1610 p il secondo », più le solite spese ed il nolo per Genova. Totale : « Piastre Quattromilla novecento trentadue, e mezza, alle quali dovendosi aggion-gere, come si aggiongono Piastre 98 e 3/4 comm. a 2 % al sudo Sr Mendrice riscattante viene ad essere il loro total costo Piastre cinquemila Trenta una, et un quarto ». Testimoni : S. qm Am Basevi, e Jossef Franchetti. XIV. L’anno 1783 le 4 del mese di marzo giorno di martedì alla mattina manzi di noi Gio Batta Gazzo Console generale p la Serma Republica di Venezia in questa Città e Regno di Tunis, e delli testimoni infrascritti è personalme comparso Giuse Natino di Bernardo del Luogo di Prato (16) Dominio della Serma Republica di Genova, il quale liberarne spontaneame et in ogni miglior modo ha dichiarato e confessato, siccome in virtù del presente atto dichiara e confessa, che essendo p l’avanti schiavo di questo Governo, è stato oggi posto in Libertà da questo Sr Dionisio Mendrice mercante Genovese qui eom-morante p ordine, e conto delli SSri Maffone et Avanzini di Genova mediante lo sborzo da Lui fatto di Pe 1610 di questa moneta primo costo, sappi tappa, scrivano, e Guardian Bascia Pe 29-26. ciaus e sachegi Pe 1.26, Patente e contratto Pe 4 Sandalio e Torcimano Pe 7 Nolo, e vitto Pe 14.39. quali spese tutte onite al primo costo fanno Pe 1661.39 alle quali aggionto Pe 33.13 provige a 2 % al do riscattante risulta la somma totale in P 1695 senza la qual somma non poteva il prefato Natino ottenere la Libertà, come hà ottenuta et in forza della quale si spedisce con la checcia La Bella Maria prosperata (17) del veneto capno Aldebrando Ragusin p la via di Livorno a conto, e rischio delli sudi SSri Maffone et Avanzini di Genova, o di chi spetta, e p fede del vero non sapendo esso scrivere hà fatto ona croce di propria mano alla presenza delli SSri Giulio Ponte e Salamone qm Abram Basevi testimoni chiamati, e pregati, e di noi Console sudo infrascritto. (Seguatio le firme). (16) SI tratterà di Prato sopra la Croce. (17) La checcia era stata presa a nolo da Lorenzo Lagomarsini, medico e mercante genovese, domiciliato in Tunisi, in data del 10 febbraio, e per un viaggio dalla Goletta a Biserta, con ritorno alla Goletta « da dove partirà p Livorno indirittura ». DISCUSSIONI E COMMENTI SULLA GENEALOGIA DI MAZZINI Egregio direttore, Leggo nel Giornale Storico (fase. II) l’articolo di G. B. Santo Boero — La geneologia delle famiglie Mazzini e Drago — che reca notizie non note o mal note sulle ascendenze dell’Esule. Raccolgo l'invito del diligentissimo A. per segnalare una rettifica dovuta forse ad errore del proto, nonché per fornire qualche notizia su una zia materna del Grande.. La sorella di Giuseppe, Maria Antonia Carlotta Tomasina sposò nel 1829 il fratello di mio Nonno paterno, che ebbe nome Francesco (1798-1871) e non Antonio ; detta sorella morì a Mili ta il 21 ottobre 1883 e non 1838. La costei zia materna e madrina Antonietta Drago andò sposa a A. M. Bartolomeo De Albertis ; rimasta vedova sposò in seconde nozze Francesco Agostino Chausson ufficiale francese mutilato di guerra, cavaliere della; Légion d’Onore ; che premorì a Lei resasi defunta in età 80 il 3 aprile 1850 abitando in parrocchia di S. Tomaso in Genova. Al suo testamento mistico in atti del Not. Bendinelli Antonio Rollero 10 marzo 1817 è unito un codicillo segreto 13 marzo.1842 in cui leggesi che essendo morto il cognato Giacomo Mazzini in di lui vece nomina legatario per L. 2000 il nipote Giuseppe Mazzini. Tutto il rimanente alla figlioccia Antonietta Massuccone, la quale il 6 ottobre 1851 per atto del not. Giacomo Borsotto, con L. 30.500 ereditate dalla zia e madrina comprava dal marchese Carlo Doria Dolceacqua una villa a Murta con entrostante pafazzetto in località Peggé dove morì, come fu detto, il 21 ottobre 1883. Non va taciuto che nel testamento la Chausson aveva costituito ima capellania con una sua casa e villa a Murta a favore della Chiesa di S. Anna a Teglia ; in detta Chiesa leggesi una lapide marmorea così concepita: A perpetuare la memoria dell’obbligo di celebrare an finalmente un anniversario in suffragio della fu Antonietta Albert (sic) vedova Chausson deceduta il 5 aprile precedente dopo aver con larghissima generosità contribuito all’erezione di questa chiesa. L’erezione di questa- lapide decretava la fabbriceria il di 27 luglio 1850. Vi sarò grato se vorrete comunicare queste poche notizie al sig. Boero. Abbiatemi sempre vostro F. G. Masstjcoone COMUNICAZIONI DELLA R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA 195 Ha ragione l’avv. Massuccone. È stato un errore inspiegabile che ho commesso nel trascrivere la genealogia, riportando il nome di Antonio invece di Francesco, come risulta dall’atto di matrimonio di Francesco Massuccone di Benedetto con M. Tomasina Antonia Mazzini di Giacomo, celebratosi nella chiesa di 8. Agnese e del Carminine in Genova il 20 agosto 1829. In merito al secondo errore, riguardante Vanno 1838, esso c dovuto a un materiale sbaglio di stampa. G. 13. Santo Boero COMUNICAZIONI DELLA R. DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA LIGURIA NUOVI SOCI AMMESSI Galante Mario (proposto dal socio signor Giorgio Chiavola) ; Dolmeta Leonardo Giacomo (proposto dai soci Gian Piero Bognetti e dott. Pietro Muttini) ; Scolaro Eraclito (proposto dai soci dott. Pietro Muttini e march. Giacomo Granello di Casaleto) ; Prof. Krueger Hilmar C. (proposto dal segretario prof. Vito Vitale RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Υιτό Vitale, Gli studi di storia ligure nclVultimo ventennio. E- stratto d'ali’« Archivio Storico Italiano », voli. I-II (dispense la e del 1938-XVII). La buona consuetudine di fare ogni tanto la rassegna degli studi di storia ligure, interrotta per un quarantennio dopo la morte del prof. L. T. Belgrano, è stata ripresa con questa pubblicazione dal solerte e valente Segretario della 11. Deputazione di Storia Patria per la Liguria. Non credo di offendere l’amor proprio degli egregi studiosi di storia ligure, affermando clie nessuno si mostrava preparato meglio del Vitale ad assolvere l’arduo compito. XJn lavoro di tal genere non si improvvisa ; esso è il compendio di una lunga, paziente e intelligente attività. Per una rassegna come questa non basta mettere insieme delle schede e fare l’elenco delle opere maggiori e minori, buone e cattive, utili e inutili stampate nel ventennio; bisogna penetrarne lo spirito, rivivere tutta la lunga serie degli ardimenti, degli sforzi tenaci, delle imprese vittoriose, delle discordie deprimenti, delle sconfìtte dolorose e delle reazioni eroiche di un popolo che ha contribuito largamente, in tutti i campi, al progresso umano ed ha espresso dal suo seno uomini, la cui fama forse non morrà. Nell’instancabile attività che svolge in Genova da oltre un quarto di secolo, il Vitale ha trattato da maestro molti argomenti fondamentali della storia genovese e ligure, dal Medio evo al Risorgimento ; e la perspicacia, la diligenza, l’equilibrio, di cui ha dato prova, gli conferiscono quell’autorità di giudicare in materia, che tutti gli studiosi seri e disinteressati da molto tempo gli riconoscono. La materia ampia e multiforme è stata ripartita dall’Autore nel modo che segue : 1) Opere generali ; 2) Il Medio evo e le sue fonti ; 3) L’età comunale ; 4) L’età dei Dogi perpetui ; 5) L’età dei Dogi biennali; 6) La fine dell’autonomia. Ogni capitolo è stato suddiviso in paragrafi, di modo che il prospetto completo dei capitoli e dei paragrafi dà al lettore una visione chiara e completa dei momenti essenziali della storia genovese e ligure dall’alto medioevo all’annessione della Liguria al Regno di Sardegna. Entro questa cornice 1? A SS KG N A BI EL i OGR A Fi CA 197 sono collocate le opere secondo gli argomenti trattati. Come è facile intuire, non tutti i punti sono stati studiati con la medesima ampiezza ; si può dire anzi che valga anche per la Storia, la legge del maggior valore. L’età gloriosa della storia genovese, che va dalle Crociate alle vittorie della Meloria e di Cùrzola, è quella che attrae soprattutto l’attenzione degli studiosi. Quindi il progetto di una nuova edizione dei Libri Jurium rimasto, pur troppo, ineseguito, il tentativo di pubblicare un Codice Diplomatico genovese, l’edizione nazionale degli Annali, la traduzione procurata dal Comune di Genova, la pubblicazione dei Protocolli notarili attestanti « con la prova documentaria, l’assoluto dominio commerciale e marittimo italiano nel Mediterraneo attraverso i secoli XII e XIII » sono esaminati e giudicati con la chiarezza, la precisione, la competenza di chi ha familiari tutti gli argomenti. Quanto si dice per l’alto Medio evo si può ripetere per l’età comunale. Nell’esame delle numerose opere di Stona jiolitica e di Storia commerciale ed economica relative ai secoli XII e XIII pubblicate nel ventennio il Vitale mostra padronanza assoluta della materia, sia discutendo il contenuto delle opere prese in esame, sia integrandone e correggendone le conclusioni. Se gli ultimi decenni del secolo XIII segnano l’apogeo della potenza genovese, i primi del secolo XIV segnano l’inizio della parabola discendente. Guelfi e Ghibellini si combattono senza posa ed aprono la via alle Signorie straniere. Alle famiglie dell’antica nobiltà, escluse dalle cariche supreme, sottentrano uomini nuovi, che si contendono aspramente il dominio della Repubblica. La creazione dei Dogi, che dovrebbero tenere il potere a vita, ma che hanno troppo spesso durate effimere, invece di diminuire, accresce il disordine e la confusione. La bibliografìa del secolo XIV nel periodo esaminato dal Vitale si riduce a pochi articoli ed a compilazioni di scarso valore scientifico. Meno scarsa, ma tuttavia assai limitata, la bibliografìa per il secolo XV. Gli argomenti più e meglio trattati sono stati quelli relativi ai viaggiatori e agli scopritori di nuove terre e specialmente quelli che si aggirano intorno alla personalità e ai viaggi di Cristoforo Colombo. Senza tener conto delle divagazioni, talvolta comiche, di alcuni testardi negatori della genovesità di Colombo, le opere pubblicate nel ventennio su tale argomento dovrebbero « aver chiuso per sempre ogni discussione ». La vita genovese del periodo che corre tra la discesa di Carlo Vili e la riforma doriana è stata trattata e illustrata in opere di mole assai varia, condotte per lo più sulle fonti dirette, con metodo rigorosamente critico. Dalla riforma del 1528 al tempo della guerra per la successione d’Austria, per lo spazio di oltre due secoli, la bibliografia si fa di nuovo scarsa. Non mancano, senza dubbio, opere pregevoli, die illustrano momenti e aspetti diversi della vita genovese, 198 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA tuttavia molti problemi attendono ancora la soluzione. Abbondante, vivace e qualche volta polemica è la storiografìa relativa al Balilla e all’atteggiamento della nobiltà e del popolo genovese di fronte alla prepotenza austriaca. Di questo e del periodo seguente, particolarmente interessante e largamente trattato, ΓΑ. traccia un quadro vivo e fedele, classificando le opere che si riferiscono alla « fine dell’autonomia » in tre gruppi a) gli ultimi anni della repubblica aristocratica ; b) la repubblica ligure democratica ; c) l’impero napoleonico e l’annessione al Piemonte. Tutto quanto è stato stampato in monografie, pubblicazioni periodiche, giornali settimanali o quotidiani ecc., che presenti qualche interesse è stato registrato, interpretato e valutato con un’esattezza e una chiarezza che non si potrebbero desiderare migliori. Merito grandissimo di questa Rassegna è l’organicità, la vita che l’Autore lia- saputo infonderle, interpretando, sviscerando, fondendo e qualche volta correggendo e completando i punti oscuri o lacunosi. Nulla è sfuggito al diligentissimo Autore. Di tutte le opere ha dato insieme con un succoso cenno riassuntivo un giudizio netto e^ preciso : quando ha dovuto segnalare imperfezioni o deficienze, lo ha fatto con quel garbo che non lascia amarezza. Gli studiosi di storia genovése e ligure debbono essere grati al Vitale, che ha fornito loro una guida sicura, a cui potranno sempre ricorrere con piena fiducia, se vorranno percorrere utilmente la via aspra e difficile. C. BORNATE Domenico Cambiaso, Sinodi genovesi antichi, in « Atti della Regia Deputazione di storia patria per la Liguria », vol. IV (LXYII della raccolta), fase. I, pag. 94, Genova, 1939. L’autore, Mons. Domenico-Cambiaso, archivista della Curia arcivescovile, divide il suo lavoro in due parti. La prima illustra i testi relativi agli antichi sinodi; in appendice sono pubblicati due interessanti documenti: l’uno del 28 aprile 1495 è un decreto col quale Mons. Domenico Vaccari, vicario arcivescovile, confermava ai sacerdoti la licenza di fare scuola, poiché da qualche tempo, per l’aumentare dei maestri laici, era sorto un contrasto cogli ordini religiosi, che fino al secolo XV erano stati quasi i soli ad occuparsi dell’in-segnamento, l’altro documento, del 1421, è un elenco delle chiese e dei monasteri che pagavano censi all’Arcivescovo. Nella seconda parte sono pubblicati i brani rimastici dei documenti relativi ai sinodi dal 1375 al 1400. Una pubblicazione sui sinodi antichi condotta, come questa, con precisione e profondità di indagine riesce quanto mai utile e oppor- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 199 tuna. Infatti, come anche 1’Autore fa notare nell’introduzione, ohi si occupò in passato dei sinodi antichi genovesi (per esempio l’Acci-nelli nel suo lavoro Sinodi Diocesani tenuti in Genova) uè enumerò solo una dozzina dal 121G al 1683, mentre nel suo libro il Cambiaso ne enumera altrettanti benché restringa la sua indagine al periodo anteriore al 1400. Diligentissima, quindi, la ricerca e notevole il contributo portato dal C-ambiaso con la sua opera. Esaminiamo ora brevemente il contenuto dell’opera. Nella prima parte il Cambiaso mette in chiaro (pianto di più importante è stato decretato nei vari Sinodi: in quello del vescovo Ai-raldo Guaraco (1097-1116), si discusse anche sulle decime; in quello dell’Arcivescovo Ottone Ghiglini (1237) sulle disposizioni ordinate da Papa Innocenzo III e sulla crociata; e di quello dell’arcivescovo Giovanni Rossi (1248) avvenuto in semplice forma di adunanza di clero, non si conoscono le disposizioni; così pure non sappiamo di che trattasse quello del B. Giacomo di Varazze (1293) di cui andò perduto il testo, non convincendoci l’elenco degli argomenti che dà l’Ac-cinelli, senza portare documenti. In quello di Porc li etto Spinola (1310) tra l’altro si rinnovò una convenzione preesistente col comune di Genova circa i privilegi del clero, e quello dell’anno seguente voluto dal Papa Clemente V, tenuto dallo stesso arcivescovo, fu come una preparazione al XV Concilio Ecumenico. Il Cambiaso tratta poi a lungo del Sinodo importantissimo tenuto nel 1375 da Andrea della Torre. Poiché ci resta il testo dei documenti ad esso relativi, sappiamo che si occupò del culto della SS. Eucarestia, delle principali feste, del matrimonio, del Clero, dei digiuni e delle astinenze, delle decime e cantegore (suonate di devote canzoni per raccogliere offerte in suffragio delle anime), dei mendicanti, dell’usura e magia e delle chiese di Gius-patronato dell’arcivescovo. Infine l’autore dà cenno di quattro Sinodi tenuti dal 1377 al 1400 : cioè di uno tenuto ancora dallo stesso Andrea della Torre nel 1377, di un secondo deir Arcivescovo Lanfranco Sacco del 1381, di un terzo di Giacomo Fieschi, del 1385, di un quarto dello stesso arcivescovo del 1400. Le notizie esposte di ciascun Sinodo sono chiare e precise e tali da rendere il lavoro degno del nome che il Cambiaso si acquistò con altri suoi scritti. Ci permettiamo però qualche breve osservazione. A proposito del Sinodo del 1216 il Cambiaso dice giustamente che seguì al quarto Concilio di Laterano; ciò che risulta anche dalla Storia Universale della Chiesa dell’IIenrion (x), mentre il Rossi parlando dei Sinodi genovesi (2) dice, erroneamente, che si trattava del III. (!) Lugano, 1810, vol. Ili, pag. 255. Il primo concilio di Laterano fu nel 1123; il secondo nel 1139; il terzo nel 1179 e il quarto nel 1215. (2) V. Oli Statuti della Liguria, in A.S.L.S.P., vol. XIV, pag. 121. 200 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Aggiungiamo però che il Va ragine parla di questo Sinodo brevemente, nella vita dell-Arcivescovo Ottone (3). A proposito del Sinodo del 1293, v’è da aggiungere che il Rossi lo attribuisce al 1291. Quand'anche il Cambiaso sia sicuro che la data da lui proposta sia esatta, avremmo apprezzato la dimostrazione delPerrore. Inoltre, a proposito dell-unica disposizione conosciuta di tale Sinodo, tramandataci dal libro VI degli Statuti genovesi di Pera (pubblicati dal Promis), è bene fare notare come i detti Statuti risalgano al 1301 (erroneamente portano la data del 1291 (4)), cioè siano di poco posteriore al Sinodo in questione e perciò degni della massima fede. A proposito del Sinodo del 1310 il Cambiaso non dice una cosa assai interessante che i Vescovi suffraga nei, gli Abati e il Clero decisero che si dovesse osservare anche in seguito inter ìaieos et clericos, et etiam inter clericos et clericos, ecc., Pantica consuetudine confermata. da quel Capitolo degli Statuti di Pera che comincia : si al· aliqua persona qui laudem vel sententiam fuerit consecuta (5). Forse però al pur diligente autore sfuggirono quei brevi accenni che al Rossi comunicava il dotto L. T. Belgrano e che venivano stampati negli Statuti della Liguria, vol. XIV, degli Atti della Soc. Lig. di Storia Patria, all’articolo: Genova. XulPaltro ci resta da osservare circa questa prima parte : e poco circa la pubblicazione dei testi relativi ai Sinodi esaminati. Possiamo solo lodare Fautore per la fatica affrontata e il buon risultato ottenuto (6). Con questa opera, che completa in certo modo le due illustrazioni dei Registri arcivescovili fatte dal Belgrano (7) è compiuto un nuovo e notevole passo avanti per la storia ecclesiastica della· Liguria e dell'Italia; non ci resta che d'augurarci che Fautore voglia proseguire l'opera intrapresa pubblicando e illustrando i testi rimasti dei successi Sinodi genovesi. Nilo Calvini (3) Chron. Gen., in Muratori. R.I.S., IX, 45. (4) per ja correzione di questa data vedi A.S.L.S.P., vol. II, parte I, pagina 358. (5) Vedi Statuti di Pera, pubbl. dal Promis, L. II, cap. XXV : vedi andie Rossi Gir, Gli Statuti della Liguria. in A.S.L.S.P., vol. XIV, pag. 244. (6) Questi testi sono quasi completamente inediti perchè Tunica pubblicazione relativa ad essi è quella intitolata : Synodi diocesanee et provinciales editae atque ineditae S. Genuensis ecclesiae : accedunt acta et decreta Visitationis Franeisci Bossii ep. Xovariensis, Genuae. Typ. Archiepiscopali : a cura dei P.P. Spotorno. Pendola e ab. Sbertoli. Pubblicati nel 1S33. Ma in questa, dei Sinodi anteriori al 1574 (cioè di quelli esaminati dal Cambiaso) non vi sono che pochi cenni e molti non sono neppure ricordati. t~) Pubblicati in A.S.L.S.P., rispettivamente vol. II e XVIII. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 201 Atti della Società Economica di Chiavari, Anno 1938-XVI. Gli Atti della Società Economica di Chiavari del 1938 sono, come i precedenti, di piacevole lettura. Alle notizie riguardanti la vita interna del sodalizio chiava rese, che tante benemerenze s’è acquistato nel campo culturale ed economico, seguono alcuni scritti che meritano d’essere ricordati. Mario De Marco vi inserisce un articolo riguardante « Il castello di Chiavari » con notizie sull’antica mole guerresca che Genova eresse nella riviera orientale a guardia di quelle coste. Sull’« Osservatorio Metereologico del Seminario di Chiavari », riferisce dati e informazioni G. Sanguineti, mentre Luigi Sanguineti. tornando su un argomento che interessa quanti si occupano del Santuario della Madonna dell’Orto, dice : « Dov’era situata in origine l’edicola di N. Signora ». I lavori di restauro della monumentale facciata della Cattedrale hanno rimesso sul tappeto la dibattuta questione e hanno fornito l’argomento convincente che la risolve, mostrando l’arco dell’antica edicola in cui fu affrescata, per la prima volta, l’immagine taumaturga. E tale ritrovamento dimostra che, a ragione, il nobile Achille Costaguta, nel 1641, aveva, in quel punto del muro, fatto porre un quadro della Madonna, sovrastante quello della madre sua Lucrezia Ravenna, munifica benefattrice del Santuario. Ma il meglio di questo fascicolo è dato dal saggio saporoso che Giuseppe Pessagno ha scritto sul « Settecento Chiavarese ». U settecento, osserva giustamente il Pessagno, è ancora vivo nei lineamenti di Chiavari che, solo adesso, nei più recenti prettamente novecenteschi, rinnova· il suo volto. E l’anima di questa città, la sua signorile floridezza, la sua solida ricchezza ammantate di grazia fiorita, proprio nel settecento, si plasmano, s’atteggiano e si caratterizzano. Perciò lo studio di Chiavari settecentesca vale assai per farci intendere la Chiavari d’oggi, pur nel mutato clima spirituale e politico. Rassegna interessante questa, che fa agilmente passare sotto i nostri occhi gli aspetti tutti della vita chiavarese. Vi si parla così del rinnovamento edilizio che nel ’TOO, con franca decisione, s’imprende e si compie, come delle manifestazioni d’arte. È possibile, ad esempio, dimenticare la soave Madonna del ponte di Cassagna cosi tenera e lieve, nell’asprore delle rocce e dell’acque deserte? Le attività agricole per cui colli e piani s’argentan d’ulivi, verdeggiano di vigneti, spesseggiano di dorate pannocchie e ridono d’ortaglie fresche e sapide; le attività marinare per cui il mare, nell'arco bellissimo, si popola di navi colme di mercanzia : le attività 202 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA industriali pei* cui s’armano quelle navi e sorgono saponifici, cererie, fabbriche di calze, fabbriche di colla e si affermano accanto alle già antiche e floride, sono nella rassegna convenientemente illustrate. Il risveglio nel campo agricolo come in quello industriale trova il suo epilogo — nota giustamente il Pessagno — nella Società E-conati ica fondata a Chiavari nel 1791. Ma se tutte queste notizie risvegliano il nostro interesse, anche maggiore è quello che si sente leggendo quanto il Pessagno rileva nei riguardi della trasformazione sociale avvenuta a Chiavari nel secolo XVIII. La borghesia è la classe preminente e dominante e a quella si deve il benessere economico diffuso nella popolazione che lavora, produce, ma cerca e vuole l’agiato vivere, il comodo conforto e ama e sollecita le raffinatezze della civiltà. Gustose sono le pagine in cui rivive una gente provveduta e attiva, proba e accorta. Nè si dimentica in questo studio vivace e colorito, ma, nello stesso tempo, attento e preciso, di notare gli avve-nimenti^ più straordinari sia metereologici che sanitari, sia giudi ziari che militari e,politici. Con tocco delicato e suggestivo, il Pessagno presenta alla fantasia del lettore le belle ville signorili, raccolte nel folto degli alberi, rallegrate dallo zampillo garrulo delle fontane, cinte da alti muri, che un portale conchiude. E davanti a quello — ora cadente — è spontaneo l’indugio nostalgico. Leona Ravenna I NOSTRI LUTTI PAOLO ALERAME SPINOLA Si è spento a Genova il 14 agosto p. p., dopo lunga e penosa malattia, il marchese comm. Paolo Alenarne Spinola, Vice presidente della R. Deputazione. Signorile figura di gentiluomo di razza il marchese Spinola senza essere un tecnico della storia è stato veramente benemerito dei nostri studi. Egli appartenne alla nobile schiera — che purtroppo sembra costantemente assottigliarsi — di quei discendenti dell’antico patriziato genovese e ligure i quali sentono profondamente l’orgoglio della parte che le loro benemerite famiglie hanno avuto nel passato glorioso della città e della regione e confondono in un solo amore i ricordi della propria casa e quelli della patria. Lettore appassionato di opere storiche, aveva non mediocre conoscenza delle vicende della repubblica ligure, massime in rapporto alla parte avuta dai diversi rami della sua storica famiglia. Ma la sua benemerenza maggiore verso gli studi storici è rappresentata dall’opera costante, diligente, zelantissima data per oltre 1111 quarantennio alla Società Ligure poi R. Deputazione di Storia Patria. Entrato a far parte della Società il 23 febbraio 1896, era — e ci teneva — il più antico dei soci; da molti anni appartenente al Consiglio Direttivo, era Vicepresidente dal 1929 e in tale carica fu conservato anche quando la Società si trasformò in R. Deputazione. Appena en trato nel Consiglio Direttivo gli fu assegnata la funzione di tesoriere e amministratore alla quale attese con appassionato zelo e impareggiabile diligenza dedicandovi costantemente qualche ora della sua purtroppo laboriosa giornata. Egli è stato così l’organizzatore finanziario della Società Ligure la quale deve in gran parte a Lui e alla sua saggia amministrazione se pur con mezzi molto limitati, ha potuto compiere la serie delle pubblicazioni che le danno un posto molto onorevole tra gli istituti storici italiani. Accademico promotore dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, Membro della Commissione Araldica Ligure, membro o presidente di Istituti di carità, non si esagera dicendo che il suo maggiore affetto era per la Storia Patria ove finché la malattia 11011 glie- lo impedì, faceva ogni giorno l’immancabile capatina e ove era circondato dalla più affettuosa devozione. 204 I NOSTRI LUTTI Molti deputati e soci parteciparono, col Presidente e col Segretario, ai funerali. La Deputazione si inchina riverente alla memoria del gentiluomo mite e cortese, del sagace amministratore, del Vicepresidente affezionato e benemerito che lascia di sè vivo rimpianto e accorato desiderio. La K. Deputazione esprime il più profondo rammarico per la scomparsa del comm. Beppe Croce socio vitalizio. APPUNTI PER UNA BIBLIOGRAFIA MAZZINIANA Opere e scritti su G. Mazzini pubblicati all’estero Wilhelm- Deutsqh, Das Werdcn des italianischen Staates. Wien-L,eipzig, Wilhelm Braumuller. Verlag, 1036. Nel volume c’è un accenno al Mazzini e alla sua opera. Una cosa sola parla in favore del Deutsch, diremo parafrasando oiò che egli dice del Mazzini, la buona volontà messa in un lavoretto che è risultato forse inferiore all’impegno con cui fu fatto. Gwilym O. Griffith, Mazzini’s prophétie, in « Manchester », 9 gennaio 1939. A proposito dell’attuale crisi europea, il Griffith richiama (ad ammonimento e ad incitamento) alcuni giudizi.del Mazzini che hanno ora valore di profezia. « Corvinia » di Budapest, del febbraio 1939, comunica che, nel corso inferiore di Alta Cultura, organizzato dall’istituto Italiano di Cultura per l’Ungheria, si sono tenute parecchie conferenze, tra le quali una sul Pensiero filosòfico e religioso di G. Mazzini,'dal prof. Rodolfo Mosca. « Il Mattino d’Italia », Buenos Ayres, 8 marzo 1939, dà notizia delle cerimonie che la Famiglia Genovese avrebbe fatte in onore di G. Mazzini il 10 marzo, e in alcuni numeri reca stelloncini contenenti pensieri e vaticini del Grande Genovese. La- politica francese durante il Risorgimento in «Progresso Italo-Americano », New-Jork, 18 aprile 1939. Ricorda l’atteggiamento del Mazzini nei riguardi di Napoleone III, nel 1859. Adolf Saager ha tenuto alla Radio di Berna una conversazione su Mazzini in Schweizer Exil. Ne danno notizia: « Schweizer Radio Zeitung », Zo-fingen, G maggio 1939 e « Bund Ab Bl. », Berna, 22 maggio 1939. Stringfellow Barr, Life of Mazzini, in « Weekly News », Roma, 1 luglio 1939. Breve cenno biografico. Opere e scritti su G. Mazzini pubblicati in Italia G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, volumi LXXVIII e LXXVIX; Epistolario, volumi XLVII e XLVIII; e il I e II volume ùeìY Appendice. G. Mazzini, Opere, vol. II, Scritti, a cura di L. Salvatorelli, Milano, Rizzoli, 1939. Anche queste pagine che il S. scrive sulle idee del Mazzini qiale introduzione ad una sapiente scelta degli Scritti del Genovese, meritano il più ampio consenso. Emilia Morbilli, Mazzini e Lamennais, in « Camicia Rossa », Roma, dicembre 1938. Bella o notevole per il suo contenuto è la lettera del Mazzini — finora inedita — che la Morelli pubblica in quest’articolo. 206 APPUNTI Francesco Guerri, Le « naturali aspirazioni del popolo italiano », in « Corsica antica e moderna», Livorno, novèmbre-dicembre 1938. Riporta una lettera di G. Mazzini del dicembre 1871, nella quale il Grande fa una precisa e vibrata requisitoria contro la Francia: «ipocrita, cinica e corrotta.». Integralmente o parzialmente, questa lettera è stata riprodotta dalla massima parte dei giornali italiani. Pietro Savio, Spigolature Cappuccine alVArchivio Vaticano, in « L’Italia Francescana », Roma, Gennaio-Febbraio 1938. Si rende nota una serie di rapporti politici elle si trasmettevano da persona residente in Francia al Governo Pontificio, riferentisi all’azione svolta dal Mazzini dall’ottobre 1©38 ai luglio ’39 e uno solo del 27 luglio 1842. Bellissima è una lettera del Mazzini al Marliaini, e importanti e interessanti- sono tutte le notizie che da questo scritto si ricavano. Due lettere di Mazzini a Domenico Mauro, in « Cronaca di Calabria », Cosenza, 12 febbraio 1939 e in « L’Italiano », Torino, 16 febbraio. In queste lettere — scritte dal Mazzini nel 1859 — ancora una volta — esplicitamente — il Grande Apostolo dichiara secondaria la questione della forma di governo, affermando invece essere questione vitale · Viniziativa italiana. Il valore e la funzione àeU‘iniziativa mazziniana, e italiana rileva Orlando Danese nel «Telegrafo», Livorno, 26 febbraio 1939. Una lettera del Mazzini, scritta il 30 aprile 1S48, da Milano, è messa in vendita. «Libri antichi e moderni, Autografi, Stampe, Pergamene», Napoli, aprile 1939, ne danno l’annuncio. Francesco Orestano, Lettera inedita di G. Mazzini, in «Gazzetta del Popolo», Torino, 25 aprile, e in «Corriere Mercantile», Genova, 25 aprile; «Popolo della Spezia », La Spezia, 2 maggio 1939. La -lettera fu scritta dal Mazzini il 29 marzo 1868. Da questa lettera prende lo spunto Paulo Aletino per scrivere un buon articolo: Realtà e aspirazioni di ieri e di oggi, in «Regime Fascista», Cremona, 12 maggio 1939. Arnaldo Cervesato, G. Mazzini e la nostra era, Roma, Ente Studi Mazziniani « Pensiero e Azione », 193S. Anche in questo volume, il Cervesato porta l’ampia conoscenza dell’argomento e una chiara, efficace esposizione. Pantaleo Caraballese, L'idealismo italiano, Napoli, Loffredo, 1938. Le pagine che il Caraballese dedica a G. Mazzini sono la più limpida valutazione e la più netta rivalutazione del pensiero filosofico del Mazzini: incompreso, negato, distrutto anche da molti che pur intendevano comprendere ed esaltare «il più profondo spirito del nostro Risorgimento». Scrive il Caraballese: « Senzsj la teoria Mazziniana che corona e riassume le precedenti teorie vissute dal pensiero italiano, non si capisce la pratica della unificazione e indipendenza d’Italia, che pur pare così eterogenea a quella» teoria» e ancora: «anche oggi l’italiana rivoluzione se veramente vuol essere italiana e universale, deve avere ancora la teoria di Mazzini a fondamento». Una conferenza dallo stesso Caraballese tenuta a Genova su La originalità della filosofiti italiana nel pensiero di G. Mazzini svolge i concetti contenuti nel volume. Arturo Codignola, Rubattino, Bologna, Cappelli, 193S. L’azione e il pensiero del Rubattino sono permeate dall’ideale mazziniano: però si segnala qui la monografia di Colui che dette il «Cagliari» al Pisacane e il «Lombardo» e il «Piemonte» a Garibaldi. Per i sentimenti del Rubattino nei riguardi del Mazzini si legga quanto il Codignola scrive nel «Lavoro» del 2 aprile 1939. APPUNTI 207 Leon a Ravenna, II gionvalismo mazziniano. (Note ed appunti). Firenze, Le Mounier, 1030. (Collezione di studi e documenti di Storia del Risorgimento, diretta da G. Gentile e Μ. Menghini). Luigi Chiarini e Rodolfo Jacuzio Ristori, 1 Vespri letterari, Roma, Ediz. « Quadrivio », 1939. In questa Antologia misogallica, trova, naturalmente, posto quanto il Mazzini scrisse nei riguardi della Francia. Articoli vari m riviste e giornali Arnaldo Cervesato, Mazzini contro il comuniSmo, in «Il Nazionale», Roma, nov.dic., 193S. È una variazione puramente formale di altri articoli del Cervesato già segnalati nei precedenti fascicoli. I Paolo Leone, L'espansione dell*Italia preconizzata da Cavour e da Mazzini, in « Il Resto del Carlino », Bologna, 10 dicembre 1938. Richiama il noto scritto dal Mazzini pubblicato nella «Roma del Popolo». M. P., La Corsica e la Carboneria italiana in un carteggio inedito del R. Archivio di Cagliari, iu «Unione Sarda», Cagliari, 21 dicembre 1938. Anche se si novelleggia, secondo certi sistemi polizieschi, di un viaggio del Mazzini in Corsica nel 1833, non perdono valore queste informazioni che vengono ora in luce. Commentatore, G. Mazzini e una scuola italiana a Londra, in « Corriere Istriano », Pola, 28 dicembre 1938. Eppure chissà quanti ne sanno Èpiche meno di quanto — ed è poco — qui è detto. Lucilla Antonelli, Elena Sacelli, in « Regime Fascista », Cremona, 2G dicembre 1938 e « La Voce di Mantova », Mantova, 29 dicembre 1938. Mazziniana come il marito Achille, la Sacelli è una bella figura di patriota. Antonio Giuriolo, Un avvocato vicentino e l'educazione dì G. Mazzini, in <( Vedetta Fascista », Vicenza. 30 dicembre 1938. Giacomo Breganze, ascoltato consigliere di Maria Mazzini per l’educazoine di Giuseppe Mazzini, è rievocato 'dal Giuriolo. Lina Gassparini, Rapporti della polizia segreta austriaca in Piemonti,e nel 1857' e 1858, in « Rassegna Storica del Risorgimento », Roma, Dicembre 1938- Rapporti di polizia interessantissimi anche nei riguardi del Mazzini e del suo partito. Paulo Aletino, Le grandi idealità creano cose grandi, in « Regime Fascista », Cremona, 4 gennaio 1939. L'idealo mazziniano — secondo 1*Aletino — ò il più grande contributo alla formazione dell’unità italiana. Pietro Paolo Trompeo, Mazzini sorride, in «Omnibus», Milano, 7 gennaio 1939. Spunti tolti dal carteggio del Mazzini con Daniele Stern. A. Zaniboni, Mazzini e la Sidoli, in « Giornale di Genova », Genova, 8 gennaio 1939. Senza nuovi documenti, non si può raccontare nulla di nuovo jntorno ai rapporti Maz-zini-Sidoli. Però si può tacere. 208 APPUNTI* Paulo Aletino, Mazzini e il diritto coloniale d’Italia, in « Regime Fascista », Cremona, 11 gennaio 1939. Non c’è questione vitale per l’Italia sulla quale il Mazzini non abbia data la direttiva di marcia. L’articolo ohe qui si ricorda prova tale verità nel oa.mpo coloniale. Paolo Leone, L’antifrancesi smo di G. Mazzini, in « Il Resto del Carlino », Bologna, 13 gennaio 1939. La lineare coerenza dell’atteggiamento del Mazzini nei riguardi della Francia è qui esposta in netto rilievo, specie nel contrasto con la politica del Cavour. A. B., Mazzini uomo e apostolo, in « Grido d’Italia », Genova, 15 gennaio 1939. Contiene alcune notazioni.... sul fascino del Mazzini. Claudio Isopescu, Nicola Balcescu, in «Popolo di Brescia», Brescia, 15 gennaio e in « Voce di Bergamo », Bergamo, 17 gennaio 1939. Nicola Balcescu (mazziniano romeno» dice il sottotitolo e indica la ragione per cui lo si rioorda in questi appunti. Antifra ncesi-smo di G. Mazzini, in « Corriere Eritreo », Asmara, 20 gennaio 1939. Riporta uno scritto di S. A. Castellani già pubblicato sul «Corriere Padano». Pietro Crespi, Mazzini e Francia, in « Libro e Moschetto », Milano, 21 gennaio 1939. Slegato e di scarso contenuto : tuttavia non inutile. F. M. Vie, La musica nel pernierò mazziniano, in « Vedetta d'Italia », Fiume, 29 gennaio 1939. Alcune delle consuete e consunte osservazioni ricompaiono in questo brevissimo articolo. A. Gancia, L’unità europea e Mazzini, in « Grido d’Italia », Genova, 30 gennaio 1939. Il sottotitolo dice: «Una fiera lettera dei Corsi alla Costituente romana» ed è quella lettera e la risposta del Mazzini l’argomento principale dello scritto citato. U. RiparbeLli, Italia, Germania, Polonia, in « Grido d’Italia », Genova, 20 gennaio 1939. Vi si parla della «Giovine Europa» e del «Patto di fratellanza» steso dal Mazzini. Arnaldo Cervesato, Mazzini e la■ mistica del dovere, in « Conquiste d’impero », Roma, nov.-dic. 1938 e in « Grido d’Italia », Genova, 30 gennaio e 15 febbraio 1939. In questo scritto, sono indicati i valori spirituali della vita, secondo il Mazzini. Pauxo Aletino, L’espiazione nella Storia, in «Regime Fascista», Cremona, 2 febbraio 1939. Mazzini profeta e giudice di Napoleone III: è l’argomento del presente articolo. Giuseppe Intelisano, Volontari italiani in Spagna un secolo fa, in « Popolo di Sicilia », Catania, 2 febbraio 1939. La partecipazione di volontari italiani al moto del 1822 in Ispagna e poi alla guerra civile del ’33-’40 dà modo all’articolista di esaltare il valore italiano e di ricordare un giudizio del Mazzini su quei combattenti, molti dei quali erano seguaci suoi- Franco Caburi, Napoleone III cospiratore e carbonaro, in « Il Mediterraneo », Roma, 4 febbraio 1939. « Ma a proposito delle società segrete che allora [allora è il periodo che va dal 1827 al 1830] fiorivano in tutta la penisola, bisogna distinguere: Mazzini, uomo superiore, aveva organizzato il suo esercito segreto in due corpi, l’uno dei quali ignorava l’esistenza dell’altro: APPUNTI 209 i patrioti che s’impegnavano a rovesciare i poteTi stabiliti dal trattato di Vienna, ad abbattere il dominio temporale del Papa, a sostituire al dispotismo la libertà e a istituire dei governi nazionali ; e i veri settari in piccolissimo numero, decisi a far di tutto e a commettere qualsiasi atto di violenza per la redenzione della patria». Lo sapevate? No. Caburi sì, e l’insegna, senza distinzione, a tutti. Timo, 1 tentativi di accordo fra Vittorio Emanuele, Garibaldi e Mazzini, in « Lavoro », Genova, 6 febbraio 1939. Accenna a cose che Diamilla Muller ha reso note da tempo: i maneggi, cioè, fatti, nel 1864, per stabilire accordi fra i tre grandi ricordati. Rodolfo Solari, Gli occhi di Mazzini, in « Il Telegrafo », Livorno, 11 febbraio 1939. Quante citazioni per descrivere gli occhi del Mazzini 1 La questione — bisogna riconoscerlo — è di vitale importanza. Giorgio Alessandroni, Mazzini, in « Il Periodico », Ferrara, 12 febbraio 1939. Questioni oziose e domande inconcludenti quelle ohe 1Ά. si propone ed egli stesso, entusiasta com’è del Mazzini, lo deve facilmente capire. A. Gancia, La cessione di 'Nizza e Savoia e Mazzini, in « Grido d’Italia », Genova, 15 febbraio 1939. Citazione molto abbondante di un articolo del Mazzini apparso in Pensiero ed Azione. Gerardo Vernarelli, Veroico scontro tra una piccola e una grande Repubblica, in « Messaggero », 28 febbraio 1939. Ricorda la difesa della Repubblica romana. Uultimo giornale di G. Mazzini, in « Camicia Rossa », Roma, febbraio 1939. Brevissimo richiamo alla «Roma del Popolo». Osvaldo Costanzi, Qualche accenno sulla stampa reazionaria ai tempi della « Giovane Italia », in « Il giornalismo », Udine, Gennaio-Marzo 1939. §i conclude questo scritto così: «.... l’idea unitaria su cui il Mazzini insisteva, pur combattuta, avversata, talvolta maledetta, riusoiva ad insinuarsi (sia pur modificata al punto di divenir© solo una visione d’insieme e lontana dall’idea di unità politica) persino nei redattori della stampa reazionaria». Armando Lodolini, G. Mazzini e la Polonia, in « Giornale dei ragazzi ». Roma, 4 marzo 1939. Se il Lodolini presentasse, ai ragazzi italiani, tutto il Mazzini, come ha. fatto in questa paginetta, meriterebbe la gratitudine di tutti i piccoli e anche dei meno piccoli.... Guelfo Andalò, Mazzini e Filippo Buonarroti, in « Corriere Padano », Ferrara, 5 maggio 1939. Espone, con acume, il vero morivo del disaccordo tra il Mazzini e il Buonarroti. Iniziativa e concezione italiana quella del Mazzini per giungere all’unità e alla, grandezza dell’Italia nuova ; ideologie e concezioni francesi quelle del Buonarroti che pur operava per la liberazione della Patria comune. Augusto Tridenti, Il 67° anniversario della morte di G. Mazzini, in « Popolo Valtelinese », Sondrio, 8 marzo 1939. S. Francesco d’Assisi e Giuseppe Maztini sono accomunati in un’esaltazione del Tridenti 210 appunti M, L’esilio dei fratelli Ruffini, in « Eoo della Riviera », San Remo, 8 marzo 193S* . , . «. Spigolature, ma davvero non primizie, dal volume del Cagnacci: G. Mazzini e i /rateili Ruffitìi, uscito nel 1893. Renato Verdina, Preludi e spunti mazziniani, in « La Gazzetta del Lago Maggiore », Intra, 8 marzo 1939. Il Verdina coglie qua e là nel folto degli scritti mazziniani, qualche idea.... «spunti — dice — che possono sembrare preludi». JT marzo 1939 : la ricorrenza dette luogo alle consuete manifestazioni a Sta-glieno. All’Istituto Mazziniano il Prof. Costantino Panigada tenne una conferenza sostanziosa e viva su « G. Mazzini e la repubblica Romana ». È pubblicata in questa Rivista, fase. II, 1939. Anche nella stampa — oltre alla cronaca delle cerimonie — apparvero scritti intorno al Mazzini. Ricordo: «La Gazzetta», Messina, 10 ma/rzo 1939; «L’Italiano», Torino; «Piccolo», Trieste; «Liguria», Savona; «Lavoro», Genova; «Piccolo della Sera», Trieste. Umberto Riparbelli, X marzo 1812-1939 - Alazzinì, in « Grido d’Italia », 15 marzo 1939. Rileva il contributo dato alla letteratura mazziniana da pensatori, scrittori e poeti di tutto il mondo, e afferma il contenuto filosofico della dottrina del Maestro. Timo, Come la salma di G. Mazzini potè essere esposta al pubblico un anno dopo la morte, in « Il Lavoro », 10 marzo 1939. _ . . Racconta, l’articolista, le vicende e le polemiche riguardanti i procedimenti di Paolo Gonni per la conservazione della salma di G., Mazzini. Renzo Baccino, La prima scuola per italiani alVestero, in « Giornale di Genova », Genova, 10 marzo 1939. La scuola di Hatton Garden fondata e sostenuta dal Mazzini è la prima istituita per gli italiani all’estero. Orlando Danese, I petrolieri, in « Il Telegrafo », Livorno, 11 marzo 1939. Il Danese ricorda l’atteggiamento del Mazzini nei riguardi della Comune e stabilisce un confronto tra quella e la Spagna rossa, entrambe sconfitte. Arnaldo Cervesato, Da Mazzini a Tommaseo, in « Roma », Napoli, 13 marzo 1939. . . ■ . ir.+ Accenna al soggiorno del Mazzini in Corsica e al suo oramai notissimo giudizio sull italianità dell’isola. A. Gancia, Il riordinamento europeo e Mazzini, in « Grido d’Italia », Genova, 15 marzo 1939. Si rilegge sempre volentieri, sia pure a spizzico, ciò che il Mazzini ha scritto, qualunque sia l’argomento trattato, e per questo si può anche non soffermarsi sul contorno. Giovanni Maioli, La Giovane Europa, in « Resto del Carlino », Bologna, 18 marzo 1939. Si riferisce all’azione del Mazzini per il patto di fratellanza tra le associazioni nazionali italiana, germanica e polacca. BE?raDETTo Siciliani, Italia e Germania nel pensiero di G. Mazzini, in « Popolo di Trieste », Trieste, 29 marzo 1939. Nell’attuale realtà dell’«Asse» la «lettera ad un tedesco» dal titolo «Italia e Germania», dal Mazzini pubblicata nell 'Unità Italiana il 28 febbraio 1861 assume il valore di una profezia. APPUNTI 211 « Camicia Rossa y) Roma, nei numeri di febbraio, marzo, aprile, pubblica: Critica della Rivoluzione francese di G. Mazzini. Insistiamo sul già detto : non si loda mai abbastanza chi fa conoscere le pagine sempre vive di G. Mazzini e non si ripete mai a sufficienza, che una riga di Lui vale a farlo conoscere nella sua grandezza meglio di qualsiasi analisi critica- Alessandro Marconi, Il pensiero di Mazzini nei riguardi delVEuropa, in « Eccoci », Cremona, 4 aprile 1934. Alcune tra le più attuali questioni viste attraverso il pensiero mazziniano. P. E. Taviani, Le concezioni economiche in «Economia», Roma, n. 4, aprile 1939. Efficace ricostruzione del pensiero economico del Mazzini ed esposizione della critica dallo stesso fatta alle economie liberale, socialista e comunista. Antonio Monti, Le rivelazioni del carteggio di un cospiratore corso, in « Corriere della Sera », Milano, 6 aprile 1939, e in « L’Italiano », Torino, 8 aprile 1939. Interessante articolo ohe dà notizia di un prezioso gruppo di lettere e documenti di particolare importanza per lo studio del Risorgimento. Il carteggio di cui si parla è del La.ffond e comprende, tra le altre, lettere inedite del Mazzini e del Fabrizi, riguardanti la spedizione dei fratelli Bandiera. M. Magagnini-Marinangeli, Giuseppe Mazzini studente universitario, in « Il Popolo di Roma », Roma, 9 aprile 1939. Vi sono ricordati i fatti più salienti della vita universitaria del Mazzini. E. A. Marescotti, Primato Italico, in «San Marco», Zara, 12 e 15 aprile 1939; e in «Gazzetta di Casalmonferrato », Casalmonferrato, 22 e 29 aprile 1939. Dagli scritti del Mazzini si traggono quegli elementi con cui il Gra*nde rivendicò — a gloria ed auspioio — la supremazia di fede, intelletto, civiltà, potenza dell'Italia· sul mondo. Silvio Peroni, Le aspirazioni nazionali nel pensiero di G. Mazzini, in « Volontà. d’Italia », Roma, 30 marzo 1930 e in « Sannio Fascista », Benevento, 15 aprile 1939. Vi sono rapidamente elencate e fervidamente sentite. M. Guglielmo Tocco, Le tredici vittime, in «Ora», Palermo, 15 aprile 1939. Sono le tredici vittime dell’insurrezione palermitana del 4 aprile 1860: la prima obbedienza all’imperativo mazziniano: «osate». A. Gancia, Roosevelt e Mazzini, in « Grido d’Italia », Genova, 30 aprile 1930. Considerazioni sul recente messaggio del presidente degli Stati Uniti. Aldo Parini, I Rufftni, in « Il Giornale della domenica », Roma, 30 aprile 1939. Si segnala, perchè ciò che tooca i Ruffini, poco o molto, riguarda anche il Mozzini. Armando Lodolini, DalVeconomia liberale alVeconomia liberatrice, in « Giovanissima », Roma, marzo 1939; e DalVeconomia utilitaria aWeconomia corporata, in « Giovanissima », Roma, aprile 1939. Mazzini economista, illustrato con limpida pairola, nei suoi elementi fondamentali, ai giovani. Angela Maria Banfi, Francesca Mazzini, in « Azione Muliebre », Milano, aprile 1939. Tratteggia li figura di Francesca, la più intelligente, la più forte e la più infelice delle sorelle del Mazzini. 212 APPUNTI K. De Μ., Maminì i pochi e i molti, in «Leonardo», Firenze, aprile 193$. Breve commento alle note espressioni con cui Mussolini nel suo a Diario di guerra» si riferisce al Mazzini. R. De M. è proprio sicuro di non esagerare affermando che nel Risorgimento il popolo t assente e che quest’assenza è un fallimento per il Mazzini? Luoghi comuni come questi sono stati fugati dalla luce di una sana critica storica e duole vederli rimettere in circolazione. A. Marpicati. Dante e il Foscolo, in « Civiltà Fascista », Roma, aprile 1939. Accenna alla parte che il Maszini ebbe nell’edizione del Dante foscoliano ; fatica lunga e grave nel duro esilio sorretta da un grande amore ad due grandi* E. A. Marescotti, La donna e Vamore in G. Mazzini, in « Gazzetta di Ca-salmonf errato », Casalmonf errato, 13 e 27 maggio 1939; in «San Marco», Zara, 17 giugno 1939. Titolo abusato, abusatissime le cose che lo soritto contiene. Del volume del Quintalalie segnalato nella precedente puntata, si parla nei seguenti giornali: «Popolo di Brescia», Brescia, 7 gennaio; «Grido d I-talia », Genova, 15 gennaio; «Vedetta d’Italia», Fiume, 15 gennaio; «Il Mattino», Napoli, 15 gennaio; «Il Corriere del Tirreno», Livorno, 1S naio; «Il Popolo di Roma», Roma, 19 gennaio; «Il Piccolo», Roma, 19 gennaio; «Roma», Napoli, 19 gennaio; «Corriere Adriatico», Ancona, 19 gennaio; «Il Lavoro Fascista», Roma, 20 gennaio; «Il Corriere della Sera», Milano, 26 gennaio; «Il Lavoro», Genova, 27 gennaio; «Perseo», Milano, 1 febbraio; «Sera», Milano, 2 febbraio; «Adriatico», Pescara, 6 febbraio; «Il Mattino», Napoli, 18 febbraio; «La voce di Mantova», Mantovà, 10 marzo; «Rassegna di Cultura», Milano, marzo; « Storia e Politica Internazionale», Milano, 31 marzo; «Costruire», Roma, aprile. Pasquino, Una francese contro il generale Oudinot, in « Domenica del Cor-Milano, 20 maggio 1939. L’articolista rievoca la signora Pollet, che, infermiera negli ospedali di Roma, duran e l’assedio della repubblica, nel ’49, assistette il Mameli morente. Pietro Pancrazi, Il Mazzini scrittore, in « Corriere della Sera », Milano, 20 maggio 1939. A proposito dei Ricordi autobiografici del Mazzini, il Pancrazi segnala ι capitoli dove u Mazzini gli sembra «più personale e più vivo». Ed è guida — in questo viaggio che per molti potrà essere una scoperta — quanto mai attenta e sicura. Cesare Minicucci, La solenne rievocazione di Domenico Mauro, patriota c poeta, in «Cronaca di Calabria», Cosenza, 21 maggio 1939. Calda rievocazione del Mauro e dei fratelli suoi, membri tutti della «Giovine Italia». Felice Ragusa, Rapporto segreto di Bismark a Mazzini sulla Tunisia e il Mediterraneo, in « Belvedere », Napoli, 28 maggio 1939. Nei riguardi della Tunisia, il Bismark scrisse assennatissimamente nel 1868, operò, svolgendo il suo abile gioco politico, nel modo che tutti sanno, dieci anni dopo, nel Congresso-di Berlino. Perchè dunque entusiasmarsi per le cose che furono solamente dette? A. S., Londra come la vide cent’anni fa Giuseppe Mazzini, in « Case d’oggi », Milano, Giugno, 1938. Dall’Epistolario del Mazzini, l’articolista trae le notizie chc riguardano l’argomento indicato nel titolo. APPUNTI 213 G. Franchi, li « patatrac » del 2Jf marzo 1810, in « Ticinum », Pavia, giugno 1939. Il tentativo insurrezionale di Pavia nella notte dal 23 al 24 marzo 1870 è ricostruito dal Franchi in questo scritto al quale però occorre fare qualche riserva. C. M. FRanzero, Mazzini e Bismark, « La Germania alleata naturale del-VItalia, in « Il Giornale d’Italia », Roma, 8 giugno 1939. Riferisce il testo, oramai conosciutissimo, di una nota del Bismark al Mazzini. Ma tra il dire e il fare.... c’era l’interesse prussiano. Pauxo Aletino, Su le « Note autobiografiche » di G. Mazzini, in « Regime Fascista », Cremona, 31 maggio, in « Messaggero di Rodi », Rodi, 15 giugno e in « Grido d’Italia », Genova, 15 giugno 1939. Articolo denso e chiaro. E non è sorte che tocchi frequentemente al Ma-zzini, nella stampa quotidiana ! Giuseppe Menghi, Il Poeta del Risorgimento, in « Il Telegrafo », Livorno. 15 giugno 1939. Il Menghi intende — sulle orme dell’Oriani — esaltare l’idea e l’azione del Mazzini come vivo e perenne fluire di poesia. A. Gancia, La pace con giustizia e Mazzini, in « Il Grido d’Italia », Genova, 15 giugno 1939. Si ricorda — dall’articolista — la funzione di Roma nel mondo, quale il Mazzini la concepì e vaticinò. Tityrus, Giuseppe Mazzini e noi, in « Il Periodico », Ferrara, 18 giugno 1939. Su un argomento già un po’ liso, l’articolista dice, con lodevole brevità e chiarezza, alcune buone cose. Sordello, Mazzini e Foscolo, in « Lavoro », Genova, 24 giugno 1939. Tra l’Esule antico e Colui che all’Italia dette l’istituzione dell’esilio esistono affinità di genio, d’animo e di tempra che sono ben individuate e colte in questo interessante articolo. Spartaco Balestrieri, Mazzini e Fourier, in « La Verità », Roma, 30 giugno 1939. Cenno farraginoso e disordinato delle dottrine economiche dei due su nominati. Il B. definisce il Mazzini: «grande umanista·».... Ci sarebbe da sorridere, se tutto l’articolo non fosse pensato e scritto con presuntuosa superficialità. A. Gancia, Le « naturali aspirazioni italiane » e Mazzini, in « Il Grido d’Italia », Genova, 30 giugno 1939. Aspirazioni già indicate e rivendicate dal Mazzini: è questo che l’A. dimostra. G. B. Santo Bi Vienna per porre fine alla discordia tra la Repubblica di Genova e il Re d/i\ Sardegna-, Sua Ecc. il Sig. Marcello conte di Daun cavaliere delFinsigne ordine del Toson d'oro. Consigliere di Stato di Sua Maestà Cesarea, e Cattolica, e Governatóre di questo stato di Milano in sequela della speciale incombenza avuta dairAug.mo suo Sovrano nel particolare delFoccorso in Genova il di 11 Ge-naro deiranno passato 1726 : circa l’arresto di alcune imbarcazioni di Oneglia, avendo intesi li Ministri di Sua Maestà il Re di Sardegna, e quelli della Ser.ma Repubblica di Genova, ad oggetto di procurare come mediatore il restabilimento della pristina buona armonia, che per ragione del suddetto accidente pareva in alcuna maniera tra li due domini interrotta, ed essendosi spiegati li ministri della Repubblica Serenissima in termini adequati al desiderio-che hà avuto sua Ecc. a ciò pervenghi questa materia à quel buon, et amichevol termine, che è stato l’oggetto della mediazione da sua Maestà Cesarea e Cattolica a sua Ecc. commessa. Per tanto a ciò non resti il minor dubbio di equivoco nella communicazione dell’espressioni de ministri della Serenissima Repubblica fatte all*Ecc. sua, per sincerare quelli di sua Maestà il Re di; Sardegna le hà sua Ecc. qui estese nelli termini seguenti: La Serenissima Repubblica di Genova affine di dimostrare à sua Maestà il Re di Sardegna la grande stima, che fà della sua buona amicizia, e la cura che hà di coltivarla in ogni occasione, secondando in ciò le augustissime intenzioni di sua Maestà Cesarea, e Cattolica, concorre immantinente non solo alla restituzione di tutto ciò che fu sequestrato il dì 11 genaro dell’anno passato 1726, et il libero rilascio delle persone, che si ritrovano priggione, ma gli è di sommo dispiacere il modo, con cui in detto giorno furono eseguiti gli ordini del Governo, assicurando sua Maestà il Re di Sardegna che in ogni occasione la Repubblica procurerà di far conoscere quanto desidera conservare una sincera e perfetta corrispondenza con un sì gran Principe vicino. Interrogato poscia da sua Ecc. il Marchese don Domenico Maria Spinola, se li sentimenti letti erano quelli della Serenissima Repubblica di Genova rispose essere tali. Replicarono quelli del Re di Sardegna similmente che sua Maestà li riceverà con gradimento. Certifico io infrascritto secretario di sua Maestà Cesarea, e Cattolica, e di Guerra stato del governo di Milano, qualmente nel giorno di domenica, 6 di aprile 1727, nell’ora del corteggio, e à porta aperta, essere seguito il di (2) Ricopiato da una copia conservata nell’A. S. G., Busta Paesi, Oneglia, 354. L’originale che lo Spinola, come vedemmo, scrisse di aver mandato a Genova quando cominciavano a difondersi le aggiunte, non mi fu dato ritrovare in nessuna busta. 231 INCIDENTE DIPLOMATICO TRA GENOVA E SAVOIA sopra detto atto in questo Reggio, e Ducale Palazzo alla presenza di sua Ecc. coll’intervento del sig. Reg. marchese D. Marco Maragnone, e Lara Gran Cancigliere di questo stato delli signori Conte Gross e Cavagliere G. A. Castelli ambidue ministri di sua Maestà il Re di Sardegna e del sig. Marchese Domenico Maria Spinola pure ministro della Ser. Repubblica di Genova, e di me sopradetto segretario. Et essendomi stata fatta instanza dal detto sig. Marchese Spinola per il presente atto lo dò firmato di mia mano, e munito del solito sigillo del-l’Ecc. sua, ed in fede Baldassarre Araujo· Milano li aprile 1727 i1). (!) L’indicazione del giorno manca nella copia dell’atto. DIALETTO LIGURE I. I, Caduta e sviluppo di un g intervocalico· Il G rimane intatto di solito in ogni posizione. Abbiamo però casi di antica caduta, specialmente dopo i suoni i ed e: ryà «regale», tyaïi -« tegame », e forse stryunessu « stregoneria », a s t r y ó w « stregato » -e poi «rabbioso; furbo, scaltro, astuto », inoltre stria «strega» (v. Parodi AGI XVI 2 n. 202). In méystru da maistru (che è vivo ancora in qualche parlata) «maestro», sæta dall’it. saetta, vinti «venti», arcaico renna (scritto anche r e i η n a bisillabico) « regina », arc. v e i r i a «vigilia», fwin «faina» (da * fagina REW 3144), diu « dito », non vedo, •come il Parodi AGI XVI 2 n. 209, la caduta di un gi ma semplicemente di un g intervocalico. Sembra siasi conservato a lungo il g, nel suo succedaneo v, in Osti ή (pervia di owstlù, a(v)ustin) accanto ad A gusti ή e nell’arc. aii stu ora agustu; fo« faggio » è da f a gu attraverso * —avu, * — au, e sii vu « giogo » è da — ugu (v. Parodi AGI XVI 2 n. 202). Questo fenomeno, oltre che a parecchie lingue romanze (cfr. Guarnerio, Fonologia romanza, p. 555 n. 411), è comune pure alle lingue classiche. Nella koinè dei papiri tolemaici la caduta del γ intervocalico (specialmente dopo i suoni I ed E), che per tempo nella lingua popolare da occlusiva sonora era diventato spirante, si stabilisce già alla metà del III sec. av. Cr. (cfr. E. Mayser, Gramm. d. gr. Papyri aus der Ptolemaerzeit, Berlin-Leipzig, I 1 p. 163 sgg.): dopo vocali chiare abbiamo όλίον = ολίγον, έπιονής = επιγονής, ύιαίνομεν = ύγιαίνομεν ; dopo il suono A αναπαομένους = άναπαγομένους. Il Thumb (Die gr. Sprache in Zeitalter d. Hellenismus, Strassburg 1901, p. 134) Titiene il fenomeno per specificamente egiziano, poiché il neogreco lo mostra soltanto in poche forme isolate dialettali. Che anche nel latino volgare il g, divenuto spirante, potesse scomparire davanti ad e ed i, lo mostrano nelle iscrizioni vinti = viginti (CIL VIII 8573), maester = magister (III 14730); tracce dello stesso sviluppo davanti ad u ed o nell’interno d’una parola sono Austa — Augusta, Augusta (Vili 9877), eo accanto ad ego (Vili 13134). Del fenomeno inverso, e cioè dello sviluppo di un g davanti ad u protonico e postonico, mi occupai già in altri miei Appunti (GSLL 1936 p. 169), ai quali rimando il lettore. Aggiungerò soltanto, a proposito del rapallese lagwa «lavora», che in un codice del sec. XVII della comunale di Siena, nella « Mascherata d’un branco di villani che si lamentano delle donne che -apprezzano più li Zanni, Pantaloni e Ambrogini » (cfr. D. Merlini. Saggio DIALETTO LIGURE 233 di ricerche nella satira contro il villano, Torino 1894, p. 164 sg.) si legge un lagoriamo (noi siam pur donne del vostro paiese — che per voi lagoriamo). Anche nella koinè dei papiri tolemaici, alla caduta del γ inrervocalico sta come opposto fenomeno lo sviluppo (anaptissi) di un interno spirante γ tra due vocali quasi per eliminare l’iato. Come la caduta, così anche il nuovo sviluppo ha luogo; 1) dopo una vocale di suono cupo, κλάγω = κλαίω; 2) ma più comunemente dopo un suono chiaro (E ed I), είγερόν = ίερόν, -υγιγαίνης = ύγιαίνης ecc. (cfr. Mayser I 1 p. 167 sg.). E così pure nel latino volgare si ha congiugi = coniugi (CIL XI 1016), Troge = Troiae ecc. II. Note etimologiche e lessicali. 1. Il detto cogoletese (e forse anche di altre parlate) muùtii in bér-gamu indica « salire in cattedra» nel significato metaforico, che comunemente si dà all’espressione; la locuzione deriva evidentemente dal linguaggio della Chiesa, ove frequento ricorre la parola pergamo per pulpito (REW 6412). Il b di bèrg amu è dovuto all’influsso della sonora gutturale che segue, -cfr. brina e briùùù da * prunea (REW 6799) e così anche bago da .accanto a pagòda ecc. 2. brümessu è il « cibo che si sparge in mare per adunare i pesci, prima o durante la pesca. Esso componesi di pane, salacche e renuzza, ovvero di solo pane e cacio guasto, pestati insieme » (Casaccia, cfr. anche Olivieri, Diz. Gen., s. v.); onde brume sii «spargere il br. ». Il vocabolo deriva da * permucidu (per mucidus «muffito» v. REW 5711) attraverso un * premucidu per metatesi del r (v. i miei Appunti in GSLL 1936 p. 99 sgg., cfr. anche presiùsòa da * perexsuctióla Parodi GL 1885 p. 258); onde è più giusta la pronunzia prümessu e prümesii (anche pru.) che ancora si trova in certe parlate (per es. a Cogoleto), mentre nel gen. si è avuto il degradamento in sonora come in bàtaii (accanto a patàii), iùbàta-nów «fangoso» ecc. (cfr. Parodi AGI XVI 2 n. 219). Mucidu è passato a m tissu attraverso *mud'cu, come frassu (in ægwa frassa)«fra-■cido » da *frad’éu (cfr. Giov. Flechia AGI II 325 n. e Parodi AGI XVI 2 n. 200 e 226). Il passaggio da *bremüssu a brumessu è dovuto a metatesi vocalica (cfr. Guarnerio, Fon. rom., p. 369 n. 289). A conferma della derivazione da mucidu sta l’antico verbo imuzare, che indica l’avvelenamento delle acque con euforbia per pigliar pesci (v. G. Rossi. Glossario medioevale ligure, p. 56). Errata evidentemente è la spiegazione data da A. Ferretto e accolta dal Rossi, secondo la quale imuzare darive-rebbe da musow, ancora vivo nel dialetto di Rapallo per indicare l’erba euforbia: anzitutto, nonostante l’affermazione del Ferretto, non mi riuscì di trovare la parola a Rapallo, e poi, anche se così fosse, non da müsow, originerebbe imuzare ma, viceversa, l’euforbiacea avrebbe desunto il nome dall’azione, che compie. L’uso di avvelenare le acque con l’euforbia è antico e comune alle popolazioni mediterranee; leggo nella «Revue de la Corse» sotto il nome di Aimès (Legende et folklore en Corse, 1938, p. 262): « i pesca- 234 ANTONIO GIUSTI tori avvelenavano una volta i fiumi con foglie tritate di patelin (o lupatellu) che stordisce e uccide il pesce, il che rende la pesca assai abbondante [a. I(>83, 1689, 1760]: è il daphne gnidium L. volgarmente ’joli bois’ ». I bardi per avvelenare le acque usavano latte di lupa, cfr. il logodurese alluare (REW 5173), e i Campani, secondo Plinio (n. li. 25, 54), l’aristolochia serpentariar che aveva fama di addormentar le serpi e di uccidere i pesci. In antiche rime genovesi si trova brusmel, brusmé brusne per indicare « cosa che il pescatore getta in mare per attirarsi d’attorno i pesci »· (Giov. Flechia AGI Vili p. 335); di queste tre forme è da credere, dice il Flechia, che « la prima sia non solo più intiera, ma anche, quanto alla nasale, più genuina. Rima con berruel; e come questo sta foneticamente per berruer, così il primo per brusmer, che nell’altre due forme perde r per apocope usitata al genovese ». Hanno le due voci, brusmel e; brumes su, da ritenersi connesse l’una coll’altra'? «Il senso dice di sì, ma il s che è nella voce antica e non nella moderna fa difficoltà», commenta giustamente il Parodi GL XIII (1886) p. 12; ma il procedimento poi, con cui egli vuol provare una tale connessione, non persuade affatto. Per me è questione non ancora risoluta. 3. bit degù «buzzone, trippone», cfr. il sardo budigone (Guarnerio AGI XIV 3 p. 390), il corso budigu, il prov. boude «grosso, ven-truto », bou tega «cornamusa» (cfr. P. Malvezin, Glossaire de la langue d'oc, Paris 1908-1909, s. v.). Il vocabolo risale al tema bod (hot, cfr. lat. botulus « budello»), v. Mussafia, Beitr. zur Kund. der Nordital. Mund. im 15 Jahrh., Wien 1873, p. 35 in n., Guarnerio in «Rend, del R. Ist, Lomb.»· 49 p. 160, Giov. Flechia AGI Vili p. 335, Parodi GL XIII (1886) p. 11. In antiche rime genovesi si trova la forma boegosi (v. Flechia ib.), la quale altro non può essere che un «bud-ic-osi, col d regolarmente caduto, mentre in b il degù forse contribuì a mantenerlo il trovarsi dopo vocale tonica» (Parodi ib.). Alla medesima radice risale anche büssu (da *bud’cu, Parodi AGI XVI 2 n. 200) «voce bassa e significa il ventre» (Casaccia; cfr. le espressioni iùpise u büssu, avéi u büssu ecc.), büsun « pancione, trippone», bi'isa « sterco d’animale » (cfr. b. de vakka, b. de kavallu ecc.).. 4. derenæa a Cogoleto (e forse anche altrove) indica «dolore di schiena, dei lombi », cfr. il mil. derenera; deriva da ren,rëne (REW 7206). 5. disnà e nel contado drinà e dirnà (v. Parodi AGI XVI 2 n. 162 e 172) «desinare». Contrariamente al Parodi AGI XVI 1 n. 89, che 10 deriva, sebbene dubitativamente, da * d e s ί n u , *disinary ♦desinar, io penso all’influsso deH'afr. d i s n e r , cfr. prov. mod. d i s n a r ,. cat. dinar (v. REW 2670). 6. avéi innia « essere in ira, in uggia ecc. ». é s e i ή n i a « essere in ira, in uggia ecc. » sono forse le uniche espressioni liguri, in cui ricorre 11 vocabolo ί a da ira; il Casaccia porta in ira, che è vivo tuttora nella riviera di ponente; per r cfr. Parodi AGI XVI 2 n. 158. L’espressione dì ira dei dina (opp, d’una) persili) a « dir corna d’alcuno », che il Ca~ DIALETTO LIGURE 235 saccia registra, è certamente dotta d’origine e di uso. Per la formazione i fini a cfr. l’arc. enoio e inoio «noia, molestia, danno», che risponde ad in-odio (v. Giov. Flechia AGI Vili p. 350 e 361) e cioè i n 6 gu, cfr prov. enuegz (v. Parodi GL XIII (1886) p. 18). 7. Kasassa. « Chiamavansi casacce o case grandi alcuni oratorii eretti in Genova fin dall’anno 1200, in cui si radunavano alcuni sodalizi, detti dei Disciplinati, a suffragar i defunti ed esercitare altre opere pie. Questi confratelli col progresso del tempo, obbliando totalmente le loro sante istituzioni, conversero in seriche cappe il sacco primiero, e cominciarono ad uscir processionalmente per la città con pompa inusitata. Quindi a poco a poco crebbe talmente lo smodato ed eccedente lor lusso, che ne insorsero tosto invidie, gare, dissapori ed altri inconvenienti sì pubblici che privati, motivo per cui furono proibite» (Casaccia). Ho voluto citare integralmente la descrizione del Casaccia per l’importanza che quest’anno assunsero la kasasse genovesi con l’esposizione organizzata dal benemerito comitato. Anche il catalogo illustrato, che Orlando Grosso insieme con altri suoi valenti collaboratori fece per l’occasione uscire, merita ampia lode i1). Il vocabolo kasassa, malamente latininizzato in casatia (casatia con-fratrum si legge in uno Statuto di Sarzana p. XXXVIII, v. Rossi p. 35)’ deriva da casacia (cfr. Grandgent, Lat. volg., n. 39), allo stesso modo che da saetacium (v. REW 7499, che però non cita il vocabolo genovese) è sorto prima seassu e poi l'odierno synsu (v. Parodi AGI XVI 1 n. 125 p. 157, XVI 2 n. 138). Cfr. il loanese u riaù de Kasasse, ove il Cavalli (I toponimi del comune di Loano, Loano 1939, p. 51) annota « dal personale Casaccia o Casazza, tuttora vino nella onomastica locale, derivante, a sua volta, dal nome comune casaccia 4 confraternita ’ ». (*) Catalogo della Mostra delle Casacce genovesi, Genova 1939. Antonio Giusti (continua) RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Nino Lamboglia, Liguria Romana - Studi storico-topografici, vol. I, con 106 figure e 7 tav. f. t., 8°, pag. 280, Istituto di Studi Roma ni. 1939. L’Istituto di Studi Romani, dopo alcuni anni di una attività paziente e spesso ingrata, giunge oggi a dare il suo primo frutto tangibile veramente significativo. Il primo volume della « Liguria Romana » dell’attivo segretario della Sezione Ligure, Nino Lamboglia, è opera intesa ad illustrare, con sani criteri di informazione e di indagine, le tracce che Roma ha lasciato sul suolo ligure. È un lavoro nuovo, che potrà sorprendere molti, fin’ora indifferenti ad una Romanità inappariscente, nascosta, umile. La ricerca archeologica in Liguria deve procedere con un metodo nuovo, col metodo quasi della preistoria, come riconosceva il L. ancora nei recentissimi scavi di Ventimiglia, condotti in un senso stratigrafìco nuovo: giacché tra noi, sotto il prepotente influsso della vita locale, radicatissima, la civiltà romana si è quasi immiserita in un processo di adattamento alTambiente che trova forse pochi riscontri in Italia. E veramente solo lo studio degli insediamenti urbani costituiti sulla base del tipico sistema militare della castra-mentatio, ed i pochi edifici monumentali che i Municipi più cospicui vollero erigere nelle forme e con la tecnica dei maggiori esempi del-PUrbe, risponde a criteri che posson dirsi generici. Per il resto, dalla delimitazione topografica dei territori municipali allo studio del Vinstrumentum domestico, solo una conoscenza profonda della vita come si svolge da millenni in questa nostra terra chiusa, tale che chi non è nato tra noi non può avere, consente un’amorosa scoperta. Sicché, rileva ancora il L. con felicissimo paragone, dobbiamo noi guardare alla nostra Romanità come ad una Romanità provinciale, e ricercare con quell’amore per i relitti anche più inappariscenti che, a differenza delle altre regioni italiane, caratterizza la scienza dello scavo nelle provincie extraitaliche dell’impero. Occorre insomma che questi segni di Roma noi li studiamo con il cuore di liguri che amano anzitutto la loro terra, il loro piccolo mondo, e sanno comprenderne ed apprezzarne i limiti, e persino le angustie. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 237 Nino Lamboglia ha esperienza in particolare di antichità roma ne. Ha riconosciuto la topografia romana dell’Ingaunia prima e poi di tutta la Liguria Occidentale. Ha interrogato ogni memoria, ogni monumento e quasi ogni pietra che ricordasse l’opera di Roma tra noi. ha tutto confrontato e catalogato con diligenza e felicità di accostamenti e di ricostruzioni. Della preistoria dei Liguri anche senza aver fatto oggetto preponderante delle sue ricerche è bene informato, e sa profittare di questa sua conoscenza ai fini di una giusta valutazione della Romanità. Già in precedenti lavori di sintesi, nati da relazioni parlate e perciò ricchi di una vivacità e di un brio dialettico che qui, in un’opera di vasta mole, non sempre possiamo ritrovare, il L. insisteva su questo lato della ricerca. Anche oggi egli a tale indagine sulle radici profonde degli aspetti particolari che la Romanità riveste in Liguria, dedica notevoli pagine dell’introduzione e poi qua e là spesso accenna, pur senza dare ad essa in ogni parte forse il suo pieno sviluppo. Egli è portato naturalmente a rilevare piuttosto le tracce monumentali affioranti sul suolo ed a delinearne un quadro documentario. Di qui il ricco patrimonio di piante e schizzi e cartine di cui è dotato il volume e che nella loro assoluta novità costituiscono indubbiamente uno dei pregi maggiori di esso. Di qui anche la larga messe di illustrazioni sapientemente scelte tra le più interessanti e in parte inedite, che han la virtù di mettere il lettore a contatto con la realtà degli scavi e dei monumenti, e di dissipare gli eventuali scetticismi residui. Se da tutto questo apparato documentario dovesse apparire l’opera estesa talvolta — non sempre — piuttosto in superficie, non ne faremo colpa all’autore, il quale si è proposto precisamente, in questo primo studio non preceduto « da un vero movimento di studi scientifici », di delineare « con metodo fondamentalmente storico-topografico » il « volto civile del territorio ligure nell’antichità ». (Premessa, pag. 3). Su questo schema e su queste basi ogni sviluppo ed approfondimento ulteriore è possibile, qua e là anzi, come per Ventimiglia, è già in atto, spesso ne è tracciata la via. Ed è da augurarsi che il L. possa riprendere il suo tema prestissimo per un lavoro di sintesi storica che inquadri nel gran piano della storia di Genova il frutto delle sue vaste esperienze e della sua maturità di giudizio. Frattanto, nell’impossibilità di riassumere ai lettori la vasta esposizione del L., e prima di sollevare alcuni dubbi su taluni argomenti che più da vicino ci interessano, ci pare opportuno di rifare un po’ a modo nostro questa visione di insieme, di cogliere, vorrei dire, ranima del lavoro, quell’anima un po’ dispersa nella vasta tes- 238 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA situra analitica e documentaria — senza voler aggiungere troppo di nostro, e certi d’altronde di mettere in evidenza quel che, a parte le ricostruzioni particolari spesso importanti e nuove, di veramente positivo ed essenziale c’è nell’opera complessiva. * * * La Liguria nell’età preromana si presenta sotto un aspetto non ben definito, complesso e non unitario. Nell’ordine geografico a Levante impervie montagne si addossano al mare e racchiudono notevoli vallate che sfociano, dopo lungo e incassato corso, nella lontana piana d’Emilia ; all’estremo orientale le valli confluenti nella Magra aprono a ventaglio la via alla penetrazione dalla Toscana ; nel centro l’acrocoro dell’Antola non consente rapidi scambi, e raccoglie intorno a sè una vita statica e conservatrice. A Ponente le valli spaziose che risalgono dal Monferrato sfociano per numerosi sbocchi verso il mare e verso le Gallie, consentendo più intensi commerci e facili scambi di civiltà. Su questo territorio difficile ai popoli primitivi non dotati di mezzi tecnici progrediti è possibile una vita stentata, in nuclei distinti, di tribù spesso irriducibilmente nemiche, che assumeranno nei secoli una fisionomia inconfondibile. Qua e là oppidi e castellieri segnano i punti ove la vita-si è costituita più saldamente, modesti aggregati rispondenti in gran parte a leggi naturali di vita, di una vita aggrappata al terreno, alle sue scarse risorse economiche o alle sue larghe possibilità di difesa. La vita romana appare a tutta prima una cosa essenzialmente diversa. I consoli spianano le vie per gli eserciti, preoccupati soltanto di collegare i castra e di imporre rispetto alle tribù montane con un reticolato di vie lungo la serie degli oppida federati. Ed ecco allora queste grandi vie circuire, e non penetrare il grande acrocoro orientale, in cui la vita ligure, come attestano le numerose necropoli della Lunigiana e della Liguria centrale, persiste sino in età tardo-repubblicana. Ed ecco tutta la rete sempre più stabilirsi, con il graduale estendersi e spostarsi degli interessi imperiali di Roma, verso le Gallie, secondo criteri sempre più indifferenti agli insediamenti umani anteriori, e procedere marzialmente dagli accampamenti della Padana verso il passaggio del Varo, con una significativa convergenza, da Piacenza e da Genova, su Vado. Lungo questi assi fondamentali nuove città sorgono da fora e da castra romani. È il caso tipico della via Iulia Augusti del 13 a. C. che rinnova radicalmente, da Tortona ad Acqui e a Vado, con tracciato che mira diritto allo scopo e con opere stabili poderose, la via Aemilia Scauri, ne capovolge gli scopi e la prosegue, assorbendo tutta la incerta rete anteriore, fino alle porte d’Italia, mentre lascia a vie se- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA conciarie, spesso anche di importanza notevole, come quella dell’epi-scepsis chorae inferioris tra capo Mortola e Nizza, il compito di col legare per i loro particolari interessi, che Roma rispetta ma quasi non cura, i centri di vita ligure o greca sul mare, Noli, Monaco e Nizza. La rete stradale è dunque strumento precipuo della penetrazione civile di Roma. Attorno ad essa la vita si addensa e si trasforma in veste romana, lasciando quasi immune da influssi civili il contado. Sicché, guardando al complesso della regione, la romanità, così distribuita lungo itinerari imposti da estrinseche necessità militari, parrebbe avere un che di artificioso, quasi di inconsistente : carattere transitorio, in certo modo superficiale, non connaturato e rifatto della civiltà romana in Liguria, che è ragione non ultima dell’ombra in cui le ricerche archeologiche sono per tanti anni rimaste. Ma osserviamo il fenomeno con occhio più attento. Accanto alle città nuove che sorgono da impianti militari, altre, più numerose, rinnovano oppidi liguri sfiorati quasi per caso e ne ripetono il nome, come Liburna, Albingaunum, Albintimilium, Cemenelum. Anche là dove la sede è nuova, convengono a fecondarne la vita i popoli del contado, che impongono al nome latino, in forma attributiva, l’etnico proprio, a Vada Sabatia, Aquae Statiellae, Augusta Bagienno-rum.... Qui, come in terra di colonia, accanto al nucleo ligure, presidiato dalle armi di Roma e rimasto come rinchiuso dalla civiltà nuova, sorge, splendido di vie regolari e di edifici sontuosi, il centro cittadino, che poi disparirà con le distruzioni dei barbari, mentre riaffermeranno il loro millenario diritto alla vita i castelli più antichi. È la vicenda di Libarna, di Vado/Savona, di Nizza/Cimella. Gli stessi municipi ripetono, nella loro circoscrizione territoriale, le primitive divisioni etniche e le preesistenti egemonie cittadine ; del pari nelle campagne i conciliaboli e i castelli primitivi si inquadrano, semplicemente, nel sistema romano dei pagi e dei vici, che poi, rinnovato e perpetuato nell’organismo ecclesiastico medioevale, si manterrà nelle sue linee essenziali fino alla vigilia dell’odierna fase di civiltà industriale. La vita ligure pareva negata, soffocata; e invece rinasce, anche nelle città, in mille modi che qui solo possiamo accennare ; c’è una continuità insomma tra vita preromana e romana in Liguria che si affermò certamente, come sostiene il L., poiché « i Romani lasciarono germogliare, senza scosse e senza forti innovazioni, limitandosi a potenziarli e ad allivellarli al sistema politico romano, i germi di urbanizzazione che preesistevano ». (Romanità e civiltà della Liguria antica, in a Riv. Ing. e Intera. », III, 1937, pag. 18Ì. Ma sta anche il fatto che il substrato etnico ligure reagì sempre efficacemente alla sovrapposizione di nuove civiltà ; e come aveva contenuto l’influsso 240 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA greco ed etrusco nei limiti di un temporaneo e ben circoscritto apporta di suppellettile di quelle caratteristiche industrie, e aveva decisamente sbarrato il cammino al celtismo, di cui quasi non troviamo traccia sino in età romana (ed anche allora relativamente soltanto all'esterna facies culturale), così si oppose infine tenacemente alla romanizzazione, la determinò, per così dire la incanalò nelle sue vie, là dove addivenne con i Romani a dei foedera, quasi la limitò, prima della definitiva fusione accettandone le forme superiori dell’organizzazione militare ed urbanistica, ma ad essa imponendo le sue proprie forme di vita domestica, talvolta il suo gusto, e persino le sue millenarie tradizioni di vita sociale e giuridica. Frequente è l’impronta della tecnica e del gusto locale in prodotti dell’industria ceramica di età romana anche tarda pur riproducenti fogge proprie della suppellettile classica : un esempio significativo ne ha rivelato ultimamente il L. stesso a Ventimiglia ; e tipico è il caso della Tavola di Polcevera, non « legge dello stato romano sopra un comune o una città suddita » ma « testo di diritto ligure interpretato dalla giurisprudenza romana » come dimostrò il Formentini. (Le origini di G-e nova, Genova, Boll. Munie., 1932). È certo dunque che, dove la vita ligure era più intensa e più antica, rimane, anche nell’ombra, non muore; e poi si rinnova: come a Genova dove Roma passò come una ventata, facendo della civitas foederata uno dei suoi punti di appoggio nella guerra annibalica e poi sino all’apertura della Iulia Augusta; ma rispettò l’organismo di questo oppido mercantile dei Genuati, quasi appartandosi, fuorviandosi a settentrione dell’arco appenninico. Sicché esso non languì certo, e fu municipio di diritto romano, ma visse di vita propria, poco aperto all’influsso di Roma, e forse negato dalla sua stessa antichità e tradizione ad uno sviluppo civile rinnovatore. * * * Se da questo rapido sguardo al processo intrinseco della romanizzazione passiamo a considerare il formarsi dell’unità regionale della Liguria dalla preistoria ad Augusto, e la funzione che tale unità esercitò nell’economia del mondo italico e del mondo romano, ci si offre una constatazione delle più interessanti. I Liguri primitivi, entro vasti confini non precisabili — tra Rodano ed Arno, tra Alpi e Tirreno — non costituirono una vera unità etnica, aperti a contatti con altre razze, che forse insensibilmente, fino da età remotissime, ne alterarono la purezza, determinando quel colorito indoeuropeo che ha fatto sentenziare alla scuola francese il carattere ariano del nostro popolo mediterraneo. Solo la discesa e lo stanziamento dei Celti in Valle Padana, come felicemente sostiene il L., determina quella unità ligure attorno RASSEGNA ΒΓΒΙJOGRAFICA 241 all’arco appenninico, cosciente di sè non per alcuna organizzazione civile unitaria, ma solo per il sentimento comune di appartenere ad un’unica stirpe, che Augusto prenderà a base della- sua divisione regionale d’Italia. Ora, in questa distinzione rispetto ai Celti a settentrione — come rispetto agli Etruschi ad oriente — non solo la Liguria acquista la sua consistenza e fisionomia etnica ed il suo nome storico, riaffermando la propria autonomia ed eliminando anche elementi estranei anteriormente infiltrati, ma viene in modo sempre più deciso assumendo ima funzione di resistenza contro l’invadenza gallica, sì che sarà inconsciamente il primo valido baluardo d’Italia contro le forze barbare d’oltralpe. Tale antagonismo celto-ligure non passa inosservato agli esperti Romani, che lo favoriscono e lo sfruttano ai loro propri fini imperiali. Lo afferma con chiare parole Plutarco, ed è merito del L. aver insistito anche contro gli increduli nel rilevare il valore di questa esplicita testimonianza antica di un fatto che emerge anche dalle linee dell’ordinamento augusteo. Nel crollo e nella sommersione degli altri popoli, gallici, dell’alta Italia, l’etnico ligure solo sopravvive, nel nome di Liguria che Augusto impone alla sua IX Regione, mentre nella Padana, già Gallia Cisalpina, il nome stesso di Gallia è con cura eliminato. Sicché proprio in virtù del decreto di Augusto la Liguria acquista maggior coscienza di sè e maggior dignità, nell’atto stesso che la sua. piena autonomia vien limitata e inquadrata nel sistema romano. Del resto la stessa delimitazione della provincia augustea, che non ha, come è noto, alcuna funzione amministrativa, ma solo ;un alto significato ideale e politico, par quasi confermare questo preciso programma di Augusto. Non è qui il caso di discutere il pur interessante problema dell’estendersi della regione dal Varo alla Magra e dal Mediterraneo al Po, e neanche di indagare le cause per cui la zona montana della Liguria orientale, i territori Veleiate ed Apuano tipicamente liguri, coi municipi di Veleia e di Luni, ne siano rimasti esclusi (sicché anche il L. non ne tratta nel suo lavoro). Ma non possiamo non rilevare la originalità di questa limitazione ad oriente; sicché siamo indotti a vedere anche in questa apparente anomalia un piano prestabilito, o meglio il riconoscimento di uno stato di cose che fu determinato dagli intendimenti e dai modi con cui procedette l’ordinamento militare della regione. La nuova Liguria è la Liguria di Cesare, protesa verso le Gallie, con il suo fascio di vie orientate verso il varco di occidente. Di tutta la regione Roma trascura l’unità particolare, ne fa come una marca limitanea, un transito per le maggiori conquiste. Essa non sarà più il baluardo contro^ una invadenza Gallica ormai resa impotente, ma la via naturale per cui dalle basi strategiche della Padana, Cesare muoverà con le legioni a conquistare le Gnllie. e con le Gallie il svio prestigio e il suo· 242 RASSEGNA BIBLT0GRAF1CA diritto di imporre, per le Gallie, all’Europa ed al mondo il verbo civile di Roma. Quello che significhino l’Italia e la Liguria in questo quadro dell’espansione di Roma nel mondo, esprime nobilmente, monito a tutti, il Trofeo che Augusto innalzava per il trionfo sui popoli alpini ai contini d’Italia. ■μ· * ■κ- Ι) all ’ insistenza con cui ci siam soffermati in queste nostre divagazioni su problemi di indole generale — la definizione dell’ambiente ligure, la Romanizzazione e il suo imporsi col sistema squisitamente romano dell’impianto di vie ben munite e di municipi murati, il grado di incivilimento delle tribù liguri nell’inquadramento romano — il lettore potrebbe essere indotto in errore nel valutare l’opera del L. La quale ha una nutrita e chiara introduzione che illumina indirettamente la massa delle notizie particolari, documentarie e antiquarie, raccolte negli ampi capitoli che illustrano ciascuno la storia e la vita d’un municipio. Sono quadri ordinati e omogenei che compongono nel loro insieme una visione panoramica di tutta la Liguria. Dei pregi veramente insigni per compiutezza e chiarezza di tutta la prima serie di municipi marittimi della Liguria occidentale ho già avuta occasione di far cenno altrove (Il Secolo XIX del 3 marzo 1939). Qui mi limiterò a ricordare le cose essenziali, le gemme, e segnatamente il capitolo su Nizza e il Trofeo della Turbia, che rivendica al più antico territorio ligure romano questa provincia nostra ; e quello su Ventimiglia, per il quale il L. ha usufruito dei dati di recentissimi scavi suoi, protrattisi anche oltre la data di pubblicazione dell’opera, e che pertanto attende già ora il suo perfezionamento. Su questa documentazione poco o nulla può dire il recensore che pur non veglia addentrarsi nelle minuzie di discussioni tecniche. Notiamo soltanto, per un dovere di obbiettività — e senza voler con questo menomare il valore dell’opera — che la materia viva e nuova ha· sempre più, nel processo del lavoro, conquistato l’autore. Il fascino delle « cose » lo attrae e infine non gli consente talvolta di soffermarsi. Sicché egli è venuto perdendosi spesso in questioni erudite che esorbitano in parte dal piano dell’opera, anche se costituiscono il boccone più ghiotto per chi, come noi, non ama le cose piane e comuni, scolastiche o manualistiche, ma aspre com’è aspra la vita, e corre, come Giovanni Papini, a cercar nelle note, prima ancor di scorrere il testo, la fonte e la discussione. Questo relativo squilibrio dato dall’eccesso di informazione appa-re più evidente negli ultimi capitoli che trattano di Genova e Libarmi, e costituiscono nell’attività erudita del L. la parte più nuova. Più nuova e forse, sia detto come augurio, troppo nuova. Il L. affronta per la prima volta gli spinosi problemi della topografia romana di Genova, della Tavola di Bronzo e del tracciato della Po- RASSEGNA BIBL10GRAFÌCA 243 stumia, e si indugia, per ovvie ragioni di completezza, in una esposizione polemica rapida e sbrigativa che piace in un giovane, ma che si appoggia ad un apparato critico di cui si sente l’insufficienza ai fini scientifici e al tempo stesso, nel piano dell’opera di sintesi, l’ingombro. Ciò non diremmo se il L., su questi problemi che egli onestamente riconosce forse insolubili, fino a che non si posseggano nuovi elementi sicuri di ricostruzione e archeologica e storica, si limitasse a « fare il punto » e a prospettare le soluzioni più accreditate. Egli invece, pur da tali premesse, procede a delle ricostruzioni particolari che hanno troppo di arbitrario per trovar posto in un’opera riassuntiva. Ma neanche di questa esuberanza vogliamo fai- rimprovero al L. In un’opera di vasto respiro e per gran parte nuova non può esser tutto definitivo e perfetto. Ed è bene che i problemi più gravi e ‘insoluti siano trattati con audace ardore: è un rianimarli, è un modo di suscitare, anche attraverso le reazioni e le critiche, un fermento di indagini necessario per giungere a poco a poco ad appurare la verità. E del resto qui più che in ogni altra parte il L. ha la onesta avvertenza di denunciare la opinabilità delle sue conclusioni, accennando a quelle che saranno le vie da seguire per un approfondimento ulteriore, ed accetta già implicitamente le critiche e le discussioni. Accoglieremo dunque l’implicito invito e passeremo a questioni particolari. * * * Per 1 'oppidum genovese basterà un cenno. Il L. con lodevole prudenza decisamente respipge tutte le fantasiose ricostruzioni di chi, troppo amante della sua terra, non ha saputo rassegnarsi all’idea di una Genova romana inappariscente, la cui povertà monumentale resiste a ogni indagine. Anzi egli rinuncia persino ad una qualsiasi visione di insieme delle ricerche anteriori, tutte più o meno viziate da questo desiderio di supplire con l’induzione a questa ansia di grandezza inappagata. Egli lia fede, mi assicurava, che indagini sistematiche neWop-pidum, fino ad oggi intentate, sarebbero fertilissime, e chiarirebbero in gran parte il problema. Nell’attesa non ci rimane che seguire con lui le linee della probabile topografia primitiva di Genova, tra la linea di vetta dello sperone di S. Lorenzo ed il mare. Ma a questo punto il L. è costretto ad ammettere un fatto quasi nuovo nell’urbanistica romana, l’incorporazione nel cast rum del castello ligure primitivo sulla collina di Garzano: e spiega l’irrego-lare orientamento delle vie nella zona di Castello per probabile deformazione medioevale, in corrispondenza delle esigenze del pendio : che è ciò che non mi convince. È una topografia bensì irregolare, col sistema delle vie che si adatta alla collina, la fascia, la disegna : 244 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA ma non capricciosa, come risulterebbe dal disfacimento di un sistema ordinato. Ha insomma una fisionomia arcaica, ma organica secondo le leggi degli aggregati urbani primitivi, come dimostra il Barbieri (Genova, Riv. munie., febbr. 1938) che il L. in questo punto non sembra valutare in modo adeguato. Una distruzione di questo sistema avrebbe lasciato tracce che l’abbandono medioevale non avrebbe potuto sopprimere. Basterà del resto ricordare con L. (v. spec. pag. 201 segg.) le vicende di Genova romana per trovare, di questo rispetto della topografìa primitiva e dell’incompiutezza topografica del castrum, una giustificazione storica in quell’isolamento quasi che seguì per Genova allo spostarsi dalla Postumia alla lulia Augusti del traffico militare romano. Rientrata nell’ombra dopo un’effimera floridezza durante le guerre liguri e puniche, Genova, che aveva avuto già prima dell’avvento di Roma un ordinamento civico proprio, resistette più tenacemente alla penetrazione delle forme romane, e l’edilizia stessa della città procedette come sviluppo degli elementi e delle linee originarie dell 'oppidum secondo la tecnica romana delle insulae quadrilatere delimitate da vie regolari, senza poter mai assumere la tipica forma del castrum, anche perchè limitata, verso il piano a settentrione, dalla serie delle necropoli preromane. ¥r * * Tormentatissimo fu sempre il problema della Tavola di Polce-vera. Il L., accettando sostanzialmente (pag. 212 e n. 1) l’interpretazione storico-giuridica del Formentini, sviluppa, conforme al suo piano, il problema topografico. Il fatto di maggior novità è dato da uno sconfinamento oltre giogo del comune langense, postulato in base a questa apprezzabile considerazione : che debbono appartenere all’unico gruppo etnico dei Viturii le varie tribù che hanno comuni interessi coi Langensi nell’agro compascuo; le quali d’altra parte, anche a non volersi fermare sulle pur probabili identificazioni di alcune di esse proposte dal L. (Mentovini-Montoggio e Gavaturini-Gavi, pag. 214), non possono verisimilmente collocarsi tutte sul versante tirreno. Si viene così felicemente a postulare, anche per il popolo Viturio, prima che l’elevazione di Libarna al grado di municipio sconvolgesse tutta la regione, riducendo al crinale appenninico· il limite del municipio genovese (pag. 215 e pag. 224), un centro pascolativo attorno a quel crinale stesso, conforme al tipo conciliabu-lum dimostrato dal Formentini per tutta la Liguria montana. Senonchè le identificazioni particolari portano il L. a prospettarci una configurazione del territorio in questione nella sentenza dei fratelli Minucci che mi pare denunci di per sè la sua inaccettabilità. A cavaliere del crinale e oltre giogo si stenderebbe, non già il com- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 245 pascuo come ci si poteva attendere, ma Pagro privato, che neppure comprenderebbe il castello. Esso giacerebbe nell’agro pubblico soggetto a tributo che dal crinale appenninico si stende largamente in Val Polcevera in direzione di Genova. Un tratto non vasto che esso verrebbe ad avere in comune col privato a sud del crinale sarebbe il compascuo, non altrimenti definito dalla Sentenza. Il quale perciò, nientemeno, si frapporrebbe tra il castello e il suo agro privato. Tale soluzione mi par contraddica ai valori giuridici della Tavola secondo l’opinione più accreditata (Formentinij che il L. stesso implicitamente accetta (v. spec. pag. 212 en. 1) nella sostanza, e comunque non giunge a distruggere per qualche particolare divergenza : che cioè Pagro privato è quello dei campi appoderati, assegnati in proprietà alle singole famiglie del comune, e perciò logicamente circostante al castello; il pubblico, ancor soggetto a tributo, è il territorio posseduto in solido dal comune e che esso ha ottenuto staccandolo dalla massa dell’origina rio compascuo ; del quale il tratto residuo, logicamente periferico rispetto al castello langense e centrale solo rispetto alla federazione dei diversi comuni, non è dalla Sentenza definito per la ovvia ragione che essa vuol delimitare soltanto i confini interni tra agro privato e agro pubblico di quel comune le cui prevaricazioni a danno del comune genuate i Minuci sono chiamati a infrenare. Sicché la soluzione topografica particolare pare in definitiva contraddire ai principi che giustificavano l’ipotesi preliminare (τ). Ma non vorrei sulla base di queste argomentazioni, sempre opinabili in materia ancor oggi oscura e controversa, distruggere una tesi fanto suggestiva, ove essa poggiasse su riconoscimenti topogra-fiici inequivocabilmente sicuri. Invece, non ostante alcune felici intuizioni che hanno talvolta valore più che di pura verisimiglianza, la costruzione nel suo insieme non regge. Mi limiterò, per brevità, ad esaminare il riconoscimento delPagro privato, il più nuovo ed ardito rispetto alle soluzioni precedenti. (Per l’agro pubblico le divergenze sono in gran parte di dettaglio e non portano a conclusioni particolarmente importanti). Tale ricostruzione delPagro privato (e perciò se non erro, un po’ tutta la tesi del L. dello sconfinamento oltre giogo nella sua genesi mentale) si appoggia essenzialmente sulPidentificazione fluvius Lc- (!) So con queste osservazioni di non risolvere alcun problema, e già mi .attendo la facile critica che mentre distruggo una tesi nulla offro a mia volta di costruttivo. Discorrendo del resto con l’A. quando già queste pagine erano composte, mi son fatto il convincimento (qui come anche per altri dei problemi accennati) che la sua tesi, più che sostanzialmente errata è forse svolta in modo non adeguato. Valgano queste mie osservazioni a provocare un ulteriore approfondimento dell’interessante problema giuridico, qui solo fugacemente accennato (pag. 113 e n. 2) e per il quale io sono affatto incompetente, sicché non mi attento a toccarlo. 246 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA nmrìs-Lemme che oltre un terzo punto fisso in aggiunta ai pacifici Edus-Verde e Poreoi) era-Polcevera-Ricco. Mentre di fronte a questa identificazione, in apparenza ovvia, ed in favore della quale del resto il L. adduce nuovi gravi argomenti, si erano arrestati, non senza acuto esame (cfr. G. Poggi. Genuati e Viturii, p. 272, e qui il L. a pag. 216) gli studiosi di ieri, il L. accampa un’altra intuizione felice : che le aspressioni surswm-deorsum nel testo della Sentenza non indichino l’andamento secondo o contro corrente, ma significhino, grosso tu odo, ad septentrionem e ad meridiem versus. L’applicazione di tale criterio al testo sulla base del parallero Lemuris-Lemme porta anche ad una precisa distinzione dei fluvii e dei rivi secondo la effettiva portata dei corsi d’acqua identificati. In verità, nonstante che alla nuovissima interpretazione suddetta contraddica quella tra dizionale costante (vedi partie. Terracini in Ach. G-lott.) e a suo favore deponga solo il confronto con la denominazione di mare Supe rum e Inferum da antico assegnata ai nostri mari, sarei disposto ad accettarla se altre difficoltà topografiche particolari non si aggiun gessero a quelle generali surriferite : la mancanza di raccordo, per un circuito d’altronde così minuziosamente descritto, tra il Neviasca-Scrivia e il Porcobera-Riccò; la localizzazione, oltre giogo nella regione di Fiaccone, dalla caratteristica facies di unità arcaica, del Pagro privato langense. (Ya da sè che in ogni modo ci si dovrà at tenere al limite della Castagnola, non alla zona di Borlasca — Con vallis Coeptiema — per non comprendere nell’agro privato il tratto selvaggio a nord di M. Porale, come pare suggerire il L. con la car tina, la quale, neH’indefinitezza del testo, fa naturalmente testo essa stessa). Tanti appaiono insomma i problemi insoluti e forse insolubili della Sentenza, fino a tanto che nuovi elementi non vengano in nostro soccorso, da farci rinunciare ad ogni tentativo di ricostruzione topografica sia pure meramente dimostrativo. Forse non senza ragione, dopo i primi studi del Desimoni e del Poggi, tale problema non era più stato toccato, e il Formentini stesso vi rinuncia esplicitamente. Sicché, pur apprezzando il tentativo generoso e in qualche deduzione, ripeto, felice, del L., mi arresterei volentieri là dove egli saggiamente riconosce che solo dalla pubblicazione dei cartulari notarili del medio evo dell’Archivio di Stato di Genova e dalla loro nuova documentazione toponomastica scaturirà forse la chiave definitiva, con qualche identificazione sicura (pag. 215). * * * II problema topografico della Tavola coinvolge naturalmente quello non meno oscuro della via Postumia. Tra i due tracciati più comunemente proposti, quello di Valle Scrivia, accettato dai più, e RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 247 quello di Val Lemme recentemente e senza fortuna ripreso dal Monaco (vedi in proposito il nostro, pag. 226 en. 2), il L. ne sceglie uno-intermedio, montano, dalla Bocchetta a Fiaccone a Borlasca a Pietra Bissara, che gli prospettavo un giorno io stesso come probabile,, forse inconsciamente memore di una antica lettura del Poggi (T. Db. Negri in Riv. Ing. e Intem., Ili, 11. 3-4, pag. 85, η. 1). Ma non avrei osato senza prove monumentali o almeno toponomastiche sostenerla per ora. Il bel coraggio che ha confortato il L. ad adottarla, suggerisce anche a me di esanimare il problema con quegli argomenti che la conoscenza maggiore dei luoghi mi consente. L’incertezza della questione nasce dalla mancanza assoluta di dati archeologici o storici sicuri. Sicché gli elementi su cui fondano gli studiosi le loro ipotesi son di necessità indiretti, incerti e recenti. Lumeggia benissimo il Poggi in un opuscolo dimenticato (La Polcr-vdra 117 anni a. C.) le cause di questa scarsità di tracce della Postumia : la via fu aperta (strata, non munita) per necessità militari contingenti in età repubblicana, ed era da tempo decaduta a rango di via secondaria, quando gli Imperatori si fecero un vanto di decorare con opere monumentali le vie maggiori rimaste in piena efficienza, come la lulia Augusta. Si aggiunge che mai un solo itinerario dei molti che naturalmente si aprono attraverso la facile montagna, accentrò in sè in modo esclusivo e definitivo i traffici, in ogni tempo in tensissimi, tra l’emporio ligure e l’entroterra padano. Furono ragioni contingenti — preponderanze di tribù, di partiti politici, di castelli feudali, forze di natura politica che hanno un loro decorso e cessano di agire indipendentemente dalle condizioni topografiche — che determinarono volta a volta la preferenza di questa o quella via. La interessantissima storia medioevale della viabilità delP Appennino genovese è a questo proposito oltre modo istruttiva ; particolarmente ricca di interesse per noi è la vicenda per cui i genovesi, tra i vari itinerari taglieggiati dai signorotti feudali, seppero con la forza tracciare una loro via diretta, proprio da. Fiaccone, per il Porale, a Mon-taldo, sovrastante alla piana di Libarna, prima di acquistar il castello di Gavi e di scendere per la Val Lemme. Tale vicenda può quasi darci l’immagine di quel che sarà avvenuto in antico. Questo avvicendamento si ebbe nel primo medioevo e si ha oggi, sensibilissimo, e nulla vieta di pensare che si sia avuto anche in età romana. I Romani avranno disegnato nella rapidità dell’esecuzione questo tracciato alto che evita le tortuosità ed asperità delle valli; sicché non respingo a priori l’ipotesi già avanzata dubitosamente — ma successivamente respinta — dal Poggi, ed ora ripresa dal L., tanto più che la zona, salvo forse il tratto estremo verso Pietra Bissara, si presta ad un facile tracciamento. E ci conforta a sostener la tesi un argomento che ci offre oggi il L. : l’abbandono per parte dei Romani dell’allineamento degli oppidi liguri ■24S RASSEGNA BIBLIOGRAFICA ove opportunità militari lo richiedessero, come alla Turbia, (li cui si è fatto cenno, salvo adattare alle necessità del traffico locale vie secondarie, qualcuna delle quali può aver poi, con raffievolirsi delle necessità militari, prevalso. Sicché più vie forse, nell’antichità, e soprattutto nei tempi seriori, portarono successivamente o anche simultaneamente, in modo vago il nome di Postumia ; di qui l’incertezza nostra tra il tracciato alto e antico, suggerito naturalmente dalla Tavola di Polcevera, e quello di Valle Sc-rivia, verso la quale certo si raccolse il traffico nell’età tardo-imperiale e nel primo medioevo. Sta di fatto che lungo quest’asse incontriamo la Plebs de G età, oggi Pieve di Borgo Fornari ; e della via ci conserva vaghe ed incerte memorie ii Giustiniani, e forse rimangono traccie toponomastiche nei nomi di Migliarina e di Miglia rese (da miliarium?) rispettivamente villaggio e torrentello sui due versanti del valico dei Giovi. Nè potremo del tutto trascurare, in materia opinabile, la più costante opinione, che quasi ha forza di tradizione, degli storici antichi, come l’autorevolissimo Bottazzi, cui, se mai, il pregiudizio avrebbe dovuto far pensari a Val Lemme, alla quale in quel tempo si guardava come a naturale via degli scambi tra i due versanti. Queste sono naturalmente opinioni: che hanno però un pregio, mi sembra, di giustificare almeno quella rinuncia, per ora, alla soluzione di un problema, per la quale inesorabilmente i dati ci mancano. * * * Ma queste osservazioni mi detta un amore forse troppo grande per le cose belle che il L. ha la felice ventura di conoscere e di far conoscere a noi. Là dove il L. è padrone del suo argomento, ed è fortunatamente gran parte del lavoro, la lettura, anche in materia così arida, è un godimento vivo. Il L. conosce anche il valore della parola, non dico elegante, ma efficace e composta, ed armonica sempre, e lascia noi talvolta men soddisfatti forse proprio perchè ci ha fatto gustare prima, in molte pagine schiettamente belle, una caustica ed efficace rappresentazione di vita. Ma l’opera non è compiuta. Attendiamo il secondo volume con l’illustrazione dei municipi romani della Liguria interna (Mediterranea, come la chiama il L. con parola tecnica felice), e qui l’autore, illustrando i restanti municipi, da Tortona ad Acqui a Pedo ai piedi del PAI pi, vorrà certamente, o almeno è questo il nostro voto, non solo definire le peculiarità della Liguria interna di fronte a quelle della marittima, ma ritornare su tutto l’insieme e ridarci della Liguria Romana, nelle sue caratteristiche particolari di civiltà e di vita, anche una visione più intima. Teofilo Ossian De Negri RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 249 Sen. Mattia Moresco, Il Balilla. XJrbino, li. Istituto d’arte del libro. (Estratto dal volume delle celebrazioni liguri), |>]>. 25. Il discorso su Balilla tenuto dal Sen. .Moresco nelle celebrazioni liguri dell’ottobre XVI è qualche cosa di più di una orazione occasionale; è una meditata ricostruzione e 1111 quadro perspicuo di 1111 grande fatto storico al centro del quale campeggia, anche se fugace nell’azione, la figura e il gesto di Balilla. Perciò nulla perde, anche fuori della suggestione oratoria, alla lettura: direi anzi che ci guadagna perchè è possibile seguire con riposata attenzione l'abile agilità dello schema, la chiara esposizione degli avvenimenti, la felice connessione del passato col presente nel nome e nel simbolo del divino monello di Portoria. Precisa nella sobria chiarezza l’impostazione ambientale del fatto storico; efficace la narrazione dei momenti più significativi attestante nella sintesi perspicua il perfetto dominio della materia tanto trattata. e tanto controversa. Naturalmente, nessuna minuta analisi critica. impossibile in un discorso, nessuna polemica inopportuna ; ma la sagace scelta degli episodi più eloquenti e il loro logico collegamento, la stringente confutazione dell’opinione tanto tempo prevalente die il moto del dicembre 1746 sia stato esclusivamente di popolo minuto in ispregio all’aristocratico governo, danno al lettore la netta impressione della genuina verità storica, sottratta alle ostinate deformazioni dei pregiudizi faziosi o delle caparbie intolleranze. La tesi, già analiticamente enunciata e sostenuta dal Pandiani. riceve qui dall’esperto giurista la sua consacrazione : « Di fronte ai soldati del Botta-Adorno non stette una plebe esasperata contro il suo stesso governo; ma tutta una civitas, nell’augusto senso romano che le è proprio, la quale, distolta dalle antiche consuetudini d’operosità e d’ordine che formano il nerbo del complesso sociale genovese, insorse a difesa di questo suo patrimonio di libertà ». Ogni ulteriore discussione è ormai inutile; e chi ha sempre sostenuto con tanto minore efficacia persuasiva ma con tenace convinzione questa verità, è ora orgoglioso di vederla così autorevolmente confermata e dimostrata. Non meno felice è l’affermazione del significato che l’insurrezione genovese assume nella storia italiana. « Il sasso del Balilla è pertanto il primo atto, in senso nettamente nazionale, della nostra redenzione ed è un segnale di ribellione contro l’Europa, da troppo tempo iniqua verso l’Italia; per esso Genova diviene l’antesignana della libertà della patria. Genova non dimenticherà questa missione assegnatale dalla storia, e darà all’Italia gli apostoli e i soldati di tutte le ribellioni allo straniero.... Il Balilla, forza, tradizione, fede, certezza inesorabile è veramente l’espressione istintiva e incoercibile di questa saldissima stirpe ligure romana ». 250 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Stupendamente detto e storicamente verissimo. C e un solo punto sul quale mi permetto di dissentire dall'illustre autore: troppe volte ho esposto anche in questo « Giornale » opinione diversa pei potei accettare senza molte riserve la frase (incidentale, del resto, e la sola su questa assolutamente vana questione) « Il Balilla (‘he quasi certamente si chiamava Gian Battista Pera sso » ; e so di non esser solo nella reproba opinione di non ritener possibile allo stato attuale della documentazione e delle conoscenze, l'identificazione tra il Balilla e il presunto Perasso. . v . In compenso F immagine del « Balilla che ascende a verità inoppugnabile nel tempo dalla sera del 5 dicembre e palpita da allora in tutti i cuori e sulle bocche di tutti gli italiani », del Balilla « raggiante e scamiciato apparso in un alone di luce e scomparso per sempre » non differisce molto, tolta la felice efficacia della forma, da quella di chi ha detto che Balilla è stato un ragazzo ed è divenuto un simbolo, che la sua importanza è tutta nel gesto dopo il quale scompare e che non importa niente sapere chi egli sia stato e che m&th abbia fatto dopo il gesto immortale. Eppure per queste pericolose e delittuose affermazioni quel tale è stato denunciato, nientemeno (e chissà poi perchè?) quale «ardito campione della massoneria! ». Tanto simbolo, il Balilla, che si è rinnovato con Mameli nella gioventù combattente del '48 e si immedesima oggi in tutta la giovi nezza italiana per la quale rappresenta col nome e con F esempio 1 imperativo di una nuova etica di vita. E fra pochi anni coinchiude il bellissimo discorso — il secondo centenario del 1 (46 costituirà nel nome del Balilla Fapoteosi della razza italiana. Vito Vitale Leon a Ravenna , lì giornalismo mazziniano. Firenze, Lemonnier, pag. 341, 1939-XVII. « La stampa periodica è una potenza, è anzi la sola potenza dei tempi moderni. Lo è per i mezzi di cui dispone e per la natura stessa del suo apostolato; perchè parla e insiste, unisce la virtù dei forti convincimenti a quella delle lunghe consuetudini; parla a tutti e a ciascuno; si rivolge a tutte le classi; discute tutte le questioni, tocca tutte le corde che vibrano nell’animo umano. La stampa periodica ha grandi doveri da compiere: appunto perchè esercita una grande influenza le conviene vegliare sopra sè stessa per non cadere nei traviamenti e nell’inerzia. La sua missione è grande e proporzionata alla forza che possiede. La sua responsabilità è immensa come il campo da lei prescelto ». Parole, si sente subito, di Mazzini ; basta a riconoscerle il ricorrere dei termini suoi più tipi: apostolato, dovere, missione. Coincidenza non casuale, il discorso tenuto RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 251 dal Duce ai giornalistici il 10 ottobre 1928 a palazzo Chigi è intitolato : « Il giornalismo come missione» e contiene espressioni che possono essere accostate alle parole mazziniane; e non è certo questa la sola coincidenza nel pensiero dei due grandi. Ne « L’Italia del Popolo » del 1850 si trovano affermazioni che. paiono di oggi « la democrazia non è libertà di tutti, ma governo consentito liberamente da tutti, operante per tutti. Il mondo ha sete oggi, checché per altri si dica, d’autorità. Noi desideriamo ch’altri ci guidi ma vogliamo commesso l’ufficio ai migliori di noi per senno e per virtù : desideriamo che un pensiero comune ci colleghi in attività ». E l’invito alle donne italiane perchè non acquistino merci straniere e specialmente francesi parrebbe tolto da un nostro quotidiano. Questi accostamenti sono veduti e fatti risaltare con molto acume e con garbo misurato, senza mai forzare i toni e la materia, nel bel libro che Leona Ravenna chiama modestamente « Note ed appunti » ma che è una esauriente ed interessantissima storia del giornalismo mazziniano e della sua funzione attraverso il Risorgimento. Ricostruire la storia del giornalismo vuol dire ricercare nelle loro espressioni più evidenti e combattive le correnti del pensiero, le passioni, le lotte politiche e sociali del passato. Finora però l’indagine si è generalmente rivolta o a un determinato giornale o a tutto il giornalismo di un limitato periodo, specialmente degli anni 1796 99 e 1848-49, di una particolare regione. Lo studio della prof. Ravenna ha più largo respiro e più vasta importanza perchè comprende tutti i giornali scritti o ispirati dal Mazzini attraverso la sua azione inesausta e quindi tutto il Risorgimento dall’angolo visuale mazziniano. Dal primo articolo, « L'a-mor patrio di Dante », scritto con ingenua foga nel 1827 per 1’« Antologia » di Firenze all’ultimo per la « Roma del Popolo » composto poco prima rii morire, è un’attività indefessa, un lato solo della sua molteplice opera infaticata, ina tale che sarebbe bastato a colmare un altra vita ; quarantacinque anni di lavoro e un unico, continuo apostolato di educazione civile e di formazione unitaria. Si tratta perciò di un materiale storico di prim’ordine come valore psicologico e affermazione del pensiero mazziniano sempre coerente sincero disinteressato; come attestazione di lotte, di aspirazioni, di stati di spirito di chi nei vari momenti scrisse o lesse il giornale. Materiale, si comprende, che non ha valore documentario probativo appunto perchè rende la visione che dei fatti circostanti avevano un uomo e un partito; visione appassionata, talvolta sino alla faziosità, che il giudizio dei posteri può aver mutato o cancellato, che in ogni modo contrastava con altre contemporanee. Ma questo stesso portarci nel pieno delle lotte e delle diverse concezioni ha un suo valore per la ricostruzione degli ambienti ; e se molta parte di quella attività giornalistica è contingente e caduca e, in tanta di- R A S S E G NA BIB L t O Gli A FIC A versità di tempi e di problemi, non ha |>iù per noi un interesse attuale, rimane lo spirito informatore fatto di onestà e di lede; e in tutte le questioni e gli articoli usciti dalla penna del Mazzini si sente sempre l’impronta del leone. Altrettanto, è evidente, non si può dire quando si tratta dei seguaci che sono talvolta troppo lontani dal Maestro, 11011 ne hanno la grandezza spirituale e la forza dell’intelletto e rimpiccioliscono in pettegolezzi o beghe partigiane o in fiero livore fazioso la 1 unzione che dovrebbe essere educativa. Di tutti i giornali fondati o diretti dal Mazzini come di quelli in cui scrisse occasionalmente o che furono emanazione di suoi amici e seguaci, la Ravenna espone le vicende, generalmente tribolate dalle lotte coi governi e la vita frequentemente precaria, cosicché taluni si limitarono a pochissimi numeri. Coinè naturale, ds.IVIndicatore t/enorese, aWLtalìa del Popolo, all’Urntà Italiana. al Dovere, la stampa genovese vi è largamente rappresentata con interessanti notizie e gustose rievocazioni, che contribuiscono largamente alla conoscenza e alla ricostruzione del mazzinianismo ligure e dei suoi più insigni campioni. Chi ha detto che sarebbe stato utile rintracciare, per quanto possibile, anche il numero dei lettori dei singoli giornali ha proposto un argomento anche interessante ma certo disperante di ricerca e senza probabilità di risultati : comunque un argomento che esulava dagli intendimenti dell’autrice. Miniera di notizie pazientemente e sagacemente raccolte il libro della Ravenna; dalle quali, di là dagli elementi contingenti e caduchi, dalle concezioni sorpassate o abbandonate, si erge la granitica figura del lottatore, dell’educatore, dell’assertore della missione italiana nel mondo. « Le grandi idee — scriveva ancora una volta poco prima di morire — fanno i grandi popoli. E le idee non sono grandi pei popoli se non in quante travalicano i loro confini. Un popolo non è grande se non a patto di compire una grande e santa missione nel mondo ». E ancora: « Se v’è un popolo che abbia un grande ufficio da coni piere sulle vie dell’incivilimento europeo è certamente il nostro.... Il suo luogo è a capo delle nazioni che sorgono non alla coda delle Nazioni che da lungo sono e accennano a declinare. È la nostra terza missione nel mondo ». L’unità è necessaria all’Italia come « condizione impreteribile del suo ufficio cosmopolitico » : questo è il nucleo vivo e perenne del pensiero mazziniano, e tale rimane anche se il frasario è mutato. E qui veramente Mazzini precede e prepara· l’odierna concezione integrale dell’unità nazionale italiana. Vito Vitale RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 253 Venturini Letizia, Luigi Corvetto alla luce di uu epistolario inedito. Genova, Emiliano degli Oriini, pagg. 257, 1939. Nelle passate celebrazioni dei Liguri illustri gli studiosi notarono fra i dimenticati il genovese Luigi Corvetto. La professoressa Venturini ha voluto rimediare alla lacuna pubblicando un suo studio condotto sulla guida di un carteggio inedito, che trovasi fra le carte Littardi depositate nella Biblioteca Civica di Imperia. Dopo gli scritti del De Nervo e del Ruini ed altri di minore importanza, la nuova fonte utilizzata dalla Venturini viene in buon punto a dare un piti spiccato rilievo alla figura del Corvetto ed al tempo nel quale egli visse. Chiamato al Governo Provvisorio della Repubblica democratica Ligure e divenutone in seguito il Presidente, si trovò di fronte ad una situazione molto difficile. Le idee democratiche non avevano potuto determinare ancora cambiamenti profondi nelle classi aristocratiche e borghesi, e le classi popolari, senza guida, senza istruzione, rimanevano ad esse indifferenti od addirittura ostili. Il movimento rinnovatore si concentrava in poche centurie di precursori, che non erano neppure d’accordo ffa di loro sulla indipendenza della Nazione e sul carattere dei nuovi ordinamenti politici ed economici da adottare. Una sola cosa risultava certa : la fine del dominio oligarchico e la lenta ma sicura avanzata della borghesia al nuovo ruolo di classe dominante. Dopo alterne vicende il Corvetto trovò finalmente il posto adatto alla sua statura intellettuale quando, annessa la Liguria all'impero Francese, gli venne, come Consi gliere di Stato a Parigi, affidata la compilazione di una parte lei nuovo Codice di commercio. La sua opera legislativa venne premiata, infatti, da Napoleone col titolo di Conte. La Venturini illustra ampiamente la figura morale del Corvetto durante tutto questo periodo, e si sofferma, con acute considerazioni, sul tragico caso di coscienza nel quale Egli venne a trovarsi quando, caduto Napoleone, e prestato giuramento di fedeltà ai Borboni, venne di nuovo, durante i cento giorni, invitato da 11’Imperatore a riprendere ii suo posto. Ebbe il coraggio non facile di rifiutare, ritornò al Consiglio di Stato con Luigi XVIII e subito dopo venne nominato Ministro delle Finanze. In tale incarico il Corvetto diede un magnifico saggio delle sue doti di tecnica finanziaria. Non è il caso, in una recensione, di esporre minutamente l'opera del Corvetto in questo campo, dopo ciò che se ne è scritto: piuttosto segnaliamo la vivace descrizione che fa la Venturini, seguendo le orme del carteggio, della lotta parlamentare scatenatasi in Francia intorno alla soluzione presentata dal Ministro genovese, del problema delle riparazioni agli alleati. « Quale compito eminente e terribile, esclama il Corvetto, ogni atto può giovare o nuocere a venti milioni di uomini e preparare la ro- 254 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA vina o la fortuna delle generazioni future! ». Le opposizioni parlamentari non avevano, però, tali scrupoli. Guidate dal Visconte René De Chateaubriand, spostano la questione dal campo economico a quello politico, e riescono a far respingere dalla Camera 1 provvedimenti finanziari presentati dal Corvetto. La vendita dei boschi già proprietà della Chiesa, e la nuova addizionale sui redditi terrieri, sollevano le indignate proteste del clero, dei noni, ei proprietari : ma occorre salvare i Francesi loro malgrado, come dice il Duca di Richelieu, Presidente del Consiglio dei Ministri. Le dimissioni del Corvetto sono respinte dal Re, la Camera viene sciolta : essa era composta, come scrive Tommaso Littardi, « di individui la maggior parte dei quali non sognava che clero, feudalità, rancidume del 500... Se fosse dipeso da questa massa sconsigliata e fanatica, le prigioni si sarebbero riempite di vittime, le confische sarebbero tornate di moda, la bancarotta sarebbe stata all’ordine del gioì-110.... )). * * * Il movimento degli Ultra, come vennero allora chiamati i partigiani di queirondata reazionaria seguita alla restaurazione del 1815, cedeva di fronte alla riscossa della Nazione francese che voleva liberarsi dalle pastoie che impedivano il suo risorgimento economico. La Venturini, valendosi frequentemente del Carteggio Littardi, mette in viva luce il contrasto fondamentale fra i due I11111 cipali antagonisti di quella ardente lotta : lo Chateaubriand e( ι Corvetto. « _____sono due educazioni, due culture, due mentalità, e quindi due stili affatto diversi. Il Corvetto, cittadino di una Repubblica ricca di traffici e fervida di borghesia attiva ed intelligente. o Chateaubriand solitario castellano e melanconico esule; nutrito da dottrine positive e maturato dall esperienza della Kiv dazione ( < e l'impero, il primo: cultore degli ozi letterari e chiuso negli splendidi sogni del passato, il secondo: il Corvetto cattolico fervente e rivoluzionario innovatore è assolutamente incomprensibile all’opaca intransigenza reazionaria dello Chateaubriand ». Corvetto trionfa con la nuova Camera : i provvedimenti finanziari, che rimarranno un memorabile esempio di arditezza finanziaria, sono approvati. Dopo la vittoria parlamentare segue il periodo aureo dei mesi trascorsi al « Pavillon de la Muette » offertagli dalla munificenza regale, e dove, oltre alla famiglia del Corvetto e di Tommaso Littardi, troviamo l’improvvisatore Francesco Gianni, il ritrattista Quaglia, il letterato Biagioli. Ma sono gli splendori del tramonto : con la salute gravemente compromessa il Corvetto abbandona la scena politica francese, e ritorna alla natia Liguria, dove nel 1821 passa a miglior vita, mentre si profilano all’orizzonte le RASSEGNA BIBLIOGRAFICA prime riscos.se delFelemento bonapartista italiano che non ha dimenticato i diritti della rivoluzione, il richiamo alle glorie militari, i sogni di unità e di indipendenza risvegliati dal troppo breve Regno d’Italia. Ve Ve Ve il lavoro della Venturini, condotto con impeto giovanile, costi tuisce il primo saggio di una Collana di « Studi e documenti per la. Storia politica e letteraria della Liguria » che l’editore Emiliano degli Orfini si propone di pubblicare. Ottima idea, e diciamolo pure, realizzata con serietà di intenti, ed elegante torma tipografica come, in genere, tutte le edizioni di questa Casa editrice genovese, la quale merita il plauso e l’appoggio degli intenditori e degli studiosi ed il più largo favore del pubblico. Auguriamoci che seguano ben presto altri saggi : la storia genovese, ed in modo speciale quella che va dalla caduta della Repubblica oligarchica ai nostri giorni, è mal conosciuta e poco studiata. Vi è un magnifico periodo, quello formativo della unità italiana, ohe* si considera come assorbito dalla luce mazziniana, ma che pure presenta tante altre correnti intellettuali ed educative che mettono Genova ai primi posti fra le città italiane, e che sprigionano tale u/11 senso di vitalità e di vigoria da chiedersi stupiti come mai non sia ancora sorto uno studioso ad illustrarle. Se mai accadesse è 'bene ricordare come l’Archivio Littardi sia una delle fonti più genuine e più ricche di fatti e di idee. Pietro Nurra P. L. De Allegri, Romanzi della vita, Milano, Sonzogno, 1038. Premetto che questi « Romanzi della vita » rappresentano peline il primo incontro con il De Allegri, anche sie l’autore ha già una varia e ricca esperienza letteraria ch’è attestata dall’indice bibliografico premesso al volume: esperienza letteraria che si concreta in romanzi, novelle, opere teatrali. E non solo in italiano, ma anche in francese ed inglese. Ora è indubbio che uno scrittore che possegga artisticamente tre lingue, 11011 è molto facile a trovarsi, sopra-tutto quando, come nel caso del De Allegri rivelatomi da questi « Romanzi della vita », egli 11011 sia 11110 dei soliti alchimisti del racconto 0 un distillatore a freddo di situazioni e sentimenti — come purtroppo se ne incontrano tanti, anche fra quelli che hantno appeso il cappello nell’anticamera della fama — ma 1111 autentico artista. Di questa sua peculiarità — rara, di molto rara — si ha un’im- 256 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA mediata sensazione al primo incontro. Sentite d’aver dinanzi una personalità d’eccezione: rude, impetuosa, fremente sino allo spasimo, ma nello stesso tempo cliiara, dai lineamenti precisi, definiti. Potete non conoscerlo il l>e Allegri, potete ignorare tutto di lui — come è il caso del sottoscritto — ma non per questo lo sentite men presente. Egli infatti è qui, tutto qui, nel suo temperamento esuberante di scrittore fantasioso e robusto, in tutta la sua personalità potente che s'indovina ricca d’esperienze, tormentata, protesa verso un ideale d’arte che tenta plasmare con mano fremente che gli sfugge come quella misteriosa figura di donna che Fidia in-travvedeva nel sogno — simbolo del tormento creativo d ogni artista — donandogli un continuo rovello, un ansito di corsa, una selvaggia volontà di ritentare. Perciò oso scrivere che di questi « Romanzi della vita », il più bello, il più umano è quello che l’autore non ha voluto scrivere: il ritratto di sè stesso. Ma questa peculiarità di infondere nella creatura il soffio vitale del suo spirito, questo imperativo di oggettiva zione, al di là d’ogni formula estetica, d’ogni artifìcio di costruzione, si risolve in un’arte ricca di contenuto umano, maschia, venata forse di qualche rudezza, ma profondamente sentita ed efficace. «Romanzi della vita» è quindi un libro d’esperienza. Vedasi, ad esempio quel « Xel girone dell’angelo caduto » che ha in sè lo spunto d’un poderoso romanzo intimo e sociale, compiutamente svolto in nervose, rapide sequenze quasi cinematografiche. Λ i trovate l’angoscioso tormento di tutta un’epoca di transizione, ribollente nel pensiero di Giannandrea Arca, l’uomo nuovo che tenta tutte le vie dello spirito, che assapora tutte le esperienze, ma che finisce per avventarsi nel buio della morte per non aver ritrovato in sè la scintilla del divino, il saldo ancoraggio d’una trascendenza. Ma dove la vena narrativa del De Allegri raggiunge la sua armonia artistica più persuasiva ed evidente è nel racconto « Il letto della mamma ». Xe è protagonista « Stefanello », un povero essere sfiorante l’animalità, randagio come un cane da pagliaio, in cui la coscienza umana traluce solo a brevi lampeggiamenti. Eppure nella sua « barbarie del senso » c’è un battito d’ali verso l’alto, che si rivela in un'incontenibile, per quanto inconscia, passione per il suono. La musica è per lui la grande maga che libera il suo spirito dalla materia nemica, sollevandolo a vertiginosa altezza. L’odio del padre un giorno l’aveva precipitato verso una china di totale abbrutimento, l’amore della madre lo riporterà nella cerchia degli umani. E quando la madre muore e l’animalità del suo essere sta per ri· prendere il definitivo sopravvento, ecco che un atto di dedizione, d’altruismo, redime Stefanello e lo riavvicina per sempre all’umanità, al consorzio sociale. Ho parlato di questi due aspetti dell’arte del De Allegri, ma sa- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 257 rebbe « operae praetium » ragionare di tutti. Ognuno (li questi « Romanzi » meriterebbe una trattazione a parte. E ciò — come del re sto abbiamo già accennato — perchè non un qualsiasi unico ino tivo li domina, ma la « vita », nella sua infinita gamma di /colora zioni, di note, di luci, di ombre: la vita così com’è guardata, scrutata, con animo commosso, tormentato, da uno scrittore che unisce ad una efficacissima potenza espressiva, una rara proprietà di sintesi ed un vivo senso delle prospettive. Uno scrittore completo dunque, che in un’epoca in cui predomina il « mestiere », dà un magnifico esempio di serietà e dignità artistica. Renzo Baccino Epistolario di Nino Bixio a cura di Emilia Morelli, vol. I, 1847 1860, Roma, Vittoriano, 1939, in 8°, pp. XXI1I-442. Il cliché (mi si perdoni la barbara parola) di Nino Bixio è segnato con poche linee, alla brava, e non c’è chi non creda di conoscere, attraverso questo, il vero Bixio. Si comincia nelle scuole a vedercelo dinnanzi nel suo eroismo truculento e nella sua sciabolante parola, e quella visione elementare e incisiva si stampa nella memoria. E vi resta fino a quando un’altra immagine si sovrappone a quella e ci presenta un Bixio fulminator di nemici sul campo, temerario e violento, ma pacato e cauto nel normale svolgersi della vita. In politica, lo vediamo mazziniano, dapprima, garibaldino poi, monarchico, in seguito. E in questi passaggi, ci appare ragionatore come un mercante, e, come un marinaio, paziente. Spesso, c’imbattiamo in un Bixio temperato, conciliante, intermediario volonteroso, alacre faccendiero, e sempre in lui troviamo un ottimo padre di famiglia, sollecito delle sue bambine, della moglie a cui è legato da un fortissimo, sereno amore. E allora, tra le due immagini sovrapposte, si generano sbavature che tolgono nitore ai contorni; zone d’ombra e soluzioni di continuità che guastano e obnubilano la visione. La figura del Bixio perde così non solo di vigoria, ma anche riduce la sostanza di cui è formata. # E proprio chi fu tra i gregari di Mazzini e di Garibaldi quegli di più risentita azione, diventa non diverso dai molti che i due grandi seguirono. La pubblicazione, ora iniziatasi, dell’Epistolario, è proprio quella che ci voleva per togliere dalla letteratura di maniera il Bixio e restituirlo alla sua umana realtà intero e schietto. 11 carteggio_ meglio delle pagine anche felici dei biografi — scioglie le nebbie, annulla le discontinuità, armonizza e spiega completandole le due diverse immagini. 258 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA È un pregio questo dei carteggi — specie quando chi li scrisse non ebbe preoccupazioni artistiche nè politiche, nè ambizioni che inducessero a falsare sentimenti, idee, fatti. La sincerità del Bixio c lampante: è, anzi, la sua qualità prima e la più simpatica. Pei* questo le sue lettere si leggono con gusto. Per questo, quanto egli dice va considerato con rispetto. B per questo finalmente, si ha da ringraziare la Morelli, che ha curato, con diligenza e dottrina, la pubblicazione dell'Epistolario del Bixio. Il primo volume illumina un periodo importantissimo della vita piena di quest'avventuriero borghese. 247 lettere, 131 finora inedite, ci fanno conoscere Γanimo del Bixio in momenti particolarmente interessanti per hv storia nostra : dalla campagna di Lombardia alla difesa di Roma repubblica; dalia .guerra del ’59 in cui fu tra i cacciatori delle Alpi all’impresa dei Mille che lo ebbe incomparabile nocchiere e combattente. Marinaio peritissimo, soldato esperto d’ogni arte militare, il Bixio conobbe la gioia della lotta sui mari e sui monti d’Italia. Calcolatore preciso, risoluto e fulmineo nelle decisioni, contempera in sè i caratteri dell’uomo di guerra, del disciplinato gregario e del cittadino che vuole ordinato e attivo il ritmo della vita di tutti nella pace. Le pagine che Emilia Morelli ha scritto, quale prefazione al volume, sono guida intelligente e sicura per avviarci a comprendere il carattere, la coscienza, il cuore di Nino Bixio. Legna Ravenna (contimi a) I NOSTRI LUTTI RENATO SORIGA β impiOvvisamente deceduto in Pavia, il 0 gennaio scorso, nella piena maturità dell’ingegno, a soli 58 anni, Renato Soriga, tanto modesto quanto sagace e perspicuo cultore di studi storici. Era nato a Carrara il 27 gennaio del 1881 da un alto magistrato e dalla contessa Viola e s’era laureato in lettere, presso ΓUniversità di Bologna nel 1904. A Pavia risiedeva dal 1908 ed ivi fu docente di materie letterarie in iscuole medie sino al 1920. Conservatore, dal 1910, del Museo civico della sua città d’elezione, ne sistemò, ne riordinò e ne arricchì la notevolissima suppellettile ar cheologica e storica prodigandovi con appassionato fervore, un’attività illuminata da una profonda cultura e da una sagacia eccezionale. Lascia numerose pubblicazioni di singolare pregio anche se di modesta mole riferentisi alla storia dell’arte, alla storia medioevale ed a quella del Risorgimento. L'orma da lui lasciata, in quest’ul tima, soprattutto nell’indagine sui primordi del pensiero unitario in Italia e sulla importanza che ebbero verso la tine del ’TOO ed agli inizi dell’800 le sette massoniche, lo pone senz’altro tra i migliori nostri storici recenti ; poiché, se è vero che non lascia opere organiche e di ampio respiro, è però incontestabile che tutti i contributi da lui dati in ogni campo in opuscoli, memorie accademiche, articoli, sono assai perspicui per l’originalità delle ricerche e delle conclusioni. Il suo spirito argute, sagacissimo, sempre geniale, rivelava nelle conversazioni con gli amici da lui stimati, la profondità e l’ampiezza di una cultura invero singolare. La morte lo ha colpito alla vigilia di sistemare il suo Museo nel Castello, disegno da lui perseguito da vari decenni, e mentre stava terminando una monografia illustrante i Podestà di Pavia dal 1000 ad oggi. Era presidente della Sezione di Pavia della K. Deputazione di storia patria per la Lombardia; Deputato della li. Deputazione dì storia patria per il Piemonte e faceva inoltre parte di varie Accademie fra le quali ricorderemo quella dell’Ateneo di Brescia degli « Agiati » di Rovereto e degli « Ottusi » di Spoleto. 260 I NOSTRI LUTTI BIBLIOGRAFIA 1. Di Ildebrando sudiaeono dì S. R. Chiesa e della sua leggenda, 8°, pagg. 83, Conegliano, 1907. 2. Di una serie 'medita di otto figure silografiche esistenti nel Museo civico dì Pavia, in « La Bibliofilia », luglio 1909. 3. I libri silografici del Museo civico di Pavia, in « Boll. Soc. Pavese di storia patria », 1911. 4. QVincunabuli del Museo civico di Pavia, in « Boll. Soc. Pavese di sto-patria », 1911. 5. / disegni del Museo civico di Pavia. Collezione Malaspina, 10°, pagg. 14, 100 tavole a colori, Milano, 1912. (i. Don Pietro Zani e la collezione di stampe Malaspina, in « La Bibliofilia ». marzo 1912. 7. Piastre in rame inedite e rare della collezione Malaspina, in « Boll. Soc. pavese storia patria », pag. 215-245, 1 tav., 1912. 8. Il corpo degli studenti pavesi niellai campagna del 1848, in « Boll, società pavese storia patria », pag. 215-245, 1 tav., 1912. 9. Per la storia del collegio dei notai di Pavia, in « Boll. soc. pavese storia patria », pag. 365-369, 1912. 10. La brigata Sacelli e la prima spedizione garibaldina in Calabria (8-2Ί agosto 1860), in « Riv. d’Italia », pag. 152-173, luglio 1912. 11. Dalle « Memorie » di Gaetano Socchi (18-!/9-60), in « Boll. soc. pavese storia patria », vol. XIII, pag. 59-102, 1 tav., 1913. 12. Il « Memoriale » dei Consoli del Comune di Pavia, in « Boll. soc. pav. storia patria », pag. 103-118, 1913. 13. Documenti pavesi suWèstimo del sec. XIII, in « Boll. soc. pav. storia patria », pag. 315-340, 1913. 14. Di Aurelio Bottìgella governatore dì Tripoli in Barberia, in « Boll. soc. pav. storia patria », pag. 415-419. 1913. 15. Un regolamento del Santo Ufficio per i librai pavesi, in « La Bibliofilia », maggio 1913. 16. A proposito di alcune stampe italiane inedite della raccolta Malaspina, in « La Bibliofilia », dicembre 1914. 17. Per una nuova edizione delle « Honorantie civitatis Papie », in « Boll. Soc. pavese storia patria», vol. XIV, pag. 90-101, 1914. 18. Il processo del cittadino Pietro Moscati, in « Boll. Soc. pavese storia pa tria », pag. 211-241, 1914. 19. Notizie sulla· R. Scuola militare di Pavia, in « Boll. Soc. pavese storia patria », pag. 52-255, 1914. 20. Augusto Bozzi Gran/oille e la rivista « I/Italico », in « Boll. 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Mombello: « La Madonna*, del Gatto» attribuita a Leonardo da Vinci scoperta a Savona in « Il Lavoro », 23 agosto 1939. Riva : Quattro pittori aliai Galleria Genova [Quarti, Grossi, Viviani. Alfieri] in «Giornale di Genova», 19 novembre 1939. A. Rota: In y ho per le Gallerie: le belle donne della « Superba » in «Genova» R. M.. agosto 1939. ARCHITETTURA E RESTAURI N. Lamboglia : Scavo di tre edifici nel suburbio di Albingaunum, Nuove iscrizioni ramane ad Albenga in « Rivista Ingauna ed Intemelia », V-VI, 1-4. X. Lamboglia : Il ripristino della Torre e Casa Lengueglia. Doria in Albenga. Nuovi affreschi medievali a S. Stefano Massaro in «Rivista Ingauna ed Intemelia », V-VI. 1-4. M. L. : I n palazzo del ’500 in Vìa Garibaldi in « Il Lavoro », 1 agosto 1939. Eoike : Nella storia artistica del Duomo di Genova in «Nuovo Cittadino», 24 agosto 1939. Riva: Le Statue dei Doria a Palazzo Ducale in « Giornale di Genova ». 19 agosto 1939. Timo : La sistemazione di Porta Pila secondo il parere di un lavoratore in « 11 Lavoro », 5 ottobre 1939. G. Selve : Porta Pila : lasciarla dov’è in « Giornale di Genova », 13 ottobre 1939. Riva : bilancio dell'attività artistica in Lignina in « Giornale di Genova », 2 ottobre 1939. A. Angiolini : L’arte a Staglieno in « Il Lavoro », 1 novembre 1939. Per la sistemazione delle vecchie porte : Opinioni e proposte in « Giornale di Genova», 14 ottobre 1939. Riva: L’arte a Staglieno nell’anno XVIII in « Giornale di Genova », 2 novembre 1939. L. Lagosio : La Porta Pila in « Giornale di Genova », 2 novembre 1939. A. Podestà : Le « case saracene » della Riviera in « Secolo XIX », 21 novembre 1939. E. Badino : A Staglieno in « Nuovo Cittadino », 2 novembre 1939. Opere nuove a Staglieno in « Secolo XIX», 2 novembre 1939. F. Pastonchi : Nostra Genova in «Liguria», giugno-luglio 1939. A. Cappellini : Le porte della città in « Genova » R. M., settembre 1939. NOTE LETTERARIE E. Firpo : Steva de Franchi poeta genovese del ”700 in « Il Lavoro », 13 lu-gio 1939. E. Canesi : Una lettera autografa di Mons. Massaia al Marchese Bri-gnole-Sale in «Secolo XIX», 24 agosto 1939. Gii Bl&s: La giovinezza d’un poeta del Risorgimento [L. Mercantini] in « Giornale di Genova », 30 settembre 1939. Fra Ginepro : Jacopo e Cellino Novaro in « Nuovo Cittadino », 19 agosto 1939. R. Majolo : Un poeta « camuggin » : G. Razeto in «Il Lavoro», 8 settembre 1939. L. Laurano : Pastelli di S. Remo in « Giornale di Genova », 1 ottobre 1939. G. Balestreri : Poemetti liguri in « Liguria », settembre 1939. R. Codogni : Laura/no in « Liguria », settembre 1939. TOPOGRAFIA, TOPONOMASTICA, 7 N DU STRI E E COSTUMI N. Lamboglia-E. Cavalli: Rassegna di toponomastica in «Rivista Ingauna e Intemelia», Λ7. IV, 1-4. Zucchi : Topografia storica della piana d’Albenga nel Μ. E. : I corsi d’acqua in « Rivista Ingauna e Intemelia », vol. IV, 1-% N. Lamboglia : Postille toponomastiche alassine in « Rivista Ingauna e Intemelia », Vol. IV, 1-4. [Polemizza con Lio Rubini che nel n. 2 di questa aunata ha pubblicato sul nostro giornale una recensione critica sulla toponomastica alassiLa del Lamboglia]. N. Maccarrone: Del toponimo « Filattiera », Tip. L. Rattero. Torino, 1939. ’jX. 13 ascino INDICE DELL’ANNATA 1939 MONOGRAFIE Vito Vitale, Goffredo Mameli............................ Pag. 1 Mario Menchini, Garibaldi e la questione di Roma............................18, 103 Renzo Baccino, La Via Aemilia di Scauro..........................................24 Enrico Guglielmino, Un tipico conflitto ligure-piemontese alVindo- mani della Restaurazione ....................................................................33, 116 Mario Pedemonte, Paganiniana. L'ambiente musicale genovese nel Settecento. La musica da camera........................................................40 Mario Pedemonte, Paganiniana. L'ambiente musicale genovese nel Settecento. Melodramma e oratorio......................................................217 Antonio Giusti, Giuseppe Flecchia, Dialetto ligure ........................54, 232 Leona Ravenna, G. B. Spotorno e il «Giornale Ligustico» ..............81 Costantino Panigada, Giuseppe Mazziìii e la Repubblica Romana. 87 Pietro Verrua, Un libro mancato (o perduto?)....................................129 G. B. Santo Boero, Gli alberi genealogici delle Famiglie Mazzini e Drago .................................................................................................136 Nilo Calvini, Grave incidente diplomatico fra la Repubblica di Genova c il Sovrano di Savoia (1726-1727) .. ..'..............................................161, 224 Manfredo Giuliani, Tomba a incinerazione nélVAlta Val di Magra 176 Achille Riggio, Schiavi genovesi nelVArchivio Consolare veneto di Tunisi (1779-1784) . .............................................................................184 I nostri lutti: Renato Soriga........................................................................259 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA P. M. Paolini, Cristoforo Colombo nella sua vita morale (G. Garaci) 61 Piero Gribaudi, Il Padre Garricio amico e confidente di Cristoforo Colombo (Evelina Rinaldi)..................................................................62 Nino Lamboglia, Della toponomastica di Alassio e Laigueglia (Renzo Baccino) ..................................................................................................64 Adolfo Colombo, La Vita di Santorre di Santarosa (Leona Ravenna) 70 Lodovico Giordano, Bozzetti Imperiesi (L. R.)..................................71 Antonio Monti, La giovinezza di Vittorio Emanuele II (1820-1849) (Costantino Panigada) ..................................... 144 Renée Doehaerd, Les Galères génoises dans la Manche et la Mer du Nord à la fin du XIII et au début du XIV siècle (Vito Vitale) . . 150 Mario Chiaudano, I « Loca Maris » nei documenti genovesi dei secoli XII e XIII (Vito Vitale).............................. 152 Mario Chiaudano, Il più antico manoscritto degli Statuti di Genova (Vito Vitale) .............................................. 154 Giorgio Monaco, Libarna. Il centro Romano e la rinnovata importanza della sua posizione geografica (Antonio Giusti)........ 155 270 INDICE Vito Vitale, Crii studi di storia ligure nell’ultimo ventennio (C. Boriiate)..............................................Pag*· 196 Domenico Cambiaso, Sinodi genovesi antichi (Nilo Calvini) ............198 Atti della Società economica di Chiavari (Leona Baverina) .... 201 Nino Lamboglia, Liguria Romana (T. 0. De Negri)............................236 Mattia Moresco, Il Balilla (Vito Vitale).........................................249 Leona Ravenna, Il giornalismo mazziniano (Vito Vitale) ................250 Letizia Venturini, Luigi Corvetto alla luce di un epistolario inedito (Pietro Morra) ......................................................................................253 P. L. De Allegri, Romanzi della Vita (Renzo Baccino) ..................255 Emilia Morelli, Epistolario di Nino Bixio (Leona Ravenna)........../ 257 Renzo Baccino, Spigolature e Notizie........................ 74, 15$, 265 /ik) Direttore responsabile: AKTURO CODIGNOLA Stabilimento Tipografico L. CAPPELLI - Rocoa S. Casciano, 1939-XVIII